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OPERE DI ROMANO GUARDINI
EDIZIONE ITALIANA A CURA DEL « CENTRO DI STUDI
FILOSOFICI DI GALLARATE »
ROMANO GUARDINI
IL MESSAGGIO DI SAN GIOVANNI
Meditazioni sui testi dei discorsi dell'addio e della
prima lettera
MORCELLIANA
Titolo originale dell'opera:
Johanneische Botschaft
Meditationen iiber Worte aus den Abschiedsreden und dem
Ersten Johannes-Brief ©
Werkbund-Verlag - Wurzburg 1962
Traduzione di giuseppe frumento
© by MorceUiana - Brescia 1972 Tipografia Editoriale «
Aldo Manuzio » - S. Martino B.A. (VR)
MEDITAZIONI SUI TESTI DEI DISCORSI DELL'ADDIO
AVVERTENZA
In parecchi passi del Nuovo Testamento si parla della
memorabile cena che Gesù consumò, assieme ai suoi apostoli, durante
l'ultima sera della sua vita terrena: nei quattro Vangeli (Mf.
26, 17; Me. 14, 18-25; Le. 22, 7-38; Io. 13,
1-17.26) e nella prima lettera dell'apostolo Paolo ai Corinti (12,
23-26). In parecchi punti queste narrazioni sono somiglianti, ma
esistono fra di loro anche delle considerevoli differenze.
Paolo — per cominciare con lui — si limita
all'istituzione dell'Eucaristia e al suo carattere escatologico (cfr. Mt.
26, 29 e passim). I sinottici parlano di questa ultima sera in
relazione con la vita di Gesù e mostrano il rapporto intercorrente fra
la cena e la festa della Pasqua ebraica. Nella loro narrazione
l'istituzione dell'Eucaristia ed il tradimento di Giuda sono posti in un
particolare risalto.
Il racconto del Vangelo di san Giovanni differisce da
quello dei sinottici in quanto esso non fa menzione dell'istituzione
dell'Eucaristia. Ciò che l'Apostolo vuoi dire a questo riguardo si
trova nel capitolo 6, là dove si parla della promessa di questo
sacramento fatta da Gesù a Cafarnao (6, 22-71). Per quanto riguarda
l'ultima cena, questo Vangelo mette un particolare accento sulla lavanda
dei piedi e sul tradimento di Giuda. A tutto ciò si aggiungono, come
elemento particolare veramente prezioso, i
cosiddetti discorsi del congedo, o dell'addio, nei quali
si esprime la coscienza che Gesù ha di se stesso, della sua missione e
del suo destino. Ed è qui che si rivela tutta la maestria di Giovanni:
egli sa ricollegare gli avvenimenti concreti e. la situazione spirituale
con il loro senso divino in maniera tale che ciò che è immediatamente
presente, davanti ai nostri occhi, diviene trasparente nel suo rapporto
con l'aldilà.
È proprio partendo da questo rapporto che verranno
meditati più da vicino i singoli avvenimenti o le singole parole.
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L'ULTIMA SERA
Prima di affrontare il testo del Vangelo di san
Giovanni, noi cercheremo di rievocare due avvenimenti della storia del
pensiero nei quali, da un punto di vista puramente esterno, accade
qualcosa che assomiglia molto al fatto che ci viene raccontato da questo
Vangelo: anche là, prima della sua morte, un maestro dello spirito
siede in mezzo ai suoi discepoli e lascia loro, come in un testamento
spirituale, quanto di meglio egli possiede.
Grazie a questo parallelo, le differenze verranno messe
in netto risalto e noi vedremo manifestarsi il carattere specifico unico
di quanto ci racconta san Giovanni.
Il primo di questi due avvenimenti risale a più di
cinquecento anni prima dei fatti raccontati nel Vangelo: si tratta
dell'ultimo incontro con i suoi discepoli di Buddha, il fondatore del
buddhismo, e della sua morte. Il tutto viene raccontato da un antico
testo, intitolato: II grande racconto della morte di Buddha.
Noi non ci chiederemo qui se il messaggio religioso di
Buddha fosse vero o no; vogliamo soltanto mettere bene in evidenza agli
occhi del lettore la situazione umana e spirituale che risulta da questo
racconto. Buddha era un principe indiano che aveva a sua disposizione
tutto quello che un uomo può
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desiderare. Ma un giorno egli fu talmente sconvolto nel
riconoscere il carattere effimero e doloroso della nostra esistenza che
decise di ruggire, così si esprime quel testo, « nel deserto », e di
iniziare una vita ascetica. Durante il corso di questa vita, egli fece
la profonda esperienza della vanità e dell'ingannevole apparenza che
sta alla radice di ogni cosa e meditò di trovare una via che gli
permettesse di distruggere questa illusione. Dei discepoli, il cui
numero aumentò rapidamente, si raccolsero intorno a lui. Il popolo ed i
suoi principi gli decretarono sommi onori. Dopo una lunga ed operosa
vita, quando ebbe raggiunta l'età di ottant'anni, egli sentì di esser
giunto al termine del suo cammino. Egli stava per morire; stava cioè,
conformemente alla sua dottrina, per essere liberato dall'illusione e
dal dolore della vita.
Così ci viene descritto l'ultimo incontro del maestro
con i suoi discepoli: lui, il Buddha, in un atteggiamento solenne ed
ieratico; essi, gli scolari, in muto e rispettoso ascolto. Egli dona ad
essi le sue ultime istruzioni e cerca di imprimerle bene nella loro
memoria: Voi dovete attaccarvi soltanto alla dottrina e non l'uno
all'altro! Voi dovete fare affidamento soltanto su voi stessi, sul
vostro personale punto di vista e sulla vostra personale decisione. Non
dovete contare su di un maestro. Il vostro maestro sta infatti per
andarsene; a ciascuno di voi non resta pertanto che la sua forza di
volontà e la sua esperienza, nessuno e null'altro... Così muore Buddha,
abbandonando, come dice il testo, la sua volontà di vivere. E dopo di
lui non rimane che un certo numero di singoli decisi a compiere una dura
missione.
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Il secondo avvenimento ha luogo cento anni più tardi:
si tratta dell'ultimo giorno della vita di So-crate. Esso ci viene
narrato nel fedone, uno dei .dialoghi di Fiatone. Socrate era un
uomo piuttosto strano. Quando qualcuno gli chiedeva quale fosse la sua
dottrina, egli rispondeva di non averne alcuna;
e ciononostante nessuno è riuscito a risvegliare lo
spirito dei suoi uditori come c'è riuscito lui. Dopo un lungo periodo,
durante il quale il pensiero filo-sofaco si era fatto vano e
politicizzato, egli ha ridato agli uomini il gusto delle cose serie; li
ha resi coscienti dell'esistenza di una verità che è possibile
conoscere e di un bene che la volontà retta è capace di realizzare. Ma
l'essenza di questa verità e di questo bene egli non l'ha racchiusa in
parole e frasi che possano essere imparate a memoria; al contrario, ha
risvegliato il desiderio di essi ed ha reso più acuta la coscienza
della loro esistenza. Ogni singolo uomo dovrà poi cercare e trovare che
cosa siano questa verità e questo bene.
Eccolo dunque messo in stato di accusa e condannato a
morte soltanto perché i gruppi che detengono il potere hanno giudicato
scomoda ed inquietante la sua presenza. Le condizioni materiali della
sua prigionia non sono molto rigorose: gli viene pertanto concesso di
trascorrere il suo ultimo giorno assieme ai suoi. Quando sarà giunta la
sera, al tramonto del sole, egli dovrà bere la coppa che contiene il
veleno. Pertanto i suoi discepoli vengono a visitarlo nella prigione di
buon mattino e vi restano per tutta la giornata. Essa trascorre così
come sono trascorsi tutti gli altri giorni, quando egli era ancora
libero. Socrate discute con i suoi discepoli; parla loro delle sue
ricerche spirituali; rende testimonianza di
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ciò che gli consente di andare verso la morte con tanta
Educia e tranquillità. La sua morte corporale non sarà che un
passaggio verso la realtà vera; questa realtà vera è rappresentata
dalla vita indistruttibile, che lo spirito acquista mediante la
conoscenza della verità ed il compimento del bene, i quali devono
essere però il frutto di uno sforzo personale. Quando i suoi discepoli
gli chiedono su che cosa essi si dovranno appoggiare quando egli sarà
partito, Socrate risponde: su voi stessi. Ognuno di voi dovrà basarsi
sulla propria coscienza, sulla forza del proprio spirito che è ormai
stato risvegliato.
Uno strano stato d'animo regna nel piccolo gruppo; essi
sono seri ed in lutto, perché il maestro se ne va; e, ciononostante,
sono tranquilli, quasi presi da una miracolosa gaiezza. Si trattò d'uno
strano fatto, dice il narratore; noi ci trovavamo fra il riso ed il
pianto.
Ed infine il terzo avvenimento. Si tratta di nuovo
dell'ultimo giorno che un maestro passa con i suoi;
la conclusione di una vita in comune che non fu molto
lunga, ma che fu colma di una infinita pienezza. Gesù prende congedo,
dice addio ai suoi discepoli.
Quale fu dunque il comportamento che Gesù tenne nei
confronti dei suoi? Egli era cosciente di essere venuto da Dio e che
questo Dio era suo Padre. Egli non parla ai discepoli come uno che abbia
cercato e trovato, affinchè essi a loro volta facciano come lui;
parla, al contrario, in virtù dei pieni poteri che gli
derivano dalla sua figliolanza divina (dal suo stato di figlio); come
maestro e Signore (Io. 13, 13), che solo sa ed ha autorità, anzi come
colui che può dire
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di se stesso: « Io sono la via, la verità e la vita »
(Io. 14, 6).
Egli ha dato ima risposta al più importante di tutti
gli interrogativi umani: l'interrogativo che si chiede come Dio
sia disposto nei nostri confronti. Partendo dai puri dati naturati, noi
non possiamo sapere nulla a questo proposito. Soltanto Gesù poteva
saperlo. Giovanni ci dice che egli vive nell'eternità, « nel seno del
Padre », nella eterna intimità della comunione divina. È partendo da
questa divina intimità che egli « ci ha rivelato » la disposizione di
Dio nei nostri confronti (1, 18).
Egli ha chiamato amore questa disposizione divina.
Quando il Nuovo Testamento pronuncia la parola « amore », noi veniamo
a trovarci di fronte ad una misteriosa realtà. Non si tratta soltanto
di una benevolenza che tutto abbraccia, ma di qualche cosa di
incomprensibile alla ragione umana; di una cosa talmente incomprensibile
che si potrebbe soltanto tentare di descriverla, con grande reverenza,
dicendo che Dio, dal fondo della sua eternità, ha deciso di prendersi
talmente a cuore la nostra umana sorte, che gliene è risultato un
destino dentro alla storia. La vita di Gesù non è che un unico
commento a questa affermazione.
Egli ha portato nel mondo una indicibile possibilità.
Le sue prime parole che ci vengano riferite dal Vangelo sono queste: «
II tempo è compiuto e il Regno di Dio è qui. Ravvedetevi e credete
alla buona novella » (Afe. 1, 15). Questo « regno » non è una pura
dottrina od una morale, ma una realtà effettiva, la presenza palese di
Dio, il respirare e l'agire nella volontà di Dio.
Se coloro che ascoltano il messaggio lo accettano
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anche, si verificherà allora una cosa ineffabile: il
Regno verrà verso di essi. Noi non possiamo dire come una cosa simile
sarebbe potuta avvenire, perché coloro che avrebbero dovuto ascoltare
non lo hanno fatto. Ma ciò che è avvenuto in seguito a Pentecoste ce
lo lascia almeno presagire.
In terzo luogo: Gesù ha espiato la colpa che pesa sul
mondo: la rivolta dei primi progenitori contro Dio, rivolta che ha avuto
luogo all'origine dei tempi ma che si risveglia nuovamente in ogni nuova
colpa di ogni singolo uomo; quell'oscuro elemento che continuamente
contrasta la bellezza della creazione divina; il turbamento dei cuori e
l'oscuramento degli spiriti — egli ha preso tutto questo su di sé e
lo ha espiato; non soltanto mediante la sua morte ma anche mediante ogni
alito di respiro che egli emise in questo mondo turbato e malvagio.
Tutta la sua esistenza non è stata che una lunga espiazione. Se gli
uomini avessero accolto colui che era venuto per loro, si sarebbe
operata la redenzione di ogni cosa, da capo a fondo; ma essi « non lo
hanno accolto », come dice Giovanni (1, 15).
Il primitivo piano di Dio, che avrebbe dovuto
realizzarsi nella gioia, è così fallito. « Da allora » — dal
momento in cui, cioè, si decise di questo fallimento — « Gesù
cominciò a mostrare ai suoi discepoli che era necessario che egli si
recasse a Gerusalemme e soffrisse molto da parte degli anziani, dei gran
sacerdoti e degli scribi, e fosse ucciso » (Mt. 16, 21).
E adesso giunge la sera di quel giorno e la sera di una
così breve vita. Gesù è coi suoi. Che cosa avviene in questa
occasione? Che cosa pensano i
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discepoli? Qual è lo stato d'animo che regna nella
sala?
Non è facile rispondere a questa domanda. Il primo
pensiero che ci viene, se noi abbiamo letto col cuore aperto, sembra
essere questo: noi ci troviamo di fronte ad un profondo disorientamento.
I discepoli non capiscono che cosa sta realmente succedendo:
lo dimostrano chiaramente le domande che essi fanno.
Capire ciò che sta succedendo oltrepassa le loro possibilità. Qò si
rivela ancora più chiaramente nella maniera in cui si comportano in
seguito. Essi fug-gono; ma non perché vogliano tradire, ma perché non
riescono a comprendere. Non si tratta, in fondo, di viltà; essi
semplicemente non comprendono la portata degli avvenimenti ai quali
stanno assistendo.
Ma se rivolgiamo il nostro sguardo sullo stesso maestro,
noi avvertiamo attorno a lui una profonda solitudine. Gesù è talmente
solo che il nostro cuore si riempie di sgomento. Egli sta seduto in
mezzo ai suoi; egli è quello che è, cioè il Figlio di Dio; egli
rivolge ad essi delle parole, ciascuna delle quali è piena di una
potenza sacra, ma essi non lo comprendono. Intorno a lui regna questa
terribile e misteriosa solitudine, nella quale Io imprigiona il mondo
che s'è chiuso in se stesso. Si tratta, se ci è consentito di
esprimerci in questo modo, della solitudine di Dio nel mondo che gli
appartiene ma che non l'ha voluto accogliere (Io. 1, 11).
Ma, ciononostante, egli vuoi far loro il suo dono
supremo. Pertanto, si ricollega al sentimento che ogni fedele ebreo
provava durante una cena; il sentimento, cioè, che questo atto,
mediante il quale vien dato nutrimento alla vita e viene creata una
comunità fra gli uomini, ha in sé alcunché, in cui si viene a con-
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tatto col divino. Per l'Antico Testamento, ogni pasto
era strettamente collegato con l'idea del sacrificio:
Dio, il Signore della vita, lo accettava come un omaggio
reso alla sua sovranità e dava, mediante esso, il nutrimento ai suoi
fedeli. Perciò l'atto di ringraziamento aveva luogo all'inizio, prima
che i convenuti avessero toccato i cibi. Ma l'idea del sacrificio, che
costituiva la base di ogni pasto, era in questa cena particolarmente
evidente. Si trattava del sacrificio pasquale; del sacrificio
dell'agnello che veniva ucciso ogni anno, per commemorare l'agnello nel
cui sangue aveva avuto una volta inizio la via della liberazione del
popolo ebreo dalla schiavitù d'Egitto (Ex. 12, 1).
Gesù colloca la sua stessa persona in questo mistero
dell'agnello pasquale: egli è il vivente, che domani dovrà morire per
espiare con la sua morte il peccato del mondo. L'intero suo destino
terreno costituisce una espiazione; questo destino culminerà con la sua
morte sulla croce. La sua « carne ed il suo sangue », la sua sacra
vita, costituiscono l'alimento che proviene dal sacrificio e che egli
vuole donare ai suoi fedeli. « Mentre mangiavano », così ci racconta
Matteo, « Gesù prese del pane e, dopo aver recitato la benedizione, lo
spezzò e lo diede ai discepoli, dicendo: 'Prendete e mangiate: questo
è il mio corpo'. Poi, prendendo una coppa, rese grazie e la diede loro,
dicendo: 'Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del
patto, che è sparso per molti in remissione dei peccati' » (Mf. 26,
26-28).
Cerchiamo di prender bene coscienza della portata
immensa di questo avvenimento. Di fronte ad esso non restano che due
alternative: la scelta che ci porta
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a credere e ad adorare e l'altra che si rifiuta di
accettare una simile pretesa. Bisogna che la sua certezza di essere al
di sopra della vita e della morte sia veramente divina, perché egli
possa pensare di divenire per i suoi fedeli un alimento di vita vera! In
virtù di quale profonda sapienza egli deve sapere che il suo essere non
contiene ne disordine ne veleno perché egli possa avere la volontà di
donarlo ai suoi fedeli in nutrimento per l'eternità! Quale potenza di
vita egli deve possedere perché da essa possa emanare la tranquilla
sicurezza di questo suo atto che va oltre ogni misura e possibilità
naturale! Quale coscienza della sua purezza, della sua onnipotente
purezza!
Questo è quanto avviene in quella sera. Poi giungerà
la morte. E dopo di essa la Risurrezione. E cinquanta giorni dopo si
avrà l'evento della Pentecoste e lo Spirito di Dio farà il suo
ingresso nel tempo. Egli assumerà la dirczione della Storia Sacra e
renderà i credenti capaci di comprendere, anzi, diremo meglio, di
rivivere, quello che è qui avvenuto pur frammezzo alla solitudine e al
disorientamento di questa ultima sera.
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LA LAVANDA DEI PIEDI
II Vangelo di san Giovanni, nel suo tredicesimo
capitolo, ci narra un atto misterioso compiuto da Gesù durante questa
ultima sera. Esso dice:
« Durante la cena, quando già il diavolo aveva messo
in cuore a Giuda Iscariota figlio di Simone il proposito di tradirlo,
sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che egli era
venuto da Dio e a Dio ritornava, Gesù si leva dalla mensa, depone il
mantello, prende un panno e se ne cinge. Poi versa acqua nel catino e si
mette a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli col panno di cui si
era cinto.
Viene dunque a Simon Pietro, il quale gli dice:
'Signore, tu mi lavi i piedi?'. Risponde Gesù e gli
dice: 'Ciò che io faccio tu adesso non lo comprendi:
lo comprenderai però dopo'. Gli dice Pietro: 'Non mi
laverai i piedi in eterno!'. Gesù gli risponde: 'Se non ti laverò non
avrai parte con me'. Gli dice Simon Pietro: 'Signore, non soltanto i
piedi, ma anche le mani e il capo!'. Gli dice Gesù: 'Chi ha fatto un
bagno non ha bisogno di lavarsi: egli è del tutto mondo. E voi siete
mondi, ma non tutti'. Sapeva infatti chi lo tradiva, perciò disse: 'Non
tutti siete mondi'.
Quando dunque ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue
vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: 'Comprendete ciò
che vi ho fatto?' » (Io. 13, 2-12).
20;
L'ultima frase, con la domanda che essa contiene, vale
anche per noi: comprendiamo noi, infatti, quello che Gesù ha fatto qui?
Si potrebbe rispondere che egli ha voluto dare ai suoi
discepoli un insegnamento di umana solidarietà;
un esempio dell'aiuto che ogni uomo deve dare al suo
prossimo in quanto gli uomini dipendono gli uni dagli altri. Infatti
qual era il significato corrente del gesto compiuto da Gesù? Colui che
veniva invitato a pranzo, prima di andarvi, faceva un bagno ed indossava
un abito di festa. Ma egli camminava con i piedi protetti da un semplice
paio di sandali. Pertanto, durante il cammino verso la casa dell'ospite,
a meno che egli non disponesse di una lettiga, i suoi piedi si
impolveravano nuovamente. Ora, non era cosa 'bella il presentarsi a
tavola in quella condizione. Tanto più che a quei tempi non si sedeva a
tavola, ma si stava invece sdraiati su una specie di letto, ragion per
cui i piedi restavano in bella mostra. Per ovviare ad un simile
inconveniente si metteva alla porta uno schiavo, con l'incarico di
lavare i piedi all'ospite che faceva il suo ingresso nella casa. La
comunità dei discepoli non aveva una persona fissa cui fosse affidato
questo incarico. Quindi esso avrebbe dovuto essere assolto .da uno di
essi. Evidentemente una cosa simile non venne fatta. Gesù pertanto lo
avrebbe fatto lui, di persona, per dimostrare ai discepoli con quale
stato d'animo, con quali sentimenti, coloro che credono in lui devono
comportarsi reciprocamente.
Questa spiegazione ha del buono in sé; noi sentiamo
però, immediatamente, che tale non deve essere stato il pensiero di
Gesù. Non è infatti la saggezza pratica della vita quello che gli
importa.
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Cerchiamo dunque di andare più a fondo nella nostra
indagine. Nel circolo dei discepoli di Gesù è sorta la questione —
evidentemente più d'una volta — di sapere chi fosse più vicino al
maestro;
colui il quale, nell'ordine nuovo che doveva essere
costituito, espresso mediante la parola « Regno di. Dio », avrebbe
dovuto occupare la posizione più elevata.
Matteo racconta: « Allora la madre dei figli di Zebedeo
gli si avvicinò con i suoi figli e gli si prosternò per fargli una
domanda. Gesù le disse:
'Che cosa vuoi?'. Essa gli rispose: 'Ordina che questi
miei due figli siedano uno a destra ed uno a sinistra nel regno tuo' »
(20, 20 s.). E nel Vangelo di Luca si legge: « Nacque pure una contesa
tra essi: chi di loro fosse da considerarsi maggiore. Ma egli disse
loro: 'I rè delle genti le signoreggiano e coloro i quali dominano su
di esse si fanno chiamare benefattori. Ma non così voi; anzi, il
maggiore fra di voi si comporti come il più giovane, e colui che
governa come colui che serve. Chi, infatti, è maggiore? Colui che siede
a tavola o colui che serve? Eppure io sono in mezzo a voi come colui che
serve' » (22, 24-27).
Considerato da questo punto di vista, il gesto del
Signore avrebbe dovuto rappresentare un esempio inteso ad insegnare ai
discepoli che essi non dovevano avere un'opinione troppo alta di se
stessi, che non dovevano pretendere agli onori, ma dovevano invece
essere pronti a servire gli altri. Una lezione dunque intesa ad
insegnare loro l'umiltà e la modestia, che non si fanno avanti ma che
proprio in questo hanno tutto il loro valore. Egli avrebbe illustrato
questo insegnamento mediante un atto affin-
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che i discepoli, per il futuro, potessero avere ben
presente l'immagine del maestro che si inginocchiava di fronte ad ognuno
di essi per rendere loro questo servizio. Questa spiegazione
raggiungerebbe già un significato più profondo senza pervenire, però,
all'essenziale.
Quando si medita a lungo su questo avvenimento e si
rilegge il testo per parecchie e parecchie volte, può darsi allora che
tutto divenga improvvisamente chiaro: noi ci troviamo qui di fronte ad
un atto che vuoi presentarci un mistero! Si tratta di un modo di
procedere che non vuoi soltanto inculcare un insegnamento morale, ma che
vuole anche svelare un mistero. Ma di quale rivelazione si tratta in
questo caso?
Nella lettera ai Filippesi dell'apostolo Paolo si trova
un testo che sembra alludere in modo così impressionante a questo atto
di Gesù, che si può persino arrivare a pensare che esso sia stato
scritto proprio con uno specifico riferimento ad esso. Questo passo
della lettera ai Filippesi dice infatti: "Abbiate in voi lo stesso
sentire che fu in Cristo Gesù: lui che, avendo forma di Dio non riputò
una preda l'essere uguale a Dio; esinanì, invece, se stesso, prendendo
forma di schiavo, divenuto simile agli uomini. E, apparso in aspetto di
uomo, si umiliò ancor più, facendosi obbediente fino alla morte, alla
morte in croce. Per questo Iddio lo esaltò e gli donò il nome che è
al di sopra di ogni nome" (2, 5-9).
Queste parole penetrano fino al cuore di Dio con una
arditezza che soltanto Paolo, insieme con Giovanni, possiede. Esse
dicono: il Logos era, dall'eter-
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iuta, presso il Padre. Egli vi era nella forma divina,
del Figlio primogenito, eguale all'eterno Signore. Egli "non
riputò una preda" di essere tale; non come qualcosa che ci si
possa arrogare e che si teme di perdere in ogni momento, ma come una
situazione che gli spettava di diritto. Se egli l'avesse detenuta
ingiustamente, vi si sarebbe pure aggrappato in modo spasmodico. Ma egli
la possedeva di diritto; era il Figlio di Dio, in verità e per sua
essenza. Egli fece pertanto una cosa inaudita quando si privò di questa
sua sovranità, abbassandosi per prendere la forma e per rendere il
servizio di uno schiavo. Ed in seguito viene il grande capovolgimento:
"Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che èal di sopra di
ogni
nome
Che cosa ci viene rivelato con queste parole? Ci
viene rivelata l'umiltà. E questo proprio -—se ci è
permesso di parlare così — in un posto dove mai noi avremmo potuto
supporla: in Dio.
Non è facile parlare dell'umiltà; per poterlo fare
bisogna penetrare attraverso un muro di incomprensione e di resistenza
— dappertutto ed in ogni tempo, ed anche nel nostro cuore. Nietzsche
s'è fatto portavoce del pensiero di molti quando egli attaccò con vero
e proprio furore l'umiltà, nella quale egli vedeva l'essenza del
cristianesimo: e cioè, nella sua opinione, l'atteggiamento dei deboli,
dei falliti, degli schiavi che avevano fatto una virtù della loro
meschinità. Secondo il Nietzsche l'autentica umanità sarebbe
orgogliosa. La nobiltà autentica si .rivela nell'atteggiamento di colui
che è padrone di se stesso e che non si piega di fronte a nessuno. Il
cristianesimo, al contrario, avrebbe corrotto i valori ed avreb-
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be determinato la vita a partire dalla grettezza.
Questo atteggiamento del Nietzsche corrisponde per
parecchi versi al sentimento dell'uomo naturale che non riesce a
comprendere la vera umiltà. E quando si vede come essa si presenta,
così spesso, nella concreta realtà del cristiano dei nostri giorni,
senza autenticità ne fermezza, allora ci si sente tentati di dare
ragione al Nietzsche.
Ma che cos'è in realtà l'umiltà? Essa è una virtù
che fa parte della fortezza. Soltanto colui che è forte può essere
realmente umile. La sua forza non si piega alla costrizione, ma si
inchina liberamente, nel servizio reso, verso colui che è più debole,
che è inferiore. L'umiltà non può del resto avere la sua origine
nell'uomo, bensì in Dio. È lui il primo umile. Egli è talmente
grande, talmente al di fuori di ogni possibilità che una qualsiasi
potenza lo possa costringere, che egli può permettersi — se ci è
concesso di esprimerci in questo modo — di essere umile. La grandezza
gli è essenziale; soltanto lui può dunque rischiare di abbassare
questa sua grandezza sino all'umiltà.
Cerchiamo di riflettere: quand'è che Dio si è
dimostrato umile per la prima volta? Quando egli creò il mondo.
Noi siamo per lo più portati a vedere nell'atto creatore di Dio
soltanto la potenza e la generosità. È vero che il mondo è talmente
grande, talmente ricco, così meravigliosamente al di sopra di ogni
nostra umana capacità di comprendere, che ci viene naturale di porre
sempre più in risalto la grandezza di Dio. Ma cerchiamo di prendere
invece come punto di partenza della nostra riflessione un'altra qualità
che, oltre alla grandezza, caratterizza pure
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il mondo, anzi lo fa in maniera originaria e decisiva,
•e cioè, la sua finitezza. E adesso chiediamoci: è confacente alla
dignità di Dio il creare ciò che è inferiore a lui?
Noi parliamo da pazzi, certamente; ma talvolta la follia
serve a mettere in evidenza la saggezza. Ciò che Dio crea non può
naturalmente essere che finito in quanto il creare l'infinito
significherebbe per Dio divenire invero il creatore di se stesso. Ma
perché egli crea? Noi siamo talmente perduti in noi stessi che siamo
portati a considerare come una cosa ovvia e naturale il fatto che Dio
abbia dato origine a questa nostra esistenza. Certamente, si tratta di
una cosa meravigliosa e degna di tutta la nostra riconoscenza, ma Dio,
in fondo, non avrebbe potuto fare altrimenti, pensiamo.
"L'esistenza", considerata in modo assoluto, in sé, è
rappresentata, per il nostro primo e spontaneo sentimento, da "Dio
e il mondo". Questo a meno che tale sentimento non si smarrisca
ancora più profondamente ed arrivi a dire: "l'uomo ed il
mondo"; per aggiungere poi, con un piccolo sforzo:
e mettiamoci anche Dio, come fondamento, come base, di
questo mondo. Questa però è la formula dell'uomo decaduto che
considera se stesso come la realtà primaria esistente e parla molto
volentieri di Dio come del "problema di Dio". Ma, al
contrario, la realtà ovvia ed evidente è Dio; è l'uomo che è
problematico. "Tutto" "vi" è in quanto Dio è.
Dio "basta". Egli è tutto. Non
"manca" nulla, in quanto egli è. Ed allora perché egli crea
ciò che sta al di sotto di lui? Non rispondiamo troppo presto che egli
ha voluto per bontà chiamare all'esistenza ciò che è inferiore a lui.
Questa risposta da una tale importanza alla nostra esistenza che giunge
ad inco-
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modare, in suo favore persino l'Essere assoluto.
Poiché, quando egli crea, ciò non significa soltanto che egli metta
là la creatura dicendo: Ecco, sii! Egli vi inserisce il suo pensiero,
la sua potenza. Egli si rende garante che l'esistenza del finito è cosa
buona; anzi egli lo dice espressamente quando, al termine della sua
opera creatrice, "Egli vede tutto ciò che ha fatto" e
pronunzia il giudizio: "È molto buono" (Gen. 1, 31).
Come può Dio comportarsi così?
Qui appare già, in modo misterioso e che riempie di un
oscuro sgomento, l'umiltà di Dio. Egli qui ci domanda già:
"Comprendete tutto quello che io ho fatto per voi?". Ma noi
dobbiamo rispondere: "No, Signore, noi non lo comprendiamo".
Proprio quest'atto della creazione ci rivela però
qualcosa della disposizione e dell'atteggiamento di Dio. Egli è così
grande, così pieno di una santa vita, così forte e Signore di se
stesso, che egli può creare un mondo finito senza menomare per nulla la
propria dignità ed il proprio onore. Se noi chiediamo: "Che cosa
occorre perché tutto sia nell'ordine?", la risposta appropriata è
questa: "Occorre che ci sia Dio". "Soltanto" questo
occorre, ed è già bastante. Ma Dio ha voluto che ci sia anche il
mondo; che questo mondo abbia importanza ai suoi occhi; tanta importanza
da diventare per lui un giorno — pensiamo al Cristo — un destino...
Ma ciò non bastava. Dopo aver creato la finitezza dell'essere, egli ha
anche voluto l'esistenza della libertà finita; una libertà che non
fosse garantita, come la sua, da una assoluta santità, ma che fosse
invece esposta alla possibilità del male. E che cosa ha fatto l'uomo di
questa libertà? Ma Dio è talmente attaccato al suo atto creatore che
egli
27
prende su di sé la colpa della sua creatura, entra
nella finitezza di questo mondo e si fa uomo; e tutto questo sotto la
veste di un piccolo predicatore errante, in questa minuscola Palestina,
che quasi nessuno conosce.
Non soltanto il nostro Dio è grande — il che sarebbe
ovvio e naturale — ma egli infrange anche tutte le norme della nostra
razionalità. Ed è proprio questo misterioso elemento, che si sottrae
alla nostra comprensione, a nascondersi qui dietro il gesto di Gesù,
del quale abbiamo parlato. È qui che avviene il grande
"rovesciamento dei valori"; la messa a nudo della meschinità
di ogni forma di orgoglio. L'orgoglioso ergersi dell'uomo in tutta la
sua potenza, in tutta la sua genialità costituisce una ben miserabile
cosa di fronte agli occhi di Dio. E pertanto egli ci domanda:
"Avete compreso?".
E bisogna infatti comprendere qualcosa di tutto ciò
poiché in caso contrario si ignorerebbe la vera essenza del
cristianesimo. Non è casuale il fatto che nelle lingue naturali sembri
non sia possibile riscontrare un corrispondente della parola
"umiltà". La realtà espressa da questa parola,
l'atteggiamento di Dio, doveva prima rivelarsi nel Cristo; in seguito
essa è stata indicata mediante una parola che in origine stava a
signiEcare qualcosa di molto piccolo: in greco la "piccolezza
d'orientamento spirituale" (TaTC£i,voq)pocrùvTQ), in latino ed
in italiano la foca distanza da terra, da "burnus", quindi
piccolezza di statura *, in tedesco la "propensione a
servire" **.
* La parte sottolineata è nostra (n.d.f.).
** Demut: Mut (animo, propensione) [zum~\ Dienen
(al servire) (n.d.t.).
28
Ed adesso questa parola esprime una realtà che è
divenuta invisibile per l'uomo, in quanto quest'uomo non crede più.
È soltanto quando noi cerchiamo di approfondire questo
argomento che ci si manifesta l'intima disposizione di Dio dalla quale,
pure, dipende tutto. Quando noi pensiamo a Dio, noi pensiamo per lo più
a colui che sorpassa ogni grandezza, che siede in trono avvolto dallo
splendore della sua gloria. Tale è anche la realtà di Gesù. Egli la
mette in rilievo quando dice di se stesso: "Voi mi chiamate il
maestro e il Signore e dite bene: lo sono infatti" (Io. 13, 13).
Egli è infatti il Figlio che ha la stessa natura dell'Eterno Padre. È
colui che sa, che non può fallire, colui al quale "venne dato ogni
potere, in cielo e sulla terra" (Mt. 28, 18). In lui non vi
sono ne debolezza ne paura. Ma nel Dio che si chiama Signore c'è anche
il mistero di un atteggiamento spirituale, ad esprimere il quale noi non
possiamo servirci di altro mezzo che della parola umiltà.
È questa misteriosa umiltà che si rivela nel gesto di
Gesù e che ci domanda: Capisci? Oppure vuoi restare irrigidito nel tuo
orgoglio? Nell'orgoglio del corpo, nell'orgoglio dello spirito,
nell'orgoglio della potenza? Se nel tuo caso le cose stanno così,
allora tu non conosci chi sia Dio. Tu non conosci assolutamente nulla
della sua realtà. Perciò cerca di imparare. "Cambiate
completamente il vostro modo di vedere e di giudicare"; è stato
questo il primo appello di colui che è venuto: "Ravvedetevi",
affinchè voi possiate entrare in sintonia con l'atteggiamento
spirituale, con il sentimento di Dio. Di questa disposizione interiore,
di questo atteggiamento spirituale egli ha parlato espressamente quando
disse: "Impa-
29
rate da me, che sono mite ed umile di cuore » (Mt.
11, 29).
Pertanto noi vogliamo affrontare il groviglio di erbe
cattive che alligna dentro di noi, il groviglio di inclinazioni superbe,
erronee, meschine, al fine di poterlo estirpare. Vogliamo cacciare la
superbia che si proclama grande e che pure non è che menzogna. Vogliamo
cominciare ad apprendere la verità che si chiama umiltà. Dio ci
condurrà in seguito verso ciò che intende l'apostolo quando egli ci
ammonisce ad "avere in noi lo stesso Sentire che fu in Cristo
Gesù", quando egli lavò i piedi ai suoi discepoli.
30
LA PARABOLA DELLA VITE E DEI TRALCI
I tré primi evangelisti, Matteo, Marco e Luca, ci
raccontano, di regola, soltanto ciò che direttamente accade nella vita
di Gesù e le parole che si riferiscono a questi avvenimenti. In tal
modo essi sono stati condotti ad omettere delle cose importanti, che,
pure, Gesù aveva dette, ma che non rientravano nella prospettiva entro
cui si situava il loro racconto. Giovanni, invece, scrive il suo Vangelo
circa sessantenni — un periodo di tempo, quindi, notevolmente lungo
— dopo la dipartita di Gesù. Durante tutto questo tempo, egli ha
avuto pertanto modo, nel corso delle sue predicazioni e delle sue
meditazioni personali, di riflettere bene sulla vita e sulla dottrina
del suo Maestro ed è perciò riuscito a coglierne degli aspetti
profondi che erano invece sfuggiti ai sinottici. Così Giovanni ci
racconta molte cose che gli altri tré evangelisti invece tacciono; ad
esempio i cosiddetti discorsi dell'addio contenuti nei capitoli 13-16
del suo Vangelo. Proprio quei discorsi nei quali Gesù esprime dei
pensieri molto profondi, anzi estremamente intimi, che ci rivelano la
coscienza che egli ha di se stesso.
Nel quindicesimo capitolo si legge ad esempio:
"Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me,
ed io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far
nulla. Chi non rimane in me è buttato
31
via come il tralcio e si dissecca; poi i tralci secchi
li raccolgono e li buttano nel fuoco e bruciano. Se rimanete in me e le
mie parole rimangono in voi, chiedete ciò che volete e vi sarà
fatto" (5-7).
La similitudine è bella e noi ci chiediamo quale sia il
suo significato. Essa si propone che noi prendiamo coscienza del
rapporto che esiste fra il Cristo ed i suoi discepoli. Se essi vogliono
divenire come li vuole il Maestro e realizzare la missione per la quale
egli li ha scelti, debbono rimanere strettamente uniti a lui. Ora
sembrerebbe naturale vedere questa unione nel semplice fatto che essi
conservano le sue parole nella loro memoria, cercando continuamente di
penetrarne il senso profondo; che si attengono alle sue indicazioni,
cercando continuamente di entrare nello spirito con il quale egli li ha
dati; insomma che egli è in tal modo la guida della loro vita
spirituale. Questo punto di vista è esatto, certamente;
ma si tratta qui soltanto di questo? L'insistenza stessa
che si esprime in questa similitudine fa supporre che essa abbia un
significato più profondo. Delle parole quali: "egli rimane in me
ed io in lui" vogliono dire molto di più di quanto un Socrate non
avrebbe potuto dire ai suoi discepoli. In che consiste questo "di
più"?
Nella prima lettera di san Giovanni noi leggiamo delle
frasi come la seguente: "Se diciamo di non avere peccato" —
qui si allude agli gnostici di quell'epoca i quali insegnavano che,
quando il loro sforzo avesse •oltrepassato un determinato grado, essi
si sarebbero così trovati al di là del bene e del male —
"inganniamo noi stessi e la verità non è in noi" (1-8). Che
32
cosa si vuoi dire qui con la frase: la verità non è in
noi? La intenderemmo nel suo esatto senso se, secondo il nostro modo di
concepire le cose prettamente razionalistico, noi dicessimo: essa
significa semplicemente che, affermando di non aver peccato, noi
dimostriamo di non aver compreso quella che è la realtà vera e la
nostra affermazione, quindi, è falsa? Giovanni, qui, vuoi dire molto di
più. Egli
/^?/-Q if-tfrt^-t-i. tca 1/t TTQ*.^*.^
»-l/-n-t S> i *1 y-trti" Ul»-^ XAJJ.ai.l-J.> ^ Ad. V^i-ALO
-m_»XA ^ 1JLL 1±I^X •
Oppure ascoltiamo la frase seguente, tratta anche essa
dalla prima lettera di Giovanni: "Se uno ha dei beni terreni e vede
il fratello nel bisogno e gli rifiuta ogni pietà, in che modo l'amore
di Dio potrà dimorare in lui?" (3, 17). Ci troviamo qui di fronte
ad una maniera di esprimersi che è perfettamente eguale a quella della
frase precedente. Noi potremmo anche interpretare in questo modo: Costui
non ha amore, costui non sa che cos'è l'amore. Ma una simile
inter-pretazione non lascerebbe soddisfatto san Giovanni:
egli dice, infatti: "in che modo l'amore di Dio
potrà dimorare in lui?". Poco prima egli ha detto: "la
verità non è in noi"; ed adesso: "in che modo l'amore di Dio
potrà dimorare in lui?". Il razionalista vede in simili frasi una
specie di platonismo che concretizza i concetti. Ma Giovanni gli
risponderebbe:
tu non hai alcuna esperienza di queste cose. Ciò che a
me importa, non è soltanto se un tale abbia o non abbia, dal punto di
vista dell'orientamento spirituale e della psicologia, intelligenza ed
amore, ma, al contrario, se la verità e l'amore siano oppure non siano
in lui. La verità e l'amore non sono soltanto dei I pensieri e delle
disposizioni dell'animo, ma delle potenze viventi che, venute da Dio,
dimorano ed operano nell'uomo che crede.
33
Quanto è stato detto sopra ci avvicina già molto al
vero senso della parabola.
Nella lettera ai Filippesi, Paolo dice: "Perché
anch'io sono stato afferrato da Cristo Gesù" (3, 12) e:
"perché in lui io sia trovato". Eccoci di nuovo di fronte
alla stessa profonda maniera di esprimersi, che ci mette sull'avviso.
Noi siamo propensi ad intendere queste parole in maniera
intellettualistica o psicologistica; a pensare che l'apostolo voglia qui
dire: io ho ricevuto dal Cristo una profonda impressione; io mi sono
posto al suo servizio; egli mi ha spiritualmente attratto a sé; la sua
immagine e le sue parole determinano la mia vita intcriore, e così via.
Ma ciò sarebbe troppo poco, di gran lunga troppo poco!
Quando noi leggiamo queste frasi, dobbiamo pensare a
quanto ci raccontano gli Atti degli Apostoli circa il viaggio che Paolo
fa da Gerusalemme a Damasco; al modo in cui il Cristo trasfigurato gli
appare sulla strada e la sua parola scaglia a terra il persecutore della
giovane comunità cristiana. Paolo diviene cieco in seguito a questo
"choc"; se ne sta muto per tré giorni, senza mangiare e bere;
poi si alza nuovamente e si trova trasformato in un altro uomo (9, 3
ss.). Se si leggono tenendo conto di questo precedente, le due frasi
della sua lettera ai Filippesi che abbiamo riportate acquistano ben
altra forza e realtà.
Le due frasi citate — e se ne potrebbero riferire
parecchie altre — ci avvicinano ancor più al senso della parabola dei
tralci e della vite. Bisogna dire del resto che non si dovrebbe mai
tentare di spiegare
34
un
passo della Sacra Scrittura considerandolo isolatamente. Bisogna invece
vederlo mentre cresce e si sviluppa mediante i nuovi significati che gli
derivano dal complesso in cui esso è situato. Quando noi confrontiamo i
testi del Nuovo Testamento con la realtà immensa che essi vogliono
annunciarci; con la pienezza di tutto quello che Gesù deve aver detto
durante gli anni della sua attività pubblica — per non parlare del
suo essere, della sua azione, del suo destino divino-umano — noi
proviamo l'impressione di trovarci di notte, di fronte a dei lampi, che
giungono a noi da un mondo smisurato che si trova nello sfondo. Soltanto
un piccolo esempio: Luca racconta, nel quinto capitolo del suo Vangelo,
che Gesù si è fatto trasportare da Pietro un poco lontano dalla riva e
"dalla barca istruisce le folle" (5, 3); ma non ci dice
nulla di quello che Gesù ha effettivamente insegnato in quella
occasione. Ed è così continuamente. Dietro alle parole della Scrittura
si nasconde una enorme immensità. Di questa immensità noi riceviamo a
volte una parola, a volte un gesto. Ma tutto dò è sempre
incommensurabilmente inadeguato di fronte a quella che doveva essere la
realtà.
Quando dunque Giovanni dice: "Chi osserva la sua
parola" cioè, chi fa quello che il Cristo ha comandato, "in
ciò conosciamo di essere in lui" (1 Io. 2, 5) egli non
vuole dire soltanto che noi pensiamo a lui, che noi ci sentiamo uniti a
lui, ma, precisamente, che "noi siamo in lui", e ciò vuoi
dire di più, anzi qualcosa di diverso. Quando Giovanni dice, sempre
nella sua prima lettera: "Se ci amiamo scambievolmente. Dio dimora
in noi" (4, 12), egli non vuoi significare, con queste parole, una
35
[ durevole fedeltà od una influenza psicologica
costanti tè, bensì una realtà.
Questa realtà è presente non soltanto in Giovanni ma
anche in Paolo. Nella sua seconda lettera ai Corinti troviamo questa
frase: "Perciò se uno è in Cristo, è una nuova creazione"
(5, 17). Essa significa:
qui lo Spirito di Dio è all'opera; ciò che avviene non
è soltanto un pensiero, una nuova nozione o una nuova mentalità, ma il
costituirsi di una realtà. E nella lettera ai Galati troviamo l'altra,
possente frase: "E non son più io che vivo, ma Cristo vive in
me" (2, 20). Essa esprime pienamente ciò che ha carattere di
potenza, di realtà creatrice.
Anzi, c'è di più: noi incontriamo in Paolo l'esatto
corrispondente della parabola della vite e dei tralci, nella sua
dottrina del "corpo mistico del Cristo". Ma di questo
parleremo più diffusamente fra poco.
Ci troviamo, dunque, qui di fronte ad un rapporto,
esistente fra il Cristo e colui che crede in lui. Questo rapporto non
significa soltanto che il credente pensa al Cristo, che è guidato dalla
sua immagine, che obbedisce a lui ed altre cose di questo genere;
esso significa molto di più, esprime una realtà. Ed
adesso cerchiamo di ricordarci del fatto che Gesù in questa ultima sera
ha istituito l'Eucaristia e che parlando del senso protondo di questo
sacramento egli aveva detto, a Cafarnao, cose come queste: "Io sono
il pane vivente disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà
in eterno; ed il pane che io darò è la mia carne, per la vita del
mondo... Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io
in lui" (Io. 6, 51.56).
36
Ciò
significa dunque che, durante questa ultima sera. Gesù si è donato ai
suoi in una maniera che oltrepassa di gran lunga tutto quello che
potrebbe fare un semplice maestro, o un educatore, o un capo. Egli ha
dato tutto se stesso sotto la forma di un sacramento, di un mistero, e
intende rinnovellare continuamente questa azione misteriosa. Nella
celebrazione dell'Eucaristia, nella forma carica di mistero della cena,
egli si dona al credente in modo così pieno e totale che d'ora in
avanti il Cristo vivrà in lui e questi potrà realizzare la propria
vita a partire dal mistero intcriore che è stato così fondato.
Ma come possiamo immaginare in qual modo ciò avvenga in
realtà?
Quando consideriamo l'uomo nella sua totalità, vediamo
che egli è costruito dall'esterno verso l'interno; a meno che non si
debba dire, più esattamente: dall'interno verso l'esterno. Ma questo
"interno" ha delle gradazioni che discendono ad una grande
profondità. (A dire il vero, il concetto di gradazione o di gradino non
è che un'immagine. In verità noi non ci troviamo qui di fronte ad un
"più alto" o ad un "più profondo" che appartengono
però ad uno stesso ordine, ma abbiamo invece, ogni volta, un modo di
vita ed un ordine diversi. L'immagine però è comoda e noi
continueremo, perciò, ad usarla). Esiste un'interiorità organica,
dalla quale procede la crescita del corpo. Esiste un'interiorità
psicologica, nella quale giocano i sentimenti, un'interiorità
intellettuale, dove lavorano i pensieri o, meglio, dove si fa
l'esperienza della verità. Esiste ancora un'interiorità della persona,
nella quale si prendono le decisioni morali.
37
Ed ora Paolo ci dice: esiste un ambito intcriore ancora
più profondo: l'interiorità spirituale o pneumatica. Quest'ultimo
ambito non esiste di per se stesso, come se fosse uno strato più
profondo, ma che appartiene anch'esso alla natura umana; è lo stesso
Cristo, invece, che lo crea, in quella nuova nascita che avviene
mediante il battesimo e la fede. Mediante questa nuova nascita, egli
stesso penetra nell'uomo; si interiorizza in lui più profondamente di
qualsiasi realtà della quale ci parlano la psicologia e la scienza
della cultura. Quando la fede e fa fedeltà scompaiono, scompare anche
questa interiorità e resta un uomo che ha perduto un suo ambito vitale
e che non riesce più a comprendere nulla del messaggio del Cristo.
È dentro a questa interiorità che vive ciò di cui ci
parlano la parabola della vite e dei tralci ed il i messaggio
dell'Eucaristia: Cristo nell'uomo.
Ma come può il Cristo essere dentro di me? Io so già,
veramente, che Dio è in me, poiché egli è onnipresente e mi
compenetra come compenetra ogni cosa. Inoltre: egli mi ha creato; anzi,
è soltanto dal mio punto di vista che sembra trattarsi di una azione
passata; ma, in realtà, sarebbe più esatto dire:
la sua volontà creatrice mi mantiene incessantemente
nell'essere; la sua mano mi trattiene continuamente affinchè io non
cada nel nulla. Se potessi giungere all'estremo limite del mio essere,
io giungerei a toccare la sua mano. Ancora di più: egli mi mantiene nel
mio essere personale, in quell' "io" che io sono, rivolgendomi
l'appello creatore rappresentato dal suo "tu". Ed aggiungiamo
ancora qualcos'altro: la Rivelazione mi dice che egli mi ama, che si
rivolge
38
a me mediante la sua grazia e fa di me un figlio suo.
Certo, le cose stanno così come abbiamo detto;
si tratta certo di un mistero, ma familiare al nostro
cuore. Così Dio è in me. Ma il Cristo, colui che si è ' incarnato,
come può essere in me? Per il fatto che egli è il risuscitato,
divenuto Spirito, colui del quale Paolo dice: "II Signore — e
cioè il Cristo — è lo Spirito" (2 Cor. 3, 17). Mediante
il battesimo e la fede, egli nasce in me ed io in lui. Che si deve dire
di più? Egli lo ha promesso, i suoi apostoli ne hanno fatto
l'esperienza e se ne rendono garanti... Si tratta di un mistero che
nessun umano pensiero può giungere a risolvere. Ma noi possiamo far sì
che ci divenga familiare; noi possiamo respirare in esso e vivere
nell'attesa del giorno in cui ci verrà rivelato; il giorno in cui noi
potremo finalmente comprenderlo e potremo così anche comprendere chi
siamo realmente noi stessi. "Carissimi, già adesso siamo figli di
Dio, ed ancora non si è manifestato quel che saremo. Sappiamo che
quando si manifesterà, saremo somiglianti a lui, poiché lo vedremo
qual è"; così dice Giovanni nella sua prima lettera (3, 2).
Ma la parabola vuoi dirci ancora dell'altro. Essa indica
che questa interiorità non si apre soltanto in un singolo uomo, in un
credente che gode di una speciale elezione, ma in questo e in quello, in
ogni uomo. Questa profondità divina nella quale si trova e vive il
Cristo pervade e regna in tutti i credenti. È da questa profondità
divina che scaturisce la vita del singolo credente nello stesso modo in
cui i tralci spuntano dall'insieme del ceppo della vite. Per esprimere
questa realtà Paolo si servirà di un'altra similitudine, tratta dalla
dottrina sociale dell'antichità:
39
la vita del Cristo, che si estende attraverso tutti i
credenti fino alla parte più intima del loro essere, là dove lo stesso
Cristo opera in maniera misteriosa, fa di essi una misteriosa unità,
simile a quella di un corpo dalle molte membra. Tutte queste membra,
come i tralci nel caso della similitudine della vite, rappresentano i
singoli credenti.
Questa unità della sacra vite, del corpo mistico del
Cristo, è rappresentata dalla Chiesa. Il Cristo regna nelle profondità
della sua interiorità. Ogni credente nasce da essa come i tralci
nascono dalla vite, come le membra fanno parte di un unico corpo.
È necessario che noi cerchiamo di ricordare spesso gli
insegnamenti più profondi della Rivelazione. Essi ci infondono la
cristiana coscienza di noi stessi. Questa coscienza ci dice: Io sono,
certo, una povera creatura, che in tutto sbaglia e fallisce; ma in me è
presente il mistero della vita divina.
Noi abbiamo bisogno di questo sostegno intcriore. Oggi
si usa parlare di Dio e dei suoi misteri in un modo così sacrilego che
un profeta sarebbe portato ad invocare la folgore sul mondo; noi ci
limiteremo a ricordare le parole che il Signore ha pronunziato nell'ora
della sua morte: "Essi non sanno quello che fanno" (Le.
23, 34). Negazione su negazione, bestem-mia su bestemmia, distruzione su
distruzione. Tutto ciò che è umanamente pensabile viene tentato
all'unico fine di poter soffocare nell'uomo quell'interiorità di cui
noi parlavamo. Non è possibile prevedere ciò che risulterà da un
simile stato di cose, se esso dura a lungo. La psicologia ci dice che
quando una esigenza fondamentale della vita non trova il suo
soddisfacimento, l'uomo cade ammalato: quale nuova malattia insorgerà
il giorno in cui l'interiorità del
40
Cristo sarà distrutta nel cuore degli uomini?
Proprio per questo, coloro che credono debbono
immergersi tanto più profondamente nel mistero che è stato loro
donato. Ma a tal fine non è sufficiente il recitare un Pater Noster
al giorno e andare a messa nei giorni festivi e vivere poi, per ciò che
concerne il resto, come fanno quelli che non credono. Noi dobbiamo
conservare e rafforzare la co-scien2a di questa profondità che è in
noi. Un cuore, la cui interiorità non venga protetta nell'amore si |
inaridisce; non lasciamo dunque inaridire ciò che vive nella nostra
più intima profondità.
41
LA PACE DI CRISTO
Nel quattordicesimo capitolo del Vangelo secondo san
Giovanni, Gesù dice: "Vi lascio la pace, vi dò la mia pace; non
ve la dò come il mondo la da" (27). È questa una frase nella
quale parlano tutta la maestà ma, contemporaneamente, anche la profonda
intimità del Signore. Cerchiamo pertanto di comprendere qualcosa di
quello che egli qui ci vuoi dire.
Che cos'è la 'pace'?
Ma crediamo che sia meglio prima chiederci che cosa sia
il suo contrario; il male, infatti, ha colori più vivi ed appariscenti
del bene e ciò che distrugge parla più forte di ciò che costruisce.
Che cos'è dunque la mancanza della pace?
Ogni uomo è costituito dal suo proprio io. Certo,
esistono delle somiglianze fra i diversi uomini, a volte numerose ed
anche profonde; ma, in fondo, ognuno ha il suo proprio modo di essere,
la sua natura. È bello che sia così perché è di qui che nascono la
molteplicità e la ricchezza dell'esistenza. Ma ogni singolo uomo dice
molto volentieri — o almeno lo pensa, più o meno consciamente —: il
modo in cui io sono fatto è giusto ed ogni altro è sbagliato... Ogni
uomo ha, anche, un suo particolare modo di sentire. Il mondo trova
un'eco nel cuore di ciascuno. Si potrebbe anzi dire che vi sono tante
diverse specie di mondo quanti sono gli uomini che lo vedono e
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ne fanno l'esperienza. Poiché soltanto il mondo veduto
ed esperimentato è quello che veramente conta;
di un mondo che abbia una sua esistenza indipendente,
che prescinda dalla nostra esperienza, noi non possiamo infatti sapere
nulla. Se noi potessimo spiare curiosamente la terra dall'eternità,
resteremmo estasiati di fronte all'infinita molteplicità degli echi che
le cose della creazione trovano nel cuore dei diversi uomini. Tutto ciò
è bene; ma l'uomo — e quando qui si dice 1' 'uomo', ciascuno deve
pensare a se stesso — tende sempre a pensare: è giusto che io senta
quello che sento; ciò che provano gli altri, invece, è sbagliato. Ogni
uomo costruisce la sua vita, fa il suo lavoro, crea la sua opera. Di
nuovo, l'intelligenza che abbiamo dell'esistenza ci dice: Deve essere
così. Dalle innumerevoli attività nasce l'insieme della vita. Ma non
pensa ogni uomo, in fondo: È giusto così, come faccio io? Ed ogni
qualvolta un uomo fa questo, nel 'sì' che egli dice al suo io, si cela
il germe di un 'no' che viene detto al suo prossimo. Quello che nella
realtà vera dovrebbe costituire la vita e la base di un divenire sempre
più alto e di una più ricca armonia, si trasforma dappertutto in una
possibilità di inimicizia. Perché alla radice di tutto ciò vi è un
disordine, che proviene dall'origine primordiale della storia, dal
giorno in cui uno dei figli di Adamo si eresse contro il fratello, e
Caino uccise Abele.
Cerchiamo di riflettere ancora e di essere sinceri,
veramente sinceri con noi stessi: quando un uomo ne incontra un altro
— lo incontra, cioè, per la prima volta, prima che la prudenza e
l'abitudine abbiano ancora creato un modus vivenàì — qual è
il sen-
43
rimerito che egli subito prova nei suoi confronti?
Esiste un detto, tramandateci da un'epoca immemorabile, ma che trova una
sua conferma ancor oggi, quanto più precisa diviene la nostra
conoscenza dell'uomo, anzi, meglio, più profonda la conoscenza di noi
stessi: "l'altro" è lo straniero, il nemico, il cattivo. Si
tratta di un detto primordiale che amora dalle profondità di un cuore
in cui regna il disordine;
tutto ciò che noi chiamiamo incivilimento, affinamento
dei costumi, cultura non è che lo sforzo costante inteso a togliere la
sua forza a questo detto. Ma ogni umano incontro contiene in sé la
possibilità che esso ritrovi tutta la sua terribile validità.
Un amico mi ha raccontato di aver chiesto ai bambini di
una scuola: "Che cos'è che l'uomo crede più volentieri del suo
prossimo: il bene o il male?". Essi avrebbero risposto, ad una sola
voce:' "II male!". Era questo il grido primordiale, che si
trova sotto la superficie di qualsiasi forma di cultura. È questa
l'umana realtà e basta soltanto che si presenti l'occasione perché
quel detto ritrovi la sua validità: la scintilla scocca e divampa in
una gran fiamma, ed ecco l'inimicizia.
Pertanto rappresenta una via verso la pace il fatto che
qualcuno, il quale ha la capacità di poterlo fare, restauri nell'ordine
questo sentimento che proviamo per 'l'altro'.
Una sentenza piena di una universale saggezza di vita ci
dice: "Non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto
a tè". Il Signore fa un altro passo avanti. Si tratta di un passo
però di una lunghezza infinita. Egli ci dice: "Tutto ciò che voi
volete che gli uomini vi facciano, anche voi fatelo
44
ad essi" (Mt. 7, 12). Questa frase
rappresenta l'inizio di una vera rivoluzione, se essa viene presa sul
serio. Prima di essa io sono infatti portato a dire, come fosse una cosa
naturale: "Io — e gli altri". Io sono il centro
dell'universo; gli altri mi limito ad inserirli in questo universo di
cui io sono il centro; li distinguo in persone che mi sono amiche,
indifferenti od ostili e li tratto di conseguenza. Io non giungo mai a
mettere in risalto davanti ai miei occhi il buon diritto dell'altro, il
suo volto. Esso rimane in una specie di secondo piano, di sfondo,
rispetto al mio 'io'; ed è già molto che venga posto un limite al mio
egoismo quando mi viene ricordato che anche l'altro sente l'ingiustizia
nello stesso modo in cui io la sento e che pertanto io non debbo fare a
lui ciò che mi ferirebbe, nel caso che fosse fatto a me. Ma la parola
di Gesù va molto più in là, più oltre, per così dire, in modo
assoluto, quando essa mi dice: Prendi coscienza che l'altro è anche lui
un 'io', un centro del mondo come lo sei tu e, nel tuo sentimento, ai
tuoi occhi, con il tuo comportamento, dagli la libertà di emergere, in
primo piano:
cerca di vedere in lui "il fratello".
Ma se noi, prigionieri come siamo di noi stessi,
recalcitriamo, il Signore ci dice: Io ti aiuterò. Egli ha annunziato
questa verità misteriosa, che tutto quello che noi facciamo all'altro
sarà considerato come fatto a lui stesso. E l'ha annunciata in maniera
così netta e precisa che egli ci giudicherà sulla base di essa (Mf.
25, 35 ss.). Egli entra dunque a far parte di ogni rapporto che
intercorre fra gli uomini e da con ciò per ogni singolo uomo il
carattere del suo 'altro'. Egli ha trasformato il detto naturale —
anzi, il detto che trova la sua origine e la causa
45
nel peccato originale — dicendo: "L'altro sono
io!". Se noi non ci accontentiamo di lasciar stare questo nuovo
detto nella Scrittura, ma cerchiamo invece di metterlo in pratica —
quell'altro, che mi sta di fronte: in lui c'è il Cristo come c'è in me
— allora tutto cambia. Quell'egoismo disordinato che noi chiamiamo 'natura',
si trasforma nell'ordine dell'amore. Ed abbia- • mo così la "sua
pace"; la pace che il Cristo ci dona.
Ma cerchiamo di ricominciare ancora una volta da capo.
Noi abbiamo sinora parlato dei nostri rapporti con gli altri uomini.
Cerchiamo adesso di parlare soltanto di noi stessi. Anche l'uomo è un
mondo, nel quale molte forze sono all'opera. Tutte queste forze sono
nell'ordine? Riescono esse a formare un tutto, nel quale regni la pace?
Certamente no! Nel cuore dell'uomo risiede la volontà di impadronirsi
del mondo e di crearvi l'opera propria. Tutto ciò è bene in quanto la
missione affidata all'uomo è stata quella di "soggiogare la
terra" (Gen. 1, 28). Ma, in seguito alla sua ribellione,
l'uomo ha perduto il senso della misura; egli è caduto in preda ad una
bramosia che non conosce limiti. Cerchiamo di guardare attorno a noi:
che impressione può farci il mondo in mezzo al quale noi viviamo?
Questa marcia in avanti, queste ricerche, queste scoperte incessanti;
queste conquiste, queste produzioni e questi consumi così sfrenati sono
forse nell'ordine? Ci troviamo di fronte ad un comportamento che
corrisponde alla vera natura, alla vera essenza dell'uomo? Non ha ognuno
di noi, invece, l'impressione che da questo sfrenato e convulso
progresso derivi un'oscura minaccia che incombe su noi tutti? Che noi
potremmo assistere a delle sciagure spaventose?
46
Ciò che si impone ai nostri occhi in grandi
proporzioni, lo troviamo esattamente riprodotto in un formato minore
ogniqualvolta discendiamo per istrada. Gli sguardi della gente sono
affascinati dalle vetrine dei grandi magazzini: io vorrei avere questo,
e questo, e questo. Oppure sono fissi sugli altri passanti: Io vorrei
essere vestito come quello là, guidare la sua macchina; ciò che egli
può permettersi starebbe bene anche a me. Continuo bramare, senza
requie... Che cosa succederebbe se fosse lasciato libero corso a questi
sentimenti, a questi istinti? Anzi, succede già molto, in quanto questo
libero corso viene senz'altro concesso.
E che cosa avviene in ogni singolo uomo? È egli
veramente animato da buone intenzioni? La volontà che determina il suo
comportamento quotidiano, quello che egli fa, che omette, l'impiego del
suo tempo, delle sue forze, della sua capacità d'amare, del suo danaro
— questa sua volontà vuole realmente ciò che è in grado di
conservare la sua esistenza, di far fruttificare i suoi talenti, di
dirigere le sue possibilità verso un'opera valida? O non deve egli,
invece, mettere costantemente in movimento la sua ragione, il suo
autodominio ed ogni sorta di tecnica psicologica, per trattenersi dal
fare delle cose che gli risulterebbero nocive? Lo sforzo dell'etica, il
lavoro dello Stato, dei genitori e della scuola e gli sforzi
autoeducativi non hanno per obbiettivo di indicare chiaramente all'uomo
ciò che egli deve non fare, perché dannoso, nonostante il suo
desiderio di farlo e ciò che egli invece deve compiere, contro il suo
naturale desiderio, perché vantaggioso? In verità c'è da rimanere
sconvolti quando ci si rende
47
conto esattamente fino a qual punto l'uomo sia nemico di
se stesso, 1' 'io' nemico dello stesso 'io'.
L'uomo non è in pace con se stesso. In lui gli istinti
sono in uno stato di profonda contraddizione con lo sviluppo genuino
della sua natura specifica. C'è di più; questi istinti si combattono a
vicenda. Ciò che l'uomo desidera, partendo da un determinato punto di
vista, ad esempio il punto di vista del lavoro, viene in lui
contraddetto da un opposto desiderio, che nasce dalla sua pigrizia. E
che cosa significa quel misterioso istinto di morte del quale ci parlano
gli psicologi? Di questa volontà di autodistruzione la quale, più
spesso di quanto non sappia in realtà l'opinione pubblica, spinge verso
il suicidio effettivo, ma che anche in altre maniere causa sventure in
ogni uomo? E che significa, ancora, lo sdoppiamento della personalità,
di cui ci parla la stessa psicologia? Un fenomeno cioè che assume
differenti aspetti e differenti gradazioni, ma che può giungere sino al
punto che nello stesso individuo un 'io' estraneo stia accanto al
normale 'io'?
Ma il Cristo è il Redentore che ci libera anche dal
disordine che si trova nel nostro stesso io. Egli ci conosce più
profondamente di quanto noi non conosciamo noi stessi; egli ci vuoi più
bene di quanto noi non ce ne vogliamo. Egli vive in noi e la sua santa
volontà, la sua potenza creatrice opera assieme al nostro 'io' buono,
per la nostra salvezza, la nostra unità interiore e per la pace.
Dell'apostolo che poteva dire di se stesso: "Io ho
lavorato più di tutti (gli altri apostoli)" (1 Cor. 15,
10), la cui vita si consumò interamente al servizio della sua missione
e non fu che un solo combatti-
48
mento in favore del suo maestro, dell'apostolo Paolo,
noi abbiamo una frase meravigliosa. Egli dice nella sua lettera ai
Filippesi: "Così la pace di Dio, che eccede ogni intelligenza,
custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù".
Dietro queste parole si cela una profonda esperienza. Sulla via di
Damasco, proprio quando muoveva con una furiosa impazienza per
distruggere la giovane comunità cristiana. Paolo è stato gettato a
terra dal Signore; quando si rialzò, egli era un uomo nuovo.
Lo stesso Paolo, che in passato era stato spinto da un
desiderio ardente di giustizia a tentar di uscire con le sue sole forze
dal disordine degli istinti — ma invano, in quanto la violenza che
egli si fece non potè che accrescerli ed invelenirli, come fa capire la
sua allusione contenuta nel capitolo sesto della lettera ai Promani —
ha dovuto riconoscere che da solo nulla poteva e che la salvezza gli è
stata donata nel mistero della grazia. Allora egli ha fatto l'esperienza
della "pace di Cristo".
Che cosa sia questa "pace di Cristo" non può
esserci raccontato dagli altri; bisogna farne invece la personale
esperienza. Ma Dio concede questa esperienza a colui che ad essa aspira.
Quando egli tocca l'uomo nella sua interiorità più profonda, costui
conosce la pace. Ognuno dei suoi tocchi, per quanto lieve esso sia, la
dona. Dio è 1' "uno-e-tutto"; pertanto colui che riesce a
possederlo, possiede tutto.
Noi gli chiederemo di concederci questa sua pace. Ma ci
sforzeremo, contemporaneamente, di portare la pace anche nei nostri
rapporti con gli altri uomini. Esiste una profonda corrispondenza fra il
modo in cui un uomo si comporta nei confronti degli altri
49
uomini ed il modo in cui egli si comporta con se stesso
— se noi intendiamo con ciò il vero 'se stesso', quello profondo,
destinato all'eternità. Nonostante tutte le differenze e tutti i
contrasti, io sono solidale con l'altro, col fratello, con la sorella.
Egli mi è così poco straniero, così poco nemico, che quello che io
faccio a lui si realizza in me stesso. A seconda del modo in cui io
porto l'inimicizia o la pace nei miei rapporti con gli altri, io riesco
a creare l'inimicizia o la pace con me stesso.
50
IL TRADIMENTO
Nel racconto dell'ultima sera si legge quanto segue:
"Così dicendo, Gesù fu turbato nello spirito e dichiarò
solennemente: 'In verità, in verità vi dico;
imo di voi mi tradirà'. I discepoli si guardavano tra
loro, non sapendo di chi parlasse.
Uno dei suoi discepoli — quello che Gesù amava —
era adagiato a mensa sul seno di Gesù. Simon Pietro gli fa un cenno e
gli dice: 'Di', chi è colui di cui parla?'. Quel discepolo chinandosi
familiarmente sul petto di Gesù, gli dice: 'Signore, chi è?'. Gesù
allora risponde: 'È colui al quale porgerò il boccone che sto per
intingere'. Intanto allora il boccone, lo prende e lo da a Giuda, figlio
di Simone Iscariota. E dopo il boccone, allora entrò in Giuda Satana. E
Gesù gli dice: 'Quel che fai, fallo al più presto'. Nessuno però dei
commensali comprese a qual proposito gli aveva parlato così; alcuni,
infatti, siccome Giuda teneva la borsa, credevano che Gesù gli dicesse:
'Compra ciò che ci serve per la festa';
oppure: 'Da qualcosa ai poveri'. Preso dunque il
boccone. Giuda subito uscì.
Era notte" (Io. 13, 21-30).
È questo un terribile racconto. Ciò che esso riferisce
è pieno di oscurità abissali. Fra gli interrogativi più urgenti che
ci assalgono, dopo averlo letto, noi cercheremo di esprimerne uno: come
fu addirittura
51
possibile il tradimento di Gesù? Possibile che degli
uomini che erano stati con lui per degli anni; che avevano provato il
fascino misterioso che irradiava dalla sua personalità, udite le sue
parole, viste le manifestazioni della sua potenza — che uno di questi
uomini consegnasse il Maestro ai suoi nemici, a proposito dei quali egli
doveva ben sapere che essi lo volevano annientare?
Ma, prescindendo da questo uomo che lo ha tradito,
l'interrogativo prosegue: Ma come fu possibile che tutti lo
abbandonassero? E questo interrogativo tende facilmente ad assumere una
sfumatura personale, che potrebbe forse essere espressa mediante la
recisa affermazione: Io non avrei fatto mai una cosa simile! Che
dobbiamo pensare di tutto ciò?
Per poter rispondere occorre che noi ci immedesimiamo
più profondamente nei rapporti che i discepoli hanno avuto col loro
Maestro.
Noi dobbiamo dire, innanzitutto, che i discepoli devono
aver continuamente provato questo sentimento: "Quando comincerà
egli a fare quello che, pure, deve esser fatto?". Che Gesù fosse
il Messia, essi lo hanno riconosciuto molto presto. Ma essi davano alla
parola Messia un significato che era strettamente condizionato dalla
concezione comune al loro tempo a riguardo di "Colui che doveva
venire". Sulla base di tale concezione, egli avrebbe dovuto
cacciare dal paese i nemici — e cioè, innanzitutto, i Romani; avrebbe
dovuto ristabilire il suo trono a Gerusalemme e regnare nello stesso
modo in cui aveva regnato un giorno Davide. Da Gerusalemme egli avrebbe
esercitato il suo potere sul mondo intero. Nel suo regno l'abbondanza di
ogni bene ter-
52
reno sarebbe stata a disposizione di tutti; la terra
avrebbe prodotto i suoi beni con una prodigiosa fertilità; il miracolo
avrebbe costituito la regola dell'esistenza quotidiana. Era tutto questo
che i discepoli si attendevano; ma i giorni passavano e nulla di ciò si
verificava. Essi dovevano anzi constatare che la parola 'Regno di Dio'
assumeva sulla sua bocca un significato completamente diverso da quello
che alla stessa parola attribuivano i Farisei e gli scribi quando
parlavano della "sovranità di Dio".
Quando ascoltavano, ad esempio, gli insegnamenti che
sono poi stati raccolti nel Discorso della Montagna, dovevano rendersi
conto che in essi si esprimeva un orientamento spirituale completamente
diverso da quello che avrebbe dovuto possedere uno che si proponesse di
cacciare i Romani dalla Palestina. Costui avrebbe dovuto usare lo stesso
linguaggio dei Maccabei, che avevano condotto le lunghe guerre contro i
successori di Alessandro Magno. Ed, invece di tenere un simile
linguaggio, egli predicava il disinteresse e l'abbandono alla volontà
del Padre Celeste. Nessuna parola che potesse rappresentare un appello a
delle passioni politiche o guerriere, che esprimesse sentimenti di
vendetta per i nemici di Dio, ma soltanto parole di pace; e di una pace
che nasceva dal disinteresse e dall'amore. Quando si pensi a tutto ciò,
c'è da meravigliarsi che essi non abbiano detto subito: Non è
certamente lui, quello che noi aspettiamo.
E questo è tanto più vero se si tiene conto che essi
erano mossi da interessi estremamente personali. Noi apprendiamo ciò,
ad esempio, dalla domanda che i discepoli fanno a Gesù su "chi di
essi sarebbe
53
stato il più grande nel regno dei deli" (Mt.
18, 1 ss.). Una simile domanda ci permette di gettare uno sguardo
nei loro pensieri e nelle loro disposÌ2Ìoni spirituali e non si può
dire certamente che si tratti di una vista ediEcante. Oppure pensiamo a
quel passo in cui ci viene raccontato che la madre dei figli di Zebedeo,
la madre, cioè, di Giacomo e di Giovanni, va da Gesù e gli dice:
"Ordina che questi figli miei siedano uno a destra e uno a sinistra
nel regno tuo!" (Mt. 20, 21). Questo passo dimostra che in
alcuni dei discepoli erano nate delle speranze molto solide di poter
giungere al potere in questo regno. E quando noi veniamo a sapere che
Giuda, il quale faceva da cassiere, era disonesto e ladro (Io. 12, 6),
non è molto difficile immaginare che anch'egli avesse i suoi piani
personali.
Non dobbiamo vedere i discepoli di Gesù come figure
dipinte su di un fondo d'oro. Un simile modo di vedere non renderebbe
del resto onore ad essi in quanto li priverebbe della loro realtà. Essi
erano uomini vivi, di carne ed ossa, che nascondevano nei loro cuori
delle buone, ma anche delle cattive possibilità. Ed il modo in cui i
discepoli erano cocciutamente aggrappati alle loro idee sul Messia si
dimostra chiaramente nel passo 1, 6 ss. degli Atti degli Apostoli. Essi
sono stati i testimoni della morte e della resurrezione di Gesù ed
adesso gli chiedono se egli intende ripristinare subito il Regno
d'Israele. E sono ancora talmente chiusi in questo loro modo di vedere
che Gesù neppure risponde alla loro domanda, ma si limita soltanto a
far riferimento alla venuta dello Spirito che li istruirà. Soltanto il
fuoco di Pentecoste è riuscito a trasformarli in coloro che chiamiamo
"apostoli". Ma quando essi udivano parlare e
54
vedevano agire il loro Maestro, con quelle orecchie e
quegli occhi che ancora avevano prima dell'evento di Pentecoste, molte
cose erano possibili.
Pertanto noi dovremmo quasi meravigliarci che soltanto
uno dei suoi discepoli abbia tradito Gesù. Perché, in fondo, lo hanno
tradito anche tutti gli altri. Nell'ora del pericolo nessuno è riuscito
a restare fedele; Marco ce lo dice in aride parole:
"Tutti allora lo abbandonarono e fuggirono" (
14, 50). E Pietro, il quale si era vantato: "Anche se tutti si
scandalizzeranno, io no" (Me. 14, 29), lo ha rinnegato, con
uno spergiuro: "Ma egli cominciò ad imprecare e a giurare: 'Non
conosco l'uomo di cui parlate' (Afe. 14, 71). È questa la nuda verità;
e per coloro che si chiedono come sia stato possibile un simile
tradimento, non c'è che una risposta: fu un'opera della grazia di Dio
se anche altri discepoli non lo abbiano commesso.
Cercheremo ancora una volta di approfondire l'argomento
chiedendoci: è poi così facile il poter vivere vicini ad una
personalità superiore? Quando ci si meraviglia che il coraggio degli
apostoli abbia potuto venir meno; che l'abbia tradito una persona alla
quale Gesù aveva rivelato una saggezza così meravigliosa, una potenza
così grande, una bontà così santa ed una libertà così perfetta, non
si tiene conto di una decisiva risposta che può tutto illuminare: è
proprio perché egli era così che sono potute accadere delle cose del
genere! Vivere vicini ad una personalità veramente grande è cosa
estremamente difficile. L'essere costretti a provare continuamente tutta
la grandezza con cui una tale personalità parla ed agisce e sentirsi
contemporaneamente così meschini
55
nei suoi confronti, tutto ciò può condurre verso la
ribellione.
E quanto detto va in misura raddoppiata quando si tratti
di una personalità religiosa; di una personalità, cioè, che attinge
la sua vita e la sua forza a profondità alle quali l'uomo comune non
può avere accesso; che erige delle norme e dei valori, i quali restano
per lui difficilmente afferrabili. Una personalità che si ritira
continuamente nella solitudine e nessuno può sapere che cosa ivi
avvenga... In tal caso può venire benissimo da pensare: che cosa ci sto
a fare io qui? Ed a più forte ragione quando ci troviamo di fronte alla
personalità di cui parla la Rivelazione; colui che chiama se stesso il
Figlio dell'eterno Padre ed intorno al quale dominano le potenze dello
Spirito.
Quali difficoltà portasse con sé la vita dei discepoli
insieme con il loro Maestro lo possiamo vedere da un avvenimento che
Luca ci racconta nel capitolo quinto del suo Vangelo. Si tratta della
pesca miracolosa. Gli uomini hanno portato le loro barche a riva e si
danno da fare per mettere al sicuro il carico. Pietro cade ai piedi del
Signore ed esclama: "Allontanati da me, perché sono uomo
peccatore!" (8). Lo spavento che ispirava la prossimità di Dio
nell'Antico Testamento si è abbattuto su di lui ed egli non lo può
più sopportare. Tale fatto ci rivela come stessero le cose. Se a ciò
poi si aggiunge ancora l'esperienza che essi avevano delle proprie
debolezze — Pietro che si rende conto della sua impetuosità ed
irriflessività; Tommaso della sua freddezza e del suo scetticismo;
Giacomo e Giovanni della loro intolleranza e così via — a che cosa
avrebbe potuto portare tutto ciò? Quanto facilmente, ed in quale
56
maniera radicale essi avrebbero potuto "patire
scandalo a causa di Gesù" (Mt. 26, 31), ognuno secondo la
sua natura. Ed adesso noi possiamo comprendere quello che Gesù vuoi
dire a Pietro con la frase seguente: "Io ho pregato per tè,
affinchè non venga meno la tua fede; e tu, quando ti sarai riavuto,
conferma i tuoi fratelli" (Le. 22, 32).
Ma noi non volevamo parlare soltanto degli apostoli, ma
anche del caso nostro. Non ci troviamo anche noi in continuo pericolo di
tradire il Signore?
Non è trascorsa da molto tempo l'epoca nella quale
l'ateismo dichiarato era una questione che riguardava poche persone;
oggi, al contrario, la bestemmia contro ciò che è sacro è diventata
una moda. Si scrivono persino dei libri sul glorioso futuro di
un'umanità senza fede. Può capitare ad una persona di sedere in
compagnia di altre persone e di provare un'impressione veramente strana
ed insolita, di disagio, a causa della propria fede, di fronte allo
scetticismo ed al cinismo generali. E chi sa che cosa potrà capitare
quando la negazione di Dio, anzi l'odio contro Dio, che si sono adesso
strettamente collegati con due delle maggiori potenze politiche del
mondo *, avranno fatto ulteriori progressi? Ognuno di noi può trovarsi
messo di fronte all'interrogativo su quale senso abbia il mantenersi
ossequienti alla fede quando l'intera storia spirituale dell'umanità
sembra andare in una dirczione opposta ad essa.
E che ne è della fede del singolo credente? La mia
* Russia staliniana e Germania hitleriana [n.d.t.).
57
fede, deve dirsi ciascuno di noi, sono io stesso! La
grazia di Dio, certamente, ma in me. Pertanto nella mia fede sono
contenute le mie doti, le mie tendenze, le mie disposizioni naturali;
con tutta la loro forza, ma anche con tutta la loro debolezza. Esse
determinano in me dei periodi di euforia spirituale, ma anche dei
periodi di depressione. Dei periodi nei quali la verità della fede
sembra risplendere ed io sento tutta la sua profondità ed il suo
calore; ed altri durante i quali essa non mi dice nulla. Dei periodi nei
quali io sento che la mia fede mi sostiene e mi porta avanti ed altri
invece in cui io la sento gravare pesantemente sulle mie spalle.
Quanto è grande allora la tentazione di dire: ma lascia
un po' stare tutte queste cose. Cerca di essere un uomo, con la sua
gioia ed il suo dolore, con il suo lavoro ed i suoi affanni. Vivi e
datti da fare;
e quando sarà giunto il momento, muori, e tutto sarà
finito!
Ore del genere possono essere molto opprimenti. Ed in
esse a nulla serve il pensare ed il cercare delle prove per la nostra
fede; occorre soltanto resistere e perseverare. Gli unici rimedi sono la
grazia di Dio e la fedeltà dell'uomo. Il corrispondente di fede in
tedesco (Glaube), significa sulla base della sua etimologia,
"ciò che è stato promesso solennemente" (das Angelobte)
e cioè la fedeltà. Un eguale significato ha la parola latina fides.
Quando l'ardore e la fiducia della nostra fede si
affievoliscono e noi avvertiamo il pericolo di abbandonare via tutto,
dobbiamo allora ricordare a noi stessi: fa attenzione! Tu ti trovi
adesso nella stessa situazione in cui si trovarono i discepoli, quella
situazione a proposito della quale il testo del Vangelo di
58
san Giovanni usa l'espressione: "Era
notte". Allorché anche attorno a noi, in noi, si fa notte, le
uniche cose in grado di resistere sono la fiducia nella grazia e la
fedeltà alla persona del Signore.
59
L'ODIO CONTRO DIO
Fra le parole pronunciate da Gesù nell'ultima sera si
trova una frase che, quanto più la si rilegge, tanto più grava
pesantemente sullo spirito e sul cuore. Questa frase è contenuta nel
capitolo quindici e dice:
"Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me
prima di voi" (18).
Gesù è andato verso la morte con questo divino dolore,
che gli uomini lo odiavano. Forse tutto quello che gli era capitato
negli anni precedenti è passato, in rapida successione, davanti al suo
spirito durante questa ultima sera. Forse egli si è ricordato della sua
prima infanzia, quando i suoi genitori avevano dovuto portarlo nel paese
che rappresentava il luogo di rifugio di quell'epoca, l'Egitto, perché
Erode lo voleva uccidere. Oppure ha pensato a quello che gli era
capitato durante il periodo della sua vita pubblica; a tutte le
calunnie, l'incomprensione, l'ostilità di cui egli aveva dovuto fare la
dolorosa esperienza. ) Nei primi capitoli dei quattro Vangeli si ha l'im-/
pressione che sia giunta una specie di primavera;
( che dappertutto Eorisca la verità, che i cuori degli
^ uomini si aprano. Ma questa primavera non dura a j lungo. Subito il
partito dei Farisei, conservatori sia in religione che in politica, si
erge contro di lui; gli tende delle trappole, affinchè egli si
comprometta;
diffonde delle voci che mirano a discreditarlo agli
occhi del popolo. Coll'andar del tempo, altri gruppi
60
politici o religiosi gli si mettono contro; finché
tutta questa ostilità non si condensa in quelle "tenebre" a
proposito delle quali Giovanni dice che esse "non
10 hanno accolto" (1, 11).
Ed in questa sera, sulla quale si sofferma il nostro
pensiero, egli prevede già la "notte" che sta per incombere, quella
"notte" nella quale le potenze delle tenebre avranno la
"loro ora" ed eserciteranno il loro "potere" (Le.
22, 53); egli sa perfettamente quali terribili ore lo attendano.
Come potè accadere che il portatore della salvezza
divenisse oggetto di odio? Prescindiamo, intanto, dalla folla che, in un
primo momento, lo ha accolto con giubilo, poiché essa credeva di
riconoscere in lui
11 Messia il quale, sulla base della concezione
corrente, avrebbe dovuto portare la libertà politica e la
sovrabbondanza di ogni bene terreno. Gesù, però, sapeva quanto
poco affidamento egli poteva fare su questo entusiasmo popolare; dice
infatti Giovanni:
"Ma Gesù non si fidava di loro perché egli li
conosceva tutti" (2, 24 s.). Noi non dobbiamo quindi tener conto di
tutta questa gente. Rimangono perciò poche persone, veramente molto
poche, che lo abbia-Jnp_J:ealmente_amatQ, E perché il loro numero fu
così ridotto? Tanto più che anche queste persone, alla fine, quando le
cose si misero male, sono fuggite, per la massima parte?
Per trovare una risposta a questi interrogativi, noi
dobbiamo cercare di tener ben presente chi fosse Gesù. La sua esistenza
rappresentava un'unica epifania per colui "che avesse degli occhi
per vedere" e "delle orecchie per sentire". In lui il
Figlio del Dio vivente era venuto a noi. Giovanni dice: "Ed
61
il Verbo s'è fatto carne ed ha dimorato fra noi, e noi
abbiamo contemplato la sua gloria, gloria che come unigenito ha dal
Padre, pieno di grazia e di verità" (1, 14). E nella sua prima
lettera egli parla ancora con insistenza di questa sua esperienza che ha
fatto con la personalità di Gesù: "Ciò che era da principio,
ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto con gli occhi nostri,
ciò che contemplammo e le mani nostre toccarono intorno al Verbo della
vita..." (1, 1).
In Gesù Dio era manifesto. Alla domanda: Com'è Dio?,
bisogna rispondere: Tale quale è Gesù. Ed allora, come si può
spiegare tutto quest'odio?
Tutto ciò ci induce a risalire un poco più indietro e
a porci questa nuova domanda: È possibile odiare Iddio? Egli è pur
colui che ci ha creato. Dovunque, le testimonianze di tutti i popoli
ci dicono che egli è il creatore del mondo. Se io m'interrogo sul
perché ' della nostra esistenza, io debbo rispondermi: Dio è '/
ed egli ha voluto che anch'io sia. Il nostro cuore dovrebbe quindi
tendere prepotentemente verso di . lui.
Nello stesso modo in cui dappertutto sulla terra l'ago
magnetico si dirige verso il polo, così il cuore umano dovrebbe, nella
giovinezza e nella vecchiaia, nelle ore liete e nelle ore buie,
dirigersi, come soddisfacendo ad un bisogno primitivo, verso Dio. Ma
avviene veramente così, nella realtà dei fatti?
Nel nostro cuore regna la legge primordiale del nostro
essere, espressa dalle indimenticabili parole di sant'Agostino:
"Perché ci hai creati per tè, o Signore, ed inquieto è il cuor
nostro, finché non riposa in tè" [Confessioni 1, 1).
Ma in questo stesso
62
cuore si erge anche la contraddizione; la volontà del l'uomo
che non vuole essere creato; che non vuole accettarsi come proveniente
dalla mano di Dio. Egli preferisce considerarsi proveniente dagli abissi
primordiali della muta natura, dalla vita animale, piuttosto che dover
riconoscere di essere debitore nei confronti di Dio della sua sostanza,
della sua anima, della sua personalità. Tale volontà può divenire
tanto fgrte_da imporre il silenzio a quella santa legge primordiale
di cui parlavamo sopra. Questa volontà può anzi indurirsi in
odio contro Dio. La nostra epoca rappresenta, nel corso dell'intera
storia, proprio l'ora in cui questo processo, che è sinora maturato
nelle sue nascoste profondità, mette da parte ogni pudore ed avanza in
primo piano, nella luce più cruda, concretandosi in parole e fatti.
Certamente. Dio è il bene. Quando vi riflettiamo i
più profondamente, noi vediamo che, in fondo, 've- i, rità', 'giustizia',
'amore', 'purezza' non sono se non ;
nomi che servono ad indicare Dio. Il procedimento i del
pensiero distacca, per così dire, questi nomi da Dio e da loro uno
sviluppo indipendente, come valori morali, nella costruzione dell'etica.
Ma si tratta di astrazioni. Se noi ci chiediamo, infatti: che cos'è la
'giustizia', dov'è che essa esiste allo stato puro, in assoluto? — la
risposta ultima e .definitiva sarà la seguente: In lui, in Dio. 'Bontà',
'purezza', 'pace' non sono che il risultato di una decomposizione
operata dal pensiero. Allo stesso modo che la ;
luce del sole viene decomposta da un prisma nei •
colori dello spettro, così, mediante la forza discrimi- i nante del
pensiero, la pienezza infinitamente ricca e ' perfettamente semplice di
Dio si scompone in tutti , questi valori. Invero il nostro cuore
dovrebbe com- '•
65
muoversi di fronte ad un tale splendore, al sapere che
esiste un Essere nel quale il compendio di tutto ciò che ha valore è
un'eterna realtà. Ma
l'uomo si affatica, senza posa, a separare le norme morali, i
valori dell'esistenza — l'unica sorgente, cioè, della nobiltà e
della felicità —, da Dio. Si sforza costantemente d'introdurli entro
l'immanenza di questo mondo; di ridurli ad elementi della società e
della psicologia e di altre cose di questo genere.
Quando noi conosciamo un uomo e ci viene chiesto: Com'è
quest'uomo? — tutte le risposte che possono caratterizzarlo ci vengono
alla mente: egli è duro o benigno, giusto o geloso, diffidente o aperto
e così via. Ma, al di là di tutte queste definizioni, noi sentiamo che
ne esiste ancora un'altra, la quale, tuttavia, non può essere tradotta
in parole: quell'uomo è se stesso, è 'lui'; ed è a questo proposito
che un'antica sentenza dice: "L'individuo è inesprimibile".
La sfumatura unica e specifica che caratterizza il suo essere, il suono
delle sue parole, il carattere della sua esistenza non possono essere
resi da alcun concetto. Questa unicità e specificità esiste anche
in Dio. Essa si chiama santità. Tutte le volte che noi entriamo in
contatto col sacro, con ciò che ispira al cuore la riverenza e la calma
suprema, noi avvertiamo la presenza di Dio.
\ II nostro cuore, con tutto ciò che esso ha di
più 1 intimo e profondo, dovrebbe pertanto stare come in agguato per
spiare attentamente tutto ciò che può rivelare la sua presenza. Ma lo
fa veramente? Non passano i giorni, uno dopo l'altro, senza che noi
neppure pensiamo a lui? Anzi, non avviene proprio il contrario? Non ha
detto un uomo, che pure passa
64
per un grande pensatore ed un grande scrittore, (
Friedrich Nietzsche: "Dio non si confa ai miei j gusti"?
Prendiamo bene coscienza di questa terri- ;
bile frase! E quell'ateismo, che oggi riempie il mondo,
non è certamente il prodotto di qualche resto degenerato di popoli
condannati a scomparire; al contrario, è l'Europa cristiana che lo ha
inventato. Questa selvaggia volontà nemica di Dio è nata in mezzo a
popoli cristiani.
In verità: Dio può essere odiato. Anzi, egli può essere
persino perseguitato. Si può fare il tentativo di estirpare dal
mondo lui e tutto ciò che gli appartiene; è proprio quello che avviene
oggi vicino a noi, in mezzo a noi. Dovunque è possibile, oggi,
incontrare j questo misterioso, incomprensibile odio della crea-.;
tura contro colui grazie al quale è, respira e pensa, i
odio che giunge sino ad affermare: "O lui o io!".
Quando, dunque, questo Dio entra, incarnandosi,
addirittura nella storia; quando noi ci troviamo di fronte ad un
essere nel quale Dio si rivela, in forma umana — poiché questo è il
significato dell'incarnazione, come dice Giovanni: "Nessuno ha mai
visto Dio" (nella sua realtà); "il Figlio unigenito, che è
nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (1, 18); quando
quest'essere si trova qui, in mezzo agli uomini, e Dio irradia dal suo
volto ed egli rivela coi suoi atti l'intima disposizione del cuore del
Santissimo — allora tutto ciò che nel cuore umano può ergersi
contro Dio deve aumentare ancora in violenza ed intensità!
Ed è proprio questo che è avvenuto. Gli uomini hanno
potuto fare l'esperienza della sua divina natura. Essi non hanno potuto
dire che gli mancasse
65
la piena autorità inferiore, non hanno potuto
constatare la sua impoten2a nei confronti della natura muta. Al
contrario. Essi erano sbalorditi, sconvolti a causa del suo potere; come
dice l'espressione greca, essi perdevano la loro tranquillità di
spirito, venivano "scagliati fuori" da un simile stato
d'animo, di fronte a ciò che avveniva davanti ai loro occhi. Non
potevano neppure dubitare del suo disinteresse, della sua purezza, della
sua giustizia. Al contrario, egli poteva persino sfidare i suoi nemici:
"Chi di voi mi convincerà di peccato?" [Io. 8, 46).
Riflettiamo per un solo istante, supponiamo che noi ci trovassimo in
mezzo a delle persone ostili e che parlassimo loro in questo modo. Una
risata di scherno sarebbe la loro risposta. Egli lo fa e nessuno osa
contraddirlo. E, ciononostante, tutto questo odio!
Noi abbiamo già parlato di ciò che è tipico e
specifico in Dio, inaccessibile e contemporaneamente prezioso, come
null'altro può esserlo: della santità. Nel Vangelo secondo san Luca,
viene narrato un avvenimento che ci rivela molte cose a questo
proposito. Il quarto capitolo ci racconta che Gesù va nella sinagoga e
compie un atto che allora qualsiasi ebreo adulto poteva compiere: egli
si fa dare il rotolo della Sacra Scrittura, legge nel profeta Isaia il
passo che parla del Messia ed infine dice che quella profezia si è
realizzata nella sua persona (14 ss.). Ci par quasi di sentire il
silenzio che di colpo si fa nella sala, i respiri trattenuti. Egli
incomincia a spiegare il testo in questione e tutti restano sbalorditi
dalle sue parole, piene di grazia, che commuovono il cuore con la loro
santa potenza. Ma poi egli dice qualcosa che non piace agli ascoltatori;
essi si indignano e lo cacciano fuori della città, fino allo strapiombo
su cui
66
essa sorge, per precipitarvelo giù. Che cosa è dunque
successo? Da principio tutti gli rendono testimonianza: certamente,
dalla sua persona emana un qualche cosa che soltanto la parola 'santo'
può definire, davanti al quale l'anima si inchina reverente. Poi egli
dice delle parole che essi non gradiscono ed una chiara e decisa
volontà di uccidere si impadronisce di quelle stesse persone!
Cristo s ta nel mondo quale vivente testimonianza di
Dio; quale sua epifania; Dio è tale quale è Cristo. L'uomo può
accettare questa testimonianza, ma può anche rifiutarla; può amare
o può restare freddo ed indifferente; può anche arrivare ad odiare.
Ogni uomo può fare una cosa simile, anche noi. .
.Diciamolo pure, ognuno di noi: anch'io. Ognuno di noi ha già provato,
almeno una volta, i prodromi dell'odio: l'imbarazzo che si prova quando
si deve professare la fede in lui; il malessere, l'irritazione la
resistenza che si risvegliano di fronte alla figura o alle parole di
Cristo. Nessuno sa quando questi sentimenti possono anche
trasformarsi in odio. Noi vediamo infatti che metà del mondo ne è già
stata sommersa.
A questo punto forse qualcuno ci risponderà: in che
modo debbo incominciare per arrivare ad amare il Cristo?
Per prima cosa noi vogliamo chiarire un fatto
importante: _per sua essenza l'amore è sempre lo stesso. Esso
significa che l'uomo vuoi partecipare a Cristo ed è pronto a
staccarsi da se stesso per andare verso di lui; a volere non quello che
la sua volontà vuole, ma quello che Cristo vuole. Come poi tale j
amore, unico nella sua essenza, si esprima sotto il !
67
I
profilo psicologico, dipende dai singoli cristiani; esistono altrettante
espressioni psicologiche di questo , amore quanti sono gli uomini.
Alcuni vengono toccati dall'amore per Cristo in un momento preciso e
determinato — pensiamo a Paolo sulla via di Damasco — e da quel
momento in poi egli resta presente nella loro coscienza come la norma e
la misura
; - di ogni cosa. Per altri, Cristo non rappresenta
inizialmente nulla; ma dopo un primo incontro con lui, che può esser
fatto per il tramite di una persona o di un libro, egli incomincia a
crescere, insensibilmente, di forza e di significato e diviene infine
il centro di tutta l'esistenza. L'amore può essere una passione
ardente, ma anche una quieta gravita, uno sforzo tranquillo. Per alcuni
l'amore si esprime nella predicazione e nella lotta; per altri
nell'attività della vita quotidiana; nel fatto che essi lavorano,
invece di divertirsi, prestano soccorso al prossimo, invece di
conservare egoisticamente il loro denaro, resistono ad una tentazione,
invece di cedere ad essa. L'amore ha tanti modi di esprimersi,
come del resto l'odio, quanti sono gli uomini. Ma esso significa sempre
che Cristo è importante, anzi, quanto esiste di più importante.
Egli diviene la base e la norma della vita ed ogni azione viene
compiuta "per amor suo".
Colui al quale sia stato donato il colpo di folgore, la
grande passione, deve essere riconoscente per_qye-stq dono, deve cercare
di non perderlo e di farlo
p. fruttificare.^ Ma chi nulla sappia di simili
esperienze eccezionali, deve incominciare dalla serietà della vita
quotidiana; leggere ciò che concerne Cristo; prenderlo per
soggetto di meditazione; cercare di capire che cosa egli vuole;
accettare una sofferenza come un modo di partecipare alle sue
sofferenze. E tutto
Z.Q .;. I
,1. ^..), <• 'j,L. ...£• '^——•À'
•
questo non in maniera astratta; in generale, ma
concretamente: ora, qui, in questa situazione, attraverso J/opera mia^
In tal modo egli può avere la fiducia che qualcosa, lentamente, cresce
in lui. Qualcosa di tranquillo, di chiaro, di serio, di consolante.
Forse, un giorno, Cristo concederà anche la grazia di
provare, con un sentimento concreto, che cosa voglia dire: amare lui.
Ma è questa una grazia che dipende soltanto dal suo imperscrutabile
giudizio. La prima cosa e la più importante consiste nel prestare
ascolto alle sue parole e nell'agire di conseguenza.
69
L'EPIFANIA DEL PADRE IN CRISTO
Nei suoi discorsi dell'addio Gesù dice: « 'Io sono la
via, la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non per mezzo mio.
Se avete conosciuto me conoscerete anche il Padre mio. Da questo momento
lo conoscete -e lo avete veduto'.
Filippo gli dice: 'Signore, mostraci il Padre e ci
basta'. Gli dice Gesù: 'Da tanto tempo sono con voi e non mi hai
conosciuto, Filippo? Chi ha veduto me ha veduto il Padre; come puoi
dire: mostraci il Padre? Non credi tu che io sono nel Padre e il Padre
è in me?' » (Io. 14, 6-10).
Quali misteriose parole! Chi vede Cristo vede il Padre.
Qual è il loro significato? Si potrebbe subito pensare che esse siano
da intendersi in un senso traslato, come se Gesù avesse detto ai suoi
discepoli:
Io sono stato con voi e vi ho annunciato il Padre;
voi dovreste sapere, pertanto, chi egli sia. In effetti
egli ha sempre parlato del Padre, sia in parabole, sia in parole chiare.
Pensiamo ad esempio al Discorso della Montagna nel quale Gesù ha
manifestato il suo messaggio relativamente alla divina provvidenza,
dicendo che l'uomo può abbandonarsi con tanta fiducia alla bontà del
Padre da arrivare ad essere liberato dal peso delle preoccupazioni
terrene e da vivere nella fiducia. Oppure ad un altro punto dello stesso
discorso dove egli dice che chi vuoi essere veramente
70
religioso non deve mettere in bella mostra la sua pietà
di fronte agli uomini, affinchè essi lo ammirino, ma deve bensì
pregare nel silenzio della propria stanza. Al che seguono le belle
parole: "E il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà"
(Mt. 6, 6).
In Matteo, nello stesso Discorso della Montagna si trova
anche la preghiera al Padre, il Poter Nosfer. In questa preghiera
l'immagine di Dio si presenta in modo molto netto davanti ai nostri
occhi, come il risultato delle sue stesse parole: e cioè l'immagine di
colui che è il rè del regno celeste; che porta il nome di santo, da il
pane quotidiano, perdona i peccati e libera dal male.
Ma chi abbia una certa familiarità con la Sacra
Scrittura vede subito che qui non è possibile di dare una simile
interpretazione. Se Cristo avesse voluto dire: voi avete appreso dalle
mie parole chi sia il Padre, egli avrebbe detto questo in maniera
esplicita. Qui, invece, egli dice: "Chi vede me, vede il
Padre". Noi dobbiamo pertanto sbarazzarci del nostro razionalismo,
il quale non riesce mai a lavorare che con dei concetti. Qui si tratta
di 'vedere'. E noi dobbiamo qui ricordarci che Giovanni — a differenza
di Paolo, per esempio — era un uomo che aveva veduto con i suoi occhi
Cristo; e che nel suo messaggio il pensiero dell'epifania gioca una
parte molto importante.
'Epifania' vuoi dire che qualche cosa 'appare',
risplende in una forma vivente e concreta. Nel prologo del Vangelo di
san Giovanni troviamo la frase seguente: "E noi abbiamo contemplato
la sua gloria, gloria che come unigenito ha dal Padre" (1, 14). Noi
non abbiamo solo pensato questa 'gloria', non l'ab-
71
biamo soltanto sentita, ma l'abbiamo contemplata con i
nostri occhi. Nella persona umana di Gesù, di fronte agli occhi degli
Apostoli è brillato qualcosa che era al di sopra della natura umana.
Che nella persona del Signore si manifesti ciò che di per se stesso non
può essere contemplato, in quanto esso è nascosto nel mistero di Dio
— è questo che si intende con la parola 'epifania'.
Esiste un corrispondente di ciò anche nella sfera delle
cose umane. L'anima, di per se stessa, non può esser vista poiché essa
è spirito. Ma quando una persona umana si rivolge verso un'altra
persona umana nell'amore, questa riesce a vedere l'anima nel volto che
ha di fronte. Non soltanto la pensa; non soltanto deduce la sua
esistenza a partire dalla propria esperienza inferiore, ma la vede.
Anzi, si potrebbe quasi dire che in un tale momento l'anima amante è la
prima cosa che può essere veduta, e solo in essa il corpo.
Il Vangelo ci dice dunque: nella figura umana di Gesù
di Nazareth, colui che fosse illuminato dalla grazia della fede poteva
contemplare il Figlio di Dio, l'eterno Logos. Ora, nella prima
lettera di san Giovanni, questo messaggio ricorre con maggior
insistenza. In questa lettera sta scritto: "Ciò che era da
principio, ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto con gli occhi
nostri, ciò che contemplammo e le mani nostre toccarono intorno al
Verbo della vita...". Tutti i sensi sono svegli, ma trasformati
nella fede, in modo che essi possono cogliere meglio e di più dei puri
organi naturali. Ma affinchè il lettore non scivoli senza arrestarsi
sulla grandezza del messaggio, subito dopo si dice ancora: "Sì, la
vita
72
si manifestò e noi abbiamo veduto e testimoniamo ed
annunziamo... ciò che abbiamo veduto ed udito, lo annunziamo anche a
voi" (1 Io. 1, 1-3). Noi avvertiamo tutta la forza incisiva
di queste parole. Colui che con un cuore pronto e ben disposto
incontrava Gesù e credeva, contemplava in lui l'eterno Figlio.
Ora il Signore dice: "Chi vede me, vede il
Padre". Che cosa significano queste parole?
Accade anche nella realtà umana di tutti i giorni che
si dica a proposito di una persona: Ma quello è tutto suo padre! La
somiglianzà è così grande che nel volto di questa persona può
esserne ravvisato un altro, quello del padre. Può anzi avvenire che un
figlio riveli apertamente ciò che nel padre era nascosto; ciò che
costui aveva di migliore o di peggiore — per la gioia o per il
disonore. Ed ora il Vangelo ci dice: dal momento in cui tu riesci a
vedere, nella maniera giusta, in Gesù il suo carattere di figlio, tu
vedi con ciò anche il Padre suo.
Se qualcuno domandasse qual è il tratto che esprime
ciò che la personalità di Gesù ha di più intimo, bisognerebbe
rispondere: il suo carattere di figlio. Figliolanza divina, certo, ma
figliolanza reale. Gesù è totalmente ed integralmente figlio. Egli sta
con assoluta purezza in questo suo atteggiamento filiale. Noi non
potremmo mai, dopo aver letto il Vangelo,, rivolgerci a Gesù dicendogli
Padre nostro; le stesse parole nostre si rifiuterebbero di farlo.
Quando noi lo invochiamo lo chiamiamo 'Redentore', 'Maestro', 'Signore'
e forse, in un momento di maggior confidenza, 'Fratello'. È stato per
l'appunto Paolo che ha aperto le nostre labbra a questa espressione,
quan-
75
do egli
ha chiamato Gesù "il primogenito tra un gran numero di
fratelli" (Rom. 8, 29). Noi non arriviamo mai, però, a
chiamarlo 'Padre'. Se una denominazione simile si incontra in un testo
religioso, ciò è dovuto ad un particolare motivo oppure si tratta di
un'inavvertenza. Gesù è Figlio nel suo atteggiamento, nelle sue
parole, nel suo pensiero, in tutta l'intima disposizione del suo cuore.
Ma dove vi è un figlio, esiste anche un padre. Pensiamo
a quell'atteggiamento nel quale si esprime più fortemente il carattere
di Figlio in Gesù: la sua ubbidienza. Proprio nel Vangelo di san
Giovanni incontriamo continuamente l'espressione sulla "volontà
del Padre" e sull'ubbidienza di Gesù. Ad esempio, il Signore dice:
"II Figlio da sé non può far nulla, ma soltanto ciò che vede
fare al Padre" (5, 19). Oppure: "Io non cerco la mia volontà,
ma la volontà di colui che mi ha mandato" (5, 30). Od ancora:
"II mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato"
(4, 34). Ci troviamo di fronte all'espressione di una ubbidienza che
corrisponde alla volontà più profonda dell'essere, che costituisce una
necessità vitale assoluta. Nell'ora del Getsemani, egli dice:
"Padre mio... però non come voglio io, ma come tu
vuoi" (Mt. 26, 39). E le ultime parole che egli dice, sono:
"Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio" (Le. 23, 46).
Questo suo carattere di Figlio è così vivente che noi
ci chiediamo, involontariamente: ma qual mai padre è questo perché uno
possa essere suo figlio a questo modo? Come deve essere potente colui
che •ordina perché una simile ubbidienza sia possibile!
E tuttavia non si è ancora detto abbastanza. In
74
Gesù non si trova nulla che faccia pensare che egli sia
prigioniero di questa sua condizione di figlio, fino al punto di
rinunziare e di perdere la sua personalità. Niente di quella
deplorevole atrofia della vita che si riscontra in colui il quale,
sottomesso alla strapotenza di una personalità paterna troppo forte,
non è riuscito ad arrivare psicologicamente alla sua maggiore età ed
è rimasto infantile. In tutto l'essere ed in ogni atteggiamento di
Gesù noi ci troviamo di fronte ad una meravigliosa libertà; ad una
tranquilla padronanza di sé, che obbedisce proprio perché nel far ciò
essa si sente completamente sicura di se stessa. Come deve essere stato
degno di reverenza il comandamento paterno! Quale ampiezza, quale
elevatezza dovevano caratterizzarlo! Come deve essere stata preziosa
questa volontà paterna perché colui che noi chiamiamo Gesù possa dire
che il compimento di questa volontà sia per lui cibo e bevanda! E come
deve esser vicino questo padre perché siano possibili una tale
intimità ed un simile comune accordo!
Ci troviamo qui di fronte ad una ubbidienza di grandezza
pari alla grandezza del comandamento. Gesù l'ha espressa con queste
parole, piene della divina coscienza che egli aveva di se stesso:
"Poiché quanto questi (il Padre) fa, il Figlio slmilmente lo
fa" (Io. 5, 19).
Alla fine del prologo del Vangelo di san Giovanni,
stanno queste parole: "Nessuno ha mai visto Dio;
il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui ha
rivelato" (1, 18). Quale intima vicinanza si trova in questa frase
che riprende ed approfondisce quella che si trova all'inizio dello
stesso prologo: "In principio era il Verbo, ed il Verbo era presso
Dio, ed il
75
Verbo era Dio" (1, 1). Le parole che Gesù ha
pronunziate prima della sua fine vi appongono una specie di sigillo:
"Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio" (Le. 23,
46). Questa intimità filiale era in Gesù ed ha fatto sentire il Padre
anche là dove egli non parlava espressamente di lui.
Nella misura in cui Cristo ci si manifesta, anche il
Padre suo ci viene incontro, come dice questa frase del discorso
dell'addio: "Chi ha veduto me, ha veduto il Padre". Certo, non
è questo un risultato che si ottiene mediante una sottile psicologia ma
mediante quella intima dimestichezza e familiarità che si raggiunge
soltanto con la preghiera.
76
MEDITAZIONI SUI TESTI DELLA PRIMA LETTERA DI SAN
GIOVANNI
AVVERTENZA
Non si deve certamente stabilire un ordine di valore fra
i testi della Sacra Scrittura, voler distinguere, cioè, ciò che in
essa vi è di importante o di secondario, di bello o di poco
appariscente. Quale che sia il modo in cui le sue singole parti sono
state composte, esse costituiscono sempre un tutto organico: la parola
scritta- di Dio. Tuttavia è certamente consentito di nominare con una
particolare venerazione certi libri o alcuni brani di essi: ad esempio i
tré primi capitoli della Genesi, in quanto essi rappresentano il
documento fondamentale nel quale si esprime il pensiero, l'intenzione di
Dio relativamente alla esistenza umana; oppure il Pafer Nosfer,
preghiera che rivela chiaramente il volto del Padre;
oppure ancora la lettera ai Romani, messaggio della
Redenzione annunziato con tutta la serietà dell'apostolo. Se, sulla
base di questo criterio, dunque, ci si chiede quale sia il testo della
Sacra Scrittura che unisce in un modo tutto particolare la profondità e
l'intimità, si potrebbe rispondere: la prima lettera dell'apostolo
Giovanni. Essa è il frutto di lunghi decenni trascorsi nella preghiera
e nella meditazione sul ricordo del Maestro; ed ivi parla la voce di un
uomo che la tradizione cristiana ha chiamato il 'Veggente' e che,
durante l'ultima sera, riposò sul petto di Gesù.
Questa lettera è breve ma di una prodigiosa ric-
79
chezza. Di tutta questa ricchezza le meditazioni che
seguono vogliono mettere in risalto e commentare soltanto alcune parole,
nella speranza che poi lo stesso lettore vorrà leggersi l'intero testo.
Egli vi troverà un vivente profitto, soprattutto se vorrà tenere in
considerazione quello che questa nostra prima meditazione cerca di dire
a proposito della mentalità che informa questa lettera.
80
EPIFANIA
La prima lettera dell'apostolo Giovanni venne scritta
verso la fine del primo secolo; non è però possibile fissarne la data
con esattezza. Essa non è diretta ad un gruppo ben precisato di
destinatari, come lo è ad esempio la lettera che Paolo scrisse alla
comunità cristiana di Roma; fa parte, pertanto, delle lettere
"cattoliche, dirette ad un uditorio universale" di cristiani;
nel caso in questione i cristiani dell'Asia minore.
Questa lettera non è molto lunga. L'intero testo, nella
sua ripartizione attuale, comprende soltanto cinque capitoli; ma esso è
ricco di verità vivente. In qualsiasi punto lo si apra, si incontra
sempre una parola che commuove ed arricchisce. Ma proprio per questa
ragione la lettera deve essere letta in un modo tale che consenta ai
pensieri che essa contiene di imprimersi bene nello spirito e nel cuore
e di esercitare così tutto il loro effetto. In fondo, non può avvenire
diversamente perché essa si esprime in un modo tutto particolare.
Ordinariamente, una successione di pensieri si muove e si sviluppa in
modo tale che ogni frase non è che la conclusione della precedente e
prepara quella che segue immediatamente;
di conseguenza, una linea precisa e chiara serve di
guida per tutto l'insieme. Qui, al contrario, si avvertono continuamente
come delle lacune; ci si chiede come mai un certo pensiero possa venire
dopo un
81
altro che lo precede immediatamente; è necessario
pertanto ricucire il contesto mediante delle, frasi intercalate. Alla
fine diviene chiaro che ci si trova davanti ad una unità di un genere
particolare: quello della contemplazione. Un pensiero emerge dalla
profondità Ulteriore, si sviluppa brevemente e poi ricade, mentre se ne
innalza un altro. Così essi si susseguono come le onde di un movimento
spirituale e se il lettore vuole leggere come si conviene deve seguire
questo movimento, con attenzione, lasciandosi trasportare da ogni sua
onda. Se ci è permesso di servirci di questa immagine, noi non ci
troviamo qui di fronte ad un fiume che muove seguendo la dirczione del
suo letto, ma di fronte ad un mare i cui movimenti provengono dalla
profondità per ritornarvi nuovamente.
L'apostolo che è stato l'autore di questa lettera è
divenuto molto caro al cuore della cristianità; specialmente il
medioevo ha avuto per lui una predilezione particolare. Ma questa
predilezione — come ci è chiaramente rivelato dalle arti figurative
— ha fatto subire una strana sorte alla sua immagine. Essa è stata
infatti ritratta tenendo conto soltanto di alcuni particolari elementi,
non di tutti, che fanno parte della natura e della personalità di san
Giovanni.
Innanzi tutto si è visto in lui un adolescente. Ora,
quando Giovanni incontrò il Signore, lo era effettivamente. Era infatti
il più giovane di tutti gli apostoli. La sua natura aveva anche
qualcosa di impetuoso, che si drizzava arditamente; non è senza ragione
che gli è stata attribuita l'aquila come simbolo. Ma tutto questo non
deve farci dimenticare che lo stesso Giovanni è stato proprio quello,
di tutti gli apostoli,
82
che ha raggiunto l'età più tarda e che i suoi scritti,
quelli che appunto ci trasmettono la sua immagine spirituale, sono stati
composti negli ultimi anni della sua vita. E se noi li leggiamo con
attenzione, vedremo anche che la maniera in cui egli disegna la figura
del suo Maestro e ci riproduce il suo messaggio è contraddistinta da
una specie di sguardo retrospettivo diretto verso un lontano passato, da
un lungo commercio intcriore con lo stesso Maestro e da una meditazione
profonda e penetrante.
Un secondo elemento della personalità di Giovanni ha
giocato in modo decisivo nella costruzione della sua immagine
tradizionale: si è visto in lui il "discepolo dell'amore", il
"discepolo prediletto". Ma si è data qui al concetto
dell'amore una implicazione sentimentale e si è trasformata, di
conseguenza, la figura dell'apostolo in quella personalità
dell'intimità tenera che noi incontriamo per lo più nelle
raffigurazioni dell'arte. Ciò però non rende giustizia alla sua vera
natura, in quanto Giovanni era un uomo di fuoco, che all'occorrenza
poteva essere anche molto duro. Date le predisposizioni del suo
temperamento, egli avrebbe potuto diventare un fanatico; parecchi passi
dei quattro Vangeli stanno ad indicare ciò. Pensiamo soltanto al
racconto del viaggio di Gesù con i suoi discepoli attraverso la Samaria
che si trova nel Vangelo di san Luca (9, 51 ss.).
Fra gli abitanti della Samaria e quelli della Giudea
esisteva una antica inimicizia. Questa inimicizia poteva divenire così
intollerante da far sì che in certi casi si ricusasse l'ospitalità al
viaggiatore che attraverso la Samaria si recava nella Giudea. E, di
fatto, una località che essi incontrano sulla loro strada
83
non vuole accogliere il Signore. Di fronte a ciò,
Giacomo e Giovanni esclamano: "Signore, vuoi che ordiniamo al fuoco
di discendere dal cielo e di distruggerli?". Queste parole non
hanno certamente l'accento di un tenero amore. Ma, prosegue il racconto,
Gesù "voltosi a loro, li rimproverò"; e secondo una
differente versione dello stesso testo, egli avrebbe aggiunto: "Voi
non sapete di quale spirito siate!". Se Giovanni non si fosse messo
alla scuola di Gesù, il 'suo spirito' avrebbe potuto fare di lui un
essere molto differente da un 'discepolo dell'amore'. Ma noi vedremo
ancora che cosa significhi in realtà il suo messaggio sull'amore.
La lettera in questione inizia così: "Ciò che era
da principio, ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto con gli
occhi nostri, ciò che contemplammo e le mani nostre toccarono intorno
al Verbo della vita — sì, la vita si manifestò e noi abbiamo veduto
e testimoniarne e annunziamo a voi quella vita eterna che era presso il
Padre e si manifestò a noi — ciò che abbiamo veduto e udito lo
annunziamo anche a voi..." (1, 1-3).
Quando leggiamo queste parole, ci sentiamo subito
ricondotti a quelle altre che si trovano all'inizio del Vangelo dello
stesso apostolo: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso
Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio". Ed alla
fine del prologo si legge: "Nessuno ha mai visto Dio; il Figlio
unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (1, 1-2.
18).
La parola "principio" non significa qui un
determinato momento del tempo nel quale una cosa abbia avuto inizio,
bensì l'essere originario, il modo in cui
84
Dio vive, sottratto al divenire ed alla morte,
l'eternità. In questa eternità era il "Verbo" e questo Verbo
"era presso Dio" ed egli [stesso] "era Dio". Ma alla
fine la denominazione "Verbo" — Logos in greco —
trapassa in quella di "Figlio"; 1' "essere presso
Dio" oppure "rivolto verso Dio" si approfondisce in
questa intima espressione: "Egli era nel seno, sul cuore del
Padre". Noi pensiamo istintivamente a quel punto del Vangelo dove
ci si racconta che durante l'ultima Cena "uno dei discepoli —
quello che Gesù amava [particolarmente] — era adagiato a mensa sul
seno di Gesà" (15, 23) e sentiamo qui donde sia venuta
all'apostolo l'esperienza di ciò che significa la prossimità divina.
Queste frasi parlano del mistero della vita intima di
Dio. Con quella discrezione appresa alla scuola dell'Antico Testamento,
esse stabiliscono una distinzione nell'unicità di Dio, che nulla
tollera accanto a sé. Giovanni chiama ciò che viene distinto il
"Verbo", il Logos; e con ciò si delinea anche colui
che pronuncia il Verbo, la parola. Diremo dunque:
il Dio pronunciato ed il Dio che pronunzia. Ma alla fine
Giovanni chiama il primo "Figlio" ed il secondo
"Padre". E là dove al principio egli ha detto: "II Verbo
era presso Dio (colui che pronuncia)", qui dice: "II Figlio
era nel seno del Padre".
È un sublime mistero quello nel quale ci viene qui
concesso di gettare uno sguardo; il mistero più sublime di tutti. Noi
non dobiamo parlarne legger-mente ne avere la presunzione di poterlo
spiegare con umane parole. Cerchiamo piuttosto, con somma riverenza, di
avvicinarci un poco al significato di queste frasi.
85
Dio è l'Uno e l'Unico. Non può esistere alcun altro
Dio accanto a lui. Quando noi parliamo di Dio, è assolutamente privo di
senso il parlare di 'un altro', poiché Dio significa essenzialmente 'unicità',
'lui solo'. Continuamente e con una inesorabile severità l'Antico
Testamento ha impresso negli spiriti questa fondamentale verità che sta
alla base di ogni fede. Ma Dio non è solitario. In lui, che non ha chi
possa somigliargli, ci sono un 'io' e un 'tu'. Come ciò possa avvenire
è cosa che oltrepassa la nostra comprensione. Ed a tal fine non possono
aiutarci ne immagini ne paragoni tratti dalla vita creata. Essi
costituiscono soltanto degli accenni, delle semplici indicazioni, che
bisogna accettare con molta precauzione, per tema che nascondano la
verità invece di rivelarla. La parola di Dio ci dice che in lui vi sono
un 'io' ed un 'tu' e l'intimità di una pura comunione. Essa chiama
questa sacra realtà il "Padre" ed il "Figlio" e noi
ripetiamo le sue parole, nella riverenza della fede, cercando di intuire
ciò che esse possono significare.
Il prologo del Vangelo di san Giovanni parla soltanto
del Padre e del Figlio. Su ciò che avviene nella profondità della loro
comunione gettano invece uno sprazzo di luce i discorsi dell'addio,
contenuti nello stesso Vangelo, là dove si parla dello Spirito Santo
che "sarà inviato" "dal Padre, nel nome di Gesù" e
dallo stesso Gesù "da parte del Padre" (Io. 14, 16;
16, 7). Ma ciò che questo Spirito compie in Dio noi possiamo presagirlo
dalla sua azione nell'uomo, nell'avvenimento della Pentecoste. Qui egli
fa sì che il credente prenda coscienza del Cristo che è in lui, che si
realizzi quel mistero di cui parla san Paolo: "E non più io vivo,
ma Cristo vive in
86
me" [Gai. 2, 20); e che proprio con ciò,
così possiamo aggiungere noi, il cristiano diventi realmente se stesso,
colui che Dio ha voluto. Da questa azione dello Spirito nell'uomo noi
possiamo avere come un'intuizione della sua azione in Dio stesso. Egli
è quel santo e vivente che fa sì che per l'esistenza del Figlio il
Padre divenga Padre e che per l'esistenza del Padre il Figlio divenga
Figlio; che essi abbiano una comunione che esclude la confusione ed una
sussistenza personale propria senza rottura dell'unità.
Ed ora san Giovanni prosegue: di là è venuto a noi
colui che si chiama "Verbo" e "Figlio". Egli è
colui che "è venuto nel mondo", che "è venuto nella sua
casa" (Io. 1, 9-11). Ciò significa: egli non era soltanto
nel mondo in quanto è colui "per mezzo del quale tutte le cose
furono fatte", e cioè come creatore. Il terzo versetto del prologo
ha già detto questo di lui; ma qui viene rivelata un'altra realtà:
egli è "venuto" in questo mondo creato da lui; e vi è venuto
in un modo espresso. Il modo di quella sua prima presenza nel mondo
trascende la storia, appartiene alla sua essenza. Questo secondo modo è
storico, realizzato liberamente quando, "il tempo fu compiuto"
ed egli si incarnò, "si fece carne" (Afe. 1, 16; Io.
1, 14).
Se noi potessimo far sì che le parole mediante le quali
esprimiamo il più sacro dei misteri divenissero nuove! Noi abbiamo sì
a disposizione alcune parole, ma esse sono divenute spuntate e
polverose. Se potessimo trovarne delle nuove, affilate e terse, capaci
di esprimere con forza questa realtà immensa: colui che risiede
"nel principio", nell'eternità, è entrato nel tempo, si è
fatto "carne", uomo, membro della
87
nostra storia! S'è fatto nostro fratello, come dice
Paolo. Ma fratello non a motivo della vecchia e decaduta successione
delle generazioni, ma per una nuova, che procede da una nuova nascita e
che lo fa pertanto "il primogenito tra un gran numero di
fratelli" (Rom. 8, 29). Venuto per non andarsene via mai
più;
venuto in mezzo a noi per restar nostro per sempre.
Fanno poi seguito tuttavia strane frasi. Affinchè noi
possiamo rendercele vicine e familiari, chiameremo in nostro aiuto un
pensiero che ci è già stato parecchie volte di aiuto. Bisogna che
Giovanni abbia fatto una esperienza che lo ha toccato sin nella parte
più profonda del suo essere. Nel primo capitolo del suo Vangelo, egli
racconta i primi incontri dei discepoli con Gesù: "L'indomani,
Giovanni [il Battista], stava ancora là con due dei suoi discepoli e,
fissando Gesù che passava, disse: 'Ecco l'agnello di Dio!' — un
concetto dell'Antico Testamento che indica la vittima offerta in
espiazione dei peccati —". I due discepoli, sentendolo parlare
così, seguirono Gesù. Gesù si voltò, vide che lo seguivano e dice
loro: 'Che cosa cercate?'. E quelli gli dissero: 'Rab-bi... dove
abiti?'. Dice loro: 'Venite e vedrete'. Andarono dunque a vedere dove
abitava e rimasero presso di lui quel giorno. Era circa l'ora decima »
(35-39).
Bisogna che Giovanni abbia fatto, in questa occasione,
una esperienza che non si è più cancellata dal suo cuore. Quello
ch'egli ha visto è una figura umana; un uomo che camminava per la
strada, che ha rivolto loro la parola ed insieme col quale essi hanno
seduto nella casa. Ma in quest'uomo qualcosa lo ha colpito, che andava
oltre la semplice natura umana.
88
Una luce gli è penetrata nello spirito, una prossimità
ha toccato il suo cuore, ad esprimere le quali egli non poteva trovare
parole adatte. Nell'Antico Testamento non si trovava nulla di simile; e
non dimentichiamo anche che tutto questo è avvenuto prima della
Pentecoste, prima cioè che lo Spirito Santo infondesse la capacità di
intendere il nuovo messaggio e ponesse la lingua umana in grado di
poterlo esprimere. Se qualcuno, dopo questo incontro, gli avesse chiesto
le sue impressioni, Giovanni, forse, avrebbe risposto: Non so che cosa
fosse con precisione; ma so che io voglio continuare ad essere dove si
può provare una cosa simile. Durante le quotidiane relazioni che egli
in seguito ebbe con Gesù, attraverso le cose che egli poteva vedere ed
udire ogni giorno ed attraverso la commozione che da esse derivava,
questa prima impressione si è in seguito costantemente approfondita e
quando, quasi ses-santanni dopo, l'apostolo, diventato ormai un
vegliardo, scrive la sua lettera, egli dice: "Ciò che abbiamo
veduto con gli occhi nostri, ciò che contemplammo e le mani nostre
toccarono..." e lo ripete ancora due volte.
Mediante queste frasi Giovanni si trova in lotta contro
gli "idealisti" di quell'epoca. Contro coloro, cioè, che
parlavano di una eterna idea e di un Logos inteso in senso
neoplatonico e negavano pertanto l'Incarnazione. Essi erano
rappresentati dagli gnostici, che si vantavano di possedere una
conoscenza più alta, puramente spirituale, e consideravano la materia,
le cose tangibili, il corpo umano come il male, che stava in
contraddizione con il bene e con la luce. Secondo essi, l'evento della
Redenzione con-
89
sisteva semplicemente nel fatto che il Logos
aveva brillato nello spirito di un uomo chiamato 'Gesù', per
abbandonarlo nuovamente dopo la sua morte. Gente del tutto moderna,
dunque; gente che si allontanava dal fatto fondamentale di ogni
cristianesimo e dal suo "scandalo" e trasformava il reale in
qualcosa di ideale e simbolico.
Contro gli gnostici, Giovanni afferma: il Logos
non si è soltanto manifestato nello spirito di un essere umano, ma esso
si "è fatto uomo". Ma questa espressione non gli sembra
abbastanza al di fuori di ogni possibilità di equivoco, abbastanza
netta. Pertanto egli martella: il "Verbo s'è fatto carne"!
Questa era stata l'esperienza, sempre nuova, che egli aveva fatto
durante tutto il tempo che aveva trascorso con Gesù:
egli non se l'era soltanto immaginato interiormente, non
ne aveva fatto soltanto l'esperienza col suo sentimento, ma l'aveva
"visto" con i suoi occhi di persona viva, lo aveva
"sentito" con le sue orecchie di carne, lo aveva
"toccato" con le sue mani, abituate a stringere il timone e a
stendere le reti. Di che cosa si trattasse, gli è divenuto
improvvisamente chiaro a Pentecoste, nella luce dello Spirito Santo: si
trattava dell'incarnazione dell'eterno Figlio di Dio, che egli aveva
personalmente sperimentata nell'avvenimento dell' 'epifania'.
Questa parola ha la sua origine nell'antico culto
dell'imperatore. L'imperatore era ritenuto ffco'cT)p, cioè apportatore
di salute e fortuna. Quando egli faceva il suo ingresso in una città
questo sentimento si impadroniva del popolo: "La salute e la
fortuna risplendono: emcpàvsi.a". Questa parola è entrata in
seguito nel linguaggio cristiano e significa adesso che Dio, che la
potenza e la grazia divina si rivelano
90
in una figura terrestre. Pertanto noi non pensiamo solo
che il Cristo è il Figlio, ma lo "vediamo"; non soltanto
prendiamo spiritualmente coscienza di lui, ma lo "sentiamo";
non soltanto il nostro sentimento ha una intuizione di lui, ma possiamo
"toccarlo". Anzi, nel sesto capitolo del Vangelo di san
Giovanni Gesù giunge al punto di annunciare ai suoi disorientati
ascoltatori il seguente messaggio: nel mistero dell'Eucaristia il
credente riceverà, nella sua vita umana e corporea, colui che s'è
fatto uomo, lo "mangerà" (6, 57)!
È questa la radice di ogni cristianesimo. Di essa ci
parla Giovanni. Più egli diventa vecchio, più questo mistero acquista
in lui potenza e profondità. Quando noi leggiamo il suo Vangelo da
questo punto di vista, vediamo come egli si sforzi di mettere in
evidenza, nella figura, nell'opera e nel destino di Gesù, ciò che era
"in principio": il Logos, la parola di colui che parla
da tutta l'eternità, il Figlio del Padre. Com'è falso l'affermare che
il primitivo Vangelo è stato qui abbandonato e che si fa della
filosofia sulla persona di Gesù! Ciò non è affatto vero, ma è vero
il contrario: durante i lunghi anni che Giovanni ha vissuto dopo la
morte di Gesù, egli ha compreso sempre più chiaramente che cosa
significhi la parola 'epifania'.
Ma ora una domanda ci incalza. Come è possibile una
cosa simile? Come può Iddio agire in questo modo? Cerchiamo di
esaminare bene questa domanda; è importante, per la nostra comprensione
cristiana, farne l'esperienza.
Come può il Dio eterno incarnarsi, divenire uomo? E
questo non nella maniera intesa dai miti, quando
91
essi ci raccontano che gli dèi si uniscono a donne di
questa terra per procreare degli eroi, futuri autori di gesta
salvifiche. In queste mitologie, nessun concetto è autentico: ne quello
del dio, ne quello della persona umana e tanto meno quello dell'eroe che
dovrebbe essere apportatore di salvezza; essi non vengono qui intesi che
come elementi di un tutto che è rinchiuso in se stesso. Il Vangelo non
si situa in questo ordine di pensieri, ma in quell'inflessibile serietà
che l'educazione del cristiano riceve in eredità da millecinquecento
anni di Antico Testamento. Come può lo stesso Dio, che in questo Antico
Testamento da delle testimonianze così potenti della sua santa
indipendenza, farsi uomo e rimanerlo per sempre?
Spiritualmente, Giovanni non era quel greco in cui
l'ha trasformato l'equivoco che è intervenuto a proposito dalla sua
concezione del Logos e dei suoi concetti generali, ma un uomo
dell'Antico Testamento; perciò questa domanda deve averlo sconvolto sin
nella parte più profonda del suo essere. Ma egli ha saputo dare la
risposta adatta. Essa dice:
Dio ha potuto far questo perché ama, perché è il Dio
dell'amore. Nel quarto capitolo della sua lettera, possiamo infatti
leggere: "L'amore di Dio si è manifestato in ciò: Dio inviò il
Figlio suo, l'Unigenito, nel mondo, affinchè noi vivessimo per mezzo di
lui" (9).
Tutte le volte che parliamo dell'amore di Dio — e
dobbiamo farlo spesso, poiché la rivelazione di questo amore forma il
cuore stesso del messaggio cristiano — è necessario che noi
purifichiamo i nostri pensieri. Quando Giovanni parla dell'amore di
Dio,
92
questa parola non sta ad indicare un concetto generale,
ma un nome. Non si tratta qui della bontà, della benevolenza,
dell'amicizia, della prontezza nel prestar aiuto agli altri, cioè delle
stesse qualità che sono operanti nell'esistenza umana, con la sola
differenza che esse vengono concepite come assolutamente pure, grandi,
creatrici, ma si tratta piuttosto di quell'intima disposizione
dell'animo di Dio che lo ha portato a fare quella cosa enorme ed
inaudita della quale noi parliamo. Questa disposizione non ha,
originariamente, nulla a che vedere con ciò che l'uomo chiama
comunemente 'amore', ma ha il suo senso in se stessa. Noi, con le sole
nostre forze, non possiamo neppure sapere che essa esista. Possiamo
cono-scerla soltanto in quanto è Dio stesso che ce la rivela.
Anche per il suo amore, vale quello che egli ha risposto
sull'Horeb a Mosè che gli chiedeva il suo nome: "Io sono Colui che
sono" (Ex. 3, 14); colui che esiste e regna in libera
sovranità, che non può essere nominato con riferimento ad alcuna
realtà che appartenga al creato. Pertanto di lui si può dire solo che
egli è quale ce lo rivela la sua iniziativa personale. Ciò vale anche
per il suo amore. Anche a proposito di esso, si potrebbe dire: Amando,
io sono quello' che sono... Io amo, io sono colui che ama... Il mio
amore è quello che è... Esso è me stesso. È questa intima
disposizione dell'animo di Dio che fa sì che il Dio 'che è' compia
l'opera enorme ed inaudita dell'Incarnazione. Soltanto essa è in grado
di compiere una cosa simile. Noi non dobbiamo pensarla ne giudicarla
partendo dal nostro punto di vista umano poiché, facendo ciò, mettiamo
in questione il suo senso, anzi la sua possibilità stessa.
93
Ogni pensiero, ogni giudizio cominciano piuttosto dalla
fede che noi accordiamo a queste parole uscite dalla sua bocca: È
così. Mediante questa Rivelazione, Dio oltrepassa il puro concetto
filosofico-religioso di un essere supremo, in quanto questo concetto
resta rinchiuso nella propria assolutezza e non riesce a trovare alcuna
valida relazione col finito. Lo oltrepassa anche per un'altra ragione.
Come soltanto la rivelazione sull'Horeb ha reso possibile un rapporto
fra il pensiero di Dio e la storia vivente, così questa nuova
rivelazione della sua vita trinitaria rappresenta la premessa perché
noi possiamo essere chiamati a vivere nella condizione di figli, di
fratelli e di amici di Dio.
Pertanto Giovanni ci dice in tutta chiarezza: "In
questo sta l'amore: non noi amammo Iddio, ma egli amò noi e inviò il
Figlio suo ad espiare per i nostri peccati" (1 Io. 4, 10).
Quando dunque il Cristo richiede, in adempimento del "primo e più
grande comandamento", l'amore per Dio e per il prossimo (Mi. 22,
36), egli vuole con ciò che il credente si inserisca in questa
disposizione dell'animo divino per realizzarla. Ecco perché la teologia
parla a buon diritto della 'virtù teologale' dell'amore; questa virtù
infatti, nella sua radice, è di Dio, non della creatura. È soltanto
procedendo da essa che tutto diventa possibile; anche ciò che, partendo
dal concetto di Dio inteso come essere assoluto, non potrebbe neppure
essere pensato. Ed è questa, in primo luogo, la ragione per la quale
Giovanni viene chiamato il discepolo dell'amore, in quanto l'esperienza
di questo mistero primordiale della nostra Redenzione lo ha penetrato
così profondamente.
Questa divina disposizione inferiore sta alla base
94
di tutto quello che Dio fa. Perché egli ama così ha
creato il mondo; e quant'è grande l'oltraggio del peccato originale, se
commisurato a quest'amore! Perché ama così, non ha abbandonato i
colpevoli alla loro volontà, ma ha concepito il disegno della
Redenzione. Perché ama con un tale amore, egli è venuto nel mondo e si
è fatto uomo. Tutto, assoluta- ( mente tutto, dipende dal
fatto che noi comprendiamo i ciò. Poiché essere redenti significa
entrare in questo ' amore.
95
IL MONDO
Nel secondo capitolo della sua lettera Giovanni dice:
"Non amate il mondo ne ciò che è nel mondo. Se uno ama il mondo,
in lui non è l'amore del Padre. Poiché tutto ciò che è nel mondo: la
concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, il tronfio
orgoglio della vita, non è dal Padre, ma dal mondo. Ora il mondo passa
e la sua concupiscenza con lui; ma chi fa la volontà di Dio permane in
eterno » (15-17).
Queste parole hanno un suono duro. Se le cose stanno
così, sembrano aver ragione coloro che dicono che il cristiano non è
capace di vivere e di creare nella gioia, ma deve invece disprezzare
ciò che appare prezioso agli altri uomini. Infatti, come è possibile
vivere se non si ama "ciò che è nel mondo", uomini e cose,
lavoro ed opera? Se "tutto ciò che è nel mondo" non è che
"concupiscenza della carne, e cioè bramosia dei sensi;
"concupiscenza degli occhi", e cioè vano piacere;
"tronfio orgoglio della vita", e cioè superbia e vane
pretese, esso non merita certamente la nostra amichevole considerazione.
Se a ciò si aggiunge ancora che "il mondo con la sua
concupiscenza" — vale a dire tutto ciò che esiste — non ha un
significato valido ne una consistenza durevole, non vale certamente la
pena di affaticarci per esso.
96
Ma adesso apriamo il Vangelo dello stesso apostolo al
capitolo terzo. Qui noi leggiamo, ai versetti sedici e diciassette:
"Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio,
l'unigenito, affinchè ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la
vita eterna. Poiché Dio non mandò il Figlio nel mondo per condannare
il mondo, ma affinchè il mondo sia salvato per mezzo di lui".
Queste parole sono state pronunziate dallo stesso san Giovanni, ma esse
hanno un suono ben diverso da quelle che abbiamo citate poc'anzi.
Noi dobbiamo fare ancora una volta ciò a cui dobbiamo
essere esortati continuamente quando ci capita di meditare sulla
verità divina: dobbiamo cioè sottrarci alla forza dell'abitudine che
conferisce una specie di grigiore alle parole. Quando leggiamo:
"Dio ha amato il mondo", bisogna che diamo il
suo peso reale a questa affermazione e cioè che Dio ama realmente,
effettivamente. Ci viene data anche una misura per stabilire la
grandezza di questo suo amore: esso è tanto grande, che egli arriva al
punto di mandare il suo unico Figlio nel mondo, affinchè "questo
sia salvato per mezzo di lui". Ed adesso rinettiamo bene sul modo
in cui questa salvezza si è attuata: Dio non ha inviato suo Figlio nel
mondo perché egli vi rivestisse le apparenze di un corpo umano, come ad
esempio hanno insegnato gli spiritualisti gnostici, e si separasse, dopo
la sua morte, da questo corpo per ritornare alla pura spiritualità;
egli ha invece voluto che suo Figlio si faccia uomo
realmente e tale rimanga, per sempre. Ma ciò significa che, a partire
da questo avvenimento, l'umanità del Cristo e con essa la creazione,
'il mondo', dovranno "sedere alla destra del Padre"!
97
Anche questo è vero. Che significa, quindi, questa
apparente contraddizione? Essa significa, evidentemente, che la parola
"mondo" per l'apostolo Giovanni ha due significati diversi e
che noi dobbiamo fare una distinzione fra di essi. Cerchiamo pertanto di
penetrare più profondamente in questi concetti che ricorrono tanto
spesso.
In primo luogo: che cosa significa questa parola
nell'uso linguistico della Bibbia? Una affermazione fondamentale si
trova già nella prima frase della Sacra Scrittura: "In principio
Dio creò il cielo e la terra" (Gen. 1, 1). Nella lingua
ebraica la parola 'mondo' non esiste; al suo posto si trova l'endiadi
'cielo e terra', e cioè 'il tutto'. La Sacra Scrittura si apre quindi
con questa frase: "In principio Dio creò il mondo", e tutto
ciò che segue si colloca sotto la sua luce.
Dio ha creato il mondo. Lui solo. Nessun altro essere
tranne lui vi ha messo la mano. Ciò significa, se ci è permesso di
esprimerci così, che Dio porta la responsabilità dell'esistenza del
mondo, questo enorme complesso di energie, di materie, di cose, di
esseri, di avvenimenti, di rapporti e di leggi. Esso si estende
sterminatamente in grandezza, ma anche, come ce lo ha dimostrato la
scienza degli ultimi decenni, in piccolezza; non si rivela mai ne
uniforme ne meschino e ci mostra piuttosto, ovunque si posi il nostro
sguardo, una sovrabbondanza di forme ori-ginalissime. Il Genesi esprime
questa 'responsabilità divina' nel primo racconto della creazione
dicendo, dopo quasi ogni tappa della grande opera: "E Dio vide che
ciò era buono". Ed alla fine del racconto si trova ancora:
"E Dio vide tutto ciò che aveva
98
fatto, ed ecco, era molto buono" (1, 10 ss.).
Tutto ciò vuoi dire che questo mondo è grande e
prezioso davanti a Dio, e che in esso non c'è nulla da biasimare.
Ma le cose non sono finite qui: Dio ha voluto non
soltanto che il mondo esista semplicemente, ma che esso si costituisca
in una vivente presa di coscienza; che esso sia conosciuto; e conosciuto
non soltanto da lui, ma anche dalla stessa creatura. Pertanto egli ha
creato l'uomo e lo ha fatto capace di guardare le cose e di comprendere
la loro natura; di discernere le leggi sul cui fondamento esse sono
costruite ed i risultati prodotti dalla loro azione. Perciò le cose
affiorano nello spirito dell'uomo, sono ivi presenti, per così dire,
una seconda volta, ora sotto forma di verità.
Dio ha fatto ancora di più. Egli ha reso l'uomo capace
di sperimentare vitalmente la realtà e la bellezza di tutte queste
cose. Quando l'uomo contempla il cielo nello splendore della sua luce,
egli ha il sentimento della grandezza e del mistero. Quando vede un
fiore, il suo cuore riesce a cogliere e a seguire le forme della sua
bellezza e si rallegra. Nel volto di un'altra persona umana, egli scorge
la gentilezza o la collera e vi risponde con un suo proprio sentimento.
In tal modo la molteplicità delle cose emerge nella interiorità del
suo cuore e vi consegue una nuova dimensione: essa diviene contenuto di
vita.
L'uomo può anche esser giudice. Egli può dire:
questa cosa è utile, quest'altra è buona, quest'altra
ancora è bella. Ma può dire, anche: questa è pericolosa, o cattiva, o
brutta. Ciò significa che egli può
99
attribuire il loro valore alle cose. Egli può costruire
una scala di valori fra di esse e dire: questa cosa è più importante
di quella; questa è migliore di quell'altra. In tal modo le cose
esistenti ricorrono una seconda volta nella sua capacità di
apprezzamento, nella sua sensibilità, che lo rende capace di giudicare
del loro valore e della loro validità.
Sulla base di tale conoscenza, guidato dal suo vivente
sentimento, reso saggio dalla sua capacità di giudicare e dalle sue
conseguenze, l'uomo può intervenire nel mondo ed agire. Può prendere
possesso delle cose, adattarle alle sue finalità, inserirle ed
ordinarle nella struttura della sua vita. Egli può fare di esse la
materia prima necessaria per esprimere in forma visibile una sua
interiore visione, per rappresentare agli altri ciò che egli ha provato
entro se stesso.
Tutto ciò significa che, vivendo, l'uomo incontra la
realtà delle cose e che da questo incontro nasce un insieme, un 'mondo'
di nuovo genere. Ciò che gli sta direttamente di fronte, che esiste 'di
per se stesso', costituisce, per così dire, un mondo di primo grado. Ma
quando l'uomo gli va incontro, nelle molteplici manifestazioni della sua
vita, da questo incontro nasce un mondo di secondo grado — quel mondo
che Dio ha veramente voluto, se noi interpretiamo rottamente il senso
della Rivelazione. Quando infatti, il sesto giorno, la sua opera è
terminata, Dio dice in certo qual modo all'uomo: E adesso continua tu a
lavorare e da questo primo mondo forma il secondo. È infatti questo il
significato contenuto nelle parole, che appaiono in un primo momento
così semplici, relative alla missione che
100
viene affidata all'uomo di "coltivare e
custodire" la creazione divina (Gen. 2, 15).
Questo secondo mondo doveva diventare grande e bello.
L'espressione che per esso usa la Bibbia è 'il Paradiso'. Essa indica
quello stato di esistenza che si ebbe quando il primo uomo, nella sua
innocenza, fece il suo primo incontro con le cose. Questo uomo allora
viveva unito a Dio, nell'armonia della fede e della ubbidienza amorosa.
La Sacra Scrittura esprime questo stato mediante l'immagine di quanto di
più bello poteva conoscere il mondo del sud:
l'immagine di un giardino ben coltivato, circondato da
un muro di protezione, attraversato dall'acqua corrente, ornato di
piante fiorite e di alberi carichi di frutti. Il 'Paradiso', dunque, non
è il regno delle fate o il paese di Bengodi, ma il mondo quale lo ha
Voluto Iddio: il secondo mondo, formato dal primo, per opera di
quest'uomo innocente, che viveva in grazia di Dio. La grandezza della
storia umana e lo splendore dell'opera umana che avrebbero dovuto
realizzarsi in questo mondo non possono neppure essere immaginati da
quegli esseri guasti e decaduti che siamo attualmente noi uomini.
Poiché l'uomo ha rifiutato la sua ubbidienza a Dio
e ha voluto esistere per diritto proprio; non ha voluto essere
l'immagine ma l'archetipo. Ed allora il disordine ha fatto il suo
ingresso nell'umana natura. E se colui che legge queste pagine è ancora
giovane, se lo lasci dire da un uomo che ha già vissuto a lungo, fino a
qual punto questo disordine abbia un effetto terribile nell'uomo; quale
follia delle brame, quale accecamento dello sguardo, quale slealtà nel
parlare e quale violenza nell'agire esso porti nella
101
sua vita. È una cosa questa che si impara coll'espe-rienza
di ogni giorno, a poco a poco.
Ma anche quest'uomo decaduto incontra la creazione. Egli
lo fa continuamente, perché è proprio in questo incontro che si
realizza la sua vita. E così il disordine agisce già nel suo vedere e
nel suo conoscere. Per dimostrare ciò, facciamo un esperimento.
Scegliamo qualche cosa di cui conosciamo con certezza il valore — una
personalità, un'opera d'arte, un'idea sociale — ed osserviamo il modo
in cui essa viene considerata dalla gente. Noi resteremo atterriti dalle
contraddizioni e dalle deformazioni che già si producono ad un primo
sguardo.
Questo stesso uomo emette dei giudizi. Ma si dimostra
egli, in generale, almeno disposto ad essere obbiettivo nei confronti
dell'oggetto del suo giudizio? Conosce le regole che servono per
raggiungere un simile fine? È capace di servirsene? Osserviamo, ad
esempio, il modo in cui egli giudica gli altri; con quanta leggerezza
egli lo fa; come il suo giudizio viene determinato dalla vanità, dalla
suscettibilità, dalla sete di potere, dalla pretesa di aver sempre
ragione, dall'invidia e da altri sentimenti di questo genere.
E le opere umane! Quando si parla della storia della
cultura si considerano, di regola, quelle cose che sono riuscite. Ma che
ne è invece di quelle che non sono potute riuscire? Pensiamo a tutti i
piani che non poterono realizzarsi; allo sperpero di vivente forza
umana; all'arbitrio dei potenti; alle distruzioni ed alle crudeltà
senza fine della storia; alle aberrazioni nelle quali si sono incontrate
la megalomania, la mancanza di senso della realtà ed il potere. Anche
102
tutto questo fa parte dell'opera umana quale essa si è
realizzata sotto l'influenza del disordine che ha operato in essa sin
dall'inizio. Ricordiamoci solamente di quanto è avvenuto negli ultimi
decenni;
che cosa hanno fatto gli uomini — noi uomini, bisogna
dire anzi, perché tutti ne portiamo la responsabilità — durante
quest'epoca. E non si tratta che di un breve tratto della lunga storia
dei rapporti umani con la creazione divina.
Questi disordini e queste distruzioni sono fra loro
strettamente collegati, derivano l'uno dall'altro. Qui c'è un uomo, ad
esempio, posseduto dalla bramosia del potere, che non riconosce alcun
comandamento di Dio; in sua sostituzione egli ha escogitato un idolo che
può chiamarsi, a seconda dei casi, l'idea dello 'Stato perfetto', della
'razza pura', del 'benessere generale', di una 'società senza classi' e
per realizzare questa idea egli esercita la sua violenza sugli altri
uomini. Gli oppressi rispondono con la paura, con l'odio, con la
vendetta; e da ciò risultano nuove violenze, nuove menzogne, nuove
distruzioni; e si va avanti così, con continue azioni e reazioni. Tutto
ciò costituisce una concatenazione funesta, in cui un male è
conseguenza del precedente e prepara il seguente.
Tali funeste concatenazioni formate da false
prospettive, da giudizi errati, da cattiva volontà, disordine, violenza
e distruzione, sono innumerevoli. Esse si stendono attraverso la
moltitudine degli uomini, attraverso i paesi, i popoli e i tempi.
L'oscuro insieme che ne risulta è quel 'mondo' di cui parla l'epistola
di san Giovanni nel suo secondo capitolo. Non si tratta del mondo della
creazione divina; e neppure di quello che doveva originariamente rea-
103
lizzarsi mediante incontro dell'uomo innocente con
questa creazione divina. Si tratta invece di quella concatenazione di
confusione, di corruzione, di male che ha per sua conclusione finale
ciò che la maledizione divina sopra i colpevoli intende con la parola
"morte" (Gen. 3, 19). E quando, da un'altra parte, la
Sacra Scrittura parla delle "tenebre" che non hanno accolto il
Figlio di Dio incarnato (Jo. 1, 5);
del "regno", che Satana instaura contro Dio
(M/. 12, 25 ss.); del mondo per il quale Gesù non prega neppure più (Jo.
17, 9), queste diverse espressioni stanno tutte ad indicare quel funesto
insieme di cui parlavamo sopra, nella misura in cui esso si rinchiude m
se stesso e rifiuta di convenirsi, di mutare il suo orientamento.
Ma l'altro significato della parola mondo, di cui adesso
parleremo, dice che Dio non ha voluto che questo male fosse definitivo,
ma che ha posto un nuovo inizio: egli ha mandato suo Figlio in questo
mondo, nello stato in cui esso si trova. In questo stato di disordine,
impregnato com'è di tanta cecità e di tanta follia, di tanto male e di
tanta distruzione. E questo suo Figlio si è incarnato, come uno di noi;
ha avuto fame ed ha avuto sete; ha camminato, si è
affaticato, ha sofferto ed è morto, come accade ad ogni uomo; ma in
tutto ciò egli restava il santo Figlio di Dio, che ubbidiva al Padre in
un amore perfetto. E con questa sua incarnazione egli ha espiato
l'infinito peccato dei nostri primi progenitori. Egli ha creato un nuovo
inizio, l'inizio del suo amore. E questo nuovo inizio rinasce in ogni
uomo che si volge a lui nella fede e nell'ubbidienza: egli "rinasce
dall'acqua e dallo Spirito Santo" (Io. 3, 5).
104
E pure quest'uomo, l'uomo nuovo, nel quale si trova
l'inizio creato dal Cristo, incontra ciò che è. E anche da questo
incontro con le cose e con gli uomini, nell'amicizia, nella famiglia,
nella professione, nella società, nasce un 'mondo', un mondo 'nuovo'.
Esso non è separato dal vecchio ma si trova ovun-que
intrecciato con esso, nello stesso modo in cui nel singolo credente
l'uomo nuovo è intrecciato col vecchio. Ma esso esiste; il vecchio
mondo avverte pertanto questa sua esistenza e la combatte: "Se il
mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi", dice Gesù
nei discorsi dell'addio (Io. 15, 18). Il mondo nuovo non è
perfetto, soffre di tutte le insufficienze della nostra esistenza, viene
continuamente rimesso in questione, turbato, indebolito; ma esso
contiene in sé la forza del Dio della nuova creazione. Esso viene
spesso talmente ricoperto e nascosto che si può persino giungere a
dubitare se esista veramente; ma la parola di Dio ci da la certezza
della sua esistenza, e noi dobbiamo mantener viva questa certezza nella
fede.
Ma Paolo è il profeta di questo nuovo mondo. Con parole
che sono dettate da una profonda esperienza, egli parla dell'uomo nuovo
e del suo combattimento col vecchio; della sua crescita e del suo
divenire misteriosi, della sua speranza e del suo futuro compimento,
come anche dell'importanza che tutto ciò ha per il mondo delle cose.
Ascoltiamo quello che egli ci dice nell'ottavo capitolo della sua
lettera ai Romani:
"Ritengo infatti che le sofferenze del tempo
presente non reggano il confronto con la gloria che dovrà
105
manifestarsi in noi", e cioè negli uomini che sono
stati rinnovati dal nuovo inizio che ha portato il Cristo. Ma questo
rinnovamento non dovrà operarsi soltanto negli uomini, ma anche
nell'intera creazione. Il rimprovero, pertanto, rivolto al cristiano, di
odiare e di disprezzare il mondo è tanto ingiusto quanto esso è
antico. In realtà nessuna persona lo prende tanto sul serio e gli
attribuisce tanta grandezza come il cristiano. Soltanto che egli non si
fa illusioni circa lo stato nel quale "la stessa intera creazione
anela, in ansiosa attesa, alla manifestazione gloriosa dei figli di
Dio". La creazione attende che l'uomo attinga la sua compiuta
pienezza affinchè, mediante lui, tutto trovi compimento,
"affrancato dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla
libertà della gloria dei figli di Dio" (18-21).
E si avrà allora l'ultimo 'mondo'. Su di esso Giovanni,
alla fine dell'Apocalisse, dice delle parole nelle quali risplende una
promessa: "Ed io vidi un cielo nuovo ed una terra nuova" —
un mondo nuovo, quindi —. "Infatti il primo cielo e la prima
terra"
— il vecchio mondo corrotto — "passarono"
(21, 1).
Giovanni contempla questo mondo nuovo in una immagine.
L'immagine del primo mondo, formato dall'uomo innocente, era il giardino
dell'Eden, il Paradiso, pieno di tutta la bellezza dell'inizio divino;
quella dell'ultimo mondo, del mondo che un giorno
verrà, ha un altro carattere: "E vidi la città santa, Gerusalemme
nuova, che scende dal cielo, da presso Dio" (21, 2). Questo mondo,
quale esso sarà un giorno in tutta la sua perfezione, appare come una
•kq\\,c,; e cioè come l'immagine, come la
concezione più alta che l'antichità potesse conoscere: la città
106
ben costruita, circondata da mura di difesa, ripiena di
una vita ben regolata. La sua forma, però, è misteriosa: essa è tanto
larga, quanto profonda ed alta, espressione simbolica, questa, della sua
perfezione. Ed essa si erge luminosa, come un preziosissimo gioiello:
"II suo lume è simile a una pietra preziosissima" (21, 11).
Ma l'immagine della città non è dura e rigida. La sua cristallina
durezza si risolve nella delicatezza della vita più viva. Con trapasso
immediato, quale si compie in visione, Giovanni l'aveva descritta
"preparata come sposa che è stata ornata per il marito" (21,
2). La solidità della città, circondata dalle sue mura, si trasforma
nella bellezza di un essere umano che ama.
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LUCE E VERITÀ
Nel primo capitolo della prima lettera di san Giovanni
noi leggiamo: "Ed ecco l'annunzio che abbiamo udito da lui ed
annunziamo a voi: Dio è luce ed in lui non c'è tenebra alcuna. Se
diciamo d'avere comunione con lui e camminiamo nella tenebra, mentiamo e
non operiamo la verità. Se invece camminiamo nella luce, come lui è
nella luce, siamo in una reciproca comunione..." (5, 7).
Queste frasi racchiudono due immagini. La prima,
l'immagine della luce, sembra dominare il tutto. Ma in essa se ne
insinua una seconda, l'immagine dell'ampiezza spirituale, che conferisce
alla prima un carattere particolare.
Il nostro pensiero e quello che noi diciamo.con-tengono
molte, immagini; esse hanno però un valore ed una forza molto diversi.
Alcune di esse sono fortuite, si sono formate nella base di somiglianze
esteriori o di una convenzione voluta; si tratta, in questo caso, di
allegorie, che debbono essere spiegate^ Pensiamo ad esempio alla figura
di donna che una volta veniva rappresentata, molto volentieri, nelle
sale dei tribunali. Essa aveva gli occhi bendati e teneva in mano una
bilancia: doveva simboleggiare la giustizia, che non guarda alla persona
dell'accusato, ma che determina soltanto, con cura, il peso dei fatti di
fronte alla legge. Il significato contenuto in que-
108
sta figura bendata non può essere compreso
immediatamente, in quanto si basa su di una convenzione, e si pensa,
talvolta, che la donna con la bilancia farebbe meglio a spalancare bene
gli occhi.
Ma esistono anche delle_immagini che risultano da un
aut^nticc^ncoatVQ ha ci^ è di più fondamentale, .nella .natura
umana e la vita. Esse non hanno bisogno di alcuna spiegazione per essere
comprese, ma esprimono con estrema immediatezza il loro significato : si
tratta qui di simboli, ali'interno. dei quali l'esistenza trova
chiarezza e ordine, Noi incontriamo due di queste immagini, o simboli,
nel testo che ci sta di fronte.
La prima di queste immagini è J'immagine__della_ luce.
Un rapido sguardo sulla storia della nostra cultura è sufficiente a
mostrare quale valore universale essa abbia avuto per simboleggiare lo
spirito. Diciamo più esattamente: la vita dello spirito. E precisiamo
ancor meglio: per simboleggiare la vita dello spirito quale essa si
manifesta nella conoscenza.
Questa immagine riappare continuamente nel nostro
linguaggio. "Lo vedo",, noi diciamo per espri-, mere che
abbiamo capito; ora non si può vedere che nella luce. Fino a quando un
osservatore non giunge a capire il senso di un determinato processo,
egli continua a chiamare questo processo 'oscuro'. Quando gli riesce
invece di capire per quali cause e con quali finalità esso avviene,
allora egli dice, tutto soddisfatto, che la cosa è divenuta 'chiara'
per _lyi. Di una persona la quale sia capace di afferrare rapidamente
l'essenziale noi diciamo: _".È uno spintp_lui cido"; e di un
libro, il quale conduce il lettore alla comprensione della verità
diciamo che esso è 'illumi-
109
nante'. Si potrebbero in tal modo citare molti altri
esempi per provare che la luce rappresenta universalmente l'immagine
della verità, nella quale lo spirito penetra quando esso conosce.
In tal modo il senso della frase contenuta nella lettera
di Giovanni diviene chiaro: lo spirito di colui che conosce entra nella
luce; intorno a lui si fa spiritualmente chiaro. In questa chiarezza
egli riesce a vedere le cose come esse sono. Può orientarsi in mezzo ad
esse, fare con esse ciò che è giusto. Ma se egli non conosce bene, se
vede storto, il suo 'camminare', il suo modo d'agire e di comportarsi,
assomigliano ad un uomo che proceda a tastoni in un luogo oscuro.
Segue poi la grande affermazione: la vita di Dio è
interamente nella luce. Anzi, Dio stesso è luce. Se qualcuno dicesse
puramente e semplicemente 'luce' e lasciasse poi pervenire questa parola
alla sua originaria pienezza, essa indicherebbe Dio. Che significa
questo?
Ciò significa, in primo luogo, che Dio possiede una
forza di luminosità, che il suo sguardo penetra sino al fondo delle
cose, degli uomini e degli avvenimenti. Per lui non esistono zone
nascoste. Di ogni cosa che esiste egli vede l'essenza, comprende la
legge che ne regola l'interno divenire, conosce il senso. Uno dei salmi,
il grande salmo centotrentotto — secondo la numerazione della Vulgata;
centotrentanove secondo la numerazione del testo ebraico —, parla
della potenza e del mistero di questa conoscenza.
Quando noi uomini ci sforziamo di conoscere, le cose
procedono, più o meno, in questo modo: noi incontriamo un oggetto o un
determinato processo e
110
cerchiamo, per così dire, di penetrarvi dentro. Il
nostro spirito si avvicina infatti a questo oggetto o a questo processo
partendo dall'esterno di essi, in quanto essi esistono indipendentemente
da noi. Noi constatiamo, paragoniamo, analizziamo fino a quando non ci
riesce di comprendere. Al contrario, Dio conosce le cose dal loro
fondamento (Grund} — e con questa parola noi intendiamo
indicare sia la profondità della loro intima essenza, sia la loro
origine — in quanto è lui che le ha create. La sua conoscenza non è
posteriore, non segue, al suo atto creatore in modo che, come pensa
l'idealismo, egli avrebbe prima generato il mondo, con un impulso
incosciente, e soltanto in un secondo tempo avrebbe diretto il suo
sguardo sopra di esso. E neppure questa sua conoscenza precede il suo
creare nello stesso modo in cui un architetto concepisce prima il
progetto di una casa e soltanto in un secondo momento la costruisce. In
Dio, questi due momenti, quello del concepire e quello del costruire,
non fanno che una cosa sola. Immaginiamo che noi fossimo capaci di
escogitare il modo in cui una cosa deve esser fatta e che essa, per il
solo fatto che l'abbiamo pensata, divenisse realtà. Ci troveremmo in
questo caso di fronte ad un pensiero creatore, che non appartiene a
quegli esseri che noi siamo. Quello che noi concepiamo in questo modo,
sia pure in maniera precisa e mettendovi dentro tutto il nostro essere,
resta pur sempre ancora al di fuori della realtà, appunto solo pensato,
immaginato. Soltanto Dio pensa ciò che deve essere secondo la sua
volontà ed esso, per il solo fatto di essere stato pensato, diviene
realtà. Il suo pensiero costituisce infatti il fondamento di ogni
essere finito.
Ili
È partendo da questa base che tutto ciò che è sta di
fronte a lui, nella luce. Non è che esista soltanto, sen2a essere
penetrato e compreso, come se il suo senso, il suo significato, dormisse
nella pura realtà, nella nuda esistenza. Esso invece viene conosciuto a,
priori, anzi il suo essere procede dalla conoscenza divina, è il
risultato dell'esser conosciuto. La concezione di una natura che emana
dal tenebroso abisso originario, natura ancora chiusa in sé, nella
estraneità del puro essere, è ancora una concezione pagana. E questa
concezione pagana è rinata dall'opposizione dei tempi moderni contro la
Rivelazione. Il mondo non è 'natura', ma 'opera', assolutamente ed
essenzialmente. Esso fu sempre nella luce di Dio, poiché è unicamente
grazie a questa luce che tutto ciò che esiste possiede il suo essere e
la sua realtà. Tutto ciò che esiste. Anch'io — quale pensiero
inquietante e consolante, ad un tempo — vi sono incluso.
Ma bisogna portare avanti questo ordine di pensieri: Dio
sarebbe l'Onnisciente, sarebbe 'la luce', anche se le cose e gli uomini
non esistessero, se io non esistessi. Anche in tal caso egli
continuerebbe a conoscere; a conoscere ciò che è in modo autentico,
cioè se stesso.
Conoscersi: che cosa significa questa espressione nel
nostro caso, nel caso di noi uomini? _Se noi non cerchiamo di ingannare
noi stessi, dobbiamo ammet-tere_di riuscire a penetrare_ soltanto unoi
strato sottile della nostra realtà umana. Al di sotto di questo strato
sottile, incomincia subito una zona inesplorataJ che noi non conosciamo
affatto. Ad esempio, io ho prestato aiuto ad un uomo. Di questa mia
azione
112
ho chiare in partenza soltanto le circostanze immediate:
in quel determinato giorno e in quell'altro ho dato a quest'uomo questa
cosa e quest'altra. Posso penetrare più profondamente in me stesso e
chiedermi perché ho agito così. Risposta: egli era realmente in una
situazione di bisogno ed io ho voluto liberarlo da questa situazione.
Sono riuscito, con questa risposta, a penetrare interamente il
significato della mia azione? Da un esame più approfondito riesco a
cogliere il seguente movente: no, io ho fatto quello che ho fatto
perché contavo di ricevere più tardi il suo appoggio in questo e in
quel determinato affare. Ed approfondendo ancora il mio esame: io l'ho
fatto per vanità, perché volevo recitare la parte del grande
personaggio. E forse un giorno, in una circostanza qualsiasi — di
mattina presto, ad esempio, nel dormiveglia, quando le cose, talvolta,
diventano così stranamente trasparenti, in quanto la nostra
autoaffermazione non è ancora operante — il movente della mia azione
appare di colpo, in una luce vivida, di fronte ai miei occhi: io ho
agito in realtà per vendetta, perché volevo umiliarlo! Questa
improvvisa scoperta, può avere invece un aspetto buono, favorevole:
l'ho fatto perché desideravo riparare un torto, per esprimere un amore
che non osa ancora tradursi in parole... Noi lo vediamo: penetriamo
sempre più profondamente in noi stessi, ma il nostro sguardo non riesce
mai a raggiungere l'ultimo fondo. Il nostro stesso essere si perde
davanti a noi nell'oscurità. La psicologia dell'inconscio ci insegna
quante cose siano nascoste in questa oscurità, un intero mondo...
E non si trattava qui che di un piccolo esempio. Ma di
questi piccoli esempi la nostra vita è piena.
113
La conoscenza che abbiamo di noi stessi non è che il
risultato di rilevazioni superficiali, frammentarie, casuali,
determinate dalle situazioni, colorate dai nostri stati d'animo.
Come le cose sono ben differenti nel caso di Dio! Egli
riesce a guardarsi con uno sguardo assolutamente puro. Egli è
completamente chiaro a se stesso, fino in fondo. Quando si pensa per la
prima volta un pensiero del genere, può darsi che ci capiti di
arretrate, spaventati: conoscersi pienamente, per tutta l'eternità —
come deve essere monotono tutto ciò! Quale disperante sazietà deve
risultare da un simile stato! Ma Dio è infinito: egli non potrà mai
stancarsi di se stesso. La sua infinitezza colma interamente il suo
sguardo, che è anch'esso infinito. Questa realtà incomprensibile ha un
nome: eternità.
Ed ora Giovanni ci dice: quando cerchi la verità, tu
sei in comunione con questo Dio. Però dobbiamo precisare: la verità
della quale l'apostolo ci parla non è semplicemente quella della
constatazione quotidiana, o della ricerca scientifica o della conoscenza
filosofica, ma quella che ci viene manifestata dalla Rivelazione.
^i_tratta__della verità dell'mcamaziQne. del Figlio; dell'amore che
egli ci testimonia; della redenzione mediante il suo sacrificio e _di
.tytto__ciò che ne risulta. Che queste operazioni divine siano Jnanif
estate all'uomo; che l'uomo vi creda e di esse .viva ; _questa è la
verità della quale qui si tratta e che conferisce il suo senso ultimo
ad ogni altra forma di conoscenza.
Giovanni, dunque, dice: se tu hai l'esigenza di questa
verità, se ti sforzi di conquistarla, se tieni in alto onore il dono
che con essa ti è stato fatto,
114
tu sei in comunione con il Dio che si è rivelato a noi,
E sei contemporaneamente in comunione con gli altri uomini che, come
tè, cercano questa stessa verità. Ma se tu al contrario rifiuti a Dio
la tua fede, se lasci che il suo santo messaggio si deteriori in tè,
anzi, se tu lo deformi, Dio ti diverrà lontano e straniero. E lontani e
stranieri ti diverranno gli altri uomini, anche se tu ti illudi di
conoscerli bene.
Il testo in questione contiene ancora una seconda
immagine; essa però è, per così dire, velata e ricoperta, in modo che
noi dobbiamo sforzarci per estrada fuori. Questa immagine si cela dietro
le parole che dicono che noi 'camminiamo' nella luce, oppure, a seconda
del caso, nelle tenebre.
Noi abbiamo visto che la conoscenza si trova in una
certa relazione con la luce. Giungere alla verità vuoi dire, infatti,
pervenire alla chiarezza. Ma la conoscenza si trova anche in relazione
con l'ampiezza, con la libertà. Fino a quando io non riesco a
comprendere una cosa, mi appare rassomigliante ad una stanza chiusa,
nella quale non posso entrare. Essa mi esclude; anzi — per uno strano
rovesciamento che interviene nel mio sentimento, nel modo in cui io
faccio l'esperienza dei fatti della vita — essa mi da l'impressione di
essere imprigionato in me stesso. La conoscenza, al contrario, apre.
Naturalmente, perché ciò avvenga, deve trattarsi di una conoscenza
reale e non di una semplice constatazione, di una nuda presa in
considerazione. La vera conoscenza, la comprensione reale significa che
io pervengo, che io penetro, ad una contemplazione spirituale della
natura dell'oggetto; che riesco a vedere il modo in cui i diversi
elementi che lo compongono giocano
115
reciprocamente e come esso, a sua volta, si situa con
riferimento agli altri oggetti che fanno parte dell'esistenza. Se ciò
mi riesce, allora ciò che era chiuso si apre — la sua chiusura,
consistente nel suo non essere capito e la mia chiusura, consistente nel
mio non capire; davanti a me si apre uno spazio, una dimensione
spirituale nella quale io sono con questo oggetto, mi muovo nella
conoscenza.
Questa ampiezza, creata dalla verità, è meravigliosa.
Il nostro essere interiore vi respira dentro, il nostro spirito vi si
muove. A lui si manifestano delle vie, che può percorrere; quelle vie
che sono rappresentate dalle linee del significato: causa ed effetto,
fine e mezzo, totalità e parte, altezza e profondità, valore e grado e
tutti i lineamenti dell'essere. Su queste vie lo spirito cammina
attraverso ciò che è, fa l'esperienza dei rapporti che esistono fra le
cose ed ha l'intuizione delle configurazioni della vita. Al contrario,
l'errore restringe e rinchiude; la menzogna incatena e rende
prigionieri; la perfidia, l'astuzia e l'ipocrisia rinserrano ed
irretiscono. Se noi riuscissimo a capire che tutto ciò che è contrario
alla verità opera contro la nostra libertà!
Questa ampiezza della libertà, dice Giovanni, ha la sua
origine in Dio. In lui non sono ne ignoranza ne errore, ne menzogna ne
inganno. Egli non conosce ne pregiudizio, ne vanità, ne atteggiamenti
autoritari. In lui vi è soltanto la limpida verità. No, anzi, egli
'è' verità, è 'la' verità. Non vi è altra verità tranne che lui,
al di fuori di lui. La verità è il modo di essere di Dio. Poiché egli
è l'infinito e l'infinitamente buono, colui che — lo abbiamo già
detto — riesce a vedersi nella sua interezza, comprende completamente
la propria vita ed ha così in se stesso una
116
ampiezza infinita, nella quale nessun passo trova delle
chiusure, delle frontiere.
Pertanto va verso la libertà, attraverso la verità,
dice Giovanni; allora tu sarai in comunione con colui che è la libertà
stessa.
Ma, nuovamente, ciò che abbiamo detto si è limitato al
campo filosofico. La chiarezza e l'ampiezza che Giovanni ha veramente in
mente sono ancora qualcosa d'altro. Esse provengono dalla Rivelazione.
La verità è Cristo ed il suo regno. Chi conosce Cristo, chi si affida
a lui, chi comprende la vita nella luce che da lui promana, costui vive
nella libertà.
Se il lettore è straniero al messaggio cristiano oppure
non lo ha ancora preso sul serio, egli avrà forse l'impressione che
questa affermazione non sia altro che il frutto di una pretesa
dogmatica. Ma costui non conosce ancora la natura della realtà che egli
vorrebbe giudicare. Sì, siamo nel campo del 'dogma'; ma questa parola,
intesa nel suo significato più genuino ed autentico, non vuoi dire
altro che la pura validità, l'assoluto valore di ciò che la nostra
fede ci richiede di credere, del contenuto della nostra fede. Un
contenuto che emana direttamente dalla Rivelazione, che è stato
chiaramente stabilito dalla lunga esperienza della Chiesa e che è stato
distinto di contro a ogni deformazione. Non ci troviamo qui, certamente,
di fronte ad alcuna 'pretesa', in quanto la richiesta che la nostra fede
ci fa viene da Dio. Ed essa rende liberi.
Un uomo di alta spiritualità ha detto un giorno che il
dogma — noi potremmo anche dire: la Rivelazione — è come il sole.
Noi non siamo in grado di poterlo fissare, ma nella sua luce riusciamo a
vedere
117
tutte le altre cose. Sono parole molto belle queste e
dette con molta ragione. Per l'occhio naturale la Rivelazione è un
mistero. Cristo è un mistero; deve esserlo. Cristo, quale egli viene
inteso da un punto di vista puramente terrestre — genio religioso,
fondatore di una religione, filantropo — non è il Cristo reale, ma la
raffazzonata costruzione di gente erudita. Il Cristo reale non può
essere scrutato, nel suo mistero, più di quanto il nostro sguardo possa
penetrare la pienezza di luce del sole. Egli è 'il mistero'. Nella
misura in cui ci uniamo a lui, riusciamo a vedere chiaramente, nella sua
luce, ogni cosa: il mondo, il corso della storia e la nostra stessa
vita. Anche questa nostra vita che, senza la luce del Cristo, a dispetto
di ogni psicologia, resterebbe un così profondo enigma. La totalità
della realtà, 'l'esistenza', si apre in questa luce. Le barriere
cadono, un nuovo ampio spazio spirituale si apre dinanzi a noi. E noi
possiamo respirare e camminare.
118
"DIO SA TUTTO"
Nel terzo capitolo della nostra lettera si trova una
frase dal suono profondo, che vogliamo esaminare da vicino. La frase è
questa: "Quando il nostro cuore ci rimprovera. Dio è più grande
del nostro cuore e conosce tutto" (3, 20). Il suo mistero ci tocca
tutte le volte che noi la ascoltiamo.
Le sue prime parole non sono difficili da comprendersi.
Esse parlano di un rimprovero, di un'accusa, che sorge nel nostro cuore
e che ci avverte: "Tu hai agito ingiustamente". Anche quelle
che seguono non presentano alcuna particolare difficoltà, là dove esse
dicono: "Dio è più grande del nostro cuore". Vengono qui
intesi i nostri pensieri limitati, i nostri giudizi mal fondati, i dubbi
ed i tormenti della nostra coscienza. Dio è più grande di tutto ciò.
Ma che ci dovremmo noi attendere adesso? Quali parole dovrebbero seguire
dopo che è stato detto che Dio è "più grande del nostro
cuore", con tutta la sua inquietudine? Noi ci attenderemmo,
sicuramente, un:
ma egli ci perdona; oppure: egli ci dona la luce che
illumina la nostra ignoranza, la forza per superare il nostro tormento
intcriore. Ed invece di tutto ciò noi ascoltiamo le parole: "Egli
sa tutto"!
Dunque, il fatto di essere conosciuti da Dio dovrebbe
rappresentare una consolazione! Ma perché? Come può l'accusa che sorge
dal nostro cuore dissiparsi, svanire, per il fatto che Dio ci conosce?
119
La parola 'accusa' ha qui un carattere morale-personale;
si potrebbe quindi pensare che il termine greco xapSia debba essere
tradotto 'coscienza'. Ma l'uso corrente di quest'ultima parola ha
assunto un senso decisamente morale, mentre 1' 'accusa' di cui ci parla
Giovanni designa una realtà più vasta, più profonda e, nello stesso
tempo, più indefinita. Tradurremo pertanto il greco xapSia con
l'italiano 'cuore'. In che consisterebbe dunque una simile accusa del
cuore?
Noi abbiamo fatto, ad esempio, una cosa che in un primo
momento ci sembrava giusta. Ma il cuore ci dice: Nel far questo tu hai
agito con delle occulte intenzioni. Quando quella persona oppressa e
bisognosa di aiuto si rivolse a tè, tu l'hai aiutata; ma l'hai fatto,
in fondo, obbedendo ad un calcolo. Quando tu davi, tu pensavi già a
quello che ti sarebbe stato donato in cambio più tardi. In quella
occasione tu sei sì intervenuto a favore di ciò che era giusto e hai
lottato con coraggio — ma lo hai fatto per vanità, hai ricercato
degli onori, hai voluto recitare la parte del grande personaggio...
Oppure qualche cosa di molto importante non ci è
riuscito e noi cerchiamo di giustificarci: Non ho potuto farci nulla. Ad
un primo esame, ciò sembra essere esatto, ma poi il cuore ci dice: Non
hai potuto realmente farci nulla? La tua volontà era realmente ferma e
decisa in favore del bene com'era necessario perché tutto potesse
andare a buon fine? Oppure non era operante anche una» volontà
opposta? Una segreta riserva che fece deviare la linea della tua azione?
Un desiderio inconscio che tutto questo affare dovesse finir male?
Noi ci siamo dimostrati deboli e cerchiamo di
120
scusarci: Io sono, purtroppo, fatto così. Questa
disposizione del mio carattere si riscontra anche negli altri mèmbri
della mia famiglia. Mio padre già era così ed una cosa simile si è
manifestata anche nel carattere di mio fratello. Ma il cuore ci dice: Ti
sei realmente trovato sottoposto ad una coercizione insuperabile? Non
avresti, invece, potuto resistere in maniera completamente diversa, se
la cosa ti fosse realmente stata a cuore, se l'avessi presa realmente
sul serio? Non hai tu, invece, giocato col male, ripe-tutamente, finché
si giunse ad una situazione tale in cui fu facile per l'istinto di
prorompere? E se tu già sai che in tè questa inclinazione esiste, non
sarebbe bene che tu ti sottoponessi ad un vero e proprio allenamento, al
fine di aumentare la tua capacità di resistenza?
Oppure noi facciamo il bilancio di una giornata, di una
settimana, di un determinato periodo della nostra vita: abbracciamo
tutto quel tempo con lo sguardo e pensiamo che, in fondo in fondo, tutto
non è poi andato così male. Ma il cuore ci dice:
E tutto quello che tu hai cacciato fuori della tua
memoria, dove lo lasci? Ciò che è sprofondato, che è stato
inghiottito in fondo a tè? Ammetti almeno la possibilità che le cose
siano andate diversamente, che non tutto sia in ordine; cerca di
riesaminare bene. Forse che molti nuovi aspetti non possono venire alla
luce? Riesamina, ad esempio, le tue relazioni con quella persona e con
quell'altra; lo svolgimento che ha avuto quest'affare e quell'altro;
ricordati della piega amara che ha attraversato il volto di quel tuo
amico quando tu sapesti dimostrargli, con tanta precisione, che tu avevi
ragione, in modo tale che egli non trovò nulla da ribattere. Non è
121
allora affiorata, dalla parte più profonda di tè
stesso, la strana sensazione che l'aver così completamente ragione
significhi in realtà aver torto?...
Domande di questo genere ci rendono inquieti e spesso
non è facile di potervi rispondere. Tuttavia in questi casi tutta la
situazione può esser vista con chiarezza quando i fatti vengano
sottoposti ad un attento esame e quando si rifletta con la dovuta
tranquillità. Ma vi sono altri interrogativi che si pongono in una
forma più vaga ed indefinita ma che restano, contemporaneamente, più
urgenti.
Eccone uno ad esempio: perché io fallisco continuamente
di fronte a situazioni di questo genere? Dimentico delle cose
importanti, mi inganno nella scelta dei mezzi, sopravvaluto le
difficoltà? Oppure:
fino a che punto giunge la mia responsabilità per i
rapporti che si sono stabiliti fra me e quest'uomo, che mi è vicino e
che io però non riesco a sopportare? Non sono anch'io colpevole se le
cose sono giunte con lui fino a questo punto? Non avrei potuto dare ai
miei rapporti con quest'uomo un avvio completamente diverso? Oppure,
ancora: perché i miei incontri con questa e con quell'altra persona si
svolgono sempre così male? Perché intervengono con tanta rapidità,
nei nostri rapporti, suscettibilità, malintesi, rimproveri? Ed inoltre:
perché quella amicizia che era nata e cresciuta così bene si è poi
guastata così malamente?
Per rispondere a queste voci, a questi interrogativi, la
parola "coscienza", e cioè la capacità di giudizio morale,
non basta, almeno nel significato che essa ha assunto nell'uso attuale
del linguaggio. Queste voci provengono infatti da una interiorità più
nasco-
122
sta. È il 'cuore' che parla in questi casi e che
accusa, e questa accusa può essere, a volte, molto opprimente ed
angosciosa, in quanto essa presenta delle molteplici stratificazioni e
viene spesso formulata in modo impreciso, anzi contraddittorio. E qui
Giovanni ci dice: "Dio sa tutto". La conoscenza di Dio riesce
a vedere tutte le circostanze, tutte le relazioni di causa ed effetto,
penetra in ogni umano groviglio sino alle più lontane radici. È questo
un pensiero che può esserci, invero, di grande aiuto.
Esso può essere! di aiuto in primo luogo in quanto ci
porta a prendere le cose sul serio. Ognuno di noi ha già fatto
l'esperienza di quello stato di incertezza nel quale non si riesce a
sapere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in un determinato
caso; non si riesce a vedere sino a qual punto arrivi una nostra
responsabilità e come si debba far fronte ad un dovere morale. Questo
stato di incertezza può aver avuto dei motivi diversi; uno di essi era
rappresentato dal fatto che non si erano prese le cose abbastanza sul
serio. Non riuscire a veder chiaro in una cosa molto spesso significa
che non si vuole vedere, in quanto mancano la volontà e la decisione
necessario a tale scopo. La stessa persona che emette nei confronti
degli altri dei giudizi così rapidi e così duri preferisce usare,
quando si tratta di giudicare delle sue azioni, parecchi Torse' e
parecchi "È possibile che". Quella persona potrebbe giungere
a veder chiaro con maggior rapidità se si alleasse con la conoscenza di
Dio. Molto spesso delle situazioni moralmente confuse ed intricate si
chiariscono non appena ci si ponga sotto lo sguardo di Dio e si renda la
nostra volontà pronta e disposta ad accettare qual-siasi cosa: io
voglio ciò che è bene davanti a lui:
123
questo, o quello od anche quell'altra cosa che mi è
talmente penosa...
Ma la peggiore accusa del cuore è quella che nasce
dalla malinconia e forse è proprio a questa accusa che pensa san
Giovanni. Essa è tanto inafferrabile quanto angosciosa. Essa non dice:
ecco quello che hai fatto, oppure: questa cosa è stata fatta male, ma
al contrario afferma: È tutto sbagliato. Pertanto la ragione resta
disarmata nei confronti di tale accusa perché, per poter rispondere,
essa ha bisogno di una affermazione precisa, mentre qui tutto resta vago
ed indeterminato. Anche la nostra volontà può, in tal caso, fare molto
poco, perché ogni via ci sembra sbarrata e la volontà è paralizzata.
Di fronte a questa accusa tutte le cose perdono il loro senso, nessuna
di esse sembra valer la pena di esser fatta. Nessuna persona sembra più
avere la minima stima per noi; tutti sembrano essere ostili nei nostri
confronti, oppure indifferenti; oppure quale altro sentimento può stare
in agguato contro di noi dietro questi visi nei quali non ci è più
possibile di leggere?...
Nella malinconia confluiscono, in modo confuso, parecchi
elementi: una nostalgia senza precisa destinazione; il sentimento di
aver perduto ciò che è più importante, essenziale; una tristezza che
non ha un motivo preciso ma che potrebbe quasi definirsi una tristezza
allo stato puro; un oscuro gorgo nel quale sprofonda tutto ciò che è
bello, gioioso e pieno di speranza. Tutto si trasforma in una pesantezza
inferiore, che paralizza ogni iniziativa spirituale, che giunge, anzi,
sino all'impressione di portare tisicamente un grave peso.
124
È in queste ore che parla la parola di san Giovanni.
Proprio perché essa non esamina e non distingue. e neppure offre delle
ragioni e delle possibilità che affonderebbero immediatamente
nell'oscuro gorgo dello stato d'animo malinconico. Qui si offre invece
una prossimità, una mano, che allontana il malinconico da se
stesso e lo rende più libero.
Ma come può il pensiero rivolto alla divina onniscienza
essere di aiuto in mezzo alla pena e all'affanno causati da questa
accusa? Non aumentano essi di intensità quando l'uomo oppresso ed
angosciato si ricorda dello sguardo di colui che vede tutto? Per
comprendere una cosa simile, dobbiamo prima cercare di approfondire il
nostro pensiero.
La volontà di sapere può essere di diversa natura. Ce
n'è una molto ordinaria e volgare che si chiama curiosità, senza
pudore ne bontà. Si presenta in ogni momento in questa nostra epoca.
Dappertutto la sua invadenza è all'opera. Essa si intrude nella vita
privata; la deforma nei giornali, nei rotocalchi, nelle rassegne
settimanali; mette a nudo la disgrazia, la sofferenza, l'amore; vende
tutto ciò che è umano pur di ottenere un effetto sensazionale. Possa
quanto abbiamo di più caro essere preservato da questo sguardo, la cui
bassezza e volgarità non saranno mai giudicate abbastanza severamente.
San Giovanni non pensa certamente ad una cosa di questo genere, quando
egli ci dice che Dio sa tutto, Dio, colui che ha dato all'uomo il
rispetto per il suo prossimo come un segno di nobiltà intcriore.
Un'altra volontà di sapere è quella che spinge lo
scienziato ad effettuare le sue ricerche. Quando essa è autentica non
ha nulla a che vedere con il desiderio
125
di ottenere effetti sensazionali. È la verità che le
sta a cuore, la sola verità. Lo scienziato vuoi vedere le cose come
esse sono; egli scruta i fatti ed i rapporti, le cause e le leggi.
Questa volontà di conoscere costituisce la grandezza dell'uomo e si
preoccupa del suo benessere. Essa è obbiettiva, spassionata, anzi,
fredda. Può, tuttavia, divenire anch'essa una passione ed, in tal caso,
è capace di ogni ardimento. Ma essa resta estranea a ciò che è
oggetto della sua ricerca. Essa lo considera appunto come un oggetto,
nel quale nulla lo interessa, tranne la domanda: che cos'è? com'è
fatto? e perché è fatto in questo modo? Noi non potremmo attribuire
neppure a questa presa di coscienza quell'elemento estremamente
personale, dal quale viene l'accusa del cuore.
Ma esiste ancora una terza forma di conoscenza, che è
collegata con l'amore, che, anzi, emana dall'amore. Essa è piena di
rispetto, di benevolenza e di calore. L'amico conosce in tal modo
l'amico, la madre il figlio, la persona che ama la persona amata. Chi
conosce in questo modo non considera colui che viene conosciuto con
freddo distacco, ma gli si pone accanto, vicino a lui. Egli non dice:
"io che sono qui e tu che sei là", ma dice, invece: "noi
due; ciò che interessa tè, interessa anche me". È questa la
forma di conoscenza con la quale Dio ci conosce. E quando delle persone
umane si conoscono in questo modo, non si tratta qui che di un riflesso
di quella conoscenza mediante la quale Dio abbraccia la sua creatura.
Anzi, un suo figlio, oppure una sua figlia, per esprimerci con maggiore
esattezza.
Ed ora siamo in grado di poter meglio comprendere quale
potente aiuto possa derivare a colui che si senta oppresso dalle interne
accuse del cuore dal
126
pensiero rivolto a questa conoscenza divina. Quando
l'inquietudine sale dal profondo ed il sentimento della colpa si fa più
opprimente, quando le cose assumono un aspetto confuso e sembrano
perdere ogni senso, colui che si sente oppresso deve rifugiarsi nella
divina onniscienza, come in una luce calma e pura, una calda
prossimità: "Signore, io sono ignorante, ma tu sai tutto! Il tuo
sapere è più grande del mio cuore inquieto; più grande della mia
colpa; più grande di ogni oscurità e di ogni turbamento — e tu sei
l'amore...". Una grande tranquillità potrà allora derivare da un
simile pensiero. Il nostro sguardo diviene più chiaro. Ci è possibile
distinguere meglio. E quando nessuna altra cosa è possibile, si può
sempre dire:
Accogli tutto nel tuo amore, che invero costituisce
anche la grande pazienza. Io affido a tè questo affare e per il momento
lo lascio stare. Quando il tempo sarà giunto, tu mi farai vedere più
chiaro e mi darai la forza di fare ciò che è giusto."
Ma noi dobbiamo approfondire ancora maggiormente il
nostro pensiero. Le parole dell'apostolo Giovanni sono il risultato di
sessantenni di riflessione e di preghiera; se noi ci lasciamo prender
per mano e guidare da esse, esse ci condurranno sempre più lontano,
verso l'essenziale.
All'inizio del suo Vangelo, noi troviamo: "In
principio era il Verbo", il Logos, il Figlio di Dio. Nato
dall'eterna verità — no, anzi, egli è l'eterna verità poiché in
lui, espresso dal Padre, la natura di Dio entra nella luce della
manifestazione personale. E più avanti noi leggiamo: "Tutte le
cose per mezzo di lui furono fatte, e senza di lui nulla fu fatto di
ciò che fu fatto".
127
Questa frase significa: tutte le cose sono nate dalla
verità. Non da un oscuro impulso, ne dalle mute necessità, ma dalla
verità, chiara e vivente. Spesso si leggono delle frasi di questo
genere: la natura ha ordinato le cose in questo o in quel modo; in
questo ordine, in queste organizzazioni, si dimostra la saggezza della
natura; la" natura fa dei ricchi doni, e così via. Queste frasi,
queste affermazioni, danno in un primo momento l'impressione di essere
molto profonde, ma in realtà esse sono senza senso, anzi, menzognere.
La natura non possiede alcuna saggezza;
essa non organizza nulla, non fa doni ne può ricusare
alcunché. Essa non è una realtà dotata di volontà e <ii
personalità. Essa non ha nulla a che fare con delle affermazioni nelle
quali appaia il soggetto di una azione, ma è immota; si muove soltanto
in quanto essa costituisce un insieme di mute necessità. Dio solo è il
soggetto. E, al fine di allontanare qualsiasi impurità di carattere
pantelstico, bisogna aggiungere subito che egli non è, ad esempio, il
soggetto della natura, ma è il Signore, in modo assoluto, Signore di se
stesso e, per questo motivo, di tutto ciò che esiste 'al di fuori di
lui'. Egli ha creato la natura fondandola sulla chiarezza dei suoi
pensieri, pieni di verità, e sulla serietà del suo amore. È partendo
da questo fondamento che essa è stata fatta, che è stato fatto tutto
ciò che esiste, noi uomini inclusi. E qui ognuno di noi dovrà
aggiungere: anch'io!
Perciò l'onniscienza divina si trova alla radice stessa
del mio essere, della mia natura. La mia origine non è da cercarsi nel
'grembo dell'essere', ne nel!' 'abisso primordiale della natura', ne nel
'processo del divenire del mondo', o in altre locuzioni del genere, che
hanno un suono così grandioso, ma che
128
quando si cerca di afferrarle d lasciano a mani vuote e
con l'amaro gusto, in bocca, di essere stati presi in giro. No, la mia
origine è da ricercarsi nella luce della verità divina.
Esiste un pensiero della scuola di sant'Agostino, il
quale, se rettamente compreso, può riempirci della gioia profonda che
emana dalla verità. Esso afferma:
Io sono più vero e più reale in Dio che in me stesso.
L'immagine che il suo pensiero ha di me è pura e fedele. In essa tutto
è chiaro ed ordinato. In questa immagine il mio essere e le mie azioni
come pure il corso di tutta la mia vita hanno un senso pieno.
Talvolta, in certi strani momenti, noi siamo come
sfiorati dal presentimento, dall'intuizione di questa immagine. Siamo
come toccati da questo sentimento:
dietro alla mia esistenza si cela qualcosa che è buono
davanti a Dio. Dietro a questa esistenza che mi sembra così lacerata e
frammentaria, nella quale oggi accade questo e domani quello; qui viene
fatta una cosa e là ne viene fatta un'altra; dove a volte freme la
gioia e a volte il dolore, e tutto è spesso così confuso da portare
alla disperazione — dietro tutto ciò, nel pensiero di Dio, sta
un'immagine che splende di una verità luminosa. Ed una speranza che si
muove nella parte più profonda di me stesso, mi dice, con voce lieve:
se la sua grazia me lo concede, verrà infine il momento in cui io mi
incontrerò con questa mia immagine e in qualche modo, nonostante tutti
i fallimenti e tutti i disastri della mia vita, mi unirò ad essa
nell'eterna luce. Ed allora, infine, io sarò nella mia vera
realtà...
Ispirati da questi pensieri, noi gettiamo uno sguardo
profondo entro la parola di san Giovanni. Essa ci
129
dice: quando il tuo cuore ti rende inquieto; quando tu
senti che nulla è come dovrebbe essere; quando questa o quella
responsabilità pesa su di tè — forse quella grande
corresponsabilità che si prova di fronte a tutto ciò che è umano —
abbandonati in tal caso con fiducia alla onniscienza di Dio. Egli sa
tutto nel suo amore eterno, egli sa anche quello che ti concerne. Ed un
giorno non solo egli ti mostrerà a tè stesso, ma farà in modo che la
sua eterna idea ed il tuo essere vivente non siano che una cosa sola nel
mistero della Redenzione. Egli lo farà, in qualche modo. Allora ogni
accusa del cuore tacerà. Allora il grande 'perché', che ha sempre
vanamente interrogato, riceverà la sua risposta.
130
L'AMORE DI DIO
In queste meditazioni noi abbiamo già parlato varie
volte dell'amore di Dio. E come avrebbe potuto essere altrimenti, quando
proprio la rivelazione di questo amore è stato il grande compito
affidato all'apostolo Giovanni! Ma la comprensione del messaggio
cristiano dell'amore è una cosa così importante che noi vogliamo
adesso dedicarci esclusivamente alla risoluzione del problema di questo
amore, del suo vero signiEcato. Le nostre riflessioni assumeranno, in un
primo momento, un carattere piuttosto filo-sofico, per cercar poi di
penetrare, ancor più profondamente, nel significato della Rivelazione.
Il quarto capitolo della nostra lettera dice nei
versetti che vanno dal settimo al decimo: "Carissimi, amiamoci l'un
l'altro, perché Pamore è da Dio e ognuno che ama è generato da Dio e
conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
L'amore di Dio si è manifestato in ciò: Dio inviò il
Figlio suo, l'Unigenito, nel mondo, affinchè noi vivessimo per mezzo di
lui. In questo sta l'amore:
non noi amammo [per primi], ma egli amò noi [per primo]
e inviò il Figlio suo ad espiare per i nostri peccati".
In queste frasi noi troviamo espressa la seguente
domanda: da dove viene l'amore? Dov'è che esso ha il suo inizio? Ed
assieme con questa domanda
131
viene anche data la relativa risposta. Noi dobbiamo
aggiungere, immediatamente, che qui si parla del vero amore; di
quell'amore che il Nuovo Testamento intende, quando esso usa questa
parola.
Per comprendere meglio il senso delle affermazioni di
Giovanni in materia, noi immagineremo che alcuni amici, seduti alla
stessa tavola, si scambino le loro idee riguardo al significato che la
dottrina cristiana attribuisce all'espressione 'amore di Dio' e che il
primo dica:
Questo amore proviene dalla parte più intima del cuore
umano. Esso rappresenta la sua forza più vera e più specifica. Per
lungo tempo questa forza è rimasta imprigionata a causa della lotta che
infuriava dappertutto, impegnata dagli uomini contro la natura,
dall'uomo contro l'altro uomo; in tal modo essa non potè manifestarsi.
Ma nel corso della storia l'egoismo umano è stato domato in modo tale
che il cuore dell'uomo è divenuto così libero da poter considerare
anche il diritto e le necessità del prossimo e da sentirsi responsabile
nei suoi confronti. Così è sorto quel sentimento, quella disposizione
spirituale, che noi chiamiamo altruismo. L'altruismo, in opposizione al
suo contrario, l'egoismo — che ha presente soltanto Yego, il
proprio io — pensa anche, e questo in modo spontaneo, sìì'alter,
all'altro uomo, al prossimo.
Il cristianesimo non è altro che l'espressione di
questo altruismo. Il suo solo merito è stato quello di aver tradotto
questo sentimento, già latente nell'uomo, in una gerarchla di valori,
in un ideale umano, quando i tempi furono abbastanza maturi per poter
far questo. Esso ha — e non poteva essere
132
possibile diversamente — situato la perfezione di
questa morale dell'amore in Dio stesso; in un Dio, che viene inteso come
colui che, con assoluta bontà, pensa agli 'altri', vale a dire alle sue
creature. Gesù di Nazareth fu la grande personalità che incarnò e
realizzò, nella maniera più pura, questa disposizione spirituale
assieme con la concezione di Dio che su di essi si basa. Egli ha anche
creato, mediante il suo linguaggio, la sua dottrina e il suo simbolismo
religioso, l'espressione storicamente efficace di tal concezione.
Questo è il significato delle frasi di Giovanni che noi
abbiamo lette, conclude riassumendo il primo interlocutore.
A lui un secondo interlocutore risponde: Tu fraintendi
completamente il senso di queste frasi, poiché, al decimo versetto,
l'apostolo dice con parole molto chiare: "In questo sta l'amore:
noi non amammo [per primi] Iddio, ma egli amò noi [per primo]".
L'amore di cui parla il messaggio cristiano non ha inizio nel cuore
umano, bensì in Dio. Noi abbiamo anche una grande espressione
filosofica di questa verità nella dottrina di Piotino. Secondo questa
dottrina, Dio è l'infinitamente ricco, incommensurabile nella sua
essenza, sovrabbondante di forze di vita. E lo è a tal punto che egli
non può rimanere in se stesso, ma deve invece effondersi. Egli diventa
in tal modo un principio creatore e l'immagine che meglio lo rappresenta
è quella della fonte, della sorgente. La sorgente, infatti, può essere
soltanto in quanto essa scorre. Nello stesso modo Dio deve, per sua
essenza, riversarsi al di fuori ed è così che ha origine il mondo.
L'amore di Dio che si dona, a
133
causa della sovrabbondanza di questo amore, è la radice
di ogni essere ed il mondo non è altro che la pienezza divina
comunicata, l'amore che si è concretizzato in un corpo.
Non appena il mondo emanato da Dio ha preso forma, ha
acquistato la sua autonomia, incomincia il movimento inverso, in
dirczione della "sorgente". Questo movimento passa attraverso
tutte le cose, ma nell'uomo esso prende coscienza di se stesso. L'uomo
infatti riconosce la comune origine, dalla quale tutto proviene, e che
è quindi anche la sua origine. Risponde all'amore del Dio che si è
donato, che si è comunicato, con il suo amore, con la sua nostalgia per
la patria divina e si sforza di ritornare alla primitiva unità
attraverso i diversi gradi della purificazione, dell'illuminazione e
dell'unione.
San Giovanni è quell'apostolo, quell'araldo del
cristianesimo che ha operato il collegamento fra la dottrina
neoplatonica dell'autodonazione, dell'autocomunicazione di Dio e la
persona di Gesù, portando quella dottrina ad un ulteriore sviluppo
sulla base dell'insegnamento del suo Maestro.
Un terzo interlocutore interviene per confutare quanto
è stato detto prima e dice a sua volta: Tale interpretazione non è
accettabile. Il modo in cui Piotino parla dell'amore dell'essere supremo
mostra, sì, chiaramente che egli lo intende come spirito, ma come uno
spirito, però, che equivale a una specie di potenza naturale. Il suo
Dio non è libero. Nello stesso modo in cui la sorgente deve effondersi
e scorrere per essere veramente sorgente, così questo Dio deve donarsi
e comunicarsi in quanto proprio ciò richiede la legge stessa della sua
natura.
134
Nel messaggio di Gesù — e quindi anche in quello
dell'apostolo — Dio, invece, è assolutamente libero. Egli è Signore
per essenza. Il mondo non 'emana' da lui, ma è lui che lo 'crea dal
nulla'. Egli non è costretto a far ciò da una 'necessità', si tratti
pure di una necessità che è intima alla sua natura, ma agisce invece
sulla base di un suo sovrano ed imperscrutabile giudizio.
A dire il vero, proseguirebbe questo terzo
interlocutore, da tutto quello che io ho detto sorge un grande enigma:
come è possibile che questo Dio ami il mondo e l'uomo? Quale motivo
può averlo indotto, lui, che è infinito ed eterno, che basta a se
stesso, a stabilire una simile relazione con il finito? Com'è
addirittura possibile tale rapporto dell'Essere assolutamente libero,
con l'essere contingente, condizionato? Quando io rifletto su questo
enigma, non mi riesce di trovare alcuna risposta soddisfacente. Io
preferirei pertanto dire che l'intera dottrina della creazione del mondo
da parte di Dio e della sua inclinazione, della sua benevola propensione
nei confronti dell'uomo, non è che il simbolo di una realtà
assolutamente incomprensibile, che sarebbe meglio considerare con molta
venerazione senza però voler trovare una spiegazione per essa.
Le affermazioni di questo terzo interlocutore potrebbero
trovare una risposta. Un quarto potrebbe dire, infatti: Tu non rendi
giustizia al mondo. Tu invero non hai ancora fatto l'esperienza della
sua ricchezza. Tu non hai ancora preso coscienza di tutto ciò che il
mondo racchiude in sé: quale inesauribilità di forme e di processi,
quale enorme e nello stesso tempo minuta trama di rapporti, che non
sarà mai
135
possibile comprendere interamente. Dovunque tu porti la
mano, troverai sempre del nuovo e sempre al suo giusto posto. La scienza
continua a ricercare senza poter mai giungere ad una conclusione finale,
poiché l'ultima risposta ad un interrogativo ne porta con sé una
catena di nuovi.
E quale grandezza nell'universo! Noi che abitiamo sulla
terra abbiamo il sole come centro del suo movimento. Ma la terra,
insieme col sole, non rappresenta che un minuscolo elemento nel sistema
della Via Lattea. Ora gli scienziati ci dicono, al riguardo, che
esistono più di un milione di sistemi stellari della stessa grandezza.
E quanto vale per ciò che è grande, vale anche per ciò che diviene
sempre più piccolo. Più la scienza penetra in profondità, più le
forme divengono minuscole, più potenti sono le energie che vi si
scoprono legate.
Se poi portiamo il nostro sguardo all'uomo — quanti
misteri si nascondono nella sua piccola figura! Una antica espressione
lo chiama infatti ml-krokósmos, un secondo piccolo mondo, in
quanto egli ripete il primo, lo riassume entro gli stretti limiti della
sua figura umana. E poi, pensa un po' a tutto quello che l'uomo sa
compiere: a quella sterminata grandezza che si esprime nei concetti di
conoscenza, di valutazione, di ordine, di creazione. Pensa alle
comunità umane, alle strutture politiche che crescono di grandezza, al
corso senza fine della storia. Non sarebbe tutto ciò abbastanza grande,
ricco e nobile per rappresentare un oggetto degno dell'amore di Dio?
Ma il precedente interlocutore ribatterebbe, a sua
volta: Quello che tu hai detto può far subito una
136
grande impressione; ma quando ci si sia un poco ripresi
è possibile vedere, fin troppo chiaramente, quale sia la realtà vera:
tu puoi ammucchiare le grandezze, accumulare gli splendori, quanto vuoi.
Non raggiungerai mai la grandezza e lo splendore glorioso del Dio
assoluto. Non potrai mai raggiungerli per una ragione che riguarda la
loro stessa essenza. Infatti, l'amplificazione di ciò che è finito non
potrà mai raggiungere, e neppure avvicinarsi, a colui che è, in senso
stretto e realmente, l'Infinito; egli sta al di là di ogni misura e di
ogni realtà. E come può Dio amare questo mondo e quest'uomo, che non
sono assolutamente paragonabili a lui?
E non dimenticare questa circostanza: qui si parla di
amare sul serio, perché tale è il significato del messaggio cristiano.
Ma che vuoi dire amare 'sul serio'? Non significa soltanto voler del
bene al mondo, allietarsi che l'uomo viva e sia felice, assisterlo nelle
sue necessità. Tutta la serietà di questo amore appare solamente
quando — e qui permettimi di usare, in questa discussione, una parola
che, a dire il vero, noi non potremmo associare all'idea di Dio ma che,
purtuttavia, serve a farci comprendere ciò di cui qui si tratta —
questo amore si trasforma in destino per colui che ama, cosa che noi
riscontriamo nell'esistenza di Gesù. Come può addirittura nascere un
tale amore per un oggetto così sproporzionato?
Pertanto io debbo, ancora una volta e con ripetuta
energia, affermare: la parola 'amore di Dio' esprime un mistero. Essa
parla di qualcosa che oltrepassa la nostra comprensione. E la oltrepassa
in un modo così totale e definitivo, che noi non siamo assolutamente
capaci di inserirla nella struttura dei nostri pensieri. Se tentiamo di
farlo, questa struttura addi-
137
rittura salta, va in frantumi, oppure il significato
reale e specifico di quella parola si riduce ad un usuale significato
umano. L'amore di Dio è qualche cosa di talmente misterioso e grande
che, di fronte ad esso, non si può far altro che tacere e cadere in
ginocchio.
La discussione di questi quattro interlocutori ci ha
condotti ad un punto dal quale noi dobbiamo partire, con tutta la
riverenza ma anche con tutto il coraggio della fede, per dire ciò che
deve esser detto.
Che cosa accade in un incontro, che sia abbastanza
profondo, fra due esseri umani? Di regola accade che tutti e due possono
arrivare a conoscersi reciprocamente ed a stabilire dei rapporti di
simpatia, di benevolenza, di scambievole aiuto o che dir si voglia;
fra essi però esiste sempre una barriera. Questa
barriera si esprime in frasi di questo genere: io, non lui; lui, non io.
Io possiedo questa cosa; perciò non la possiede lui. Egli è malato; io
non lo sono. Questa barriera ha la sua origine nella autonoma
individualità di questi due esseri; essa li protegge l'uno dall'altro.
Ed è necessario che sia così, altrimenti nessuna esistenza personale
sarebbe possibile ed ogni essere umano sarebbe introdotto violentemente
nella vita degli altri.
Ma quando una persona umana si volge verso un'altra
nella serietà dell'amore, la barriera di cui parlavamo cade; e ciò
avviene in maniera tanto più completa, quanto più pura è la serietà
di questo amore. Una madre, il cui figlio sia caduto ammalato, non dice
più: lui, non io. Invece è, come se fosse lei stessa ammalata. Un uomo
non respinge il suo
138
amico afflitto con le parole: lui, non io, ma egli
partecipa direttamente al suo sentimento, al suo dolore. Quando un uomo
ed una donna sono uniti da un vero amore, ciascuno di essi accoglie
l'altro in se stesso: lui, e perciò anch'io. Ciò che accade alla
persona amata entra a far parte del destino della persona che ama; e
questo tanto più direttamente ed incontestabilmente quanto maggiore è
la purezza con cui l'amore nasce dalla serietà della persona e dalla
verità del cuore.
Ed ora Giovanni ci dice, esprimendo in tal modo quanto
vi è di più profondo nella Rivelazione: la stessa cosa è capitata nel
caso di Dio. È con una divina serietà che egli ama il mondo, l'uomo; e
qui ognuno di noi può dire: ama me.
In una esposizione di una verità che sia fatta in modo
serio, bisognerebbe, a dire il vero, non far mai entrare nulla di
personale. Ma queste nostre riflessioni hanno il carattere di
meditazioni; non hanno per oggetto, pertanto, la pura teologia o
semplici consigli pratici che debbano servire nella vita, ma qualche
cosa nella quale il pensiero e la vita si intrecciano, si collegano
strettamente. E questa stretta colleganza garantisce della sua
attendibilità proprio per il fatto che colui che vi parla le sta
dietro, con la sua esperienza personale. Per questa ragione spero che mi
venga concesso di parlare a titolo personale.
Da lungo tempo, senza tregua, io sono assalito dal
seguente interrogativo: come è mai possibile che Dio ami il mondo e
l'uomo? Quando si sia fatta piazza pulita di tutti i sentimentalismi e
di tutte le idee facili e comode che si nascondono dietro frasi come
"il Padre buono del cielo" od altre dello stesso genere, e si
sia cercato di pensare in maniera seria,
139
questo interrogativo incalza e si fa pressante: come è
possibile che colui che è infinito ed eterno ami l'uomo finito? Che Dio
ami l'uomo, che ha saputo portare questa sua finitezza sino
all'oltraggio della rivolta? Si sarebbe quasi tentati di dire: si addice
a Dio un simile amore? Non ne viene pregiudicata la stessa dignità di
Dio? E questo tanto più quando noi sappiamo, perché ci è stato così
rivelato, che egli, per amare, non aveva affatto bisogno di noi, in
quanto un amore eterno e personale già esiste nel seno dello stesso
Dio, fra le persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Come
sia possibile una cosa simile, senza che venga infranta l'unità di Dio,
noi non lo possiamo comprendere. Ma quella verità, per la quale i primi
secoli hanno lottato con tanta passione di fede, ci insegna, infatti,
che vi è un Dio solo, ma che in questo Dio unico si trovano la parola e
la risposta, la generazione di un Figlio dal Padre, ed una comunione
nella verità e nell'amore. Dio non ha pertanto bisogno del mondo per
poter amare, Che ci sta dunque a fare, che senso ha l'amore di Dio anche
per noi?
Io ho fatto l'esperienza che non è possibile di venire
a capo di un simile interrogativo finché non si decida di dire a noi
stessi: il tuo modo di ragionare è sbagliato, perché metti alla base
dell'idea che tu ti fai di Dio la norma, la concezione, del-1' 'essere
assoluto' elaborata dallo spirito umano. Ora tu non devi chiederti se
Dio possa fare questo o quello, e concepirlo in tal modo come l'Assoluto
della filosofia. Devi invece ascoltare la Rivelazione;
ed essa ti dice: Dio agisce in questo modo. Egli è
fatto in modo tale che può compiere simili cose;
perché ai suoi occhi è eternamente bello e grande
140
l'agire così. E l'altro Dio, quello della 'perfetta
assolutezza', non esiste affatto; egli è una semplice creazione umana.
Dio ama il mondo; ama l'uomo, anche quello che lo ha oltraggiato col
peccato; ama anche me. È questa la grazia assoluta, dalla quale
provengono tutte le grazie. Tu devi partire da quello che ti dice la
Rivelazione. Aver fede non vuoi dire pretendere di giudicare colui che
ti si rivela partendo dal tuo umano punto di vista, ma significa invece
ascoltare la sua parola e fare di essa il punto di partenza sia del tuo
pensiero che del tuo giudizio.
Quando si sia arrivati a comprendere questo, allora si
dirà: il Dio che è realmente, è colui che si comporta in questo modo.
E questa verità trova la sua espressione nella parola della Scrittura
che dice:
"Dio è amore" (1 Io. 4, 8). È questa
una frase inaudita e piena di un enorme significato! Si cerca di rendere
le cose molto più facili di quanto non sono in realtà quando si
afferma che ci troviamo di fronte ad una specie di platonismo, la cui
caratteristica consiste nel trasformare i concetti astratti in essenze,
in eterne realtà. O no; qui non si dice che quest'amore è un atto che
questo o quello, Dio incluso, può compiere, ma, al contrario, che esso
è l'atto che egli soltanto può compiere, che non appartiene che a lui,
nello stesso modo in cui la sua natura, la sua essenza, gli appartiene.
Ma, siccome in Dio non v'è distinzione alcuna fra essenza ed atto, in
quanto egli non soltanto 'compie', ma 'è' il suo atto, nella
semplicità della vita eterna, l'amore di cui Giovanni ci parla è,
dunque, Dio stesso.
L'amore è un nome divino. Chi dice 'amore', dice •Dio'.
141
È soltanto partendo da questo punto di vista che la
Rivelazione, iniziata nell'Antico Testamento e giunta alla sua totale
pienezza nel Nuovo, diviene accessibile in tutto il suo significato: Dio
è colui che ama il mondo sul serio. Perché egli lo faccia, nessuno è
in grado di poterlo giudicare. Dio lo fa perché così egli vuole; sia
lodato Iddio perché vuole così.
Poiché Egli lo vuole, Dio attira a sé il mondo in modo
tale, che questo diviene per lui un destino d'amore: "Dio, infatti,
ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, l'unigenito... affinchè il
mondo sia salvato per mezzo di lui", leggiamo nel Vangelo di san
Giovanni (3, 16-17). E dove è possibile riscontrare un 'destino
d'amore' più grande che in Cristo, venuto a noi dalla santità del Dio
vivente; quel Cristo, il quale null'altro voleva che fare fluire entro
di noi la sua vita e che è stato tolto di mezzo nello stesso modo in
cui si toglie di mezzo un pericoloso malfattore? Anzi, è proprio questo
che bisogna dire:
egli è stato trattato in quel modo, non "sebbene
egli ci amasse", ma proprio "perché egli ci amava";
perché egli era venuto in questa divina disposizione di spirito, degna
pertanto di essere adorata, per "fare la volontà del Padre"
(Io. 6, 38) e non fu, invece, riconosciuto.
Questo amore che viene da Dio verso di noi deve mettere
radici nel nostro cuore ed essere da noi trasmesso agli altri:
"Carissimi, amiamoci l'un l'altro, perché l'amore è da Dio e
chiunque ama è generato da Dio " (1 Io. 4, 7). Nell'uomo
che, mediante la fede, si unisce all'eterno Vivente, un miracolo si
compie. Una vita. nuova, venuta da Dio, nasce in lui: a quest'uomo viene
concesso, nonostante tutta
142
la debolezza che deriva dalla sua finitezza, di fare
quello che fa Dio.
Fino a qual punto una cosa simile avvenga in realtà,
fino a qual punto una persona umana possa realizzare questa
possibilità, è un altro discorso. Ma questa possibilità esiste;
l'ineffabile possibilità di oltrepassarci, di andare al di là di noi
stessi; non soltanto nella umana simpatia, non soltanto nel dovere
oppure in una delle molte corresponsabilità della vita personale; ma
partecipando, invece, a quel mistero per il quale Dio ha voluto che il
mondo fosse;
per il quale egli ha attirato a sé questo mondo e gli
si è donato in un modo tale da far dire a Giovanni:
Dio ama il mondo.
È di questo mistero che ci parla, in fondo, l'intera
prima lettera di san Giovanni. Dipende da noi il credere o il non
credere alla sua realtà. E dipende anche da noi la misura nella quale
riusciamo a porci in comunione con esso e cerchiamo di mettere in
opera la sua forza. E tutto questo con continuità, senza stancarci,
nonostante tutti gli ostacoli che vengono frapposti dall' 'uomo vecchio'
e dal 'primo mondo'.
143
LUCE DELL'AMORE
In una delle precedenti meditazioni noi abbiamo
riflettuto su quel passo nel quale si parla della luce. Abbiamo
interpretato questa luce come un simbolo della vita dello spirito; più
esattamente, di quella vita che lo spirito vive nella conoscenza della
verità. Nel secondo capitolo della stessa lettera, ora, noi troviamo il
testo seguente: "Chi pretende d'essere nella luce e ha in odio il
suo fratello, è tuttora nella tenebra. Chi ama il suo fratello dimora
nella luce ne per lui c'è occasione di scandalo. Ma chi odia il proprio
fratello è nella tenebra e nella tenebra cammina e non sa dove va,
perché la tenebra accecò gli occhi suoi" (9-11).
Questo testo rassomiglia al primo e purtuttavia ne
differisce; esso dice in fondo la stessa cosa, ma la considera sotto un
profilo nuovo. Questo fatto riconduce la nostra attenzione su una
circostanza che noi abbiamo già, in precedenza, considerata e cioè sul
modo in cui i diversi pensieri contenuti in questa lettera vengono
presentati. Essi non si muovono secondo un piano d'assieme, una linea
direttrice, in modo che un periodo sviluppi il precedente e prepari il
seguente; ma, al contrario, ogni pensiero sale dalla profondità, si
dispiega e ricade nuovamente in basso mentre uno nuovo, a sua volta,
viene fuori. Pertanto, ad un primo sguardo, sembra che nella lettera
regni una specie di disordine. Ma non è così;
144
anche qui vi è un ordine. Si tratta però dell'ordine
che regna in uno spirito che è stato commosso — che è stato scosso
da una realtà di una potenza sacra. In questo spirito i vari pensieri
si muovono come delle onde tranquille, che sono però unite dalla
profondità del mare.
Questa unità si esprime in diverse maniere. Ad esempio,
determinate parole ricorrono con una certa frequenza, come se volessero
imprimere nello spirito, mediante queste ripetizioni, qualcosa di molto
importante ai fini della salvezza. Oppure — e ciò avviene proprio nel
caso del testo che stiamo esaminando — i vari pensieri si rispondono a
vicenda. È come se, con una determinata frase, si levi una voce che
dice il suo pensiero; poi un'altra si fa sentire, che esprime a sua
volta il suo; e poi ancora una terza, nella quale continuano a risuonare
gli accenti della prima. Delle voci, con la loro eco, attraverso questa
lettera ed i vari pensieri si uniscono in un'intima armonia.
Nel primo capitolo si parla della 'luce', ed essa viene
chiamata luce di verità (5-6). Si passa in seguito ad un altro
argomento. Ma poi — nel testo in esame — la luce riappare. Soltanto
che essa è ora divenuta "luce dell'amore" (2, 9-10). Nel caso
precedente la "tenebra" era rappresentata dalla menzogna;
adesso si è trasformata nell'odio. E mentre prima si diceva, a
proposito di Dio, che egli è "luce ed in lui non c'è tenebra
alcuna", ora leggiamo:
"Dio è amore e chi dimora nell'amore dimora in
Dio" (4, 16). In tal modo le varie voci, insieme con la loro eco,
passano attraverso questa lettera e fanno di essa un insieme vivente. E
riesce a legger bene colui che non cerca dei razionalistici 'perché' e
145
'percoine', ma che si immette invece nel suo movimento e
vive nella sua vita.
Giovanni ci dice, dunque, che l'amore è luce. Ma com'è
possibile una cosa del genere? Noi comprendiamo facilmente che l'idea
della verità possa venir espressa mediante l'immagine della luce. Ma
come può la stessa immagine essere usata anche per l'amore?
Nella storia del pensiero si trova un'antica e
nobilissima tradizione la quale ci dice che la verità, e la conoscenza
che noi ne abbiamo, sono sostenute dall'amore. È da questa credenza che
la filosofia platonica riceve già la sua intima forza. Essa continua ad
essere operante nel neoplatonismo, per trovare infine il suo definitivo
sviluppo, ripensata cristianamente, nel messaggio del lumen cordis,
della luce del cuore, che è contenuto nell'opera di sant'Agostino. E
qui si trova già quel rapporto che lega l'amore alla luce.
Il medioevo riceve l'eredità di sant'Agostino e
sviluppa il suo pensiero non soltanto nei suoi trattati e nelle sue
opere didattiche ma anche nella poesia. Noi conosciamo il meraviglioso
inno della domenica di Pentecoste che, a dire il vero, ogni cristiano
dovrebbe sapere a memoria, in quanto è ben difficile trovare una
preghiera più fervente diretta alla potenza di Dio, creatrice di vita: Veni
sancte Spiri fus "Vieni, o Spirito Santo". In questa
sequenza, alla seconda strofa, si trova l'invocazione: Veni lumen
cordium, "Vieni o luce dei cuori"! Segue, più avanti,
un'altra strofa, la quinta, che può essere recitata a lungo senza che
essa ingeneri stanchezza, in quanto ciò che v'è in noi di più
profondo risponde alla sua
146
profondità con un accordo così gioioso: O lux
beatis-sima, reple cordis intima tuorum fidelium, "O luce
beatissima, riempi le profondità dei cuori dei tuoi fedeli".
Ed infine, una delle preghiere rivolte allo Spirito
Santo dice: "O Signore, tu che hai istruito il cuore dei tuoi
fedeli mediante l'effusione dello Spirito Santo". Questo
"cuore" che riceve l'effusione dello Spirito Santo, che viene
istruito e che apprende, così, la santa verità, che altro è se non
l'intimo focolare dell'amore?
Fino a qual punto, dunque, l'amore è luce? Esiste anche
una luce che si accende nel cuore oltre a quella, della quale abbiamo
parlato nelle nostre precedenti riflessioni e che è propria dello
spirito che conosce? A questo proposito bisogna rispondere subito che il
"cuore", del quale qui si parla, non ha assolutamente nulla
che non sia spirituale e che appartenga invece al sentimento o, peggio,
al sentimentalismo. Anche esso è, al contrario, spirito; ma uno spirito
pieno di calore, uno spirito che può ardere. Per farci meglio
comprendere, noi useremo qui un metodo che è veramente efficace;
cercheremo, cioè, di collegare le verità divine ad esperienze che si
fanno ogni giorno.
È già capitato ad ognuno di noi di essere di cattivo
umore, in preda a tristi pensieri. Tutto, dentro, sembrava essere opaco
e pesante. Ma poi ci è capitato di vedere qualcosa di bello, ad esempio
un fiore odoroso e dalle forme pure e così, di colpo, il nostro cuore
si è rischiarato, è divenuto 'chiaro'. Oppure si camminava,
passeggiando, in un bosco. Ad un certo punto, improvvisamente, il buio
del bosco si è aperto su una vasta campagna, piena di vita;
147
questo spazio libero, disteso di fronte ai nostri occhi,
ha ridato la 'chiarezza' anche all'animo nostro. In tal modo, tutto ciò
che è bello e libero o che emana da un animo generoso, da una azione
nobile o da una parola coraggiosa può apportare all'uomo, che sia
sensibile e ricettivo, una 'luce' che illumina il suo cuore. E ciò può
avvenire in molti modi. Tutto ciò che ha valore commuove il nostro
essere intimo e risveglia una luce nelle sue profondità stesse. Questa
luce non resta soltanto all'interno, ma si fa strada fin nell'elemento
corporeo, nel viso, nel nostro aspetto, in modo tale che chi in quel
momento ci vede dice di noi: "è raggiante".
Ma si può anche rovesciare questo ragionamento e dire:
solo colui che ha questa luce nel cuore riesce a vedere tutto ciò che
di bello e di luminoso vi è al di fuori di lui. Affinchè un uomo possa
accorgersi di tutte le cose belle che vi sono al mondo e fare
l'esperienza del loro senso più profondo, non basta che egli possegga
uno sguardo acuto ed uno spirito di osservazione molto penetrante. Per
colui che possegga soltanto queste qualità esteriori, la gioiosa
pienezza di un albero in fiore o la linea delicatissima dei monti
lontani sono cose che restano invisibili ai suoi occhi. Bisogna, a tal
fine, che una luce già brilli dentro di lui, una luce che riesca a far
brillare la bellezza che si trova al di fuori di lui.
E in particolare nelle azioni umane! È poi così facile
di apprezzare, per quello che vale veramente, un atto nobile e generoso?
Un atto che sia stato ispirato, senza secondi fini, da una pura fede nel
bene? Quanto è grande la tentazione di sottoporlo alla critica e di
ridurlo in seguito a questa critica ad
148
una cosa normale, ad una cosa di tutti i giorni.
Nell'uomo che già non possegga in se stesso, come una luce interiore
che illumina l'esterno, l'aspirazione a ciò che è nobile e generoso,
la sua stessa meschinità salirà in cattedra e renderà grigio ed opaco
l'atto più lucente e puro... Oppure quando si tratti di un gesto
ardito, mediante il quale un uomo si sia gettato, senza esitazioni,
contro il pericolo. Noi sappiamo già, purtroppo, quanto la pazzia sia
vicina alla vera grandezza. Quale sollievo dunque per la nostra
mediocrità, quando noi possiamo atteggiare la bocca ad un sorriso, a
causa di un novello Don Chisciotte! E non parliamo di una fedeltà che
dura da anni e che offre pertanto, alla banalità dell'uomo comune, il
modo di poter sentenziare che è cosa stupida il sacrificarsi fino a
quel punto; della magnanimità che rinunzia al suo, mentre gli altri se
la spassano allegramente; della bontà che continua a perdonare; della
disponibilità nei confronti degli altri, che non si lascia spaventare
da alcuna disillusione; dell'onestà che preferisce ricevere un danno
piuttosto che mancare alla parola data;
e così si potrebbe continuare. In tutti questi casi, ci
è possibile di scorgere subito, ad una prima occhiata, il valore
di tutte queste umane qualità, quando invece in noi uomini è all'opera
una tendenza, forte e astuta ad un tempo, che ci porta a svalutare tutto
quello che fanno gli altri per poter così innalzare noi stessi? Non
deve lo sguardo, per poter cogliere tutto quel valore, emettere esso
stesso una luce, che
10 illumini e lo metta in evidenza? E la nobiltà delle
azioni veramente pure e generose non ha forse modo di manifestarsi solo
quando il nostro occhio le lascia
11 campo libero? Le cose stanno così. Colui che in
questi casi vuole vedere giusto ed apprezzare tutti
149
questi valori per quanto essi valgono, deve riconoscere
agli altri il posto che loro compete. Deve anzi gioire che un altr'uomo
si trovi così in alto, lo deve, cioè, amare.
Anche quando si tratti di dover conoscere il male che si
trova negli altri — le loro debolezze, i loro difetti, i loro vizi —
chi è in condizione di poter meglio giudicare questi uomini, tenendo
conto di tutti gli aspetti e di tutti gli elementi che compongono la
loro natura? Il giudice che fa un freddo esame, che è, anzi, carico di
disprezzo, o chi invece desidera che l'errante riconosca il pericolo in
cui si è messo, perché possa in futuro dominarsi e superarlo; l'uomo,
cioè, che possiede un amore pieno di umano interesse e sollecito
dell'educazione degli altri? Chi comprende più profondamente la colpa
del prossimo: colui che esige una riparazione oppure l'uomo che riesce a
perdonare? Ed il perdono reale, inferiore, che cosa è se non amore? E
chi giudica più Sanamente del vizio: l'intollerante in materia morale,
oppure colui nei cui occhi brilla la scintilla dell'umorismo, l'uomo che
riesce a vedere come anche le cose peggiori possano avere un loro posto
negli intrecci e nei grovigli della vita? Ed anche questo modo di saper
veramente giudicare che cosa è, se non amore?
Ma noi vogliamo portare tutti questi interrogativi fino
al nocciolo, sino al fondo del problema. E ci chiediamo
nuovamente: come è addirittura possibile conoscere un altro uomo?
Certamente, esistono dei punti di vista generali secondo i quali egli
può divenire oggetto di riflessione ed essere classificato: una
tipologia, delle strutture, delle forme di organizza-
150
zione, delle analisi di ambiente e così via. Si tratta
però, in questo caso, di una conoscenza obbiettiva ed astratta; si
potrebbe quasi immaginare che un giorno vengano costruiti degli
apparecchi per assolvere ad un tale compito. Ma ciò che vi è di più
specifico e di più essenziale in un essere umano, il fatto cioè che
egli è proprio 'quest'uomo' e non un altro, rifiuta di inserirsi in
qualsiasi struttura di carattere oggettivo. Nessun concetto astratto
serve ad indicarcelo, ma soltanto un nome: il suo. Solamente a partire
da questo primo dato tutto il resto acquista il suo carattere, in quanto
rappresenta la maniera in cui quell'uomo che porta quel nome esiste e
vive. Ma ci riesce di comprendere questo primo dato, specifico ed
essenziale? Di comprendere quest'uomo, che è fatto in questo modo, che
così vive la sua vita, che realizza il suo destino nella maniera in cui
egli lo realizza?
Non vi riusciremo certamente con il puro ragionamento,
ma soltanto mediante una lucida sensibilità che ha la sua sede nel
cuore. Mediante un movimento che ci fa entrare e partecipare del corso
della sua vita, che ci fa cogliere i ritmi sul fondamento dei quali si
realizza il suo essere. Questo movimento si chiama simpatia. Ma occorre
una cosa, ancora: occorre che noi diamo il nostro pieno consenso alla
sua esistenza, al modo in cui egli esiste. Ciò non vuoi dire che
quest'uomo debba, necessariamente, sempre piacerci o che noi dobbiamo
trovar giusto tutto quello che egli fa. Dobbiamo però riconoscergli il
diritto di essere conforme alla propria natura; di vivere come meglio
gli si conviene; di sviluppare la propria personalità e di essere
sempre più se stesso. Ed anche quando noi esercitiamo una critica nei
suoi confronti,
151
bisogna che essa abbia per base quel consenso
fondamentale. Deve essere in accordo con questa sua natura vera e
specifica e dirigersi contro tutto ciò che la mette in pericolo.
Non si tratta qui, certamente, di cose ovvie e naturali
e che possano essere realizzate con facilità. Cerchiamo di osservare,
ad esempio, quali sono le nostre prime reazioni nei confronti di una
persona che ci capita di incontrare per la prima volta: con quanta
rapidità noi reagiamo nei suoi confronti con un sentimento di
diffidenza, oppure di antipatia, di disprezzo, di freddezza. Finché noi
ci manteniamo in questo atteggiamento, nessuna comprensione per questa
persona è possibile. E quella critica che noi esercitiamo partendo da
un simile atteggiamento potrà, dal punto di vista oggettivo, essere un
modello di precisione; essa non coglierà mai l'essenziale e sarà
quindi, falsa, perché non le riesce di vedere 'lui'.
Se approfondiamo maggiormente questi concetti,
riusciremo ad avere un'intuizione, un presagio, del modo in cui Dio può
giudicare un essere umano. Egli ha dato a quest'essere umano
l'esistenza; è questo l'inizio del suo amore, il mistero del suo atto
creatore. Se Dio giudica in seguito che quest'essere umano si comporta
male, egli non ripudia questo amore, bensì lo conserva; anzi lo
continua anche nel suo giudizio. Il giudizio di Dio sopra un essere
umano è la continuazione dell'amore mediante il quale egli lo ha creato
— attraverso tutte le connessioni che risultano dalle cause naturali e
storiche; ed il fatto che questa divina disposizione d'animo agisce
presso lo stesso credente è il segno della vita nuova che in lui si è
incamminata verso il messaggio della salvezza.
152
Nella lettera sta scritto: "Se sapete che egli è
giusto, sapete pure che chiunque opera con giustizia è da lui
generato" (2, 29). Ed in seguito: "Guardate quale immenso
amore ci ha donato il Padre, così che siamo chiamati figli di Dio e
tali realmente siamo. Per questo il mondo non ci conosce, perché non
conobbe lui" (3, 1). Ed ancora: "Noi, amando i fratelli,
sappiamo d'essere passati dalla morte alla vita. Chi non ama dimora
nella morte" (3, 14). Ed infine:
"Chi ama il suo fratello dimora nella luce"
(2, 10).
Ma come è difficile giudicare in tal modo e come
comprendiamo adesso le parole di Gesù: "Non giudicate!" (Mt.
7, 1). Ogni giudizio nel quale manchi questa affermazione d'amore
per l'esistenza altrui conduce, alla fine, a rifiutare all'altro il suo
diritto all'esistenza. È la luce dell'amore che riesce a trionfare
dell'ostilità che sta in agguato dentro di noi. Quale madre potrebbe
essere veramente madre per suo figlio, se essa non avesse questa luce
nel cuore e negli occhi? Chi, senza di essa, potrebbe essere veramente
amico per il suo amico? Come potrebbe colui che ama diventare quale se
lo attende la persona amata, se in quest'ultima non ardesse la luce
dell'amore, quella luce che sola è in grado di aiutare, perché da
calore? Chi potrebbe essere realmente un educatore se non gli riuscisse
di vedere, nel lumen cordis, nella luce del cuore, la gioventù
che gli è stata affidata? Ma il cristiano deve, in virtù della sua
fede, portare questa disposizione d'animo in ogni incontro umano.
Non appena incomincia a nascere l'odio, dice Giovanni,
le tenebre si formano: "Ma chi odia il proprio fratello è nella
tenebra e nella tenebra cammina e non sa dove va, perché la tenebra
accecò gli occhi
153
suoi" (2, 11). Non è necessario perché una cosa
simile avvenga che il sentimento che si dirige contro l'altro assuma la
forma terribile che esso ebbe nel primo Eglio di Adamo, Caino: egli non
poteva neppure sopportare che suo fratello Abele fosse puro e buono;
finché un giorno non ci vide più e lo uccise, in campagna (Gen. 4,
8). Cerchiamo di ricordarci delle parole contenute nel discorso della
Montagna: "Avete udito che fu detto agli antichi: Non ucciderai; e
se qualcuno uccide sarà passibile di giudizio. Io, però, vi dico:
chiunque si adira contro il suo fratello sarà passibile di giudizio.
Chi dice al suo fratello [da sottintendersi: con disprezzo]: 'raca',
sarà passibile del Sinedrio; chi gli dice [nuovamente: con odio] 'stolto',
sarà passibile della Geenna del fuoco" (Mf. 5, 21-22).
L'ammonimento del Signore ci dice dunque: quelle tenebre, nelle quali
l'immagine del fratello scompare in modo così radicale che non ci
riesce più, assolutamente, di scorgerla; quelle tenebre, nelle quali
l'atto omicida diviene possibile, cominciano molto prima: nelle parole
offensive, nei pensieri pieni di disprezzo, nei sentimenti pieni di
veleno, in quel giudizio che rigetta l'errore dell'altro ed, insieme con
quest'errore, anche la persona che lo ha commesso.
Se tu lasci che questi sentimenti e questi pensieri
crescano in tè, dice Giovanni, l'immagine dell'uomo, tuo fratello, si
oscurerà ai tuoi occhi. Tu non potrai più comprenderlo. Le sue parole
più chiare assumeranno alle tue orecchie un carattere equivoco. Tu
vedrai delle intenzioni nascoste là dove non ce n'è alcuna. Tu non
cammini più con lui nella luce, ma, al contrario, nelle tenebre. Che
poi qualcosa di veramente terribile possa succedere, potrà dipendere
dal puro caso.
154
Nel quarto capitolo della lettera sta scritto: "Dio
è amore e chi dimora nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui"
(4, 16). La luce dell'amore, la quale fa sì che noi possiamo
comprendere l'altro è, nella sua forma originaria, fatta a somiglianzà
di quella disposizione di spirito che è propria di Dio. Ma il
linguaggio di Giovanni si esprime in un modo molto ardito, ed egli ci
dice: l'amore è Dio stesso.
Noi incontriamo già quest'amore all'inizio di ogni
cosa. Esso rappresenta, addirittura, il vero motivo per il quale noi
esistiamo. Abbiamo mai cercato di compenetrarci di quella verità, la
quale afferma che il mondo non è necessario, che avrebbe anche potuto
non essere? Per il mito, esso deve esistere necessariamente; per il
neopaganesimo che ha riposto la sua fede nella natura, anche; ma non per
la Rivelazione. Essa ci dice: il mondo è perché Dio vuole che esso
sia. Ed egli vuole questo perché lo vuole. Il mondo riposa, è radicato
nella libertà di Dio; e la disposizione fondamentale, l'anima, di
questa libertà è l'amore.
Tuttavia nel dir ciò dobbiamo usare cautela. Questa
affermazione non vuoi dire che noi possiamo domandarci il motivo che ha
spinto Dio a creare il mondo nello stesso modo nel quale noi ci
domandiamo perché una determinata persona si da tanto da fare con un
duro lavoro e la risposta relativa ci dice poi che egli fa questo
perché ama i suoi figli. Per l'azione umana esistono dei differenti
motivi: la riconoscenza, il proprio vantaggio, la necessità, e così
via. Fra tutti questi motivi esiste anche l'amore ed è proprio questo
sentimento che in questo caso determina l'azione della persona della
quale parliamo. Ma quello che Dio fa quando egli crea il mondo non
155
rappresenta un caso in mezzo a tanti altri, bensì
qualche cosa di assolutamente unico; ed anche il motivo che lo ispira,
vale a dire l'amore, è al di fuori di ogni paragone. Dio non ha bisogno
di nulla, non ha bisogno del mondo. Quando egli lo crea, non
diviene per questo più ricco, più felice o più sapiente. Egli non ha
neppure obbligo alcuno che lo costringa a crearlo. Non esiste una norma
che lo richieda ne una ragione di convenienza che lo consigli.
Anzi, si potrebbe persino pensare — e si tratta qui di
un'idea folle, come è del resto folle tutto quello che noi possiamo
cercare di dire sui motivi che ispirano l'azione di Dio; ma la
esprimiamo lo stesso, in quanto può essere un'idea chiarificatrice —
si potrebbe persino pensare che sarebbe stato meglio per Dio se egli non
avesse creato il mondo perché, in tal caso, esso non sarebbe stato
incessantemente sospeso alla sua potenza; lui, l'Infinito-assoluto, e
questo mondo il quale, nonostante la sua enorme grandezza, è così
piccola cosa di fronte all'immensità di Dio! Ma che egli voglia che il
mondo sia, che lo voglia liberamente e con divina gioia — questo è
proprio l'amore del quale ci parla la Rivelazione. Perché Dio ama
così? Quali sono le ragioni del suo amore? Si potrà riflettere una
intera vita sopra questo mistero senza alcun risultato; questo amore non
ha infatti un motivo che possa precederlo. Esso è il puro inizio; la
causa prima di tutto ciò che da esso ha origine. Ma lo stesso inizio
non ha alcuna causa, alcun motivo, al di fuori di se stesso. L'amore di
Dio è; è da questa prima realtà che tutto il resto incomincia. Egli
vuole che anche noi siamo e sia pertanto lodato Iddio per il fatto che
noi possiamo essere; che possiamo essere a causa del più santo di
156
tutti i motivi: perché il suo amore vuole così.
È con questo stesso amore che Dio comprende le sue
creature: ogni cosa, ogni avvenimento, ogni essere umano. Gesù dice:
"Anche i capelli del vostro capo sono numerati" (Mt.
10, 30). Egli conosce tutto su di me. Ma no! Egli non conosce 'tutto su
di me', ma conosce "me"! Questa conoscenza piena d'amore
procede dal suo cuore per entrare in ciò che io posseggo di più intimo
e personale. Dio mi penetra sino in fondo col suo sguardo, mi avvolge e
mi protegge, mi garantisce. Questa conoscenza, amorosa e potente allo
stesso tempo, giunge sino all'interno del mio essere. Essa si trova là,
in quel punto nel quale io confino col nulla e mi mantiene nell'essere e
nella realtà.
Nell'intimo centro di tutto ciò che è si trova la luce
dell'amore divino. Per questo Giovanni ci dice:
Se tu vuoi che questa luce acquisti tutta la sua forza
nella tua vita, anche tu devi amare e tu puoi farlo perché essa tè ne
dona la capacità. Ma per l'uomo del nostro tempo egli aggiungerebbe:
Non dimenticare che, nell'epoca nella quale tu vivi, tutte le parole del
santo messaggio si sono degradate, hanno perduto la loro forza
primitiva. Con la parola 'amore' il Signore non vuole intendere
l'attività di beneficenza e di assistenza che ha caratterizzato questi
ultimi cento anni, per quanto buona e giusta essa possa essere. Essa è
ormai entrata a far parte delle istituzioni dello Stato moderno; ma
anche di fronte alla sua presenza non si deve dimenticare con quanta
fredda indifferenza l'amministrazione di quello stesso Stato passi sopra
i più vitali e sacrosanti diritti degli uomini, qualora lo ritenga
utile per le sue finalità
157
di carattere politico. L'origine ed il modello di
quell'amore che Dio esige si trovano nello stesso Iddio, in lui che è
il creatore ed il redentore. E l'uomo al quale Giovanni si rivolge è
quello "generato da Dio";
colui che è nato dalla vita di Dio, mediante una nuova
nascita, che ha la sua origine nella fede e nel battesimo, ed il cui
amore deve partecipare alla vita dell'amore divino.
Quest'uomo dovrà esaminarsi continuamente tenendo per
modello la divina disposizione d'animo rappresentata dall'amore ed agire
in conformità. È di qui che nasce la dottrina relativa al
"prossimo";
questa parola indica qualcosa di più e di diverso
dall'uomo che ha la ventura di trovarsi vicino a me;
essa significa piuttosto quell' "altro" che la
Provvidenza divina, nelle varie circostanze della vita, conduce verso di
me perché ogni volta fra me e lui si rinnovi il mistero della
fraternità nel Cristo e che io devo amare "come me stesso" (Mt.
22, 39). Dunque, io non dovrà soltanto evitare di fargli il male
che anch'io non vorrei subire, ma dovrò fare a lui tutto il bene che
vorrei che fosse fatto a me. Un simile atteggiamento può portare fino
al punto di dover "offrire per i fratelli le nostre vite" (1 Io.
3, 16). Ma noi non vogliamo parlare troppo di un amore così grande
perché tutto ciò ha per lo più l'effetto che, quando si presenta
veramente l'occasione di praticarlo, si ama "soltanto a parole o
con la lingua". Noi dobbiamo invece amare "coi fatti ed in
verità" (3, 18), nella realtà della vita di ogni giorno. E ciò
potrà avvenire se noi ci sforziamo di comprendere l'altro. Se ci
sforziamo di lasciar recitare anche a lui la sua parte, perché la
grande armonia voluta dal Padre nostro che sta nei cieli è com-
158
posta di molte voci ed ognuna di esse deve poter
risonare con il suo timbro particolare. Dobbiamo aiutarlo, quando ciò
è necessario ed in tutta la mi-.sura delle nostre possibilità, con
tutta la nostra attenzione ed i nostri sentimenti orientali sempre
sull'amore di Dio.
Tutte le volte che noi cercheremo di far questo noi
entreremo in quella chiarezza, alla quale pensa Giovanni quando egli ci
dice che dobbiamo "camminare nella luce".
159
L'AMORE DI DIO E IL DISORDINE DEL MONDO
L'amore di Dio non è quello umano, soltanto innalzato
sino a raggiungere la perfezione, ma è l'espressione della sua
sovranità. Colui che voglia parlare di questo amore deve farlo nello
stesso modo nel quale egli — nella luce della Rivelazione delTHo-reb
— dice che Dio è colui che è. La parola pronunziata nel roveto
ardente ha posto come base di tutto quello che si può dire su Dio la
frase: "Io sono colui che sono" (Ex. 3, 14). Dio è, in
modo assoluto;
noi siamo soltanto "davanti a lui". Nello
stesso modo il Dio che ama è lui stesso il Signore e l'inizio
•di ogni amore; e ci sia quindi permesso di aggiungere
alle parole che egli ha pronunziato sulPHoreb anche quest'altre:
"Io amo, io sono colui che ama".
Colui che parla dell'amore di Dio parla di un grande
mistero, anzi si potrebbe senz'altro affermare che egli parla di quella
che può essere definita la radice dei misteri cristiani. In virtù di
questo mistero Dio ha deciso che l'uomo ed il suo mondo dovessero essere
importanti per lui. Talmente importanti da determinare il suo destino,
se è permesso di applicare questa parola a colui che è il Signore per
essenza. La rivelazione della serietà di questo amore divino che genera
un destino è rappresentata
•dalla persona di Gesù Cristo e da quello che gli
avvenne.
160
Ma viene concesso all'uomo, prosegue Giovanni —
concesso e nello stesso tempo assegnato come compito — di ricevere
questo amore nel suo cuore, mediante la fede e la nuova nascita, e di
prenderlo per modello nelle relazioni che egli ha con gli altri uomini,
suoi fratelli in Cristo: "Carissimi, se così Iddio amò noi, noi
pure dobbiamo amarci scambievolmente" (1 Io. 4, 11).
Noi abbiamo già riflettuto su queste parole. Ma ora
potrebbe venir fuori una obbiezione che si è sinora agitata, forse, in
modo inquietante dentro di noi. Si potrebbe chiedere, cioè: se è vero
che Dio ama gli uomini e il mondo, se egli li ama con divina serietà,
non dovrebbe allora l'aspetto di questo mondo essere un po' diverso da
quello che in realtà si presenta ai nostri occhi? Perché non ci è
possibile di constatare che questo amore è operante e che mediante esso
tutto diventa buono? Ed invece, quale disordine! Quanto dolore, quanta
ingiustizia, quanta menzogna e quanta violenza!
Qualcuno potrebbe anche tirare questa obbiezione dalla
sua propria, esistenza e dire: se l'amore di Dio governa il mondo,
perché allora la mia vita è così dura? Perché io ho dovuto così
spesso soffrire delle privazioni e delle perdite? Perché, alla mia
nascita, ho ricevuto in eredità tanti rischi e tanti pericoli? Perché
le mie intenzioni vengono così spesso fraintese e misconosciute? Vi
sono delle persone alle quali vengono talvolta dei pensieri di questo
genere;
ma esse presto dimenticano e continuano a vivere in
ottimismo naturale. Altre invece sono fatte in modo diverso. Questi
pensieri continuano a lavorare dentro al loro animo. È come se le loro
esperienze
161
avessero degli uncini che si attaccano e non vogliono
lasciare la loro presa. Pertanto, dopo tante riflessioni di carattere
elevato e piene di fiducia, noi ci sentiamo in dovere di dare una
risposta onesta e leale anche a queste persone.
Io credo che questa risposta già si trovi in quella
stessa parola che abbiamo riconosciuto decisiva per poter intendere il
concetto dell'amo! di Dio, e cioè la parola serietà.
Cerchiamo di riandare i nostri pensieri: che piega ha
preso la vita dell'uomo sopra la terra? Noi sappiamo che Dio all'inizio
lo attira a sé e ripone in lui una incomprensibile fiducia: la fiducia
del grande Signore, che quando dona, dona interamente. Così Iddio
rimette il suo mondo nelle mani dell'uomo, facendo di lui un essere
libero, in grado di conoscere e di giudicare; un essere fatto a sua
immagine e somiglianzà, perché sia il suo rappresentante, il suo
mandatario, nella creazione.
Finché Dio, nella sua opera creatrice, si limita a
creare la terra e il mare, il sole e le stelle, le piante e gli animali,
in tutto questo universo non è ancora presente un 'io', ma soltanto
delle cose. 'Io' è una parola che soltanto Dio può pronunziare e, a
dire il vero, egli può pronunziarla in modo assoluto. Lui, che è il
Signore del proprio essere e il Signore del mondo. Ma, nel momento in
cui Dio chiama all'esistenza un essere dotato anch'esso di un 'io', ed
egli si dona a quest'essere come un eterno 'tu', l'intera esistenza
assume un nuovo carattere. Il luogo dove un fatto simile accade può
essere così minuscolo, come è minuscola la terra che quasi scompare di
fronte alla grandezza dell'universo; la vita di questo
162
essere può essere così breve, come è breve la durata
della nostra storia umana se messa a confronto con i miliardi di anni
dell'evoluzione cosmica; il numero degli uomini che si muovono sulla
terra può essere così piccolo, se paragonato alla sterminatezza del
cosmo; potremmo anche supporre che uno solo di questi esseri giungesse
all'esistenza e che questa durasse un'ora sola; ebbene, il solo fatto
che una cosa simile sia potuta avvenire basterebbe già a cambiare
tutto. Poiché questo essere sarebbe in grado di conoscere il mondo, di
rivolgergli la sua parola, di offrirlo a Dio nella risposta che egli da
al suo appello. E ciò basterebbe a decidere del senso di tutto ciò che
esiste — quella decisione che è stata affidata all'uomo come un
diritto e come un dovere. Ma l'uomo ha tradito la fiducia di Dio. Egli
ha cercato di strappare il mondo dalle sue mani. I discorsi blasfemi di
tanti filosofi, poeti e potenti del nostro tempo mettono in rilievo,
nella sua luce più cruda, il significato dell'atto dei nostri primi
progenitori. In tal modo venne rovinata la possibilità infinita che Dio
ci aveva donata.
Da tutto ciò è risultata una situazione nuova. Che
cosa avviene quando un uomo tradisce un suo amico:
è mai possibile che il traditore e colui che è stato
tradito possano semplicemente cancellare e dimenticare il tradimento,
come se non fosse mai avvenuto, e continuare nelle loro relazioni come
per il passato? Ciò, evidentemente, non è possibile, perché
altrimenti la loro amicizia avrebbe mancato di serietà. Questo
carattere di serietà, piuttosto, pone di fronte ad una nuova
alternativa: o tutto se ne va in frantumi, oppure accade qualcosa di
nuovo: un movimento in avanti che nasce dal cuore stesso della vec-
163
chia amicizia e che la rende più grande di quanto non
sia mai stata in passato.
Avviene qualcosa di simile, di corrispondente, sul piano
di quella relazione nella quale Dio ha innalzato l'uomo verso di sé.
Non sta a noi giudicare su ciò che era possibile od impossibile per
Dio. Certamente egli avrebbe potuto cancellare il tradimento della sua
creatura mediante un gesto di grazia benevola della sua mano; ma l'amore
di Dio per la sua creatura era di una serietà così terribile che la
vita dell'uomo, dopo il suo tradimento, non avrebbe potuto
manifestamente continuare così com'era stata per il passato. Quanto il
rapporto dell'uomo con Dio, con se stesso e con il mondo sia stato
sconvolto fino alle sue fondamenta, noi possiamo constatarlo da questo
stesso uomo. Un fraintendimento della conoscenza scientiEca afferma
infatti che l'uomo non è che uno sviluppo, una evoluzione, dell'animale
e che bisogna pertanto considerare tutto ciò che si riscontra di
malvagio nella sua natura e nel suo comportamento come una
sopravvivenza, un resto, del combattimento che l'animale deve condurre
per la propria esistenza. Ci troviamo qui in presenza di un errore
fatale; e quella conoscenza dell'uomo che, a chiunque voglia realmente
conoscere, deriva dalla stessa esperienza della propria esistenza, rende
possibile giudicare della gravita di quest'errore. L'uomo non è un dato
di fatto della natura, soggetto a una conoscenza esauriente. Il profondo
disordine che regna in tutto ciò che porta il nome dell'uomo non è un
rimasuglio, una sopravvivenza, derivante da gradi dell'evoluzione che
appartengono al passato, ma è qualcosa di un genere ben diverso. Esso
è un turbamento che risiede nelle radici e che è stato portato
164
dal tradimento che l'uomo ha commesso nei confronti di
Dio.
Ma tutto quello che è avvenuto nel corso dei tempi non
rivela abbastan2a tutto il carattere terribile di quel tradimento. È
stato l'amore di Dio che lo ha imprigionato, che ne ha attenuato le
conseguenze. Se egli non avesse fatto ciò, se Dio avesse abbandonato
l'uomo alle conseguenze del suo tradimento, la storia umana sarebbe
stata una storia di disperazione, ammesso che coloro i quali lo
commisero potessero sopravvivere ad esso. Lo stesso fatto, invece, che
essi siano potuti sopravvivere, che non siano andati completamente a
fondo sotto quel colpo, costituiva già l'inizio di qualcosa di nuovo.
Un nuovo inizio si è dischiuso. La colpa è stata
espiata, la fiducia tradita è stata donata nuovamente e con una
maggiore generosità. È Dio stesso che ha agito così e noi chiamiamo
la sua azione col nome di Redenzione. Con un amore di una tale serietà
da essere ancora più profondo — se ci è possibile di parlare così
— di quello che diede origine alla creazione; di una profondità così
grande da rendercelo inconcepibile, il Dio santo ed eterno assume su di
sé la responsabilità di quel peccato. Egli si fa uomo ed entra, con
quell'atteggiamento e quella disposizione d'animo che sono propri della
santità e cioè senza alcuna protezione, nella nostra storia piena di
intrighi e di insidie. Il destino di Gesù, la fine che egli ha fatto,
dimostrano chiaramente il significato di un simile avvenimento. Tale fu
l'espiazione della colpa che noi, i veri colpevoli, non eravamo in grado
di espiare; è grazie a questa espiazione e a partire da essa che noi
possiamo vivere completamente riconciliati con Dio.
165
Con dò non si dice che Dio abbia fatto in modo che ciò
che era stato fatto fosse come non fatto, perché una cosa simile
sarebbe stata impossibile. E neppure che egli abbia trasformato
completamente l'uomo come con un sortilegio, in quanto ciò avrebbe
mancato di serietà. Ciò che è stato fatto dall'uomo rimane e continua
ad influire nella sua vita, sotto forma di tendenza al male, di
turbamento dello sguardo, di disordine, di tribolazione e di sofferenza.
L'uomo si trova sì in una nuova relazione con Dio, ma tale quale egli
si è fatto lui stesso; con la differenza, però, che adesso — e qui
si tratta veramente di una differenza che ha un valore assoluto — si
apre dinanzi a lui la nuova e santa possibilità della grazia.
È dunque una cosa insensata, per non usare una parola
più dura, quando si afferma che un Dio che ami veramente non avrebbe
potuto imporre all'uomo un carico così grande, in quanto è stato lo
stesso uomo il responsabile di tutto ciò.
Se adesso quest'uomo vuoi ricominciare ad amare
nuovamente Iddio, egli non deve farlo in modo fantastico ma bensì
"in verità"; nella serietà dei fatti (1 Io. 3, 18);
nella storia, quale essa si è sviluppata e continua a svilupparsi sotto
la sua azione.
Questo amore incomincia proprio con la fede che l'uomo
ha nell'amore di Dio nonostante il fatto che il mondo è quello che è.
Giovanni dice, nella sua lettera, una frase molto singolare:
"Questa è la vittoria che ha vinto il mondo, la nostra fede"
(5, 4). Si potrebbe intendere questa 'vittoria' in un senso piuttosto
esteriore: come fermezza dimostrata in un ambiente estraneo, come
coraggio in tempi di lotta,
166
od altre interpretazioni del genere. Ma il suo vero
signiEcato è, tuttavia, più profondo. Esso ci dice che il fedele,
fondato sulle parole della Rivelazione, deve portare in questo mondo la
certezza che Dio è quegli che è, con quell'atteggiamento e quella
disposizione piena d'amore che egli ha manifestato nel Cristo,
nonostante il fatto che lo stato del mondo sembri continuamente
contraddire tale fede. Continuamente e sotto forme che sempre si
rinnovano, il mondo dichiara che è impossibile che Dio sia quale ce lo
presenta la Rivelazione, quando la realtà delle cose è quella che è.
E non vi sono delle ore nelle quali noi stessi abbiamo l'impressione di
essere dei pazzi nel credere a cose come l'amore di Dio e la grazia,
quando un'esperienza dopo l'altra della nostra vita personale, una
informazione dopo l'altra che ci giunge sulla vita del mondo sembrano
proclamare che le vere potenze sono la scienza e la tecnica e, quanto al
resto, il danaro, l'astuzia e la violenza? Istruiti dalla Rivelazione,
noi dobbiamo vincere questa apparenza mediante la fede e ricondurre in
tal modo, per così dire, il mondo nelle mani di Dio.
Ma che cosa significa questo? Non significa certamente
che noi dobbiamo, attraverso la nostra immaginazione, vedere il mondo
quale esso dovrebbe essere! Ed allora? Prendiamo il caso di due esseri
umani che si conoscono e si amano intimamente. A volte essi faranno ciò
che è bene, altre volte essi falliranno — per non parlare della
polvere che si posa sulla realtà di ogni giorno e che rende grigia ogni
cosa. Ma la vera serietà dell'amore fa sì tuttavia che ognuno dei due,
nonostante tutte le contraddizioni dell'esperienza esteriore, ricominci
continuamente ad amare l'immagine dell'amico e lo
167
ricollochi in tal modo nella sua vera realtà. Proprio
questo, ci dice Giovanni, noi dobbiamo fare nei confronti del mondo di
Dio.
Il sentimento che in noi suscita questo mondo, ciò che
noi scopriamo su di esso nella nostra vita personale e nella sfera della
storia, non ci offre grandi motivi per considerarlo l'opera di un amore
redentore. Per lo più esso è indifferente, spesso malevolo;
talvolta, però, ci può venir da pensare che il suo
fondo sia una fredda crudeltà. È proprio questo il momento nel quale
dobbiamo aggrapparci strettamente all'amore nascosto di Dio e in cui
dobbiamo credere, nella nostra fede, che il mondo è in questo amore.
Non si tratta in questo caso di fantasia o di autosuggestione, come
potrebbero affermare lo scetticismo o la delusione; vuoi dire invece
che, a dispetto delle apparenze, la nostra fede porta alla vittoria una
verità più profonda.
In tal modo la fede fondata sull'amore compie il primo
passo; il secondo consiste nel fatto che ognuno di noi accetti il mondo
come esso gli si presenta, e nel posto in cui egli si trova.
Ora, è una cosa questa più facile a dirsi che a farsi,
in quanto l'esistenza non rende facile questa acccttazione; per molte
persone, anzi, essa è molto diiScile. Vogliamo pertanto mettere bene in
chiaro che non intendiamo dire che si debba cercare di trasformare la
realtà delle cose con la nostra fantasia. Noi non possiamo definire
buono ciò che è cattivo. Non possiamo parlare della sofferenza come se
si trattasse di una piacevolezza; l'ingiustizia, la violenza, la
menzogna che regnano nel mondo ci impediscono di dire che tutto in esso
va per il meglio. Esistono
168
delle persone che sono convinte che basti guardare il
mondo con l'occhio giusto ed affrontarlo con animo gioioso che tutto poi
va a posto. Quelli che parlano in tal modo fanno più danno di quanto
essi non sospettino. Quando essi fanno ciò di proposito, si tratta
soltanto di stupidità o di disonestà. Ma anche gli ottimisti convinti
sono pericolosi perché possono portare ad una visione errata della
realtà coloro che li ascoltano. Ed essi stessi, del resto, fanno
una brutta fine in quanto ci pensa la vita a confutarli e a fare di essi
delle persone deluse ed amareggiate.
Noi non intendiamo fare qui una cosa del genere, perché
sarebbe andare contro la verità. Vogliamo invece affermare una verità;
si tratta di quella verità che nasce dal cuore; in essa si alleano la
lucidità dello sguardo, la prontezza ed una coraggiosa fiducia. Questa
verità ci dice che il nostro atteggiamento iniziale nei confronti della
vita deve essere un 'sì' invece di un 'no'. E questo 'sì' consiste in
una presa di posi-2ione affermativa nei confronti di tutto ciò che
esiste in quanto esso è l'opera del Creatore. Il porsi in una simile
posizione costituisce un atto reale della nostra volontà, che riesce
così a vincere l'apparenza del mondo. Esso riesce a penetrare sino
all'origine, sino all'atteggiamento fondamentale di Dio, che è
rappresentato dall'amore; il primo amore, a partire dal quale ogni altro
diviene possibile. Questo atto della nostra volontà sa che il mondo,
nel suo stato presente, non è buono; ma Dio lo ha voluto buono. È
stata la nostra umana colpa che lo ha rovinato e guastato; ma Dio l'ha
rimesso nelle nostre mani perché esso divenga nuovamente buono. E tutto
questo non deve avvenire in una ebbrezza idealistica o mediante
programmi perfezionistici, bensì nella fidu-
169
eia e nella fedeltà; attraverso tutte le sofferenze che
provengono dal disordine che attualmente regna nel mondo e nella
perseverante speranza che un giorno giungerà il momento in cui si
realizzeranno le parole dell'Apocalisse: "Ecco, faccio nuove tutte
le cose" (21, 5).
L'amore consiste, pertanto, nella accettazione
dell'esistenza. E questa accettazione non significa adattarsi a qualcosa
che è quello che è e non può essere altrimenti; significa invece
entrare nell'intenzione di Dio e fissare, partendo da questa, il nostro
sguardo sull'azione infinitamente grande che egli ha compiuto allorché
ha creato il mondo e lo ha redento. Questo atteggiamento si esprime
nella maniera più bella mediante l'atto di ringraziamento —
continuamente rin-novellato ma espresso specialmente al mattino, quando
il giorno sta nascendo —, atto di ringraziamento nel quale viene
espressa la nostra riconoscenza a Dio poiché egli ha creato il mondo.
Il sentimento sul quale si fonda la nostra esistenza viene così rimesso
al suo giusto posto.
Lo stesso vale per la nostra persona e per la nostra
vita. Anche in questo caso noi potremo giungere a buon fine soltanto se
noi cominciamo con un sì invece che con un no. Certamente, anche in
questa nostra vita ci sono molte cose cattive: debolezze, errori, mali
di ogni genere. Tutte queste cose cattive devono essere vinte, superate;
ma ogni superamento ha la sua premessa nel fatto che noi cominciamo col
vederle ed ammetterle: le cose stanno così. Questo riconoscimento
avviene parimenti per le difficoltà, le perdite, le pene, le
sofferenze. Tutto questo dolore non è stato introdotto nel mondo dalla
durezza di Dio, ma ha la sua causa in quel disordine che l'uomo
170
stesso ha provocato. È comprensibile che la persona
addolorata ed angosciata rivolga a Dio questa domanda: perché proprio
io? Perché una cosa simile doveva capitare proprio a me? Ma non deve
permettere tuttavia che questa domanda si tramuti in accusa. Bisogna che
egli pervenga sino all'amore di Dio che si trova al centro, nel cuore,
dell'esistenza, che si metta in sintonia con quest'amore e che si
accetti, partendo da esso. Accettarsi non vuoi dire però abbandonarsi,
rinunziare: egli deve invece lottare e sforzarsi per migliorarsi; ma
sulla necessaria premessa di questo primo 'sì'.
Fa parte degli atti fondamentali della esistenza vissuta
nella fede il ringraziare Iddio per la vita che egli ci ha dato. È
facile vedere tutte le obbiezioni che possono portarci a ribellarci ad
un simile atteggiamento. Un sentimento molto elementare potrebbe
manifestarsi e dire: È già male che un simile fardello mi sia stato
imposto; dovrò dunque aggiungervi la beffa di dover ringraziare? Una
simile protesta è comprensibile; ma ogni qualvolta essa giunge ad
affermarsi e a dominare, ci sbarra inesorabilmente la via verso
l'essenziale, verso quella sintonia, quell'accordo che deve esistere fra
noi ed il Dio che ci ha creati e redenti. È soltanto quando avremo
raggiunto questo accordo che l'esistenza cesserà di starci di fronte
come un blocco ostile. Essa comincerà allora a mettersi in movimento;
entrerà in quel processo di trasformazione dal quale nasce l'uomo
nuovo, quell'uomo nuovo il cui nascere e formarsi costituisce l'oggetto
della nostra speranza.
171
LA PIENEZZA COMPIUTA DELL'AMORE
Abbiamo tentato, nelle nostre meditazioni, di vedere il
messaggio dell'amore in tutta la sua purezza ed io. tutta la sua
inconcepibile grandezza. Ed ora non possiamo far altro che domandarci:
se questo messaggio è tale quale noi lo abbiamo inteso; se esso pone
alla forza della fede dell'uomo richieste così alte, quale possibilità
ha di poter essere realizzato? In un mondo come il nostro, così
estraneo a questo messaggio; da uomini che sono così tenacemente
attaccati al mondo e nei quali l'intelletto ha talmente paralizzato il
cuore? Può un simile messaggio essere addirittura compreso? È
possibile che la fede in questo messaggio riesca ad operare quella
trasformazione, quel rovesciamento dell'esistenza che pure dovrebbe
operarsi secondo il vero senso della Rivelazione?
Dobbiamo subito ammettere che le possibilità che una
cosa simile avvenga sembrano a prima vista non molto grandi. Con ciò
non si vuole affermare che non esistano uomini e donne che comprendono
questo messaggio e che cercano di realizzarlo con uno sforzo sincero,
anche se soggetto a fallimenti. Queste persone ci sono ed anche in
numero maggiore di quanto non lasci vedere uno sguardo superficiale. Ma
il Vangelo deve pur raggiungere la maggioranza degli uomini. Il Signore
ha detto infatti: "Venite a me voi tutti". Non bastano dei
rari isolati, ma è il 'popolo
172
di Dio' che deve formarsi, è il 'Regno' di Dio che deve
costituirsi. Non bisogna aver dimenticato quale sia la realtà delle
cose, per poter intrattenere tale speranza?
Pertanto si pone in modo imperioso l'interrogativo se
non debba un giorno giungere il tempo in cui tale speranza potrà
trovare la sua realizzazione. Che ciò debba avvenire forse in un
lontano futuro, dopo esperienze amare che verranno certamente fatte
qualora il messaggio non sia ascoltato? Un pensiero del genere ci viene
suggerito dall'epoca nostra, nella quale la teoria dell'evoluzione
agisce in modo così potente sullo spirito umano che non soltanto
l'antropologia, ma anche la politica amano parlare del-l'uomo nuovo',
anzi del 'superuomo', il quale dovrebbe essere il risultato dell'azione
congiunta della scienza, della tecnica, dell'educazione e della guida
politica dello Stato. Non occorre essere dei pessimisti per rendersi
conto che si tratta qui di un'illusione;
basta guardare un po' da vicino l'umana realtà. Ci vuoi
poco per constatare che l'idea di uno Stato perfetto che deve esser
raggiunto già su questa terra è un inganno che nasce dalla grande
aspirazione, dalla nostalgia, che l'uomo ha per un mondo migliore;
che quest'inganno, anzi, fa parte della tecnica usata
per raggiungere i fini della volontà di potere politico. E si capisce
qui l'amara serietà delle parole di Gesù allorché i discepoli cercano
di attirare la sua attenzione sulla bellezza del Tempio (Mt. 24,
1-31).
Ma non potrà realizzarsi mai una simile aspirazione?
Giovanni ci risponde di sì. È proprio lo stesso Giovanni che ci parla
della pienezza compiuta di quest'amore. Non ce ne parla in questa
lettera, bensì
173
nella sua Apocalisse. Egli ricollega tale promessa
all'opera finale dello Spirito Santo. In tal modo, a dire il vero,
questo adempimento viene sottratto al corso naturale della storia e
viene annunziato come un avvenimento prodotto dalla grazia, dall'opera
dello Spirito Santo e dalla speranza.
Si prova nello stesso tempo sorpresa e gioia quando si
constata che lo Spirito Santo fa la sua/apparizione sia al primo inizio
che alla fine ultima della Sacra Scrittura.
Nei primi versetti del Genesi si legge: "In
principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era disadorna e
deserta: c'erano tenebre sulla superficie dell'abisso e lo spirito di
Dio aleggiava sulla superficie delle acque" (1, 1-2). La creazione
delle cose, che viene narrata in seguito, avviene nello Spirito Santo.
Ciò significa che il mondo non venne creato da un'arida razionalità,
da una volontà che mirava puramente a ciò che era utile e sicuro, ma
che nella creazione operò una disposizione e intenzione fondamentale
ben diversa. Il credente già intuisce che così deve essere stato
quando egli vede l'inesauribile ricchezza dell'universo, dove pure tutto
potrebbe essere molto più semplice; quando egli contempla la bellezza
che è sparsa dappertutto, in modo così abbondante da giungere a far
traboccare il nostro cuore; tanto più che in mezzo a tutte queste cose
non si deve dimenticare lo stesso cuore dell'uomo che con tanto profonda
nostalgia aspira verso la pienezza e la bellezza. Nel mondo deve essere
all'opera qualcosa che supera la pura ragione ed il nudo concetto di
utilità; una gioia, un impulso a donare, a elargire in maniera
sovrabbondante. Si
174
tratta dell'amore, che non può far mai abbastanza. E
qui ci vengono in mente le parole della prima lettera ai Corinti:
"l'amore scusa tutto, crede tutto, spera tutto, sopporta
tutto" (1 Cor. 13, 7). Non dice "un poco" oppure
"quanto è necessario", ma "tutto, tutto, tutto" e
ciò si applica in primo luogo a colui che ha amato per primo, a Dio.
Il Paradiso, e cioè il mondo quale era stato affidato
all'uomo innocente ed unito a Dio, costituiva già esso stesso un dono
che oltrepassava qualsiasi pretesa che potesse derivare da un diritto,
rappresentava un'apertura di tutte le porte, un dono senza limiti. Ma
poi si verificò il terribile avvenimento di cui parla lo stesso Genesi
al capitolo terzo: l'uomo rifiutò di rispondere all'amore di Dio con il
suo amore; non soltanto pretese dei diritti che non erano suoi, ma
oppose alla generosità di Dio la cecità del suo cuore e la violenza
della sua volontà; anzi cercò di deporre il Signore dal suo trono. In
tal modo il Paradiso crollò e venne fuori l'uomo nella sua realtà
attuale, l'uomo egoista e sempre pronto a ribellarsi. Ma l'amore divino
intraprese una nuova opera. Questo amore non poteva cancellare ciò che
era accaduto, perché Dio è giusto e veritiero; pertanto il suo eterno
Figlio prese la colpa sopra di sé e fece il suo ingresso in questo
mondo corrotto. Ebbe allora inizio la lotta nella quale siamo tutti
impegnati; essa durerà sino alla fine del mondo.
È questo il momento nel quale lo Spirito Santo prende
nelle sue mani la guida dell'esistenza ed in cui ha inizio la nuova
creazione. Essa è una realtà nascosta, ma pur sempre visibile
all'occhio di colui che crede; viene intralciata ed impedita in ogni mo-
175
do, ma si attuerà un giorno dentro all'antica
creazione. E qui è di nuovo possibile avvertire quel carattere del
quale noi abbiamo già parlato e che è tipico delle nuove grazie
concesse da Dio. Si manifesta una poten2a che va oltre, di nuovo, tutto
ciò che è puramente ragionevole, utile o corrispondente ad un diritto.
Essa oltrepassa i limiti di ciò che può realizzarsi nell'individuo o
in piccoli gruppi e tende verso l'insieme dell'umanità e del mondo.
Alla fine dell'Apocalisse noi leggiamo: "E vidi un
cielo nuovo ed una terra nuova. Infatti, il primo cielo e la prima terra
passarono e il mare non è più. E vidi la città santa, Gerusalemme
nuova, che scende dal cielo, da presso Dio..." (21, 1-2). Segue poi
una descrizione della città santa che, per la preziosità dei materiali
di costruzione e per il modo in cui è costruita, oltrepassa ogni umana
immaginazione (21, 11-29).
Qui ci troviamo in presenza di una vera prodigalità
nell'amore, di un excessus amoris, per usare l'espressione della
mistica medievale. Ma poi l'attenzione del lettore viene subito attirata
da un particolare, da una nuova immagine, che chiude il versetto 21, 2.
Egli potrà rimanere stupito, in un primo momento; ma poi resterà
commosso sin nel profondo del cuore. La nuova immagine dice, infatti:
"Io (Giovanni) vidi la città santa... che scende
dal cielo... preparata come una sposa che è stata ornata per il
marito". L'immagine della città scioglie così la sua durezza
cristallina nella umana bellezza della sposa.
Chi abbia una certa familiarità con la Sacra Scrittura
è in grado di riconoscere subito che qui è stata usata una forma di
rappresentazione tipicamente
176
orientale. Il popolo dell'Antica Alleanza viene
spesso rappresentato mediante il simbolo di una bella e fiorente
adolescente chiamata "figlia d'Israele". Con gli stessi
accenti di tenerezza si parla della città regale come della
"figlia di Gerusalemme". Pensiamo ad esempio alle parole piene
di amore e di dolore con le quali Geremia piange la rovina della città
di Davide. Ma qui noi troviamo qualcosa di più. L'angelo, e cioè Dio
stesso, parla con un amore la cui potenza è creatrice. Ed il passaggio
dell'immagine della città fatta di pietre preziose in quell'altra
immagine che rappresenta la vita più intima sta a rappresentare tutto
ciò che va oltre ogni attesa ed immaginazione umana.
In questo mondo perfetto anche l'amore sarà perfetto.
"Ed udii una voce grande proveniente dal trono, che diceva: 'Ecco
la dimora di Dio con gli uomini; e dimorerà con essi, ed essi saranno i
suoi popoli, e Dio stesso sarà con essi, e tergerà ogni lacrima dai
loro occhi, e la morte non sarà più, ne lutto ne grido ne dolore
saranno più; che le cose di prima passarono'. E disse colui che sedeva
sul trono:
'Ecco, faccio nuove tutte le cose' " (21, 3-5).
L'Apocalisse venne scritta quando — in un primo
momento in seguito ad un malinteso, per così dire, ma poi con una
precisa intenzione — scoppiò la prima persecuzione contro i
cristiani. Lo Stato romano considerava se stesso, la sua maestà e la
sua potenza, come una realtà di carattere divino fino al punto di
giungere ad onorare i suoi imperatori come esseri divini. Pertanto esso
era necessariamente portato a vedere un nemico in una comunità
religiosa che condannava recisamente ogni forma di
177
divinizzazione di potenze terrene. Pertanto, durante
tré secoli, Roma ha fatto uso di mezzi radicali pur di poter estirpare
quello che essa considerava un pericolo. In una situazione del genere
l'Apocalisse portò la sua parola consolatrice ai singoli cristiani ed
alle piccole comunità che si trovavano indifese di fronte allo
strapotere dello Stato; uomini che erano in gran parte in una situazione
di debolezza dal punto di vista sociale e culturale e che nulla potevano
opporre alla potenza dell'impero romano (vedi 1 Cor. 1, 26 ss.).
A questi uomini l'apostolo dice che essi devono resistere. Cristo è
dalla loro parte, e pertanto la vittoria è sicura.
Nel quarto secolo era cosa evidente agli occhi di tutti
che lo Stato romano aveva perduto la sua battaglia. Ebbe allora inizio
l'epoca dello Stato cristiano. Resterebbe qui da domandarsi fino a qual
punto esso era veramente cristiano; fino a qual punto il paganesimo
continuò ad esercitare la sua influenza all'interno del nuovo Stato;
fino a qual punto della dottrina vittoriosa si abusò come di un mezzo
per dar forma al suo potere.
Oggi la situazione si è nuovamente rovesciata, con la
Chiesa sottoposta a persecuzioni al confronto delle quali le
persecuzioni dell'impero romano sembrano quasi impallidire. La dittatura
— quella nazista, di cui noi abbiamo fatto l'esperienza, ma ancor più
quella orientale — si presenta essa stessa come la realtà assoluta e
cerca di sradicare tutto ciò che trascende questo mondo. Soltanto
l'uomo è reale; quello che si oppone alla sua sovranità unica è
nemico e come tale deve essere annientato. Per raggiungere uno scopo del
genere, si dispone oggi di una potenza che ha una grandezza ed una
estensione tali da far
178
sembrar piccola quella dell'impero romana. Si tratta
della potenza della scienza e della tecnica con tutta la loro inumana
oggettività. E qui Giovanni ci dice nuovamente: Non abbiate paura! La
vittoria appartiene a Dio. Abbiate pazienza. Il tempo passa, anche se
esso si misura in secoli. Anche se la violenza dovesse durare sino alla
fine della storia, un giorno il Cristo ritornerà a pronunziare il suo
giudizio. In quel giorno la realtà nuova, oggi dappertutto nascosta ed
intralciata, si manifesterà e formerà il "tutto", il nuovo
mondo: il cielo nuovo e la terra nuova ed, in essi, l'uomo nuovo.
Tutto questo non avverrà come una conseguenza naturale
delle possibilità della cultura e delle realtà di questo mondo. La
filosofia, che è anche sapienza, esprime una importante verità quando
essa ci dice che, quanto più alta e nobile è la natura di un essere,
tanto più debole sarà quest'essere nell'affermare direttamente se
stesso. Quanto più pura è la sua forza, tanto minori sono le
probabilità che egli riesca ad imporsi sulla rozza realtà. Pertanto
ciò che vi è di più elevato, ciò che ha una pienezza di significato,
è destinato ad essere il più debole in questo mondo. Vediamo la prova
di ciò nel destino di Cristo, che ci ha portato la salvezza. Dato che
questa salvezza poteva venir realizzata soltanto secondo il puro modo
della verità, egli era impotente di fronte alla violenza della volontà
umana, di fronte alla volontà dello Stato, si trattasse del sinedrio
giudaico o del governatore romano. Pertanto le cose andarono allora come
andarono e continuano oggi ad andare come vanno, e sarà sempre così.
Ma il superamento di questa situazione, lo stato di pienezza compiuta,
179
verrà da Dio. Questa vittoria non verrà perché
l'uomo, nel corso della storia, giungerà finalmente a riconoscere la
verità del messaggio e a lasciargli campo libero; essa verrà, invece,
a partire dall'origine creatrice. Essa sarà opera della potenza dello
stesso Spirito Santo che già diede origine al mondo primitivo; quel
mondo che invero non era "natura", bensì opera di Dio.
Lo Spirito Santo farà dell'amore il padrone
dell'esistenza, del mistero di Dio una verità palese, che regnerà
dappertutto. Infatti, nella nuova Gerusalemme anche la luce si
trasformerà: "E la città non ha bisogno del sole ne della luna
che la rischiarino;
poiché la gloria di Dio la illuminò, e la sua lucerna
è l'agnello". Ed ancora: "E non vi sarà più notte;
e non hanno bisogno di luce di lucerna o di luce di
sole, perché il Signore Iddio spargerà luce su di essi, e regneranno
per i secoli dei secoli" (21, 23; 22, 5). La luce non sarà
prodotta da alcuna sorgente naturale, ma sarà una potenza che, venuta
da Dio, penetrerà da ogni parte; sarà condizione dell'esistenza nella
quale "non entrerà tutto ciò che è impuro ne chi compie
abominazione o menzogna" (21, 27). Anche "la morte non sarà
più, ne lutto, ne grido, ne dolore" (21, 4), poiché tutte queste
cose appartengono alle tenebre.
Il mondo si trasformerà in una città luminosa nella
quale persino l'oro e le pietre preziose trapasseranno in qualcosa di
ancor più alto e nobile. Il messaggio ci dice infatti che l'oro di cui
sono selciate le vie è "come cristallo". E gli uomini
subiranno quella trasformazione della quale ci parlano i sette messaggi
che si trovano all'inizio del libro; poiché ciascuno di essi termina
con la promessa che colui che eserci-
180
terà la pazienza e "vincerà" sarà
glorificato.
Le parole che concludono il libro sono queste:
"E lo Spirito e la sposa, dicono: 'Vieni' ". E
ancora:
" 'Dice colui che testimonia queste cose: Sì,
vengo presto'... 'Amen; vieni, Signore Gesù' " (22, 17.20). Non è
soltanto l'uomo singolo che parla così, ma è "la sposa" e
cioè tutta l'umanità che è in attesa. Quell'umanità della quale
Giovanni ci dice, nella sua prima lettera (3, 2), che non si è ancora
manifestato ciò che essa è veramente, in tutta la sua profondità.
La "sposa" tuttavia non rappresenta soltanto
l'uomo ma tutte le cose; il che vuoi dire che l'amore non diverrà
soltanto una potenza storica, la quale si impadronirà dell'umanità, ma
diventerà anche una potenza cosmica. Ed anche questo mondo trasformato
dall'amore non sorge da se stesso, ma "viene", come vien detto
della città, "da Dio" ed è proprio in questo modo che esso
diventa veramente "mondo". Già Paolo ci parla di questo
apparente paradosso quando, nella sua lettera ai Galati, ci dice:
"E non più io vivo, ma Cristo vive in me" (2, 20). Ciò
significa: soltanto quando il Cristo prende forza e si afferma in una
persona umana, questa persona diventa veramente se stessa. E qui ci
troviamo di fronte allo stesso fatto. È soltanto quando la città
"discende da Dio" che essa acquista il suo vero centro. Si
compie così ciò che voleva Iddio, quando creò il mondo: e cioè che
il "mondo sia, venendo da lui".
181
INDICE DEI CONCETTI
Accusa, 120, 125, 126, 130,
171.
Agnello pasquale, 18; (a. di Dio), 88.
Allegoria, 108.
Altro, 1' (il prossimo), 44, 45, 46, 132, 150, 153, 158.
Altruismo, 132.
Amore (amare), 15, 33, 41, 46, 47, 53, 63, 67, 68, 84,
85, 92, 93, 95, 96, 97,101, 104, 107, 114, 125, 126, 127, 128, 130, 131,
132, 133, 134, 136, 137, 138, 139, 140, 142, 143, 144, 145, 146, 147,
150, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 161, 162, 165, 166,
167, 168, 169, 171, 172, 174, 180, 181.
Angelo, 177.
Anima, 63, 67, 72.
Antica Alleanza, 177 (v. Antico Testamento).
Antico Testamento, 18, 56, 86, 88, 89, 92, 142
(v. Antica Alleanza).
Antropologia, 173.
Archetipo, 101.
Ateismo, 57, 65.
Atto (coincidente in Dio con l'essere, la vita), 141.
Battesimo, 38, 39. Buddhismo, 11. Buono (bontà, bene,
ecc.), 27, 32, 42, 43, 44, 48, 55, 63,
70, 89, 93, 98, 99, 113, 120, 123, 129, 148, 149,
158. 161, 167, 169.
'Camminare', 115, 153, 154,
159.
Carne, 87, 96.
Causa (ed effetto), 116, 123, 152, 156, 170.
Chiesa, 40, 117, 178.
Città santa (Gerusalemme nuova, celeste), 176, 180,
181.
Colpa, 16, 127, 150, 175.
Comunità (comunione), 17, 34, 85, 108, 114, 115, 117,
136, 140, 177.
Concupiscenza, 96.
Conoscenza (conoscere), 14, 89, 100, 109, 110, 112, 113,
114, 115, 116, 119, 123, 126, 127, 131, 136, 144, 151, 157, 164.
Contemplazione (contemplare), 82, 115.
Corpo misitco di Cristo, 36, 40.
Coscienza, 14, 19, 31, 40, 41, 75, 119, 120, 122.
Creare (Creatore, creazione, creatura, ecc.), 25, 27,
28, 36, 38, 43, 48, 62, 65, 93, 94, 95, 98, 102, 103, 104, 105, 106,
111, 126, 133, 134, 135, 136, 146, 152, 155, 156, 158, 162, 169,
183
170, 171, 174, 175, 176, 177, 180, 181.
Cristianesimo (cristiano), 24, 28, 91, 117, 132, 134,
146, 177, 178.
Cristianità, 88.
Croce, 18, 23.
Cultura, 44, 102, 179.
Cuore (xapSia), 62, 63, 64, 73, 74, 81, 82, 85, 88, 89,
99, 119, 120, 121, 122, 124, 126, 127, 130, 132, 133, 147, 148, 151,
153, 172, 174.
Destino, 27, 35, 139, 142, 151, 160, 179.
Dio, 14, 15, 18, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 33, 39,
49, 53, 55, 56, 57, 62, 63, 64, 65, 66, 71, 75, 76, 79, 84, 85, 86, 87,
90, 92, 93, 95, 97, 98, 100, 101, 103, 105, 108, 110, 111, 113, 115,
116, 119, 123, 125, 126, 129, 130, 131, 133, 134, 135, 136, 137, 138,
140, 141, 142, 143, 145, 152, 154, 156, 157, 159, 160, 162, 164, 165,
166, 167, 168, 169, 170, 171, 175, 176, 177, 179, 180, 181.
Discepolo, 13, 14, 17, 22, 23, 30, 31, 55, 70, 85.
' Discepolo dell'amore ' (o ' prediletto ' == . san
Giovanni), 83, 84, 94.
Discorsi dell'addio (di Gesù), 10, 31, 105.
Discorso della Montagna, 53, 70, 71, 154.
Disordine, 43, 44, 48, 49, 101, 103, 104, 160, 170.
Dogma, 117.
Dottrina, 12, 13, 15, 132, 133.
Eden, 106 (v. Paradiso).
Egoismo, 132.
Emanare (emanazione), 134.
Epifania (s'ici.cpàveia,), 61, 67, 70, 71, 81,
90, 91.
Errore, 116.
Escatologia (escatologico), 9.
Esempio, 22.
Esempio, 22.
Esistenza (esistere), 26, 27, 28, 43, 64, 93, 98, 105,
109, 112, 116, 118, 129, 151, 153, 164, 168, 169, 170, 171, 172, 175,
180.
Esperienza, 43, 49, 60, 62, 65, 68, 88, 90, 91, 94, 102,
117, 139, 140, 147, 167.
Essenza (essenziale), 24, 28, 35, 46, 67, 87, 110, 127,
133, 137, 141, 160, 171.
Essere, 27, 35, 38, 40, 42, 62, 64, 74, 75, 84, 92, 98,
112, 113, 116, 129, 134, 147, 152, 157, 162.
Essere supremo (assoluto), 27, 64, 94, 134, 140.
Eternità (eterno), 15, 19, 36, 50, 84, 87, 91, 96, 111,
114, 129, 140, 141.
Eucarestia, 9, 36, 37, 38, 91.
Evoluzione (teoria dell'), 173.
Excessus amoris, 176 (v. Amore).
Farisei, 53, 60. Fede, 38, 39, 57, 58, 72, 86, 94, 101,
104, 105, 115, 117, 147, 153, 166, 172. ' Figlia di Gerusalemme ', 177.
'Figlia d'Israele', 177. Figlio di Dio (Gesù Cristo), 17, 24, 29, 56,
61, 65, 72, 73, 74, 84, 85, 87, 90, 91, 92, 94, 97, 104, 114, 127, 131,
140, 153, 175. Figliolanza divina (in Cristo,
184
nell'uomo), 14, 39, 73, 94, 106, 153. Filosofia
(filosofico), 91, 114,
117, 131, 133, 140, 179. Finite2za (finito), 26, 27,
111. Fondamento, 111, 128 n. Fonte (sorgente, in senso simbolico), 133,
134, 180. Forma (divina), 23, 24; (f. di
schiavo), 23. Fratello, 33, 45, 50, 73, 74, 88,
144, 153, 154.
Generazione (in Dio), 140.
Giudizio (di Dio), 152, _ 153, 154; giudizio (giudicare,
dell'uomo), 153, 154, 164.
Gnostici (gnosticismo, gnosi, ecc.), 32, 89, 90, 97.
Gradini (grada2Ìoni, nella natura dell'uomo), 37.
Grandezza (grande), 25, 29, 136, 137, 138, 141,
149, 156.
Grazia, 39, 55, 58, 59, 62, 66, 69, 90, 101, 166.
Idea, 130.
' Idealista ' (idealismo), 89, 169.
Idolo, 103.
Illusione, 12.
Incarnazione (incarnarsi), 65, 87, 89, 91, 93, 104, 114.
Individuo, 64.
Infinito, 26, 114, 156.
Interiorità (intellettuale), 37;
(organica), 37; (psicologica), 37; (della persona), 37,
99, 122; (spirituale o pneumatica), 38, 39, 40, 41, 49.
Lavanda dei piedi, 26, 30. Legge, 63, 110, 134. Libertà
(libero), 27, 55, 61,
75, 106, 115, 116, 117, 125, 134.
Logos, 23, 72, 85, 89, 90, 91, 92, 127 (v.
Verbo).
Luce (in senso simbolico), 89, 90, 108, 109, 110, 112,
113, 115, 117, 118, 119, 127, 129, 144, 145, 146, 147, 148, 153, 154,
159, 180.
Lumen cordis, 146, 153.
Maestro (Gesù Cristo), 14, 17, 22, 23, 29, 31, 32, 37,
49, 52, 55, 56, 73, 79, 83, 134.
Male, 27, 32, 42, 44, 68, 89, 104, 121, 150, 152, 170,
171.
Malinconia (malinconico), 124, 125.
Medioevo, 82, 146.
Meditazione (riflessione), 80, 83, 127.
Messaggio, 15, 38, 70, 72, 79, 83, 84, 89, 92, 115, 117,
133, 135, 137, 152, 172, 173.
Messia, 52, 54, 61, 66, 180.
Mikrokósmos (l'uomo), 135.
Missione, 32, 100.
Mistero, 23, 27, 29, 37, 39, 40, 70, 85, 86, 87, 91, 94,
99, 107, 118, 130, 137, 138, 143, 152, 160, 180.
Mito (mitologia), 91, 92, 110, 155.
Mondo, 15, 18, 25, 26, 27, 36, 40, 42, 43, 46, 52, 57,
62, 64, 67, 87, 92, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 104, 105, 106, 112, 118,
128, 131, 133, 134, 135, 137, 139, 141, 143, 153, 155, 156, 161, 166,
167, 168, 169, 170, 172, 173, 174, 175, 178, 179, 180, 181.
185
Morale (etica), 15, 23, 47,
64, 122, 125. Morte, 14, 19, 23, 48, 85,
90, 112, 153, 177, 180.
Natura (come essenza), 46, 48, 65, 72, 82, 88, 109, 127,
128, 134, 135, 141, 152, 179; (n. come realtà globale infra-umana),
66, 128, 132, 134, 154.
Necessità, 135, 155.
Neoplatonismo (neoplatonico), 89, 134, 146.
Nuova nascita, 38.
Nuovo Testamento, 9, 15, 35, 132, 141.
Odio, 57, 60, 61, 62, 63, 66,
67, 68, 103, 104, 106, 144,
145, 153, 154. Onniscienza (di Dio), 125,
127, 128, 130. Orgoglio (superbia), 96.
Pace, 42, 44, 46, 48, 49, 50, 53, 63.
Padre (Dio), 14, 15, 20, 24, 29, 53, 56, 62, 65, 70, 71,
73, 74, 76, 79, 84, 85, 87, 91, 96, 97, 104, 127, 140, 142, 153, 158.
Paganesimo, 178.
Pane vivo, 36.
Panteismo (panteistico), 128.
Paradiso, 101, 106, 175 (v. Eden).
Pasqua, 9.
Pater Nosfer, 41, 71, 73, 79.
Pazienza, 181.
Peccato, 18, 32, 66, 68, 88, 94, 131, 141; (p.
originale), 46, 95, 104, 165.
Pensiero (filosofico), 13, 63, 111.
Pentecoste, 16, 19, 54, 55, 86, 89, 90, 146.
Persona (personale), 37, 59, 67, 72, 73, 99, 138,
152, 154, 155, 157, 160, 168, 170, 181.
Personalità, 52, 55, 56, 62, 63, 73, 75, 82, 83, 128.
Platonismo, 33, 141.
Uo^c, (città), 106.
•Popolo di Dio', 172 s.
Preghiera, 76, 127.
Principio, 84, 87, 91, 98, 127.
Problema di Dio, 26.
Profeta, 40, 105.
Provvidenza, 70, 158.
Psicologia (psicologico, psicologismo, psicologistico),
33, 34, 36, 38, 40, 47, 48, 64, 68, 76, 113, 118.
Ragione (ragionamento), 15, 47, 124, 151.
Razionalismo (razionalistico), 33, 71.
Razionalità, 28, 174.
Redenzione (Redentore), 16, 48, 73, 79, 89, 95, 114,
130, 158, 165, 171.
Regno di Dio (di Cristo, regnare), 15, 16, 22, 53,
54, 71, 117, 173, 180.
Regno d'Israele, 54.
'Rimanere' ('dimorare'), 31, 32, 33, 35, 145, 153, 155,
177.
Risurrezione (di Cristo), 19.
Rivelazione (rivelare), 23, 38, 40, 56, 86, 90, 93, 94,
100, 112, 114, 115, 117, 118, 131, 140, 142, 156, 160, 167, 172.
Sacramento, 36, 37. Sacra Scrittura, 35, 46, 66,
79, 98, 101, 104, 141, 174,
176.
186
Sacrificio, 18, 114.
Sacro, 57, 64, 87, 145.
Saggezza (pratica), 21; (di vita, sapierca), 44, 179.
Salvezza (salvare), 61, 92, 97, 145, 152, 179.
Sangue (dell'alleanza), 18, 36.
Santità (santo), 27, 64, 66, 67, 71, 165.
Satana, 51, 104.
'Scandalo' (in senso positivo), 90.
Scetticismo, 57.
Schiavo (schiavitù), 23, 24, 106.
Scienza (e tecnica, scientifico, scienziato, ecc.), 114,
125, 126, 136, 164, 167, 178.
Scribi, 53.
Serietà (dell'amore di Dio, dell'uomo), 162, 164, 166,
167, 173.
Servizio (servire), 22, 23, 25, 28 s., 34, 48.
Significato (senso), 112, 116, 124, 179.
Signore (Dio, Gesù Cristo), 14, 22, 24, 27, 29, 39, 42,
44, 49, 56, 57, 59, 62, 72, 73, 82, 84, 127, 128, 147, 154, 157, 160,
162, 172, 175, 180, 181.
Simbolismo, 133.
Simbolo, 109.
Sinedrio, 154, 179.
Sinottici, 31.
Solidarietà, 21.
Solitudine (di Dio nel mondo), 77.
zutt'ip (salvatore), 90.
Speranza (sperare), 170, 171, 173, 175.
Spirito (umano, spirituale), 13, 14, 29, 66, 76, 81, 84,
90, 99, 109, 110, 115, 116, 118, 144, 145, 173; (s. in
senso neutro, ne divino ne
umano), 34. Spirito di Dio (S. Santo), 19,
36, 39, 54, 56, 86, 87, 89,
90, 104, 140, 146, 147,
174, 175, 180, 181. Spiritualità, 117. 'Sposa'
(celeste), 176, 181. Stato cristiano, 178. Storia, 43, 63, 65, 87, 88,
101, 118, 163, 165, 168,
180.
Storia Sacra, 19. Superuomo, 173. Sussistenza, 87.
Tempio, 173. Tenebra, 59, 104, 108, 112,
115, 144, 145, 153, 154,
180.
Testamento spirituale. 11. Testimonianza (testimoniare),
67, 73, 84. Tradimento (traditore), 51,
52, 55, 57, 163, 165.
Ubbidienza (ubbidire), 74, 75,
101, 104. Ultima Cena, 9, 85. Umiltà, 22, 24, 25, 27,
28,
29, 30.
'Uomo nuovo', 105, 171, 173. 'Uomo vecchio', 143.
Valore, 24, 64, 100, 117, 132, 149, 150; (rovesciamento
dei v.j, 28; (v. morali), 63.
Vanità delle cose, 12.
Vedere (visione, visibile), 71, 72, 73, 76, 84, 90, 91,
100, 110, 123, 125, 152, 175.
Veggente (san Giovanni evangelista), 79.
Verbo, 62, 72, 75, 76, 84,
187
85, 87, 90, 127 (v. Logos). 70, 72, 84,
100, 107, 109, Verità, 13, 14, 24, 30, 32, 110, 116, 117, 118, I», 33,
37, 45, 55, 58, 62, 63, 142, 144, 146, 150, 152, 70, 86, 97, 99, 109,
114, 153, 161, 169, 171. 115, 116, 117, 126, 127, Vite e tralci
(parabola della), 128, 129, 140, 145, 147, 31, 34, 36, 38, 39, 40. 155,
158, 166, 168, 169, Vittima espiatoria, 88. 179, 180. Volontà (di Dio),
15, 47, 48, Via, 70. 53, 74, 75, 96, 111, 174;
Virtù teologale, 94. (dell'uomo), 63, 67, 120, Vita,
19, 27, 36, 37, 40, 68, 124, 125, 173, 175, 179. 1
188
INDICE DEI NOMI
Abele, 43, 154.
Adamo, 43, 154.
Agostino A. (sant'), 62, 129,
146.
Alessandro Magno, 53. Apocalisse (di san
Giovanni),
106, 107, 170, 174, 176,
177, 180, 181. Asia minore, 81. Atti degli Apostoli,
34, 54.
Bibbia, 98, 101. Buddha, 11.
Cafarnao, 9, 36. Caino, 43, 154. Confessioni (di
sant'Agostino), 62.
Damasco, 34, 49, 68. Davide, 52, 177.
Egitto, 18, 60. Erode, 60. Esodo, 18,
93. Europa, 65.
fedone (di Fiatone), 13. Filippo (apostolo, san),
70.
Geenna, 154. Genesi, 27, 46, 79, 98, 101,
103, 154, 175. Germania, 57 n. Gerusalemme, 16, 34, 52,
106. Gesù Cristo, 9, 14, 15, 16,
17, 20, 21, 23, 27, 28, 29,
30, 31, 32, 34, 35, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 45, 48, 49,
51, 52, 53, 54, 55, 57, 60, 61, 62, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74,
75, 76, 83, 84, 86, 88, 89, 90, 91, 94, 97, 104, 105, 106, 117, 118,
133, 134, 135, 137, 142, 153, 160, 161, 167, 170, 178, 181.
Geremia, 177.
Getsemani, 74.
Giacomo (apostolo, san), 54, 56, 84.
Giovanni Battista (san), 88.
Giovanni evangelista (san), passim.
Giuda Iscariota (il traditore), 9, 20, 51, 54.
Giudea, 83.
Horeb, 93, 160.
Il grande racconto della morte di Buddha (testo
antico), 11.
Isaia, 66.
Lettera ai Filippesi (di san Paolo), 23,. 34, 49.
Lettera ai Calati (di san Paolo), 36, 87, 181.
Lettera ai Romani (di san Paolo), 41, 74, 79, 81,
88, 105.
Lettera prima di Giovanni, 32, 33, 35, 39, 62, 72,
77,
189
79, 81, 92;'96, 103, 108, 110, 119, 131, 141, 143, 144,
145, 153, 154, 160, 166, 181.
Lettera prima ai Corinti (di san Paolo), 48, 175,
178.
Lettera seconda ai Corinti (di san Paolo), 36, 39.
Maccabei, 53. Mosè, 93.
Nazareth, 72, 133. Nietzsche F., 24, 25, 65.
Palestina, 28, 53. Paolo (san), 9, 34, 36, 38,
39, 49, 68, 71, 73, 81, 86,
88, 105, 181. Pietro (Simonie, san), 20, 35,
51, 55, 56, 57. Piatene, 13. Piotino, 133, 134.
Roma, 178.
Romani, 52, 53, 178. Russia, 57 n.
Salmo 138 [139], 110. .Samaria, 83.
Simone (padre di Giuda), 20. Socrate, 13, 14,
32.
Tommaso (apostolo, san), 56.
Vangelo di Giovanni, 9, 11, 14, 15, 16, 17,
20, 31, 42, 51, 54, 58 s., 60, 61, 65, 66, 71, 74, 75, 76, 86, 88, 91,
97, 102, 104, 142.
Vangelo di Luca, 9, 22, 31, 35, 40, 56, 57, 61, 66,
74, 76, 83.
Vangelo di Marco, 9, 15, 31, 55.
Vangelo di Matteo, 9, 16, 18, 22, 30, 45, 54, 57,
71, 74, 94, 153, 157, 173.
ZAedeo, 22, 54.
190
Finito di stampare nel mese di settembre 1972 nella
Tipografia Editoriale « Aldo Manuzio » S. Martino B. A. (Verona)
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INDICE
MEDITAZIONI SUI TESTI DEI DISCORSI DELL'ADDIO
Avvertenza .......
pag. 9
L'ultima sera ........ 11
La lavanda dei piedi ...... 20
La parabola della vite e dei tralci . . » 31 La pace di
Cristo ....... 42
II tradimento . . . . . . . » 51
L'odio contro Dio ...... 60
L'epifania del Padre in Cristo ...» 70
MEDITAZIONI SUI TESTI DELLA PRIMA LETTERA DI SAN
GIOVANNI
Avvertenza .......
pag. 79
Epifania ......... 81
II mondo ........ » 96
Luce e verità ....... » 108
«Dio sa tutto» . . . . . . » 119
191
L'amore di Dio ....... 131
Luce dell'amore ....... 144
L'amore di Dio e il disordine del mondo » 160
La pienezza compiuta dell'amore . . » 172
Indice dei concetti . . . . . » 183
Indice dei nomi ....... t89"
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