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OPERE DI ROMANO GUARDINI

EDIZIONE ITALIANA A CURA DEL « CENTRO DI STUDI FILOSOFICI DI GALLARATE »

ROMANO GUARDINI

IL MESSAGGIO DI SAN GIOVANNI

Meditazioni sui testi dei discorsi dell'addio e della prima lettera

 

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera:

Johanneische Botschaft

Meditationen iiber Worte aus den Abschiedsreden und dem Ersten Johannes-Brief © Werkbund-Verlag - Wurzburg 1962

Traduzione di giuseppe frumento

© by MorceUiana - Brescia 1972 Tipografia Editoriale « Aldo Manuzio » - S. Martino B.A. (VR)

MEDITAZIONI SUI TESTI DEI DISCORSI DELL'ADDIO

AVVERTENZA

In parecchi passi del Nuovo Testamento si parla della memorabile cena che Gesù consumò, assieme ai suoi apostoli, durante l'ultima sera della sua vita terrena: nei quattro Vangeli (Mf. 26, 17; Me. 14, 18-25; Le. 22, 7-38; Io. 13, 1-17.26) e nella prima lettera dell'apostolo Paolo ai Corinti (12, 23-26). In parecchi punti queste narrazioni sono somiglianti, ma esistono fra di loro anche delle considerevoli differenze.

Paolo — per cominciare con lui — si limita all'istituzione dell'Eucaristia e al suo carattere escatologico (cfr. Mt. 26, 29 e passim). I sinottici parlano di questa ultima sera in relazione con la vita di Gesù e mostrano il rapporto intercorrente fra la cena e la festa della Pasqua ebraica. Nella loro narrazione l'istituzione dell'Eucaristia ed il tradimento di Giuda sono posti in un particolare risalto.

Il racconto del Vangelo di san Giovanni differisce da quello dei sinottici in quanto esso non fa menzione dell'istituzione dell'Eucaristia. Ciò che l'Apostolo vuoi dire a questo riguardo si trova nel capitolo 6, là dove si parla della promessa di questo sacramento fatta da Gesù a Cafarnao (6, 22-71). Per quanto riguarda l'ultima cena, questo Vangelo mette un particolare accento sulla lavanda dei piedi e sul tradimento di Giuda. A tutto ciò si aggiungono, come elemento particolare veramente prezioso, i

cosiddetti discorsi del congedo, o dell'addio, nei quali si esprime la coscienza che Gesù ha di se stesso, della sua missione e del suo destino. Ed è qui che si rivela tutta la maestria di Giovanni: egli sa ricollegare gli avvenimenti concreti e. la situazione spirituale con il loro senso divino in maniera tale che ciò che è immediatamente presente, davanti ai nostri occhi, diviene trasparente nel suo rapporto con l'aldilà.

È proprio partendo da questo rapporto che verranno meditati più da vicino i singoli avvenimenti o le singole parole.

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L'ULTIMA SERA

Prima di affrontare il testo del Vangelo di san Giovanni, noi cercheremo di rievocare due avvenimenti della storia del pensiero nei quali, da un punto di vista puramente esterno, accade qualcosa che assomiglia molto al fatto che ci viene raccontato da questo Vangelo: anche là, prima della sua morte, un maestro dello spirito siede in mezzo ai suoi discepoli e lascia loro, come in un testamento spirituale, quanto di meglio egli possiede.

Grazie a questo parallelo, le differenze verranno messe in netto risalto e noi vedremo manifestarsi il carattere specifico unico di quanto ci racconta san Giovanni.

Il primo di questi due avvenimenti risale a più di cinquecento anni prima dei fatti raccontati nel Vangelo: si tratta dell'ultimo incontro con i suoi discepoli di Buddha, il fondatore del buddhismo, e della sua morte. Il tutto viene raccontato da un antico testo, intitolato: II grande racconto della morte di Buddha.

Noi non ci chiederemo qui se il messaggio religioso di Buddha fosse vero o no; vogliamo soltanto mettere bene in evidenza agli occhi del lettore la situazione umana e spirituale che risulta da questo racconto. Buddha era un principe indiano che aveva a sua disposizione tutto quello che un uomo può

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desiderare. Ma un giorno egli fu talmente sconvolto nel riconoscere il carattere effimero e doloroso della nostra esistenza che decise di ruggire, così si esprime quel testo, « nel deserto », e di iniziare una vita ascetica. Durante il corso di questa vita, egli fece la profonda esperienza della vanità e dell'ingannevole apparenza che sta alla radice di ogni cosa e meditò di trovare una via che gli permettesse di distruggere questa illusione. Dei discepoli, il cui numero aumentò rapidamente, si raccolsero intorno a lui. Il popolo ed i suoi principi gli decretarono sommi onori. Dopo una lunga ed operosa vita, quando ebbe raggiunta l'età di ottant'anni, egli sentì di esser giunto al termine del suo cammino. Egli stava per morire; stava cioè, conformemente alla sua dottrina, per essere liberato dall'illusione e dal dolore della vita.

Così ci viene descritto l'ultimo incontro del maestro con i suoi discepoli: lui, il Buddha, in un atteggiamento solenne ed ieratico; essi, gli scolari, in muto e rispettoso ascolto. Egli dona ad essi le sue ultime istruzioni e cerca di imprimerle bene nella loro memoria: Voi dovete attaccarvi soltanto alla dottrina e non l'uno all'altro! Voi dovete fare affidamento soltanto su voi stessi, sul vostro personale punto di vista e sulla vostra personale decisione. Non dovete contare su di un maestro. Il vostro maestro sta infatti per andarsene; a ciascuno di voi non resta pertanto che la sua forza di volontà e la sua esperienza, nessuno e null'altro... Così muore Buddha, abbandonando, come dice il testo, la sua volontà di vivere. E dopo di lui non rimane che un certo numero di singoli decisi a compiere una dura missione.

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Il secondo avvenimento ha luogo cento anni più tardi: si tratta dell'ultimo giorno della vita di So-crate. Esso ci viene narrato nel fedone, uno dei .dialoghi di Fiatone. Socrate era un uomo piuttosto strano. Quando qualcuno gli chiedeva quale fosse la sua dottrina, egli rispondeva di non averne alcuna;

e ciononostante nessuno è riuscito a risvegliare lo spirito dei suoi uditori come c'è riuscito lui. Dopo un lungo periodo, durante il quale il pensiero filo-sofaco si era fatto vano e politicizzato, egli ha ridato agli uomini il gusto delle cose serie; li ha resi coscienti dell'esistenza di una verità che è possibile conoscere e di un bene che la volontà retta è capace di realizzare. Ma l'essenza di questa verità e di questo bene egli non l'ha racchiusa in parole e frasi che possano essere imparate a memoria; al contrario, ha risvegliato il desiderio di essi ed ha reso più acuta la coscienza della loro esistenza. Ogni singolo uomo dovrà poi cercare e trovare che cosa siano questa verità e questo bene.

Eccolo dunque messo in stato di accusa e condannato a morte soltanto perché i gruppi che detengono il potere hanno giudicato scomoda ed inquietante la sua presenza. Le condizioni materiali della sua prigionia non sono molto rigorose: gli viene pertanto concesso di trascorrere il suo ultimo giorno assieme ai suoi. Quando sarà giunta la sera, al tramonto del sole, egli dovrà bere la coppa che contiene il veleno. Pertanto i suoi discepoli vengono a visitarlo nella prigione di buon mattino e vi restano per tutta la giornata. Essa trascorre così come sono trascorsi tutti gli altri giorni, quando egli era ancora libero. Socrate discute con i suoi discepoli; parla loro delle sue ricerche spirituali; rende testimonianza di

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ciò che gli consente di andare verso la morte con tanta Educia e tranquillità. La sua morte corporale non sarà che un passaggio verso la realtà vera; questa realtà vera è rappresentata dalla vita indistruttibile, che lo spirito acquista mediante la conoscenza della verità ed il compimento del bene, i quali devono essere però il frutto di uno sforzo personale. Quando i suoi discepoli gli chiedono su che cosa essi si dovranno appoggiare quando egli sarà partito, Socrate risponde: su voi stessi. Ognuno di voi dovrà basarsi sulla propria coscienza, sulla forza del proprio spirito che è ormai stato risvegliato.

Uno strano stato d'animo regna nel piccolo gruppo; essi sono seri ed in lutto, perché il maestro se ne va; e, ciononostante, sono tranquilli, quasi presi da una miracolosa gaiezza. Si trattò d'uno strano fatto, dice il narratore; noi ci trovavamo fra il riso ed il pianto.

Ed infine il terzo avvenimento. Si tratta di nuovo dell'ultimo giorno che un maestro passa con i suoi;

la conclusione di una vita in comune che non fu molto lunga, ma che fu colma di una infinita pienezza. Gesù prende congedo, dice addio ai suoi discepoli.

Quale fu dunque il comportamento che Gesù tenne nei confronti dei suoi? Egli era cosciente di essere venuto da Dio e che questo Dio era suo Padre. Egli non parla ai discepoli come uno che abbia cercato e trovato, affinchè essi a loro volta facciano come lui;

parla, al contrario, in virtù dei pieni poteri che gli derivano dalla sua figliolanza divina (dal suo stato di figlio); come maestro e Signore (Io. 13, 13), che solo sa ed ha autorità, anzi come colui che può dire

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di se stesso: « Io sono la via, la verità e la vita » (Io. 14, 6).

Egli ha dato ima risposta al più importante di tutti gli interrogativi umani: l'interrogativo che si chiede come Dio sia disposto nei nostri confronti. Partendo dai puri dati naturati, noi non possiamo sapere nulla a questo proposito. Soltanto Gesù poteva saperlo. Giovanni ci dice che egli vive nell'eternità, « nel seno del Padre », nella eterna intimità della comunione divina. È partendo da questa divina intimità che egli « ci ha rivelato » la disposizione di Dio nei nostri confronti (1, 18).

Egli ha chiamato amore questa disposizione divina. Quando il Nuovo Testamento pronuncia la parola « amore », noi veniamo a trovarci di fronte ad una misteriosa realtà. Non si tratta soltanto di una benevolenza che tutto abbraccia, ma di qualche cosa di incomprensibile alla ragione umana; di una cosa talmente incomprensibile che si potrebbe soltanto tentare di descriverla, con grande reverenza, dicendo che Dio, dal fondo della sua eternità, ha deciso di prendersi talmente a cuore la nostra umana sorte, che gliene è risultato un destino dentro alla storia. La vita di Gesù non è che un unico commento a questa affermazione.

Egli ha portato nel mondo una indicibile possibilità. Le sue prime parole che ci vengano riferite dal Vangelo sono queste: « II tempo è compiuto e il Regno di Dio è qui. Ravvedetevi e credete alla buona novella » (Afe. 1, 15). Questo « regno » non è una pura dottrina od una morale, ma una realtà effettiva, la presenza palese di Dio, il respirare e l'agire nella volontà di Dio.

Se coloro che ascoltano il messaggio lo accettano

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anche, si verificherà allora una cosa ineffabile: il Regno verrà verso di essi. Noi non possiamo dire come una cosa simile sarebbe potuta avvenire, perché coloro che avrebbero dovuto ascoltare non lo hanno fatto. Ma ciò che è avvenuto in seguito a Pentecoste ce lo lascia almeno presagire.

In terzo luogo: Gesù ha espiato la colpa che pesa sul mondo: la rivolta dei primi progenitori contro Dio, rivolta che ha avuto luogo all'origine dei tempi ma che si risveglia nuovamente in ogni nuova colpa di ogni singolo uomo; quell'oscuro elemento che continuamente contrasta la bellezza della creazione divina; il turbamento dei cuori e l'oscuramento degli spiriti — egli ha preso tutto questo su di sé e lo ha espiato; non soltanto mediante la sua morte ma anche mediante ogni alito di respiro che egli emise in questo mondo turbato e malvagio. Tutta la sua esistenza non è stata che una lunga espiazione. Se gli uomini avessero accolto colui che era venuto per loro, si sarebbe operata la redenzione di ogni cosa, da capo a fondo; ma essi « non lo hanno accolto », come dice Giovanni (1, 15).

Il primitivo piano di Dio, che avrebbe dovuto realizzarsi nella gioia, è così fallito. « Da allora » — dal momento in cui, cioè, si decise di questo fallimento — « Gesù cominciò a mostrare ai suoi discepoli che era necessario che egli si recasse a Gerusalemme e soffrisse molto da parte degli anziani, dei gran sacerdoti e degli scribi, e fosse ucciso » (Mt. 16, 21).

E adesso giunge la sera di quel giorno e la sera di una così breve vita. Gesù è coi suoi. Che cosa avviene in questa occasione? Che cosa pensano i

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discepoli? Qual è lo stato d'animo che regna nella sala?

Non è facile rispondere a questa domanda. Il primo pensiero che ci viene, se noi abbiamo letto col cuore aperto, sembra essere questo: noi ci troviamo di fronte ad un profondo disorientamento. I discepoli non capiscono che cosa sta realmente succedendo:

lo dimostrano chiaramente le domande che essi fanno. Capire ciò che sta succedendo oltrepassa le loro possibilità. Qò si rivela ancora più chiaramente nella maniera in cui si comportano in seguito. Essi fug-gono; ma non perché vogliano tradire, ma perché non riescono a comprendere. Non si tratta, in fondo, di viltà; essi semplicemente non comprendono la portata degli avvenimenti ai quali stanno assistendo.

Ma se rivolgiamo il nostro sguardo sullo stesso maestro, noi avvertiamo attorno a lui una profonda solitudine. Gesù è talmente solo che il nostro cuore si riempie di sgomento. Egli sta seduto in mezzo ai suoi; egli è quello che è, cioè il Figlio di Dio; egli rivolge ad essi delle parole, ciascuna delle quali è piena di una potenza sacra, ma essi non lo comprendono. Intorno a lui regna questa terribile e misteriosa solitudine, nella quale Io imprigiona il mondo che s'è chiuso in se stesso. Si tratta, se ci è consentito di esprimerci in questo modo, della solitudine di Dio nel mondo che gli appartiene ma che non l'ha voluto accogliere (Io. 1, 11).

Ma, ciononostante, egli vuoi far loro il suo dono supremo. Pertanto, si ricollega al sentimento che ogni fedele ebreo provava durante una cena; il sentimento, cioè, che questo atto, mediante il quale vien dato nutrimento alla vita e viene creata una comunità fra gli uomini, ha in sé alcunché, in cui si viene a con-

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tatto col divino. Per l'Antico Testamento, ogni pasto era strettamente collegato con l'idea del sacrificio:

Dio, il Signore della vita, lo accettava come un omaggio reso alla sua sovranità e dava, mediante esso, il nutrimento ai suoi fedeli. Perciò l'atto di ringraziamento aveva luogo all'inizio, prima che i convenuti avessero toccato i cibi. Ma l'idea del sacrificio, che costituiva la base di ogni pasto, era in questa cena particolarmente evidente. Si trattava del sacrificio pasquale; del sacrificio dell'agnello che veniva ucciso ogni anno, per commemorare l'agnello nel cui sangue aveva avuto una volta inizio la via della liberazione del popolo ebreo dalla schiavitù d'Egitto (Ex. 12, 1).

Gesù colloca la sua stessa persona in questo mistero dell'agnello pasquale: egli è il vivente, che domani dovrà morire per espiare con la sua morte il peccato del mondo. L'intero suo destino terreno costituisce una espiazione; questo destino culminerà con la sua morte sulla croce. La sua « carne ed il suo sangue », la sua sacra vita, costituiscono l'alimento che proviene dal sacrificio e che egli vuole donare ai suoi fedeli. « Mentre mangiavano », così ci racconta Matteo, « Gesù prese del pane e, dopo aver recitato la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli, dicendo: 'Prendete e mangiate: questo è il mio corpo'. Poi, prendendo una coppa, rese grazie e la diede loro, dicendo: 'Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti in remissione dei peccati' » (Mf. 26, 26-28).

Cerchiamo di prender bene coscienza della portata immensa di questo avvenimento. Di fronte ad esso non restano che due alternative: la scelta che ci porta

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a credere e ad adorare e l'altra che si rifiuta di accettare una simile pretesa. Bisogna che la sua certezza di essere al di sopra della vita e della morte sia veramente divina, perché egli possa pensare di divenire per i suoi fedeli un alimento di vita vera! In virtù di quale profonda sapienza egli deve sapere che il suo essere non contiene ne disordine ne veleno perché egli possa avere la volontà di donarlo ai suoi fedeli in nutrimento per l'eternità! Quale potenza di vita egli deve possedere perché da essa possa emanare la tranquilla sicurezza di questo suo atto che va oltre ogni misura e possibilità naturale! Quale coscienza della sua purezza, della sua onnipotente purezza!

Questo è quanto avviene in quella sera. Poi giungerà la morte. E dopo di essa la Risurrezione. E cinquanta giorni dopo si avrà l'evento della Pentecoste e lo Spirito di Dio farà il suo ingresso nel tempo. Egli assumerà la dirczione della Storia Sacra e renderà i credenti capaci di comprendere, anzi, diremo meglio, di rivivere, quello che è qui avvenuto pur frammezzo alla solitudine e al disorientamento di questa ultima sera.

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LA LAVANDA DEI PIEDI

II Vangelo di san Giovanni, nel suo tredicesimo capitolo, ci narra un atto misterioso compiuto da Gesù durante questa ultima sera. Esso dice:

« Durante la cena, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota figlio di Simone il proposito di tradirlo, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che egli era venuto da Dio e a Dio ritornava, Gesù si leva dalla mensa, depone il mantello, prende un panno e se ne cinge. Poi versa acqua nel catino e si mette a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli col panno di cui si era cinto.

Viene dunque a Simon Pietro, il quale gli dice:

'Signore, tu mi lavi i piedi?'. Risponde Gesù e gli dice: 'Ciò che io faccio tu adesso non lo comprendi:

lo comprenderai però dopo'. Gli dice Pietro: 'Non mi laverai i piedi in eterno!'. Gesù gli risponde: 'Se non ti laverò non avrai parte con me'. Gli dice Simon Pietro: 'Signore, non soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo!'. Gli dice Gesù: 'Chi ha fatto un bagno non ha bisogno di lavarsi: egli è del tutto mondo. E voi siete mondi, ma non tutti'. Sapeva infatti chi lo tradiva, perciò disse: 'Non tutti siete mondi'.

Quando dunque ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: 'Comprendete ciò che vi ho fatto?' » (Io. 13, 2-12).

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L'ultima frase, con la domanda che essa contiene, vale anche per noi: comprendiamo noi, infatti, quello che Gesù ha fatto qui?

Si potrebbe rispondere che egli ha voluto dare ai suoi discepoli un insegnamento di umana solidarietà;

un esempio dell'aiuto che ogni uomo deve dare al suo prossimo in quanto gli uomini dipendono gli uni dagli altri. Infatti qual era il significato corrente del gesto compiuto da Gesù? Colui che veniva invitato a pranzo, prima di andarvi, faceva un bagno ed indossava un abito di festa. Ma egli camminava con i piedi protetti da un semplice paio di sandali. Pertanto, durante il cammino verso la casa dell'ospite, a meno che egli non disponesse di una lettiga, i suoi piedi si impolveravano nuovamente. Ora, non era cosa 'bella il presentarsi a tavola in quella condizione. Tanto più che a quei tempi non si sedeva a tavola, ma si stava invece sdraiati su una specie di letto, ragion per cui i piedi restavano in bella mostra. Per ovviare ad un simile inconveniente si metteva alla porta uno schiavo, con l'incarico di lavare i piedi all'ospite che faceva il suo ingresso nella casa. La comunità dei discepoli non aveva una persona fissa cui fosse affidato questo incarico. Quindi esso avrebbe dovuto essere assolto .da uno di essi. Evidentemente una cosa simile non venne fatta. Gesù pertanto lo avrebbe fatto lui, di persona, per dimostrare ai discepoli con quale stato d'animo, con quali sentimenti, coloro che credono in lui devono comportarsi reciprocamente.

Questa spiegazione ha del buono in sé; noi sentiamo però, immediatamente, che tale non deve essere stato il pensiero di Gesù. Non è infatti la saggezza pratica della vita quello che gli importa.

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Cerchiamo dunque di andare più a fondo nella nostra indagine. Nel circolo dei discepoli di Gesù è sorta la questione — evidentemente più d'una volta — di sapere chi fosse più vicino al maestro;

colui il quale, nell'ordine nuovo che doveva essere costituito, espresso mediante la parola « Regno di. Dio », avrebbe dovuto occupare la posizione più elevata.

Matteo racconta: « Allora la madre dei figli di Zebedeo gli si avvicinò con i suoi figli e gli si prosternò per fargli una domanda. Gesù le disse:

'Che cosa vuoi?'. Essa gli rispose: 'Ordina che questi miei due figli siedano uno a destra ed uno a sinistra nel regno tuo' » (20, 20 s.). E nel Vangelo di Luca si legge: « Nacque pure una contesa tra essi: chi di loro fosse da considerarsi maggiore. Ma egli disse loro: 'I rè delle genti le signoreggiano e coloro i quali dominano su di esse si fanno chiamare benefattori. Ma non così voi; anzi, il maggiore fra di voi si comporti come il più giovane, e colui che governa come colui che serve. Chi, infatti, è maggiore? Colui che siede a tavola o colui che serve? Eppure io sono in mezzo a voi come colui che serve' » (22, 24-27).

Considerato da questo punto di vista, il gesto del Signore avrebbe dovuto rappresentare un esempio inteso ad insegnare ai discepoli che essi non dovevano avere un'opinione troppo alta di se stessi, che non dovevano pretendere agli onori, ma dovevano invece essere pronti a servire gli altri. Una lezione dunque intesa ad insegnare loro l'umiltà e la modestia, che non si fanno avanti ma che proprio in questo hanno tutto il loro valore. Egli avrebbe illustrato questo insegnamento mediante un atto affin-

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che i discepoli, per il futuro, potessero avere ben presente l'immagine del maestro che si inginocchiava di fronte ad ognuno di essi per rendere loro questo servizio. Questa spiegazione raggiungerebbe già un significato più profondo senza pervenire, però, all'essenziale.

Quando si medita a lungo su questo avvenimento e si rilegge il testo per parecchie e parecchie volte, può darsi allora che tutto divenga improvvisamente chiaro: noi ci troviamo qui di fronte ad un atto che vuoi presentarci un mistero! Si tratta di un modo di procedere che non vuoi soltanto inculcare un insegnamento morale, ma che vuole anche svelare un mistero. Ma di quale rivelazione si tratta in questo caso?

Nella lettera ai Filippesi dell'apostolo Paolo si trova un testo che sembra alludere in modo così impressionante a questo atto di Gesù, che si può persino arrivare a pensare che esso sia stato scritto proprio con uno specifico riferimento ad esso. Questo passo della lettera ai Filippesi dice infatti: "Abbiate in voi lo stesso sentire che fu in Cristo Gesù: lui che, avendo forma di Dio non riputò una preda l'essere uguale a Dio; esinanì, invece, se stesso, prendendo forma di schiavo, divenuto simile agli uomini. E, apparso in aspetto di uomo, si umiliò ancor più, facendosi obbediente fino alla morte, alla morte in croce. Per questo Iddio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome" (2, 5-9).

Queste parole penetrano fino al cuore di Dio con una arditezza che soltanto Paolo, insieme con Giovanni, possiede. Esse dicono: il Logos era, dall'eter-

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iuta, presso il Padre. Egli vi era nella forma divina, del Figlio primogenito, eguale all'eterno Signore. Egli "non riputò una preda" di essere tale; non come qualcosa che ci si possa arrogare e che si teme di perdere in ogni momento, ma come una situazione che gli spettava di diritto. Se egli l'avesse detenuta ingiustamente, vi si sarebbe pure aggrappato in modo spasmodico. Ma egli la possedeva di diritto; era il Figlio di Dio, in verità e per sua essenza. Egli fece pertanto una cosa inaudita quando si privò di questa sua sovranità, abbassandosi per prendere la forma e per rendere il servizio di uno schiavo. Ed in seguito viene il grande capovolgimento: "Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che èal di sopra di ogni

nome

Che cosa ci viene rivelato con queste parole? Ci

viene rivelata l'umiltà. E questo proprio -—se ci è permesso di parlare così — in un posto dove mai noi avremmo potuto supporla: in Dio.

Non è facile parlare dell'umiltà; per poterlo fare bisogna penetrare attraverso un muro di incomprensione e di resistenza — dappertutto ed in ogni tempo, ed anche nel nostro cuore. Nietzsche s'è fatto portavoce del pensiero di molti quando egli attaccò con vero e proprio furore l'umiltà, nella quale egli vedeva l'essenza del cristianesimo: e cioè, nella sua opinione, l'atteggiamento dei deboli, dei falliti, degli schiavi che avevano fatto una virtù della loro meschinità. Secondo il Nietzsche l'autentica umanità sarebbe orgogliosa. La nobiltà autentica si .rivela nell'atteggiamento di colui che è padrone di se stesso e che non si piega di fronte a nessuno. Il cristianesimo, al contrario, avrebbe corrotto i valori ed avreb-

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be determinato la vita a partire dalla grettezza.

Questo atteggiamento del Nietzsche corrisponde per parecchi versi al sentimento dell'uomo naturale che non riesce a comprendere la vera umiltà. E quando si vede come essa si presenta, così spesso, nella concreta realtà del cristiano dei nostri giorni, senza autenticità ne fermezza, allora ci si sente tentati di dare ragione al Nietzsche.

Ma che cos'è in realtà l'umiltà? Essa è una virtù che fa parte della fortezza. Soltanto colui che è forte può essere realmente umile. La sua forza non si piega alla costrizione, ma si inchina liberamente, nel servizio reso, verso colui che è più debole, che è inferiore. L'umiltà non può del resto avere la sua origine nell'uomo, bensì in Dio. È lui il primo umile. Egli è talmente grande, talmente al di fuori di ogni possibilità che una qualsiasi potenza lo possa costringere, che egli può permettersi — se ci è concesso di esprimerci in questo modo — di essere umile. La grandezza gli è essenziale; soltanto lui può dunque rischiare di abbassare questa sua grandezza sino all'umiltà.

Cerchiamo di riflettere: quand'è che Dio si è dimostrato umile per la prima volta? Quando egli creò il mondo. Noi siamo per lo più portati a vedere nell'atto creatore di Dio soltanto la potenza e la generosità. È vero che il mondo è talmente grande, talmente ricco, così meravigliosamente al di sopra di ogni nostra umana capacità di comprendere, che ci viene naturale di porre sempre più in risalto la grandezza di Dio. Ma cerchiamo di prendere invece come punto di partenza della nostra riflessione un'altra qualità che, oltre alla grandezza, caratterizza pure

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il mondo, anzi lo fa in maniera originaria e decisiva, •e cioè, la sua finitezza. E adesso chiediamoci: è confacente alla dignità di Dio il creare ciò che è inferiore a lui?

Noi parliamo da pazzi, certamente; ma talvolta la follia serve a mettere in evidenza la saggezza. Ciò che Dio crea non può naturalmente essere che finito in quanto il creare l'infinito significherebbe per Dio divenire invero il creatore di se stesso. Ma perché egli crea? Noi siamo talmente perduti in noi stessi che siamo portati a considerare come una cosa ovvia e naturale il fatto che Dio abbia dato origine a questa nostra esistenza. Certamente, si tratta di una cosa meravigliosa e degna di tutta la nostra riconoscenza, ma Dio, in fondo, non avrebbe potuto fare altrimenti, pensiamo. "L'esistenza", considerata in modo assoluto, in sé, è rappresentata, per il nostro primo e spontaneo sentimento, da "Dio e il mondo". Questo a meno che tale sentimento non si smarrisca ancora più profondamente ed arrivi a dire: "l'uomo ed il mondo"; per aggiungere poi, con un piccolo sforzo:

e mettiamoci anche Dio, come fondamento, come base, di questo mondo. Questa però è la formula dell'uomo decaduto che considera se stesso come la realtà primaria esistente e parla molto volentieri di Dio come del "problema di Dio". Ma, al contrario, la realtà ovvia ed evidente è Dio; è l'uomo che è problematico. "Tutto" "vi" è in quanto Dio è.

Dio "basta". Egli è tutto. Non "manca" nulla, in quanto egli è. Ed allora perché egli crea ciò che sta al di sotto di lui? Non rispondiamo troppo presto che egli ha voluto per bontà chiamare all'esistenza ciò che è inferiore a lui. Questa risposta da una tale importanza alla nostra esistenza che giunge ad inco-

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modare, in suo favore persino l'Essere assoluto. Poiché, quando egli crea, ciò non significa soltanto che egli metta là la creatura dicendo: Ecco, sii! Egli vi inserisce il suo pensiero, la sua potenza. Egli si rende garante che l'esistenza del finito è cosa buona; anzi egli lo dice espressamente quando, al termine della sua opera creatrice, "Egli vede tutto ciò che ha fatto" e pronunzia il giudizio: "È molto buono" (Gen. 1, 31). Come può Dio comportarsi così?

Qui appare già, in modo misterioso e che riempie di un oscuro sgomento, l'umiltà di Dio. Egli qui ci domanda già: "Comprendete tutto quello che io ho fatto per voi?". Ma noi dobbiamo rispondere: "No, Signore, noi non lo comprendiamo".

Proprio quest'atto della creazione ci rivela però qualcosa della disposizione e dell'atteggiamento di Dio. Egli è così grande, così pieno di una santa vita, così forte e Signore di se stesso, che egli può creare un mondo finito senza menomare per nulla la propria dignità ed il proprio onore. Se noi chiediamo: "Che cosa occorre perché tutto sia nell'ordine?", la risposta appropriata è questa: "Occorre che ci sia Dio". "Soltanto" questo occorre, ed è già bastante. Ma Dio ha voluto che ci sia anche il mondo; che questo mondo abbia importanza ai suoi occhi; tanta importanza da diventare per lui un giorno — pensiamo al Cristo — un destino... Ma ciò non bastava. Dopo aver creato la finitezza dell'essere, egli ha anche voluto l'esistenza della libertà finita; una libertà che non fosse garantita, come la sua, da una assoluta santità, ma che fosse invece esposta alla possibilità del male. E che cosa ha fatto l'uomo di questa libertà? Ma Dio è talmente attaccato al suo atto creatore che egli

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prende su di sé la colpa della sua creatura, entra nella finitezza di questo mondo e si fa uomo; e tutto questo sotto la veste di un piccolo predicatore errante, in questa minuscola Palestina, che quasi nessuno conosce.

Non soltanto il nostro Dio è grande — il che sarebbe ovvio e naturale — ma egli infrange anche tutte le norme della nostra razionalità. Ed è proprio questo misterioso elemento, che si sottrae alla nostra comprensione, a nascondersi qui dietro il gesto di Gesù, del quale abbiamo parlato. È qui che avviene il grande "rovesciamento dei valori"; la messa a nudo della meschinità di ogni forma di orgoglio. L'orgoglioso ergersi dell'uomo in tutta la sua potenza, in tutta la sua genialità costituisce una ben miserabile cosa di fronte agli occhi di Dio. E pertanto egli ci domanda: "Avete compreso?".

E bisogna infatti comprendere qualcosa di tutto ciò poiché in caso contrario si ignorerebbe la vera essenza del cristianesimo. Non è casuale il fatto che nelle lingue naturali sembri non sia possibile riscontrare un corrispondente della parola "umiltà". La realtà espressa da questa parola, l'atteggiamento di Dio, doveva prima rivelarsi nel Cristo; in seguito essa è stata indicata mediante una parola che in origine stava a signiEcare qualcosa di molto piccolo: in greco la "piccolezza d'orientamento spirituale" (TaTC£i,voq)pocrùvTQ), in latino ed in italiano la foca distanza da terra, da "burnus", quindi piccolezza di statura *, in tedesco la "propensione a servire" **.

* La parte sottolineata è nostra (n.d.f.).

** Demut: Mut (animo, propensione) [zum~\ Dienen (al servire) (n.d.t.).

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Ed adesso questa parola esprime una realtà che è divenuta invisibile per l'uomo, in quanto quest'uomo non crede più.

È soltanto quando noi cerchiamo di approfondire questo argomento che ci si manifesta l'intima disposizione di Dio dalla quale, pure, dipende tutto. Quando noi pensiamo a Dio, noi pensiamo per lo più a colui che sorpassa ogni grandezza, che siede in trono avvolto dallo splendore della sua gloria. Tale è anche la realtà di Gesù. Egli la mette in rilievo quando dice di se stesso: "Voi mi chiamate il maestro e il Signore e dite bene: lo sono infatti" (Io. 13, 13). Egli è infatti il Figlio che ha la stessa natura dell'Eterno Padre. È colui che sa, che non può fallire, colui al quale "venne dato ogni potere, in cielo e sulla terra" (Mt. 28, 18). In lui non vi sono ne debolezza ne paura. Ma nel Dio che si chiama Signore c'è anche il mistero di un atteggiamento spirituale, ad esprimere il quale noi non possiamo servirci di altro mezzo che della parola umiltà.

È questa misteriosa umiltà che si rivela nel gesto di Gesù e che ci domanda: Capisci? Oppure vuoi restare irrigidito nel tuo orgoglio? Nell'orgoglio del corpo, nell'orgoglio dello spirito, nell'orgoglio della potenza? Se nel tuo caso le cose stanno così, allora tu non conosci chi sia Dio. Tu non conosci assolutamente nulla della sua realtà. Perciò cerca di imparare. "Cambiate completamente il vostro modo di vedere e di giudicare"; è stato questo il primo appello di colui che è venuto: "Ravvedetevi", affinchè voi possiate entrare in sintonia con l'atteggiamento spirituale, con il sentimento di Dio. Di questa disposizione interiore, di questo atteggiamento spirituale egli ha parlato espressamente quando disse: "Impa-

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rate da me, che sono mite ed umile di cuore » (Mt. 11, 29).

Pertanto noi vogliamo affrontare il groviglio di erbe cattive che alligna dentro di noi, il groviglio di inclinazioni superbe, erronee, meschine, al fine di poterlo estirpare. Vogliamo cacciare la superbia che si proclama grande e che pure non è che menzogna. Vogliamo cominciare ad apprendere la verità che si chiama umiltà. Dio ci condurrà in seguito verso ciò che intende l'apostolo quando egli ci ammonisce ad "avere in noi lo stesso Sentire che fu in Cristo Gesù", quando egli lavò i piedi ai suoi discepoli.

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LA PARABOLA DELLA VITE E DEI TRALCI

I tré primi evangelisti, Matteo, Marco e Luca, ci raccontano, di regola, soltanto ciò che direttamente accade nella vita di Gesù e le parole che si riferiscono a questi avvenimenti. In tal modo essi sono stati condotti ad omettere delle cose importanti, che, pure, Gesù aveva dette, ma che non rientravano nella prospettiva entro cui si situava il loro racconto. Giovanni, invece, scrive il suo Vangelo circa sessantenni — un periodo di tempo, quindi, notevolmente lungo — dopo la dipartita di Gesù. Durante tutto questo tempo, egli ha avuto pertanto modo, nel corso delle sue predicazioni e delle sue meditazioni personali, di riflettere bene sulla vita e sulla dottrina del suo Maestro ed è perciò riuscito a coglierne degli aspetti profondi che erano invece sfuggiti ai sinottici. Così Giovanni ci racconta molte cose che gli altri tré evangelisti invece tacciono; ad esempio i cosiddetti discorsi dell'addio contenuti nei capitoli 13-16 del suo Vangelo. Proprio quei discorsi nei quali Gesù esprime dei pensieri molto profondi, anzi estremamente intimi, che ci rivelano la coscienza che egli ha di se stesso.

Nel quindicesimo capitolo si legge ad esempio:

"Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, ed io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me è buttato

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via come il tralcio e si dissecca; poi i tralci secchi li raccolgono e li buttano nel fuoco e bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete ciò che volete e vi sarà fatto" (5-7).

La similitudine è bella e noi ci chiediamo quale sia il suo significato. Essa si propone che noi prendiamo coscienza del rapporto che esiste fra il Cristo ed i suoi discepoli. Se essi vogliono divenire come li vuole il Maestro e realizzare la missione per la quale egli li ha scelti, debbono rimanere strettamente uniti a lui. Ora sembrerebbe naturale vedere questa unione nel semplice fatto che essi conservano le sue parole nella loro memoria, cercando continuamente di penetrarne il senso profondo; che si attengono alle sue indicazioni, cercando continuamente di entrare nello spirito con il quale egli li ha dati; insomma che egli è in tal modo la guida della loro vita spirituale. Questo punto di vista è esatto, certamente;

ma si tratta qui soltanto di questo? L'insistenza stessa che si esprime in questa similitudine fa supporre che essa abbia un significato più profondo. Delle parole quali: "egli rimane in me ed io in lui" vogliono dire molto di più di quanto un Socrate non avrebbe potuto dire ai suoi discepoli. In che consiste questo "di più"?

Nella prima lettera di san Giovanni noi leggiamo delle frasi come la seguente: "Se diciamo di non avere peccato" — qui si allude agli gnostici di quell'epoca i quali insegnavano che, quando il loro sforzo avesse •oltrepassato un determinato grado, essi si sarebbero così trovati al di là del bene e del male — "inganniamo noi stessi e la verità non è in noi" (1-8). Che

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cosa si vuoi dire qui con la frase: la verità non è in noi? La intenderemmo nel suo esatto senso se, secondo il nostro modo di concepire le cose prettamente razionalistico, noi dicessimo: essa significa semplicemente che, affermando di non aver peccato, noi dimostriamo di non aver compreso quella che è la realtà vera e la nostra affermazione, quindi, è falsa? Giovanni, qui, vuoi dire molto di più. Egli

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Oppure ascoltiamo la frase seguente, tratta anche essa dalla prima lettera di Giovanni: "Se uno ha dei beni terreni e vede il fratello nel bisogno e gli rifiuta ogni pietà, in che modo l'amore di Dio potrà dimorare in lui?" (3, 17). Ci troviamo qui di fronte ad una maniera di esprimersi che è perfettamente eguale a quella della frase precedente. Noi potremmo anche interpretare in questo modo: Costui non ha amore, costui non sa che cos'è l'amore. Ma una simile inter-pretazione non lascerebbe soddisfatto san Giovanni:

egli dice, infatti: "in che modo l'amore di Dio potrà dimorare in lui?". Poco prima egli ha detto: "la verità non è in noi"; ed adesso: "in che modo l'amore di Dio potrà dimorare in lui?". Il razionalista vede in simili frasi una specie di platonismo che concretizza i concetti. Ma Giovanni gli risponderebbe:

tu non hai alcuna esperienza di queste cose. Ciò che a me importa, non è soltanto se un tale abbia o non abbia, dal punto di vista dell'orientamento spirituale e della psicologia, intelligenza ed amore, ma, al contrario, se la verità e l'amore siano oppure non siano in lui. La verità e l'amore non sono soltanto dei I pensieri e delle disposizioni dell'animo, ma delle potenze viventi che, venute da Dio, dimorano ed operano nell'uomo che crede.

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Quanto è stato detto sopra ci avvicina già molto al vero senso della parabola.

Nella lettera ai Filippesi, Paolo dice: "Perché anch'io sono stato afferrato da Cristo Gesù" (3, 12) e: "perché in lui io sia trovato". Eccoci di nuovo di fronte alla stessa profonda maniera di esprimersi, che ci mette sull'avviso. Noi siamo propensi ad intendere queste parole in maniera intellettualistica o psicologistica; a pensare che l'apostolo voglia qui dire: io ho ricevuto dal Cristo una profonda impressione; io mi sono posto al suo servizio; egli mi ha spiritualmente attratto a sé; la sua immagine e le sue parole determinano la mia vita intcriore, e così via. Ma ciò sarebbe troppo poco, di gran lunga troppo poco!

Quando noi leggiamo queste frasi, dobbiamo pensare a quanto ci raccontano gli Atti degli Apostoli circa il viaggio che Paolo fa da Gerusalemme a Damasco; al modo in cui il Cristo trasfigurato gli appare sulla strada e la sua parola scaglia a terra il persecutore della giovane comunità cristiana. Paolo diviene cieco in seguito a questo "choc"; se ne sta muto per tré giorni, senza mangiare e bere; poi si alza nuovamente e si trova trasformato in un altro uomo (9, 3 ss.). Se si leggono tenendo conto di questo precedente, le due frasi della sua lettera ai Filippesi che abbiamo riportate acquistano ben altra forza e realtà.

Le due frasi citate — e se ne potrebbero riferire parecchie altre — ci avvicinano ancor più al senso della parabola dei tralci e della vite. Bisogna dire del resto che non si dovrebbe mai tentare di spiegare

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un passo della Sacra Scrittura considerandolo isolatamente. Bisogna invece vederlo mentre cresce e si sviluppa mediante i nuovi significati che gli derivano dal complesso in cui esso è situato. Quando noi confrontiamo i testi del Nuovo Testamento con la realtà immensa che essi vogliono annunciarci; con la pienezza di tutto quello che Gesù deve aver detto durante gli anni della sua attività pubblica — per non parlare del suo essere, della sua azione, del suo destino divino-umano — noi proviamo l'impressione di trovarci di notte, di fronte a dei lampi, che giungono a noi da un mondo smisurato che si trova nello sfondo. Soltanto un piccolo esempio: Luca racconta, nel quinto capitolo del suo Vangelo, che Gesù si è fatto trasportare da Pietro un poco lontano dalla riva e "dalla barca istruisce le folle" (5, 3); ma non ci dice nulla di quello che Gesù ha effettivamente insegnato in quella occasione. Ed è così continuamente. Dietro alle parole della Scrittura si nasconde una enorme immensità. Di questa immensità noi riceviamo a volte una parola, a volte un gesto. Ma tutto dò è sempre incommensurabilmente inadeguato di fronte a quella che doveva essere la realtà.

Quando dunque Giovanni dice: "Chi osserva la sua parola" cioè, chi fa quello che il Cristo ha comandato, "in ciò conosciamo di essere in lui" (1 Io. 2, 5) egli non vuole dire soltanto che noi pensiamo a lui, che noi ci sentiamo uniti a lui, ma, precisamente, che "noi siamo in lui", e ciò vuoi dire di più, anzi qualcosa di diverso. Quando Giovanni dice, sempre nella sua prima lettera: "Se ci amiamo scambievolmente. Dio dimora in noi" (4, 12), egli non vuoi significare, con queste parole, una

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[ durevole fedeltà od una influenza psicologica costanti tè, bensì una realtà.

Questa realtà è presente non soltanto in Giovanni ma anche in Paolo. Nella sua seconda lettera ai Corinti troviamo questa frase: "Perciò se uno è in Cristo, è una nuova creazione" (5, 17). Essa significa:

qui lo Spirito di Dio è all'opera; ciò che avviene non è soltanto un pensiero, una nuova nozione o una nuova mentalità, ma il costituirsi di una realtà. E nella lettera ai Galati troviamo l'altra, possente frase: "E non son più io che vivo, ma Cristo vive in me" (2, 20). Essa esprime pienamente ciò che ha carattere di potenza, di realtà creatrice.

Anzi, c'è di più: noi incontriamo in Paolo l'esatto corrispondente della parabola della vite e dei tralci, nella sua dottrina del "corpo mistico del Cristo". Ma di questo parleremo più diffusamente fra poco.

Ci troviamo, dunque, qui di fronte ad un rapporto, esistente fra il Cristo e colui che crede in lui. Questo rapporto non significa soltanto che il credente pensa al Cristo, che è guidato dalla sua immagine, che obbedisce a lui ed altre cose di questo genere;

esso significa molto di più, esprime una realtà. Ed adesso cerchiamo di ricordarci del fatto che Gesù in questa ultima sera ha istituito l'Eucaristia e che parlando del senso protondo di questo sacramento egli aveva detto, a Cafarnao, cose come queste: "Io sono il pane vivente disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; ed il pane che io darò è la mia carne, per la vita del mondo... Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui" (Io. 6, 51.56).

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Ciò significa dunque che, durante questa ultima sera. Gesù si è donato ai suoi in una maniera che oltrepassa di gran lunga tutto quello che potrebbe fare un semplice maestro, o un educatore, o un capo. Egli ha dato tutto se stesso sotto la forma di un sacramento, di un mistero, e intende rinnovellare continuamente questa azione misteriosa. Nella celebrazione dell'Eucaristia, nella forma carica di mistero della cena, egli si dona al credente in modo così pieno e totale che d'ora in avanti il Cristo vivrà in lui e questi potrà realizzare la propria vita a partire dal mistero intcriore che è stato così fondato.

Ma come possiamo immaginare in qual modo ciò avvenga in realtà?

Quando consideriamo l'uomo nella sua totalità, vediamo che egli è costruito dall'esterno verso l'interno; a meno che non si debba dire, più esattamente: dall'interno verso l'esterno. Ma questo "interno" ha delle gradazioni che discendono ad una grande profondità. (A dire il vero, il concetto di gradazione o di gradino non è che un'immagine. In verità noi non ci troviamo qui di fronte ad un "più alto" o ad un "più profondo" che appartengono però ad uno stesso ordine, ma abbiamo invece, ogni volta, un modo di vita ed un ordine diversi. L'immagine però è comoda e noi continueremo, perciò, ad usarla). Esiste un'interiorità organica, dalla quale procede la crescita del corpo. Esiste un'interiorità psicologica, nella quale giocano i sentimenti, un'interiorità intellettuale, dove lavorano i pensieri o, meglio, dove si fa l'esperienza della verità. Esiste ancora un'interiorità della persona, nella quale si prendono le decisioni morali.

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Ed ora Paolo ci dice: esiste un ambito intcriore ancora più profondo: l'interiorità spirituale o pneumatica. Quest'ultimo ambito non esiste di per se stesso, come se fosse uno strato più profondo, ma che appartiene anch'esso alla natura umana; è lo stesso Cristo, invece, che lo crea, in quella nuova nascita che avviene mediante il battesimo e la fede. Mediante questa nuova nascita, egli stesso penetra nell'uomo; si interiorizza in lui più profondamente di qualsiasi realtà della quale ci parlano la psicologia e la scienza della cultura. Quando la fede e fa fedeltà scompaiono, scompare anche questa interiorità e resta un uomo che ha perduto un suo ambito vitale e che non riesce più a comprendere nulla del messaggio del Cristo.

È dentro a questa interiorità che vive ciò di cui ci parlano la parabola della vite e dei tralci ed il i messaggio dell'Eucaristia: Cristo nell'uomo.

Ma come può il Cristo essere dentro di me? Io so già, veramente, che Dio è in me, poiché egli è onnipresente e mi compenetra come compenetra ogni cosa. Inoltre: egli mi ha creato; anzi, è soltanto dal mio punto di vista che sembra trattarsi di una azione passata; ma, in realtà, sarebbe più esatto dire:

la sua volontà creatrice mi mantiene incessantemente nell'essere; la sua mano mi trattiene continuamente affinchè io non cada nel nulla. Se potessi giungere all'estremo limite del mio essere, io giungerei a toccare la sua mano. Ancora di più: egli mi mantiene nel mio essere personale, in quell' "io" che io sono, rivolgendomi l'appello creatore rappresentato dal suo "tu". Ed aggiungiamo ancora qualcos'altro: la Rivelazione mi dice che egli mi ama, che si rivolge

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a me mediante la sua grazia e fa di me un figlio suo. Certo, le cose stanno così come abbiamo detto;

si tratta certo di un mistero, ma familiare al nostro cuore. Così Dio è in me. Ma il Cristo, colui che si è ' incarnato, come può essere in me? Per il fatto che egli è il risuscitato, divenuto Spirito, colui del quale Paolo dice: "II Signore — e cioè il Cristo — è lo Spirito" (2 Cor. 3, 17). Mediante il battesimo e la fede, egli nasce in me ed io in lui. Che si deve dire di più? Egli lo ha promesso, i suoi apostoli ne hanno fatto l'esperienza e se ne rendono garanti... Si tratta di un mistero che nessun umano pensiero può giungere a risolvere. Ma noi possiamo far sì che ci divenga familiare; noi possiamo respirare in esso e vivere nell'attesa del giorno in cui ci verrà rivelato; il giorno in cui noi potremo finalmente comprenderlo e potremo così anche comprendere chi siamo realmente noi stessi. "Carissimi, già adesso siamo figli di Dio, ed ancora non si è manifestato quel che saremo. Sappiamo che quando si manifesterà, saremo somiglianti a lui, poiché lo vedremo qual è"; così dice Giovanni nella sua prima lettera (3, 2).

Ma la parabola vuoi dirci ancora dell'altro. Essa indica che questa interiorità non si apre soltanto in un singolo uomo, in un credente che gode di una speciale elezione, ma in questo e in quello, in ogni uomo. Questa profondità divina nella quale si trova e vive il Cristo pervade e regna in tutti i credenti. È da questa profondità divina che scaturisce la vita del singolo credente nello stesso modo in cui i tralci spuntano dall'insieme del ceppo della vite. Per esprimere questa realtà Paolo si servirà di un'altra similitudine, tratta dalla dottrina sociale dell'antichità:

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la vita del Cristo, che si estende attraverso tutti i credenti fino alla parte più intima del loro essere, là dove lo stesso Cristo opera in maniera misteriosa, fa di essi una misteriosa unità, simile a quella di un corpo dalle molte membra. Tutte queste membra, come i tralci nel caso della similitudine della vite, rappresentano i singoli credenti.

Questa unità della sacra vite, del corpo mistico del Cristo, è rappresentata dalla Chiesa. Il Cristo regna nelle profondità della sua interiorità. Ogni credente nasce da essa come i tralci nascono dalla vite, come le membra fanno parte di un unico corpo.

È necessario che noi cerchiamo di ricordare spesso gli insegnamenti più profondi della Rivelazione. Essi ci infondono la cristiana coscienza di noi stessi. Questa coscienza ci dice: Io sono, certo, una povera creatura, che in tutto sbaglia e fallisce; ma in me è presente il mistero della vita divina.

Noi abbiamo bisogno di questo sostegno intcriore. Oggi si usa parlare di Dio e dei suoi misteri in un modo così sacrilego che un profeta sarebbe portato ad invocare la folgore sul mondo; noi ci limiteremo a ricordare le parole che il Signore ha pronunziato nell'ora della sua morte: "Essi non sanno quello che fanno" (Le. 23, 34). Negazione su negazione, bestem-mia su bestemmia, distruzione su distruzione. Tutto ciò che è umanamente pensabile viene tentato all'unico fine di poter soffocare nell'uomo quell'interiorità di cui noi parlavamo. Non è possibile prevedere ciò che risulterà da un simile stato di cose, se esso dura a lungo. La psicologia ci dice che quando una esigenza fondamentale della vita non trova il suo soddisfacimento, l'uomo cade ammalato: quale nuova malattia insorgerà il giorno in cui l'interiorità del

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Cristo sarà distrutta nel cuore degli uomini?

Proprio per questo, coloro che credono debbono immergersi tanto più profondamente nel mistero che è stato loro donato. Ma a tal fine non è sufficiente il recitare un Pater Noster al giorno e andare a messa nei giorni festivi e vivere poi, per ciò che concerne il resto, come fanno quelli che non credono. Noi dobbiamo conservare e rafforzare la co-scien2a di questa profondità che è in noi. Un cuore, la cui interiorità non venga protetta nell'amore si | inaridisce; non lasciamo dunque inaridire ciò che vive nella nostra più intima profondità.

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LA PACE DI CRISTO

Nel quattordicesimo capitolo del Vangelo secondo san Giovanni, Gesù dice: "Vi lascio la pace, vi dò la mia pace; non ve la dò come il mondo la da" (27). È questa una frase nella quale parlano tutta la maestà ma, contemporaneamente, anche la profonda intimità del Signore. Cerchiamo pertanto di comprendere qualcosa di quello che egli qui ci vuoi dire.

Che cos'è la 'pace'?

Ma crediamo che sia meglio prima chiederci che cosa sia il suo contrario; il male, infatti, ha colori più vivi ed appariscenti del bene e ciò che distrugge parla più forte di ciò che costruisce. Che cos'è dunque la mancanza della pace?

Ogni uomo è costituito dal suo proprio io. Certo, esistono delle somiglianze fra i diversi uomini, a volte numerose ed anche profonde; ma, in fondo, ognuno ha il suo proprio modo di essere, la sua natura. È bello che sia così perché è di qui che nascono la molteplicità e la ricchezza dell'esistenza. Ma ogni singolo uomo dice molto volentieri — o almeno lo pensa, più o meno consciamente —: il modo in cui io sono fatto è giusto ed ogni altro è sbagliato... Ogni uomo ha, anche, un suo particolare modo di sentire. Il mondo trova un'eco nel cuore di ciascuno. Si potrebbe anzi dire che vi sono tante diverse specie di mondo quanti sono gli uomini che lo vedono e

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ne fanno l'esperienza. Poiché soltanto il mondo veduto ed esperimentato è quello che veramente conta;

di un mondo che abbia una sua esistenza indipendente, che prescinda dalla nostra esperienza, noi non possiamo infatti sapere nulla. Se noi potessimo spiare curiosamente la terra dall'eternità, resteremmo estasiati di fronte all'infinita molteplicità degli echi che le cose della creazione trovano nel cuore dei diversi uomini. Tutto ciò è bene; ma l'uomo — e quando qui si dice 1' 'uomo', ciascuno deve pensare a se stesso — tende sempre a pensare: è giusto che io senta quello che sento; ciò che provano gli altri, invece, è sbagliato. Ogni uomo costruisce la sua vita, fa il suo lavoro, crea la sua opera. Di nuovo, l'intelligenza che abbiamo dell'esistenza ci dice: Deve essere così. Dalle innumerevoli attività nasce l'insieme della vita. Ma non pensa ogni uomo, in fondo: È giusto così, come faccio io? Ed ogni qualvolta un uomo fa questo, nel 'sì' che egli dice al suo io, si cela il germe di un 'no' che viene detto al suo prossimo. Quello che nella realtà vera dovrebbe costituire la vita e la base di un divenire sempre più alto e di una più ricca armonia, si trasforma dappertutto in una possibilità di inimicizia. Perché alla radice di tutto ciò vi è un disordine, che proviene dall'origine primordiale della storia, dal giorno in cui uno dei figli di Adamo si eresse contro il fratello, e Caino uccise Abele.

Cerchiamo di riflettere ancora e di essere sinceri, veramente sinceri con noi stessi: quando un uomo ne incontra un altro — lo incontra, cioè, per la prima volta, prima che la prudenza e l'abitudine abbiano ancora creato un modus vivenàì — qual è il sen-

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rimerito che egli subito prova nei suoi confronti? Esiste un detto, tramandateci da un'epoca immemorabile, ma che trova una sua conferma ancor oggi, quanto più precisa diviene la nostra conoscenza dell'uomo, anzi, meglio, più profonda la conoscenza di noi stessi: "l'altro" è lo straniero, il nemico, il cattivo. Si tratta di un detto primordiale che amora dalle profondità di un cuore in cui regna il disordine;

tutto ciò che noi chiamiamo incivilimento, affinamento dei costumi, cultura non è che lo sforzo costante inteso a togliere la sua forza a questo detto. Ma ogni umano incontro contiene in sé la possibilità che esso ritrovi tutta la sua terribile validità.

Un amico mi ha raccontato di aver chiesto ai bambini di una scuola: "Che cos'è che l'uomo crede più volentieri del suo prossimo: il bene o il male?". Essi avrebbero risposto, ad una sola voce:' "II male!". Era questo il grido primordiale, che si trova sotto la superficie di qualsiasi forma di cultura. È questa l'umana realtà e basta soltanto che si presenti l'occasione perché quel detto ritrovi la sua validità: la scintilla scocca e divampa in una gran fiamma, ed ecco l'inimicizia.

Pertanto rappresenta una via verso la pace il fatto che qualcuno, il quale ha la capacità di poterlo fare, restauri nell'ordine questo sentimento che proviamo per 'l'altro'.

Una sentenza piena di una universale saggezza di vita ci dice: "Non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a tè". Il Signore fa un altro passo avanti. Si tratta di un passo però di una lunghezza infinita. Egli ci dice: "Tutto ciò che voi volete che gli uomini vi facciano, anche voi fatelo

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ad essi" (Mt. 7, 12). Questa frase rappresenta l'inizio di una vera rivoluzione, se essa viene presa sul serio. Prima di essa io sono infatti portato a dire, come fosse una cosa naturale: "Io — e gli altri". Io sono il centro dell'universo; gli altri mi limito ad inserirli in questo universo di cui io sono il centro; li distinguo in persone che mi sono amiche, indifferenti od ostili e li tratto di conseguenza. Io non giungo mai a mettere in risalto davanti ai miei occhi il buon diritto dell'altro, il suo volto. Esso rimane in una specie di secondo piano, di sfondo, rispetto al mio 'io'; ed è già molto che venga posto un limite al mio egoismo quando mi viene ricordato che anche l'altro sente l'ingiustizia nello stesso modo in cui io la sento e che pertanto io non debbo fare a lui ciò che mi ferirebbe, nel caso che fosse fatto a me. Ma la parola di Gesù va molto più in là, più oltre, per così dire, in modo assoluto, quando essa mi dice: Prendi coscienza che l'altro è anche lui un 'io', un centro del mondo come lo sei tu e, nel tuo sentimento, ai tuoi occhi, con il tuo comportamento, dagli la libertà di emergere, in primo piano:

cerca di vedere in lui "il fratello".

Ma se noi, prigionieri come siamo di noi stessi, recalcitriamo, il Signore ci dice: Io ti aiuterò. Egli ha annunziato questa verità misteriosa, che tutto quello che noi facciamo all'altro sarà considerato come fatto a lui stesso. E l'ha annunciata in maniera così netta e precisa che egli ci giudicherà sulla base di essa (Mf. 25, 35 ss.). Egli entra dunque a far parte di ogni rapporto che intercorre fra gli uomini e da con ciò per ogni singolo uomo il carattere del suo 'altro'. Egli ha trasformato il detto naturale — anzi, il detto che trova la sua origine e la causa

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nel peccato originale — dicendo: "L'altro sono io!". Se noi non ci accontentiamo di lasciar stare questo nuovo detto nella Scrittura, ma cerchiamo invece di metterlo in pratica — quell'altro, che mi sta di fronte: in lui c'è il Cristo come c'è in me — allora tutto cambia. Quell'egoismo disordinato che noi chiamiamo 'natura', si trasforma nell'ordine dell'amore. Ed abbia- • mo così la "sua pace"; la pace che il Cristo ci dona.

Ma cerchiamo di ricominciare ancora una volta da capo. Noi abbiamo sinora parlato dei nostri rapporti con gli altri uomini. Cerchiamo adesso di parlare soltanto di noi stessi. Anche l'uomo è un mondo, nel quale molte forze sono all'opera. Tutte queste forze sono nell'ordine? Riescono esse a formare un tutto, nel quale regni la pace? Certamente no! Nel cuore dell'uomo risiede la volontà di impadronirsi del mondo e di crearvi l'opera propria. Tutto ciò è bene in quanto la missione affidata all'uomo è stata quella di "soggiogare la terra" (Gen. 1, 28). Ma, in seguito alla sua ribellione, l'uomo ha perduto il senso della misura; egli è caduto in preda ad una bramosia che non conosce limiti. Cerchiamo di guardare attorno a noi: che impressione può farci il mondo in mezzo al quale noi viviamo? Questa marcia in avanti, queste ricerche, queste scoperte incessanti; queste conquiste, queste produzioni e questi consumi così sfrenati sono forse nell'ordine? Ci troviamo di fronte ad un comportamento che corrisponde alla vera natura, alla vera essenza dell'uomo? Non ha ognuno di noi, invece, l'impressione che da questo sfrenato e convulso progresso derivi un'oscura minaccia che incombe su noi tutti? Che noi potremmo assistere a delle sciagure spaventose?

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Ciò che si impone ai nostri occhi in grandi proporzioni, lo troviamo esattamente riprodotto in un formato minore ogniqualvolta discendiamo per istrada. Gli sguardi della gente sono affascinati dalle vetrine dei grandi magazzini: io vorrei avere questo, e questo, e questo. Oppure sono fissi sugli altri passanti: Io vorrei essere vestito come quello là, guidare la sua macchina; ciò che egli può permettersi starebbe bene anche a me. Continuo bramare, senza requie... Che cosa succederebbe se fosse lasciato libero corso a questi sentimenti, a questi istinti? Anzi, succede già molto, in quanto questo libero corso viene senz'altro concesso.

E che cosa avviene in ogni singolo uomo? È egli veramente animato da buone intenzioni? La volontà che determina il suo comportamento quotidiano, quello che egli fa, che omette, l'impiego del suo tempo, delle sue forze, della sua capacità d'amare, del suo danaro — questa sua volontà vuole realmente ciò che è in grado di conservare la sua esistenza, di far fruttificare i suoi talenti, di dirigere le sue possibilità verso un'opera valida? O non deve egli, invece, mettere costantemente in movimento la sua ragione, il suo autodominio ed ogni sorta di tecnica psicologica, per trattenersi dal fare delle cose che gli risulterebbero nocive? Lo sforzo dell'etica, il lavoro dello Stato, dei genitori e della scuola e gli sforzi autoeducativi non hanno per obbiettivo di indicare chiaramente all'uomo ciò che egli deve non fare, perché dannoso, nonostante il suo desiderio di farlo e ciò che egli invece deve compiere, contro il suo naturale desiderio, perché vantaggioso? In verità c'è da rimanere sconvolti quando ci si rende

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conto esattamente fino a qual punto l'uomo sia nemico di se stesso, 1' 'io' nemico dello stesso 'io'.

L'uomo non è in pace con se stesso. In lui gli istinti sono in uno stato di profonda contraddizione con lo sviluppo genuino della sua natura specifica. C'è di più; questi istinti si combattono a vicenda. Ciò che l'uomo desidera, partendo da un determinato punto di vista, ad esempio il punto di vista del lavoro, viene in lui contraddetto da un opposto desiderio, che nasce dalla sua pigrizia. E che cosa significa quel misterioso istinto di morte del quale ci parlano gli psicologi? Di questa volontà di autodistruzione la quale, più spesso di quanto non sappia in realtà l'opinione pubblica, spinge verso il suicidio effettivo, ma che anche in altre maniere causa sventure in ogni uomo? E che significa, ancora, lo sdoppiamento della personalità, di cui ci parla la stessa psicologia? Un fenomeno cioè che assume differenti aspetti e differenti gradazioni, ma che può giungere sino al punto che nello stesso individuo un 'io' estraneo stia accanto al normale 'io'?

Ma il Cristo è il Redentore che ci libera anche dal disordine che si trova nel nostro stesso io. Egli ci conosce più profondamente di quanto noi non conosciamo noi stessi; egli ci vuoi più bene di quanto noi non ce ne vogliamo. Egli vive in noi e la sua santa volontà, la sua potenza creatrice opera assieme al nostro 'io' buono, per la nostra salvezza, la nostra unità interiore e per la pace.

Dell'apostolo che poteva dire di se stesso: "Io ho lavorato più di tutti (gli altri apostoli)" (1 Cor. 15, 10), la cui vita si consumò interamente al servizio della sua missione e non fu che un solo combatti-

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mento in favore del suo maestro, dell'apostolo Paolo, noi abbiamo una frase meravigliosa. Egli dice nella sua lettera ai Filippesi: "Così la pace di Dio, che eccede ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù". Dietro queste parole si cela una profonda esperienza. Sulla via di Damasco, proprio quando muoveva con una furiosa impazienza per distruggere la giovane comunità cristiana. Paolo è stato gettato a terra dal Signore; quando si rialzò, egli era un uomo nuovo.

Lo stesso Paolo, che in passato era stato spinto da un desiderio ardente di giustizia a tentar di uscire con le sue sole forze dal disordine degli istinti — ma invano, in quanto la violenza che egli si fece non potè che accrescerli ed invelenirli, come fa capire la sua allusione contenuta nel capitolo sesto della lettera ai Promani — ha dovuto riconoscere che da solo nulla poteva e che la salvezza gli è stata donata nel mistero della grazia. Allora egli ha fatto l'esperienza della "pace di Cristo".

Che cosa sia questa "pace di Cristo" non può esserci raccontato dagli altri; bisogna farne invece la personale esperienza. Ma Dio concede questa esperienza a colui che ad essa aspira. Quando egli tocca l'uomo nella sua interiorità più profonda, costui conosce la pace. Ognuno dei suoi tocchi, per quanto lieve esso sia, la dona. Dio è 1' "uno-e-tutto"; pertanto colui che riesce a possederlo, possiede tutto.

Noi gli chiederemo di concederci questa sua pace. Ma ci sforzeremo, contemporaneamente, di portare la pace anche nei nostri rapporti con gli altri uomini. Esiste una profonda corrispondenza fra il modo in cui un uomo si comporta nei confronti degli altri

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uomini ed il modo in cui egli si comporta con se stesso — se noi intendiamo con ciò il vero 'se stesso', quello profondo, destinato all'eternità. Nonostante tutte le differenze e tutti i contrasti, io sono solidale con l'altro, col fratello, con la sorella. Egli mi è così poco straniero, così poco nemico, che quello che io faccio a lui si realizza in me stesso. A seconda del modo in cui io porto l'inimicizia o la pace nei miei rapporti con gli altri, io riesco a creare l'inimicizia o la pace con me stesso.

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IL TRADIMENTO

Nel racconto dell'ultima sera si legge quanto segue: "Così dicendo, Gesù fu turbato nello spirito e dichiarò solennemente: 'In verità, in verità vi dico;

imo di voi mi tradirà'. I discepoli si guardavano tra loro, non sapendo di chi parlasse.

Uno dei suoi discepoli — quello che Gesù amava — era adagiato a mensa sul seno di Gesù. Simon Pietro gli fa un cenno e gli dice: 'Di', chi è colui di cui parla?'. Quel discepolo chinandosi familiarmente sul petto di Gesù, gli dice: 'Signore, chi è?'. Gesù allora risponde: 'È colui al quale porgerò il boccone che sto per intingere'. Intanto allora il boccone, lo prende e lo da a Giuda, figlio di Simone Iscariota. E dopo il boccone, allora entrò in Giuda Satana. E Gesù gli dice: 'Quel che fai, fallo al più presto'. Nessuno però dei commensali comprese a qual proposito gli aveva parlato così; alcuni, infatti, siccome Giuda teneva la borsa, credevano che Gesù gli dicesse: 'Compra ciò che ci serve per la festa';

oppure: 'Da qualcosa ai poveri'. Preso dunque il boccone. Giuda subito uscì.

Era notte" (Io. 13, 21-30).

È questo un terribile racconto. Ciò che esso riferisce è pieno di oscurità abissali. Fra gli interrogativi più urgenti che ci assalgono, dopo averlo letto, noi cercheremo di esprimerne uno: come fu addirittura

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possibile il tradimento di Gesù? Possibile che degli uomini che erano stati con lui per degli anni; che avevano provato il fascino misterioso che irradiava dalla sua personalità, udite le sue parole, viste le manifestazioni della sua potenza — che uno di questi uomini consegnasse il Maestro ai suoi nemici, a proposito dei quali egli doveva ben sapere che essi lo volevano annientare?

Ma, prescindendo da questo uomo che lo ha tradito, l'interrogativo prosegue: Ma come fu possibile che tutti lo abbandonassero? E questo interrogativo tende facilmente ad assumere una sfumatura personale, che potrebbe forse essere espressa mediante la recisa affermazione: Io non avrei fatto mai una cosa simile! Che dobbiamo pensare di tutto ciò?

Per poter rispondere occorre che noi ci immedesimiamo più profondamente nei rapporti che i discepoli hanno avuto col loro Maestro.

Noi dobbiamo dire, innanzitutto, che i discepoli devono aver continuamente provato questo sentimento: "Quando comincerà egli a fare quello che, pure, deve esser fatto?". Che Gesù fosse il Messia, essi lo hanno riconosciuto molto presto. Ma essi davano alla parola Messia un significato che era strettamente condizionato dalla concezione comune al loro tempo a riguardo di "Colui che doveva venire". Sulla base di tale concezione, egli avrebbe dovuto cacciare dal paese i nemici — e cioè, innanzitutto, i Romani; avrebbe dovuto ristabilire il suo trono a Gerusalemme e regnare nello stesso modo in cui aveva regnato un giorno Davide. Da Gerusalemme egli avrebbe esercitato il suo potere sul mondo intero. Nel suo regno l'abbondanza di ogni bene ter-

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reno sarebbe stata a disposizione di tutti; la terra avrebbe prodotto i suoi beni con una prodigiosa fertilità; il miracolo avrebbe costituito la regola dell'esistenza quotidiana. Era tutto questo che i discepoli si attendevano; ma i giorni passavano e nulla di ciò si verificava. Essi dovevano anzi constatare che la parola 'Regno di Dio' assumeva sulla sua bocca un significato completamente diverso da quello che alla stessa parola attribuivano i Farisei e gli scribi quando parlavano della "sovranità di Dio".

Quando ascoltavano, ad esempio, gli insegnamenti che sono poi stati raccolti nel Discorso della Montagna, dovevano rendersi conto che in essi si esprimeva un orientamento spirituale completamente diverso da quello che avrebbe dovuto possedere uno che si proponesse di cacciare i Romani dalla Palestina. Costui avrebbe dovuto usare lo stesso linguaggio dei Maccabei, che avevano condotto le lunghe guerre contro i successori di Alessandro Magno. Ed, invece di tenere un simile linguaggio, egli predicava il disinteresse e l'abbandono alla volontà del Padre Celeste. Nessuna parola che potesse rappresentare un appello a delle passioni politiche o guerriere, che esprimesse sentimenti di vendetta per i nemici di Dio, ma soltanto parole di pace; e di una pace che nasceva dal disinteresse e dall'amore. Quando si pensi a tutto ciò, c'è da meravigliarsi che essi non abbiano detto subito: Non è certamente lui, quello che noi aspettiamo.

E questo è tanto più vero se si tiene conto che essi erano mossi da interessi estremamente personali. Noi apprendiamo ciò, ad esempio, dalla domanda che i discepoli fanno a Gesù su "chi di essi sarebbe

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stato il più grande nel regno dei deli" (Mt. 18, 1 ss.). Una simile domanda ci permette di gettare uno sguardo nei loro pensieri e nelle loro disposÌ2Ìoni spirituali e non si può dire certamente che si tratti di una vista ediEcante. Oppure pensiamo a quel passo in cui ci viene raccontato che la madre dei figli di Zebedeo, la madre, cioè, di Giacomo e di Giovanni, va da Gesù e gli dice: "Ordina che questi figli miei siedano uno a destra e uno a sinistra nel regno tuo!" (Mt. 20, 21). Questo passo dimostra che in alcuni dei discepoli erano nate delle speranze molto solide di poter giungere al potere in questo regno. E quando noi veniamo a sapere che Giuda, il quale faceva da cassiere, era disonesto e ladro (Io. 12, 6), non è molto difficile immaginare che anch'egli avesse i suoi piani personali.

Non dobbiamo vedere i discepoli di Gesù come figure dipinte su di un fondo d'oro. Un simile modo di vedere non renderebbe del resto onore ad essi in quanto li priverebbe della loro realtà. Essi erano uomini vivi, di carne ed ossa, che nascondevano nei loro cuori delle buone, ma anche delle cattive possibilità. Ed il modo in cui i discepoli erano cocciutamente aggrappati alle loro idee sul Messia si dimostra chiaramente nel passo 1, 6 ss. degli Atti degli Apostoli. Essi sono stati i testimoni della morte e della resurrezione di Gesù ed adesso gli chiedono se egli intende ripristinare subito il Regno d'Israele. E sono ancora talmente chiusi in questo loro modo di vedere che Gesù neppure risponde alla loro domanda, ma si limita soltanto a far riferimento alla venuta dello Spirito che li istruirà. Soltanto il fuoco di Pentecoste è riuscito a trasformarli in coloro che chiamiamo "apostoli". Ma quando essi udivano parlare e

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vedevano agire il loro Maestro, con quelle orecchie e quegli occhi che ancora avevano prima dell'evento di Pentecoste, molte cose erano possibili.

Pertanto noi dovremmo quasi meravigliarci che soltanto uno dei suoi discepoli abbia tradito Gesù. Perché, in fondo, lo hanno tradito anche tutti gli altri. Nell'ora del pericolo nessuno è riuscito a restare fedele; Marco ce lo dice in aride parole:

"Tutti allora lo abbandonarono e fuggirono" ( 14, 50). E Pietro, il quale si era vantato: "Anche se tutti si scandalizzeranno, io no" (Me. 14, 29), lo ha rinnegato, con uno spergiuro: "Ma egli cominciò ad imprecare e a giurare: 'Non conosco l'uomo di cui parlate' (Afe. 14, 71). È questa la nuda verità; e per coloro che si chiedono come sia stato possibile un simile tradimento, non c'è che una risposta: fu un'opera della grazia di Dio se anche altri discepoli non lo abbiano commesso.

Cercheremo ancora una volta di approfondire l'argomento chiedendoci: è poi così facile il poter vivere vicini ad una personalità superiore? Quando ci si meraviglia che il coraggio degli apostoli abbia potuto venir meno; che l'abbia tradito una persona alla quale Gesù aveva rivelato una saggezza così meravigliosa, una potenza così grande, una bontà così santa ed una libertà così perfetta, non si tiene conto di una decisiva risposta che può tutto illuminare: è proprio perché egli era così che sono potute accadere delle cose del genere! Vivere vicini ad una personalità veramente grande è cosa estremamente difficile. L'essere costretti a provare continuamente tutta la grandezza con cui una tale personalità parla ed agisce e sentirsi contemporaneamente così meschini

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nei suoi confronti, tutto ciò può condurre verso la ribellione.

E quanto detto va in misura raddoppiata quando si tratti di una personalità religiosa; di una personalità, cioè, che attinge la sua vita e la sua forza a profondità alle quali l'uomo comune non può avere accesso; che erige delle norme e dei valori, i quali restano per lui difficilmente afferrabili. Una personalità che si ritira continuamente nella solitudine e nessuno può sapere che cosa ivi avvenga... In tal caso può venire benissimo da pensare: che cosa ci sto a fare io qui? Ed a più forte ragione quando ci troviamo di fronte alla personalità di cui parla la Rivelazione; colui che chiama se stesso il Figlio dell'eterno Padre ed intorno al quale dominano le potenze dello Spirito.

Quali difficoltà portasse con sé la vita dei discepoli insieme con il loro Maestro lo possiamo vedere da un avvenimento che Luca ci racconta nel capitolo quinto del suo Vangelo. Si tratta della pesca miracolosa. Gli uomini hanno portato le loro barche a riva e si danno da fare per mettere al sicuro il carico. Pietro cade ai piedi del Signore ed esclama: "Allontanati da me, perché sono uomo peccatore!" (8). Lo spavento che ispirava la prossimità di Dio nell'Antico Testamento si è abbattuto su di lui ed egli non lo può più sopportare. Tale fatto ci rivela come stessero le cose. Se a ciò poi si aggiunge ancora l'esperienza che essi avevano delle proprie debolezze — Pietro che si rende conto della sua impetuosità ed irriflessività; Tommaso della sua freddezza e del suo scetticismo; Giacomo e Giovanni della loro intolleranza e così via — a che cosa avrebbe potuto portare tutto ciò? Quanto facilmente, ed in quale

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maniera radicale essi avrebbero potuto "patire scandalo a causa di Gesù" (Mt. 26, 31), ognuno secondo la sua natura. Ed adesso noi possiamo comprendere quello che Gesù vuoi dire a Pietro con la frase seguente: "Io ho pregato per tè, affinchè non venga meno la tua fede; e tu, quando ti sarai riavuto, conferma i tuoi fratelli" (Le. 22, 32).

Ma noi non volevamo parlare soltanto degli apostoli, ma anche del caso nostro. Non ci troviamo anche noi in continuo pericolo di tradire il Signore?

Non è trascorsa da molto tempo l'epoca nella quale l'ateismo dichiarato era una questione che riguardava poche persone; oggi, al contrario, la bestemmia contro ciò che è sacro è diventata una moda. Si scrivono persino dei libri sul glorioso futuro di un'umanità senza fede. Può capitare ad una persona di sedere in compagnia di altre persone e di provare un'impressione veramente strana ed insolita, di disagio, a causa della propria fede, di fronte allo scetticismo ed al cinismo generali. E chi sa che cosa potrà capitare quando la negazione di Dio, anzi l'odio contro Dio, che si sono adesso strettamente collegati con due delle maggiori potenze politiche del mondo *, avranno fatto ulteriori progressi? Ognuno di noi può trovarsi messo di fronte all'interrogativo su quale senso abbia il mantenersi ossequienti alla fede quando l'intera storia spirituale dell'umanità sembra andare in una dirczione opposta ad essa.

E che ne è della fede del singolo credente? La mia

* Russia staliniana e Germania hitleriana [n.d.t.).

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fede, deve dirsi ciascuno di noi, sono io stesso! La grazia di Dio, certamente, ma in me. Pertanto nella mia fede sono contenute le mie doti, le mie tendenze, le mie disposizioni naturali; con tutta la loro forza, ma anche con tutta la loro debolezza. Esse determinano in me dei periodi di euforia spirituale, ma anche dei periodi di depressione. Dei periodi nei quali la verità della fede sembra risplendere ed io sento tutta la sua profondità ed il suo calore; ed altri durante i quali essa non mi dice nulla. Dei periodi nei quali io sento che la mia fede mi sostiene e mi porta avanti ed altri invece in cui io la sento gravare pesantemente sulle mie spalle.

Quanto è grande allora la tentazione di dire: ma lascia un po' stare tutte queste cose. Cerca di essere un uomo, con la sua gioia ed il suo dolore, con il suo lavoro ed i suoi affanni. Vivi e datti da fare;

e quando sarà giunto il momento, muori, e tutto sarà finito!

Ore del genere possono essere molto opprimenti. Ed in esse a nulla serve il pensare ed il cercare delle prove per la nostra fede; occorre soltanto resistere e perseverare. Gli unici rimedi sono la grazia di Dio e la fedeltà dell'uomo. Il corrispondente di fede in tedesco (Glaube), significa sulla base della sua etimologia, "ciò che è stato promesso solennemente" (das Angelobte) e cioè la fedeltà. Un eguale significato ha la parola latina fides.

Quando l'ardore e la fiducia della nostra fede si affievoliscono e noi avvertiamo il pericolo di abbandonare via tutto, dobbiamo allora ricordare a noi stessi: fa attenzione! Tu ti trovi adesso nella stessa situazione in cui si trovarono i discepoli, quella situazione a proposito della quale il testo del Vangelo di

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san Giovanni usa l'espressione: "Era notte". Allorché anche attorno a noi, in noi, si fa notte, le uniche cose in grado di resistere sono la fiducia nella grazia e la fedeltà alla persona del Signore.

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L'ODIO CONTRO DIO

Fra le parole pronunciate da Gesù nell'ultima sera si trova una frase che, quanto più la si rilegge, tanto più grava pesantemente sullo spirito e sul cuore. Questa frase è contenuta nel capitolo quindici e dice:

"Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi" (18).

Gesù è andato verso la morte con questo divino dolore, che gli uomini lo odiavano. Forse tutto quello che gli era capitato negli anni precedenti è passato, in rapida successione, davanti al suo spirito durante questa ultima sera. Forse egli si è ricordato della sua prima infanzia, quando i suoi genitori avevano dovuto portarlo nel paese che rappresentava il luogo di rifugio di quell'epoca, l'Egitto, perché Erode lo voleva uccidere. Oppure ha pensato a quello che gli era capitato durante il periodo della sua vita pubblica; a tutte le calunnie, l'incomprensione, l'ostilità di cui egli aveva dovuto fare la dolorosa esperienza. ) Nei primi capitoli dei quattro Vangeli si ha l'im-/ pressione che sia giunta una specie di primavera;

( che dappertutto Eorisca la verità, che i cuori degli ^ uomini si aprano. Ma questa primavera non dura a j lungo. Subito il partito dei Farisei, conservatori sia in religione che in politica, si erge contro di lui; gli tende delle trappole, affinchè egli si comprometta;

diffonde delle voci che mirano a discreditarlo agli occhi del popolo. Coll'andar del tempo, altri gruppi

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politici o religiosi gli si mettono contro; finché tutta questa ostilità non si condensa in quelle "tenebre" a proposito delle quali Giovanni dice che esse "non

10 hanno accolto" (1, 11).

Ed in questa sera, sulla quale si sofferma il nostro pensiero, egli prevede già la "notte" che sta per incombere, quella "notte" nella quale le potenze delle tenebre avranno la "loro ora" ed eserciteranno il loro "potere" (Le. 22, 53); egli sa perfettamente quali terribili ore lo attendano.

Come potè accadere che il portatore della salvezza divenisse oggetto di odio? Prescindiamo, intanto, dalla folla che, in un primo momento, lo ha accolto con giubilo, poiché essa credeva di riconoscere in lui

11 Messia il quale, sulla base della concezione corrente, avrebbe dovuto portare la libertà politica e la sovrabbondanza di ogni bene terreno. Gesù, però, sapeva quanto poco affidamento egli poteva fare su questo entusiasmo popolare; dice infatti Giovanni:

"Ma Gesù non si fidava di loro perché egli li conosceva tutti" (2, 24 s.). Noi non dobbiamo quindi tener conto di tutta questa gente. Rimangono perciò poche persone, veramente molto poche, che lo abbia-Jnp_J:ealmente_amatQ, E perché il loro numero fu così ridotto? Tanto più che anche queste persone, alla fine, quando le cose si misero male, sono fuggite, per la massima parte?

Per trovare una risposta a questi interrogativi, noi dobbiamo cercare di tener ben presente chi fosse Gesù. La sua esistenza rappresentava un'unica epifania per colui "che avesse degli occhi per vedere" e "delle orecchie per sentire". In lui il Figlio del Dio vivente era venuto a noi. Giovanni dice: "Ed

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il Verbo s'è fatto carne ed ha dimorato fra noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria che come unigenito ha dal Padre, pieno di grazia e di verità" (1, 14). E nella sua prima lettera egli parla ancora con insistenza di questa sua esperienza che ha fatto con la personalità di Gesù: "Ciò che era da principio, ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto con gli occhi nostri, ciò che contemplammo e le mani nostre toccarono intorno al Verbo della vita..." (1, 1).

In Gesù Dio era manifesto. Alla domanda: Com'è Dio?, bisogna rispondere: Tale quale è Gesù. Ed allora, come si può spiegare tutto quest'odio?

Tutto ciò ci induce a risalire un poco più indietro e a porci questa nuova domanda: È possibile odiare Iddio? Egli è pur colui che ci ha creato. Dovunque, le testimonianze di tutti i popoli ci dicono che egli è il creatore del mondo. Se io m'interrogo sul perché ' della nostra esistenza, io debbo rispondermi: Dio è '/ ed egli ha voluto che anch'io sia. Il nostro cuore dovrebbe quindi tendere prepotentemente verso di . lui.

Nello stesso modo in cui dappertutto sulla terra l'ago magnetico si dirige verso il polo, così il cuore umano dovrebbe, nella giovinezza e nella vecchiaia, nelle ore liete e nelle ore buie, dirigersi, come soddisfacendo ad un bisogno primitivo, verso Dio. Ma avviene veramente così, nella realtà dei fatti?

Nel nostro cuore regna la legge primordiale del nostro essere, espressa dalle indimenticabili parole di sant'Agostino: "Perché ci hai creati per tè, o Signore, ed inquieto è il cuor nostro, finché non riposa in tè" [Confessioni 1, 1). Ma in questo stesso

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cuore si erge anche la contraddizione; la volontà dell'uomo che non vuole essere creato; che non vuole accettarsi come proveniente dalla mano di Dio. Egli preferisce considerarsi proveniente dagli abissi primordiali della muta natura, dalla vita animale, piuttosto che dover riconoscere di essere debitore nei confronti di Dio della sua sostanza, della sua anima, della sua personalità. Tale volontà può divenire tanto fgrte_da imporre il silenzio a quella santa legge primordiale di cui parlavamo sopra. Questa volontà può anzi indurirsi in odio contro Dio. La nostra epoca rappresenta, nel corso dell'intera storia, proprio l'ora in cui questo processo, che è sinora maturato nelle sue nascoste profondità, mette da parte ogni pudore ed avanza in primo piano, nella luce più cruda, concretandosi in parole e fatti.

Certamente. Dio è il bene. Quando vi riflettiamo i più profondamente, noi vediamo che, in fondo, 've- i, rità', 'giustizia', 'amore', 'purezza' non sono se non ;

nomi che servono ad indicare Dio. Il procedimento i del pensiero distacca, per così dire, questi nomi da Dio e da loro uno sviluppo indipendente, come valori morali, nella costruzione dell'etica. Ma si tratta di astrazioni. Se noi ci chiediamo, infatti: che cos'è la 'giustizia', dov'è che essa esiste allo stato puro, in assoluto? — la risposta ultima e .definitiva sarà la seguente: In lui, in Dio. 'Bontà', 'purezza', 'pace' non sono che il risultato di una decomposizione operata dal pensiero. Allo stesso modo che la ;

luce del sole viene decomposta da un prisma nei • colori dello spettro, così, mediante la forza discrimi- i nante del pensiero, la pienezza infinitamente ricca e ' perfettamente semplice di Dio si scompone in tutti , questi valori. Invero il nostro cuore dovrebbe com- '•

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muoversi di fronte ad un tale splendore, al sapere che esiste un Essere nel quale il compendio di tutto ciò che ha valore è un'eterna realtà. Ma l'uomo si affatica, senza posa, a separare le norme morali, i valori dell'esistenza — l'unica sorgente, cioè, della nobiltà e della felicità —, da Dio. Si sforza costantemente d'introdurli entro l'immanenza di questo mondo; di ridurli ad elementi della società e della psicologia e di altre cose di questo genere.

Quando noi conosciamo un uomo e ci viene chiesto: Com'è quest'uomo? — tutte le risposte che possono caratterizzarlo ci vengono alla mente: egli è duro o benigno, giusto o geloso, diffidente o aperto e così via. Ma, al di là di tutte queste definizioni, noi sentiamo che ne esiste ancora un'altra, la quale, tuttavia, non può essere tradotta in parole: quell'uomo è se stesso, è 'lui'; ed è a questo proposito che un'antica sentenza dice: "L'individuo è inesprimibile". La sfumatura unica e specifica che caratterizza il suo essere, il suono delle sue parole, il carattere della sua esistenza non possono essere resi da alcun concetto. Questa unicità e specificità esiste anche in Dio. Essa si chiama santità. Tutte le volte che noi entriamo in contatto col sacro, con ciò che ispira al cuore la riverenza e la calma suprema, noi avvertiamo la presenza di Dio.

\ II nostro cuore, con tutto ciò che esso ha di più 1 intimo e profondo, dovrebbe pertanto stare come in agguato per spiare attentamente tutto ciò che può rivelare la sua presenza. Ma lo fa veramente? Non passano i giorni, uno dopo l'altro, senza che noi neppure pensiamo a lui? Anzi, non avviene proprio il contrario? Non ha detto un uomo, che pure passa

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per un grande pensatore ed un grande scrittore, ( Friedrich Nietzsche: "Dio non si confa ai miei j gusti"? Prendiamo bene coscienza di questa terri- ;

bile frase! E quell'ateismo, che oggi riempie il mondo, non è certamente il prodotto di qualche resto degenerato di popoli condannati a scomparire; al contrario, è l'Europa cristiana che lo ha inventato. Questa selvaggia volontà nemica di Dio è nata in mezzo a popoli cristiani.

In verità: Dio può essere odiato. Anzi, egli può essere persino perseguitato. Si può fare il tentativo di estirpare dal mondo lui e tutto ciò che gli appartiene; è proprio quello che avviene oggi vicino a noi, in mezzo a noi. Dovunque è possibile, oggi, incontrare j questo misterioso, incomprensibile odio della crea-.;

tura contro colui grazie al quale è, respira e pensa, i odio che giunge sino ad affermare: "O lui o io!".

Quando, dunque, questo Dio entra, incarnandosi, addirittura nella storia; quando noi ci troviamo di fronte ad un essere nel quale Dio si rivela, in forma umana — poiché questo è il significato dell'incarnazione, come dice Giovanni: "Nessuno ha mai visto Dio" (nella sua realtà); "il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (1, 18); quando quest'essere si trova qui, in mezzo agli uomini, e Dio irradia dal suo volto ed egli rivela coi suoi atti l'intima disposizione del cuore del Santissimo — allora tutto ciò che nel cuore umano può ergersi contro Dio deve aumentare ancora in violenza ed intensità!

Ed è proprio questo che è avvenuto. Gli uomini hanno potuto fare l'esperienza della sua divina natura. Essi non hanno potuto dire che gli mancasse

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la piena autorità inferiore, non hanno potuto constatare la sua impoten2a nei confronti della natura muta. Al contrario. Essi erano sbalorditi, sconvolti a causa del suo potere; come dice l'espressione greca, essi perdevano la loro tranquillità di spirito, venivano "scagliati fuori" da un simile stato d'animo, di fronte a ciò che avveniva davanti ai loro occhi. Non potevano neppure dubitare del suo disinteresse, della sua purezza, della sua giustizia. Al contrario, egli poteva persino sfidare i suoi nemici: "Chi di voi mi convincerà di peccato?" [Io. 8, 46). Riflettiamo per un solo istante, supponiamo che noi ci trovassimo in mezzo a delle persone ostili e che parlassimo loro in questo modo. Una risata di scherno sarebbe la loro risposta. Egli lo fa e nessuno osa contraddirlo. E, ciononostante, tutto questo odio!

Noi abbiamo già parlato di ciò che è tipico e specifico in Dio, inaccessibile e contemporaneamente prezioso, come null'altro può esserlo: della santità. Nel Vangelo secondo san Luca, viene narrato un avvenimento che ci rivela molte cose a questo proposito. Il quarto capitolo ci racconta che Gesù va nella sinagoga e compie un atto che allora qualsiasi ebreo adulto poteva compiere: egli si fa dare il rotolo della Sacra Scrittura, legge nel profeta Isaia il passo che parla del Messia ed infine dice che quella profezia si è realizzata nella sua persona (14 ss.). Ci par quasi di sentire il silenzio che di colpo si fa nella sala, i respiri trattenuti. Egli incomincia a spiegare il testo in questione e tutti restano sbalorditi dalle sue parole, piene di grazia, che commuovono il cuore con la loro santa potenza. Ma poi egli dice qualcosa che non piace agli ascoltatori; essi si indignano e lo cacciano fuori della città, fino allo strapiombo su cui

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essa sorge, per precipitarvelo giù. Che cosa è dunque successo? Da principio tutti gli rendono testimonianza: certamente, dalla sua persona emana un qualche cosa che soltanto la parola 'santo' può definire, davanti al quale l'anima si inchina reverente. Poi egli dice delle parole che essi non gradiscono ed una chiara e decisa volontà di uccidere si impadronisce di quelle stesse persone!

Cristo s ta nel mondo quale vivente testimonianza di Dio; quale sua epifania; Dio è tale quale è Cristo. L'uomo può accettare questa testimonianza, ma può anche rifiutarla; può amare o può restare freddo ed indifferente; può anche arrivare ad odiare.

Ogni uomo può fare una cosa simile, anche noi. . .Diciamolo pure, ognuno di noi: anch'io. Ognuno di noi ha già provato, almeno una volta, i prodromi dell'odio: l'imbarazzo che si prova quando si deve professare la fede in lui; il malessere, l'irritazione la resistenza che si risvegliano di fronte alla figura o alle parole di Cristo. Nessuno sa quando questi sentimenti possono anche trasformarsi in odio. Noi vediamo infatti che metà del mondo ne è già stata sommersa.

A questo punto forse qualcuno ci risponderà: in che modo debbo incominciare per arrivare ad amare il Cristo?

Per prima cosa noi vogliamo chiarire un fatto importante: _per sua essenza l'amore è sempre lo stesso. Esso significa che l'uomo vuoi partecipare a Cristo ed è pronto a staccarsi da se stesso per andare verso di lui; a volere non quello che la sua volontà vuole, ma quello che Cristo vuole. Come poi tale j amore, unico nella sua essenza, si esprima sotto il !

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I profilo psicologico, dipende dai singoli cristiani; esistono altrettante espressioni psicologiche di questo , amore quanti sono gli uomini. Alcuni vengono toccati dall'amore per Cristo in un momento preciso e determinato — pensiamo a Paolo sulla via di Damasco — e da quel momento in poi egli resta presente nella loro coscienza come la norma e la misura

;- di ogni cosa. Per altri, Cristo non rappresenta inizialmente nulla; ma dopo un primo incontro con lui, che può esser fatto per il tramite di una persona o di un libro, egli incomincia a crescere, insensibilmente, di forza e di significato e diviene infine il centro di tutta l'esistenza. L'amore può essere una passione ardente, ma anche una quieta gravita, uno sforzo tranquillo. Per alcuni l'amore si esprime nella predicazione e nella lotta; per altri nell'attività della vita quotidiana; nel fatto che essi lavorano, invece di divertirsi, prestano soccorso al prossimo, invece di conservare egoisticamente il loro denaro, resistono ad una tentazione, invece di cedere ad essa. L'amore ha tanti modi di esprimersi, come del resto l'odio, quanti sono gli uomini. Ma esso significa sempre che Cristo è importante, anzi, quanto esiste di più importante. Egli diviene la base e la norma della vita ed ogni azione viene compiuta "per amor suo".

Colui al quale sia stato donato il colpo di folgore, la grande passione, deve essere riconoscente per_qye-stq dono, deve cercare di non perderlo e di farlo

p. fruttificare.^ Ma chi nulla sappia di simili esperienze eccezionali, deve incominciare dalla serietà della vita quotidiana; leggere ciò che concerne Cristo; prenderlo per soggetto di meditazione; cercare di capire che cosa egli vuole; accettare una sofferenza come un modo di partecipare alle sue sofferenze. E tutto

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questo non in maniera astratta; in generale, ma concretamente: ora, qui, in questa situazione, attraverso J/opera mia^ In tal modo egli può avere la fiducia che qualcosa, lentamente, cresce in lui. Qualcosa di tranquillo, di chiaro, di serio, di consolante.

Forse, un giorno, Cristo concederà anche la grazia di provare, con un sentimento concreto, che cosa voglia dire: amare lui. Ma è questa una grazia che dipende soltanto dal suo imperscrutabile giudizio. La prima cosa e la più importante consiste nel prestare ascolto alle sue parole e nell'agire di conseguenza.

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L'EPIFANIA DEL PADRE IN CRISTO

Nei suoi discorsi dell'addio Gesù dice: « 'Io sono la via, la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non per mezzo mio. Se avete conosciuto me conoscerete anche il Padre mio. Da questo momento lo conoscete -e lo avete veduto'.

Filippo gli dice: 'Signore, mostraci il Padre e ci basta'. Gli dice Gesù: 'Da tanto tempo sono con voi e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha veduto me ha veduto il Padre; come puoi dire: mostraci il Padre? Non credi tu che io sono nel Padre e il Padre è in me?' » (Io. 14, 6-10).

Quali misteriose parole! Chi vede Cristo vede il Padre. Qual è il loro significato? Si potrebbe subito pensare che esse siano da intendersi in un senso traslato, come se Gesù avesse detto ai suoi discepoli:

Io sono stato con voi e vi ho annunciato il Padre;

voi dovreste sapere, pertanto, chi egli sia. In effetti egli ha sempre parlato del Padre, sia in parabole, sia in parole chiare. Pensiamo ad esempio al Discorso della Montagna nel quale Gesù ha manifestato il suo messaggio relativamente alla divina provvidenza, dicendo che l'uomo può abbandonarsi con tanta fiducia alla bontà del Padre da arrivare ad essere liberato dal peso delle preoccupazioni terrene e da vivere nella fiducia. Oppure ad un altro punto dello stesso discorso dove egli dice che chi vuoi essere veramente

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religioso non deve mettere in bella mostra la sua pietà di fronte agli uomini, affinchè essi lo ammirino, ma deve bensì pregare nel silenzio della propria stanza. Al che seguono le belle parole: "E il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà" (Mt. 6, 6).

In Matteo, nello stesso Discorso della Montagna si trova anche la preghiera al Padre, il Poter Nosfer. In questa preghiera l'immagine di Dio si presenta in modo molto netto davanti ai nostri occhi, come il risultato delle sue stesse parole: e cioè l'immagine di colui che è il rè del regno celeste; che porta il nome di santo, da il pane quotidiano, perdona i peccati e libera dal male.

Ma chi abbia una certa familiarità con la Sacra Scrittura vede subito che qui non è possibile di dare una simile interpretazione. Se Cristo avesse voluto dire: voi avete appreso dalle mie parole chi sia il Padre, egli avrebbe detto questo in maniera esplicita. Qui, invece, egli dice: "Chi vede me, vede il Padre". Noi dobbiamo pertanto sbarazzarci del nostro razionalismo, il quale non riesce mai a lavorare che con dei concetti. Qui si tratta di 'vedere'. E noi dobbiamo qui ricordarci che Giovanni — a differenza di Paolo, per esempio — era un uomo che aveva veduto con i suoi occhi Cristo; e che nel suo messaggio il pensiero dell'epifania gioca una parte molto importante.

'Epifania' vuoi dire che qualche cosa 'appare', risplende in una forma vivente e concreta. Nel prologo del Vangelo di san Giovanni troviamo la frase seguente: "E noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria che come unigenito ha dal Padre" (1, 14). Noi non abbiamo solo pensato questa 'gloria', non l'ab-

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biamo soltanto sentita, ma l'abbiamo contemplata con i nostri occhi. Nella persona umana di Gesù, di fronte agli occhi degli Apostoli è brillato qualcosa che era al di sopra della natura umana. Che nella persona del Signore si manifesti ciò che di per se stesso non può essere contemplato, in quanto esso è nascosto nel mistero di Dio — è questo che si intende con la parola 'epifania'.

Esiste un corrispondente di ciò anche nella sfera delle cose umane. L'anima, di per se stessa, non può esser vista poiché essa è spirito. Ma quando una persona umana si rivolge verso un'altra persona umana nell'amore, questa riesce a vedere l'anima nel volto che ha di fronte. Non soltanto la pensa; non soltanto deduce la sua esistenza a partire dalla propria esperienza inferiore, ma la vede. Anzi, si potrebbe quasi dire che in un tale momento l'anima amante è la prima cosa che può essere veduta, e solo in essa il corpo.

Il Vangelo ci dice dunque: nella figura umana di Gesù di Nazareth, colui che fosse illuminato dalla grazia della fede poteva contemplare il Figlio di Dio, l'eterno Logos. Ora, nella prima lettera di san Giovanni, questo messaggio ricorre con maggior insistenza. In questa lettera sta scritto: "Ciò che era da principio, ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto con gli occhi nostri, ciò che contemplammo e le mani nostre toccarono intorno al Verbo della vita...". Tutti i sensi sono svegli, ma trasformati nella fede, in modo che essi possono cogliere meglio e di più dei puri organi naturali. Ma affinchè il lettore non scivoli senza arrestarsi sulla grandezza del messaggio, subito dopo si dice ancora: "Sì, la vita

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si manifestò e noi abbiamo veduto e testimoniamo ed annunziamo... ciò che abbiamo veduto ed udito, lo annunziamo anche a voi" (1 Io. 1, 1-3). Noi avvertiamo tutta la forza incisiva di queste parole. Colui che con un cuore pronto e ben disposto incontrava Gesù e credeva, contemplava in lui l'eterno Figlio.

Ora il Signore dice: "Chi vede me, vede il Padre". Che cosa significano queste parole?

Accade anche nella realtà umana di tutti i giorni che si dica a proposito di una persona: Ma quello è tutto suo padre! La somiglianzà è così grande che nel volto di questa persona può esserne ravvisato un altro, quello del padre. Può anzi avvenire che un figlio riveli apertamente ciò che nel padre era nascosto; ciò che costui aveva di migliore o di peggiore — per la gioia o per il disonore. Ed ora il Vangelo ci dice: dal momento in cui tu riesci a vedere, nella maniera giusta, in Gesù il suo carattere di figlio, tu vedi con ciò anche il Padre suo.

Se qualcuno domandasse qual è il tratto che esprime ciò che la personalità di Gesù ha di più intimo, bisognerebbe rispondere: il suo carattere di figlio. Figliolanza divina, certo, ma figliolanza reale. Gesù è totalmente ed integralmente figlio. Egli sta con assoluta purezza in questo suo atteggiamento filiale. Noi non potremmo mai, dopo aver letto il Vangelo,, rivolgerci a Gesù dicendogli Padre nostro; le stesse parole nostre si rifiuterebbero di farlo. Quando noi lo invochiamo lo chiamiamo 'Redentore', 'Maestro', 'Signore' e forse, in un momento di maggior confidenza, 'Fratello'. È stato per l'appunto Paolo che ha aperto le nostre labbra a questa espressione, quan-

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do egli ha chiamato Gesù "il primogenito tra un gran numero di fratelli" (Rom. 8, 29). Noi non arriviamo mai, però, a chiamarlo 'Padre'. Se una denominazione simile si incontra in un testo religioso, ciò è dovuto ad un particolare motivo oppure si tratta di un'inavvertenza. Gesù è Figlio nel suo atteggiamento, nelle sue parole, nel suo pensiero, in tutta l'intima disposizione del suo cuore.

Ma dove vi è un figlio, esiste anche un padre. Pensiamo a quell'atteggiamento nel quale si esprime più fortemente il carattere di Figlio in Gesù: la sua ubbidienza. Proprio nel Vangelo di san Giovanni incontriamo continuamente l'espressione sulla "volontà del Padre" e sull'ubbidienza di Gesù. Ad esempio, il Signore dice: "II Figlio da sé non può far nulla, ma soltanto ciò che vede fare al Padre" (5, 19). Oppure: "Io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato" (5, 30). Od ancora: "II mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato" (4, 34). Ci troviamo di fronte all'espressione di una ubbidienza che corrisponde alla volontà più profonda dell'essere, che costituisce una necessità vitale assoluta. Nell'ora del Getsemani, egli dice: "Padre mio... però non come voglio io, ma come tu vuoi" (Mt. 26, 39). E le ultime parole che egli dice, sono: "Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio" (Le. 23, 46).

Questo suo carattere di Figlio è così vivente che noi ci chiediamo, involontariamente: ma qual mai padre è questo perché uno possa essere suo figlio a questo modo? Come deve essere potente colui che •ordina perché una simile ubbidienza sia possibile!

E tuttavia non si è ancora detto abbastanza. In

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Gesù non si trova nulla che faccia pensare che egli sia prigioniero di questa sua condizione di figlio, fino al punto di rinunziare e di perdere la sua personalità. Niente di quella deplorevole atrofia della vita che si riscontra in colui il quale, sottomesso alla strapotenza di una personalità paterna troppo forte, non è riuscito ad arrivare psicologicamente alla sua maggiore età ed è rimasto infantile. In tutto l'essere ed in ogni atteggiamento di Gesù noi ci troviamo di fronte ad una meravigliosa libertà; ad una tranquilla padronanza di sé, che obbedisce proprio perché nel far ciò essa si sente completamente sicura di se stessa. Come deve essere stato degno di reverenza il comandamento paterno! Quale ampiezza, quale elevatezza dovevano caratterizzarlo! Come deve essere stata preziosa questa volontà paterna perché colui che noi chiamiamo Gesù possa dire che il compimento di questa volontà sia per lui cibo e bevanda! E come deve esser vicino questo padre perché siano possibili una tale intimità ed un simile comune accordo!

Ci troviamo qui di fronte ad una ubbidienza di grandezza pari alla grandezza del comandamento. Gesù l'ha espressa con queste parole, piene della divina coscienza che egli aveva di se stesso: "Poiché quanto questi (il Padre) fa, il Figlio slmilmente lo fa" (Io. 5, 19).

Alla fine del prologo del Vangelo di san Giovanni, stanno queste parole: "Nessuno ha mai visto Dio;

il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui ha rivelato" (1, 18). Quale intima vicinanza si trova in questa frase che riprende ed approfondisce quella che si trova all'inizio dello stesso prologo: "In principio era il Verbo, ed il Verbo era presso Dio, ed il

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Verbo era Dio" (1, 1). Le parole che Gesù ha pronunziate prima della sua fine vi appongono una specie di sigillo: "Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio" (Le. 23, 46). Questa intimità filiale era in Gesù ed ha fatto sentire il Padre anche là dove egli non parlava espressamente di lui.

Nella misura in cui Cristo ci si manifesta, anche il Padre suo ci viene incontro, come dice questa frase del discorso dell'addio: "Chi ha veduto me, ha veduto il Padre". Certo, non è questo un risultato che si ottiene mediante una sottile psicologia ma mediante quella intima dimestichezza e familiarità che si raggiunge soltanto con la preghiera.

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MEDITAZIONI SUI TESTI DELLA PRIMA LETTERA DI SAN GIOVANNI

AVVERTENZA

Non si deve certamente stabilire un ordine di valore fra i testi della Sacra Scrittura, voler distinguere, cioè, ciò che in essa vi è di importante o di secondario, di bello o di poco appariscente. Quale che sia il modo in cui le sue singole parti sono state composte, esse costituiscono sempre un tutto organico: la parola scritta- di Dio. Tuttavia è certamente consentito di nominare con una particolare venerazione certi libri o alcuni brani di essi: ad esempio i tré primi capitoli della Genesi, in quanto essi rappresentano il documento fondamentale nel quale si esprime il pensiero, l'intenzione di Dio relativamente alla esistenza umana; oppure il Pafer Nosfer, preghiera che rivela chiaramente il volto del Padre;

oppure ancora la lettera ai Romani, messaggio della Redenzione annunziato con tutta la serietà dell'apostolo. Se, sulla base di questo criterio, dunque, ci si chiede quale sia il testo della Sacra Scrittura che unisce in un modo tutto particolare la profondità e l'intimità, si potrebbe rispondere: la prima lettera dell'apostolo Giovanni. Essa è il frutto di lunghi decenni trascorsi nella preghiera e nella meditazione sul ricordo del Maestro; ed ivi parla la voce di un uomo che la tradizione cristiana ha chiamato il 'Veggente' e che, durante l'ultima sera, riposò sul petto di Gesù.

Questa lettera è breve ma di una prodigiosa ric-

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chezza. Di tutta questa ricchezza le meditazioni che seguono vogliono mettere in risalto e commentare soltanto alcune parole, nella speranza che poi lo stesso lettore vorrà leggersi l'intero testo. Egli vi troverà un vivente profitto, soprattutto se vorrà tenere in considerazione quello che questa nostra prima meditazione cerca di dire a proposito della mentalità che informa questa lettera.

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EPIFANIA

La prima lettera dell'apostolo Giovanni venne scritta verso la fine del primo secolo; non è però possibile fissarne la data con esattezza. Essa non è diretta ad un gruppo ben precisato di destinatari, come lo è ad esempio la lettera che Paolo scrisse alla comunità cristiana di Roma; fa parte, pertanto, delle lettere "cattoliche, dirette ad un uditorio universale" di cristiani; nel caso in questione i cristiani dell'Asia minore.

Questa lettera non è molto lunga. L'intero testo, nella sua ripartizione attuale, comprende soltanto cinque capitoli; ma esso è ricco di verità vivente. In qualsiasi punto lo si apra, si incontra sempre una parola che commuove ed arricchisce. Ma proprio per questa ragione la lettera deve essere letta in un modo tale che consenta ai pensieri che essa contiene di imprimersi bene nello spirito e nel cuore e di esercitare così tutto il loro effetto. In fondo, non può avvenire diversamente perché essa si esprime in un modo tutto particolare. Ordinariamente, una successione di pensieri si muove e si sviluppa in modo tale che ogni frase non è che la conclusione della precedente e prepara quella che segue immediatamente;

di conseguenza, una linea precisa e chiara serve di guida per tutto l'insieme. Qui, al contrario, si avvertono continuamente come delle lacune; ci si chiede come mai un certo pensiero possa venire dopo un

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altro che lo precede immediatamente; è necessario pertanto ricucire il contesto mediante delle, frasi intercalate. Alla fine diviene chiaro che ci si trova davanti ad una unità di un genere particolare: quello della contemplazione. Un pensiero emerge dalla profondità Ulteriore, si sviluppa brevemente e poi ricade, mentre se ne innalza un altro. Così essi si susseguono come le onde di un movimento spirituale e se il lettore vuole leggere come si conviene deve seguire questo movimento, con attenzione, lasciandosi trasportare da ogni sua onda. Se ci è permesso di servirci di questa immagine, noi non ci troviamo qui di fronte ad un fiume che muove seguendo la dirczione del suo letto, ma di fronte ad un mare i cui movimenti provengono dalla profondità per ritornarvi nuovamente.

L'apostolo che è stato l'autore di questa lettera è divenuto molto caro al cuore della cristianità; specialmente il medioevo ha avuto per lui una predilezione particolare. Ma questa predilezione — come ci è chiaramente rivelato dalle arti figurative — ha fatto subire una strana sorte alla sua immagine. Essa è stata infatti ritratta tenendo conto soltanto di alcuni particolari elementi, non di tutti, che fanno parte della natura e della personalità di san Giovanni.

Innanzi tutto si è visto in lui un adolescente. Ora, quando Giovanni incontrò il Signore, lo era effettivamente. Era infatti il più giovane di tutti gli apostoli. La sua natura aveva anche qualcosa di impetuoso, che si drizzava arditamente; non è senza ragione che gli è stata attribuita l'aquila come simbolo. Ma tutto questo non deve farci dimenticare che lo stesso Giovanni è stato proprio quello, di tutti gli apostoli,

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che ha raggiunto l'età più tarda e che i suoi scritti, quelli che appunto ci trasmettono la sua immagine spirituale, sono stati composti negli ultimi anni della sua vita. E se noi li leggiamo con attenzione, vedremo anche che la maniera in cui egli disegna la figura del suo Maestro e ci riproduce il suo messaggio è contraddistinta da una specie di sguardo retrospettivo diretto verso un lontano passato, da un lungo commercio intcriore con lo stesso Maestro e da una meditazione profonda e penetrante.

Un secondo elemento della personalità di Giovanni ha giocato in modo decisivo nella costruzione della sua immagine tradizionale: si è visto in lui il "discepolo dell'amore", il "discepolo prediletto". Ma si è data qui al concetto dell'amore una implicazione sentimentale e si è trasformata, di conseguenza, la figura dell'apostolo in quella personalità dell'intimità tenera che noi incontriamo per lo più nelle raffigurazioni dell'arte. Ciò però non rende giustizia alla sua vera natura, in quanto Giovanni era un uomo di fuoco, che all'occorrenza poteva essere anche molto duro. Date le predisposizioni del suo temperamento, egli avrebbe potuto diventare un fanatico; parecchi passi dei quattro Vangeli stanno ad indicare ciò. Pensiamo soltanto al racconto del viaggio di Gesù con i suoi discepoli attraverso la Samaria che si trova nel Vangelo di san Luca (9, 51 ss.).

Fra gli abitanti della Samaria e quelli della Giudea esisteva una antica inimicizia. Questa inimicizia poteva divenire così intollerante da far sì che in certi casi si ricusasse l'ospitalità al viaggiatore che attraverso la Samaria si recava nella Giudea. E, di fatto, una località che essi incontrano sulla loro strada

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non vuole accogliere il Signore. Di fronte a ciò, Giacomo e Giovanni esclamano: "Signore, vuoi che ordiniamo al fuoco di discendere dal cielo e di distruggerli?". Queste parole non hanno certamente l'accento di un tenero amore. Ma, prosegue il racconto, Gesù "voltosi a loro, li rimproverò"; e secondo una differente versione dello stesso testo, egli avrebbe aggiunto: "Voi non sapete di quale spirito siate!". Se Giovanni non si fosse messo alla scuola di Gesù, il 'suo spirito' avrebbe potuto fare di lui un essere molto differente da un 'discepolo dell'amore'. Ma noi vedremo ancora che cosa significhi in realtà il suo messaggio sull'amore.

La lettera in questione inizia così: "Ciò che era da principio, ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto con gli occhi nostri, ciò che contemplammo e le mani nostre toccarono intorno al Verbo della vita — sì, la vita si manifestò e noi abbiamo veduto e testimoniarne e annunziamo a voi quella vita eterna che era presso il Padre e si manifestò a noi — ciò che abbiamo veduto e udito lo annunziamo anche a voi..." (1, 1-3).

Quando leggiamo queste parole, ci sentiamo subito ricondotti a quelle altre che si trovano all'inizio del Vangelo dello stesso apostolo: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio". Ed alla fine del prologo si legge: "Nessuno ha mai visto Dio; il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (1, 1-2. 18).

La parola "principio" non significa qui un determinato momento del tempo nel quale una cosa abbia avuto inizio, bensì l'essere originario, il modo in cui

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Dio vive, sottratto al divenire ed alla morte, l'eternità. In questa eternità era il "Verbo" e questo Verbo "era presso Dio" ed egli [stesso] "era Dio". Ma alla fine la denominazione "Verbo" — Logos in greco — trapassa in quella di "Figlio"; 1' "essere presso Dio" oppure "rivolto verso Dio" si approfondisce in questa intima espressione: "Egli era nel seno, sul cuore del Padre". Noi pensiamo istintivamente a quel punto del Vangelo dove ci si racconta che durante l'ultima Cena "uno dei discepoli — quello che Gesù amava [particolarmente] — era adagiato a mensa sul seno di Gesà" (15, 23) e sentiamo qui donde sia venuta all'apostolo l'esperienza di ciò che significa la prossimità divina.

Queste frasi parlano del mistero della vita intima di Dio. Con quella discrezione appresa alla scuola dell'Antico Testamento, esse stabiliscono una distinzione nell'unicità di Dio, che nulla tollera accanto a sé. Giovanni chiama ciò che viene distinto il "Verbo", il Logos; e con ciò si delinea anche colui che pronuncia il Verbo, la parola. Diremo dunque:

il Dio pronunciato ed il Dio che pronunzia. Ma alla fine Giovanni chiama il primo "Figlio" ed il secondo "Padre". E là dove al principio egli ha detto: "II Verbo era presso Dio (colui che pronuncia)", qui dice: "II Figlio era nel seno del Padre".

È un sublime mistero quello nel quale ci viene qui concesso di gettare uno sguardo; il mistero più sublime di tutti. Noi non dobiamo parlarne legger-mente ne avere la presunzione di poterlo spiegare con umane parole. Cerchiamo piuttosto, con somma riverenza, di avvicinarci un poco al significato di queste frasi.

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Dio è l'Uno e l'Unico. Non può esistere alcun altro Dio accanto a lui. Quando noi parliamo di Dio, è assolutamente privo di senso il parlare di 'un altro', poiché Dio significa essenzialmente 'unicità', 'lui solo'. Continuamente e con una inesorabile severità l'Antico Testamento ha impresso negli spiriti questa fondamentale verità che sta alla base di ogni fede. Ma Dio non è solitario. In lui, che non ha chi possa somigliargli, ci sono un 'io' e un 'tu'. Come ciò possa avvenire è cosa che oltrepassa la nostra comprensione. Ed a tal fine non possono aiutarci ne immagini ne paragoni tratti dalla vita creata. Essi costituiscono soltanto degli accenni, delle semplici indicazioni, che bisogna accettare con molta precauzione, per tema che nascondano la verità invece di rivelarla. La parola di Dio ci dice che in lui vi sono un 'io' ed un 'tu' e l'intimità di una pura comunione. Essa chiama questa sacra realtà il "Padre" ed il "Figlio" e noi ripetiamo le sue parole, nella riverenza della fede, cercando di intuire ciò che esse possono significare.

Il prologo del Vangelo di san Giovanni parla soltanto del Padre e del Figlio. Su ciò che avviene nella profondità della loro comunione gettano invece uno sprazzo di luce i discorsi dell'addio, contenuti nello stesso Vangelo, là dove si parla dello Spirito Santo che "sarà inviato" "dal Padre, nel nome di Gesù" e dallo stesso Gesù "da parte del Padre" (Io. 14, 16; 16, 7). Ma ciò che questo Spirito compie in Dio noi possiamo presagirlo dalla sua azione nell'uomo, nell'avvenimento della Pentecoste. Qui egli fa sì che il credente prenda coscienza del Cristo che è in lui, che si realizzi quel mistero di cui parla san Paolo: "E non più io vivo, ma Cristo vive in

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me" [Gai. 2, 20); e che proprio con ciò, così possiamo aggiungere noi, il cristiano diventi realmente se stesso, colui che Dio ha voluto. Da questa azione dello Spirito nell'uomo noi possiamo avere come un'intuizione della sua azione in Dio stesso. Egli è quel santo e vivente che fa sì che per l'esistenza del Figlio il Padre divenga Padre e che per l'esistenza del Padre il Figlio divenga Figlio; che essi abbiano una comunione che esclude la confusione ed una sussistenza personale propria senza rottura dell'unità.

Ed ora san Giovanni prosegue: di là è venuto a noi colui che si chiama "Verbo" e "Figlio". Egli è colui che "è venuto nel mondo", che "è venuto nella sua casa" (Io. 1, 9-11). Ciò significa: egli non era soltanto nel mondo in quanto è colui "per mezzo del quale tutte le cose furono fatte", e cioè come creatore. Il terzo versetto del prologo ha già detto questo di lui; ma qui viene rivelata un'altra realtà: egli è "venuto" in questo mondo creato da lui; e vi è venuto in un modo espresso. Il modo di quella sua prima presenza nel mondo trascende la storia, appartiene alla sua essenza. Questo secondo modo è storico, realizzato liberamente quando, "il tempo fu compiuto" ed egli si incarnò, "si fece carne" (Afe. 1, 16; Io. 1, 14).

Se noi potessimo far sì che le parole mediante le quali esprimiamo il più sacro dei misteri divenissero nuove! Noi abbiamo sì a disposizione alcune parole, ma esse sono divenute spuntate e polverose. Se potessimo trovarne delle nuove, affilate e terse, capaci di esprimere con forza questa realtà immensa: colui che risiede "nel principio", nell'eternità, è entrato nel tempo, si è fatto "carne", uomo, membro della

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nostra storia! S'è fatto nostro fratello, come dice Paolo. Ma fratello non a motivo della vecchia e decaduta successione delle generazioni, ma per una nuova, che procede da una nuova nascita e che lo fa pertanto "il primogenito tra un gran numero di fratelli" (Rom. 8, 29). Venuto per non andarsene via mai più;

venuto in mezzo a noi per restar nostro per sempre.

Fanno poi seguito tuttavia strane frasi. Affinchè noi possiamo rendercele vicine e familiari, chiameremo in nostro aiuto un pensiero che ci è già stato parecchie volte di aiuto. Bisogna che Giovanni abbia fatto una esperienza che lo ha toccato sin nella parte più profonda del suo essere. Nel primo capitolo del suo Vangelo, egli racconta i primi incontri dei discepoli con Gesù: "L'indomani, Giovanni [il Battista], stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando Gesù che passava, disse: 'Ecco l'agnello di Dio!' — un concetto dell'Antico Testamento che indica la vittima offerta in espiazione dei peccati —". I due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù si voltò, vide che lo seguivano e dice loro: 'Che cosa cercate?'. E quelli gli dissero: 'Rab-bi... dove abiti?'. Dice loro: 'Venite e vedrete'. Andarono dunque a vedere dove abitava e rimasero presso di lui quel giorno. Era circa l'ora decima » (35-39).

Bisogna che Giovanni abbia fatto, in questa occasione, una esperienza che non si è più cancellata dal suo cuore. Quello ch'egli ha visto è una figura umana; un uomo che camminava per la strada, che ha rivolto loro la parola ed insieme col quale essi hanno seduto nella casa. Ma in quest'uomo qualcosa lo ha colpito, che andava oltre la semplice natura umana.

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Una luce gli è penetrata nello spirito, una prossimità ha toccato il suo cuore, ad esprimere le quali egli non poteva trovare parole adatte. Nell'Antico Testamento non si trovava nulla di simile; e non dimentichiamo anche che tutto questo è avvenuto prima della Pentecoste, prima cioè che lo Spirito Santo infondesse la capacità di intendere il nuovo messaggio e ponesse la lingua umana in grado di poterlo esprimere. Se qualcuno, dopo questo incontro, gli avesse chiesto le sue impressioni, Giovanni, forse, avrebbe risposto: Non so che cosa fosse con precisione; ma so che io voglio continuare ad essere dove si può provare una cosa simile. Durante le quotidiane relazioni che egli in seguito ebbe con Gesù, attraverso le cose che egli poteva vedere ed udire ogni giorno ed attraverso la commozione che da esse derivava, questa prima impressione si è in seguito costantemente approfondita e quando, quasi ses-santanni dopo, l'apostolo, diventato ormai un vegliardo, scrive la sua lettera, egli dice: "Ciò che abbiamo veduto con gli occhi nostri, ciò che contemplammo e le mani nostre toccarono..." e lo ripete ancora due volte.

Mediante queste frasi Giovanni si trova in lotta contro gli "idealisti" di quell'epoca. Contro coloro, cioè, che parlavano di una eterna idea e di un Logos inteso in senso neoplatonico e negavano pertanto l'Incarnazione. Essi erano rappresentati dagli gnostici, che si vantavano di possedere una conoscenza più alta, puramente spirituale, e consideravano la materia, le cose tangibili, il corpo umano come il male, che stava in contraddizione con il bene e con la luce. Secondo essi, l'evento della Redenzione con-

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sisteva semplicemente nel fatto che il Logos aveva brillato nello spirito di un uomo chiamato 'Gesù', per abbandonarlo nuovamente dopo la sua morte. Gente del tutto moderna, dunque; gente che si allontanava dal fatto fondamentale di ogni cristianesimo e dal suo "scandalo" e trasformava il reale in qualcosa di ideale e simbolico.

Contro gli gnostici, Giovanni afferma: il Logos non si è soltanto manifestato nello spirito di un essere umano, ma esso si "è fatto uomo". Ma questa espressione non gli sembra abbastanza al di fuori di ogni possibilità di equivoco, abbastanza netta. Pertanto egli martella: il "Verbo s'è fatto carne"! Questa era stata l'esperienza, sempre nuova, che egli aveva fatto durante tutto il tempo che aveva trascorso con Gesù:

egli non se l'era soltanto immaginato interiormente, non ne aveva fatto soltanto l'esperienza col suo sentimento, ma l'aveva "visto" con i suoi occhi di persona viva, lo aveva "sentito" con le sue orecchie di carne, lo aveva "toccato" con le sue mani, abituate a stringere il timone e a stendere le reti. Di che cosa si trattasse, gli è divenuto improvvisamente chiaro a Pentecoste, nella luce dello Spirito Santo: si trattava dell'incarnazione dell'eterno Figlio di Dio, che egli aveva personalmente sperimentata nell'avvenimento dell' 'epifania'.

Questa parola ha la sua origine nell'antico culto dell'imperatore. L'imperatore era ritenuto ffco'cT)p, cioè apportatore di salute e fortuna. Quando egli faceva il suo ingresso in una città questo sentimento si impadroniva del popolo: "La salute e la fortuna risplendono: emcpàvsi.a". Questa parola è entrata in seguito nel linguaggio cristiano e significa adesso che Dio, che la potenza e la grazia divina si rivelano

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in una figura terrestre. Pertanto noi non pensiamo solo che il Cristo è il Figlio, ma lo "vediamo"; non soltanto prendiamo spiritualmente coscienza di lui, ma lo "sentiamo"; non soltanto il nostro sentimento ha una intuizione di lui, ma possiamo "toccarlo". Anzi, nel sesto capitolo del Vangelo di san Giovanni Gesù giunge al punto di annunciare ai suoi disorientati ascoltatori il seguente messaggio: nel mistero dell'Eucaristia il credente riceverà, nella sua vita umana e corporea, colui che s'è fatto uomo, lo "mangerà" (6, 57)!

È questa la radice di ogni cristianesimo. Di essa ci parla Giovanni. Più egli diventa vecchio, più questo mistero acquista in lui potenza e profondità. Quando noi leggiamo il suo Vangelo da questo punto di vista, vediamo come egli si sforzi di mettere in evidenza, nella figura, nell'opera e nel destino di Gesù, ciò che era "in principio": il Logos, la parola di colui che parla da tutta l'eternità, il Figlio del Padre. Com'è falso l'affermare che il primitivo Vangelo è stato qui abbandonato e che si fa della filosofia sulla persona di Gesù! Ciò non è affatto vero, ma è vero il contrario: durante i lunghi anni che Giovanni ha vissuto dopo la morte di Gesù, egli ha compreso sempre più chiaramente che cosa significhi la parola 'epifania'.

Ma ora una domanda ci incalza. Come è possibile una cosa simile? Come può Iddio agire in questo modo? Cerchiamo di esaminare bene questa domanda; è importante, per la nostra comprensione cristiana, farne l'esperienza.

Come può il Dio eterno incarnarsi, divenire uomo? E questo non nella maniera intesa dai miti, quando

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essi ci raccontano che gli dèi si uniscono a donne di questa terra per procreare degli eroi, futuri autori di gesta salvifiche. In queste mitologie, nessun concetto è autentico: ne quello del dio, ne quello della persona umana e tanto meno quello dell'eroe che dovrebbe essere apportatore di salvezza; essi non vengono qui intesi che come elementi di un tutto che è rinchiuso in se stesso. Il Vangelo non si situa in questo ordine di pensieri, ma in quell'inflessibile serietà che l'educazione del cristiano riceve in eredità da millecinquecento anni di Antico Testamento. Come può lo stesso Dio, che in questo Antico Testamento da delle testimonianze così potenti della sua santa indipendenza, farsi uomo e rimanerlo per sempre?

Spiritualmente, Giovanni non era quel greco in cui l'ha trasformato l'equivoco che è intervenuto a proposito dalla sua concezione del Logos e dei suoi concetti generali, ma un uomo dell'Antico Testamento; perciò questa domanda deve averlo sconvolto sin nella parte più profonda del suo essere. Ma egli ha saputo dare la risposta adatta. Essa dice:

Dio ha potuto far questo perché ama, perché è il Dio dell'amore. Nel quarto capitolo della sua lettera, possiamo infatti leggere: "L'amore di Dio si è manifestato in ciò: Dio inviò il Figlio suo, l'Unigenito, nel mondo, affinchè noi vivessimo per mezzo di lui" (9).

Tutte le volte che parliamo dell'amore di Dio — e dobbiamo farlo spesso, poiché la rivelazione di questo amore forma il cuore stesso del messaggio cristiano — è necessario che noi purifichiamo i nostri pensieri. Quando Giovanni parla dell'amore di Dio,

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questa parola non sta ad indicare un concetto generale, ma un nome. Non si tratta qui della bontà, della benevolenza, dell'amicizia, della prontezza nel prestar aiuto agli altri, cioè delle stesse qualità che sono operanti nell'esistenza umana, con la sola differenza che esse vengono concepite come assolutamente pure, grandi, creatrici, ma si tratta piuttosto di quell'intima disposizione dell'animo di Dio che lo ha portato a fare quella cosa enorme ed inaudita della quale noi parliamo. Questa disposizione non ha, originariamente, nulla a che vedere con ciò che l'uomo chiama comunemente 'amore', ma ha il suo senso in se stessa. Noi, con le sole nostre forze, non possiamo neppure sapere che essa esista. Possiamo cono-scerla soltanto in quanto è Dio stesso che ce la rivela.

Anche per il suo amore, vale quello che egli ha risposto sull'Horeb a Mosè che gli chiedeva il suo nome: "Io sono Colui che sono" (Ex. 3, 14); colui che esiste e regna in libera sovranità, che non può essere nominato con riferimento ad alcuna realtà che appartenga al creato. Pertanto di lui si può dire solo che egli è quale ce lo rivela la sua iniziativa personale. Ciò vale anche per il suo amore. Anche a proposito di esso, si potrebbe dire: Amando, io sono quello' che sono... Io amo, io sono colui che ama... Il mio amore è quello che è... Esso è me stesso. È questa intima disposizione dell'animo di Dio che fa sì che il Dio 'che è' compia l'opera enorme ed inaudita dell'Incarnazione. Soltanto essa è in grado di compiere una cosa simile. Noi non dobbiamo pensarla ne giudicarla partendo dal nostro punto di vista umano poiché, facendo ciò, mettiamo in questione il suo senso, anzi la sua possibilità stessa.

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Ogni pensiero, ogni giudizio cominciano piuttosto dalla fede che noi accordiamo a queste parole uscite dalla sua bocca: È così. Mediante questa Rivelazione, Dio oltrepassa il puro concetto filosofico-religioso di un essere supremo, in quanto questo concetto resta rinchiuso nella propria assolutezza e non riesce a trovare alcuna valida relazione col finito. Lo oltrepassa anche per un'altra ragione. Come soltanto la rivelazione sull'Horeb ha reso possibile un rapporto fra il pensiero di Dio e la storia vivente, così questa nuova rivelazione della sua vita trinitaria rappresenta la premessa perché noi possiamo essere chiamati a vivere nella condizione di figli, di fratelli e di amici di Dio.

Pertanto Giovanni ci dice in tutta chiarezza: "In questo sta l'amore: non noi amammo Iddio, ma egli amò noi e inviò il Figlio suo ad espiare per i nostri peccati" (1 Io. 4, 10). Quando dunque il Cristo richiede, in adempimento del "primo e più grande comandamento", l'amore per Dio e per il prossimo (Mi. 22, 36), egli vuole con ciò che il credente si inserisca in questa disposizione dell'animo divino per realizzarla. Ecco perché la teologia parla a buon diritto della 'virtù teologale' dell'amore; questa virtù infatti, nella sua radice, è di Dio, non della creatura. È soltanto procedendo da essa che tutto diventa possibile; anche ciò che, partendo dal concetto di Dio inteso come essere assoluto, non potrebbe neppure essere pensato. Ed è questa, in primo luogo, la ragione per la quale Giovanni viene chiamato il discepolo dell'amore, in quanto l'esperienza di questo mistero primordiale della nostra Redenzione lo ha penetrato così profondamente.

Questa divina disposizione inferiore sta alla base

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di tutto quello che Dio fa. Perché egli ama così ha creato il mondo; e quant'è grande l'oltraggio del peccato originale, se commisurato a quest'amore! Perché ama così, non ha abbandonato i colpevoli alla loro volontà, ma ha concepito il disegno della Redenzione. Perché ama con un tale amore, egli è venuto nel mondo e si è fatto uomo. Tutto, assoluta- ( mente tutto, dipende dal fatto che noi comprendiamo i ciò. Poiché essere redenti significa entrare in questo ' amore.

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IL MONDO

Nel secondo capitolo della sua lettera Giovanni dice: "Non amate il mondo ne ciò che è nel mondo. Se uno ama il mondo, in lui non è l'amore del Padre. Poiché tutto ciò che è nel mondo: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, il tronfio orgoglio della vita, non è dal Padre, ma dal mondo. Ora il mondo passa e la sua concupiscenza con lui; ma chi fa la volontà di Dio permane in eterno » (15-17).

Queste parole hanno un suono duro. Se le cose stanno così, sembrano aver ragione coloro che dicono che il cristiano non è capace di vivere e di creare nella gioia, ma deve invece disprezzare ciò che appare prezioso agli altri uomini. Infatti, come è possibile vivere se non si ama "ciò che è nel mondo", uomini e cose, lavoro ed opera? Se "tutto ciò che è nel mondo" non è che "concupiscenza della carne, e cioè bramosia dei sensi; "concupiscenza degli occhi", e cioè vano piacere; "tronfio orgoglio della vita", e cioè superbia e vane pretese, esso non merita certamente la nostra amichevole considerazione. Se a ciò si aggiunge ancora che "il mondo con la sua concupiscenza" — vale a dire tutto ciò che esiste — non ha un significato valido ne una consistenza durevole, non vale certamente la pena di affaticarci per esso.

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Ma adesso apriamo il Vangelo dello stesso apostolo al capitolo terzo. Qui noi leggiamo, ai versetti sedici e diciassette: "Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, l'unigenito, affinchè ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Poiché Dio non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma affinchè il mondo sia salvato per mezzo di lui". Queste parole sono state pronunziate dallo stesso san Giovanni, ma esse hanno un suono ben diverso da quelle che abbiamo citate poc'anzi.

Noi dobbiamo fare ancora una volta ciò a cui dobbiamo essere esortati continuamente quando ci capita di meditare sulla verità divina: dobbiamo cioè sottrarci alla forza dell'abitudine che conferisce una specie di grigiore alle parole. Quando leggiamo:

"Dio ha amato il mondo", bisogna che diamo il suo peso reale a questa affermazione e cioè che Dio ama realmente, effettivamente. Ci viene data anche una misura per stabilire la grandezza di questo suo amore: esso è tanto grande, che egli arriva al punto di mandare il suo unico Figlio nel mondo, affinchè "questo sia salvato per mezzo di lui". Ed adesso rinettiamo bene sul modo in cui questa salvezza si è attuata: Dio non ha inviato suo Figlio nel mondo perché egli vi rivestisse le apparenze di un corpo umano, come ad esempio hanno insegnato gli spiritualisti gnostici, e si separasse, dopo la sua morte, da questo corpo per ritornare alla pura spiritualità;

egli ha invece voluto che suo Figlio si faccia uomo realmente e tale rimanga, per sempre. Ma ciò significa che, a partire da questo avvenimento, l'umanità del Cristo e con essa la creazione, 'il mondo', dovranno "sedere alla destra del Padre"!

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Anche questo è vero. Che significa, quindi, questa apparente contraddizione? Essa significa, evidentemente, che la parola "mondo" per l'apostolo Giovanni ha due significati diversi e che noi dobbiamo fare una distinzione fra di essi. Cerchiamo pertanto di penetrare più profondamente in questi concetti che ricorrono tanto spesso.

In primo luogo: che cosa significa questa parola nell'uso linguistico della Bibbia? Una affermazione fondamentale si trova già nella prima frase della Sacra Scrittura: "In principio Dio creò il cielo e la terra" (Gen. 1, 1). Nella lingua ebraica la parola 'mondo' non esiste; al suo posto si trova l'endiadi 'cielo e terra', e cioè 'il tutto'. La Sacra Scrittura si apre quindi con questa frase: "In principio Dio creò il mondo", e tutto ciò che segue si colloca sotto la sua luce.

Dio ha creato il mondo. Lui solo. Nessun altro essere tranne lui vi ha messo la mano. Ciò significa, se ci è permesso di esprimerci così, che Dio porta la responsabilità dell'esistenza del mondo, questo enorme complesso di energie, di materie, di cose, di esseri, di avvenimenti, di rapporti e di leggi. Esso si estende sterminatamente in grandezza, ma anche, come ce lo ha dimostrato la scienza degli ultimi decenni, in piccolezza; non si rivela mai ne uniforme ne meschino e ci mostra piuttosto, ovunque si posi il nostro sguardo, una sovrabbondanza di forme ori-ginalissime. Il Genesi esprime questa 'responsabilità divina' nel primo racconto della creazione dicendo, dopo quasi ogni tappa della grande opera: "E Dio vide che ciò era buono". Ed alla fine del racconto si trova ancora: "E Dio vide tutto ciò che aveva

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fatto, ed ecco, era molto buono" (1, 10 ss.).

Tutto ciò vuoi dire che questo mondo è grande e prezioso davanti a Dio, e che in esso non c'è nulla da biasimare.

Ma le cose non sono finite qui: Dio ha voluto non soltanto che il mondo esista semplicemente, ma che esso si costituisca in una vivente presa di coscienza; che esso sia conosciuto; e conosciuto non soltanto da lui, ma anche dalla stessa creatura. Pertanto egli ha creato l'uomo e lo ha fatto capace di guardare le cose e di comprendere la loro natura; di discernere le leggi sul cui fondamento esse sono costruite ed i risultati prodotti dalla loro azione. Perciò le cose affiorano nello spirito dell'uomo, sono ivi presenti, per così dire, una seconda volta, ora sotto forma di verità.

Dio ha fatto ancora di più. Egli ha reso l'uomo capace di sperimentare vitalmente la realtà e la bellezza di tutte queste cose. Quando l'uomo contempla il cielo nello splendore della sua luce, egli ha il sentimento della grandezza e del mistero. Quando vede un fiore, il suo cuore riesce a cogliere e a seguire le forme della sua bellezza e si rallegra. Nel volto di un'altra persona umana, egli scorge la gentilezza o la collera e vi risponde con un suo proprio sentimento. In tal modo la molteplicità delle cose emerge nella interiorità del suo cuore e vi consegue una nuova dimensione: essa diviene contenuto di vita.

L'uomo può anche esser giudice. Egli può dire:

questa cosa è utile, quest'altra è buona, quest'altra ancora è bella. Ma può dire, anche: questa è pericolosa, o cattiva, o brutta. Ciò significa che egli può

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attribuire il loro valore alle cose. Egli può costruire una scala di valori fra di esse e dire: questa cosa è più importante di quella; questa è migliore di quell'altra. In tal modo le cose esistenti ricorrono una seconda volta nella sua capacità di apprezzamento, nella sua sensibilità, che lo rende capace di giudicare del loro valore e della loro validità.

Sulla base di tale conoscenza, guidato dal suo vivente sentimento, reso saggio dalla sua capacità di giudicare e dalle sue conseguenze, l'uomo può intervenire nel mondo ed agire. Può prendere possesso delle cose, adattarle alle sue finalità, inserirle ed ordinarle nella struttura della sua vita. Egli può fare di esse la materia prima necessaria per esprimere in forma visibile una sua interiore visione, per rappresentare agli altri ciò che egli ha provato entro se stesso.

Tutto ciò significa che, vivendo, l'uomo incontra la realtà delle cose e che da questo incontro nasce un insieme, un 'mondo' di nuovo genere. Ciò che gli sta direttamente di fronte, che esiste 'di per se stesso', costituisce, per così dire, un mondo di primo grado. Ma quando l'uomo gli va incontro, nelle molteplici manifestazioni della sua vita, da questo incontro nasce un mondo di secondo grado — quel mondo che Dio ha veramente voluto, se noi interpretiamo rottamente il senso della Rivelazione. Quando infatti, il sesto giorno, la sua opera è terminata, Dio dice in certo qual modo all'uomo: E adesso continua tu a lavorare e da questo primo mondo forma il secondo. È infatti questo il significato contenuto nelle parole, che appaiono in un primo momento così semplici, relative alla missione che

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viene affidata all'uomo di "coltivare e custodire" la creazione divina (Gen. 2, 15).

Questo secondo mondo doveva diventare grande e bello. L'espressione che per esso usa la Bibbia è 'il Paradiso'. Essa indica quello stato di esistenza che si ebbe quando il primo uomo, nella sua innocenza, fece il suo primo incontro con le cose. Questo uomo allora viveva unito a Dio, nell'armonia della fede e della ubbidienza amorosa. La Sacra Scrittura esprime questo stato mediante l'immagine di quanto di più bello poteva conoscere il mondo del sud:

l'immagine di un giardino ben coltivato, circondato da un muro di protezione, attraversato dall'acqua corrente, ornato di piante fiorite e di alberi carichi di frutti. Il 'Paradiso', dunque, non è il regno delle fate o il paese di Bengodi, ma il mondo quale lo ha Voluto Iddio: il secondo mondo, formato dal primo, per opera di quest'uomo innocente, che viveva in grazia di Dio. La grandezza della storia umana e lo splendore dell'opera umana che avrebbero dovuto realizzarsi in questo mondo non possono neppure essere immaginati da quegli esseri guasti e decaduti che siamo attualmente noi uomini.

Poiché l'uomo ha rifiutato la sua ubbidienza a Dio e ha voluto esistere per diritto proprio; non ha voluto essere l'immagine ma l'archetipo. Ed allora il disordine ha fatto il suo ingresso nell'umana natura. E se colui che legge queste pagine è ancora giovane, se lo lasci dire da un uomo che ha già vissuto a lungo, fino a qual punto questo disordine abbia un effetto terribile nell'uomo; quale follia delle brame, quale accecamento dello sguardo, quale slealtà nel parlare e quale violenza nell'agire esso porti nella

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sua vita. È una cosa questa che si impara coll'espe-rienza di ogni giorno, a poco a poco.

Ma anche quest'uomo decaduto incontra la creazione. Egli lo fa continuamente, perché è proprio in questo incontro che si realizza la sua vita. E così il disordine agisce già nel suo vedere e nel suo conoscere. Per dimostrare ciò, facciamo un esperimento. Scegliamo qualche cosa di cui conosciamo con certezza il valore — una personalità, un'opera d'arte, un'idea sociale — ed osserviamo il modo in cui essa viene considerata dalla gente. Noi resteremo atterriti dalle contraddizioni e dalle deformazioni che già si producono ad un primo sguardo.

Questo stesso uomo emette dei giudizi. Ma si dimostra egli, in generale, almeno disposto ad essere obbiettivo nei confronti dell'oggetto del suo giudizio? Conosce le regole che servono per raggiungere un simile fine? È capace di servirsene? Osserviamo, ad esempio, il modo in cui egli giudica gli altri; con quanta leggerezza egli lo fa; come il suo giudizio viene determinato dalla vanità, dalla suscettibilità, dalla sete di potere, dalla pretesa di aver sempre ragione, dall'invidia e da altri sentimenti di questo genere.

E le opere umane! Quando si parla della storia della cultura si considerano, di regola, quelle cose che sono riuscite. Ma che ne è invece di quelle che non sono potute riuscire? Pensiamo a tutti i piani che non poterono realizzarsi; allo sperpero di vivente forza umana; all'arbitrio dei potenti; alle distruzioni ed alle crudeltà senza fine della storia; alle aberrazioni nelle quali si sono incontrate la megalomania, la mancanza di senso della realtà ed il potere. Anche

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tutto questo fa parte dell'opera umana quale essa si è realizzata sotto l'influenza del disordine che ha operato in essa sin dall'inizio. Ricordiamoci solamente di quanto è avvenuto negli ultimi decenni;

che cosa hanno fatto gli uomini — noi uomini, bisogna dire anzi, perché tutti ne portiamo la responsabilità — durante quest'epoca. E non si tratta che di un breve tratto della lunga storia dei rapporti umani con la creazione divina.

Questi disordini e queste distruzioni sono fra loro strettamente collegati, derivano l'uno dall'altro. Qui c'è un uomo, ad esempio, posseduto dalla bramosia del potere, che non riconosce alcun comandamento di Dio; in sua sostituzione egli ha escogitato un idolo che può chiamarsi, a seconda dei casi, l'idea dello 'Stato perfetto', della 'razza pura', del 'benessere generale', di una 'società senza classi' e per realizzare questa idea egli esercita la sua violenza sugli altri uomini. Gli oppressi rispondono con la paura, con l'odio, con la vendetta; e da ciò risultano nuove violenze, nuove menzogne, nuove distruzioni; e si va avanti così, con continue azioni e reazioni. Tutto ciò costituisce una concatenazione funesta, in cui un male è conseguenza del precedente e prepara il seguente.

Tali funeste concatenazioni formate da false prospettive, da giudizi errati, da cattiva volontà, disordine, violenza e distruzione, sono innumerevoli. Esse si stendono attraverso la moltitudine degli uomini, attraverso i paesi, i popoli e i tempi. L'oscuro insieme che ne risulta è quel 'mondo' di cui parla l'epistola di san Giovanni nel suo secondo capitolo. Non si tratta del mondo della creazione divina; e neppure di quello che doveva originariamente rea-

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lizzarsi mediante incontro dell'uomo innocente con questa creazione divina. Si tratta invece di quella concatenazione di confusione, di corruzione, di male che ha per sua conclusione finale ciò che la maledizione divina sopra i colpevoli intende con la parola "morte" (Gen. 3, 19). E quando, da un'altra parte, la Sacra Scrittura parla delle "tenebre" che non hanno accolto il Figlio di Dio incarnato (Jo. 1, 5);

del "regno", che Satana instaura contro Dio (M/. 12, 25 ss.); del mondo per il quale Gesù non prega neppure più (Jo. 17, 9), queste diverse espressioni stanno tutte ad indicare quel funesto insieme di cui parlavamo sopra, nella misura in cui esso si rinchiude m se stesso e rifiuta di convenirsi, di mutare il suo orientamento.

Ma l'altro significato della parola mondo, di cui adesso parleremo, dice che Dio non ha voluto che questo male fosse definitivo, ma che ha posto un nuovo inizio: egli ha mandato suo Figlio in questo mondo, nello stato in cui esso si trova. In questo stato di disordine, impregnato com'è di tanta cecità e di tanta follia, di tanto male e di tanta distruzione. E questo suo Figlio si è incarnato, come uno di noi;

ha avuto fame ed ha avuto sete; ha camminato, si è affaticato, ha sofferto ed è morto, come accade ad ogni uomo; ma in tutto ciò egli restava il santo Figlio di Dio, che ubbidiva al Padre in un amore perfetto. E con questa sua incarnazione egli ha espiato l'infinito peccato dei nostri primi progenitori. Egli ha creato un nuovo inizio, l'inizio del suo amore. E questo nuovo inizio rinasce in ogni uomo che si volge a lui nella fede e nell'ubbidienza: egli "rinasce dall'acqua e dallo Spirito Santo" (Io. 3, 5).

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E pure quest'uomo, l'uomo nuovo, nel quale si trova l'inizio creato dal Cristo, incontra ciò che è. E anche da questo incontro con le cose e con gli uomini, nell'amicizia, nella famiglia, nella professione, nella società, nasce un 'mondo', un mondo 'nuovo'.

Esso non è separato dal vecchio ma si trova ovun-que intrecciato con esso, nello stesso modo in cui nel singolo credente l'uomo nuovo è intrecciato col vecchio. Ma esso esiste; il vecchio mondo avverte pertanto questa sua esistenza e la combatte: "Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi", dice Gesù nei discorsi dell'addio (Io. 15, 18). Il mondo nuovo non è perfetto, soffre di tutte le insufficienze della nostra esistenza, viene continuamente rimesso in questione, turbato, indebolito; ma esso contiene in sé la forza del Dio della nuova creazione. Esso viene spesso talmente ricoperto e nascosto che si può persino giungere a dubitare se esista veramente; ma la parola di Dio ci da la certezza della sua esistenza, e noi dobbiamo mantener viva questa certezza nella fede.

Ma Paolo è il profeta di questo nuovo mondo. Con parole che sono dettate da una profonda esperienza, egli parla dell'uomo nuovo e del suo combattimento col vecchio; della sua crescita e del suo divenire misteriosi, della sua speranza e del suo futuro compimento, come anche dell'importanza che tutto ciò ha per il mondo delle cose. Ascoltiamo quello che egli ci dice nell'ottavo capitolo della sua lettera ai Romani:

"Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non reggano il confronto con la gloria che dovrà

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manifestarsi in noi", e cioè negli uomini che sono stati rinnovati dal nuovo inizio che ha portato il Cristo. Ma questo rinnovamento non dovrà operarsi soltanto negli uomini, ma anche nell'intera creazione. Il rimprovero, pertanto, rivolto al cristiano, di odiare e di disprezzare il mondo è tanto ingiusto quanto esso è antico. In realtà nessuna persona lo prende tanto sul serio e gli attribuisce tanta grandezza come il cristiano. Soltanto che egli non si fa illusioni circa lo stato nel quale "la stessa intera creazione anela, in ansiosa attesa, alla manifestazione gloriosa dei figli di Dio". La creazione attende che l'uomo attinga la sua compiuta pienezza affinchè, mediante lui, tutto trovi compimento, "affrancato dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla libertà della gloria dei figli di Dio" (18-21).

E si avrà allora l'ultimo 'mondo'. Su di esso Giovanni, alla fine dell'Apocalisse, dice delle parole nelle quali risplende una promessa: "Ed io vidi un cielo nuovo ed una terra nuova" — un mondo nuovo, quindi —. "Infatti il primo cielo e la prima terra"

— il vecchio mondo corrotto — "passarono" (21, 1).

Giovanni contempla questo mondo nuovo in una immagine. L'immagine del primo mondo, formato dall'uomo innocente, era il giardino dell'Eden, il Paradiso, pieno di tutta la bellezza dell'inizio divino;

quella dell'ultimo mondo, del mondo che un giorno verrà, ha un altro carattere: "E vidi la città santa, Gerusalemme nuova, che scende dal cielo, da presso Dio" (21, 2). Questo mondo, quale esso sarà un giorno in tutta la sua perfezione, appare come una

•kq\\,c,; e cioè come l'immagine, come la concezione più alta che l'antichità potesse conoscere: la città

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ben costruita, circondata da mura di difesa, ripiena di una vita ben regolata. La sua forma, però, è misteriosa: essa è tanto larga, quanto profonda ed alta, espressione simbolica, questa, della sua perfezione. Ed essa si erge luminosa, come un preziosissimo gioiello: "II suo lume è simile a una pietra preziosissima" (21, 11). Ma l'immagine della città non è dura e rigida. La sua cristallina durezza si risolve nella delicatezza della vita più viva. Con trapasso immediato, quale si compie in visione, Giovanni l'aveva descritta "preparata come sposa che è stata ornata per il marito" (21, 2). La solidità della città, circondata dalle sue mura, si trasforma nella bellezza di un essere umano che ama.

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LUCE E VERITÀ

Nel primo capitolo della prima lettera di san Giovanni noi leggiamo: "Ed ecco l'annunzio che abbiamo udito da lui ed annunziamo a voi: Dio è luce ed in lui non c'è tenebra alcuna. Se diciamo d'avere comunione con lui e camminiamo nella tenebra, mentiamo e non operiamo la verità. Se invece camminiamo nella luce, come lui è nella luce, siamo in una reciproca comunione..." (5, 7).

Queste frasi racchiudono due immagini. La prima, l'immagine della luce, sembra dominare il tutto. Ma in essa se ne insinua una seconda, l'immagine dell'ampiezza spirituale, che conferisce alla prima un carattere particolare.

Il nostro pensiero e quello che noi diciamo.con-tengono molte, immagini; esse hanno però un valore ed una forza molto diversi. Alcune di esse sono fortuite, si sono formate nella base di somiglianze esteriori o di una convenzione voluta; si tratta, in questo caso, di allegorie, che debbono essere spiegate^ Pensiamo ad esempio alla figura di donna che una volta veniva rappresentata, molto volentieri, nelle sale dei tribunali. Essa aveva gli occhi bendati e teneva in mano una bilancia: doveva simboleggiare la giustizia, che non guarda alla persona dell'accusato, ma che determina soltanto, con cura, il peso dei fatti di fronte alla legge. Il significato contenuto in que-

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sta figura bendata non può essere compreso immediatamente, in quanto si basa su di una convenzione, e si pensa, talvolta, che la donna con la bilancia farebbe meglio a spalancare bene gli occhi.

Ma esistono anche delle_immagini che risultano da un aut^nticc^ncoatVQ ha ci^ è di più fondamentale, .nella .natura umana e la vita. Esse non hanno bisogno di alcuna spiegazione per essere comprese, ma esprimono con estrema immediatezza il loro significato : si tratta qui di simboli, ali'interno. dei quali l'esistenza trova chiarezza e ordine, Noi incontriamo due di queste immagini, o simboli, nel testo che ci sta di fronte.

La prima di queste immagini è J'immagine__della_ luce. Un rapido sguardo sulla storia della nostra cultura è sufficiente a mostrare quale valore universale essa abbia avuto per simboleggiare lo spirito. Diciamo più esattamente: la vita dello spirito. E precisiamo ancor meglio: per simboleggiare la vita dello spirito quale essa si manifesta nella conoscenza.

Questa immagine riappare continuamente nel nostro linguaggio. "Lo vedo",, noi diciamo per espri-, mere che abbiamo capito; ora non si può vedere che nella luce. Fino a quando un osservatore non giunge a capire il senso di un determinato processo, egli continua a chiamare questo processo 'oscuro'. Quando gli riesce invece di capire per quali cause e con quali finalità esso avviene, allora egli dice, tutto soddisfatto, che la cosa è divenuta 'chiara' per _lyi. Di una persona la quale sia capace di afferrare rapidamente l'essenziale noi diciamo: _".È uno spintp_lui cido"; e di un libro, il quale conduce il lettore alla comprensione della verità diciamo che esso è 'illumi-

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nante'. Si potrebbero in tal modo citare molti altri esempi per provare che la luce rappresenta universalmente l'immagine della verità, nella quale lo spirito penetra quando esso conosce.

In tal modo il senso della frase contenuta nella lettera di Giovanni diviene chiaro: lo spirito di colui che conosce entra nella luce; intorno a lui si fa spiritualmente chiaro. In questa chiarezza egli riesce a vedere le cose come esse sono. Può orientarsi in mezzo ad esse, fare con esse ciò che è giusto. Ma se egli non conosce bene, se vede storto, il suo 'camminare', il suo modo d'agire e di comportarsi, assomigliano ad un uomo che proceda a tastoni in un luogo oscuro.

Segue poi la grande affermazione: la vita di Dio è interamente nella luce. Anzi, Dio stesso è luce. Se qualcuno dicesse puramente e semplicemente 'luce' e lasciasse poi pervenire questa parola alla sua originaria pienezza, essa indicherebbe Dio. Che significa questo?

Ciò significa, in primo luogo, che Dio possiede una forza di luminosità, che il suo sguardo penetra sino al fondo delle cose, degli uomini e degli avvenimenti. Per lui non esistono zone nascoste. Di ogni cosa che esiste egli vede l'essenza, comprende la legge che ne regola l'interno divenire, conosce il senso. Uno dei salmi, il grande salmo centotrentotto — secondo la numerazione della Vulgata; centotrentanove secondo la numerazione del testo ebraico —, parla della potenza e del mistero di questa conoscenza.

Quando noi uomini ci sforziamo di conoscere, le cose procedono, più o meno, in questo modo: noi incontriamo un oggetto o un determinato processo e

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cerchiamo, per così dire, di penetrarvi dentro. Il nostro spirito si avvicina infatti a questo oggetto o a questo processo partendo dall'esterno di essi, in quanto essi esistono indipendentemente da noi. Noi constatiamo, paragoniamo, analizziamo fino a quando non ci riesce di comprendere. Al contrario, Dio conosce le cose dal loro fondamento (Grund} — e con questa parola noi intendiamo indicare sia la profondità della loro intima essenza, sia la loro origine — in quanto è lui che le ha create. La sua conoscenza non è posteriore, non segue, al suo atto creatore in modo che, come pensa l'idealismo, egli avrebbe prima generato il mondo, con un impulso incosciente, e soltanto in un secondo tempo avrebbe diretto il suo sguardo sopra di esso. E neppure questa sua conoscenza precede il suo creare nello stesso modo in cui un architetto concepisce prima il progetto di una casa e soltanto in un secondo momento la costruisce. In Dio, questi due momenti, quello del concepire e quello del costruire, non fanno che una cosa sola. Immaginiamo che noi fossimo capaci di escogitare il modo in cui una cosa deve esser fatta e che essa, per il solo fatto che l'abbiamo pensata, divenisse realtà. Ci troveremmo in questo caso di fronte ad un pensiero creatore, che non appartiene a quegli esseri che noi siamo. Quello che noi concepiamo in questo modo, sia pure in maniera precisa e mettendovi dentro tutto il nostro essere, resta pur sempre ancora al di fuori della realtà, appunto solo pensato, immaginato. Soltanto Dio pensa ciò che deve essere secondo la sua volontà ed esso, per il solo fatto di essere stato pensato, diviene realtà. Il suo pensiero costituisce infatti il fondamento di ogni essere finito.

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È partendo da questa base che tutto ciò che è sta di fronte a lui, nella luce. Non è che esista soltanto, sen2a essere penetrato e compreso, come se il suo senso, il suo significato, dormisse nella pura realtà, nella nuda esistenza. Esso invece viene conosciuto a, priori, anzi il suo essere procede dalla conoscenza divina, è il risultato dell'esser conosciuto. La concezione di una natura che emana dal tenebroso abisso originario, natura ancora chiusa in sé, nella estraneità del puro essere, è ancora una concezione pagana. E questa concezione pagana è rinata dall'opposizione dei tempi moderni contro la Rivelazione. Il mondo non è 'natura', ma 'opera', assolutamente ed essenzialmente. Esso fu sempre nella luce di Dio, poiché è unicamente grazie a questa luce che tutto ciò che esiste possiede il suo essere e la sua realtà. Tutto ciò che esiste. Anch'io — quale pensiero inquietante e consolante, ad un tempo — vi sono incluso.

Ma bisogna portare avanti questo ordine di pensieri: Dio sarebbe l'Onnisciente, sarebbe 'la luce', anche se le cose e gli uomini non esistessero, se io non esistessi. Anche in tal caso egli continuerebbe a conoscere; a conoscere ciò che è in modo autentico, cioè se stesso.

Conoscersi: che cosa significa questa espressione nel nostro caso, nel caso di noi uomini? _Se noi non cerchiamo di ingannare noi stessi, dobbiamo ammet-tere_di riuscire a penetrare_ soltanto unoi strato sottile della nostra realtà umana. Al di sotto di questo strato sottile, incomincia subito una zona inesplorataJ che noi non conosciamo affatto. Ad esempio, io ho prestato aiuto ad un uomo. Di questa mia azione

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ho chiare in partenza soltanto le circostanze immediate: in quel determinato giorno e in quell'altro ho dato a quest'uomo questa cosa e quest'altra. Posso penetrare più profondamente in me stesso e chiedermi perché ho agito così. Risposta: egli era realmente in una situazione di bisogno ed io ho voluto liberarlo da questa situazione. Sono riuscito, con questa risposta, a penetrare interamente il significato della mia azione? Da un esame più approfondito riesco a cogliere il seguente movente: no, io ho fatto quello che ho fatto perché contavo di ricevere più tardi il suo appoggio in questo e in quel determinato affare. Ed approfondendo ancora il mio esame: io l'ho fatto per vanità, perché volevo recitare la parte del grande personaggio. E forse un giorno, in una circostanza qualsiasi — di mattina presto, ad esempio, nel dormiveglia, quando le cose, talvolta, diventano così stranamente trasparenti, in quanto la nostra autoaffermazione non è ancora operante — il movente della mia azione appare di colpo, in una luce vivida, di fronte ai miei occhi: io ho agito in realtà per vendetta, perché volevo umiliarlo! Questa improvvisa scoperta, può avere invece un aspetto buono, favorevole: l'ho fatto perché desideravo riparare un torto, per esprimere un amore che non osa ancora tradursi in parole... Noi lo vediamo: penetriamo sempre più profondamente in noi stessi, ma il nostro sguardo non riesce mai a raggiungere l'ultimo fondo. Il nostro stesso essere si perde davanti a noi nell'oscurità. La psicologia dell'inconscio ci insegna quante cose siano nascoste in questa oscurità, un intero mondo...

E non si trattava qui che di un piccolo esempio. Ma di questi piccoli esempi la nostra vita è piena.

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La conoscenza che abbiamo di noi stessi non è che il risultato di rilevazioni superficiali, frammentarie, casuali, determinate dalle situazioni, colorate dai nostri stati d'animo.

Come le cose sono ben differenti nel caso di Dio! Egli riesce a guardarsi con uno sguardo assolutamente puro. Egli è completamente chiaro a se stesso, fino in fondo. Quando si pensa per la prima volta un pensiero del genere, può darsi che ci capiti di arretrate, spaventati: conoscersi pienamente, per tutta l'eternità — come deve essere monotono tutto ciò! Quale disperante sazietà deve risultare da un simile stato! Ma Dio è infinito: egli non potrà mai stancarsi di se stesso. La sua infinitezza colma interamente il suo sguardo, che è anch'esso infinito. Questa realtà incomprensibile ha un nome: eternità.

Ed ora Giovanni ci dice: quando cerchi la verità, tu sei in comunione con questo Dio. Però dobbiamo precisare: la verità della quale l'apostolo ci parla non è semplicemente quella della constatazione quotidiana, o della ricerca scientifica o della conoscenza filosofica, ma quella che ci viene manifestata dalla Rivelazione. ^i_tratta__della verità dell'mcamaziQne. del Figlio; dell'amore che egli ci testimonia; della redenzione mediante il suo sacrificio e _di .tytto__ciò che ne risulta. Che queste operazioni divine siano Jnanif estate all'uomo; che l'uomo vi creda e di esse .viva ; _questa è la verità della quale qui si tratta e che conferisce il suo senso ultimo ad ogni altra forma di conoscenza.

Giovanni, dunque, dice: se tu hai l'esigenza di questa verità, se ti sforzi di conquistarla, se tieni in alto onore il dono che con essa ti è stato fatto,

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tu sei in comunione con il Dio che si è rivelato a noi, E sei contemporaneamente in comunione con gli altri uomini che, come tè, cercano questa stessa verità. Ma se tu al contrario rifiuti a Dio la tua fede, se lasci che il suo santo messaggio si deteriori in tè, anzi, se tu lo deformi, Dio ti diverrà lontano e straniero. E lontani e stranieri ti diverranno gli altri uomini, anche se tu ti illudi di conoscerli bene.

Il testo in questione contiene ancora una seconda immagine; essa però è, per così dire, velata e ricoperta, in modo che noi dobbiamo sforzarci per estrada fuori. Questa immagine si cela dietro le parole che dicono che noi 'camminiamo' nella luce, oppure, a seconda del caso, nelle tenebre.

Noi abbiamo visto che la conoscenza si trova in una certa relazione con la luce. Giungere alla verità vuoi dire, infatti, pervenire alla chiarezza. Ma la conoscenza si trova anche in relazione con l'ampiezza, con la libertà. Fino a quando io non riesco a comprendere una cosa, mi appare rassomigliante ad una stanza chiusa, nella quale non posso entrare. Essa mi esclude; anzi — per uno strano rovesciamento che interviene nel mio sentimento, nel modo in cui io faccio l'esperienza dei fatti della vita — essa mi da l'impressione di essere imprigionato in me stesso. La conoscenza, al contrario, apre. Naturalmente, perché ciò avvenga, deve trattarsi di una conoscenza reale e non di una semplice constatazione, di una nuda presa in considerazione. La vera conoscenza, la comprensione reale significa che io pervengo, che io penetro, ad una contemplazione spirituale della natura dell'oggetto; che riesco a vedere il modo in cui i diversi elementi che lo compongono giocano

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reciprocamente e come esso, a sua volta, si situa con riferimento agli altri oggetti che fanno parte dell'esistenza. Se ciò mi riesce, allora ciò che era chiuso si apre — la sua chiusura, consistente nel suo non essere capito e la mia chiusura, consistente nel mio non capire; davanti a me si apre uno spazio, una dimensione spirituale nella quale io sono con questo oggetto, mi muovo nella conoscenza.

Questa ampiezza, creata dalla verità, è meravigliosa. Il nostro essere interiore vi respira dentro, il nostro spirito vi si muove. A lui si manifestano delle vie, che può percorrere; quelle vie che sono rappresentate dalle linee del significato: causa ed effetto, fine e mezzo, totalità e parte, altezza e profondità, valore e grado e tutti i lineamenti dell'essere. Su queste vie lo spirito cammina attraverso ciò che è, fa l'esperienza dei rapporti che esistono fra le cose ed ha l'intuizione delle configurazioni della vita. Al contrario, l'errore restringe e rinchiude; la menzogna incatena e rende prigionieri; la perfidia, l'astuzia e l'ipocrisia rinserrano ed irretiscono. Se noi riuscissimo a capire che tutto ciò che è contrario alla verità opera contro la nostra libertà!

Questa ampiezza della libertà, dice Giovanni, ha la sua origine in Dio. In lui non sono ne ignoranza ne errore, ne menzogna ne inganno. Egli non conosce ne pregiudizio, ne vanità, ne atteggiamenti autoritari. In lui vi è soltanto la limpida verità. No, anzi, egli 'è' verità, è 'la' verità. Non vi è altra verità tranne che lui, al di fuori di lui. La verità è il modo di essere di Dio. Poiché egli è l'infinito e l'infinitamente buono, colui che — lo abbiamo già detto — riesce a vedersi nella sua interezza, comprende completamente la propria vita ed ha così in se stesso una

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ampiezza infinita, nella quale nessun passo trova delle chiusure, delle frontiere.

Pertanto va verso la libertà, attraverso la verità, dice Giovanni; allora tu sarai in comunione con colui che è la libertà stessa.

Ma, nuovamente, ciò che abbiamo detto si è limitato al campo filosofico. La chiarezza e l'ampiezza che Giovanni ha veramente in mente sono ancora qualcosa d'altro. Esse provengono dalla Rivelazione. La verità è Cristo ed il suo regno. Chi conosce Cristo, chi si affida a lui, chi comprende la vita nella luce che da lui promana, costui vive nella libertà.

Se il lettore è straniero al messaggio cristiano oppure non lo ha ancora preso sul serio, egli avrà forse l'impressione che questa affermazione non sia altro che il frutto di una pretesa dogmatica. Ma costui non conosce ancora la natura della realtà che egli vorrebbe giudicare. Sì, siamo nel campo del 'dogma'; ma questa parola, intesa nel suo significato più genuino ed autentico, non vuoi dire altro che la pura validità, l'assoluto valore di ciò che la nostra fede ci richiede di credere, del contenuto della nostra fede. Un contenuto che emana direttamente dalla Rivelazione, che è stato chiaramente stabilito dalla lunga esperienza della Chiesa e che è stato distinto di contro a ogni deformazione. Non ci troviamo qui, certamente, di fronte ad alcuna 'pretesa', in quanto la richiesta che la nostra fede ci fa viene da Dio. Ed essa rende liberi.

Un uomo di alta spiritualità ha detto un giorno che il dogma — noi potremmo anche dire: la Rivelazione — è come il sole. Noi non siamo in grado di poterlo fissare, ma nella sua luce riusciamo a vedere

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tutte le altre cose. Sono parole molto belle queste e dette con molta ragione. Per l'occhio naturale la Rivelazione è un mistero. Cristo è un mistero; deve esserlo. Cristo, quale egli viene inteso da un punto di vista puramente terrestre — genio religioso, fondatore di una religione, filantropo — non è il Cristo reale, ma la raffazzonata costruzione di gente erudita. Il Cristo reale non può essere scrutato, nel suo mistero, più di quanto il nostro sguardo possa penetrare la pienezza di luce del sole. Egli è 'il mistero'. Nella misura in cui ci uniamo a lui, riusciamo a vedere chiaramente, nella sua luce, ogni cosa: il mondo, il corso della storia e la nostra stessa vita. Anche questa nostra vita che, senza la luce del Cristo, a dispetto di ogni psicologia, resterebbe un così profondo enigma. La totalità della realtà, 'l'esistenza', si apre in questa luce. Le barriere cadono, un nuovo ampio spazio spirituale si apre dinanzi a noi. E noi possiamo respirare e camminare.

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"DIO SA TUTTO"

Nel terzo capitolo della nostra lettera si trova una frase dal suono profondo, che vogliamo esaminare da vicino. La frase è questa: "Quando il nostro cuore ci rimprovera. Dio è più grande del nostro cuore e conosce tutto" (3, 20). Il suo mistero ci tocca tutte le volte che noi la ascoltiamo.

Le sue prime parole non sono difficili da comprendersi. Esse parlano di un rimprovero, di un'accusa, che sorge nel nostro cuore e che ci avverte: "Tu hai agito ingiustamente". Anche quelle che seguono non presentano alcuna particolare difficoltà, là dove esse dicono: "Dio è più grande del nostro cuore". Vengono qui intesi i nostri pensieri limitati, i nostri giudizi mal fondati, i dubbi ed i tormenti della nostra coscienza. Dio è più grande di tutto ciò. Ma che ci dovremmo noi attendere adesso? Quali parole dovrebbero seguire dopo che è stato detto che Dio è "più grande del nostro cuore", con tutta la sua inquietudine? Noi ci attenderemmo, sicuramente, un:

ma egli ci perdona; oppure: egli ci dona la luce che illumina la nostra ignoranza, la forza per superare il nostro tormento intcriore. Ed invece di tutto ciò noi ascoltiamo le parole: "Egli sa tutto"!

Dunque, il fatto di essere conosciuti da Dio dovrebbe rappresentare una consolazione! Ma perché? Come può l'accusa che sorge dal nostro cuore dissiparsi, svanire, per il fatto che Dio ci conosce?

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La parola 'accusa' ha qui un carattere morale-personale; si potrebbe quindi pensare che il termine greco xapSia debba essere tradotto 'coscienza'. Ma l'uso corrente di quest'ultima parola ha assunto un senso decisamente morale, mentre 1' 'accusa' di cui ci parla Giovanni designa una realtà più vasta, più profonda e, nello stesso tempo, più indefinita. Tradurremo pertanto il greco xapSia con l'italiano 'cuore'. In che consisterebbe dunque una simile accusa del cuore?

Noi abbiamo fatto, ad esempio, una cosa che in un primo momento ci sembrava giusta. Ma il cuore ci dice: Nel far questo tu hai agito con delle occulte intenzioni. Quando quella persona oppressa e bisognosa di aiuto si rivolse a tè, tu l'hai aiutata; ma l'hai fatto, in fondo, obbedendo ad un calcolo. Quando tu davi, tu pensavi già a quello che ti sarebbe stato donato in cambio più tardi. In quella occasione tu sei sì intervenuto a favore di ciò che era giusto e hai lottato con coraggio — ma lo hai fatto per vanità, hai ricercato degli onori, hai voluto recitare la parte del grande personaggio...

Oppure qualche cosa di molto importante non ci è riuscito e noi cerchiamo di giustificarci: Non ho potuto farci nulla. Ad un primo esame, ciò sembra essere esatto, ma poi il cuore ci dice: Non hai potuto realmente farci nulla? La tua volontà era realmente ferma e decisa in favore del bene com'era necessario perché tutto potesse andare a buon fine? Oppure non era operante anche una» volontà opposta? Una segreta riserva che fece deviare la linea della tua azione? Un desiderio inconscio che tutto questo affare dovesse finir male?

Noi ci siamo dimostrati deboli e cerchiamo di

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scusarci: Io sono, purtroppo, fatto così. Questa disposizione del mio carattere si riscontra anche negli altri mèmbri della mia famiglia. Mio padre già era così ed una cosa simile si è manifestata anche nel carattere di mio fratello. Ma il cuore ci dice: Ti sei realmente trovato sottoposto ad una coercizione insuperabile? Non avresti, invece, potuto resistere in maniera completamente diversa, se la cosa ti fosse realmente stata a cuore, se l'avessi presa realmente sul serio? Non hai tu, invece, giocato col male, ripe-tutamente, finché si giunse ad una situazione tale in cui fu facile per l'istinto di prorompere? E se tu già sai che in tè questa inclinazione esiste, non sarebbe bene che tu ti sottoponessi ad un vero e proprio allenamento, al fine di aumentare la tua capacità di resistenza?

Oppure noi facciamo il bilancio di una giornata, di una settimana, di un determinato periodo della nostra vita: abbracciamo tutto quel tempo con lo sguardo e pensiamo che, in fondo in fondo, tutto non è poi andato così male. Ma il cuore ci dice:

E tutto quello che tu hai cacciato fuori della tua memoria, dove lo lasci? Ciò che è sprofondato, che è stato inghiottito in fondo a tè? Ammetti almeno la possibilità che le cose siano andate diversamente, che non tutto sia in ordine; cerca di riesaminare bene. Forse che molti nuovi aspetti non possono venire alla luce? Riesamina, ad esempio, le tue relazioni con quella persona e con quell'altra; lo svolgimento che ha avuto quest'affare e quell'altro; ricordati della piega amara che ha attraversato il volto di quel tuo amico quando tu sapesti dimostrargli, con tanta precisione, che tu avevi ragione, in modo tale che egli non trovò nulla da ribattere. Non è

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allora affiorata, dalla parte più profonda di tè stesso, la strana sensazione che l'aver così completamente ragione significhi in realtà aver torto?...

Domande di questo genere ci rendono inquieti e spesso non è facile di potervi rispondere. Tuttavia in questi casi tutta la situazione può esser vista con chiarezza quando i fatti vengano sottoposti ad un attento esame e quando si rifletta con la dovuta tranquillità. Ma vi sono altri interrogativi che si pongono in una forma più vaga ed indefinita ma che restano, contemporaneamente, più urgenti.

Eccone uno ad esempio: perché io fallisco continuamente di fronte a situazioni di questo genere? Dimentico delle cose importanti, mi inganno nella scelta dei mezzi, sopravvaluto le difficoltà? Oppure:

fino a che punto giunge la mia responsabilità per i rapporti che si sono stabiliti fra me e quest'uomo, che mi è vicino e che io però non riesco a sopportare? Non sono anch'io colpevole se le cose sono giunte con lui fino a questo punto? Non avrei potuto dare ai miei rapporti con quest'uomo un avvio completamente diverso? Oppure, ancora: perché i miei incontri con questa e con quell'altra persona si svolgono sempre così male? Perché intervengono con tanta rapidità, nei nostri rapporti, suscettibilità, malintesi, rimproveri? Ed inoltre: perché quella amicizia che era nata e cresciuta così bene si è poi guastata così malamente?

Per rispondere a queste voci, a questi interrogativi, la parola "coscienza", e cioè la capacità di giudizio morale, non basta, almeno nel significato che essa ha assunto nell'uso attuale del linguaggio. Queste voci provengono infatti da una interiorità più nasco-

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sta. È il 'cuore' che parla in questi casi e che accusa, e questa accusa può essere, a volte, molto opprimente ed angosciosa, in quanto essa presenta delle molteplici stratificazioni e viene spesso formulata in modo impreciso, anzi contraddittorio. E qui Giovanni ci dice: "Dio sa tutto". La conoscenza di Dio riesce a vedere tutte le circostanze, tutte le relazioni di causa ed effetto, penetra in ogni umano groviglio sino alle più lontane radici. È questo un pensiero che può esserci, invero, di grande aiuto.

Esso può essere! di aiuto in primo luogo in quanto ci porta a prendere le cose sul serio. Ognuno di noi ha già fatto l'esperienza di quello stato di incertezza nel quale non si riesce a sapere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in un determinato caso; non si riesce a vedere sino a qual punto arrivi una nostra responsabilità e come si debba far fronte ad un dovere morale. Questo stato di incertezza può aver avuto dei motivi diversi; uno di essi era rappresentato dal fatto che non si erano prese le cose abbastanza sul serio. Non riuscire a veder chiaro in una cosa molto spesso significa che non si vuole vedere, in quanto mancano la volontà e la decisione necessario a tale scopo. La stessa persona che emette nei confronti degli altri dei giudizi così rapidi e così duri preferisce usare, quando si tratta di giudicare delle sue azioni, parecchi Torse' e parecchi "È possibile che". Quella persona potrebbe giungere a veder chiaro con maggior rapidità se si alleasse con la conoscenza di Dio. Molto spesso delle situazioni moralmente confuse ed intricate si chiariscono non appena ci si ponga sotto lo sguardo di Dio e si renda la nostra volontà pronta e disposta ad accettare qual-siasi cosa: io voglio ciò che è bene davanti a lui:

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questo, o quello od anche quell'altra cosa che mi è talmente penosa...

Ma la peggiore accusa del cuore è quella che nasce dalla malinconia e forse è proprio a questa accusa che pensa san Giovanni. Essa è tanto inafferrabile quanto angosciosa. Essa non dice: ecco quello che hai fatto, oppure: questa cosa è stata fatta male, ma al contrario afferma: È tutto sbagliato. Pertanto la ragione resta disarmata nei confronti di tale accusa perché, per poter rispondere, essa ha bisogno di una affermazione precisa, mentre qui tutto resta vago ed indeterminato. Anche la nostra volontà può, in tal caso, fare molto poco, perché ogni via ci sembra sbarrata e la volontà è paralizzata. Di fronte a questa accusa tutte le cose perdono il loro senso, nessuna di esse sembra valer la pena di esser fatta. Nessuna persona sembra più avere la minima stima per noi; tutti sembrano essere ostili nei nostri confronti, oppure indifferenti; oppure quale altro sentimento può stare in agguato contro di noi dietro questi visi nei quali non ci è più possibile di leggere?...

Nella malinconia confluiscono, in modo confuso, parecchi elementi: una nostalgia senza precisa destinazione; il sentimento di aver perduto ciò che è più importante, essenziale; una tristezza che non ha un motivo preciso ma che potrebbe quasi definirsi una tristezza allo stato puro; un oscuro gorgo nel quale sprofonda tutto ciò che è bello, gioioso e pieno di speranza. Tutto si trasforma in una pesantezza inferiore, che paralizza ogni iniziativa spirituale, che giunge, anzi, sino all'impressione di portare tisicamente un grave peso.

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È in queste ore che parla la parola di san Giovanni. Proprio perché essa non esamina e non distingue. e neppure offre delle ragioni e delle possibilità che affonderebbero immediatamente nell'oscuro gorgo dello stato d'animo malinconico. Qui si offre invece una prossimità, una mano, che allontana il malinconico da se stesso e lo rende più libero.

Ma come può il pensiero rivolto alla divina onniscienza essere di aiuto in mezzo alla pena e all'affanno causati da questa accusa? Non aumentano essi di intensità quando l'uomo oppresso ed angosciato si ricorda dello sguardo di colui che vede tutto? Per comprendere una cosa simile, dobbiamo prima cercare di approfondire il nostro pensiero.

La volontà di sapere può essere di diversa natura. Ce n'è una molto ordinaria e volgare che si chiama curiosità, senza pudore ne bontà. Si presenta in ogni momento in questa nostra epoca. Dappertutto la sua invadenza è all'opera. Essa si intrude nella vita privata; la deforma nei giornali, nei rotocalchi, nelle rassegne settimanali; mette a nudo la disgrazia, la sofferenza, l'amore; vende tutto ciò che è umano pur di ottenere un effetto sensazionale. Possa quanto abbiamo di più caro essere preservato da questo sguardo, la cui bassezza e volgarità non saranno mai giudicate abbastanza severamente. San Giovanni non pensa certamente ad una cosa di questo genere, quando egli ci dice che Dio sa tutto, Dio, colui che ha dato all'uomo il rispetto per il suo prossimo come un segno di nobiltà intcriore.

Un'altra volontà di sapere è quella che spinge lo scienziato ad effettuare le sue ricerche. Quando essa è autentica non ha nulla a che vedere con il desiderio

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di ottenere effetti sensazionali. È la verità che le sta a cuore, la sola verità. Lo scienziato vuoi vedere le cose come esse sono; egli scruta i fatti ed i rapporti, le cause e le leggi. Questa volontà di conoscere costituisce la grandezza dell'uomo e si preoccupa del suo benessere. Essa è obbiettiva, spassionata, anzi, fredda. Può, tuttavia, divenire anch'essa una passione ed, in tal caso, è capace di ogni ardimento. Ma essa resta estranea a ciò che è oggetto della sua ricerca. Essa lo considera appunto come un oggetto, nel quale nulla lo interessa, tranne la domanda: che cos'è? com'è fatto? e perché è fatto in questo modo? Noi non potremmo attribuire neppure a questa presa di coscienza quell'elemento estremamente personale, dal quale viene l'accusa del cuore.

Ma esiste ancora una terza forma di conoscenza, che è collegata con l'amore, che, anzi, emana dall'amore. Essa è piena di rispetto, di benevolenza e di calore. L'amico conosce in tal modo l'amico, la madre il figlio, la persona che ama la persona amata. Chi conosce in questo modo non considera colui che viene conosciuto con freddo distacco, ma gli si pone accanto, vicino a lui. Egli non dice: "io che sono qui e tu che sei là", ma dice, invece: "noi due; ciò che interessa tè, interessa anche me". È questa la forma di conoscenza con la quale Dio ci conosce. E quando delle persone umane si conoscono in questo modo, non si tratta qui che di un riflesso di quella conoscenza mediante la quale Dio abbraccia la sua creatura. Anzi, un suo figlio, oppure una sua figlia, per esprimerci con maggiore esattezza.

Ed ora siamo in grado di poter meglio comprendere quale potente aiuto possa derivare a colui che si senta oppresso dalle interne accuse del cuore dal

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pensiero rivolto a questa conoscenza divina. Quando l'inquietudine sale dal profondo ed il sentimento della colpa si fa più opprimente, quando le cose assumono un aspetto confuso e sembrano perdere ogni senso, colui che si sente oppresso deve rifugiarsi nella divina onniscienza, come in una luce calma e pura, una calda prossimità: "Signore, io sono ignorante, ma tu sai tutto! Il tuo sapere è più grande del mio cuore inquieto; più grande della mia colpa; più grande di ogni oscurità e di ogni turbamento — e tu sei l'amore...". Una grande tranquillità potrà allora derivare da un simile pensiero. Il nostro sguardo diviene più chiaro. Ci è possibile distinguere meglio. E quando nessuna altra cosa è possibile, si può sempre dire:

Accogli tutto nel tuo amore, che invero costituisce anche la grande pazienza. Io affido a tè questo affare e per il momento lo lascio stare. Quando il tempo sarà giunto, tu mi farai vedere più chiaro e mi darai la forza di fare ciò che è giusto."

Ma noi dobbiamo approfondire ancora maggiormente il nostro pensiero. Le parole dell'apostolo Giovanni sono il risultato di sessantenni di riflessione e di preghiera; se noi ci lasciamo prender per mano e guidare da esse, esse ci condurranno sempre più lontano, verso l'essenziale.

All'inizio del suo Vangelo, noi troviamo: "In principio era il Verbo", il Logos, il Figlio di Dio. Nato dall'eterna verità — no, anzi, egli è l'eterna verità poiché in lui, espresso dal Padre, la natura di Dio entra nella luce della manifestazione personale. E più avanti noi leggiamo: "Tutte le cose per mezzo di lui furono fatte, e senza di lui nulla fu fatto di ciò che fu fatto".

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Questa frase significa: tutte le cose sono nate dalla verità. Non da un oscuro impulso, ne dalle mute necessità, ma dalla verità, chiara e vivente. Spesso si leggono delle frasi di questo genere: la natura ha ordinato le cose in questo o in quel modo; in questo ordine, in queste organizzazioni, si dimostra la saggezza della natura; la" natura fa dei ricchi doni, e così via. Queste frasi, queste affermazioni, danno in un primo momento l'impressione di essere molto profonde, ma in realtà esse sono senza senso, anzi, menzognere. La natura non possiede alcuna saggezza;

essa non organizza nulla, non fa doni ne può ricusare alcunché. Essa non è una realtà dotata di volontà e <ii personalità. Essa non ha nulla a che fare con delle affermazioni nelle quali appaia il soggetto di una azione, ma è immota; si muove soltanto in quanto essa costituisce un insieme di mute necessità. Dio solo è il soggetto. E, al fine di allontanare qualsiasi impurità di carattere pantelstico, bisogna aggiungere subito che egli non è, ad esempio, il soggetto della natura, ma è il Signore, in modo assoluto, Signore di se stesso e, per questo motivo, di tutto ciò che esiste 'al di fuori di lui'. Egli ha creato la natura fondandola sulla chiarezza dei suoi pensieri, pieni di verità, e sulla serietà del suo amore. È partendo da questo fondamento che essa è stata fatta, che è stato fatto tutto ciò che esiste, noi uomini inclusi. E qui ognuno di noi dovrà aggiungere: anch'io!

Perciò l'onniscienza divina si trova alla radice stessa del mio essere, della mia natura. La mia origine non è da cercarsi nel 'grembo dell'essere', ne nel!' 'abisso primordiale della natura', ne nel 'processo del divenire del mondo', o in altre locuzioni del genere, che hanno un suono così grandioso, ma che

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quando si cerca di afferrarle d lasciano a mani vuote e con l'amaro gusto, in bocca, di essere stati presi in giro. No, la mia origine è da ricercarsi nella luce della verità divina.

Esiste un pensiero della scuola di sant'Agostino, il quale, se rettamente compreso, può riempirci della gioia profonda che emana dalla verità. Esso afferma:

Io sono più vero e più reale in Dio che in me stesso. L'immagine che il suo pensiero ha di me è pura e fedele. In essa tutto è chiaro ed ordinato. In questa immagine il mio essere e le mie azioni come pure il corso di tutta la mia vita hanno un senso pieno.

Talvolta, in certi strani momenti, noi siamo come sfiorati dal presentimento, dall'intuizione di questa immagine. Siamo come toccati da questo sentimento:

dietro alla mia esistenza si cela qualcosa che è buono davanti a Dio. Dietro a questa esistenza che mi sembra così lacerata e frammentaria, nella quale oggi accade questo e domani quello; qui viene fatta una cosa e là ne viene fatta un'altra; dove a volte freme la gioia e a volte il dolore, e tutto è spesso così confuso da portare alla disperazione — dietro tutto ciò, nel pensiero di Dio, sta un'immagine che splende di una verità luminosa. Ed una speranza che si muove nella parte più profonda di me stesso, mi dice, con voce lieve: se la sua grazia me lo concede, verrà infine il momento in cui io mi incontrerò con questa mia immagine e in qualche modo, nonostante tutti i fallimenti e tutti i disastri della mia vita, mi unirò ad essa nell'eterna luce. Ed allora, infine, io sarò nella mia vera realtà...

Ispirati da questi pensieri, noi gettiamo uno sguardo profondo entro la parola di san Giovanni. Essa ci

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dice: quando il tuo cuore ti rende inquieto; quando tu senti che nulla è come dovrebbe essere; quando questa o quella responsabilità pesa su di tè — forse quella grande corresponsabilità che si prova di fronte a tutto ciò che è umano — abbandonati in tal caso con fiducia alla onniscienza di Dio. Egli sa tutto nel suo amore eterno, egli sa anche quello che ti concerne. Ed un giorno non solo egli ti mostrerà a tè stesso, ma farà in modo che la sua eterna idea ed il tuo essere vivente non siano che una cosa sola nel mistero della Redenzione. Egli lo farà, in qualche modo. Allora ogni accusa del cuore tacerà. Allora il grande 'perché', che ha sempre vanamente interrogato, riceverà la sua risposta.

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L'AMORE DI DIO

In queste meditazioni noi abbiamo già parlato varie volte dell'amore di Dio. E come avrebbe potuto essere altrimenti, quando proprio la rivelazione di questo amore è stato il grande compito affidato all'apostolo Giovanni! Ma la comprensione del messaggio cristiano dell'amore è una cosa così importante che noi vogliamo adesso dedicarci esclusivamente alla risoluzione del problema di questo amore, del suo vero signiEcato. Le nostre riflessioni assumeranno, in un primo momento, un carattere piuttosto filo-sofico, per cercar poi di penetrare, ancor più profondamente, nel significato della Rivelazione.

Il quarto capitolo della nostra lettera dice nei versetti che vanno dal settimo al decimo: "Carissimi, amiamoci l'un l'altro, perché Pamore è da Dio e ognuno che ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.

L'amore di Dio si è manifestato in ciò: Dio inviò il Figlio suo, l'Unigenito, nel mondo, affinchè noi vivessimo per mezzo di lui. In questo sta l'amore:

non noi amammo [per primi], ma egli amò noi [per primo] e inviò il Figlio suo ad espiare per i nostri peccati".

In queste frasi noi troviamo espressa la seguente domanda: da dove viene l'amore? Dov'è che esso ha il suo inizio? Ed assieme con questa domanda

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viene anche data la relativa risposta. Noi dobbiamo aggiungere, immediatamente, che qui si parla del vero amore; di quell'amore che il Nuovo Testamento intende, quando esso usa questa parola.

Per comprendere meglio il senso delle affermazioni di Giovanni in materia, noi immagineremo che alcuni amici, seduti alla stessa tavola, si scambino le loro idee riguardo al significato che la dottrina cristiana attribuisce all'espressione 'amore di Dio' e che il primo dica:

Questo amore proviene dalla parte più intima del cuore umano. Esso rappresenta la sua forza più vera e più specifica. Per lungo tempo questa forza è rimasta imprigionata a causa della lotta che infuriava dappertutto, impegnata dagli uomini contro la natura, dall'uomo contro l'altro uomo; in tal modo essa non potè manifestarsi. Ma nel corso della storia l'egoismo umano è stato domato in modo tale che il cuore dell'uomo è divenuto così libero da poter considerare anche il diritto e le necessità del prossimo e da sentirsi responsabile nei suoi confronti. Così è sorto quel sentimento, quella disposizione spirituale, che noi chiamiamo altruismo. L'altruismo, in opposizione al suo contrario, l'egoismo — che ha presente soltanto Yego, il proprio io — pensa anche, e questo in modo spontaneo, sìì'alter, all'altro uomo, al prossimo.

Il cristianesimo non è altro che l'espressione di questo altruismo. Il suo solo merito è stato quello di aver tradotto questo sentimento, già latente nell'uomo, in una gerarchla di valori, in un ideale umano, quando i tempi furono abbastanza maturi per poter far questo. Esso ha — e non poteva essere

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possibile diversamente — situato la perfezione di questa morale dell'amore in Dio stesso; in un Dio, che viene inteso come colui che, con assoluta bontà, pensa agli 'altri', vale a dire alle sue creature. Gesù di Nazareth fu la grande personalità che incarnò e realizzò, nella maniera più pura, questa disposizione spirituale assieme con la concezione di Dio che su di essi si basa. Egli ha anche creato, mediante il suo linguaggio, la sua dottrina e il suo simbolismo religioso, l'espressione storicamente efficace di tal concezione.

Questo è il significato delle frasi di Giovanni che noi abbiamo lette, conclude riassumendo il primo interlocutore.

A lui un secondo interlocutore risponde: Tu fraintendi completamente il senso di queste frasi, poiché, al decimo versetto, l'apostolo dice con parole molto chiare: "In questo sta l'amore: noi non amammo [per primi] Iddio, ma egli amò noi [per primo]". L'amore di cui parla il messaggio cristiano non ha inizio nel cuore umano, bensì in Dio. Noi abbiamo anche una grande espressione filosofica di questa verità nella dottrina di Piotino. Secondo questa dottrina, Dio è l'infinitamente ricco, incommensurabile nella sua essenza, sovrabbondante di forze di vita. E lo è a tal punto che egli non può rimanere in se stesso, ma deve invece effondersi. Egli diventa in tal modo un principio creatore e l'immagine che meglio lo rappresenta è quella della fonte, della sorgente. La sorgente, infatti, può essere soltanto in quanto essa scorre. Nello stesso modo Dio deve, per sua essenza, riversarsi al di fuori ed è così che ha origine il mondo. L'amore di Dio che si dona, a

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causa della sovrabbondanza di questo amore, è la radice di ogni essere ed il mondo non è altro che la pienezza divina comunicata, l'amore che si è concretizzato in un corpo.

Non appena il mondo emanato da Dio ha preso forma, ha acquistato la sua autonomia, incomincia il movimento inverso, in dirczione della "sorgente". Questo movimento passa attraverso tutte le cose, ma nell'uomo esso prende coscienza di se stesso. L'uomo infatti riconosce la comune origine, dalla quale tutto proviene, e che è quindi anche la sua origine. Risponde all'amore del Dio che si è donato, che si è comunicato, con il suo amore, con la sua nostalgia per la patria divina e si sforza di ritornare alla primitiva unità attraverso i diversi gradi della purificazione, dell'illuminazione e dell'unione.

San Giovanni è quell'apostolo, quell'araldo del cristianesimo che ha operato il collegamento fra la dottrina neoplatonica dell'autodonazione, dell'autocomunicazione di Dio e la persona di Gesù, portando quella dottrina ad un ulteriore sviluppo sulla base dell'insegnamento del suo Maestro.

Un terzo interlocutore interviene per confutare quanto è stato detto prima e dice a sua volta: Tale interpretazione non è accettabile. Il modo in cui Piotino parla dell'amore dell'essere supremo mostra, sì, chiaramente che egli lo intende come spirito, ma come uno spirito, però, che equivale a una specie di potenza naturale. Il suo Dio non è libero. Nello stesso modo in cui la sorgente deve effondersi e scorrere per essere veramente sorgente, così questo Dio deve donarsi e comunicarsi in quanto proprio ciò richiede la legge stessa della sua natura.

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Nel messaggio di Gesù — e quindi anche in quello dell'apostolo — Dio, invece, è assolutamente libero. Egli è Signore per essenza. Il mondo non 'emana' da lui, ma è lui che lo 'crea dal nulla'. Egli non è costretto a far ciò da una 'necessità', si tratti pure di una necessità che è intima alla sua natura, ma agisce invece sulla base di un suo sovrano ed imperscrutabile giudizio.

A dire il vero, proseguirebbe questo terzo interlocutore, da tutto quello che io ho detto sorge un grande enigma: come è possibile che questo Dio ami il mondo e l'uomo? Quale motivo può averlo indotto, lui, che è infinito ed eterno, che basta a se stesso, a stabilire una simile relazione con il finito? Com'è addirittura possibile tale rapporto dell'Essere assolutamente libero, con l'essere contingente, condizionato? Quando io rifletto su questo enigma, non mi riesce di trovare alcuna risposta soddisfacente. Io preferirei pertanto dire che l'intera dottrina della creazione del mondo da parte di Dio e della sua inclinazione, della sua benevola propensione nei confronti dell'uomo, non è che il simbolo di una realtà assolutamente incomprensibile, che sarebbe meglio considerare con molta venerazione senza però voler trovare una spiegazione per essa.

Le affermazioni di questo terzo interlocutore potrebbero trovare una risposta. Un quarto potrebbe dire, infatti: Tu non rendi giustizia al mondo. Tu invero non hai ancora fatto l'esperienza della sua ricchezza. Tu non hai ancora preso coscienza di tutto ciò che il mondo racchiude in sé: quale inesauribilità di forme e di processi, quale enorme e nello stesso tempo minuta trama di rapporti, che non sarà mai

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possibile comprendere interamente. Dovunque tu porti la mano, troverai sempre del nuovo e sempre al suo giusto posto. La scienza continua a ricercare senza poter mai giungere ad una conclusione finale, poiché l'ultima risposta ad un interrogativo ne porta con sé una catena di nuovi.

E quale grandezza nell'universo! Noi che abitiamo sulla terra abbiamo il sole come centro del suo movimento. Ma la terra, insieme col sole, non rappresenta che un minuscolo elemento nel sistema della Via Lattea. Ora gli scienziati ci dicono, al riguardo, che esistono più di un milione di sistemi stellari della stessa grandezza. E quanto vale per ciò che è grande, vale anche per ciò che diviene sempre più piccolo. Più la scienza penetra in profondità, più le forme divengono minuscole, più potenti sono le energie che vi si scoprono legate.

Se poi portiamo il nostro sguardo all'uomo — quanti misteri si nascondono nella sua piccola figura! Una antica espressione lo chiama infatti ml-krokósmos, un secondo piccolo mondo, in quanto egli ripete il primo, lo riassume entro gli stretti limiti della sua figura umana. E poi, pensa un po' a tutto quello che l'uomo sa compiere: a quella sterminata grandezza che si esprime nei concetti di conoscenza, di valutazione, di ordine, di creazione. Pensa alle comunità umane, alle strutture politiche che crescono di grandezza, al corso senza fine della storia. Non sarebbe tutto ciò abbastanza grande, ricco e nobile per rappresentare un oggetto degno dell'amore di Dio?

Ma il precedente interlocutore ribatterebbe, a sua volta: Quello che tu hai detto può far subito una

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grande impressione; ma quando ci si sia un poco ripresi è possibile vedere, fin troppo chiaramente, quale sia la realtà vera: tu puoi ammucchiare le grandezze, accumulare gli splendori, quanto vuoi. Non raggiungerai mai la grandezza e lo splendore glorioso del Dio assoluto. Non potrai mai raggiungerli per una ragione che riguarda la loro stessa essenza. Infatti, l'amplificazione di ciò che è finito non potrà mai raggiungere, e neppure avvicinarsi, a colui che è, in senso stretto e realmente, l'Infinito; egli sta al di là di ogni misura e di ogni realtà. E come può Dio amare questo mondo e quest'uomo, che non sono assolutamente paragonabili a lui?

E non dimenticare questa circostanza: qui si parla di amare sul serio, perché tale è il significato del messaggio cristiano. Ma che vuoi dire amare 'sul serio'? Non significa soltanto voler del bene al mondo, allietarsi che l'uomo viva e sia felice, assisterlo nelle sue necessità. Tutta la serietà di questo amore appare solamente quando — e qui permettimi di usare, in questa discussione, una parola che, a dire il vero, noi non potremmo associare all'idea di Dio ma che, purtuttavia, serve a farci comprendere ciò di cui qui si tratta — questo amore si trasforma in destino per colui che ama, cosa che noi riscontriamo nell'esistenza di Gesù. Come può addirittura nascere un tale amore per un oggetto così sproporzionato?

Pertanto io debbo, ancora una volta e con ripetuta energia, affermare: la parola 'amore di Dio' esprime un mistero. Essa parla di qualcosa che oltrepassa la nostra comprensione. E la oltrepassa in un modo così totale e definitivo, che noi non siamo assolutamente capaci di inserirla nella struttura dei nostri pensieri. Se tentiamo di farlo, questa struttura addi-

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rittura salta, va in frantumi, oppure il significato reale e specifico di quella parola si riduce ad un usuale significato umano. L'amore di Dio è qualche cosa di talmente misterioso e grande che, di fronte ad esso, non si può far altro che tacere e cadere in ginocchio.

La discussione di questi quattro interlocutori ci ha condotti ad un punto dal quale noi dobbiamo partire, con tutta la riverenza ma anche con tutto il coraggio della fede, per dire ciò che deve esser detto.

Che cosa accade in un incontro, che sia abbastanza profondo, fra due esseri umani? Di regola accade che tutti e due possono arrivare a conoscersi reciprocamente ed a stabilire dei rapporti di simpatia, di benevolenza, di scambievole aiuto o che dir si voglia;

fra essi però esiste sempre una barriera. Questa barriera si esprime in frasi di questo genere: io, non lui; lui, non io. Io possiedo questa cosa; perciò non la possiede lui. Egli è malato; io non lo sono. Questa barriera ha la sua origine nella autonoma individualità di questi due esseri; essa li protegge l'uno dall'altro. Ed è necessario che sia così, altrimenti nessuna esistenza personale sarebbe possibile ed ogni essere umano sarebbe introdotto violentemente nella vita degli altri.

Ma quando una persona umana si volge verso un'altra nella serietà dell'amore, la barriera di cui parlavamo cade; e ciò avviene in maniera tanto più completa, quanto più pura è la serietà di questo amore. Una madre, il cui figlio sia caduto ammalato, non dice più: lui, non io. Invece è, come se fosse lei stessa ammalata. Un uomo non respinge il suo

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amico afflitto con le parole: lui, non io, ma egli partecipa direttamente al suo sentimento, al suo dolore. Quando un uomo ed una donna sono uniti da un vero amore, ciascuno di essi accoglie l'altro in se stesso: lui, e perciò anch'io. Ciò che accade alla persona amata entra a far parte del destino della persona che ama; e questo tanto più direttamente ed incontestabilmente quanto maggiore è la purezza con cui l'amore nasce dalla serietà della persona e dalla verità del cuore.

Ed ora Giovanni ci dice, esprimendo in tal modo quanto vi è di più profondo nella Rivelazione: la stessa cosa è capitata nel caso di Dio. È con una divina serietà che egli ama il mondo, l'uomo; e qui ognuno di noi può dire: ama me.

In una esposizione di una verità che sia fatta in modo serio, bisognerebbe, a dire il vero, non far mai entrare nulla di personale. Ma queste nostre riflessioni hanno il carattere di meditazioni; non hanno per oggetto, pertanto, la pura teologia o semplici consigli pratici che debbano servire nella vita, ma qualche cosa nella quale il pensiero e la vita si intrecciano, si collegano strettamente. E questa stretta colleganza garantisce della sua attendibilità proprio per il fatto che colui che vi parla le sta dietro, con la sua esperienza personale. Per questa ragione spero che mi venga concesso di parlare a titolo personale.

Da lungo tempo, senza tregua, io sono assalito dal seguente interrogativo: come è mai possibile che Dio ami il mondo e l'uomo? Quando si sia fatta piazza pulita di tutti i sentimentalismi e di tutte le idee facili e comode che si nascondono dietro frasi come "il Padre buono del cielo" od altre dello stesso genere, e si sia cercato di pensare in maniera seria,

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questo interrogativo incalza e si fa pressante: come è possibile che colui che è infinito ed eterno ami l'uomo finito? Che Dio ami l'uomo, che ha saputo portare questa sua finitezza sino all'oltraggio della rivolta? Si sarebbe quasi tentati di dire: si addice a Dio un simile amore? Non ne viene pregiudicata la stessa dignità di Dio? E questo tanto più quando noi sappiamo, perché ci è stato così rivelato, che egli, per amare, non aveva affatto bisogno di noi, in quanto un amore eterno e personale già esiste nel seno dello stesso Dio, fra le persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Come sia possibile una cosa simile, senza che venga infranta l'unità di Dio, noi non lo possiamo comprendere. Ma quella verità, per la quale i primi secoli hanno lottato con tanta passione di fede, ci insegna, infatti, che vi è un Dio solo, ma che in questo Dio unico si trovano la parola e la risposta, la generazione di un Figlio dal Padre, ed una comunione nella verità e nell'amore. Dio non ha pertanto bisogno del mondo per poter amare, Che ci sta dunque a fare, che senso ha l'amore di Dio anche per noi?

Io ho fatto l'esperienza che non è possibile di venire a capo di un simile interrogativo finché non si decida di dire a noi stessi: il tuo modo di ragionare è sbagliato, perché metti alla base dell'idea che tu ti fai di Dio la norma, la concezione, del-1' 'essere assoluto' elaborata dallo spirito umano. Ora tu non devi chiederti se Dio possa fare questo o quello, e concepirlo in tal modo come l'Assoluto della filosofia. Devi invece ascoltare la Rivelazione;

ed essa ti dice: Dio agisce in questo modo. Egli è fatto in modo tale che può compiere simili cose;

perché ai suoi occhi è eternamente bello e grande

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l'agire così. E l'altro Dio, quello della 'perfetta assolutezza', non esiste affatto; egli è una semplice creazione umana. Dio ama il mondo; ama l'uomo, anche quello che lo ha oltraggiato col peccato; ama anche me. È questa la grazia assoluta, dalla quale provengono tutte le grazie. Tu devi partire da quello che ti dice la Rivelazione. Aver fede non vuoi dire pretendere di giudicare colui che ti si rivela partendo dal tuo umano punto di vista, ma significa invece ascoltare la sua parola e fare di essa il punto di partenza sia del tuo pensiero che del tuo giudizio.

Quando si sia arrivati a comprendere questo, allora si dirà: il Dio che è realmente, è colui che si comporta in questo modo. E questa verità trova la sua espressione nella parola della Scrittura che dice:

"Dio è amore" (1 Io. 4, 8). È questa una frase inaudita e piena di un enorme significato! Si cerca di rendere le cose molto più facili di quanto non sono in realtà quando si afferma che ci troviamo di fronte ad una specie di platonismo, la cui caratteristica consiste nel trasformare i concetti astratti in essenze, in eterne realtà. O no; qui non si dice che quest'amore è un atto che questo o quello, Dio incluso, può compiere, ma, al contrario, che esso è l'atto che egli soltanto può compiere, che non appartiene che a lui, nello stesso modo in cui la sua natura, la sua essenza, gli appartiene. Ma, siccome in Dio non v'è distinzione alcuna fra essenza ed atto, in quanto egli non soltanto 'compie', ma 'è' il suo atto, nella semplicità della vita eterna, l'amore di cui Giovanni ci parla è, dunque, Dio stesso.

L'amore è un nome divino. Chi dice 'amore', dice •Dio'.

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È soltanto partendo da questo punto di vista che la Rivelazione, iniziata nell'Antico Testamento e giunta alla sua totale pienezza nel Nuovo, diviene accessibile in tutto il suo significato: Dio è colui che ama il mondo sul serio. Perché egli lo faccia, nessuno è in grado di poterlo giudicare. Dio lo fa perché così egli vuole; sia lodato Iddio perché vuole così.

Poiché Egli lo vuole, Dio attira a sé il mondo in modo tale, che questo diviene per lui un destino d'amore: "Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, l'unigenito... affinchè il mondo sia salvato per mezzo di lui", leggiamo nel Vangelo di san Giovanni (3, 16-17). E dove è possibile riscontrare un 'destino d'amore' più grande che in Cristo, venuto a noi dalla santità del Dio vivente; quel Cristo, il quale null'altro voleva che fare fluire entro di noi la sua vita e che è stato tolto di mezzo nello stesso modo in cui si toglie di mezzo un pericoloso malfattore? Anzi, è proprio questo che bisogna dire:

egli è stato trattato in quel modo, non "sebbene egli ci amasse", ma proprio "perché egli ci amava"; perché egli era venuto in questa divina disposizione di spirito, degna pertanto di essere adorata, per "fare la volontà del Padre" (Io. 6, 38) e non fu, invece, riconosciuto.

Questo amore che viene da Dio verso di noi deve mettere radici nel nostro cuore ed essere da noi trasmesso agli altri: "Carissimi, amiamoci l'un l'altro, perché l'amore è da Dio e chiunque ama è generato da Dio " (1 Io. 4, 7). Nell'uomo che, mediante la fede, si unisce all'eterno Vivente, un miracolo si compie. Una vita. nuova, venuta da Dio, nasce in lui: a quest'uomo viene concesso, nonostante tutta

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la debolezza che deriva dalla sua finitezza, di fare quello che fa Dio.

Fino a qual punto una cosa simile avvenga in realtà, fino a qual punto una persona umana possa realizzare questa possibilità, è un altro discorso. Ma questa possibilità esiste; l'ineffabile possibilità di oltrepassarci, di andare al di là di noi stessi; non soltanto nella umana simpatia, non soltanto nel dovere oppure in una delle molte corresponsabilità della vita personale; ma partecipando, invece, a quel mistero per il quale Dio ha voluto che il mondo fosse;

per il quale egli ha attirato a sé questo mondo e gli si è donato in un modo tale da far dire a Giovanni:

Dio ama il mondo.

È di questo mistero che ci parla, in fondo, l'intera prima lettera di san Giovanni. Dipende da noi il credere o il non credere alla sua realtà. E dipende anche da noi la misura nella quale riusciamo a porci in comunione con esso e cerchiamo di mettere in opera la sua forza. E tutto questo con continuità, senza stancarci, nonostante tutti gli ostacoli che vengono frapposti dall' 'uomo vecchio' e dal 'primo mondo'.

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LUCE DELL'AMORE

In una delle precedenti meditazioni noi abbiamo riflettuto su quel passo nel quale si parla della luce. Abbiamo interpretato questa luce come un simbolo della vita dello spirito; più esattamente, di quella vita che lo spirito vive nella conoscenza della verità. Nel secondo capitolo della stessa lettera, ora, noi troviamo il testo seguente: "Chi pretende d'essere nella luce e ha in odio il suo fratello, è tuttora nella tenebra. Chi ama il suo fratello dimora nella luce ne per lui c'è occasione di scandalo. Ma chi odia il proprio fratello è nella tenebra e nella tenebra cammina e non sa dove va, perché la tenebra accecò gli occhi suoi" (9-11).

Questo testo rassomiglia al primo e purtuttavia ne differisce; esso dice in fondo la stessa cosa, ma la considera sotto un profilo nuovo. Questo fatto riconduce la nostra attenzione su una circostanza che noi abbiamo già, in precedenza, considerata e cioè sul modo in cui i diversi pensieri contenuti in questa lettera vengono presentati. Essi non si muovono secondo un piano d'assieme, una linea direttrice, in modo che un periodo sviluppi il precedente e prepari il seguente; ma, al contrario, ogni pensiero sale dalla profondità, si dispiega e ricade nuovamente in basso mentre uno nuovo, a sua volta, viene fuori. Pertanto, ad un primo sguardo, sembra che nella lettera regni una specie di disordine. Ma non è così;

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anche qui vi è un ordine. Si tratta però dell'ordine che regna in uno spirito che è stato commosso — che è stato scosso da una realtà di una potenza sacra. In questo spirito i vari pensieri si muovono come delle onde tranquille, che sono però unite dalla profondità del mare.

Questa unità si esprime in diverse maniere. Ad esempio, determinate parole ricorrono con una certa frequenza, come se volessero imprimere nello spirito, mediante queste ripetizioni, qualcosa di molto importante ai fini della salvezza. Oppure — e ciò avviene proprio nel caso del testo che stiamo esaminando — i vari pensieri si rispondono a vicenda. È come se, con una determinata frase, si levi una voce che dice il suo pensiero; poi un'altra si fa sentire, che esprime a sua volta il suo; e poi ancora una terza, nella quale continuano a risuonare gli accenti della prima. Delle voci, con la loro eco, attraverso questa lettera ed i vari pensieri si uniscono in un'intima armonia.

Nel primo capitolo si parla della 'luce', ed essa viene chiamata luce di verità (5-6). Si passa in seguito ad un altro argomento. Ma poi — nel testo in esame — la luce riappare. Soltanto che essa è ora divenuta "luce dell'amore" (2, 9-10). Nel caso precedente la "tenebra" era rappresentata dalla menzogna; adesso si è trasformata nell'odio. E mentre prima si diceva, a proposito di Dio, che egli è "luce ed in lui non c'è tenebra alcuna", ora leggiamo:

"Dio è amore e chi dimora nell'amore dimora in Dio" (4, 16). In tal modo le varie voci, insieme con la loro eco, passano attraverso questa lettera e fanno di essa un insieme vivente. E riesce a legger bene colui che non cerca dei razionalistici 'perché' e

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'percoine', ma che si immette invece nel suo movimento e vive nella sua vita.

Giovanni ci dice, dunque, che l'amore è luce. Ma com'è possibile una cosa del genere? Noi comprendiamo facilmente che l'idea della verità possa venir espressa mediante l'immagine della luce. Ma come può la stessa immagine essere usata anche per l'amore?

Nella storia del pensiero si trova un'antica e nobilissima tradizione la quale ci dice che la verità, e la conoscenza che noi ne abbiamo, sono sostenute dall'amore. È da questa credenza che la filosofia platonica riceve già la sua intima forza. Essa continua ad essere operante nel neoplatonismo, per trovare infine il suo definitivo sviluppo, ripensata cristianamente, nel messaggio del lumen cordis, della luce del cuore, che è contenuto nell'opera di sant'Agostino. E qui si trova già quel rapporto che lega l'amore alla luce.

Il medioevo riceve l'eredità di sant'Agostino e sviluppa il suo pensiero non soltanto nei suoi trattati e nelle sue opere didattiche ma anche nella poesia. Noi conosciamo il meraviglioso inno della domenica di Pentecoste che, a dire il vero, ogni cristiano dovrebbe sapere a memoria, in quanto è ben difficile trovare una preghiera più fervente diretta alla potenza di Dio, creatrice di vita: Veni sancte Spiri fus "Vieni, o Spirito Santo". In questa sequenza, alla seconda strofa, si trova l'invocazione: Veni lumen cordium, "Vieni o luce dei cuori"! Segue, più avanti, un'altra strofa, la quinta, che può essere recitata a lungo senza che essa ingeneri stanchezza, in quanto ciò che v'è in noi di più profondo risponde alla sua

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profondità con un accordo così gioioso: O lux beatis-sima, reple cordis intima tuorum fidelium, "O luce beatissima, riempi le profondità dei cuori dei tuoi fedeli".

Ed infine, una delle preghiere rivolte allo Spirito Santo dice: "O Signore, tu che hai istruito il cuore dei tuoi fedeli mediante l'effusione dello Spirito Santo". Questo "cuore" che riceve l'effusione dello Spirito Santo, che viene istruito e che apprende, così, la santa verità, che altro è se non l'intimo focolare dell'amore?

Fino a qual punto, dunque, l'amore è luce? Esiste anche una luce che si accende nel cuore oltre a quella, della quale abbiamo parlato nelle nostre precedenti riflessioni e che è propria dello spirito che conosce? A questo proposito bisogna rispondere subito che il "cuore", del quale qui si parla, non ha assolutamente nulla che non sia spirituale e che appartenga invece al sentimento o, peggio, al sentimentalismo. Anche esso è, al contrario, spirito; ma uno spirito pieno di calore, uno spirito che può ardere. Per farci meglio comprendere, noi useremo qui un metodo che è veramente efficace; cercheremo, cioè, di collegare le verità divine ad esperienze che si fanno ogni giorno.

È già capitato ad ognuno di noi di essere di cattivo umore, in preda a tristi pensieri. Tutto, dentro, sembrava essere opaco e pesante. Ma poi ci è capitato di vedere qualcosa di bello, ad esempio un fiore odoroso e dalle forme pure e così, di colpo, il nostro cuore si è rischiarato, è divenuto 'chiaro'. Oppure si camminava, passeggiando, in un bosco. Ad un certo punto, improvvisamente, il buio del bosco si è aperto su una vasta campagna, piena di vita;

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questo spazio libero, disteso di fronte ai nostri occhi, ha ridato la 'chiarezza' anche all'animo nostro. In tal modo, tutto ciò che è bello e libero o che emana da un animo generoso, da una azione nobile o da una parola coraggiosa può apportare all'uomo, che sia sensibile e ricettivo, una 'luce' che illumina il suo cuore. E ciò può avvenire in molti modi. Tutto ciò che ha valore commuove il nostro essere intimo e risveglia una luce nelle sue profondità stesse. Questa luce non resta soltanto all'interno, ma si fa strada fin nell'elemento corporeo, nel viso, nel nostro aspetto, in modo tale che chi in quel momento ci vede dice di noi: "è raggiante".

Ma si può anche rovesciare questo ragionamento e dire: solo colui che ha questa luce nel cuore riesce a vedere tutto ciò che di bello e di luminoso vi è al di fuori di lui. Affinchè un uomo possa accorgersi di tutte le cose belle che vi sono al mondo e fare l'esperienza del loro senso più profondo, non basta che egli possegga uno sguardo acuto ed uno spirito di osservazione molto penetrante. Per colui che possegga soltanto queste qualità esteriori, la gioiosa pienezza di un albero in fiore o la linea delicatissima dei monti lontani sono cose che restano invisibili ai suoi occhi. Bisogna, a tal fine, che una luce già brilli dentro di lui, una luce che riesca a far brillare la bellezza che si trova al di fuori di lui.

E in particolare nelle azioni umane! È poi così facile di apprezzare, per quello che vale veramente, un atto nobile e generoso? Un atto che sia stato ispirato, senza secondi fini, da una pura fede nel bene? Quanto è grande la tentazione di sottoporlo alla critica e di ridurlo in seguito a questa critica ad

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una cosa normale, ad una cosa di tutti i giorni. Nell'uomo che già non possegga in se stesso, come una luce interiore che illumina l'esterno, l'aspirazione a ciò che è nobile e generoso, la sua stessa meschinità salirà in cattedra e renderà grigio ed opaco l'atto più lucente e puro... Oppure quando si tratti di un gesto ardito, mediante il quale un uomo si sia gettato, senza esitazioni, contro il pericolo. Noi sappiamo già, purtroppo, quanto la pazzia sia vicina alla vera grandezza. Quale sollievo dunque per la nostra mediocrità, quando noi possiamo atteggiare la bocca ad un sorriso, a causa di un novello Don Chisciotte! E non parliamo di una fedeltà che dura da anni e che offre pertanto, alla banalità dell'uomo comune, il modo di poter sentenziare che è cosa stupida il sacrificarsi fino a quel punto; della magnanimità che rinunzia al suo, mentre gli altri se la spassano allegramente; della bontà che continua a perdonare; della disponibilità nei confronti degli altri, che non si lascia spaventare da alcuna disillusione; dell'onestà che preferisce ricevere un danno piuttosto che mancare alla parola data;

e così si potrebbe continuare. In tutti questi casi, ci è possibile di scorgere subito, ad una prima occhiata, il valore di tutte queste umane qualità, quando invece in noi uomini è all'opera una tendenza, forte e astuta ad un tempo, che ci porta a svalutare tutto quello che fanno gli altri per poter così innalzare noi stessi? Non deve lo sguardo, per poter cogliere tutto quel valore, emettere esso stesso una luce, che

10 illumini e lo metta in evidenza? E la nobiltà delle azioni veramente pure e generose non ha forse modo di manifestarsi solo quando il nostro occhio le lascia

11 campo libero? Le cose stanno così. Colui che in questi casi vuole vedere giusto ed apprezzare tutti

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questi valori per quanto essi valgono, deve riconoscere agli altri il posto che loro compete. Deve anzi gioire che un altr'uomo si trovi così in alto, lo deve, cioè, amare.

Anche quando si tratti di dover conoscere il male che si trova negli altri — le loro debolezze, i loro difetti, i loro vizi — chi è in condizione di poter meglio giudicare questi uomini, tenendo conto di tutti gli aspetti e di tutti gli elementi che compongono la loro natura? Il giudice che fa un freddo esame, che è, anzi, carico di disprezzo, o chi invece desidera che l'errante riconosca il pericolo in cui si è messo, perché possa in futuro dominarsi e superarlo; l'uomo, cioè, che possiede un amore pieno di umano interesse e sollecito dell'educazione degli altri? Chi comprende più profondamente la colpa del prossimo: colui che esige una riparazione oppure l'uomo che riesce a perdonare? Ed il perdono reale, inferiore, che cosa è se non amore? E chi giudica più Sanamente del vizio: l'intollerante in materia morale, oppure colui nei cui occhi brilla la scintilla dell'umorismo, l'uomo che riesce a vedere come anche le cose peggiori possano avere un loro posto negli intrecci e nei grovigli della vita? Ed anche questo modo di saper veramente giudicare che cosa è, se non amore?

Ma noi vogliamo portare tutti questi interrogativi fino al nocciolo, sino al fondo del problema. E ci chiediamo nuovamente: come è addirittura possibile conoscere un altro uomo? Certamente, esistono dei punti di vista generali secondo i quali egli può divenire oggetto di riflessione ed essere classificato: una tipologia, delle strutture, delle forme di organizza-

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zione, delle analisi di ambiente e così via. Si tratta però, in questo caso, di una conoscenza obbiettiva ed astratta; si potrebbe quasi immaginare che un giorno vengano costruiti degli apparecchi per assolvere ad un tale compito. Ma ciò che vi è di più specifico e di più essenziale in un essere umano, il fatto cioè che egli è proprio 'quest'uomo' e non un altro, rifiuta di inserirsi in qualsiasi struttura di carattere oggettivo. Nessun concetto astratto serve ad indicarcelo, ma soltanto un nome: il suo. Solamente a partire da questo primo dato tutto il resto acquista il suo carattere, in quanto rappresenta la maniera in cui quell'uomo che porta quel nome esiste e vive. Ma ci riesce di comprendere questo primo dato, specifico ed essenziale? Di comprendere quest'uomo, che è fatto in questo modo, che così vive la sua vita, che realizza il suo destino nella maniera in cui egli lo realizza?

Non vi riusciremo certamente con il puro ragionamento, ma soltanto mediante una lucida sensibilità che ha la sua sede nel cuore. Mediante un movimento che ci fa entrare e partecipare del corso della sua vita, che ci fa cogliere i ritmi sul fondamento dei quali si realizza il suo essere. Questo movimento si chiama simpatia. Ma occorre una cosa, ancora: occorre che noi diamo il nostro pieno consenso alla sua esistenza, al modo in cui egli esiste. Ciò non vuoi dire che quest'uomo debba, necessariamente, sempre piacerci o che noi dobbiamo trovar giusto tutto quello che egli fa. Dobbiamo però riconoscergli il diritto di essere conforme alla propria natura; di vivere come meglio gli si conviene; di sviluppare la propria personalità e di essere sempre più se stesso. Ed anche quando noi esercitiamo una critica nei suoi confronti,

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bisogna che essa abbia per base quel consenso fondamentale. Deve essere in accordo con questa sua natura vera e specifica e dirigersi contro tutto ciò che la mette in pericolo.

Non si tratta qui, certamente, di cose ovvie e naturali e che possano essere realizzate con facilità. Cerchiamo di osservare, ad esempio, quali sono le nostre prime reazioni nei confronti di una persona che ci capita di incontrare per la prima volta: con quanta rapidità noi reagiamo nei suoi confronti con un sentimento di diffidenza, oppure di antipatia, di disprezzo, di freddezza. Finché noi ci manteniamo in questo atteggiamento, nessuna comprensione per questa persona è possibile. E quella critica che noi esercitiamo partendo da un simile atteggiamento potrà, dal punto di vista oggettivo, essere un modello di precisione; essa non coglierà mai l'essenziale e sarà quindi, falsa, perché non le riesce di vedere 'lui'.

Se approfondiamo maggiormente questi concetti, riusciremo ad avere un'intuizione, un presagio, del modo in cui Dio può giudicare un essere umano. Egli ha dato a quest'essere umano l'esistenza; è questo l'inizio del suo amore, il mistero del suo atto creatore. Se Dio giudica in seguito che quest'essere umano si comporta male, egli non ripudia questo amore, bensì lo conserva; anzi lo continua anche nel suo giudizio. Il giudizio di Dio sopra un essere umano è la continuazione dell'amore mediante il quale egli lo ha creato — attraverso tutte le connessioni che risultano dalle cause naturali e storiche; ed il fatto che questa divina disposizione d'animo agisce presso lo stesso credente è il segno della vita nuova che in lui si è incamminata verso il messaggio della salvezza.

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Nella lettera sta scritto: "Se sapete che egli è giusto, sapete pure che chiunque opera con giustizia è da lui generato" (2, 29). Ed in seguito: "Guardate quale immenso amore ci ha donato il Padre, così che siamo chiamati figli di Dio e tali realmente siamo. Per questo il mondo non ci conosce, perché non conobbe lui" (3, 1). Ed ancora: "Noi, amando i fratelli, sappiamo d'essere passati dalla morte alla vita. Chi non ama dimora nella morte" (3, 14). Ed infine:

"Chi ama il suo fratello dimora nella luce" (2, 10).

Ma come è difficile giudicare in tal modo e come comprendiamo adesso le parole di Gesù: "Non giudicate!" (Mt. 7, 1). Ogni giudizio nel quale manchi questa affermazione d'amore per l'esistenza altrui conduce, alla fine, a rifiutare all'altro il suo diritto all'esistenza. È la luce dell'amore che riesce a trionfare dell'ostilità che sta in agguato dentro di noi. Quale madre potrebbe essere veramente madre per suo figlio, se essa non avesse questa luce nel cuore e negli occhi? Chi, senza di essa, potrebbe essere veramente amico per il suo amico? Come potrebbe colui che ama diventare quale se lo attende la persona amata, se in quest'ultima non ardesse la luce dell'amore, quella luce che sola è in grado di aiutare, perché da calore? Chi potrebbe essere realmente un educatore se non gli riuscisse di vedere, nel lumen cordis, nella luce del cuore, la gioventù che gli è stata affidata? Ma il cristiano deve, in virtù della sua fede, portare questa disposizione d'animo in ogni incontro umano.

Non appena incomincia a nascere l'odio, dice Giovanni, le tenebre si formano: "Ma chi odia il proprio fratello è nella tenebra e nella tenebra cammina e non sa dove va, perché la tenebra accecò gli occhi

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suoi" (2, 11). Non è necessario perché una cosa simile avvenga che il sentimento che si dirige contro l'altro assuma la forma terribile che esso ebbe nel primo Eglio di Adamo, Caino: egli non poteva neppure sopportare che suo fratello Abele fosse puro e buono; finché un giorno non ci vide più e lo uccise, in campagna (Gen. 4, 8). Cerchiamo di ricordarci delle parole contenute nel discorso della Montagna: "Avete udito che fu detto agli antichi: Non ucciderai; e se qualcuno uccide sarà passibile di giudizio. Io, però, vi dico: chiunque si adira contro il suo fratello sarà passibile di giudizio. Chi dice al suo fratello [da sottintendersi: con disprezzo]: 'raca', sarà passibile del Sinedrio; chi gli dice [nuovamente: con odio] 'stolto', sarà passibile della Geenna del fuoco" (Mf. 5, 21-22). L'ammonimento del Signore ci dice dunque: quelle tenebre, nelle quali l'immagine del fratello scompare in modo così radicale che non ci riesce più, assolutamente, di scorgerla; quelle tenebre, nelle quali l'atto omicida diviene possibile, cominciano molto prima: nelle parole offensive, nei pensieri pieni di disprezzo, nei sentimenti pieni di veleno, in quel giudizio che rigetta l'errore dell'altro ed, insieme con quest'errore, anche la persona che lo ha commesso.

Se tu lasci che questi sentimenti e questi pensieri crescano in tè, dice Giovanni, l'immagine dell'uomo, tuo fratello, si oscurerà ai tuoi occhi. Tu non potrai più comprenderlo. Le sue parole più chiare assumeranno alle tue orecchie un carattere equivoco. Tu vedrai delle intenzioni nascoste là dove non ce n'è alcuna. Tu non cammini più con lui nella luce, ma, al contrario, nelle tenebre. Che poi qualcosa di veramente terribile possa succedere, potrà dipendere dal puro caso.

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Nel quarto capitolo della lettera sta scritto: "Dio è amore e chi dimora nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui" (4, 16). La luce dell'amore, la quale fa sì che noi possiamo comprendere l'altro è, nella sua forma originaria, fatta a somiglianzà di quella disposizione di spirito che è propria di Dio. Ma il linguaggio di Giovanni si esprime in un modo molto ardito, ed egli ci dice: l'amore è Dio stesso.

Noi incontriamo già quest'amore all'inizio di ogni cosa. Esso rappresenta, addirittura, il vero motivo per il quale noi esistiamo. Abbiamo mai cercato di compenetrarci di quella verità, la quale afferma che il mondo non è necessario, che avrebbe anche potuto non essere? Per il mito, esso deve esistere necessariamente; per il neopaganesimo che ha riposto la sua fede nella natura, anche; ma non per la Rivelazione. Essa ci dice: il mondo è perché Dio vuole che esso sia. Ed egli vuole questo perché lo vuole. Il mondo riposa, è radicato nella libertà di Dio; e la disposizione fondamentale, l'anima, di questa libertà è l'amore.

Tuttavia nel dir ciò dobbiamo usare cautela. Questa affermazione non vuoi dire che noi possiamo domandarci il motivo che ha spinto Dio a creare il mondo nello stesso modo nel quale noi ci domandiamo perché una determinata persona si da tanto da fare con un duro lavoro e la risposta relativa ci dice poi che egli fa questo perché ama i suoi figli. Per l'azione umana esistono dei differenti motivi: la riconoscenza, il proprio vantaggio, la necessità, e così via. Fra tutti questi motivi esiste anche l'amore ed è proprio questo sentimento che in questo caso determina l'azione della persona della quale parliamo. Ma quello che Dio fa quando egli crea il mondo non

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rappresenta un caso in mezzo a tanti altri, bensì qualche cosa di assolutamente unico; ed anche il motivo che lo ispira, vale a dire l'amore, è al di fuori di ogni paragone. Dio non ha bisogno di nulla, non ha bisogno del mondo. Quando egli lo crea, non diviene per questo più ricco, più felice o più sapiente. Egli non ha neppure obbligo alcuno che lo costringa a crearlo. Non esiste una norma che lo richieda ne una ragione di convenienza che lo consigli.

Anzi, si potrebbe persino pensare — e si tratta qui di un'idea folle, come è del resto folle tutto quello che noi possiamo cercare di dire sui motivi che ispirano l'azione di Dio; ma la esprimiamo lo stesso, in quanto può essere un'idea chiarificatrice — si potrebbe persino pensare che sarebbe stato meglio per Dio se egli non avesse creato il mondo perché, in tal caso, esso non sarebbe stato incessantemente sospeso alla sua potenza; lui, l'Infinito-assoluto, e questo mondo il quale, nonostante la sua enorme grandezza, è così piccola cosa di fronte all'immensità di Dio! Ma che egli voglia che il mondo sia, che lo voglia liberamente e con divina gioia — questo è proprio l'amore del quale ci parla la Rivelazione. Perché Dio ama così? Quali sono le ragioni del suo amore? Si potrà riflettere una intera vita sopra questo mistero senza alcun risultato; questo amore non ha infatti un motivo che possa precederlo. Esso è il puro inizio; la causa prima di tutto ciò che da esso ha origine. Ma lo stesso inizio non ha alcuna causa, alcun motivo, al di fuori di se stesso. L'amore di Dio è; è da questa prima realtà che tutto il resto incomincia. Egli vuole che anche noi siamo e sia pertanto lodato Iddio per il fatto che noi possiamo essere; che possiamo essere a causa del più santo di

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tutti i motivi: perché il suo amore vuole così.

È con questo stesso amore che Dio comprende le sue creature: ogni cosa, ogni avvenimento, ogni essere umano. Gesù dice: "Anche i capelli del vostro capo sono numerati" (Mt. 10, 30). Egli conosce tutto su di me. Ma no! Egli non conosce 'tutto su di me', ma conosce "me"! Questa conoscenza piena d'amore procede dal suo cuore per entrare in ciò che io posseggo di più intimo e personale. Dio mi penetra sino in fondo col suo sguardo, mi avvolge e mi protegge, mi garantisce. Questa conoscenza, amorosa e potente allo stesso tempo, giunge sino all'interno del mio essere. Essa si trova là, in quel punto nel quale io confino col nulla e mi mantiene nell'essere e nella realtà.

Nell'intimo centro di tutto ciò che è si trova la luce dell'amore divino. Per questo Giovanni ci dice:

Se tu vuoi che questa luce acquisti tutta la sua forza nella tua vita, anche tu devi amare e tu puoi farlo perché essa tè ne dona la capacità. Ma per l'uomo del nostro tempo egli aggiungerebbe: Non dimenticare che, nell'epoca nella quale tu vivi, tutte le parole del santo messaggio si sono degradate, hanno perduto la loro forza primitiva. Con la parola 'amore' il Signore non vuole intendere l'attività di beneficenza e di assistenza che ha caratterizzato questi ultimi cento anni, per quanto buona e giusta essa possa essere. Essa è ormai entrata a far parte delle istituzioni dello Stato moderno; ma anche di fronte alla sua presenza non si deve dimenticare con quanta fredda indifferenza l'amministrazione di quello stesso Stato passi sopra i più vitali e sacrosanti diritti degli uomini, qualora lo ritenga utile per le sue finalità

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di carattere politico. L'origine ed il modello di quell'amore che Dio esige si trovano nello stesso Iddio, in lui che è il creatore ed il redentore. E l'uomo al quale Giovanni si rivolge è quello "generato da Dio";

colui che è nato dalla vita di Dio, mediante una nuova nascita, che ha la sua origine nella fede e nel battesimo, ed il cui amore deve partecipare alla vita dell'amore divino.

Quest'uomo dovrà esaminarsi continuamente tenendo per modello la divina disposizione d'animo rappresentata dall'amore ed agire in conformità. È di qui che nasce la dottrina relativa al "prossimo";

questa parola indica qualcosa di più e di diverso dall'uomo che ha la ventura di trovarsi vicino a me;

essa significa piuttosto quell' "altro" che la Provvidenza divina, nelle varie circostanze della vita, conduce verso di me perché ogni volta fra me e lui si rinnovi il mistero della fraternità nel Cristo e che io devo amare "come me stesso" (Mt. 22, 39). Dunque, io non dovrà soltanto evitare di fargli il male che anch'io non vorrei subire, ma dovrò fare a lui tutto il bene che vorrei che fosse fatto a me. Un simile atteggiamento può portare fino al punto di dover "offrire per i fratelli le nostre vite" (1 Io. 3, 16). Ma noi non vogliamo parlare troppo di un amore così grande perché tutto ciò ha per lo più l'effetto che, quando si presenta veramente l'occasione di praticarlo, si ama "soltanto a parole o con la lingua". Noi dobbiamo invece amare "coi fatti ed in verità" (3, 18), nella realtà della vita di ogni giorno. E ciò potrà avvenire se noi ci sforziamo di comprendere l'altro. Se ci sforziamo di lasciar recitare anche a lui la sua parte, perché la grande armonia voluta dal Padre nostro che sta nei cieli è com-

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posta di molte voci ed ognuna di esse deve poter risonare con il suo timbro particolare. Dobbiamo aiutarlo, quando ciò è necessario ed in tutta la mi-.sura delle nostre possibilità, con tutta la nostra attenzione ed i nostri sentimenti orientali sempre sull'amore di Dio.

Tutte le volte che noi cercheremo di far questo noi entreremo in quella chiarezza, alla quale pensa Giovanni quando egli ci dice che dobbiamo "camminare nella luce".

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L'AMORE DI DIO E IL DISORDINE DEL MONDO

L'amore di Dio non è quello umano, soltanto innalzato sino a raggiungere la perfezione, ma è l'espressione della sua sovranità. Colui che voglia parlare di questo amore deve farlo nello stesso modo nel quale egli — nella luce della Rivelazione delTHo-reb — dice che Dio è colui che è. La parola pronunziata nel roveto ardente ha posto come base di tutto quello che si può dire su Dio la frase: "Io sono colui che sono" (Ex. 3, 14). Dio è, in modo assoluto;

noi siamo soltanto "davanti a lui". Nello stesso modo il Dio che ama è lui stesso il Signore e l'inizio

•di ogni amore; e ci sia quindi permesso di aggiungere alle parole che egli ha pronunziato sulPHoreb anche quest'altre: "Io amo, io sono colui che ama".

Colui che parla dell'amore di Dio parla di un grande mistero, anzi si potrebbe senz'altro affermare che egli parla di quella che può essere definita la radice dei misteri cristiani. In virtù di questo mistero Dio ha deciso che l'uomo ed il suo mondo dovessero essere importanti per lui. Talmente importanti da determinare il suo destino, se è permesso di applicare questa parola a colui che è il Signore per essenza. La rivelazione della serietà di questo amore divino che genera un destino è rappresentata

•dalla persona di Gesù Cristo e da quello che gli avvenne.

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Ma viene concesso all'uomo, prosegue Giovanni — concesso e nello stesso tempo assegnato come compito — di ricevere questo amore nel suo cuore, mediante la fede e la nuova nascita, e di prenderlo per modello nelle relazioni che egli ha con gli altri uomini, suoi fratelli in Cristo: "Carissimi, se così Iddio amò noi, noi pure dobbiamo amarci scambievolmente" (1 Io. 4, 11).

Noi abbiamo già riflettuto su queste parole. Ma ora potrebbe venir fuori una obbiezione che si è sinora agitata, forse, in modo inquietante dentro di noi. Si potrebbe chiedere, cioè: se è vero che Dio ama gli uomini e il mondo, se egli li ama con divina serietà, non dovrebbe allora l'aspetto di questo mondo essere un po' diverso da quello che in realtà si presenta ai nostri occhi? Perché non ci è possibile di constatare che questo amore è operante e che mediante esso tutto diventa buono? Ed invece, quale disordine! Quanto dolore, quanta ingiustizia, quanta menzogna e quanta violenza!

Qualcuno potrebbe anche tirare questa obbiezione dalla sua propria, esistenza e dire: se l'amore di Dio governa il mondo, perché allora la mia vita è così dura? Perché io ho dovuto così spesso soffrire delle privazioni e delle perdite? Perché, alla mia nascita, ho ricevuto in eredità tanti rischi e tanti pericoli? Perché le mie intenzioni vengono così spesso fraintese e misconosciute? Vi sono delle persone alle quali vengono talvolta dei pensieri di questo genere;

ma esse presto dimenticano e continuano a vivere in ottimismo naturale. Altre invece sono fatte in modo diverso. Questi pensieri continuano a lavorare dentro al loro animo. È come se le loro esperienze

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avessero degli uncini che si attaccano e non vogliono lasciare la loro presa. Pertanto, dopo tante riflessioni di carattere elevato e piene di fiducia, noi ci sentiamo in dovere di dare una risposta onesta e leale anche a queste persone.

Io credo che questa risposta già si trovi in quella stessa parola che abbiamo riconosciuto decisiva per poter intendere il concetto dell'amo! di Dio, e cioè la parola serietà.

Cerchiamo di riandare i nostri pensieri: che piega ha preso la vita dell'uomo sopra la terra? Noi sappiamo che Dio all'inizio lo attira a sé e ripone in lui una incomprensibile fiducia: la fiducia del grande Signore, che quando dona, dona interamente. Così Iddio rimette il suo mondo nelle mani dell'uomo, facendo di lui un essere libero, in grado di conoscere e di giudicare; un essere fatto a sua immagine e somiglianzà, perché sia il suo rappresentante, il suo mandatario, nella creazione.

Finché Dio, nella sua opera creatrice, si limita a creare la terra e il mare, il sole e le stelle, le piante e gli animali, in tutto questo universo non è ancora presente un 'io', ma soltanto delle cose. 'Io' è una parola che soltanto Dio può pronunziare e, a dire il vero, egli può pronunziarla in modo assoluto. Lui, che è il Signore del proprio essere e il Signore del mondo. Ma, nel momento in cui Dio chiama all'esistenza un essere dotato anch'esso di un 'io', ed egli si dona a quest'essere come un eterno 'tu', l'intera esistenza assume un nuovo carattere. Il luogo dove un fatto simile accade può essere così minuscolo, come è minuscola la terra che quasi scompare di fronte alla grandezza dell'universo; la vita di questo

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essere può essere così breve, come è breve la durata della nostra storia umana se messa a confronto con i miliardi di anni dell'evoluzione cosmica; il numero degli uomini che si muovono sulla terra può essere così piccolo, se paragonato alla sterminatezza del cosmo; potremmo anche supporre che uno solo di questi esseri giungesse all'esistenza e che questa durasse un'ora sola; ebbene, il solo fatto che una cosa simile sia potuta avvenire basterebbe già a cambiare tutto. Poiché questo essere sarebbe in grado di conoscere il mondo, di rivolgergli la sua parola, di offrirlo a Dio nella risposta che egli da al suo appello. E ciò basterebbe a decidere del senso di tutto ciò che esiste — quella decisione che è stata affidata all'uomo come un diritto e come un dovere. Ma l'uomo ha tradito la fiducia di Dio. Egli ha cercato di strappare il mondo dalle sue mani. I discorsi blasfemi di tanti filosofi, poeti e potenti del nostro tempo mettono in rilievo, nella sua luce più cruda, il significato dell'atto dei nostri primi progenitori. In tal modo venne rovinata la possibilità infinita che Dio ci aveva donata.

Da tutto ciò è risultata una situazione nuova. Che cosa avviene quando un uomo tradisce un suo amico:

è mai possibile che il traditore e colui che è stato tradito possano semplicemente cancellare e dimenticare il tradimento, come se non fosse mai avvenuto, e continuare nelle loro relazioni come per il passato? Ciò, evidentemente, non è possibile, perché altrimenti la loro amicizia avrebbe mancato di serietà. Questo carattere di serietà, piuttosto, pone di fronte ad una nuova alternativa: o tutto se ne va in frantumi, oppure accade qualcosa di nuovo: un movimento in avanti che nasce dal cuore stesso della vec-

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chia amicizia e che la rende più grande di quanto non sia mai stata in passato.

Avviene qualcosa di simile, di corrispondente, sul piano di quella relazione nella quale Dio ha innalzato l'uomo verso di sé. Non sta a noi giudicare su ciò che era possibile od impossibile per Dio. Certamente egli avrebbe potuto cancellare il tradimento della sua creatura mediante un gesto di grazia benevola della sua mano; ma l'amore di Dio per la sua creatura era di una serietà così terribile che la vita dell'uomo, dopo il suo tradimento, non avrebbe potuto manifestamente continuare così com'era stata per il passato. Quanto il rapporto dell'uomo con Dio, con se stesso e con il mondo sia stato sconvolto fino alle sue fondamenta, noi possiamo constatarlo da questo stesso uomo. Un fraintendimento della conoscenza scientiEca afferma infatti che l'uomo non è che uno sviluppo, una evoluzione, dell'animale e che bisogna pertanto considerare tutto ciò che si riscontra di malvagio nella sua natura e nel suo comportamento come una sopravvivenza, un resto, del combattimento che l'animale deve condurre per la propria esistenza. Ci troviamo qui in presenza di un errore fatale; e quella conoscenza dell'uomo che, a chiunque voglia realmente conoscere, deriva dalla stessa esperienza della propria esistenza, rende possibile giudicare della gravita di quest'errore. L'uomo non è un dato di fatto della natura, soggetto a una conoscenza esauriente. Il profondo disordine che regna in tutto ciò che porta il nome dell'uomo non è un rimasuglio, una sopravvivenza, derivante da gradi dell'evoluzione che appartengono al passato, ma è qualcosa di un genere ben diverso. Esso è un turbamento che risiede nelle radici e che è stato portato

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dal tradimento che l'uomo ha commesso nei confronti di Dio.

Ma tutto quello che è avvenuto nel corso dei tempi non rivela abbastan2a tutto il carattere terribile di quel tradimento. È stato l'amore di Dio che lo ha imprigionato, che ne ha attenuato le conseguenze. Se egli non avesse fatto ciò, se Dio avesse abbandonato l'uomo alle conseguenze del suo tradimento, la storia umana sarebbe stata una storia di disperazione, ammesso che coloro i quali lo commisero potessero sopravvivere ad esso. Lo stesso fatto, invece, che essi siano potuti sopravvivere, che non siano andati completamente a fondo sotto quel colpo, costituiva già l'inizio di qualcosa di nuovo.

Un nuovo inizio si è dischiuso. La colpa è stata espiata, la fiducia tradita è stata donata nuovamente e con una maggiore generosità. È Dio stesso che ha agito così e noi chiamiamo la sua azione col nome di Redenzione. Con un amore di una tale serietà da essere ancora più profondo — se ci è possibile di parlare così — di quello che diede origine alla creazione; di una profondità così grande da rendercelo inconcepibile, il Dio santo ed eterno assume su di sé la responsabilità di quel peccato. Egli si fa uomo ed entra, con quell'atteggiamento e quella disposizione d'animo che sono propri della santità e cioè senza alcuna protezione, nella nostra storia piena di intrighi e di insidie. Il destino di Gesù, la fine che egli ha fatto, dimostrano chiaramente il significato di un simile avvenimento. Tale fu l'espiazione della colpa che noi, i veri colpevoli, non eravamo in grado di espiare; è grazie a questa espiazione e a partire da essa che noi possiamo vivere completamente riconciliati con Dio.

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Con dò non si dice che Dio abbia fatto in modo che ciò che era stato fatto fosse come non fatto, perché una cosa simile sarebbe stata impossibile. E neppure che egli abbia trasformato completamente l'uomo come con un sortilegio, in quanto ciò avrebbe mancato di serietà. Ciò che è stato fatto dall'uomo rimane e continua ad influire nella sua vita, sotto forma di tendenza al male, di turbamento dello sguardo, di disordine, di tribolazione e di sofferenza. L'uomo si trova sì in una nuova relazione con Dio, ma tale quale egli si è fatto lui stesso; con la differenza, però, che adesso — e qui si tratta veramente di una differenza che ha un valore assoluto — si apre dinanzi a lui la nuova e santa possibilità della grazia.

È dunque una cosa insensata, per non usare una parola più dura, quando si afferma che un Dio che ami veramente non avrebbe potuto imporre all'uomo un carico così grande, in quanto è stato lo stesso uomo il responsabile di tutto ciò.

Se adesso quest'uomo vuoi ricominciare ad amare nuovamente Iddio, egli non deve farlo in modo fantastico ma bensì "in verità"; nella serietà dei fatti (1 Io. 3, 18); nella storia, quale essa si è sviluppata e continua a svilupparsi sotto la sua azione.

Questo amore incomincia proprio con la fede che l'uomo ha nell'amore di Dio nonostante il fatto che il mondo è quello che è. Giovanni dice, nella sua lettera, una frase molto singolare: "Questa è la vittoria che ha vinto il mondo, la nostra fede" (5, 4). Si potrebbe intendere questa 'vittoria' in un senso piuttosto esteriore: come fermezza dimostrata in un ambiente estraneo, come coraggio in tempi di lotta,

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od altre interpretazioni del genere. Ma il suo vero signiEcato è, tuttavia, più profondo. Esso ci dice che il fedele, fondato sulle parole della Rivelazione, deve portare in questo mondo la certezza che Dio è quegli che è, con quell'atteggiamento e quella disposizione piena d'amore che egli ha manifestato nel Cristo, nonostante il fatto che lo stato del mondo sembri continuamente contraddire tale fede. Continuamente e sotto forme che sempre si rinnovano, il mondo dichiara che è impossibile che Dio sia quale ce lo presenta la Rivelazione, quando la realtà delle cose è quella che è. E non vi sono delle ore nelle quali noi stessi abbiamo l'impressione di essere dei pazzi nel credere a cose come l'amore di Dio e la grazia, quando un'esperienza dopo l'altra della nostra vita personale, una informazione dopo l'altra che ci giunge sulla vita del mondo sembrano proclamare che le vere potenze sono la scienza e la tecnica e, quanto al resto, il danaro, l'astuzia e la violenza? Istruiti dalla Rivelazione, noi dobbiamo vincere questa apparenza mediante la fede e ricondurre in tal modo, per così dire, il mondo nelle mani di Dio.

Ma che cosa significa questo? Non significa certamente che noi dobbiamo, attraverso la nostra immaginazione, vedere il mondo quale esso dovrebbe essere! Ed allora? Prendiamo il caso di due esseri umani che si conoscono e si amano intimamente. A volte essi faranno ciò che è bene, altre volte essi falliranno — per non parlare della polvere che si posa sulla realtà di ogni giorno e che rende grigia ogni cosa. Ma la vera serietà dell'amore fa sì tuttavia che ognuno dei due, nonostante tutte le contraddizioni dell'esperienza esteriore, ricominci continuamente ad amare l'immagine dell'amico e lo

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ricollochi in tal modo nella sua vera realtà. Proprio questo, ci dice Giovanni, noi dobbiamo fare nei confronti del mondo di Dio.

Il sentimento che in noi suscita questo mondo, ciò che noi scopriamo su di esso nella nostra vita personale e nella sfera della storia, non ci offre grandi motivi per considerarlo l'opera di un amore redentore. Per lo più esso è indifferente, spesso malevolo;

talvolta, però, ci può venir da pensare che il suo fondo sia una fredda crudeltà. È proprio questo il momento nel quale dobbiamo aggrapparci strettamente all'amore nascosto di Dio e in cui dobbiamo credere, nella nostra fede, che il mondo è in questo amore. Non si tratta in questo caso di fantasia o di autosuggestione, come potrebbero affermare lo scetticismo o la delusione; vuoi dire invece che, a dispetto delle apparenze, la nostra fede porta alla vittoria una verità più profonda.

In tal modo la fede fondata sull'amore compie il primo passo; il secondo consiste nel fatto che ognuno di noi accetti il mondo come esso gli si presenta, e nel posto in cui egli si trova.

Ora, è una cosa questa più facile a dirsi che a farsi, in quanto l'esistenza non rende facile questa acccttazione; per molte persone, anzi, essa è molto diiScile. Vogliamo pertanto mettere bene in chiaro che non intendiamo dire che si debba cercare di trasformare la realtà delle cose con la nostra fantasia. Noi non possiamo definire buono ciò che è cattivo. Non possiamo parlare della sofferenza come se si trattasse di una piacevolezza; l'ingiustizia, la violenza, la menzogna che regnano nel mondo ci impediscono di dire che tutto in esso va per il meglio. Esistono

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delle persone che sono convinte che basti guardare il mondo con l'occhio giusto ed affrontarlo con animo gioioso che tutto poi va a posto. Quelli che parlano in tal modo fanno più danno di quanto essi non sospettino. Quando essi fanno ciò di proposito, si tratta soltanto di stupidità o di disonestà. Ma anche gli ottimisti convinti sono pericolosi perché possono portare ad una visione errata della realtà coloro che li ascoltano. Ed essi stessi, del resto, fanno una brutta fine in quanto ci pensa la vita a confutarli e a fare di essi delle persone deluse ed amareggiate.

Noi non intendiamo fare qui una cosa del genere, perché sarebbe andare contro la verità. Vogliamo invece affermare una verità; si tratta di quella verità che nasce dal cuore; in essa si alleano la lucidità dello sguardo, la prontezza ed una coraggiosa fiducia. Questa verità ci dice che il nostro atteggiamento iniziale nei confronti della vita deve essere un 'sì' invece di un 'no'. E questo 'sì' consiste in una presa di posi-2ione affermativa nei confronti di tutto ciò che esiste in quanto esso è l'opera del Creatore. Il porsi in una simile posizione costituisce un atto reale della nostra volontà, che riesce così a vincere l'apparenza del mondo. Esso riesce a penetrare sino all'origine, sino all'atteggiamento fondamentale di Dio, che è rappresentato dall'amore; il primo amore, a partire dal quale ogni altro diviene possibile. Questo atto della nostra volontà sa che il mondo, nel suo stato presente, non è buono; ma Dio lo ha voluto buono. È stata la nostra umana colpa che lo ha rovinato e guastato; ma Dio l'ha rimesso nelle nostre mani perché esso divenga nuovamente buono. E tutto questo non deve avvenire in una ebbrezza idealistica o mediante programmi perfezionistici, bensì nella fidu-

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eia e nella fedeltà; attraverso tutte le sofferenze che provengono dal disordine che attualmente regna nel mondo e nella perseverante speranza che un giorno giungerà il momento in cui si realizzeranno le parole dell'Apocalisse: "Ecco, faccio nuove tutte le cose" (21, 5).

L'amore consiste, pertanto, nella accettazione dell'esistenza. E questa accettazione non significa adattarsi a qualcosa che è quello che è e non può essere altrimenti; significa invece entrare nell'intenzione di Dio e fissare, partendo da questa, il nostro sguardo sull'azione infinitamente grande che egli ha compiuto allorché ha creato il mondo e lo ha redento. Questo atteggiamento si esprime nella maniera più bella mediante l'atto di ringraziamento — continuamente rin-novellato ma espresso specialmente al mattino, quando il giorno sta nascendo —, atto di ringraziamento nel quale viene espressa la nostra riconoscenza a Dio poiché egli ha creato il mondo. Il sentimento sul quale si fonda la nostra esistenza viene così rimesso al suo giusto posto.

Lo stesso vale per la nostra persona e per la nostra vita. Anche in questo caso noi potremo giungere a buon fine soltanto se noi cominciamo con un sì invece che con un no. Certamente, anche in questa nostra vita ci sono molte cose cattive: debolezze, errori, mali di ogni genere. Tutte queste cose cattive devono essere vinte, superate; ma ogni superamento ha la sua premessa nel fatto che noi cominciamo col vederle ed ammetterle: le cose stanno così. Questo riconoscimento avviene parimenti per le difficoltà, le perdite, le pene, le sofferenze. Tutto questo dolore non è stato introdotto nel mondo dalla durezza di Dio, ma ha la sua causa in quel disordine che l'uomo

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stesso ha provocato. È comprensibile che la persona addolorata ed angosciata rivolga a Dio questa domanda: perché proprio io? Perché una cosa simile doveva capitare proprio a me? Ma non deve permettere tuttavia che questa domanda si tramuti in accusa. Bisogna che egli pervenga sino all'amore di Dio che si trova al centro, nel cuore, dell'esistenza, che si metta in sintonia con quest'amore e che si accetti, partendo da esso. Accettarsi non vuoi dire però abbandonarsi, rinunziare: egli deve invece lottare e sforzarsi per migliorarsi; ma sulla necessaria premessa di questo primo 'sì'.

Fa parte degli atti fondamentali della esistenza vissuta nella fede il ringraziare Iddio per la vita che egli ci ha dato. È facile vedere tutte le obbiezioni che possono portarci a ribellarci ad un simile atteggiamento. Un sentimento molto elementare potrebbe manifestarsi e dire: È già male che un simile fardello mi sia stato imposto; dovrò dunque aggiungervi la beffa di dover ringraziare? Una simile protesta è comprensibile; ma ogni qualvolta essa giunge ad affermarsi e a dominare, ci sbarra inesorabilmente la via verso l'essenziale, verso quella sintonia, quell'accordo che deve esistere fra noi ed il Dio che ci ha creati e redenti. È soltanto quando avremo raggiunto questo accordo che l'esistenza cesserà di starci di fronte come un blocco ostile. Essa comincerà allora a mettersi in movimento; entrerà in quel processo di trasformazione dal quale nasce l'uomo nuovo, quell'uomo nuovo il cui nascere e formarsi costituisce l'oggetto della nostra speranza.

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LA PIENEZZA COMPIUTA DELL'AMORE

Abbiamo tentato, nelle nostre meditazioni, di vedere il messaggio dell'amore in tutta la sua purezza ed io. tutta la sua inconcepibile grandezza. Ed ora non possiamo far altro che domandarci: se questo messaggio è tale quale noi lo abbiamo inteso; se esso pone alla forza della fede dell'uomo richieste così alte, quale possibilità ha di poter essere realizzato? In un mondo come il nostro, così estraneo a questo messaggio; da uomini che sono così tenacemente attaccati al mondo e nei quali l'intelletto ha talmente paralizzato il cuore? Può un simile messaggio essere addirittura compreso? È possibile che la fede in questo messaggio riesca ad operare quella trasformazione, quel rovesciamento dell'esistenza che pure dovrebbe operarsi secondo il vero senso della Rivelazione?

Dobbiamo subito ammettere che le possibilità che una cosa simile avvenga sembrano a prima vista non molto grandi. Con ciò non si vuole affermare che non esistano uomini e donne che comprendono questo messaggio e che cercano di realizzarlo con uno sforzo sincero, anche se soggetto a fallimenti. Queste persone ci sono ed anche in numero maggiore di quanto non lasci vedere uno sguardo superficiale. Ma il Vangelo deve pur raggiungere la maggioranza degli uomini. Il Signore ha detto infatti: "Venite a me voi tutti". Non bastano dei rari isolati, ma è il 'popolo

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di Dio' che deve formarsi, è il 'Regno' di Dio che deve costituirsi. Non bisogna aver dimenticato quale sia la realtà delle cose, per poter intrattenere tale speranza?

Pertanto si pone in modo imperioso l'interrogativo se non debba un giorno giungere il tempo in cui tale speranza potrà trovare la sua realizzazione. Che ciò debba avvenire forse in un lontano futuro, dopo esperienze amare che verranno certamente fatte qualora il messaggio non sia ascoltato? Un pensiero del genere ci viene suggerito dall'epoca nostra, nella quale la teoria dell'evoluzione agisce in modo così potente sullo spirito umano che non soltanto l'antropologia, ma anche la politica amano parlare del-l'uomo nuovo', anzi del 'superuomo', il quale dovrebbe essere il risultato dell'azione congiunta della scienza, della tecnica, dell'educazione e della guida politica dello Stato. Non occorre essere dei pessimisti per rendersi conto che si tratta qui di un'illusione;

basta guardare un po' da vicino l'umana realtà. Ci vuoi poco per constatare che l'idea di uno Stato perfetto che deve esser raggiunto già su questa terra è un inganno che nasce dalla grande aspirazione, dalla nostalgia, che l'uomo ha per un mondo migliore;

che quest'inganno, anzi, fa parte della tecnica usata per raggiungere i fini della volontà di potere politico. E si capisce qui l'amara serietà delle parole di Gesù allorché i discepoli cercano di attirare la sua attenzione sulla bellezza del Tempio (Mt. 24, 1-31).

Ma non potrà realizzarsi mai una simile aspirazione? Giovanni ci risponde di sì. È proprio lo stesso Giovanni che ci parla della pienezza compiuta di quest'amore. Non ce ne parla in questa lettera, bensì

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nella sua Apocalisse. Egli ricollega tale promessa all'opera finale dello Spirito Santo. In tal modo, a dire il vero, questo adempimento viene sottratto al corso naturale della storia e viene annunziato come un avvenimento prodotto dalla grazia, dall'opera dello Spirito Santo e dalla speranza.

Si prova nello stesso tempo sorpresa e gioia quando si constata che lo Spirito Santo fa la sua/apparizione sia al primo inizio che alla fine ultima della Sacra Scrittura.

Nei primi versetti del Genesi si legge: "In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era disadorna e deserta: c'erano tenebre sulla superficie dell'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque" (1, 1-2). La creazione delle cose, che viene narrata in seguito, avviene nello Spirito Santo. Ciò significa che il mondo non venne creato da un'arida razionalità, da una volontà che mirava puramente a ciò che era utile e sicuro, ma che nella creazione operò una disposizione e intenzione fondamentale ben diversa. Il credente già intuisce che così deve essere stato quando egli vede l'inesauribile ricchezza dell'universo, dove pure tutto potrebbe essere molto più semplice; quando egli contempla la bellezza che è sparsa dappertutto, in modo così abbondante da giungere a far traboccare il nostro cuore; tanto più che in mezzo a tutte queste cose non si deve dimenticare lo stesso cuore dell'uomo che con tanto profonda nostalgia aspira verso la pienezza e la bellezza. Nel mondo deve essere all'opera qualcosa che supera la pura ragione ed il nudo concetto di utilità; una gioia, un impulso a donare, a elargire in maniera sovrabbondante. Si

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tratta dell'amore, che non può far mai abbastanza. E qui ci vengono in mente le parole della prima lettera ai Corinti: "l'amore scusa tutto, crede tutto, spera tutto, sopporta tutto" (1 Cor. 13, 7). Non dice "un poco" oppure "quanto è necessario", ma "tutto, tutto, tutto" e ciò si applica in primo luogo a colui che ha amato per primo, a Dio.

Il Paradiso, e cioè il mondo quale era stato affidato all'uomo innocente ed unito a Dio, costituiva già esso stesso un dono che oltrepassava qualsiasi pretesa che potesse derivare da un diritto, rappresentava un'apertura di tutte le porte, un dono senza limiti. Ma poi si verificò il terribile avvenimento di cui parla lo stesso Genesi al capitolo terzo: l'uomo rifiutò di rispondere all'amore di Dio con il suo amore; non soltanto pretese dei diritti che non erano suoi, ma oppose alla generosità di Dio la cecità del suo cuore e la violenza della sua volontà; anzi cercò di deporre il Signore dal suo trono. In tal modo il Paradiso crollò e venne fuori l'uomo nella sua realtà attuale, l'uomo egoista e sempre pronto a ribellarsi. Ma l'amore divino intraprese una nuova opera. Questo amore non poteva cancellare ciò che era accaduto, perché Dio è giusto e veritiero; pertanto il suo eterno Figlio prese la colpa sopra di sé e fece il suo ingresso in questo mondo corrotto. Ebbe allora inizio la lotta nella quale siamo tutti impegnati; essa durerà sino alla fine del mondo.

È questo il momento nel quale lo Spirito Santo prende nelle sue mani la guida dell'esistenza ed in cui ha inizio la nuova creazione. Essa è una realtà nascosta, ma pur sempre visibile all'occhio di colui che crede; viene intralciata ed impedita in ogni mo-

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do, ma si attuerà un giorno dentro all'antica creazione. E qui è di nuovo possibile avvertire quel carattere del quale noi abbiamo già parlato e che è tipico delle nuove grazie concesse da Dio. Si manifesta una poten2a che va oltre, di nuovo, tutto ciò che è puramente ragionevole, utile o corrispondente ad un diritto. Essa oltrepassa i limiti di ciò che può realizzarsi nell'individuo o in piccoli gruppi e tende verso l'insieme dell'umanità e del mondo.

Alla fine dell'Apocalisse noi leggiamo: "E vidi un cielo nuovo ed una terra nuova. Infatti, il primo cielo e la prima terra passarono e il mare non è più. E vidi la città santa, Gerusalemme nuova, che scende dal cielo, da presso Dio..." (21, 1-2). Segue poi una descrizione della città santa che, per la preziosità dei materiali di costruzione e per il modo in cui è costruita, oltrepassa ogni umana immaginazione (21, 11-29).

Qui ci troviamo in presenza di una vera prodigalità nell'amore, di un excessus amoris, per usare l'espressione della mistica medievale. Ma poi l'attenzione del lettore viene subito attirata da un particolare, da una nuova immagine, che chiude il versetto 21, 2. Egli potrà rimanere stupito, in un primo momento; ma poi resterà commosso sin nel profondo del cuore. La nuova immagine dice, infatti:

"Io (Giovanni) vidi la città santa... che scende dal cielo... preparata come una sposa che è stata ornata per il marito". L'immagine della città scioglie così la sua durezza cristallina nella umana bellezza della sposa.

Chi abbia una certa familiarità con la Sacra Scrittura è in grado di riconoscere subito che qui è stata usata una forma di rappresentazione tipicamente

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orientale. Il popolo dell'Antica Alleanza viene spesso rappresentato mediante il simbolo di una bella e fiorente adolescente chiamata "figlia d'Israele". Con gli stessi accenti di tenerezza si parla della città regale come della "figlia di Gerusalemme". Pensiamo ad esempio alle parole piene di amore e di dolore con le quali Geremia piange la rovina della città di Davide. Ma qui noi troviamo qualcosa di più. L'angelo, e cioè Dio stesso, parla con un amore la cui potenza è creatrice. Ed il passaggio dell'immagine della città fatta di pietre preziose in quell'altra immagine che rappresenta la vita più intima sta a rappresentare tutto ciò che va oltre ogni attesa ed immaginazione umana.

In questo mondo perfetto anche l'amore sarà perfetto. "Ed udii una voce grande proveniente dal trono, che diceva: 'Ecco la dimora di Dio con gli uomini; e dimorerà con essi, ed essi saranno i suoi popoli, e Dio stesso sarà con essi, e tergerà ogni lacrima dai loro occhi, e la morte non sarà più, ne lutto ne grido ne dolore saranno più; che le cose di prima passarono'. E disse colui che sedeva sul trono:

'Ecco, faccio nuove tutte le cose' " (21, 3-5).

L'Apocalisse venne scritta quando — in un primo momento in seguito ad un malinteso, per così dire, ma poi con una precisa intenzione — scoppiò la prima persecuzione contro i cristiani. Lo Stato romano considerava se stesso, la sua maestà e la sua potenza, come una realtà di carattere divino fino al punto di giungere ad onorare i suoi imperatori come esseri divini. Pertanto esso era necessariamente portato a vedere un nemico in una comunità religiosa che condannava recisamente ogni forma di

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divinizzazione di potenze terrene. Pertanto, durante tré secoli, Roma ha fatto uso di mezzi radicali pur di poter estirpare quello che essa considerava un pericolo. In una situazione del genere l'Apocalisse portò la sua parola consolatrice ai singoli cristiani ed alle piccole comunità che si trovavano indifese di fronte allo strapotere dello Stato; uomini che erano in gran parte in una situazione di debolezza dal punto di vista sociale e culturale e che nulla potevano opporre alla potenza dell'impero romano (vedi 1 Cor. 1, 26 ss.). A questi uomini l'apostolo dice che essi devono resistere. Cristo è dalla loro parte, e pertanto la vittoria è sicura.

Nel quarto secolo era cosa evidente agli occhi di tutti che lo Stato romano aveva perduto la sua battaglia. Ebbe allora inizio l'epoca dello Stato cristiano. Resterebbe qui da domandarsi fino a qual punto esso era veramente cristiano; fino a qual punto il paganesimo continuò ad esercitare la sua influenza all'interno del nuovo Stato; fino a qual punto della dottrina vittoriosa si abusò come di un mezzo per dar forma al suo potere.

Oggi la situazione si è nuovamente rovesciata, con la Chiesa sottoposta a persecuzioni al confronto delle quali le persecuzioni dell'impero romano sembrano quasi impallidire. La dittatura — quella nazista, di cui noi abbiamo fatto l'esperienza, ma ancor più quella orientale — si presenta essa stessa come la realtà assoluta e cerca di sradicare tutto ciò che trascende questo mondo. Soltanto l'uomo è reale; quello che si oppone alla sua sovranità unica è nemico e come tale deve essere annientato. Per raggiungere uno scopo del genere, si dispone oggi di una potenza che ha una grandezza ed una estensione tali da far

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sembrar piccola quella dell'impero romana. Si tratta della potenza della scienza e della tecnica con tutta la loro inumana oggettività. E qui Giovanni ci dice nuovamente: Non abbiate paura! La vittoria appartiene a Dio. Abbiate pazienza. Il tempo passa, anche se esso si misura in secoli. Anche se la violenza dovesse durare sino alla fine della storia, un giorno il Cristo ritornerà a pronunziare il suo giudizio. In quel giorno la realtà nuova, oggi dappertutto nascosta ed intralciata, si manifesterà e formerà il "tutto", il nuovo mondo: il cielo nuovo e la terra nuova ed, in essi, l'uomo nuovo.

Tutto questo non avverrà come una conseguenza naturale delle possibilità della cultura e delle realtà di questo mondo. La filosofia, che è anche sapienza, esprime una importante verità quando essa ci dice che, quanto più alta e nobile è la natura di un essere, tanto più debole sarà quest'essere nell'affermare direttamente se stesso. Quanto più pura è la sua forza, tanto minori sono le probabilità che egli riesca ad imporsi sulla rozza realtà. Pertanto ciò che vi è di più elevato, ciò che ha una pienezza di significato, è destinato ad essere il più debole in questo mondo. Vediamo la prova di ciò nel destino di Cristo, che ci ha portato la salvezza. Dato che questa salvezza poteva venir realizzata soltanto secondo il puro modo della verità, egli era impotente di fronte alla violenza della volontà umana, di fronte alla volontà dello Stato, si trattasse del sinedrio giudaico o del governatore romano. Pertanto le cose andarono allora come andarono e continuano oggi ad andare come vanno, e sarà sempre così. Ma il superamento di questa situazione, lo stato di pienezza compiuta,

179

verrà da Dio. Questa vittoria non verrà perché l'uomo, nel corso della storia, giungerà finalmente a riconoscere la verità del messaggio e a lasciargli campo libero; essa verrà, invece, a partire dall'origine creatrice. Essa sarà opera della potenza dello stesso Spirito Santo che già diede origine al mondo primitivo; quel mondo che invero non era "natura", bensì opera di Dio.

Lo Spirito Santo farà dell'amore il padrone dell'esistenza, del mistero di Dio una verità palese, che regnerà dappertutto. Infatti, nella nuova Gerusalemme anche la luce si trasformerà: "E la città non ha bisogno del sole ne della luna che la rischiarino;

poiché la gloria di Dio la illuminò, e la sua lucerna è l'agnello". Ed ancora: "E non vi sarà più notte;

e non hanno bisogno di luce di lucerna o di luce di sole, perché il Signore Iddio spargerà luce su di essi, e regneranno per i secoli dei secoli" (21, 23; 22, 5). La luce non sarà prodotta da alcuna sorgente naturale, ma sarà una potenza che, venuta da Dio, penetrerà da ogni parte; sarà condizione dell'esistenza nella quale "non entrerà tutto ciò che è impuro ne chi compie abominazione o menzogna" (21, 27). Anche "la morte non sarà più, ne lutto, ne grido, ne dolore" (21, 4), poiché tutte queste cose appartengono alle tenebre.

Il mondo si trasformerà in una città luminosa nella quale persino l'oro e le pietre preziose trapasseranno in qualcosa di ancor più alto e nobile. Il messaggio ci dice infatti che l'oro di cui sono selciate le vie è "come cristallo". E gli uomini subiranno quella trasformazione della quale ci parlano i sette messaggi che si trovano all'inizio del libro; poiché ciascuno di essi termina con la promessa che colui che eserci-

180

terà la pazienza e "vincerà" sarà glorificato.

Le parole che concludono il libro sono queste:

"E lo Spirito e la sposa, dicono: 'Vieni' ". E ancora:

" 'Dice colui che testimonia queste cose: Sì, vengo presto'... 'Amen; vieni, Signore Gesù' " (22, 17.20). Non è soltanto l'uomo singolo che parla così, ma è "la sposa" e cioè tutta l'umanità che è in attesa. Quell'umanità della quale Giovanni ci dice, nella sua prima lettera (3, 2), che non si è ancora manifestato ciò che essa è veramente, in tutta la sua profondità.

La "sposa" tuttavia non rappresenta soltanto l'uomo ma tutte le cose; il che vuoi dire che l'amore non diverrà soltanto una potenza storica, la quale si impadronirà dell'umanità, ma diventerà anche una potenza cosmica. Ed anche questo mondo trasformato dall'amore non sorge da se stesso, ma "viene", come vien detto della città, "da Dio" ed è proprio in questo modo che esso diventa veramente "mondo". Già Paolo ci parla di questo apparente paradosso quando, nella sua lettera ai Galati, ci dice: "E non più io vivo, ma Cristo vive in me" (2, 20). Ciò significa: soltanto quando il Cristo prende forza e si afferma in una persona umana, questa persona diventa veramente se stessa. E qui ci troviamo di fronte allo stesso fatto. È soltanto quando la città "discende da Dio" che essa acquista il suo vero centro. Si compie così ciò che voleva Iddio, quando creò il mondo: e cioè che il "mondo sia, venendo da lui".

181

INDICE DEI CONCETTI

Accusa, 120, 125, 126, 130,

171.

Agnello pasquale, 18; (a. di Dio), 88.

Allegoria, 108.

Altro, 1' (il prossimo), 44, 45, 46, 132, 150, 153, 158.

Altruismo, 132.

Amore (amare), 15, 33, 41, 46, 47, 53, 63, 67, 68, 84, 85, 92, 93, 95, 96, 97,101, 104, 107, 114, 125, 126, 127, 128, 130, 131, 132, 133, 134, 136, 137, 138, 139, 140, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 150, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 161, 162, 165, 166, 167, 168, 169, 171, 172, 174, 180, 181.

Angelo, 177.

Anima, 63, 67, 72.

Antica Alleanza, 177 (v. Antico Testamento).

Antico Testamento, 18, 56, 86, 88, 89, 92, 142 (v. Antica Alleanza).

Antropologia, 173.

Archetipo, 101.

Ateismo, 57, 65.

Atto (coincidente in Dio con l'essere, la vita), 141.

Battesimo, 38, 39. Buddhismo, 11. Buono (bontà, bene, ecc.), 27, 32, 42, 43, 44, 48, 55, 63,

70, 89, 93, 98, 99, 113, 120, 123, 129, 148, 149,

158. 161, 167, 169.

'Camminare', 115, 153, 154,

159.

Carne, 87, 96.

Causa (ed effetto), 116, 123, 152, 156, 170.

Chiesa, 40, 117, 178.

Città santa (Gerusalemme nuova, celeste), 176, 180, 181.

Colpa, 16, 127, 150, 175.

Comunità (comunione), 17, 34, 85, 108, 114, 115, 117, 136, 140, 177.

Concupiscenza, 96.

Conoscenza (conoscere), 14, 89, 100, 109, 110, 112, 113, 114, 115, 116, 119, 123, 126, 127, 131, 136, 144, 151, 157, 164.

Contemplazione (contemplare), 82, 115.

Corpo misitco di Cristo, 36, 40.

Coscienza, 14, 19, 31, 40, 41, 75, 119, 120, 122.

Creare (Creatore, creazione, creatura, ecc.), 25, 27, 28, 36, 38, 43, 48, 62, 65, 93, 94, 95, 98, 102, 103, 104, 105, 106, 111, 126, 133, 134, 135, 136, 146, 152, 155, 156, 158, 162, 169,

183

170, 171, 174, 175, 176, 177, 180, 181.

Cristianesimo (cristiano), 24, 28, 91, 117, 132, 134, 146, 177, 178.

Cristianità, 88.

Croce, 18, 23.

Cultura, 44, 102, 179.

Cuore (xapSia), 62, 63, 64, 73, 74, 81, 82, 85, 88, 89, 99, 119, 120, 121, 122, 124, 126, 127, 130, 132, 133, 147, 148, 151, 153, 172, 174.

Destino, 27, 35, 139, 142, 151, 160, 179.

Dio, 14, 15, 18, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 33, 39, 49, 53, 55, 56, 57, 62, 63, 64, 65, 66, 71, 75, 76, 79, 84, 85, 86, 87, 90, 92, 93, 95, 97, 98, 100, 101, 103, 105, 108, 110, 111, 113, 115, 116, 119, 123, 125, 126, 129, 130, 131, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 140, 141, 142, 143, 145, 152, 154, 156, 157, 159, 160, 162, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 175, 176, 177, 179, 180, 181.

Discepolo, 13, 14, 17, 22, 23, 30, 31, 55, 70, 85.

' Discepolo dell'amore ' (o ' prediletto ' == . san Giovanni), 83, 84, 94.

Discorsi dell'addio (di Gesù), 10, 31, 105.

Discorso della Montagna, 53, 70, 71, 154.

Disordine, 43, 44, 48, 49, 101, 103, 104, 160, 170.

Dogma, 117.

Dottrina, 12, 13, 15, 132, 133.

Eden, 106 (v. Paradiso).

Egoismo, 132.

Emanare (emanazione), 134.

Epifania (s'ici.cpàveia,), 61, 67, 70, 71, 81, 90, 91.

Errore, 116.

Escatologia (escatologico), 9.

Esempio, 22.

Esempio, 22.

Esistenza (esistere), 26, 27, 28, 43, 64, 93, 98, 105, 109, 112, 116, 118, 129, 151, 153, 164, 168, 169, 170, 171, 172, 175, 180.

Esperienza, 43, 49, 60, 62, 65, 68, 88, 90, 91, 94, 102, 117, 139, 140, 147, 167.

Essenza (essenziale), 24, 28, 35, 46, 67, 87, 110, 127, 133, 137, 141, 160, 171.

Essere, 27, 35, 38, 40, 42, 62, 64, 74, 75, 84, 92, 98, 112, 113, 116, 129, 134, 147, 152, 157, 162.

Essere supremo (assoluto), 27, 64, 94, 134, 140.

Eternità (eterno), 15, 19, 36, 50, 84, 87, 91, 96, 111, 114, 129, 140, 141.

Eucarestia, 9, 36, 37, 38, 91.

Evoluzione (teoria dell'), 173.

Excessus amoris, 176 (v. Amore).

Farisei, 53, 60. Fede, 38, 39, 57, 58, 72, 86, 94, 101, 104, 105, 115, 117, 147, 153, 166, 172. ' Figlia di Gerusalemme ', 177. 'Figlia d'Israele', 177. Figlio di Dio (Gesù Cristo), 17, 24, 29, 56, 61, 65, 72, 73, 74, 84, 85, 87, 90, 91, 92, 94, 97, 104, 114, 127, 131, 140, 153, 175. Figliolanza divina (in Cristo,

184

nell'uomo), 14, 39, 73, 94, 106, 153. Filosofia (filosofico), 91, 114,

117, 131, 133, 140, 179. Finite2za (finito), 26, 27, 111. Fondamento, 111, 128 n. Fonte (sorgente, in senso simbolico), 133, 134, 180. Forma (divina), 23, 24; (f. di

schiavo), 23. Fratello, 33, 45, 50, 73, 74, 88, 144, 153, 154.

Generazione (in Dio), 140.

Giudizio (di Dio), 152, _ 153, 154; giudizio (giudicare, dell'uomo), 153, 154, 164.

Gnostici (gnosticismo, gnosi, ecc.), 32, 89, 90, 97.

Gradini (grada2Ìoni, nella natura dell'uomo), 37.

Grandezza (grande), 25, 29, 136, 137, 138, 141, 149, 156.

Grazia, 39, 55, 58, 59, 62, 66, 69, 90, 101, 166.

Idea, 130.

' Idealista ' (idealismo), 89, 169.

Idolo, 103.

Illusione, 12.

Incarnazione (incarnarsi), 65, 87, 89, 91, 93, 104, 114.

Individuo, 64.

Infinito, 26, 114, 156.

Interiorità (intellettuale), 37;

(organica), 37; (psicologica), 37; (della persona), 37, 99, 122; (spirituale o pneumatica), 38, 39, 40, 41, 49.

Lavanda dei piedi, 26, 30. Legge, 63, 110, 134. Libertà (libero), 27, 55, 61,

75, 106, 115, 116, 117, 125, 134.

Logos, 23, 72, 85, 89, 90, 91, 92, 127 (v. Verbo).

Luce (in senso simbolico), 89, 90, 108, 109, 110, 112, 113, 115, 117, 118, 119, 127, 129, 144, 145, 146, 147, 148, 153, 154, 159, 180.

Lumen cordis, 146, 153.

Maestro (Gesù Cristo), 14, 17, 22, 23, 29, 31, 32, 37, 49, 52, 55, 56, 73, 79, 83, 134.

Male, 27, 32, 42, 44, 68, 89, 104, 121, 150, 152, 170, 171.

Malinconia (malinconico), 124, 125.

Medioevo, 82, 146.

Meditazione (riflessione), 80, 83, 127.

Messaggio, 15, 38, 70, 72, 79, 83, 84, 89, 92, 115, 117, 133, 135, 137, 152, 172, 173.

Messia, 52, 54, 61, 66, 180.

Mikrokósmos (l'uomo), 135.

Missione, 32, 100.

Mistero, 23, 27, 29, 37, 39, 40, 70, 85, 86, 87, 91, 94, 99, 107, 118, 130, 137, 138, 143, 152, 160, 180.

Mito (mitologia), 91, 92, 110, 155.

Mondo, 15, 18, 25, 26, 27, 36, 40, 42, 43, 46, 52, 57, 62, 64, 67, 87, 92, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 104, 105, 106, 112, 118, 128, 131, 133, 134, 135, 137, 139, 141, 143, 153, 155, 156, 161, 166, 167, 168, 169, 170, 172, 173, 174, 175, 178, 179, 180, 181.

185

Morale (etica), 15, 23, 47,

64, 122, 125. Morte, 14, 19, 23, 48, 85,

90, 112, 153, 177, 180.

Natura (come essenza), 46, 48, 65, 72, 82, 88, 109, 127, 128, 134, 135, 141, 152, 179; (n. come realtà globale infra-umana), 66, 128, 132, 134, 154.

Necessità, 135, 155.

Neoplatonismo (neoplatonico), 89, 134, 146.

Nuova nascita, 38.

Nuovo Testamento, 9, 15, 35, 132, 141.

Odio, 57, 60, 61, 62, 63, 66,

67, 68, 103, 104, 106, 144,

145, 153, 154. Onniscienza (di Dio), 125,

127, 128, 130. Orgoglio (superbia), 96.

Pace, 42, 44, 46, 48, 49, 50, 53, 63.

Padre (Dio), 14, 15, 20, 24, 29, 53, 56, 62, 65, 70, 71, 73, 74, 76, 79, 84, 85, 87, 91, 96, 97, 104, 127, 140, 142, 153, 158.

Paganesimo, 178.

Pane vivo, 36.

Panteismo (panteistico), 128.

Paradiso, 101, 106, 175 (v. Eden).

Pasqua, 9.

Pater Nosfer, 41, 71, 73, 79.

Pazienza, 181.

Peccato, 18, 32, 66, 68, 88, 94, 131, 141; (p. originale), 46, 95, 104, 165.

Pensiero (filosofico), 13, 63, 111.

Pentecoste, 16, 19, 54, 55, 86, 89, 90, 146.

Persona (personale), 37, 59, 67, 72, 73, 99, 138, 152, 154, 155, 157, 160, 168, 170, 181.

Personalità, 52, 55, 56, 62, 63, 73, 75, 82, 83, 128.

Platonismo, 33, 141.

Uo^c, (città), 106.

•Popolo di Dio', 172 s.

Preghiera, 76, 127.

Principio, 84, 87, 91, 98, 127.

Problema di Dio, 26.

Profeta, 40, 105.

Provvidenza, 70, 158.

Psicologia (psicologico, psicologismo, psicologistico), 33, 34, 36, 38, 40, 47, 48, 64, 68, 76, 113, 118.

Ragione (ragionamento), 15, 47, 124, 151.

Razionalismo (razionalistico), 33, 71.

Razionalità, 28, 174.

Redenzione (Redentore), 16, 48, 73, 79, 89, 95, 114, 130, 158, 165, 171.

Regno di Dio (di Cristo, regnare), 15, 16, 22, 53, 54, 71, 117, 173, 180.

Regno d'Israele, 54.

'Rimanere' ('dimorare'), 31, 32, 33, 35, 145, 153, 155, 177.

Risurrezione (di Cristo), 19.

Rivelazione (rivelare), 23, 38, 40, 56, 86, 90, 93, 94, 100, 112, 114, 115, 117, 118, 131, 140, 142, 156, 160, 167, 172.

Sacramento, 36, 37. Sacra Scrittura, 35, 46, 66,

79, 98, 101, 104, 141, 174,

176.

186

Sacrificio, 18, 114.

Sacro, 57, 64, 87, 145.

Saggezza (pratica), 21; (di vita, sapierca), 44, 179.

Salvezza (salvare), 61, 92, 97, 145, 152, 179.

Sangue (dell'alleanza), 18, 36.

Santità (santo), 27, 64, 66, 67, 71, 165.

Satana, 51, 104.

'Scandalo' (in senso positivo), 90.

Scetticismo, 57.

Schiavo (schiavitù), 23, 24, 106.

Scienza (e tecnica, scientifico, scienziato, ecc.), 114, 125, 126, 136, 164, 167, 178.

Scribi, 53.

Serietà (dell'amore di Dio, dell'uomo), 162, 164, 166, 167, 173.

Servizio (servire), 22, 23, 25, 28 s., 34, 48.

Significato (senso), 112, 116, 124, 179.

Signore (Dio, Gesù Cristo), 14, 22, 24, 27, 29, 39, 42, 44, 49, 56, 57, 59, 62, 72, 73, 82, 84, 127, 128, 147, 154, 157, 160, 162, 172, 175, 180, 181.

Simbolismo, 133.

Simbolo, 109.

Sinedrio, 154, 179.

Sinottici, 31.

Solidarietà, 21.

Solitudine (di Dio nel mondo), 77.

zutt'ip (salvatore), 90.

Speranza (sperare), 170, 171, 173, 175.

Spirito (umano, spirituale), 13, 14, 29, 66, 76, 81, 84, 90, 99, 109, 110, 115, 116, 118, 144, 145, 173; (s. in

senso neutro, ne divino ne

umano), 34. Spirito di Dio (S. Santo), 19,

36, 39, 54, 56, 86, 87, 89,

90, 104, 140, 146, 147,

174, 175, 180, 181. Spiritualità, 117. 'Sposa' (celeste), 176, 181. Stato cristiano, 178. Storia, 43, 63, 65, 87, 88,

101, 118, 163, 165, 168,

180.

Storia Sacra, 19. Superuomo, 173. Sussistenza, 87.

Tempio, 173. Tenebra, 59, 104, 108, 112,

115, 144, 145, 153, 154,

180.

Testamento spirituale. 11. Testimonianza (testimoniare),

67, 73, 84. Tradimento (traditore), 51,

52, 55, 57, 163, 165.

Ubbidienza (ubbidire), 74, 75,

101, 104. Ultima Cena, 9, 85. Umiltà, 22, 24, 25, 27, 28,

29, 30.

'Uomo nuovo', 105, 171, 173. 'Uomo vecchio', 143.

Valore, 24, 64, 100, 117, 132, 149, 150; (rovesciamento dei v.j, 28; (v. morali), 63.

Vanità delle cose, 12.

Vedere (visione, visibile), 71, 72, 73, 76, 84, 90, 91, 100, 110, 123, 125, 152, 175.

Veggente (san Giovanni evangelista), 79.

Verbo, 62, 72, 75, 76, 84,

187

85, 87, 90, 127 (v. Logos). 70, 72, 84, 100, 107, 109, Verità, 13, 14, 24, 30, 32, 110, 116, 117, 118, I», 33, 37, 45, 55, 58, 62, 63, 142, 144, 146, 150, 152, 70, 86, 97, 99, 109, 114, 153, 161, 169, 171. 115, 116, 117, 126, 127, Vite e tralci (parabola della), 128, 129, 140, 145, 147, 31, 34, 36, 38, 39, 40. 155, 158, 166, 168, 169, Vittima espiatoria, 88. 179, 180. Volontà (di Dio), 15, 47, 48, Via, 70. 53, 74, 75, 96, 111, 174;

Virtù teologale, 94. (dell'uomo), 63, 67, 120, Vita, 19, 27, 36, 37, 40, 68, 124, 125, 173, 175, 179. 1

188

INDICE DEI NOMI

Abele, 43, 154.

Adamo, 43, 154.

Agostino A. (sant'), 62, 129,

146.

Alessandro Magno, 53. Apocalisse (di san Giovanni),

106, 107, 170, 174, 176,

177, 180, 181. Asia minore, 81. Atti degli Apostoli, 34, 54.

Bibbia, 98, 101. Buddha, 11.

Cafarnao, 9, 36. Caino, 43, 154. Confessioni (di sant'Agostino), 62.

Damasco, 34, 49, 68. Davide, 52, 177.

Egitto, 18, 60. Erode, 60. Esodo, 18, 93. Europa, 65.

fedone (di Fiatone), 13. Filippo (apostolo, san), 70.

Geenna, 154. Genesi, 27, 46, 79, 98, 101,

103, 154, 175. Germania, 57 n. Gerusalemme, 16, 34, 52,

106. Gesù Cristo, 9, 14, 15, 16,

17, 20, 21, 23, 27, 28, 29,

30, 31, 32, 34, 35, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 45, 48, 49, 51, 52, 53, 54, 55, 57, 60, 61, 62, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 83, 84, 86, 88, 89, 90, 91, 94, 97, 104, 105, 106, 117, 118, 133, 134, 135, 137, 142, 153, 160, 161, 167, 170, 178, 181.

Geremia, 177.

Getsemani, 74.

Giacomo (apostolo, san), 54, 56, 84.

Giovanni Battista (san), 88.

Giovanni evangelista (san), passim.

Giuda Iscariota (il traditore), 9, 20, 51, 54.

Giudea, 83.

Horeb, 93, 160.

Il grande racconto della morte di Buddha (testo antico), 11.

Isaia, 66.

Lettera ai Filippesi (di san Paolo), 23,. 34, 49.

Lettera ai Calati (di san Paolo), 36, 87, 181.

Lettera ai Romani (di san Paolo), 41, 74, 79, 81, 88, 105.

Lettera prima di Giovanni, 32, 33, 35, 39, 62, 72, 77,

189

79, 81, 92;'96, 103, 108, 110, 119, 131, 141, 143, 144, 145, 153, 154, 160, 166, 181.

Lettera prima ai Corinti (di san Paolo), 48, 175, 178.

Lettera seconda ai Corinti (di san Paolo), 36, 39.

Maccabei, 53. Mosè, 93.

Nazareth, 72, 133. Nietzsche F., 24, 25, 65.

Palestina, 28, 53. Paolo (san), 9, 34, 36, 38,

39, 49, 68, 71, 73, 81, 86,

88, 105, 181. Pietro (Simonie, san), 20, 35,

51, 55, 56, 57. Piatene, 13. Piotino, 133, 134.

Roma, 178.

Romani, 52, 53, 178. Russia, 57 n.

Salmo 138 [139], 110. .Samaria, 83.

Simone (padre di Giuda), 20. Socrate, 13, 14, 32.

Tommaso (apostolo, san), 56.

Vangelo di Giovanni, 9, 11, 14, 15, 16, 17, 20, 31, 42, 51, 54, 58 s., 60, 61, 65, 66, 71, 74, 75, 76, 86, 88, 91, 97, 102, 104, 142.

Vangelo di Luca, 9, 22, 31, 35, 40, 56, 57, 61, 66, 74, 76, 83.

Vangelo di Marco, 9, 15, 31, 55.

Vangelo di Matteo, 9, 16, 18, 22, 30, 45, 54, 57, 71, 74, 94, 153, 157, 173.

ZAedeo, 22, 54.

190

Finito di stampare nel mese di settembre 1972 nella Tipografia Editoriale « Aldo Manuzio » S. Martino B. A. (Verona)

 

INDICE

MEDITAZIONI SUI TESTI DEI DISCORSI DELL'ADDIO

Avvertenza ....... pag. 9

L'ultima sera ........ 11

La lavanda dei piedi ...... 20

La parabola della vite e dei tralci . . » 31 La pace di Cristo ....... 42

II tradimento . . . . . . . » 51

L'odio contro Dio ...... 60

L'epifania del Padre in Cristo ...» 70

MEDITAZIONI SUI TESTI DELLA PRIMA LETTERA DI SAN GIOVANNI

Avvertenza ....... pag. 79

Epifania ......... 81

II mondo ........ » 96

Luce e verità ....... » 108

«Dio sa tutto» . . . . . . » 119

191

L'amore di Dio ....... 131

Luce dell'amore ....... 144

L'amore di Dio e il disordine del mondo » 160

La pienezza compiuta dell'amore . . » 172

Indice dei concetti . . . . . » 183

Indice dei nomi ....... t89"

 

 

 

 

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