Attenzione: Queste pagine appartenevano a "L'incontro". Non sono verificate dal 2001. Avendo subito perdite consistenti di dati, e soprattutto essendo ormai datate, possono contenere errori e non rispecchiare più il pensiero degli autori. Se sei l'autore di uno o più di questi contenuti contattami a jotis@iol.it   Politica Cultura Scienze  Società  Religione Psiche  Filosofia  Ambiente Arte  Cinema Sport Napoli Università Home

ROMANO GUARDINI

FEDE - RELIGIONE ESPERIENZA

Saggi teologici

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera da cui sono tratti i saggi del presente volume:

Unterscheidung des Christlichen Gesammelte Studien 1923-1963 © Matthias Grùnewaid Verlag - Mainz 19943 © Verlag Ferdinand Schóningh - Paderborn 19943 © Tutti i diritti d'autore sono della Katholische Akademie in Bayern

Traduzione di Giulio Colombi

© 1984 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia

Seconda edizione: 1995

ISBN 88-372-1559-2

Tipolitografia La Nuova Cartografica S.p.A. - Brescia 1995

PREMESSA

La problematica, che suscita l'appassionato interesse dell'Autore nei saggi di cui si compone questo libro superava, quand'egli vi dedicò sforzi di approfondimento estremamente seri e sofferti, la contingenza delle 'mode' culturali dell'epoca: in essa infatti s'affacciano temi di rilevanza perenne, certo particolarmente sentiti nell'età moderna e in quella post-modema, che stiamo vivendo; vi si avverte l'urgenza di questioni esistenzialmente decisive, per l'uomo e per il credente, qualunque forma assumano nel variare delle mentalità, nelle vicissitudini della riflessione teologica.

Ancor oggi, e più che mai, è acceso, sia in campo protestante che cattolico, il dibattito sul rapporto tra la specificità d'una fede - e in particolare quella cristiana - e la genericità della disposizione religiosa, sia pur che si concreti in religioni determinate. Guardini lo affrontava con molta profondità e risolutezza già nel 1934, distanziandosi in modo preciso e sottilmente argomentato dalla soluzione radicale della «teologia dialettica» barthiana. E abbiamo superato ai nostri giorni quella «estenuazione» della forza esistentiva del credere, che subentra nell'epoca moderna con il sopravvento della riflessività, fenomeno pure inevitabile e a suo modo positivo, estenuazione su cui Guardini faceva considerazioni finemente attente alla soggettività del credente nel 1928? Il lungo e impegnato scrìtto sulla fede nella grazia e la coscienza della colpa anticipa tutte le

attuali discussioni sulla caduta del senso del peccato, sui riduttivismi sociologici e psicologici, sulla possibilità di cogliere l'esigenza del perdono, non solo nella comunità ecclesiale, ma nella società umana. In genere, è la ben calibrata puntualizzazione di ciò che è distintivamente cristiano in senso positivo rispetto a esperienze vissute - etiche, asceti-che, mistiche, che vengano sottoposte a una teorizzazione soltanto filoso/tea - quanto, con rigore e acutezza, emerge in questi saggi o discorsi.

Non inganni l'assenza, o quasi, di apparato scientifico, e non si sia corrivi pertanto a escluderli da una valu-tazione teologica in senso proprio: a prescindere dal/atto che il lettore avvertito vi può riconoscere la feconda e congeniale frequentazione di Agostino, di Pascal, di Kierkega-ard, e la ricca informazione sulla scienza della religione più quotata, oltreché degli esponenti di rilievo delle correnti teologiche a lui contemporanee, è la forza germinale di un pensiero con una propria originalità che qui si esprime, a proprio rischio e con la massima onestà: non certo con la sicumera di chi presume di avere in materie ardue, dove anche la reciproca fecondazione interdisciplinare è chiamata in causa, soluzioni complete e compatte, che dispensino dalla fatica di un'ulteriore ricerca, nella teoria e nella prassi.

In questa temperie spirituale e secondo questi paradigmi d'indagine, che senz'olirò sono alieni dalle strutturazioni - e talora non, forse, dalle strettoie? - accademiche, si comprende come, accanto alle trattazioni ampie e articolate, possano apparire, e assumere non minar peso, anche tré brevi «discorsi dottrinali» che mantengono la freschezza di una nobile oralità, svolgendo con spunti molto nuovi il tema (^//'interiorità cristiana, della preghiera di richiesta, del realismo cristiano.

In questi scritti, Guardini si rivela ancor sempre un maestro della riflessione che, in atmosfera di fede, fugge dall'astrazione nel senso deteriore e si reimmerge continuamente nel concreto dell'esperienza vissuta, delllLrìebnis, senza rinunciare tuttavia al discernimento sagace.

giulio colombi

ROMANO GUARDIMI

Fede - Religione - Esperienza

CAPITOLO PRIMO LA FEDE NELL'EPOCA DELLA RIFLESSIONE

II medioevo ha pensato molto e profondamente. Ha pensato con una fiducia che ci appare quasi giovanile. Con quell'ardimento con cui può pensare solo quegli, le cui radici vitali stanno protette nella terra non illuminata, al di qua d'ogni pensiero. Ben potevano pensare i grandi intellettuali del medioevo! Le origini della loro vita erano così vigorose e stavano celate in tali profondità, che nessun pensiero poteva recare loro danno alcuno. Anzi, la loro anima, il loro spirito, il loro sangue, tutt'intera la loro pianta umana nel suo germinare vivevano con tale vigoria, che avevano bisogno del pensiero per oggettivare tale vita e in tal modo attenuare la sua potenza. Si potrebbe dire che ciò rassomigliava al salasso nella medicina di allora: quelle costituzioni non avevano alcun sentore dell'anima, ma certo del contrario, e avevano necessità di assottigliare gli umori vitali. Il pensiero religioso poteva gettarsi fiduciosamente su realtà della fede; la stessa vita religiosa, la fede erano al sicuro. Questa vita di fede era così elementare che la sua pressione senz'altro non si sarebbe potuta sopportare, se il pensiero non l'avesse elevata incessantemente nell'ogget-tività illuminata.

Tuttavia la fede in se stessa rimane comunque

13

sempre inizio. Il pensiero non vuole «andarle alle spalle» o «a monte». Essa resta non riflessa. Si riflette sui contenuti di fede, e sull'intero mondo nella prospettiva della fede; non sulla fede in se stessa. Eppure sì, si riflette anche sulla fede medesima; ma costruttivamente, non in atteggiamento critico. Si riflette sulla fede per considerare le meraviglie della sua struttura;

per vedere come si atteggi rispetto ad altre forme di conoscenza. Ma non la si pone sotto lo sguardo critico. Di nuovo, ciò non significa che non si siano conosciuti dubbi di fede. Li si è certo conosciuti; però in prima istanza come peccati. Ma ciò significa che il dubbio soprattutto non stava sotto una categoria noetica - così come nemmeno la fede -, bensì sotto la categoria dell'esistenza santa; quindi di ciò che dev'essere difeso come santo, che è comandato come santo, di quanto è spiritualmente giusto e non giusto. Pertanto, rispetto al dubbio ci si collocava in quell'atteggiamento in cui, se si guarda la cosa in termini essenziali, di fatto ci si deve contrapporre: non lo si discuteva, ma lo si combatteva. Infatti, come l'autentica fede non può essere confutata, ma solo morire, così il dubbio di fede in fondo non può essere risolto con la discussione, ma solo superato col vivere, con l'agire, col sacrificarsi. Ma in questi comportamenti si tratta di una difesa della vita, non di un approfondimento teoretico.

Nell'epoca moderna la situazione cambia. L'intera vita passa nell'ambito della riflessione, anche la vita della fede. Non solo i contenuti della vita, ma la vita stessa, il suo svolgersi, il suo ambiente, i suoi presupposti vengono presi in considerazione. E precisamente, circostanza qui decisiva, non in senso costruttivo, ma critico. Quindi con l'interrogativo: com'è costitui-

14

ta questa realtà? Perché e donde è così? Da che cosa dipende? E, a monte di tutto, l'interrogativo: questo processo di vita, quindi, per esempio, questa presa di posizione o questa convinzione, giustifica la pretesa che avanza, di essere sottratta alla discussione? D'essere un prius, un fondamento, che si dovrebbe rispettare? O è anch'essa in qualche modo «funzione» di altro? Conseguenza, risultato, espressione, mezzo per un fine - e allora non sarebbe anche consentito a tutto ciò di rivendicare qualche peso maggiore di quello che spetta appunto a una «funzione»? Questo è il problema, questo l'atteggiamento spirituale propriamente critico: quello della riflessione.

II

Nei discorsi di Buddha ritorna continuamente questo avvertimento: il monaco deve vigilare attentamente presso tutto ciò che egli vive: presso le sue esperienze, i suoi sentimenti, il suo agire e il suo omettere1. Se vede qualcosa di bello e prova piacere, lo deve notare, penetrare, e dirsi: «Dunque questo è piacere! Dunque così è questo piacere! Dunque da ciò viene questo piacere!» Quando qualcosa gli da do-

1. Cosi per esempio Raccolta delle [Esposizioni] medie [Majjhima-Nikaya] I, 10 [ed. ted. K.E. Neumann, Die Reden Coturno Buddho's, Leipzig 1921' voi. I, pp. 122 ss., p. 131]: «Cosi egli vigila verso l'intimo sui sentimenti intorno al sentimento, vigila verso l'esterno sui sentimento intorno al sentimento. Egli osserva come sorgono i sentimenti, osserva come i sentimenti se ne vanno, osserva come i sentimenti sorgono e se ne vanno. 'Ecco il sentimento'; questa cognizione ora gli è presente, nella misura in cui appunto è atta al sapere; ed egli rimane non radicato, e in nessun posto del mondo è attaccato. Così però, o monaco, il monaco veglia sui sentimenti intorno al sentimento». E così via attraverso l'intero ambito della vita.

15

lore, egli deve cogliere questi dolori, comprenderli nella loro specificità e nelle loro cause e dirsi: «Dunque questo è dolore! Dunque così è questo dolore! Dunque da ciò viene questo dolore!» E così con tutto. Allora che cosa accade? Allora gradualmente si dissolve l'incantesimo del piacere, l'adesione al piacere;

l'incantesimo del dolore, la paura di fronte ad esso. Allora si dissolve l'esperienza vissuta della paura e del dolore. Allora, man mano, svanisce la vita stessa. Se il monaco ha fatto tutto ciò - e ancora molto altro che quest'esercizio sostiene o da esso si sviluppa - con sufficiente profondità, purezza ed energia, allora giunge il momento in cui la vita stessa scompare. «Così conoscendo, così vedendo, l'animo viene staccato dalla follia del desiderio, liberato dalla follia dell'esistenza». Il monaco è «morto, disawezzato, sradicato, sfuggito, strappato a ogni sete di vita, ridestato alla vigilanza infinitamente perfetta». A lui si fa chiaro: «Non v'è più nulla!»

Qui viene sviluppato in un sistema ascetico un processo che ciascuno può osservare in se medesimo:

un atto, un complesso di atti, un agire, un ordinamento dell'agire rimangono securizzanti, convincenti;

per me, per la persona che li vive, danno sostegno, sostengono questa mia esistenza finché la sua radice mantiene il suo punto di partenza nel non saputo, nel non conscio. Se però continuo a dirigere il raggio della coscienza verso la radice di questi processi di vita, la loro freschezza e vigoria ne vengono menomate. Se poi dirigo pienamente il raggio della coscienza su di essi in quella forma, si potrebbe dire, acuta di il-luminazione, di cui dicevamo, quella critica cioè, con la volontà di «andare loro alle spalle», di dissolverli, di ridurre il dato a condizione, di riconoscerlo come

16

una funzione; se io attuo quanto davvero significa propriamente «riflessione», cioè il rispecchiamento del processo di vita nel nitido spazio della coscienza, dalla radice alla foglia, dal primo spuntare del germe alla fine, così da potervi guardare attorno, sopra e sotto, dentro e attraverso - allora quella vita vi rimette un determinato collegamento con le sue sorgenti. In un certo senso muore. Perde una determinata sicurezza, uno slancio, una forza persuasiva che prima possedeva. Cala - ed è qui che ci interessa in particolare - la sua capacità di sostenere la mia esistenza.

Io voglio essere; come quest'essere vivo, personale. Ma lo posso solo se sono protetto, al sicuro in un «senso» o «significato», se vivo in vista di un Incondizionato che da salvezza. La persona non può puramente e semplicemente sussistere; la persona non può essere come la pianta, semplicemente collocata lì. Può sussistere solo come sussiste lo spirito: mirando al valore e all'essenza; alla verità, e bontà, e diritto, all'ordine spirituale; in dirczione di un Incondizionato; in ultima analisi, di Dio. La persona è se stessa essenzialmente nella relazione con Dio, in un reale rapporto con Lui - sia in senso positivo, e allora per la salvezza; sia in senso negativo, e allora per la disperazione. Quest'Incondizionato che da salvezza, dal quale dipende la mia esistenza personale, viene però accolto, sostenuto, attuato umanamente da un «so-strato» vivente: dalla mia vita umana, spirituale e corporea; da una struttura d'atti; da un tessuto di conoscenze, prese di posizione, azioni, sentimenti ... In quella fase storica «precritica» delineata la vita era senz'altro dotata di capacità portante per tali contenuti di senso. Vólto, con semplice abbandono, a quel-

17

le realtà incondizionate, l'uomo era in grado di accogliere in sé con sicurezza e pienezza il senso che dava garanzia alla persona. Non appena però si compie quell'estenuazione del tessuto corporeo e spirituale della vita per opera della riflessione, la sua forza di sostenere vitalmente i contenuti di senso personale, che sono condizione di salvezza, appare sminuita.

Valori, norme, essenze, idee, complessi di senso; la stessa verità e il bene di Dio - tutto ciò viene accolto realmente nell'atto del pensare, valutare, volere, fare allorquando viene pensato, valutato, voluto, fatto non solo in modo «esatto», ma anche con la risolutezza, la profondità, la potenza d'esperire vitalmente corrispondenti. Non basta che quei contenuti siano «intesi» rettamente, designati con rimandi, determinati in maniera calzante, giudicati validi in senso og-gettivo. Il contenuto di senso dovrebbe essere realizzato nell'atto, nello svolgersi della vita; ma la misura in cui così si realizza il senso non dipende soltanto dall'esattezza dei contenuti, ma pure - e in modo sempre più preciso quanto più si tratta dei contenuti di senso propriamente personali - dal peso con cui si esperisce e vive l'atto; dall'ampiezza e dal 'pescaggio' dell'esperienza; dalla forza vitale e sensitività dell'atto realizzante. Io «ho» il contenuto nella misura in cui attuo potenza viva applicandomi ad esso. Ho il valore nella proporzione in cui, cogliendolo, «divengo» io stesso. Possiedo, dell'incondizionato oggettivo, tanto quanto, afferrandolo, «sono» vivo in quest'atto che lo afferma. Se questo è vero; se questa è realmente una legge del mondo spirituale2 - allora la misura in cui si

2. Cfr. in proposito: R Guardini, Heilige Schnft und Glaubenswissen-schaft, in «Die Schiidgenossen», 8 (1928).

18

realizza il senso non dipende solo dall'esattezza con la quale viene colto l'oggetto, ma anche - e in modo che cresce in precisione, quanto più si tratta dei contenuti di senso personali - dall'intensità, con cui il soggetto, questo soggetto, questa persona compie l'atto vivo dell'afferrare l'oggetto; dalla misura della sua disponibilità e capacità di realizzare un atto, e di realizzare se stesso nell'atto. Se l'uomo vivo si fa fiacco, impedito, freddo, pavido; se l'intensità della partecipazione, l'audacia dell'abbandonarsi calano, insieme con la capacità di immettersi nell'atto con il proprio vivo patrimonio d'energia, allora la misura della realizzazione del valore cala - per quanto, in senso oggettivistico, si sappia ancora, per quanto d'esatto ancora si colga.

Tutto ciò non si dovrebbe intendere su un piano psicologistico. Il senso come tale; l'essenza e il valore;

tanto più il Dio vivo e il bene salvifico non dipendono dall'atto umano. Sussistono in sé. Certo, però, da tutto questo dipende il loro farsi effettuali nell'agire che sia dotato di valore. Se dunque l'atto concreto è indebolito da qualche causa, allora lo è anche l'appropriazione di quel senso, e per ciò stesso l'adempimento dell'esistenza personale, che vi è collegato. Questo è poi anche effettualmente il punto in cui subentra la crisi con l'inizio dell'epoca moderna. Essa non deriva da singoli problemi oggettivi; ma dall'effetto di estenuazione della vita operato dalla riflessione. Abbraccia tutta la vita spirituale, anche quella della fede3.

3. Cfr. in proposito anche R. Guardini, Der Glaube in unserer Zeit, Wùrzburg 19632, come anche Glaubensgeschichte und Glaubensaueifel, in Glaubenserkenntnis, Wùrzburg 1949, pp. 106 ss. (tr. it in prep. presso la Morcelliana).

19

In essa non si tratta di chiedersi se questa o quella proposizione di fede sia vera. Diviene invece diffìcile all'uomo afferrare come in genere contenuti che hanno i giusti tìtoli per promuovere la fede possano entrare nella vita. Diviene difficile alla sua energia d'atto e d'esperienza vissuta realizzare nell'atto e nell'esistenza l'enormità di una rivelazione e del suo contenuto. È indebolita la capacità di reggere a contenuti assoluti. Gli atti concreti di vita - e in verità quello di qual-siasi fede, come d'ogni conoscere, prender posizione, agire è un atto concretamente vivo - hanno perduto la loro immediatezza sotto l'influsso della riflessione;

ma è innanzitutto la capacità di dar corpo a contenuti assoluti che sembra indebolita con tale processo.

A motivo dello sviluppo spirituale dell'epoca moderna cadono parecchie illusioni. La critica storica mostra in più luoghi dipendenze, dove prima si vedeva qualcosa di originario. L'esame dei rapporti riconduce all'ambiente e al campo di attuazione più di una cosa e di un processo che prima parevano avere un'esistenza a sé. La realtà si fa più spoglia. Ma non è questo l'essenziale, lo specifico. Tutto ciò precederebbe d'un passo la verità storica, ed essa può essere pari-menti autentica verità, quindi non recar mai pregiudizio a quella della fede. Al contrario, questa dovrebbe emergerne più pura e vigorosa. II fenomeno specifico che qui ci occupa è che la vita stessa si fa insicura. La vita umana ha il compito di realizzare contenuti og-gettivi nello svolgimento concreto dei suoi atti; compiere prese di posizione incondizionate di fronte a esigenze incondizionate. È proprio quest'energia che appare indebolita. Ma con ciò anche l'intensità con cui quei contenuti vengono fatti propri, le compo-

20

nenti soggettive di quel che si chiama «conoscere vero» e «essere buono». Qui: la forza dell'atto di fede come assimilazione dei contenuti della Rivelazione.

In tal modo il pericolo della scepsi si fa incombente. Quindi il pericolo di scorgere, nel diminuire di una forza di realizzazione immediata, la fine della possibilità di realizzare contenuti assoluti in genere. Il pericolo di rinunciare in genere all'assimilazione di tali contenuti, qui quelli della Rivelazione. Anzi, infine il pericolo di dichiarare che tali contenuti non esistono affatto, e comunque ogni giudizio sulla loro esistenza è ozioso.

Qui affonda una delle radici del «dubbio di fede moderno». Quindi non in una scossa particolare di carattere logico, o psicologico o storico, o condizionata in qualsiasi altro modo, che provenga da qualche problema determinato, ma nell'effetto della riflessione sulla forza della realizzazione di contenuti assoluti in genere.

Così l'elemento decisivo per il nucleo dell'attuale situazione di fede non è il preoccuparsi di questo o quel problema particolare - il che naturalmente mantiene tutta la sua importanza. Il compito vero e proprio scende più in profondità. Si tratta di vedere il significato di quella stessa situazione e di prender cognizione del come sia possibile una fede che nasca dallo stato attuale dello spirito. L'uomo che si trova in questa situazione non può spezzare la linea della riflessione senza avvertire di aver abdicato a se stesso -quindi si tratta del problema del come quest'uomo, partendo dai fondamenti di una vita, basato sui quali esiste, possa accogliere contenuti assoluti negli atri

21

che è in grado di compiere. Con questo è già detto qualcosa, che però deve essere ancora precisato espressamente: le argomentazioni finora svolte non hanno affatto revocato in dubbio, in termini dogmatici, la tesi fondamentale cristiana secondo la quale la via verso la fede è aperta ad ogni uomo. Ciò però significa che l'atto della fede può essere compiuto muovendo da qualsiasi costituzione psichica e in ogni punto dello sviluppo cristiano. Questa possibilità ovviamente rimane anche di fronte a quell'indebolimento della forza d'atto di cui si parla qui.

Giacché anzitutto è proprio della struttura dell'atto conoscitivo - e, analogamente, degli altri atti che realizzano un senso - che l'oggetto possa essere colto, fissato, investito da un assenso «obiettivamente», quando v'è solo il minimo di partecipazione soggettiva la quale consiste nella presenza di disponibilità e volontà di cogliere così [l'oggetto]; nell'attuazione inoltre delle operazioni richieste, esatte in senso noetico, sia formalmente che materialmente.

Ciò rimane sempre possibile, per quanto l'intensità viva dell'atto sia indebolita.

A prescindere da questo, tuttavia, anche tale infiacchimento è sempre solo approssimativo. Significa appunto «infiacchimento», non «distruzione»4. Rimane sempre richiesto un minimo di forza di realizzazione affinchè l'oggetto venga fatto proprio.

4. Anche questa è possibile. Allora abbiamo un caso psicopatologico. Ma questo esorbita dalle nostre considerazioni. Avrebbe per noi solo un interesse euristico, nella misura in cui ogni sfasatura dell'atto o della situazione della vita psichica normale in un determinato punto trapassa nel patologico; cosicché dunque le patologie sono casi-limite delle condizioni normali, e proprio per questo gettano su di esse chiara luce.

22

Con questo resta sempre anche quella misura di natura praesupposita, che è necessaria affinchè la grazia della fede trovi la base d'atto naturale occorrente.

Qui dunque non facciamo null'altro che porre accanto ad altre un tipo di difficoltà di fede, fattasi par-ticolarmente significativa per l'uomo d'oggi. Non per esigere condizioni particolari per lui, per esempio come se si trattasse di persone «colte» a fronte di altre più ignoranti, o progredite e criticamente «illuminate» rispetto a persone ingenue. Ma appunto per mostrargli con tutta la chiarezza il suo dubbio di fede -proprio per il fatto, tuttavia, che viene compresa la sua angustia e difficoltà nella fede.

Ancora un altro cammino porta allo stesso punto. Ciò che noi abbiamo chiamato «senso» nel significato più ampio, l'idea, l'essenza, il valore o comunque vogliamo esprimere ciò che è assoluto nel suo valere, ha un duplice aspetto: significa da una parte preziosità, elevatezza, pienezza che rende felici. Significa però anche al tempo stesso legame, peso, difficoltà, destino. Ogni altezza che si sia mai levata nella coscienza degli uomini, è divenuta anche giogo per loro. Tutto ciò che è nobile ha anche portato sofferenza. I valori sono dolori.

Già la profonda incommensurabilità del valore, che è dato in compito, con la nostra forza viva, significa dolore. Io amo il bene; lo voglio realizzare. Ma esso è assoluto; io, al contrario, sono limitato. Certo, l'aspirare, il tendere all'infinito è bello; ma v'è anche qualcosa di terribile, se si guarda solo dalla prospettiva umana. Il «tu devi» dell'esigenza assoluta significa un giogo. Esso pesa sull'essere umano vivente. Non vogliamo recitare la parte di eroi. Che altro significa

23

mai lo sguardo bramoso, nostalgico verso un'esistenza esente da doveri e che goda di una semplice unità con se stessa, come emerge in favole, saghe e sogni, se non il fatto che la nostra nobiltà forma pure il nostro giogo?

Ma vi si aggiunge qualcosa di più: ogni valore è puro, univoco Finché lo si prende in senso astratto. Tuttavia gli è data una peculiare duplice efficacia, non appena entra nel concreto ambito di vita. Preso in sé, ogni valore è solo benefico, positivo. Ma dove si trova il valore, in rapporto al quale nella vita concreta non sorga anche la minaccia d'un pericolo? E in modo tanto più forte e sottile, quanto più è elevato il valore? La «verità» per sé è univocamente positiva. Ma «dire la verità» - non ci manca sempre un capello a che significhi pure «essere duri»? Quando la «bontà» non diventa anche debolezza? Quanto a lungo la «benedizione», l'«abbandono» preserva la dignità?

E se anche tutto ciò si avverasse nel caso più alto -come poi avverrà nella media? E se anche nel singolo - come poi tra i molti? Quali cose terribili ha già portato sugli uomini la volontà di mantenere pura la fede! Quali inumanità lo zelo per la causa di Dio! Quali attentati alla natura l'aspirazione a staccarsi dalla realtà terrena! Si obietterà: non quella volontà, quello zelo, quell'aspirazione in se stessi, ma il fallimento degli uomini! Ma è anzi appunto qui che sta il problema, nel fatto che non esistono un «volere», uno «zelare», un «aspirare» per se stanti, in un'univocità astratta, ma sempre solo come volere e zelare di questa persona. In tale condizione però non sono univoci, bensì colmi di enigmatiche polivalenze. E già così: un'infinita sofferenza dipende da ogni valore. E tanto più do-

24

lorosa, quanto più nobile è il valore ... e quanto più elevato il rango del volere che si dirige ad esso ...

Dobbiamo scendere ancora una volta più in profondità: noi uomini non siamo esseri armonici: si ripercuotono in noi profonde contraddizioni. Ciò che significa «vita» è in sé scisso: volontà di vita e volontà di morte sono intrecciate tra loro; volontà di piacere e volontà di dolore. Tutto ciò può divenire per noi via al piacere e motivo di ascesa, ma anche tutto può farsi strumento di sofferenza e di rovina. Tutto tormenta l'uomo, poiché è lui stesso a volersi tormentare. Chi ha sentore della malinconia, nelle sue molteplici forme e ramificazioni, ha cognizione anche di questa volontà enigmaticamente muta che v'è in noi, di dover soffrire, di dover affondare5. Chi è perspicace, vede la potenza oscura della malinconia passare attraverso la vita umana, in cospirazione con tutte le potenze dell'innaturalità, della crudeltà, della confusione. E non vi sono armi nella sua mano che più taglienti si volgano contro la propria stessa vita, di quel che siano appunto i valori più nobili. Tra tutte le realtà elevate e sublimi, l'umanità per quale ha sofferto più spaventosamente che per quelle religiose? Proprio perché è la realtà suprema, più delicata, più intima; proprio perché ne dipende la salvezza, la più gelosa difesa e sicurezza, il senso dell'uomo puramente e semplicemente; poiché essa tocca l'interiorità più sensitiva ... A cominciare dallo scrupolo del bambino

5. Vedi in proposito Vom Sinn der Schwermut, pp. 502-503 di Unterschei-dung des Christlichen, Mainz 1963; tr. it. Ritratto della malinconia, Morcellia-na, Brescia 19934.

25

che prega fino al vaneggiamento di essere reietto nell'animo disperato, o all'incendio intcriore del fanatico; dalla pressione di rappresentazioni infantili non illuminate fino all'innaturale di parecchie unilateralità, fraintendimenti, immeschinimenti e durezze ...

Tutto questo esiste; e in qualche forma è penetrato in ogni uomo e attraverso tutti i tempi. Tutto ciò si accumula e corrode l'energia viva della realizzazione del valore. Quando una persona per lunghi anni della sua giovinezza si è tormentata in quella terribile cornee di un malinteso dovere religioso, nello scrupolo - e quanti ve ne sono! - che cosa accade poi? Allora la capacità e l'owia disponibilità volenterosa alla dedizione al valore religioso scemano, e un giorno s'instaura l'indifferenza all'appello del valore; la riluttanza; addirittura una rivolta con la forza degli elementi. L'energia d'atto era stata sottoposta a richieste eccessive; ora essa se ne va. L'animo era troppo tormentato; ora si difende con l'insensibilità.

Ma fenomeni simili possono verificarsi anche nella collettività. E là sembra che a quell'effetto sopra delineato della riflessione corra parallelo l'effetto dell'angustia nell'esperienza dei valori. L'umanità ha sofferto per un determinato periodo sotto i valori; ora risponde con l'insensibilità! Essa è per il cuore ciò che la scepsi è per la conoscenza6.

Ciò non equivale a un'accusa contro questo o quel metodo religioso. Qui si tratta di qualcosa di più profondo che non siano questioni metodologiche. Ogni

6. Forse si considera sotto questo punto di vista la mancanza di spiritualità, spesso rimproverata alla gioventù dell'ultima generazione, interamente dedita alla macchina e allo sport - anche la gioventù più nobile.

26

metodo, alla fine, produce questo effetto. E appartiene alla nostra esistenza umana la necessità di «metodo»; determinate forme tramandate, strutture di educazione alla realizzazione del valore.

Per il nostro problema il contesto di fenomeni delineato ha il significato di diminuire in genere la concreta energia della realizzazione del valore religioso. Così anch'essa viene indebolita. Il credente diventa meno sensibile; diviene più ottuso, indifferente - o invece irritabile, diffidente di fronte ai valori cristiani.

Ciò anzitutto porta con sé l'interrogativo particolare: non ci troviamo dinanzi al compito di una nuova pedagogia del valore per essere ricettivi ad esso, per l'energia e la risolutezza nel realizzarlo? Come rimangono forti, capaci di discernimento, profonde, vigorosamente continuative tali disposizioni? Quando si indeboliscono? In quale misura e per quale via possono essere formate? E così via.

Poi: quali spostamenti si sono verificati, che ci con-cernano particolarmente? Il credente - soprattutto quello che crede in un corpus comunitario - convinto dell'assolutezza della realtà religiosa, è fin troppo incline a trasferire questa assolutezza del bene salvifico anche su determinate costellazioni fondanti di valori;

e di conseguenza a respingere a priori la questione se non abbiano luogo allora, in queste configurazioni portanti di valore, degli spostamenti. Ma se questi si verificano - e uno sguardo alla storia basta per constatarlo - e non se ne tiene adeguato conto, allora il carattere di qualcosa di sopravvissuto, che inerisce all'immagine di valore fondante, si ripercuote sullo stesso bene salvifico e lo fa apparire allo stesso modo «passato».

27

Ma per il resto, ed è questo che soprattutto ci interessa qui, quell'indebolimento della forza di esperire il valore religioso, si congiunge con l'indebolimento sopra descritto della realizzazione del senso colto dalla fede. Infatti, in verità, cogliere con la fede il patrimonio della Rivelazione non è un freddo constatare una situazione oggettiva, ma il vivo annodarsi di una realtà con una Realtà; è dedizione, legame, fiducia, unione e pertanto poggia non meno sulla valutazione e sulla percezione viva di una preziosità che su un esatto giudizio sulla situazione oggettiva.

Ili

Noi dunque dobbiamo chiarirci su come si presenti una «fede riflessa» a differenza di una «immediata» - prendendo questa parola con quella restrizione, sotto la quale può essere in genere «immediata» la fede cristiana, che invero viene dalla grazia e quindi sempre si distingue dalla natura. È quella situazione di fede, che è espressa dalla parola di Newman: «Fede significa saper sostenere dubbi».

Un esempio tratto dalla logica potrebbe avvicinare alla comprensione del problema: io riconosco che 2 x 2 è = 4. Ho riflettuto sulla struttura oggettiva di questa proposizione e ho capito che è esatta. Possibili motivi in opposizione, poniamo - che il semplice rapporto matematico rappresenti rapporti penetrabili per via logica, che per altro possono essere sommamente complicati - tali motivi in contrario dunque io li ho parimenti sottoposti a riflessione e li ho riconosciuti errati. Io capisco e dichiaro: 2x2=4. Ve anco-

28

ra possibile un dubbio su ciò? A me sembra di sì. Non nel senso che sussistano problemi irresoluti, od obiezioni che non abbiano finora alcuna risposta. Questi, anzi, secondo il nostro presupposto, dovrebbero essere nel complesso superati. Non si tratta quindi di un dubbio che si debba togliere con lo spiegare con maggior nitidezza e precisione o col pensare più in profondità. Non appena però s'è fatto tutto, su questo piano della constatazione dei dati di fatto e della penetrazione dei contesti, dell'esattezza materiale e formale; non appena sono avvenute tutte le risoluzioni e le confutazioni che si esigono, l'interrogativo: la cosa sta realmente così? non potrebbe essere anche altrimenti?, può essere posto ancor sempre sensatamente. Di che tipo è questo «dubbio»? Non deriva dalla sfera contenutistica del processo conoscitivo, ma dal rapporto in cui si pone il contenuto con l'attuosità concreta del processo.

Torniamo al problema: come dovrebbe essere una certezza che mi rendesse impossibile anche questo dubbio?

Ciò richiede che ci si accordi preliminarmente su una cosa. Che significa verità? La migliore risposta è ancora sempre l'antica classica: adaequatio rei et intel-lectus, l'accordo tra l'oggetto e l'immagine che inte-riormente Io riproduce - prendendo la parola «immagine» in quel senso più Iato che abbraccia al tempo stesso percezione e contenuto rappresentativo e concettuale.

Questa «adeguazione» però contiene un duplice aspetto: in primo luogo quello della corrispondenza oggettiva tra le determinazioni ontologiche della cosa e i contenuti rappresentativi ovvero concettuali che la

29

riproducono noeticamente. Vogliamo chiamare questo dato di fatto della adeguazione controllabile tra oggetto e contenuto dell'immagine Inesattezza». Con ciò però non si da ancora piena verità. «Verità» significa, secondo il suo pieno contenuto di senso, non solo adeguazione oggettiva, ma anche che questa adeguazione è attuata in modo vivo dal pensante; che egli sperimenta il suo dato di fatto, il suo contenuto particolare, il significato e la portata d'esso ecc. Una esattezza noetica è verità nel senso pieno solo quando essa si fa intima al conoscente, diviene in atto nella sua interiorità. Con questo non si intende che egli colga l'oggetto «profondamente» a differenza di chi lo coglie «superficialmente» o che ne tragga conseguenze pratiche, a differenza di una considerazione meramente teoretica. Si tratta invece di una distinzione nel cogliere teoreticamente l'oggetto in questione. Nel momento dell'esattezza ha luogo una corrispondenza oggettiva e di questa corrispondenza si prende cognizione; viene constatata. Nel secondo caso ciò che è colto esattamente viene anche [riprodotto in modo vivente; accolto nell'ambito dell'interiorità, assimilato, fatto proprio. Il conoscente vive nell'oggetto. Solo i due momenti insieme costituiscono verità nel senso pieno. Non si possono mai staccare reciprocamente per intero. Tuttavia sussiste tra di essi una tensione.

Il momento dell'esattezza può essere enucleato per determinati tratti e fino a un certo grado: dovunque si tratti di fatto solo della constatazione di situazioni oggettive. Caso limite sarebbe la macchina per pensare, quale abbiamo di fatto a disposizione nella calcolatrice. Qui la funzione dell'esattezza è oggettiva

30

in tal misura che il pensiero ha bisogno di addurre il punto di partenza in cui viene fissata l'esattezza e di prendere cognizione del punto finale. Dovunque si tratti solo di constatazioni «meccaniche», di fatto basta la mera esattezza, ed equivale ad uno sgravio essenziale del peso del pensare produrre questa funzione con il massimo risparmio possibile di energia, cioè appunto meccanizzarlo7. Il meccanismo ha adempiuto il suo senso, quando il risultato toma giusto. Ma senz'altro è facile scorgere che il risultato di una calcolatrice, quello di un apparato statistico ecc. non sono «verità» nel senso pieno della parola. Rappresentano esattezza con spunti di verità. Verità autentica diventano solo quando vengono [riprodotti, vengono assimilati, fatti propri. E precisamente l'importanza del fattore di assimilazione cresce nella misura in cui si tratta di oggetti che mi interessano; di oggetti dell'ambito spirituale personale.

Da due forme di realizzazione della verità, di cui l'una rappresenta il minimo, l'altra il massimo di tale genuina realizzazione della verità, risulta chiaro che la verità costituisce l'attuazione di un esatto contenuto; che quindi contiene il momento esistenziale dell'assimilazione della «vita nell'oggetto», della autoat-

7. Si possono trovare analogie a questo fenomeno dappertutto dove, nella vita dell'uomo, importa solo che determinate funzioni siano svolte. Cultura significa per largo tratto la creazione di meccanismi che adempiono tali funzioni; per esempio le forme del rapporto sociale. Basta che le forme di quesd rapporti siano colte nel loro senso oggettìvo e attuate con esattezza. Non hanno altro compito che di strutturare nel modo più agevole la relazione tra gli uomini. Sono 'riguardo' oggettivato. Sarebbe errato esigere da esse che siano un riguardo attuato, cioè effettivo amore del prossimo. La vita ne sarebbe intollerabilmente aggravata. In modo analogo si dovrebbe parlare di molti ambiti.

31

tuazione diretta all'oggetto. Quello è la convinzione. Comunque si chiami l'oggetto, verità nel senso pieno della parola si realizza solo nella convinzione. E che il fattore della convinzione si celi anche già nella verità più semplice, si dovrà mostrare più avanti. Questa, dunque il grado supremo di realizzazione della verità, è la contemplazione di Dio, che secondo la definizione di san Tommaso fonda la beatitudine eterna8. Se la conoscenza della verità deve fondare la beatitudine, allora è chiaro senz'altro che essa equivale a un atto di vita.

La verità viene dunque conosciuta quando in uno svolgimento o atto vivo, l'obiettiva presa dell'oggetto viene fatta propria. La misura della realizzazione della verità dipende dalla misura in cui, da una parte, è precisa la corrispondenza, dall'altra, fine e vigoroso e capace di esaurire il contenuto è l'atto vivente che lo [riproduce.

Riprendiamo ora il problema posto sopra. Come dovrebbe essere configurata una certezza, vale dire, dunque, una conoscenza di verità, che renda impossibile quell'interrogativo sul dubbio?

Dovrebbe starmi innanzi un contesto oggettivo colto senza errori e chiaramente penetrato. Esso sarebbe in sé vero; assoluto in senso noetico. Questa assolutezza noetica dovrebbe però essere realizzata anche nell'atto. Io dunque non dovrei solo constatare:

le cose stanno assolutamente così - ma dovrei speri-

8. Prendiamo in senso filosofico ciò che è inteso qui; più esattamente, intendiamo il concetto filosofico, che vi è contenuto, della realizzazione della verità.

32

montare quest'«assoluto esser così» nell'atto conoscente con un'intensità d'atto, adeguata alla sua assolutezza. La forza e chiarezza della completa consapevolezza: «Le cose stanno così», dovrebbe corrispondere all'assolutezza di quel contesto oggettivo di dati. Ma ciò significa: «io dovrei essere capace di una conoscenza assoluta non solo come contenuto, ma anche come atto». Ciò però non avviene. Il pensiero umano contiene essenzialmente il paradosso di poter constatare: «Qui v'è un assoluto; in tal modo si può dimostrare, vale a dire presentare in maniera inconfutabile, che questo sta assolutamente in tali termini» - ma l'atto concreto, col quale viene colto, viene constatato, viene posseduto intcriormente, tale contesto di dati, come atto, nella sua misura dinamica, non è assoluto, ma condizionato: la sua forza di attuazione noetica, l'intensità dell'esperire la verità sono limitate. Nell'atto concreto dunque la verità non può essere realizzata adeguatamente. Rimane uno scarto, una sproporzione tra valenza del contenuto e misura dell'atto.

E precisamente questa sproporzione sussiste di fronte a ogni oggetto. Qualsiasi verità come tale è assoluta, cioè, appunto «vera», ed è indifferente quale possa essere il suo particolare contenuto. Ma vi si aggiunge però ancora il significato del contenuto stesso. Non appena il contenuto della conoscenza in se stesso è qualcosa di assoluto, si tratta dunque, poniamo, di norme o di idee, o addirittura dell'Assoluto tout court, di Dio, allora tale discrepanza aumenta ancora pure a partire dal contenuto.

Determinate indoli non riescono a vedere questa sproporzione. La loro recettività a contesti di dati logici oggettivi è tanto forte, rispettivamente la loro esi-

33

genza di vivezza esperienziale è così esigua che, alla loro consapevolezza, quel resto sfugge ed esse suppongono di essere assolutamente certe in termini effettivi, secondo l'atto. Esse erigono la finzione di un soggetto logico astratto e privo di spessore iniziale, che accolga contesti di dati oggettivo-logici e, senza altro, realizzi evidenza logica. Ciò che esiste è il soggetto concreto, l'uomo conoscente. Conoscere realmente significa farsi intcriormente consapevoli, con l'atto concreto conoscente, del contenuto conoscitivo. Ma ciò avviene nella misura in cui l'intensità con cui è compiuto l'atto corrisponde al peso ontico del contenuto - colto con esattezza. La misura di questa corrispondenza è essa soltanto l'autentica verità9.

L'atteggiamento conoscitivo più complesso che mira al concreto non è suscettibile di quella apparente univocità. Esso avverte la sproporzione, lo scarto. Dove si trova la soluzione?

Non appena ho fatto ciò che il pensiero può fare;

non appena la coscienza intellettuale mi dice che il contesto di dati sia formalmente che materialmente è là in termini ineccepibili; allora viene l'istante in cui il problema della conoscenza non diviene più cosa del pensare oggettivo, ma di un atto più profondo, cioè:

del superare l'inadeguatezza costitutiva dell'atto conoscitivo quanto all'esattezza del conoscere; giungere

9. A tal proposito bisogna far notare particolarmente che lutto questo non ha nulla affatto in comune con un emozionalismo-psicologico della conoscenza, con una noetica dell'esperienza vissuta [Eriebnis] o una vitaliz-zazione pragmatica della verità. Si tratta solo di rendersi pienamente conto del fatto che «conoscere» è un atto concreto con un significato contenutistico universale, sovraconcreto; ma questo è legato a quello, è posseduto intcriormente da esso; appunto «saputo». Conoscenza è oggetto saputo. Qui importa tutta la conseguenza di quest'esser saputo.

34

ad arrestare, movendo dall'assolutezza oggettiva del contesto di dati quale si è colto, quella soggettiva possibilità di oscillazione, quella fluenza del sentimento della verità. Allora sono al punto in cui non ricerco più, ma decido; non guardo più, ma stabilisco: «Le cose in questo caso stanno così!». Io impegno me stesso col mio onore, in quanto onore di questa persona umana che conosce, sull'affermazione che le cose stanno così. Il più semplice atto logico che coglie un contesto di dati, e lo esprime, viene designato con la stessa parola con cui si indica la decisione d'un giudice: il giudizio. Non v'è nessun puro rispecchiamen-to dell'oggetto. Nel centro e cuore dell'atto noetico giace qualcosa di più profondo: il pervenire a fermare la fluenza che deriva da quella sproporzione; la delineazione in fermi contorni di quell'ultima indeterminatezza costituzionale. Sarebbe però un fraintendimento volontaristico vedere qui un «atto di volontà». In verità si tratta di qualcosa di molto più profondo che di un «volere». E l'atto elementare della persona, con cui essa si afferma contro il caos; noeticamente, eticamente e criticamente al tempo stesso. La persona con il suo essere vivo s'impegna a sostenere che quanto ha afferrato è univocamente e realmente così. Ma, appunto ciò facendo, essa s'impegna per se stessa. La frase: «Questo sta così» implica l'altra: «Io sono così». È il principio di [non]* contraddizione «compiuto at-tuosamente»: la forma elementare della fedeltà. Chi non la esercita soggiace al caos.

* Satz vom Widerspnith: nell'uso italiano, in un'ottica diversa riferita allo stesso principio, si è soliti aggiungere il «non». Le parentesi quadre, dovunque ricorrano, indicano aggiunte o integrazioni (specialmente per i rimandi biblici) del traduttore (n.d.t.).

35

Un parallelo a questo sul piano del far proprio il valore:

Io mi trovo di fronte a una situazione, cioè a un complesso strutturato di persone, avvenimenti, rapporti dal quale una compagine di valori si volge a me, ponendomi esigenze. Lo afferro, lo penetro, lo pondero, e giungo al risultato: «Questo si deve fare. Questo valore è, qui, quello richiesto, quello da realizzarsi. In ciò io realizzo qui il bene». Così allora io decido: «Quest'esigenza è il mio dovere». Con tale frase io riconosco, nel caso dell'esigenza di valore che prima restava sospesa, il carattere categorico; il carattere del dover essere. Essa ha l'assolutezza etica:

«Questo è il bene. Come assoluto lo si deve fare».

Ora, in corrispondenza del rapporto noetico sopra delineato, si precisa: «può risultare indiscutibilmente chiaro che questo valore è ciò che dovrebbe essere». Tuttavia il sentimento del valore morale, la viva consapevolezza dell'obbligazione, la coscienza in cui si salda il contatto della volontà con l'esigenza obiettiva, possono ancora oscillare; di conseguenza anche decisione e azione possono rimanere sospese. (La forma patologica di questa oscillazione è lo scrupolo, così frequente. Esso viene caratterizzato dal fatto che può essere presente in modo pieno e intero la visione giusta, come si mostra subito quando l'interessato deve consigliare un'altra persona. Ma la forza della realizzazione, la fermezza operativa del giudizio, la definizione della risoluzione non corrispondono a quell'esattezza della visione.) Questo vacillare nella percezione della validità e dell'obbligazione, nel far propria l'esigenza derivano - in corrispondenza a quello della certezza noetica prima considerato - non da mancate

36

chiarezze in ciò che appartiene all'oggetto, non da problemi di principio o da una confusa complicatezza della situazione pratica, ma dalla circostanza che l'assolutezza del dover essere, in sé constatata, non viene adeguatamente 'realizzata' nell'atto concreto di esperire l'obbligazione e di far proprio il valore. E ancora una volta sono una «decisione», un «giudizio», un atto di definizione che viene dalla trascendenza della libertà, a risultare bloccati da quell'oscillare10.

La stessa struttura ricorre in tutte quelle relazioni con un oggetto, che poggiano su un atto di dedizione e abbandono, di vincolamento della fedeltà, di legame assunto personalmente; rifacendoci a una parola di sant'Agostino, le chiamiamo relazioni di adesione. Vi sono legate in modo particolarmente stretto conoscenza e valutazone; realizzazione di verità ed esperienza di valore (apprezzamento). Vi rientra il rapporto sessuale con carattere definitivo: il matrimonio. Vi appartiene il rapporto di simpatia e di responsabilità consolidato in termini morali personali: l'amicizia. Inoltre il rapporto, ugualmente definito, verso la totalità sociale, lo Stato: il dovere civico-statuale. Del pari quello verso la creazione e il lavoro: professione e servizio, e così via.

Vi appartiene anche, e precisamente come la realtà suprema non solo nel grado, ma nella qualità, il rapporto verso Dio corrispondente alla Rivelazione:

la fede, Yadhaerere Deo. Se per altro il rapporto vuoi essere effettiva fede cristiana, a differenza di una melo. Di conseguenza la soluzione giusta, sia pedagogicamente che eticamente, è sempre quella di giungere in qualche modo a una decisione. Quando ciò non riesce con le forze proprie, allora aiuta una volontà estranea, un'autorità.

37

ra esperienza vissuta religiosa, o d'un'esperienza del valore religioso non impegnativa, deve allora contenere l'aspetto della definizione. Dev'essere fides; l'annodarsi di una relazione di fedeltà. Definitivo vincola-mento della propria persona alla persona di Dio rivelante. Definitivo accoglimento della verità rivelata di Dio nella propria convinzione. Definitiva accetta-zione del bene rivelato di Dio come contenuto della propria vita. Questa definitività è caratterizzata dal fatto che rinunziarvi di volontà propria, anzi anche soltanto metterla volontariamente in questione, non è solo, poniamo, errore o insicurezza rispetto ai valori, ma peccato".

Questo rapporto di fede ora sperimenta quel logoramento o estenuazione degli atti di vita realizzanti, e del fondamento vitale portante, di cui si parlava prima. La fede come grazia, come l'essere conosciuti e chiamati da Dio, come virtù teologale infusa, come il-luminazione da parte del lumen fidei, la fede sta al di là di tali cambiamenti. Ma il materiale umano, in cui tale appello è accolto e gli si da risposta; il complesso delle strutture bio-psichiche individuali e sociali, degli atti, delle competenze ecc., in cui si esplica la virtù teologale, è celato entro le vicissitudini del tempo - e qui del resto sta a sé il problema della misura in cui l'effetto elevante e rassicurante del grande contesto credente della Chiesa, nella Tradizione e nella comunità, mitighi quell'immersione e abbandono in balìa, e crei una certa elevazione al di sopra del tempo.

11. Cfr. in proposito R. Guardini, Heilige Schrift und Glaubenswissen-schaft, loc. cit (cfr. nota 2).

38

Questo poi avviene anche, di fatto, e lo si può dimostrare. Ma qui non consideriamolo e cogliamo il problema nella sua forma più acuta. Allora dobbiamo dire: nel rapporto di fede si trova nella misura più alta quella tensione di cui abbiamo parlato sopra.

II credente sa di essere obbligato e di volere cogliere e far proprio il patrimonio contenuto nel messaggio di Dio, il bene di Dio, nel concreto atto di fede e negli atti della vita cristiana che vi si fondano. È certo che sono i contenuti senz'altro assoluti; «assoluti» per validità come per sostanza12. Dalla Rivelazione è certo che la grazia lo abilita a prendere tali contenuti con un'intensità e definitività divine: la fede, la speranza, l'amore o carità stessi sono virtù «teologali», «infuse». Esse stesse, le quali sono gli atti specifici con cui si fa proprio il dono di Dio che si attua nella Rivelazione, sono d'origine divina. Il contenuto della Rivelazione dev'essere fatto proprio con l'energia della fede, dell'amore, della speranza elargita da Dio. Ma le due cose, contenuto divino ed energia divina, devono essere «attuate» umanamente. La grazia della fede e dell'amore deve in certo modo «incarnarsi» nella consistenza umana concreta, corporea e spirituale, dell'atto. L'atto così strutturato, soprannaturale e naturale, deve concretamente far proprio quel contenuto divino, nella conoscenza, nella dedizione, nella convinzione, nell'azione.

Ma qui risiede la sproporzione.

12. Non prendo in considerazione la distinzione che risulta nell'uso della parola «assoluto» in questo e in quel caso: là in un senso universalmente filosofico, qui in uno teologico.

39

Anzitutto: la forza di realizzazione umano-concreta, la capacità di appropriazione, l'intensità dell'esperienza della verità, dell'esperire vitalmente il valore e via dicendo, stanno in un rapporto essenzialmente inadeguato tanto rispetto al contenuto come anche al nucleo soprannaturale d'atto della relazione di fede e d'amore. Infatti l'uomo, con la sua potenza sempre finita, rimarrà sempre e necessariamente tanto al di sotto della ricchezza assoluta di contenuto e di significato della Rivelazione, quanto dell'energia divina propria della grazia della fede e dell'amore. Questa sproporzione esiste sempre; viene anche sperimentata sempre, in qualche modo. Ma poi: l'uomo dell'epoca moderna non la vive solo nella misura in cui essa è essenzialmente umana, data con l'incommensurabilità che sussiste in assoluto tra Dio e la creatura; ma sente ancora una insufficienza particolare, condizionata dal tempo, la quale in sé non dovrebbe esistere, e le cui ragioni stanno in quell'effetto indebolente sia della riflessione che dell'angustia e difficoltà a proposito del valore.

Così quest'uomo si trova in una condizione dell'energia psicologica della fede che è costitutivamente indebolita - sottolineo: dell'energia d'atto psicologica, controllabile sperimentalmente. La grazia della fede in sé non ne è toccata. Nemmeno la «prestazione» religiosa; l'opera della fede come via verso la salvezza;

tutte cose che possono essere addirittura più forti che nell'atteggiamento di fede psicologicamente integro. - Quest'indebolimento viene a torto designato con la parola «dubbio»; a meno che si parli di un dubbio costituzionale a differenza di un «dubbio come atto». Esso accentua però tutti gli spunti reali di

40

dubbio, il cui contenuto sia afferrabile; quindi tutte le varie questioni di fede, quali scaturiscono dalla problematica storica, psicologica, filosofica. Si potrebbe dire che tale indebolimento rappresenti una affinità a qualsiasi possibile dubbio; una sagacia nell'avvenire una difficoltà dovunque si annidi; una tendenza sempre vigile a sottolineare in tutte le questioni di fede l'elemento negativo e a conferirgli una forza distruttiva, che altrimenti esso non avrebbe avuto.

Questa intima, chiamiamola inadeguatezza di fede, è distinta dai dubbi concreti ed è diversa la difficoltà di dominarla, rispetto a quanto avviene per tutti i dubbi. A questi cioè esiste una risposta, almeno teoricamente possibile. Possono essere risolti, o almeno si può dire perché non si possono risolvere. Il pensiero può riportarli a una antinomia, che invero non può essere più dissella, ma può comunque essere compresa nel suo significato. Quella inadeguatezza di fede però non può essere in assoluto «risolta», ma solo sostenuta, sopportata. E superata, meglio: guarita. Certo, come situazione complessiva, solo in un lontano futuro. Quando avremo superato l'epoca moderna. Quando l'uomo che ha perduto l'ingenuità della fede medievale e ora già da lungo tratto cammina attraverso la riflessione, acquisterà stabilità di fronte ad essa. Quando sarà realmente divenuto maggiorenne;

anche sul piano religioso. Quando la sua fede avrà acquisito proprietà che ci è dato il compito di raggiungere al posto dell'entusiasmo di fede, di freschezza giovanile, che è andato perduto: il carattere nella fede. Quando in maturità e indipendenza personale, la viva energia d'atto si sarà consolidata in una fermezza che, al livello dell'adulto disincantato, corrisponde a

41

quell'intensità che possedeva, al proprio livello, la fede giovanile.

E allora: vive in profondo nella nostra epoca una speranza in una Pentecoste. Paolo dice: i carismi sono necessari, quando si tratta di portare la fede. Lo saranno anche quando l'anima getterà il suo grido dal deserto, dall'aridità e dalla debolezza di fede:

«A tè protendo le mie mani, sono davanti a tè come una terra riarsa» [Sai 142 (143), 6]

Fino a quel momento non resterà altro che sopportare questa situazione. Reggere fino a che essa porti i suoi frutti.

È però una situazione che sembra strutturarsi nel modo seguente:

Per qualche strada, con la ricerca o con l'esperienza vissuta, prevalentemente con sforzo personale o con la mediazione di persone che ne hanno l'autorevolezza, o comunque altrimenti, sono giunto a vedere: «Qui parla Dio». Sono convinto: «Egli mi parla dalla Chiesa attuale, in cui il Cristo vivo è contemporaneo a me». Ora, quale carattere ha questa affermazione: «sono giunto a vedere»? Questa assicurazione:

«sono convinto»? Mediante quella paradossale funzione della facoltà conoscitiva, con la quale posso afferrare l'oggetto obiettivamente, anche quando l'attuazione viva, l'esperire vitalmente il contenuto oggettivo, il farlo proprio non tengono dietro pienamente, io colgo, dalla figura che mi sta dinanzi, dalla configurazione comunitaria che ho davanti, da questi determinati eventi storici, contesti dottrinali, struttura di valori, ordinamenti di vita, o comunque si possa caratterizzare l'elemento cristiano oggettivo, da ciò io mi rendo

42

conto che qui, obiettivamente, parla quella realtà di Dio. Mi convinco che io qui devo compiere la viva adesione di fede, la viva assimilazione del contenuto di fede. Soltanto, devo dire, questo patrimonio il quale mi viene incontro non mi sopraffa. A rigore, in verità, tale «sopraffazione» non avviene. Ma rientra nell'essenza di questa situazione il fatto che chiaramente e con dolore si abbia coscienza: la verità non sopraffa. L'intensità con cui mi rendo consapevole di quella realtà e del suo contenuto, si trova non soltanto nel rapporto di sproporzione sempre presente tra energia umana di appropriazione e oggetto divino, ma, per di più, in quella relazione di sproporzione condizionata dal tempo sopra delineata, tra la forza d'attuazione indebolita e il contenuto eterno che esige l'attuazione. Si apre una spaccatura tra forza e contenuto dell'atto; e questa spaccatura rimane, e resta avvertita profondamente. Si potrebbe esprimere questa situazione con la variazione d'una frase, che s'è detta, di Newman: «Sappiamo come sarebbe se noi credessimo con un'energia d'attuazione non indebolita. Desidereremmo che fosse così. Ma non lo è». L'atto di fede concreto è povero di pienezza esperienziale; è tenue quanto a intensità d'esperienza vissuta. C'è da essere sconfortati quando confrontiamo il modo in cui noi sperimentiamo il nostro essere cristiani con quello che viene descritto nel Nuovo Testamento! Quale povertà! E tuttavia: la fede di cui oggi ci è dato il compito, nonostante tutta la sua povertà, è fede reale; e il nostro sguardo non deve volgersi addietro, ma in avanti. Nell'atto di fede v'è la circostanza che noi in virtù d'essa siamo in grado di camminare come su una sottile cresta, accanto agli abissi dei problemi,

43

al di sopra del vortice del mutarsi del sentimento della vita e del rapporto col mondo. Qualcosa di impercettibilmente fine; un nulla apparentemente per l'osservazione psicologica; e tuttavia là, fisso, ma con elasticità... Che qui forse stia qualcosa di spirituale in senso vero e proprio? Che in qualche modo si sottrae alla percezione psicologica? O qualcosa di spirituale nel senso 'pneumatico'*, che si esprime in ciò che è accentuatamente 'spirituale' e pertanto non giunge a farsi valere in modo giusto sul piano psicologico? Così sarebbe errato se noi, nel pàthos di uno slancio del pensiero, o nell'ebrezza d'un'esperienza vissuta, ci gettassimo al di sopra e al di là di questa difficoltà. Dobbiamo invece ammettere queste insufficienze. Ammettiamo il fatto che è tanto scarso ciò che rende facile la fede. Non ci trasporta entro di essa. Il contenuto di fede non ci sopraffa; e dobbiamo rinunciare a questa sopraffazione, a questo travolgimento. L'atto della fede e il far progressivamente propri contenuti di fede non vengono sostenuti dall'esperienza beatificante dell'attuazione realizzata con energia integra, non indebolita, quindi, dall'«esperienza vissuta di fede» nel senso particolare della parola. Si è cominciato a parlare dell'esperienza vissuta {Eriebnis) quando s'è fatto chiaro che il vigore d'essa andava recedendo.

La fede per noi è anzitutto e essenzialmente come Paolo la definisce: obbedienza. Noi ci rendiamo conto: la voce che esige chiama da fuori. Noi compiamo l'atto d'obbedienza e lo teniamo fermo. Noi varchia-

* L'autore raddoppia Geistliches, che può avere significato naturale, con Pneumalisches, che lo precisa nel senso dello Pneuma, dello Spirito Santo (n.d.t.}.

44

mo la soglia con l'intenzione d'annodare un rapporto di fedeltà personale, e con l'accogliere il contenuto divino. Mentre ciò avviene, però, nel compiere l'atto quella inadeguatezza permane. Così resta un dato costante che noi siamo necessitati a esigere sempre di nuovo da noi stessi quell'obbedienza. Ciò che abbiamo chiamato nell'esempio sopra esposto, tratto dalla logica, il portare a un arresto la fluida inadeguatezza della conoscenza, l'atto personale del «giudizio» - qui ritorna su un piano più elevato. Noi dobbiamo sempre di nuovo arrestare quel «dubbio di fede» costituzionale, quella insicurezza intcriore, movendo dall'obbedien-za di fede. Così la fede ha in modo particolare il carattere della disciplina; dell'imposizione d'un rigore;

della lotta; del superamento. Nell'obbedienza e per fedeltà, nell'atto deìVadhaesio, l'io dev'essere continuamente proiettato oltre, là donde viene la voce che chiama; per così dire poi l'essere vivente dev'essere trascinato dietro, esso che passa solo esitando e con incertezza sul ponte. Sarebbe molto a buon mercato voler interpretare questa situazione di fatto nel senso che ora bisogni rinunciare all'aspirazione a una «fede viva», a un «cattolicesimo della vita e della pienezza», e risolversi a un «cattolicesimo del rigore imposto», per poi comparare questo «cattolicesimo del rigore imposto» con le vecchie psicologie e metodi, consueti prima della crisi! Sarebbe a buon mercato, e molto pericoloso, si potrebbe dire molto in proposito. Si tratta invece di fronteggiare questa realtà e le obbli-gazioni assunte parlando, scrivendo e agendo. Si tratta di portare avanti autenticamente i problemi visibili nella volontà di vitalità cattolica! Quando non li si vedrà e non si renderà loro giustizia, non avremo ere-

45

sie. No, questo no, ma qualcosa di peggio: il tacito rifiuto di venire [alla fede]. Non lo si nota. Non si fa rimarcare in convegni e in occasione di grandi dimostrazioni. Ma di fronte a Dio esiste. Che sia così si deve vedere e ammettere. Non dovremmo prendere il criterio di misura della fede da un'altra epoca. Non dovremmo equiparare la fede in senso puro e semplice, come atto fondamentale salvifico, con la credulità, per esempio, del medioevo, o col periodo, colmo di carismi, del cristianesimo primitivo. Non dovremmo equiparare la sua inadeguatezza costituzionale con il concetto teologico del «dubbio»; o col concetto pastorale della «freddezza di fede» moderna - perché in tal modo allora quell'inadeguatezza sarebbe senz'altro eguagliata a peccato, e sorgerebbe il dovere di eliminarla. Ne nasce un'intcriore situazione di coazione, una mancanza di verità. Quella insicurezza costituzionale viene rimossa con violenza, sotto la pressione della coscienza. Si suggerisce una forma di certezza che non può essere genuina, solo qualcosa di artificioso. Ma la realtà rimossa mina l'intera persona. Va preparando una rivolta segreta, ed ecco, un bei giorno, tutto è dileguato. L'uomo si ritrova là vuoto.

Dobbiamo ammettere ciò che esiste.

Ancora di più: dobbiamo vedere quanto di grande in tale processo vuoi nascere: il compito possente di un atteggiamento di fede passato attraverso la riflessione.

IV

Attraverso tutti questi aspetti la fede dell'uomo moderno acquista un che di peculiarmente forzato.

46

Gli manca ciò che potremmo chiamare la naturalezza infantile, l'immediatezza fiduciosa della fede. Questa fede è laboriosa. Ed è una fatica che nell'essenziale non diviene più agevole quando il credente matura. Al contrario: questa fatica della fede è caratterizzata dalla coscienza del suo permanere. In ore particolari può essere superata di slancio; ma nel complesso persiste.

Onde la profonda nostalgia del nostro tempo verso una Pentecoste: la profonda aspirazione al carisma. Un'aspirazione che dalla teologia della esperienza vissuta è stata psicologizzata. In verità si tratta nel caso d'essa di qualcosa di molto più profondo: dell'aspirazione che all'anima, nella virtù dello Pneuma di Cristo, sia consentito che si dia una capacità di attuazione con cui essa possa 'realizzare' quei contenuti divini - che sa essere veri e che si sforza costantemente nell'obbedienza della fede di attuare in modo vivo -con una corrispondenza anche solo un poco maggiore! È quindi sintomatico che quell'uomo, Newman, il quale ha sperimentato il problema della fede faticosa come a malapena l'hanno sperimentato altri scrittori di teologia, quell'uomo che ha definito la fede come la capacità di reggere a quella inadeguatezza con un permanente sforzo per obbedire parli continuamente di «realizzare» i contenuti di fede; quindi dell'energia per attuare anche in modo vivo ciò che vien tenuto fermo come vero.

Quindi questa fede ha anche una serietà austera. Ora noi non abbiamo affatto la letizia di fede dei tempi passati. La bramiamo; anzi, forse al modo in

47

cui si ha nostalgia della propria fanciullezza. Tuttavia sentiamo che altro ci è stato assegnato. E in fondo non vogliamo assolutamente scaricarci di ciò che ci è stato addossato, perché è grande.

Ciò non significa che noi non possiamo essere lieti della nostra fede. Conosce momenti di profonda e pura gioiosità. Ma anch'essa è sempre austera. La nostra fede è molto seria. Ha la serietà di tutta la nostra epoca. Ed è bene così. Non dovremmo lasciar determinare l'immagine della nostra epoca da quelle anteriori. La nostra ha la stessa dignità. E una fede - in quelle ore-in cui la realizziamo in modo puro, la sentiamo all'altezza della realtà attuale; all'altezza della macchina. Non ha bisogno delle forme e degli ordinamenti organici della terra non toccata dalla tecnica. Non ha bisogno di ripararsi in camere blindate fuggendo dalle sedi dell'industria e dalla dinamica del traffico moderno. Appunto perché vive così forzata; appunto perché si è indurita nel reggere permanentemente a quel dubbio - proprio perciò è all'altezza del nostro tempo. All'altezza di ciò che ci attornia e crea. Pertanto essa ha ancora un tratto ulteriore: aspira alla forma di vita semplice. La pienezza sorgiva, la ricchezza di forme di tempi anteriori non possiamo più realizzarla! Nemmeno lo vogliamo. Davanti alla ricchezza del medioevo ci sentiamo poveri. Poveri anche davanti alla, si direbbe quasi, dionisiaca pienezza di fede del barocco. Ma noi amiamo la nostra povertà. Nel suo rigore sta una purezza dello spirito. Nelle chiese cerchiamo spazio semplice, forma chiara; schiettezza del colore e della materia. Questo non è solo senso dello stile. Non solo bisogno di autentica espressione di struttura e funzione. Significa

48

qualcosa di molto più profondo. E un'espressione dell'onestà e dell'interna angustia al tempo stesso; la volontà di sostenere fino all'ultimo la lotta per la fede, che ci è affidata, sul piano più semplice. Sul piano dove valori, realtà, ordinamenti si presentano in una essenzialità trasparente, delineata con chiari contorni, affrancata da tutto il superfluo.

Tutto ciò ci suggerisce una parola: quella dello Spirito. In senso particolare diviene «spirituale» la nostra fede. Con ciò non si è fatta rinuncia a ciò che prima venne detto sulla forma umana, quindi corporeo-spirituale, dell'atteggiamento della religione cattolica. E tuttavia, paragonata con la pienezza di sensibilità d'animo, con la zampillante intimità di sentimento e profondità psichica dell'antica vita di fede, la fede che a noi è richiesto di avere ha un carattere particolare di spiritualità: riflessione, nettezza del pensare, sobrietà nella visione del problema, serietà della decisione, fedeltà del vincolo personale, disciplina e lavoro quotidiano dell'obbedienza - da queste cose è determinata la nostra fede.

Non è solo il mondo naturale a essere «disincantato»; lo è anche quello cristiano. Ed è questa la prova che ci è affidato il compito di cogliere e vivere: il soprannaturale, rivelazione e grazia, è qualcosa d'altro dall'incanto d'una piena di fantasia e di sensibilità d'animo precritiche. In un mondo svuotato di illusione e poesia una fede romantica non può vivere; ma certo lo può una cristiana. Essa può essere di per sé sobria, e poi tanto più fortemente si innalzerà nella sua soprannaturalità.

Forza dello spirito, limpidezza e interiorità dello spirito, coraggio di osare e forza del persistere nella

49

disciplina e nell'ordine: sono le forze di cui deve vivere la nostra fede.

Ciò non significa rassegnazione, ma verità. E siamo convinti: gradualmente quella tensione, che nel momento attuale è quasi innaturale, tra contenuto di fede e forza dell'atto, che deve necessariamente trovare la sua espressione in un atteggiamento di fede così aspro, quasi si vorrebbe dire scettico - questa tensione lentamente in una certa misura si mitigherà. Le energie d'atto si rafforzeranno su un nuovo piano, Qui stanno problemi dell'interpretazione della nostra evoluzione culturale, delle finalità che ci poniamo, del lavoro di formazione, che ora non possiamo spiegare: tutto ciò che si può chiamare dottrina operativa della fede, dottrina operativa della preghiera e della vita intcriore; in connessione con una dottrina operativa dello spirituale in genere, non solo nell'ambito religioso.

Non pensiamo tuttavia che le possibilità di realizzazione della fede, quali ebbero medioevo e barocco, siano il culmino supremo. Ve ne sono ancora; forse più elevate, quelle comunque che si trovano sulla nostra strada. Abbiamo il presagio di un fervore, di una profondità e una forza di superamento della fede -almeno grandi altrettanto quanto quelle del medioevo, naturalmente di un colorito psichico del tutto diverso. Più grandi però in quanto non hanno più una copia di appoggi che quella fede possedeva. Una forza di fede che come tale possiede una risolutezza corrispondente a quella che contraddistingue la tecnica moderna, nell'ambito del pensiero della moderna volontà di conoscere, in quello del creare, del conquistare, del dominare.

50

Ma tutto ciò è futuro. E quanto è negativo un romanticismo volto all'indietro, che cerca di imitare l'organicità della fede medioevale, o persino rinuncia a ciò che gli è proprio, di fronte alla pienezza medioevale, e si dichiara andato a fondo - altrettanto romantico sarebbe un utopismo della fede che, presentando le cose in maniera fantasiosa, si volesse convincere d'avere una forza di fede «tecnica», che in verità non esiste.

Ciò che a noi rimane assegnato è di perseverare nell'obbedienza di quella fede, la cui prestazione permanente consiste nel «sostenere il dubbio».

51

CAPITOLO SECONDO ESPERIENZA RELIGIOSA E FEDE

Anzitutto: che cos'è l'elemento religioso? Ponendo questa domanda non pensiamo ancora al cristianesimo e alla Chiesa, ma a quelle rappresentazioni e ai quei simboli, a quei modi di comportamento e a quelle intuizioni peculiari che troviamo dappertutto nel corso della storia e che, a differenza della vita economica, del diritto, dell'arte e via dicendo, chiamiamo «religione»'.

La vita religiosa sembra derivare da due fonti. Anzitutto da un modo particolare d'esser toccati dall'esistenza*. L'esistenza - si prenda l'espressione nel suo senso più complessivo - contiene cose, esseri viventi, persone, avvenimenti, ordinamenti. Tutto ciò

1. Per tutto l'argomento cfr. gli scritti di R. Otto, specialmente: Dos Htilige, Bresiau 1917 I3 ed. (tr. it. di E. Buonaiuti, Ilsacro, Bologna 1926;

Milano 19813) e Dos Gefuhi des Uberweltlichen, Mùnchen 1932; W.F. Otto, Die Gotler Griechenlands (1929; tr. it. G/i dèi della Grecia, Firenze 19682); L. Lévy-BruhI, La mentalité primitive, Paris 1925 (tr. it. La mentalità primitiva, Torino 19814) e L'àme primitive, Paris 1927 (tr. it L'anima primitiva, Torino 1948); D. Van Der Leeuw, Phanomenologie der Religion, Tùbingen 1933;

19562 (tr. it Fenomenologia della religione, Torino 19752); R. Guardini, Religion und Ojfenbarung, Wùrzburg 1958.

* Dasein: come scrive subito dopo l'Autore, non ha qui il senso particolare assunto nel pensiero di M. Heidegger (l"esserd' dell'uowio), ma un significato generico, quale riceve nel linguaggio comune (n.d.t.).

53

ha le sue diverse proprietà, dell'essere e del rapportarsi, quali sono colte nell'esperienza; le sue leggi, quali vengono stabilite dalla scienza. Costituisce un contesto in sé concluso, «il mondo», con i suoi diversi ambiti; articolato in superiore e interno, essenza ed espressione, causa ed effetto, fine e mezzo, totalità e singolarità, in ordine gerarchico del valore, scopi degli avvenimenti ecc. L'uomo coglie questo mondo come configurazione d'essenza e di senso e cerca di comprenderlo. Lo sperimenta vivendolo come resistenza e cerca di superarlo e di signoreggiarlo. Riconosce in esso esigenze - soddisfare o non soddisfare le quali determina il senso della sua esistenza, morali, culturali - e si sforza di dar loro adempimento.

Al di fuori di tutto questo, però, l'uomo incontra nella realtà del mondo o in rapporto a essa ancora un'altra qualità, un valore, un'essenzialità, un'esigenza. Di regola essa emerge in relazione alle restanti determinazioni del mondo esterno o intcriore, viene sostenuta da esse, si rileva da esse. In certo modo come un carattere peculiare relativo all'essere in genere; al fatto che in genere qualcosa sia, che sia così [come è], che abbia tale potenza, abbia limiti, sia condizionato, soggetto a pericoli ... O come una determinatezza concernente i singoli fenomeni nell'ambito di questo essere del mondo: poniamo l'ampiezza dello spazio, la grandezza e il numero dei corpi celesti, i ritmi del tempo, della luce, dell'attuarsi della vita; la solitudine delle steppe e l'oscurità dei boschi; fenomeni dell'esistenza umana come nascita e morte, rapporto tra i sessi, sonno e risveglio; pericolo, morte, ordine e disordine dello Stato, della res publica; determinate creazioni come edifici, opere figurative, canti, simbo-

54

li; particolari personalità umane e loro rapporti; disposizioni del destino...

Questa qualità può affiorare in rapporto a tutte le determinazioni dell'esistenza e collegarsi con esse. Conferisce loro una particolare vigoria e potenza, elevatezza, terribilità - ma anche una particolare vicinanza e profondità, qualcosa che tocca nell'intimo, che attira, che eccita, che ricolma. Emerge in rapporto alla sostanza del mondo, alle cose ed eventi dell'esistenza; ma allo stesso tempo risulta chiaro che non è ne identica, ne vincolata ad essi. Anzi, porta chi la esperisce in una peculiare tensione con le cose e i fenomeni, relativamente ai quali essa affiora, e fa sì che tale persona li avverta come inautentici. La qualità di cui parliamo ha la particolarità di distogliere dalle cose. Essa non viene dall'immediato contesto del nascere o sorgere e venir meno della realtà fisica, biologica, psicologica, come altrimenti avviene per le proprietà dell'essere, ma da altrove - e chiama verso altra dirczione: là, donde viene.

È la qualità religiosa. La si è descritta come il misterioso, il meraviglioso, il numinoso, il sacro; l'eterogeneo, il non-terreno, il sovra-mondano, l'ignoto. Le connotazioni negative nella serie enumerata contengono manifestamente negazioni di tipo particolare. Non dicono puramente e semplicemente «no» in rapporto a ciò che viene designato come «mondo» e di cui si parla di caso in caso. Non quest'apparato qui, come oggetto afferrabile; non quest'edificio davanti a me come struttura composta di pietra e legno; non, questa persona umana nella sua consistenza biologica e psichica; non questo arcobaleno come fenomeno atmosferico. Al tempo stesso però significando un qual-

55

che cosa che, caratterizzato in modo preciso, si trova nella coscienza ed è «ignoto» solo perché non può essere espresso con gli altri contenuti di esperienza.

Anche l'organo con cui è esperito è stato designato in modi diversi: sentimento religioso, animw*, anima, cuore, coscienza (morale). Queste denominazioni hanno in sé alcunché di fluttuante. Ciò che esse vogliono indicare è strutturato diversamente dagli organi e dagli atti specifici della vita spiritualmente definita in altre dimensioni: intelletto, intuizione, percezione contemplativa (Anschauung), volontà, forza dell'ordine, del dar forma, ecc. È più universale, più difficile da isolare. È più una vibrazione, una tensione della vita nel suo complesso, che un atto particolare. Può congiungersi con tutti gli atti particolari - così come la qualità religiosa oggettiva può congiungersi con tutte le proprietà degli elementi del mondo, così che possiamo parlare di dottrine, immagini, comandamenti, istituzioni, edifici sacri ... Così sorgono il pensare, il considerare, l'agire, il lottare, il creare religiosi. L'organo religioso non è neppure limitato al fattore spirituale soltanto, anzi, oltre alle funzioni «intellettuali», sono partecipi dell'esperienza religiosa anche quelle emozionali e corporee. Pertanto giungiamo al risultato di agganciare la potenza [o facoltà] che regge l'esperienza religiosa all'essenza complessiva dell'uomo: in una particolare recettività dell'uomo, nella sua interezza, all'appello di quella qualità numinosa, che, per parte sua, può emergere a ogni singolo momento, come pure in rapporto alla totalità del mondo e dell'esistenza umana.

* Gemili nell'originale, parola polivalente e di difficile traduzione: t l'animo, o anche ["umore', l'indole', il 'temperamento', il 'cuore' (n.d.t.).

56

Il rapporto «centro d'esperienza religiosa - qualità religiosa dell'esistenza» ha, come le altre relazioni fondamentali, anche il «nucleo categoriale». Come nel conoscere, nel volere morale e nei vari ambiti dell'agire e del creare, così anche nella relazione religiosa v'è un valore specifico, una significanza valida per l'esistenza. Si è espresso questo valore religioso di fondo con il concetto - inteso in senso generale - del «sacro». Il senso dell'esistenza dipende dalla condizione che gli sia tributato quanto gli spetta, come dalla posizione che si assume verso i valori della verità e del bene.

Il nome accenna anche alla dirczione, nella quale si pone il significato dell'elemento religioso: ciò che ha in se stesso quella sorta particolare di validità non terrena, «sacro» [o «santo», heilig], è anche ciò che da salvezza, che sana e guarisce*. Che cosa dev'essere risanato? E guarito da che cosa? Che cosa deve ricevere salvezza? E quale salvezza? Il tipo delle designazioni già di per sé da indizio di che cosa si tratti qui: non di particolari atti spirituali e del loro senso, ma della stessa esistenza umana, come totalità e in senso puro e semplice. Dev'essere guarita da malattia, riscattata dalla morte.

Ma ciò non basta ancora; vi rientra ancora la persona con il suo essere rapportata all'eternità e, soprattutto, l'«Altro», il fattore religioso. L'esistenza umana dev'essere guarita e salvata dalla malattia -mediante il rapporto col sacro; dalla morte - mediante il rapporto col numinoso. Diciamo dunque: dalla

* Gioco di parole tra heilig («santo» o «sacro»), Heil («salvezza») e hei-kn («sanare», «guarire») (n.d.t.).

57

«perdizione». Deve ricevere un senso esistenziale sacro; «salvezza eterna», «vita etema» - nel qual caso «etemo» non significa in primo luogo la durata, ma la particolare maniera di esistere del sacro. Tutto ciò si compie nella partecipazione al «sacro», attraverso la conoscenza, l'esser toccati, l'assimilazione per amore, e ora si dovrebbero nominare le varie forme della realizzazione del valore religioso, che si costruiscono sugli atti del conoscere, del volere, del sentire; che si attuano in processi del cambiamento dell'orientamento spirituale, della purificazione e del raccoglimento della vita intcriore; nei momenti in cui l'interiorità apre una breccia e si trasforma; nello sforzo di far dominare la religione nella vita e via dicendo.

Il rapporto con l'esperienza presentato, tuttavia, non basta ancora da solo a fondare l'intero fenomeno del comportamento religioso e delle configurazioni che ne scaturiscono - le «religioni». A questa prima «fonte» se ne aggiunge ancora un'altra. All'«esperien-za» deve aggiungersi ancora lo «sforzo dell'esistenza». Con questo termine designiamo tutte quelle fatiche del pensare e del rappresentare, dell'esperienza del valore e della decisione di volontà, del lavoro che ordina e crea, le quali si dirigono verso il reperimento e l'attuazione del senso dell'esistenza. La pura e semplice esperienza religiosa rimane muta, informe, infeconda, anzi può opprimere e distruggere, se non entra in collegamento con i vari ambiti significanti della vita e con il lavoro che lotta per illuminarli.

Così per esempio v'è l'esperienza di quel momento religioso che si trova nell'origine. Viene sentito dietro il risveglio al mattino, dietro la nascita, dietro

58

il sorgere delle cose in genere: come quel mistero, «da cui tutto proviene». Da sola, però, quest'esperienza porta solo a una muta venerazione o al senso d'essere colmati. A sua volta, l'interrogativo soltanto intellettuale sull'origine delle cose sfocia nella risposta semplicemente scientifica o filosofica, che lascia uno spazio vuoto. Non tuttavia per il fatto che nella serie degli effetti e delle cause conosciuti rimanga una lacuna, ma perché la serie, per quanto completa sia, come totalità non basta. Infatti l'interrogativo sul «donde» a priori ha diversi strati. Dopo che è stato detto tutto quanto si può dire partendo dalla comprensione diretta del mondo, l'interrogativo continua a sussistere, perché in esso si annuncia lo strato religioso. Esso si acquieta solo quando con l'immagine intellettuale si congiunge l'esperienza religiosa - in forma indipendente o in quella di un processo che si attua in concomitanza. Solo allora nasce un fenomeno religioso pieno: l'esperienza dell'origine religiosa, messa in moto e illuminata mediante il sussidio della problematica di pensiero, espressa nelle sacre dottrine sull'origine del mondo e dell'esistenza individuale, nelle consacrazioni cultuali del mattino e della nascita, nei simboli del farsi nuovi. Parimenti non pervengono a rispondere al problema del senso degli avvenimenti sviluppi di pensiero puramente storici o sociologici, poiché il complesso degli eventi contiene uno strato con cui queste considerazioni non sono in assoluto correlate. La risposta vera e propria viene solo quando il quid religioso, che si esprime negli accadimenti storici e nelle configurazioni sociologiche, il mistero dello svolgersi della vita, quello che di incomprensibile in concetti, e tuttavia colmante, v'è nella corrente

59

dell'esistenza, vengono sperimentati in maniera credibile. Allora la riflessione razionale si collega con quest'esperienza, sorgono le diverse forme del mito, della fede in una guida degli eventi, in una rimunerazione, in un giudizio ... Si dovrebbero fare considerazioni corrispondenti sulla sofferenza, sulla morte, sul peccato e così via.

Tuttavia anche per gli ambiti oggettuali del mondo vale un ragionamento corrispondente. Che cos'è per esempio la luce? Il cielo? La zona «superiore» del mondo a differenza di quella inferiore? Risposte di carattere astronomico non esauriscono l'interrogativo, poiché esso è orientale a più di quanto quelle possono dare. La ricerca di questo «più» si calma solo quando dal citato ambito d'essere emergono particolari esperienze religiose; nel caso del fenomeno fisiopsichico della luce, perviene alla condizione di «dato» la chiarezza numinosa, entra in rapporto con le considerazioni naturali, e così si enuclea il fatto propriamente religioso della «luce sacra», dell'altezza sovrana, della volta del ciclo che esercita la sua potenza ... Di contro quell'ambito d'essere e di significato, che è espresso dai fenomeni della profondità, dell'occultez-za, della notte; del sonno e della morte, della fecondità e al tempo stesso dell'orrore della terra ... O anche solo quella realtà misteriosa, che si chiama 'albero'. Già il fatto di esser sentito come misterioso, indica Io strato particolare che risiede in questo interrogativo. Una indagine intesa in modo puramente intellettuale sull'essenza dell'albero non sarà mai rapportata all'impressione della misteriosità. Non è solo un errore, ma una superficialità quella del positivismo quando prende la sensazione della misteriosità come

60

espressione della circostanza che il dato di fatto scientifico non è ancora chiaro. Da sola, una situazione og-gettiva scientifica non ancora vista in profondità, non significa mai «mistero», ma «problema». Quella del mistero è una sensazione specifica; essa fa presagire la zona religiosa e non scompare con la risposta scientifica - cioè, può anche scomparire; non però perché abbia trovato la sua soluzione legittima, ma perché è morta sotto il dominio della pura razionalità. Ma ciò è tutt'altro che un guadagno. Nel problema sull'essenza dell'essere; più esattamente nell'interrogativo su che cosa sia il fatto che io sia, esista, e attorno a me esista qualcosa, si cela uno strato religioso. Solo quando l'autentica esperienza religiosa gli da quanto lo soddisfa, l'interrogazione si acquieta. Solo movendo dall'esperienza religiosa l'applicazione intellettuale che si sforza volgendosi ai diversi ambiti della realtà e configurazioni del significato dell'esistenza ne consegue la sua ultima dimensione di profondità - così come, da parte sua, l'esperienza religiosa si sviluppa e si fa feconda soltanto in contatto con quelle regioni dell'essere e con l'aiuto della ricerca scientifica naturale.

Ciò che si è detto dell'«interrogarsi», cioè del ricercare «verità», vale però anche dell'aspirazione che tende alla libertà, allo sviluppo morale, all'ordine e al diritto alla felicità, alla pienezza personale da raggiungere. Senza l'esperienza religiosa in tutto questo resta uno spazio vuoto, una inquietudine, un'inautenticità. Solo a partire da essa trova compimento il fenomeno dell'«attivo aspirare» umano e delle sue «conquiste». Ma viceversa: senza il dispiegamento rapportato al mondo; senza ciò che chiamiamo «cultura», quindi

61

sforzo intellettuale, assiologico, di carattere simbolico, pratico, creativo, l'esperienza religiosa rimane serrata, muta, infeconda. Anzi, può divenire pericolosa, angustiare, assumere il carattere dello scongiuro, distruggere.

II

Ora chiediamoci quali ripercussioni storiche ha avuto l'esperienza religiosa. Come l'atto stesso dell'esperienza s'è sviluppato e si è collegato con gli sforzi per conquistare l'esistenza; come è stato inteso il pensare, partendo da essa; e quali risultati (religioni) sono scaturiti dalla sua interpretazione.

Io cerco di dare la risposta mediante uno schema adatto a conferire in se stesso un ordine ai risultati della ricerca di scienza delle religioni.

Al principio - il quale ancora adesso, sebbene coinvolto in un rapido processo di inaridimento, è constatarle presso i popoli «primitivi» - v'è una situazione religiosa, che viene interpretata da due teorie in lotta tra di loro, quella del mano e quella «animistica».

La prima sostiene che il primo stadio sia una coscienza intensiva di una potenza religiosa dominante, di un'energia numinosa che scorre attraverso ogni cosa. Quindi ancora nessuna rappresentazione di dèi o di esseri superiori, ma l'impressione di una possanza operante dappertutto, che ci viene incontro da ogni parte, con carattere di mistero, di un quid «privo di modalità» ma che si adatti a ciascuna più precisa determinazione, che viene designato con un'espressione vaga: mano, orenda, manitù ecc. Dappertutto v'è «po-

62

lenza». Non si intende con tale designazione vigore naturale, fortezza psichica, potenza politica ecc. - o piuttosto anche queste realtà, anche la cosa o avvenimento come dato immediato, ma in quanto promana da una fonte misteriosa ed è percorsa da un'energia prodigiosa. Il primitivo direbbe persino, verosimilmente, che anzitutto vi sia l'attrezzo reale, o il campo, o la guerra, e che quanto noi chiamiamo con questo nome sia un prodotto artificiale staccato, estenuato. In verità l'esistenza del mondo e dell'uomo sarebbero così come egli li sperimenta ... La potenza è costantemente in atto d'operare e di trasformarsi. Riceve le sue caratterizzazioni, sviluppa i suoi contenuti in rapporto con i contenuti del mondo e dell'esistenza di quanto di volta in volta le viene incontro o accade: la messe che cresce, l'animale, il campo, la costellazione, il rè, la donna, la malattia e altre realtà. Queste sono dotate di potenza, sono condensazioni del mano. L'organo religioso le coglie così. L'essere toccati dalla potenza e il concepire la cosa nel suo essere empirico sono strettamente correlati. L'uno è inteso a partire dall'altro - ma siamo noi a pensare così, in quanto moviamo da una separazione tra il numinoso e «ciò che ha carattere di mondo». Il primitivo non ha ancora separato i due. Egli sente la totalità dell'esistenza come unità: potenza che si specifica in quanto incontra, mondo delle cose e degli eventi riempito di potenza ... La potenza viene sentita tanto più fortemente, quanto più la cosa è sorprendente, eccitante:

una costruzione straordinaria, una roccia dalla sagoma particolare, una stella molto luminosa, punti culminanti della vita, fenomeni di crisi della comunità e altre realtà ancora. Ma anche ciò è già dello psicologi-

63

smo. Quando l'esperire primitivo vede più mano, nel cacciatore particolarmente fortunato, con ciò non interpreta a posteriori il successo verificatosi; ma la fortuna venatoria è a priori potenza e viene direttamente sentita così. La recettività religiosa (divinazione) coglie e articola il mondo fenomenico secondo gradi e particolarità del contenuto di potenza ... Ma poiché l'intero atteggiamento di vita, la struttura del rappresentare, del sentire e del valutare la vita organico-psichica complessiva, assumono questa modalità, queste incarnazioni della potenza sono anche operanti di fatto e determinano l'andamento fattuale del divenire della vita. Se un primitivo è convinto che la potenza l'ha abbandonato, perde realmente la sua gagliardia venatoria o bellica, realmente si ammala e muore.

L'altra teoria pone al principio l'esperienza del-l'«anima». L'uomo coglie la propria esistenza concreta con i suoi sensi d'ogni giorno. La incontra però anche nel sogno, e precisamente in circostanze eccitanti:

per esempio in una condizione d'altro genere, o come situata in un altro luogo. Nel sogno incontra anche persone che abitano molto lontano, o sono morte da lungo tempo. Egli interpreta quest'altro essere con la rappresentazione dell'«anima». Con tale termine però non s'intende «spirito» nel senso più tardo, l'immateriale a differenza del corpo, ma lui stesso, l'uomo come totalità; solo in un altro stato. Un'altra modificazione dell'essere concreto; una sorta di condizione dei «doppio», in virtù della quale l'uomo esiste diversamente che nella sua prima forma. Mediante esso egli può trattenersi in un luogo diverso da quello che occupa con la prima forma; o in una configurazione diversa, per esempio quale animale, o albe-

64

ro, o oggetto2. Questa rappresentazione mostra che l'applicazione del principio di [non] contraddizione all'esistenza umana non risale a data molto antica e che la mentalità più primordiale poggia sulla coscienza del darsi delle cose l'una nell'altra. Anche questa rappresentazione potrebbe essere connessa col senso di un vincolo numinoso che lega tutte le cose, e in ragione del quale appare soltanto relativa la delimitazione naturale delle cose con contorni, e tutto l'insieme degli avvenimenti si presenta come emanazione d'una costante dimostrazione di potenza.

«Anima» ora è l'elemento potente, misterioso, numinoso. Il primitivo interpreta l'essere partendo da qui. Tutto ha un'«anima» del genere; cose, avvenimenti, esseri viventi. È essa che nel fenomeno lo tocca con il senso del numinoso: egli teme al cospetto d'essa; è essa che egli cerca di riconciliare o di ridurre sotto il suo potere. Questa rappresentazione si fa particolarmente intensiva per derivazione dall'esperienza della morte. I morti sono divenuti pura «anima». Non nel nostro senso, come spiritualità staccata dal corpo; ma come forma dell'esistenza dell'uomo intero, forma invisibile, eterogenea, dotata di potenza. Essi hanno una potenza enorme - tanto che un eroe della famiglia nemica può minacciare di uccidersi per avere a disposizione del suo odio l'intera terribile potenza dello stato dei morti.

Nelle due teorie si mostra una polarità; là il numi-

2. Un complesso di rappresentazione per noi molto estraneo, ma pre-«ente in tutti i popoli primitivi. Ne contengono dei resti le nostre fàvole, quando raccontano come un mago malvagio o un gigante abbia la sua «vita» non in se stesso, ma altrove, in un oggetto o animale nascosti molto lontano, e possa essere ucciso solo quando questo oggetto è stato distrutto.

65

noso è una potenza amorfa, fluente, che si condensa dappertutto; qui lo sono le «anime», figure con una forma, esseri dotati d'un centro con una identità propria, che conducono un'esistenza caratterizzata, forniti di iniziativa, di volontà e intenzionalità, amichevole od ostile, e di grande potenza. Stanno dietro le «prime» forme delle cose, in esse, in relazione con esse. Forse le due teorie risalgono a un'antitesi strutturale, che non si può più a sua volta eliminare.

Ora, il principio dello sviluppo ulteriore sembra consistere nel fatto che la potenza numinosa liberamente fluente o l'animazione sentita dappertutto si raccoglie in forme permanenti; tra queste figure di potenza, tuttavia, ve ne sono alcune che emergono con significato eminente.

È fondamento di tale processo da una parte lo sviluppo dello stesso sentire religioso; dall'altra la penetrazione religiosa di determinati ambiti dell'esistenza, particolarmente significativi; per esempio quello della notte, della malattia o della crescita. Le forze creative della cultura religiosa si sviluppano; i criteri di questa cultura diventano più esigenti; la coscienza religiosa si esprime, comprende se stessa mediante riflessione e creazione di immagini; si libera dal legame e dalla pressione della pura immediatezza. Nascono rappresentazioni di esseri sovrumani ed extraumani, di una potenza numinosa diretta a determinati valori ... Nascono i miti, i culti con le narrazioni sacre che li fondano. Un mondo di dèi nel senso rigoroso della parola, il fenomeno delle grandi divinità sembra poi far la sua apparizione quando la potenza numinosa acquista forma in una compagine sensibile del tutto supe-

66

riore, chiaramente definita e permanente: per esempio in quella del cielo che s'inarca al di sopra, della luce, della forza coordinatrice e signoreggiante, della fraternità. Qui v'è una totalità di senso, grande a sufficienza per raccogliere in sé un'esperienza numinosa di intensità possente; di validità e comprensibilità generale bastante per affermarsi nell'intera vita dei gruppi etnici corrispondenti e durante lungo tempo.

Forse perché ciò avvenga è necessario anche un evento storico che faccia sperimentare la divinità come particolarmente appartenente [a se stessi], potente, salvante. E una persona con possibilità inconsuete d'essere sopraffatta da esperienze religiose; con forza creativa del contemplare; con una energia dell'accogliere o concepire e del produrre grande a sufficienza, perché la potenza di senso numinosa che si annuncia possa trar forma da essa - cioè un veggente. In certo qual modo la divinità nasce in quella persona. La sua predicazione la immette autorevolmente nella coscienza generale, cosicché per tutti ora è la divinità presente3.

Così un ambito di senso dell'esistenza si ricolma di essenza numinosa e l'intero si espone in una forma valida per il popolo e per l'epoca - un ambito di senso che continuamente si fa valere, che concerne e interessa la totalità della vita, ma si distingue da altri ambiti come settore particolare. Per esempio l'ambito di ciò che è celeste concerne tutto il complesso dell'esistenza; ma si distingue dalla sfera di quanto è inferiore, oscuro, fecondo, produttivo, dalla terra che è nutrice, elargitrice, generatrice, ma contempora-

3. Il nucleo storico dei miti eziologia.

67

neamente è terribile e divoratrice, dal sonno e dalla morte. Le divinità uranie si distinguono da quelle ctonie, Zeus da Gaia [o Gea, la terra, n.d.t.], ma entrambe sono esseri divini autentici, significativi nell'ambito complessivo dell'esistenza.

L'esistenza viene interpretata mediante l'esperienza numinosa, viene designata con termini religiosi, ordinata, dominata a fondo - d'altro lato la potenza numinosa stessa viene fatta risaltare, è per così dire dispiegata a partire dai vari ambiti di senso dell'esistenza. Il mondo con la sua molteplicità viene installato, come nella sua patria, nel numinoso - e proprio per tal via l'esperienza religiosa viene rielaborata e sviluppata culturalmente. In questo modo i diversi atti «spirituali» penetrano nello spazio dell'esperire vissuto religioso. Il nume viene sottoposto all'esame sulla sua signifìcanza, e così si avvia la questione etica, razionale, storica, in altre parole, critica.

Con ciò ha inizio il processo con cui quelle figure numinose vengono minate. A lungo andare esse non resistono all'interrogativo critico. Per esempio, l'esigenza del pensiero etico, alla lunga, non tollera una pluralità di dèi. Spinge a norme assolute, che a loro volta presuppongono un ordine unitario del mondo religioso. Del pari il problema filosofico, che è orientale inflessibilmente verso alcunché di ultimo e assoluto, sia dell'essere, o dell'ordine, o della norma. Anche il pensiero sociale cerca una monarchia nel divino, per trovarvi la garanzia suprema dell'ordine e dell'autorità ... D'altro lato è proprio della natura della stessa esperienza religiosa che i numi fatti emergere rimangano vivi, ovvero si reggano solo per un cer-

68

to tempo. La storia mostra come le varie figure di divinità vadano scomparendo nei momenti in cui l'esperienza religiosa attraversa nuove soglie. Stato e società con le loro tendenze conservatrici cercano di mantenerle in vita. La devozione piena d'empito dei «movimenti» spirituali e popolari però le dissolve. Così gradualmente si fanno strada rappresentazioni di super-divinità, che assommano la molteplicità dei numi, per esempio quella del dio supremo del cielo. O di divinità in obliquo, le quali passano attraverso le varie figure particolari di dèi, come la divinità del destino. Ovvero diversi numi trapassano l'uno nell'altro, intervengono l'uno al posto dell'altro, appaiono come modificazioni di un'unica entità fondamentale, così nel tardo Dioniso o nello Zeus ellenistico.

Vi si aggiungono particolari esperienze di unione. Nei culti misterici viene vitalmente sperimentata l'u-ni-totalità della vita; nello spiritualismo dell'epoca ellenistica l'ordinamento totale dell'essere, la razionalità del Tutto domina, la validità universale dei valori supremi, del vero, del buono e del bello, come base di una divinità pervasiva del Tutto.

Ciò da ultimo porta all'emergere di figure divine uni-totali: di tipo esperienziale-cultuale come rappresentazioni mistiche dell'Uno-Tutto, di tipo speculativo-filosofico come concetti dell'Essere supremo, del Valore e dell'Intelletto sommi, come quello del Brahman degli indiani e del Nous e del Lògos dell'ellenismo4.

4. A questo proposito prescindo dalla questione se esista un monoteismo reale fin dall'inizio - da intendere teologicamente come risultato di un'operazione occulta della grazia orientata al Messia venturo e al tempo stesso come effetto postumo della coscienza di fede dell'Eden. Questo aspetto sarebbe poi efficace nei diversi processi constatabili psicologicamente e storicamente.

69

Allo sviluppo così delineato dell'elemento religioso oggettivo ne corrisponde un altro del fattore soggettivo. Qui possiamo accennarvi solo brevemente; la recettività religiosa si trasforma; il complesso degli atti religiosi cresce in dirczione di profondità o ampiezza, intensità o molteplicità; concentrazione o differenziazione. Alle diverse sfere oggettuali sono ordinate altrettante distinzioni degli atti e degli stati. Qui rientra tutto ciò che si chiama disposizione ed ereditarietà religiosa; ma anche formazione da parte di altri e di se medesimi, crescita come anche esercitazione; consequenzialità intcriore come risultato sopravveniente ...

Ili

In questa lunga serie, dal mona, comprese le sue condensazioni, come dalle rappresentazioni dell'anima proprie dei primitivi, comprese le loro varie trasformazioni fino alla divinità pantelstica mistica e all'Uno assoluto della speculazione religiosa, si trovano cesure forti: affiora luminosamente l'intuizione religiosa, fanno breccia strati di profondità intcriore, realtà dell'esistenza e del mondo fino a un dato momento non padroneggiate vengono interpretate a partire dall'esperire numinoso. Nondimeno, questa molteplicità a perdita d'occhio costituisce un unico fenomeno complessivo.

I suoi differenti stadi vengono retti dal medesimo atto: l'esperienza numinosa nel suo libero dominare. Alla base sta il medesimo principio differenziante: l'esistenza e il lavoro spirituale correlato ai suoi diversi

70

ambiti di significato. Si trovano nello stesso spazio: il mondo che comprende natura e cultura. Le diverse religioni, quali configurazioni oggettive, come anche quali forme d'atto e d'atteggiamento, si collocano su una linea che prosegue. Con ciò non s'intende «sviluppo» nel vecchio senso, secondo il quale una forma trapasserebbe in un'altra mediante adattamento e tramutazione graduali. Nessuna vera forma trapassa in un'altra; essa muore e ne nasce un'altra. Non sorgono mai divinità superiori in senso vero proprio «dal» dinamismo primitivo. Ma la potenza fondamentale che crea la religione, l'esperienza dappertutto operante dell'Altro-Divino, fa cadere le forme in cui si è espressa e che divengono inadeguate nel progredire appunto di questa esperienza, e ne emergono altre. Le singole forme della serie si distinguono tra loro spesso in modo molto brusco, apparentemente inconciliabile; tuttavia si tratta di distinzioni all'interno della stessa cosmicità. L'esperienza religiosa può essere profonda, forte, sublime quanto vuole; può collegarsi con i valori culturali di più elevato rango e con quelli personali più nobili, con le energie umane più potenti e rare - essa comunque è sempre un elemento della dotazione immediata dell'uomo, rimane nello spazio del mondo immediato, è essa stessa mondo.

Si può stabilire questo dato di fatto con due prove a ritroso.

Se si considera la strada che imbocca lo sviluppo complessivo della storia delle religioni, sembra portare da una pluralità di figure religiose a una unità sempre più forte, anzi alla Divinità come Uno. A un primo sguardo, ciò significa un progresso incondizionato.

71

Senz'altro è più puro e più giusto pensare la realtà numinosa come essere unico, perfetto, che tutto opera, in una parola assoluto. Ma per erigere i chiari piani di comparazione dobbiamo intraprendere alcune piccole operazioni: da un lato trar fuori dalle forme primordiali ciò che è semplicemente arretratezza culturale, difetto di sviluppo etico, fantasiosità incontrollata nel pensare, vita istintuale con carattere naturalistico, e ridurle alla loro sostanza puramente religiosa. Dall'altra parte, dobbiamo chiarire a noi stessi ciò che nelle forme «monoteisti che» in verità è solo standardizzazione logica, calo della forza creativa di rappresentazione, apparato concettuale di epoche culturali 'tardive'; non dovremmo nemmeno dimenticare ciò che noi, persone d'oggi, riusciamo a scorgere dentro i monoteismi indiani o ellenistici perché moviamo dalla fede rivelata. Se ciò è accaduto - possiamo allora parlare di un univoco progresso? La rappresentazione più giusta è senza dubbio un guadagno; tuttavia al tempo stesso diminuisce l'intensità dell'esperienza diretta. Si pensa più che sperimentare vitalmente. L'unità divina emerge chiaramente; al tempo medesimo il mondo si svuota di contenuto religioso. Nella misura in cui diventa più esatta la rappresentazione di Dio, il mondo si fa più profano. Anzi, persino nella stessa rappresentazione di Dio si può rilevare una perdita; certo si afferma vittoriosamente l'unità e l'assolutezza, viene sfrondato l'elemento antropomorfico, viene enucleato quello spirituale - ma in cambio la rappresentazione stessa perde di ricchezza contenutistica e di afferrabilità concreta. Essa si stacca dalla realtà dell'uomo nel mondo. Essa subisce danno nel suo rapporto diretto con i dati geografici e cultu-

72

rali, con i diversi gruppi etnici e le stratificazioni sociali. Diviene più universale e appunto per ciò meno caratterizzata. Se però vita religiosa significa che tutto ed ogni cosa si compiano partendo dalla realtà di Dio e mirando a essa, in quel modo diviene molto più difficile condurre una vita di immediatezza religiosa.

Così qualsiasi progresso apparentemente univoco verso la divinità come Uno nella storia delle religioni, a una considerazione più precisa, diviene davvero problematico. In verità esso appartiene in tal modo al movimento generale della cultura, in cui la conquista di un valore attraverso la lotta viene pagata con la perdita di un altro. Certo noi non ci chiudiamo alla prestazione speculativa, che si manifesta nell'Uno Supremo di Piotino; o al lavoro di immersione contemplativa, alla purificazione delle anime e alla ricchezza esponenziale religiosa, che furono necessario per dare coscienza della realtà del Brahman. Ma quando, in contrapposizione, valutiamo la forza d'esperienza religiosa dei primitivi, che non era cosa di singole personalità altamente sviluppate, ma dell'intero popolo;

quando ci preoccupiamo seriamente delle rappresentazioni, con le quali essi lavorano, facendo la tara ai malintesi dei relatori, e vediamo quanto profondo patrimonio religioso, da allora perduto, contengono quelle rappresentazioni, allora non sappiamo se possiamo in assoluto parlare di un univoco progresso5.

5. Nei suoi scritti già citati L. Lévy-BruhI sottopone a una indagine molto accurata queste rappresentazioni. È un merito elevato da parte sua, di contro alle false interpretazioni razionalistiche, portarle al loro contenuto puramente religioso e preservare il diritto della coscienza «prelogica» di contro a quella «logica». Tuttavia, lui stesso è troppo razionalista storico e psicologico per vedere il senso di queste rappresentazioni. Di

73

Questa è la prima prova a ritroso, dalla quale emerge l'unità del fenomeno complessivo della storia delle religioni. Un'altra sta nel fatto che le diverse fasi possono coesistere nello stesso popolo, anzi nella stessa persona. Il citato orientamento d'esperienza e di pensiero, che produce nel sistema neoplatonico quella suprema prestazione di monomorfìsmo religioso, di cui si è parlato, genera al tempo stesso un gran numero di esseri intermedi tra quella Sovra-Divi-nità e l'uomo, cioè, tuttavia, di nuovo «dèi», che solo non possono esplicarsi pienamente perché sottoposti alla pressione di quell'Essere supremo. Anzi, possono ripresentarsi fasi apparentemente superate. Dopo che i secoli diciottesimo e diciannovesimo avevano enucleato con tanta coscienza di sé la «pura» idea di Dio, avevano espunto tutti gli elementi antropomorfici e avevano coltivato una religiosità, che avrebbe dovuto soddisfare ogni pretesa della filosofia e dell'etica, venne alla luce quella linea, che ha inizio con Hólderlin e porta a noi passando per Friedrich Nietzsche, Stefan George e Rainer Maria Riike. Oggi «dèi» sembrano essere possibilità serie in modo del tutto diverso da come lo sono stati per il classicismo di Weimar. La situazione della psicologia della religione, da cui potrebbero scaturire gli dèi, non sembra troppo lontana - anche se naturalmente sarebbero di altro genere da quelli anteriori, e certo dovrebbero trovare invece il loro addentellato là dove si vanno svolgendo gli spostamenti decisivi nella coscienza storica: per esempio

che cosa si tratti, può farsi chiaro quando si osserva per esempio quale aiuto tali rappresentazioni, che si suppongono superate, possano prestare nella comprensione del mondo concettuale paolino, cioè, quindi, di dad di fatto fondamentali del cristianesimo.

74

nella modalità in cui è vitalmente esperito il popolo, il sangue, lo Stato, il potere e via dicendo6. Anzi, sembra siano operanti tendenze religiose di pensiero ed esperienza vissuta, la cui struttura non è dissimile da quelle del fenomeno del mana. Ricordo l'inclinazione dell'epoca più recente a staccare il divino dalla forma di persona, anzi da ogni determinatezza enunciabile e a portarlo alla forma di un potere che domina in maniera inafferrabile. Persino orientamenti di pensiero in apparenza tanto decisamente cristiani come la teologia dialettica non sono garantiti da questa possibilità.

Pur con tutta la significanza delle distinzioni che le separano, la serie di queste configurazioni costituisce un unico fenomeno. Esse scaturiscono tutte dagli stessi presupposti, si staccano le une dalle altre, trapassano le une nelle altre, svaniscono, ritornano. Il sorgere delle singole forme costituisce di volta in volta la conquista di determinati valori e la perdita di altri. Esse costituiscono un continuum tale, che ci si può chiedere se alla loro successione si possa applicare anche solo il concetto di progresso; se sia a suo luogo invece quello di una mobilità fluente, nella quale le configurazioni vengono e vanno a mo' di onde.

IV

Viste dalla prospettiva cristiana, nel complesso esse appartengono alla religiosità «naturale», alla imme-

6. Certamente un politeismo dopo Cristo sarebbe qualcosa di diverso da uno avanti Cristo. L'antico politeismo era in situazione di avvento, avanti alla linea storica di divisione in senso assoluto; quello nuovo sta dietro.

75

diatezza religiosa. Pur con tutta l'interiorità e il fervore dell'esperire vissuto numinoso, pur con tutta la significatività di contenuti speculativi e termi nologici;

pur con tutta l'energia di formare l'uomo e dar configurazione all'esistenza, tuttavia esse rimangono, in ultima analisi, non vincolanti, non normative. Di fronte ad esse - anche di fronte alle forme di divinità 'mo-noteistiche' - è impossibile quell'atto che fonda l'atteggiamento vetero e neo-testamentario: la 'fede', per il fatto che tutte non scaturiscono da quella modalità del «darsi», che si chiama 'Rivelazione' nell'Antico e Nuovo Testamento.

Ora però anche la scienza generale delle religioni rivendica per sé il concetto di rivelazione. Essa constata che molte religioni cercano di dimostrarsi assolute con l'appellarsi a un'ispirazione celeste. Ovvero indaga l'esperienza vissuta dei fondatori di religioni;

mostrando che si verifica l'irruzione di un nuovo contenuto religioso, fino a quel momento nascosto, nella coscienza di una persona dotata di capacità da veggente, di un «profeta», un evento personale, che poi acquisisce significato anche per la generalità.

Prendiamo un esempio: una persona cammina da sola. Si fa mezzogiorno; il sole cuoce; tutto sembra immerso nella calma. Ed ecco si accorge di come sia solitària e comincia ad aver paura. Essa supera questa paura; eticamente, col riprendersi e contenersi, o liricamente, col trame motivo per una poesia. O soggiace a tale paura e scruta per vedere se giunge nelle vicinanze d'altri uomini. Per il resto quest'esperienza vissuta non assume ulteriore importanza. La cosa può andare però, a questo riguardo, anche diversamente:

nell'ardente e immota calma del mezzodì, improvviso

76

la sorprende un terrore che non ha nulla a che fare con il sentimento, diciamo, borghese, dell'essere soli. Che cos'è stato? L'antico terrore 'panico'. Usiamo ancora adesso il termine, parlando del panico, ma ha perso il suo significato. In realtà nella parola si cela il nome «Pan» e, dove l'esperienza è autentica, essa contiene un elemento numinoso. Ora, supponiamo che fosse stato un pastore nell'antica Grecia o Asia Minore ad avere tale esperienza, in quelle solitudini montane dai contorni grandiosi, arse dal sole. Supponiamo inoltre che fosse stato non solo un uomo dalla sensibilità vivace, che tuttavia in altri campi restava tranquillo nell'esistenza quotidiana, ma una personalità religiosamente creativa: quindi un uomo, per il quale non solo dietro il terrore appariva chiara la presenza di un'entità numinosa, ma ai cui occhi tale entità prendeva corpo in un'immagine. Un'immagine in cui l'esperienza vissuta concresceva con determinate strutture di significato dell'esistenza dei pastori, cosicché ora anche altri, i quali avevano avuto un'esperienza analoga, potevano riconoscerla in questa forma. Supponiamo dunque che l'uomo fosse stato un veggente, e allora improvvisamente sarebbe stata davanti ai suoi occhi e nel suo sentimento una singolare divinità: di forma per metà animale, per metà umana; con uno sguardo in cui parlava la natura stessa, e tuttavia, a sua volta, più che soltanto la natura;

che emanava il terrore della solitudine, la violenza folle della potenza naturale, ma insieme anche il suo potere di sedurre cuore e sensi: il dio Pan. Questa esperienza vissuta, sperimentata con sufficiente forza, con sufficiente creatività, soggettivamente tale da sopraffare, e al tempo stesso tanto valida in termini da

77

poter divenire tipica per una certa generalità etnico-culturale, sarebbe stata rivelazione. Irruzione di una realtà numinosa, che si esprime in un determinato ambito dell'esistenza, nascosta in una figura numinosa, mediante la quale viene interpretata in- categorie religiose una sfera di senso dell'esistenza. «Pan» non è sorto come «personificazione» di qualche fenomeno naturale, o come risposta allegorica al problema del fondamento o motivo di determinate impressioni della natura. Queste sono escogitazioni razionalisti-che. Quest'essere divino è scaturito da un esperire vitale, in cui agli occhi e nel sentimento di una persona particolarmente dotata, di un veggente che è stato dimenticato, ma nel settore religioso forse fu geniale al pari di un Talete come filosofo o di un Policleto come scultore - questa figura apparve, dando tanto valida espressione a una determinata possibilità religiosa, che da allora in poi pure altri, che ne erano sfiorati nella solitudine, poterono dire: «Ecco Pan!».

Considerate le più varie circostanze, anche gli altri numi si dovrebbero riportare a un'esperienza vissuta di rivelazione, dagli dèi della fecondità o degli astri di epoche più primitive fino alle grandi divinità degli indiani e dei greci, anzi fino alle sublimi concezioni del Brahman, del Nous, del Sovra-Essere.

A questa esperienza vissuta poi si ordina una particolare forma di convinzione, che non si può scuotere con obiezioni o argomenti tratti dal campo profano, poiché è fondata in un'esperienza numinosa, proveniente da altrove: la «fede».

Sarebbe ciò rivelazione e fede nel senso biblico? No, ma solo un tipo determinato, particolarmente intenso, d'esperienza religiosa.

78

Che cosa è dunque rivelazione nel senso velerò- e neotestamentario? Essa significa appunto la breccia che infrange quel contesto di esperienza e interpreta-zione religiose del mondo. Si pone di traverso rispetto a ogni ambito d'esperienza, anche e precisamente quella religiosa. Con ciò non si afferma che quelle esperienze religiose siano puramente «naturali», come intende il termine la psicologia razionalistica;

quindi, poniamo, sentimenti d'armonia e di significato affini all'elemento estetico, o fantasie simboliche, o risultati di rimozioni di istinti o altro ancora. Già la più semplice valutazione mostra che esse hanno un autentico contenuto di senso, quindi non possono essere derivate da altro. Inoltre però: tutte le altre esperienze, comprese le categorie d'essenza e di valore da essa derivate o che vengono alla luce in presenza d'esse, costituiscono «il mondo». Portano il carattere di ciò che è «mondano», sia della «natura», sia della «cultura»; come dato prossimo o remoto, fin nella più profonda interiorità psicologica, nella suprema altezza assiologica, nella più distante lontananza ideale. E sempre «il mondo» e il suo contesto «naturale». Al contrario, all'essenza dell'esperienza religiosa appartiene l'impressione che il suo oggetto non rientri nel semplice dato nel mondo; che esso invece sia misterioso, indicibile, altro, che venga altronde e conduca altrove. Questo carattere del sovra-terreno o sovra-mondano è così potente da essere equiparato, da parte della scienza delle religioni, addirittura al concetto teologico e di fede nel soprannaturale. Ma ciò costituisce una confusione fondamentale. In verità, quella non-naturalità appartiene pur sempre al mondo - cioè alla sua realtà religiosa. Si dovrà trattare ancora del come essa si rapporti a Dio. Tuttavia il Dio

79

della Rivelazione, che parla nell'Antico e nel Nuovo Testamento, non appartiene in alcun senso al mondo, nemmeno nella sua realtà religiosa. Il suo essere non deriva dalla copia di qualità delle cose della vita, Non è eretto nella coscienza a partire dall'impressione di sacralità prodotta dall'esistenza del mondo, per opera dell'atto religiosamente creativo di una persona dotata di capacità da veggente, ma si presenta all'uomo apparendo dalla sovranità assoluta della sua sacra libertà e si rivolge a lui. Ma l'uomo cui accade questo - per esempio il profeta - sa che perviene a lui qualcosa che si pone di traverso, che incrocia tutto, anche ogni realtà religiosa immediata.

Ancora una volta, con ciò non si afferma che l'esperienza religiosa naturale sia accessibile ad arbitrio. Chi la sperimenta, invece, sa di non poterla produrre a forza. Viene appunto quando viene. Si può solo sperarla e accoglierla. Essa ha il carattere del favore, del dono che non solo non si può conquistare lottando, ma nemmeno meritare. Non si trova negli ordinamenti del «diritto», ma della libertà.

Questo carattere è così convincente, che anche mediante esso si è intrapreso un livellamento e si è equiparata questa venuta spontanea, che s'attua come favore, con la «grazia» nel senso teologico - di fede. Un'altra volta una confusione; poiché quell'impossibilità di estorcere a forza tale esperienza è solo un caso della spontaneità universale, che è propria di ogni essere puramente vivo, e riceve qui un'accentuazione particolare solo per la specificità dell'ambito d'esperienza. E l'autosignoria dell'ambito d'essere e della struttura di significato che sono più elevati, rispetto a quelli inferiori. Per contro quella della Rivelazione biblica è una libertà per essenza diversa: è

80

quella della Persona suprema, anzi puramente e assolutamente santa. Non la specificità di uno strato dell'essere; l'impossibilità di produrre a forza una regione del senso; la riservatezza d'una profondità cosmica, la quale si apre solo per legge propria, ma quella libertà personale e santa, che non è sussunta sotto alcuna categoria di filosofia della religione e si fa chiara solo attestando se stessa.

«Rivelazione» è l'appello, che il Dio santo e signore di sé rivolge all'uomo; svelando proprio così chi egli. Dio, sia - e chi, di fronte a lui, sia l'uomo. Già al primo preciso evento di Rivelazione, che si collega alla persona di Abramo e riveste carattere d'esemplarità per tutte le epoche; poi di nuovo nel secondo avvenimento di vocazione, di analoga possanza, che si rivolge a Mosè, ciò risulta chiaro. «Fede» però non è esperienza vissuta, scossa intcriore, convinzione scaturita dall'esperienza, ma anzitutto ed essenzialmente obbedienza a questo appello: allacciarsi d'un vincolo di fedeltà a quella Persona che di là parla; coscienza di essere da essa determinati, orientali e al tempo stesso accolti in un nuovo rapporto di salvezza, che pone un inizio.

V

Questa fede è qualcosa di essenzialmente altro da qualsiasi «esperienza religiosa». Ciò che da essa nasce, l'esistenza credente con il suo ordine, è qualcosa di diverso per essenza da qualsivoglia «religione», tanto che, presa come caso limite, appare possibile una fede senza esperienza nel senso dell'essere scossi personalmente; la nuda fede dell'obbedienza7. Questa di-

81

stinzione appartiene all'essenza della coscienza cristiana. Essa è data con la rivendicazione presentata dalla Rivelazione, d'esser verità assoluta, vincolante per ciascuno. Non espressione d'una scoperta di un senso religioso, che riesca sulla base di determinati presupposti; non dipendente da struttura e complesso di doti religiose, ma appello di Dio, del Signore del mondo, che impone obbligo a ogni uomo8.

A partire da questa fede si afferma la critica radicale, che supera ogni possibilità di giudizio storico o fìlosofico e si esercita in rapporto a qualsiasi esperienza religiosa e configurazione religiosa; a ogni religione oggettiva o soggettiva. Di fronte a questa critica, il più elevato concetto monomorfico di Dio non regge essenzialmente meglio del mano dei primitivi, perché essa non colpisce soltanto il singolo contenuto, ma soprattutto l'origine dal «mondo» e svela l'ambiguità di tutte le espressioni religiose, la quale proviene dall'intrinseca condizione irredenta dello stesso elemento religioso9.

7. Vedi in proposito La fede nella riflessione, supra pp. 13 ss. di questo volume. Il problema di quale sia il modo in cui si riesce ad avere la sicurezza che qui parla Dio esigendo fede, dovrebbe essere approfondito con una ricerca particolare.

8. Questo stato di cose è presentato in maniera classica nella piccola lezione di Seren Kierkegaard, Sulla differenza tra un apostolo e un genio (tradotta, con altri saggi, sotto il titolo Der Begriff des Auserw&hlten, da Theo-dor Haecker, Innsbruck 1926, pp. 31.3-333).

9. È importante vederlo. Il bisogno di redenzione da parte dell'uomo non significa soltanto che egli deve essere trasposto dall'ambito profano a quello religioso, ma che le sue stesse forze religiose e l'intero mondo delle configurazioni religiose devono essere redenti: anzi, essi più che mai e in misura particolare. Parimenri essere redento non significa per l'uomo divenire coscienzioso, etico, ma il bisogno di una redenzione per la stessa vita della coscienza morale, insieme col mondo delle rappresentazioni etiche. Che un uomo «di orientamento mondano» abbia bisogno di redenzione sembra cosa ovvia. È meno evidente che pure nella più profonda,

82

D'altra parte. Rivelazione e fede portano a chiarezza e libertà tutti gli autentici valori, contenuti nell'elemento religioso immediato. La fede prende a suo servizio il mondo dell'esperienza religiosa e delle configurazioni che ne scaturiscono - così come prende a suo servizio il mondo dei dati di natura e culturali, linguaggio, concetti, simboli, valore -, certo tutto trasformando. La storia della fede nel mondo si svolge nel processo, in cui risulta quanto essa sia capace di prendere realmente a suo servizio questo mondo di forme e di significato, di rielaborame i contenuti, ma di rimanere vigile al tempo stesso nella sua responsabilità verso la Rivelazione, o quanto invece sia coinvolta nella trasformazione.

Dobbiamo però tornare ancora a quel particolare carattere, che ha l'oggetto d'ogni autentica esperienza religiosa. Esso costituisce un problema inquietante. Nei confronti delle qualità immediate di «natura» e «cultura», esso è «altro», diverso; in rapporto all'elemento profano, è «numinoso» - al tempo stesso tuttavia la Rivelazione lo svela come non «propriamente altro», non «propriamente sacro»*; lo allinea invece in una sola serie con i restanti dati dell'esperienza in generale, del «mondo». Ne viene una peculiare man-

sublime, intima esperienza religiosa si celino la ricerca di sé e l'inganno del peccato - talora cosi occulti che qui vede con chiarezza solo il carisma del «discernimento degli spiriti». Questo stesso carisma però deriva dalla redenzione, così come ne traggono origine il dogma e il mysterium della Chiesa, la lex credenti et mandi. Ma su questo argomento, sulla critica derivante da Rivelazione e fede, esercitata in rapporto alla religione, si dovrebbero dire moltissime cose.

* Heilig, che in tedesco, come s'è detto, assomma i significati di «sacro» e «santo» (n.rf.t.).

83

canza di chiarezza. Ciò che ora segue non vuoi essere nulla di definitivo, ma solo un tentativo, che forse aiuta a vedere più chiaro.

Io penso che quell'elemento numinoso immediato al quale si rivolge l'esperienza religiosa sia esso stesso ancora una qualità al mondo. Io penso che il mondo non sia solo «così», ma anche «altrimenti»; non solo «profano», ma pure «sacro» in un senso immediato;

non solo «mondano», ma anche «numinoso». Il mondo è qualcosa di molto più possente di quanto veda il razionalismo. Nella chiarezza e nella totalità in tensione del suo significato esso è «natura-cultura» più l'«al-tro». Quelle qualità del «non-terreno», o della «sovra-mondanità», di cui parla la scienza della religione, non costituisce che l'altra faccia di quella stessa totalità del mondo, la cui prima faccia è il «terreno» e il «mondano». La duplicità di questa impressione è appunto ciò che costituisce la tensione del fenomeno del mondo e porta in moto dialettico il suo sperimentare e pensare. Le impressioni: «questo mondo così conformato» e «l'altro che in esso viene incontro»;

«ciò che appartiene a questo mondo» e «ciò che sta al di là di esso» - queste espressioni insieme con gli atteggiamenti, le strutture di coscienza, le formazioni concettuali, le teorie, le forme di valore, le prese di posizione e via dicendo, che ne promanano, appartengono entrambe all'unità «mondo». In esse si sviluppa quel qualcosa di complesso che viene chiamato «mondo» o «esistenza» e si costruisce tra il «così» e r«altrimenti», l'«essere terreno» e l'«essere non-terreno». Alla sua essenza appartiene l'essere familiare, rivolto [all'uomo] - ma al tempo stesso di carattere misterioso, estraneo, volto in dirczione d'allontanamento.

84

La nostra coscienza risponde a questo duplice carattere dell'esistenza con la sensibilità e l'atteggiamento «profani» - prendendo la parola in senso totalmente positivo - e «religiosi». Il fattore della loro possanza consiste, per il mondo e l'esistenza, nell'essere appunto così. Ma anche - per anticipare la cosa - il motivo per il quale possono essere autonomizzati. Di fronte a un mondo solo «mondano» non si potrebbe mai intraprendere il tentativo di fondarlo puramente su se stesso. L'uomo non riuscirebbe mai a prenderlo così terribilmente sul serio.

L'«altro» della Rivelazione, per contro, è un essere-altro di tipo non solo più forte, ma puramente e semplicemente definitivo. Qui si presenta chiaramente non solo l'«altro» intramondano e dialettico; ma il «propriamente altro» del Dio vivo che giudica, che relega entro i suoi limiti il mondo come intero e lo svela nella sua condizione decaduta. Il processo «che da»* in tale caso non è la libera esperienza religiosa, ma l'autorivelazione di Dio, che scaturisce da iniziativa sovrana, nel suo svolgimento storico, soprattutto in Cristo.

La fede si dirige a questa Rivelazione. La relazione «Rivelazione-fede» si pone di traverso rispetto all'altra, «mondanità-esperienza religiosa». La prima è indipendente in linea di principio dalla seconda; la utilizza e nello stesso tempo la sottopone a critica -come anche la cultura religiosa è tanto promossa quanto scossa dalla fede. Dirò subito di più su questo argomento.

* "Gebendeo (tra virgolette anche nel testo originale) nel senso in cui si parla anche di un «dato» (n.d.f.).

85

La coscienza che sia credente nel senso della Rivelazione, per sua natura non è un caso particolare della coscienza religiosa in genere, ma qualcosa di diverso. Quanto diverso, risulterà chiaro proprio dalla tensione che ora sorge tra «fede» e «religione»; con la possibilità, ivi fondata, di una critica all'esperienza religiosa e alle sue produzioni, anche e appunto le più elevate.

Questa critica non si svolge secondo punti di vista immanenti, per esempio della purezza dell'esperienza vissuta religiosa e della forza da parte delle concezioni in questione d'illuminare l'esistenza, ma secondo un criterio che deriva da un al di là dell'esperienza:

dalla Parola di Dio e dalla esistenza di Cristo.

Si può parlare addirittura di un depotenziamento delle forze e dei valori religiosi da parte della fede. Non appena appare la fede reale, la «religione» perde d'importanza in misura decisiva. Ciò è di una portata che si chiarirà subito.

Se si deve parlare seriamente di fede cristiana, allora la sua essenza non dev'essere «costruita» mediante concetti o dedotta da esperienze. Se la fede è ciò ch'essa rivendica di essere, può essere determinata solo da se stessa, dalla Rivelazione accolta con fede. È una pretesa, che chi non ha la fede respingerà. Egli dirà che in tal modo è già presupposto quel che è da dimostrarsi. Ma se rifletterà sul fatto che la fede non rappresenta il risultato di una catena d'esperienze, o il «dunque» conclusivo di un'argomentazione deduttiva, ma l'inizio di una nuova esistenza, ammetterà che questa fede - se è ciò che afferma di essere - non può parlare altrimenti. Un inizio reale, un principio esistenziale, non può giustificare la sua essenza par-

86

tendo da ciò che lo precede. È «ruota che gira su se stessa». Le deduzioni cominciano solo nell'ambito di ciò che deriva dall'inizio10.

Secondo la sua coscienza propria, la fede non è una cognizione tra le altre, non è un legame morale tra gli altri, non è il parto di esperienze risolutive che presagiscono sacre connessioni, ma la specifica risposta alla Rivelazione. Rivelazione a sua volta non è un fenomeno generale del chiarirsi della religione, non è una breccia che si apra attraverso strati inferiori della coscienza, non è un illuminarsi di strutture di senso, fino a quel momento nascoste, della realtà religiosa, ma un parlare positivo di Dio, che si svolge entrando nella storia.

Ciò a sua volta presuppone una determinata immagine di Dio, appunto quella che emerge dalla Rivelazione. Secondo essa, Dio non è solo potenza, idea, valore, realtà, in una parola: l'Essere infinito-assoluto. La sua determinazione decisiva sta invece proprio in ciò che costituisce nella Sacra Scrittura lo skàndalon dei filosofi: l'apparente antropomorfismo. Le rappresentazioni che con tale designazione vengono caratterizzate come non evolute o non serie in verità sono esatte. Esse intendono l'aspetto decisivo per il quale la rappresentazione di Dio propria della Scrittura si distingue dalle altre: l'assoluta personalità, il carattere

10. Con dò non dovrebbero essere svalutate le diverse forme della prova, dell'indizio, del processo per produrre verosimiglianza ecc. Esse hanno tutte il loro pieno significato, dalla prova per dimostrare Dio e Cristo fino al fondamento della simpatia motivata. Ma la fede non scaturisce da esse. Non viene prodotta da esse. Esse si limitano a prepararle la strada, la giustificano davanti alla coscienza intellettuale e morale. Essa stessa «zampilla» dal punto d'inizio; quell'unità in cui grazia e libero volere, operare di Dio e nucleo personale sono inscindibilmente collegati.

87

d'iniziativa, la storicità di Dio. Questa realtà di Dio non si può cogliere unicamente con le categorie de\-r«assolutezza»; devono esservi aggiunte quelle della «fattualità». Il Dio vivo è realmente tale da decidere, da levarsi, venire, parlare, agire, adirarsi, rappacificarsi, pentirsi, perdonare. Ora, Rivelazione è il modo in cui Egli parla nel 'tempo', fede è l'atto umano specifico, che vi risponde.

Se ci poniamo sotto gli occhi il fenomeno della fede come totalità, l'elemento decisivo non consiste in una esperienza vissuta sopraffacente, in una intellezione che generi chiarezza, in un'ascesa etica, in un sentimento traboccante, in una emozione mistica che scuota e via dicendo. Il punto critico del fenomeno della fede sta invece nell'essere «obbedienza». La determinazione della fede come obbedienza ha alcunché di meschino, di non creativo, di non geniale. In tal modo essa è definita come qualcosa che è altro da tutto ciò che ha a che fare col talento, con le doti, e che si può legittimare mediante valori immediati. Il concetto di obbedienza ha qualcosa di formale, si potrebbe dire di ascetico, ma appunto questo è ciò che interessa per la determinazione «critica». La fede nella Rivelazione in ultima analisi si legittima proprio non per derivazione dai valori dell'esistenza del mondo. Viene d'altronde e sottopone e critica l'esistenza del mondo. Ma realmente d'altronde: non solo nel senso dell'impressione numinosa. Non appena la fede venga fondata a partire dal carattere numinoso dell'esistenza e dell'esperienza religiosa che vi poggia, diviene un elemento del mondo. Essa cessa d'essere fede nel senso cristiano e diviene un fattore della vita religiosa generale. E proprio contro questa caratteriz-

88

zazione che si dirige quella definizione della fede quale obbedienza11.

Il punto «critico» decisivo per la purezza del fenomeno, nella relazione «Rivelazione-fede» non è l'alternativa se in esso si attui una emozione religiosa che scuota, si renda possibile o chiaro un éthos religioso superiore, ma se l'uomo veda e riconosca che Dio parla e sia disposto ad ascoltarlo. Naturalmente v'è qui verità, addirittura quella autentica. Naturalmente sono qui supremi valori che conferiscono santità, e fondazioni dell'essere. È vero che Dio è il Santo e la vita santa stessa. Che Egli, il santo-vero, il vivente e il vivificante si presenti, è invero contenuto della Rivelazione, la quale esige l'obbedienza di fede. Ma nell'ordine delle posizioni quell'aspetto dell'obbedienza forma il punto critico. E in rapporto ad esso che si definisce la «purezza» della fede.

La relazione «comando della Rivelazione-obbedienza di fede» si pone di traverso, incrocia quella dialettica del «così» e «altrimenti», del «mondano» e del «religioso» di cui si parlava. In essa sta l'unico trascendimento autentico del mondo. Non appena viene colto nel suo senso pieno il comando della Rivelazione espresso nella Scrittura, si fa anche chiaro che tale comando non

11. La quale, per altro, ha paralleli molto significativi; cioè nel modo in cui nella Genesi è formulata la prima esigenza di Dio: appunto come obbedienza. Quando esaminiamo la situazione mirando al suo contenuto di motivazione, naturalmente viene alla ribalta una serie di conflitti, dietro cui si celano elementari tensioni istintuali e via dicendo. La cosa decisiva però non sta nel fatto che ci si chieda se l'uomo voglia la conoscenza del bene e del male o una qualche soddisfazione di un istinto o del desiderio del potere, ma se sia disposto a obbedire alla maestà di Dio che gli viene incontro.

89

può emanare dal mondo. Nulla nel mondo può comandare così; non gli è lecito e non ne è in grado. Il fenomeno del comando della Rivelazione biblica presuppone che Dio sia al di là del mondo e indipendente, in un modo essenzialmente altro da qualsiasi sovra-mondanità puramente religiosa.

Qui è necessaria una delimitazione.

Anche la teologia protestante, rappresentata in modo particolarmente consequenziale da quella dialettica, definisce la fede come obbedienza. Ma come «mera» obbedienza, con l'intento di staccarla da qualsiasi continuità con l'esistenza creata. Per essa l'uomo, insieme col mondo, non è solo «nel peccato», decade allontanandosi da Dio per il peccato, sconvolto e confuso dal peccato, ma egli «è peccato». Allora ogni esperienza religiosa, vista cristianamente, non deve essere solo problematica, ma semplicemente caduta, apostasia; ogni pensiero che parta dal mondo non solo insicuro e sviante, ma semplicemente antidivino. Ma allora la Rivelazione è puramente e semplicemente incommensurabile col mondo. Non solo si pone «di traverso» rispetto a ogni elemento religioso, ma in modo irrelato; semplicemente in contraddizione. Non si può assolutamente capire come l'uomo sia in grado di cogliere il fatto della Rivelazione - impossibile, se visto nella prospettiva del mondo -, riferirlo a sé ed entrare in sintonia con esso. E qualcosa a cui il singolo si decide con se stesso; in un rischio che non può fondare con nulla e che non è in grado di motivare a nessun altro. Lo osa fare - in vista della possibilità non solo di cadere in errore, ma di divenire metafisicamente un pazzo. La fede è il salto assoluto nell'incommensurabile.

90

L'intento cristiano di questo punto di vista è chiaro, gli interessa la purezza dell'elemento cristiano di contro al mondo. Senonché la spinge fino alla di-struttività. Due dati di fatto decisivi parlano contro di esso. Primo, che il Nuovo Testamento semplicemente non lo conosce - a meno che si strappino alcuni passi di san Paolo dalla totalità [del suo pensiero] e li si asso-lutizzi. Ma poi si può mostrare che tale visione costituisce una specifica struttura, una tragicismo nordico, esattamente determinabile, cui si pone di contro, come complemento, un'adesione al mondo senza riserve.

Questa concezione semplifica lo stato delle cose, lo esaspera e lo priva di realtà. Uaut-<iut in questa forma - predicato un tempo da Kierkegaard in modo che tanto scoteva - non è cristiano. Il cammino dello sviluppo teologico-fìlosofico tedesco potrebbe presto mostrarlo, poste alcune circostanze. La visione cristiana è molto più complessa. Non è vero che l'uomo e il mondo siano «peccato», e quindi ogni esperienza religiosa sia mancanza di verità e contraddizione contro Dio. In ogni punto dell'esperienza religiosa v'è verità, che viene da Dio, che a Lui si dirige; ma in ogni punto essa è anche ambivalente, e quindi piena del pericolo dell'assenza di verità e della ribellione. Anzi, proprio questo è l'elemento di gravita, il fatto che vero e non vero, rimandi e indicazioni di Dio e sviamento lontano da Lui sono intrecciati tra loro. Dire: tutta la realtà terrena è contro Dio; mettere da parte tutto e compiere il balzo nel radicalmente altro sarebbe molto più facile -quando non fosse privo di senso e impossibile. Ciò che scaturisce da questo tentativo è una fede disperata, congiunta con l'incapacità di vagliare nel mondo ciò che è cristiano e quanto non lo è; di inserire il

91

mondo nel cristianesimo; di superarlo e al tempo stesso di ricuperarlo alla sua destinazione. Un abbandono pertanto del mondo in balìa della pura mondanità, e il paganesimo si avvicina pericolosamente12.

VI

Tuttora resta sempre un interrogativo: che cosa è quell'elemento numinoso, che orienta verso di sé l'e-

12. Ma può verificarsi tale comando rivelante? Ogni parola di Dio che provenga da al di là del mondo deve pur esprimersi nella materia dd mondo; nel materiale psicologico, nelle forme linguistiche, nelle strutture simboliche e via dicendo - in tali elementi può rendersi chiara una reale trascendenza? Abbiamo già toccato il problema; bisognerebbe svilupparlo a sé e in profondità. Qui solo un argomento: il problema diviene possibile nel suo senso pieno solo quando effettivamente si può svolgere una rivelazione. In un'esistenza in cui la Rivelazione non fosse possibile, quel problema in assoluto non affiorerebbe. Esso, visto nella totalità della coscienza storica, non significa affatto puro «problema». Non appena vengi rettamente inteso, fa tosto avanzare la decisione di fede, e precisamente nella forma preliminare d'una decisione a essere aperti alla possibilità.

Ma come si legittima la Rivelazione effettivamente avvenuta? Approssimativamente - come s'è già detto - mediante una copia di aspetti: con il suo illuminare i contesti dell'esistenza, fa apparire come dati nuovi valori supremi; oltre aiuto per padroneggiare l'esistenza; lascia presagire l'adempimento dell'aspirazione alla salvezza, e via dicendo. In ultima analisi e in senso proprio, però, il comando di rivelazione non legittima affatto se stesso. L'atteggiamento di tutti i passi decisivi della Scrittura lo conferma. Il comando di rivelazione è emanato. Se chi lo ode ha l'atteggiamento corrispondente, la specifica disposizione di prontezza, allora si fa consapevole per quale motivo esso emani - quando, come, in quali circostanze è cosa secondaria. Questo ultimo convergere unificandosi di Rivelazione avvenuta, giusta disposizione, consapevolezza che si attua e assenso - questo accordo tra rivelazione e fede non si può risolvere ulteriormente poiché in esso è posto appunto quell'inizio, a monte del quale esistenzialmente non si può più ricorrere, e che si deve invece necessariamente esprimere in una struttura circolare di fondazioni o motivazioni che si fondano reciprocamente. In ultima istanza la relazione «rivelazione - fede» non provi se stessa, ma si appella alla conferma, e definitivamente al giudizio (di Dio].

92

sperienza religiosa? Tra esso e il Dio Santo che si erge nella Rivelazione sussiste pur una somiglianzà, se non una connessione! Dobbiamo respingere il radicalismo della teologia dialettica, che accentua la distinzione tra «altro» cristiano e l'«altro» religioso fino all'impossibilità di relazione. Nell'esperienza religiosa è pur vero che si parli di «Dio», e precisamente con evidenza - come si colloca questa divinità rispetto a quella che parla nella Rivelazione?

Il «mondo» nel suo intero, così abbiamo visto, ha esso stesso carattere religioso. Ciò deriva dal fatto che è stato creato da Dio e sussiste solamente in virtù' di Lui; dal fatto che è pervaso dalla sua operazione, e tutto in esso la esprime; poiché «in lui noi viviamo, ci moviamo ed esistiamo» [At 17, 28]. Così il «numino-so» anzitutto non può essere altro che «autotestimonianza naturale di Dio» nella sua creazione; il trasparire, dato con l'essere delle cose stesse, dell'archetipo divino; la vibrazione dell'atto creativo che si fa valere nella realtà delle cose.

Se l'uomo si trovasse nella giusta situazione, coglierebbe di là il Dio vivente e sarebbe condotto alla autotestimonianza di Lui nella Rivelazione. Ma già questa divaricazione tra rivelazione naturale e positiva non è esatta. Cioè, essa è calzante nella nostra situazione; dobbiamo necessariamente farla, per pensare e parlare rettamente. In sé la necessità di divaricare così è già una situazione di emergenza*.

Il mondo è creato in modo da entrare nell'essere reale. Esso è tale da stare nell'esistenza concretamen-

* Gioco di parole intraducibile tra Notwendigkeit, 'necessità', e Not-stand, 'situazione d'emergenza' (n.d.t.).

93

tè, per essenza. Ciò rende possibile quel tentativo che è stato intrapreso nel primo peccato e in qualsiasi peccato successivo: il tentativo dell'uomo di prendere il mondo, e se medesimo con esso, in senso autonomo, come bastante da solo.

Questa separazione tuttavia non traccia la cesura in modo da decorrere tra l'elemento «mondano» del mondo da un lato, e tutto ciò che ha rapporto con Dio dall'altro. In realtà però l'esser determinato da Dio appartiene indissociabilmente al mondo. Con tutto il proprio essere, esso è immagine di Dio, poiché è sua opera ed effetto permanente del suo volere. Così la separazione del mondo deve riprendere in sé necessariamente anche ciò che da notizia di Dio. È questo che vuole anche la volontà d'autonomia, poiché questa proprietà del mondo costituisce appunto la sua «profondità» e la sua preziosità «infinita». Sul fatto che il mondo ha dimensione numinosa, ha la qualità dell'«altro», si fonda anzi, in ultima analisi, il tentativo di rendere il mondo autonomo e autarchico. Solo un mondo che è tale eccita all'usurpazione e la fa apparire possibile.

Così il taglio incide tra il mondo, che in sé indica e rimanda a Dio, da un lato, e Lui stesso, nella sua maestà sovrana, dall'altro. Questo taglio cerca di separare l'immanenza di Dio nel mondo dalla sua integrità sacra, di abbattere tale immanenza sul mondo e di porre la totalità del mondo in se stessa - senza di Lui, anzi contro di Lui, che è il Signore del mondo. L'esperienza del mondo prende il mondo, che in verità è numinoso per derivazione da Dio, come numi-noso in se stesso, e lo divinizza.

In conseguenza tutto si confonde. Già nella prima

94

esperienza religiosa operano l'aspirazione e lo sforzo di staccare da Lui l'alito del Dio vivente, il suo trasparire attraverso le cose, e prenderlo per sé. Nascono i numi, gli esseri divini: condensazioni dell'irradiazione divina staccate dal Signore del mondo, fino alle configurazioni supreme del monomorfismo religioso.

Queste forme, prese semplicemente per sé, sono improntate alla ribellione, o errate, o ambigue - almeno indecise e perciò pericolose. Chi vi si attacca al mondo; almeno si trova nel pericolo di soggiacergli.

Solo a partire dalla Rivelazione la libera esperienza religiosa, insieme con il pensiero e la creatività a essa riferentesi, e con le configurazioni religiose (religioni) che ne scaturiscono, può essere recuperata a Dio, in quanto tutto ciò entra a servire la fede. Allora l'esperienza religiosa viene sciolta dalla sua ambiguità, e resa un elemento dell'esistenza cui, sotto la tutela della fede, va dato cristianamente l'assenso. Anzi, soltanto mediante essa la fede acquisisce quelle energie creative, di cui ha bisogno per svilupparsi. Se, per citare un esempio, una persona sensibile sperimenta vitalmente la natura e il suo misterioso operare, gliene può venire incontro un che di numinoso. Se lo prende come a sé stante, lo interpreta solo partendo da esso medesimo, giunge allora alla rappresentazione di potenze divine della primavera, di una Madre Terra creatrice, quindi di una Natura-Dio in qualche forma. Con ciò, tuttavia, egli ha frainteso la numinosità dell'esperienza della natura effettivamente presente, si svia allontanandosi dal Dio vivo e incorre in un irretimento nella natura. Francesco d'Assisi ha fatto quest'esperienza in forma assai intensa. Tuttavia è rimasto nella chiara inequivocabile fede al

95

Dio vivo, al Creatore del mondo, al Redentore dal peccato, al Santificatore mediante la grazia, l'amore e il superamento di sé. Così egli ha avuto una cognizione non illusoria di come stiano le cose quanto a quell'elemento numinoso; esso rappresenta le tracce di questo Dio; testimonianze del fatto che noi «viviamo, ci moviamo ed esistiamo in lui»; vibrazione per così dire della sua potenza creativa entro il mondo. Perciò egli non ha raccolto queste qualità attorno a un autonomo centro del mondo, ma le ha riferite al Creatore sovrano rivelato. L'esperienza del carattere religioso della natura è stata ripresa a livello superiore dalla sua fede al Signore della creazione. Così essa è stata purificata per ricorso a tale fede e ha immesso la sua esuberanza nella rappresentazione di fede di Dio, Creatore, prowidente, ricco e benevolo.

96

CAPITOLO TERZO TRÉ DISCORSI DOTTRINALI

L'INTERIORITÀ CRISTIANA

Dopo che a Gerusalemme la decisione è stata adottata, Gesù mette i suoi discepoli di fronte all'essenziale, per attrezzarli alla lotta. Rientrano in questo contesto anche le parole di Le 17, 20 ss.

Il Signore ha operato il segno possente della distribuzione del pane a migliaia di persone. Ciò ha fatto sulle persone una profonda impressione, ed esse hanno voluto innalzarlo alla dignità di rè, affinchè eriga il regno d'Israele. Egli però si è sottratto al popolo -e allora si afferma:

«II Regno di Dio non viene con ostentazione (Geprange) esteriore. Non si può dire: Eccolo qui o eccolo là; infatti il Regno di Dio è intcriore (inwendig) a voi»*.

Qui cade dalla bocca di Gesù stesso quella parola che in seguito nella storia del pensiero cristiano, so-

* Riportiamo, qui di seguito, la traduzione della CEI, da cui quella di Guardini se ne stacca per certi aspetti: «II Regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, eccolo là. Perché il Regno di Dio è in mezzo a voil». Si deve notare che oggi gli esegeti tendono accentuatamente a interpretare i'evtoc uu5v del greco originale proprio con «in mezzo», «tra» e non «dentro di voi», possibilità ermeneutica che del resto l'Autore immediatamente dopo considera (n.d.t.).

97

prattutto nell'epoca moderna, ha acquisito un'importanza tanto grande: quella sull'interiorità cristiana.

Vogliamo perseguirne l'essenza. Non ci riuscirà facile afferrarla. Semplicemente credendo, ne abbiamo una chiara cognizione. Ma non appena cerchiamo di determinarla con pensiero preciso, le difficoltà si accumulano. Tuttavia molto dipende dal nostro comprendere che cosa significa «l'interiorità cristiana» - altrimenti difficilmente raggiungeremo una chiara autocomprensione cristiana, e riusciremo a penetrare a fondo tutte le mezze verità, le confusioni e le falsificazioni che sogliono aderire proprio a questo concetto,

Anzitutto si dovrebbe chiarire il senso diretto e immediato del testo. Non appena si collazionano i diversi paralleli, si vede che non è assolutamente limpido in modo univoco. Le parole di Gesù possono significare: voi non dovete attendere il regno di Dio, perché è già tra voi. Certo non lo vedete, finché credete che i suoi segni siano quali quelli per l'erezione di regni mondani, per esempio la guerra, la conquista di possedimenti o cose simili. Ha invece carattere intellettuale, spirituale ...* invece possono significare:

Non dovete attendere il regno di Dio come realtà che s'insedi esteriormente; è in voi stessi, nei vostri cuori.

Quanto al significato immediato del testo, le cose

* Guardini usa gli aggettivi geistìg e geistlich, che in tedesco denotano la spiritualità, diremmo, neutra il primo, religiosa il secondo. Poiché 11 lingua italiana non ha questa risorsa distintiva, sarà il contesto a determinare il senso più esatto di 'spirituale', 'spiritualità' nei diversi casi; qui si e tentato di discernere traducendo geislig con 'intellettuale', il che in realti è una forzatura (n.d.t.).

98

stiano come vogliono; comunque Gesù sottolinea un particolare carattere del regno di Dio a differenza delle cose e avvenimenti visibili dell'esistenza umana. In confronto di essi, il regno è «intcriore».

Come dunque immaginava il regno di Dio l'epoca di Gesù?

Anzitutto come un ristabilimento della libertà nazionale. I romani sarebbero stati scacciati, la terra sarebbe stata indipendente e la stirpe reale avita sarebbe giunta di nuovo al trono. Un rè della casa di Davide avrebbe dominato a Gerusalemme; questo dominio terreno però avrebbe dovuto costituire al tempo stesso un prodigio operato in virtù del ciclo. Il nuovo rè, il Messia, sarebbe dovuto essere allo stesso tempo profeta, taumaturgo, organo diretto di Dio. Il suo dominio avrebbe dovuto avere un carattere misterioso apocalittico. Il regno si sarebbe dovuto trovare in Palestina, con la capitale Gerusalemme; ma espandersi attraverso il mondo intero e accogliere in sé tutti i popoli nell'unità della regalità messianica.

Gesù ha respinto quest'idea del regno. A quanti attendono questo regno e aspettano i segni visibili del suo avvento, egli dice: «II regno di Dio è in voi».

Con queste parole non vuole distogliere, poniamo, gli uomini dalla vita esteriore. Non dice: devi entrare nella quiete, invece che nella lotta. Non: tu devi ritirarti nel regno dello spirituale e lasciare l'elemento politico; occuparti di cose elevate invece che delle ambigue faccende del giorno; trovarti con poche persone scelte invece che con la folla e il suo chiasso. Pensieri del genere sono lontani da Gesù. Ciò che Egli vuole non ha nulla a che fare con l'interiorità

99

culturale o umanistica dell'esistenza ritirata nello spi-rituale-intellettuale, orientata all'altezza.

Che cosa potrebbe dunque significare in assoluto «interiorità»? Vogliamo non risparmiarci la fatica, e perseguire invece con precisione il problema.

Ve interiorità del corpo. Così si parla per esempio degli organi interni, a distinzione di quelli esterni; di ferite interne invece di quelle sulla superficie corporea. «Più in profondo», in una nuova regione di profondità, sta l'interiorità dell'elemento psichico, che differisce da quello organico. Io posso misurare un'area corporea infiammata che è lunga o larga tanto o tanto. Il dolore che essa produce non ha estensione. L'infiammazione è corporea e pertanto «esterna»; il dolore può avere cause corporee, ma in sé è psichico, nella coscienza, e perciò, a confronto con l'elemento corporeo, è intcriore in maniera particolare.

Ora però, se paragoniamo un semplice dolore corporeo con un sentimento dell'anima, per esempio l'ira, si presenta alla ribalta una nuova differenza di profondità. L'ira per un'ingiustizia è «più profonda» in un senso nuovo rispetto al dolore corporeo. In quel dolore viene alla coscienza la lesione corporea;

l'ira invece è un sentimento dell'anima e ha un contenuto, per esempio il torto subito.

Ora, l'ira stessa può avere a sua volta diversi gradi di profondità. E diverso, se io mi adiro per la sfronta-tezza di una persona o per lo sciupio o il guasto di un nobile oggetto. Qui la distinzione viene dal rango di valore dell'oggetto. Può essere fondata tuttavia nell'essenza intrinseca del sentimento stesso. Ogni sentimento, si chiami ira o gioia o bontà, ha gradi di profondità. Non si può risolvere ulteriormente che cosa

100

sia la «profondità» della bontà - a differenza per esempio della sua «forza» o dalla sua «ampiezza». Profondità qui significa un carattere originario, in conformità del quale questo processo di vita scende maggiormente nell'intimo, è più «intcriore».

Vi sono anche gradi di profondità nel rapporto di diversi strati di sentimento tra loro. Così io posso scoprire che, al di sotto dell'ira quale sento verso una persona, sta una simpatia; che questa simpatia è l'elemento propriamente portante, e l'ira non fa che poggiare su di esso, o addirittura ne è fatta crescere.

Infine la profondità propriamente spirituale. Io posso voler bene a una persona per motivi del tutto diversi: per egoismo, o benevolenza, o perché non posso vedere l'angustia d'un altro, o per reale disinteresse. Ora, l'elemento spirituale d'un comportamento è il suo senso, e il modo in cui, esso si costruisce sulla base di questo senso. Questo elemento spirituale sta «più in profondità» di quello psichico o del sentimento. Esso stesso a sua volta può calare in profondità a perdita d'occhio. Anzitutto secondo il rango del senso, cui in esso si da consentimento: così l'autentico disinteresse è più profondo della simpatia, che si sente oppressa dall'angustia e sofferenza altrui. Poi secondo il carattere immediato di profondità, che l'atto stesso spirituale possiede: un amore può essere profondo, ma privo di energia di superamento; può avere la più forte passione, e tuttavia essere superficiale.

Si potrebbero dire ancora molte cose del genere. Comunque è risultato chiaro come l'esistenza dell'uomo sia costruita dall'interno verso l'estemo - si può anche dire dall'esterno verso l'intemo. Così dapper-

101

tutto, sia nella stratificazione dei diversi ambiti dell'esistenza, sia entro ciascuno degli ambiti stessi, si fa valere la dimensione della profondità.

Ora, quando Gesù parla dell'interiorità del regno - intende qualcosa di questo genere?

Lo si è pensato. Si è affermato che, in virtù del cristianesimo, l'umanità sia divenuta «interiorizzata». I popoli giovani ancora barbari sarebbero stati fatti passare da una situazione primitiva a una più profonda; i popoli antichi colti sarebbero stati portati dalla dissipazione, dalla scissione spirituale, dall'eccesso di affinamento della loro situazione a un raccoglimento intcriore. Questo rafforzamento e approfondimento del mondo intcriore sarebbe proseguito nel corso della storia medievale e moderna. Nell'epoca moderna, con l'inizio nel Rinascimento, avrebbe avuto principio poi una nuova fase particolarmente importante di questa interiorizzazione: l'uomo avrebbe scoperto l'importanza e significatività del singolo essere, della sua irrepetibile soggettività; il che, poi, di conseguenza, si sarebbe ripercosso anche in una religiosità, moralità, concezione del diritto ecc. «interiorizzate». Secondo questa visione l'interiorità del Nuovo Testamento sarebbe un passo sulla linea del progresso generale. La storia umana avrebbe il senso di realizzare sempre più pienamente le dimensioni di profondità della nostra esistenza, e Gesù significherebbe qualcosa di particolarmente importante su questa strada.

Stanno così le cose? Manifestamente no! Vogliamo però essere cauti. Naturalmente anche così. Uomini la cui vita è dominata dalla coscienza dell'onnipresenza di Dio, della Provvidenza, della vita eterna che è

102

entro il nostro essere redento - tali uomini diverranno più interiori necessariamente anche in senso psicologico e culturale. L'attuazione di questa fede coinvolgerà costantemente nel suo sviluppo anche le profondità naturali dell'uomo. Tuttavia, quanto intende Gesù essenzialmente è qualcosa d'altro.

Per interiorità Egli non intende il dispiegamento della psiche, il divenire più profondo del cuore o dell'animo, la realizzazione progrediente del senso spirituale mediante opere e atti. Nemmeno intende dire che tra gli ambiti dell'intimo finora conosciuti se ne schiuda uno nuovo - così come, per esempio, secondo l'opinione di parecchi, la nostra coscienza, dalle nuove cognizioni psicologiche dovrebbe acquisire un nuovo carattere di profondità. Ciò che Gesù intende, è, in linea di principio, diverso da tutto ciò che è umana interiorità, sebbene naturalmente debba essere realizzato dall'uomo, e poi metta anche in movimento tutte le energie di interiorità in attesa. Questa interiorità non viene in assoluto dall'uomo, ma da Dio.

Ora però noi dobbiamo distinguere ulteriormente - in verità abbiamo deciso di non eludere alcuna difficoltà, ma di andare realmente al fondo. Ve l'esperienza vissuta religiosa: l'esperienza di ciò che è misterioso, che si trova dietro le cose e gli eventi: la coscienza del non nominabile, del misterioso, del «numinoso»; il presentimento del primo inizio, dell'ultima fine e dell'unità che tutto assomma. Tutto ciò è in certo modo connesso con Dio; intende Dio; lo ricerca.

Così si potrebbe pensare che quell'interiorizzazione significhi, per questa esperienza religiosa, divenire

103

sempre più profonda; per queste condizioni e questi atti religiosi, svilupparsi sempre più in dirczione della forza, del raccoglimento e della ricchezza di senso. Anche ciò non sarebbe esatto.

Ciò che Gesù intende è, anzitutto, non un dispiegarsi della disposizione religiosa naturale, come è nelle aspirazioni e negli sforzi dei sistemi mistici e ascetici delle diverse religioni. Egli invece è venuto per rivelare Dio che è sovrano di fronte al mondo. Per dirci che cosa Dio pensa di noi, come noi ci troviamo di fronte a Lui, e che cosa Egli esige da noi. Per annunciare a noi che cosa è intenzionato Dio a fare nei nostri rapporti. Gesù non porta possibilità più elevate d'esperienza religiosa e indicazioni per l'autosviluppo religioso, ma ci annuncia la grazia, la redenzione, la nuova creazione, il giudizio. Dapprima e in maniera fondamentale qui non si tratta di esperienza umana, ma d'un agire di Dio, per un decreto libero e imperscrutabile; e divenire cristiano significa prendere questo agire nella fede alla parola di Cristo come l'ultimo fondamento e criterio decisivo della propria esistenza - e non importa che esperienza viva si faccia in tale circostanza; se vi ci si «approfondisca» o no; se vi si divenga armonici o dilacerati; perfetti e compiuti o frammentari.

Così anche l'interiorità che Gesù intende non è in prima istanza un'interiorità del nostro essere psicologico ne spirituale, ma quella che Dio crea in noi. Non è una dimensione di profondità che rimanga in attesa nella disposizione religiosa, ma non sia ancora dischiusa, bensì semplicemente è un dono di Dio. Poi certo, quando Dio la dona, essa diviene subito anche 'psicologica' e 'spirituale', cioè esplicitata e adattata

104

negli atti e nelle condizioni dell'uomo - il che sviluppa necessariamente le disposizioni date e fa avanzare le evoluzioni storiche; certo anche le sottopone a critica, le scuote, le trasforma. L'interiorità cristiana non è uno spazio in noi, che si presenti già pronto e in cui Dio venga, ma è il Dio stesso, che viene per realizzare il suo Regno, a produrre la profondità e l'ampiezza intcriore, in cui vuole abitare. Essa dipende da Dio e può essere ricevuta solo dalle sue mani. Certo, ancora una volta: se Dio la crea, allora essa si realizza nell'essere e nella vita psicofisici, e ciò significa al tempo stesso anche un dilatarsi, un farsi 'spazioso' dell'uomo concreto, un rafforzarsi degli atti e delle circostanze, un elevarsi del mondo interno, soltanto nel quale l'uomo, in assoluto, diviene ciò che si era proposto di fare con lui il Creatore.

Ma non siamo ancora alla realtà propria e autentica.

Che cos'è in ultima analisi questa interiorità? Il luogo «dove» è Dio.

E dove è Dio? In se stesso.

La serietà di Dio - questo è il luogo dov'Egli sta. La gioia di Dio per se stesso; la conoscenza con cui penetra la propria essenza - ecco il luogo dov'Egli abita. La misurazione perfetta della sua etema grandezza; l'assenso amoroso della sua stessa santità - ecco il luogo dove è Dio. Il «dove» di Dio è il suo atto proprio. Infatti il suo essere intero per Lui consiste nell'atto. Tutto ciò che Egli è, Egli pensa. Tutto ciò che Egli vale, lo misura. Tutto ciò che Egli ha, lo gode. Niente «si trova» meramente in Dio; tutto sta entro la sua pura vitalità. Questo è il suo luogo: il fatto che Egli possiede se stesso nell'atto.

105

Così questa affermazione è poi anche una inadeguatezza pura e semplice, in quanto solo Lui ha questa energia d'atto. Egli sfugge a qualsiasi altro atto. L'interiorità di Dio è il suo luogo e al tempo stesso il suo nascondimento. Appunto ciò che lo rende manifesto senza residui a se medesimo, la sua luminosità assoluta, lo chiude per tutto ciò che Egli non è:

«Egli abita nella luce, che per tutto [quanto è creato] è inaccessibile» [1 Tim 6, 16].

Questo Dio, con la sua comprensione di sé, viene in noi. Così parla Cristo. Ma il suo apostolo dice che noi siamo la

«stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato, perché proclami le sue opere meravigliose, di Lui che [ci] ha chiamato dalle tenebre alla sua mirabile luce, [noi] che un tempo [eravamo] non popolo, ora invece siamo il popolo di Dio, [noi] un tempo esclusi dalla misericordia» [1 Pt 2, 9 s.]. E inoltre dice che «la sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e la pietà, mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua gloria e potenza. Con queste ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché [diventassimo] per loro mezzo partecipi della natura divina» [2 Pt 1,3 s.].

L'interiorità di Dio s'accosta al credente quando Dio dunque viene a lui - perché Dio è Lui stesso la sua interiorità. Quando Dio si dona all'uomo, gli dona pure la sua santa interiorità. Essa si fa valere, si afferma nel credente. Nella partecipazione della grazia, nel far proprio l'amore egli deve associarsi nell'at-tuarla - ciò soltanto costituisce l'interiorità cristiana.

106

Così nell'esistenza cristiana v'è un profondo mistero: ecco un uomo, una creatura, un frammento di mondo. Ma in lui si leva il Dio vivente. Egli non è creatura, non è mondo. Dio è Dio. Egli vive nella interiorità sua propria e concede all'uomo di poterne partecipare. Non da risorsa propria e come possesso proprio, ma per grazia e come grazia. In quanto l'uomo cosi agisca credendo ed amando, in lui si desta una vita che non proviene da lui stesso. Tuttavia egli è reale, ha una umana realtà, e solo in tal modo diventa propriamente uomo secondo il senso voluto dal suo Creatore.

Ciò avviene mediante la fede, la carità, la speranza. Sono le «virtù teologali»; le virtù «infuse», mediante le quali l'uomo s'associa all'attuarsi della vita divina. Tra loro vige l'inesprimibile unità dell'atto cristiano d'esistenza, di cui Paolo parla dappertutto nelle sue lettere, anche quando non discorre espressamente di ciò.

Questa è l'interiorità che Cristo intende. Essa si pone di traverso rispetto a tutti gli altri ambiti d'interiorità. A tutte le forme naturali d'interiorità, che sono correnti nel mondo, quella intesa da Cristo sopraggiunge dal cielo, dal di sopra, dall'Altro. Non le ci si può avvicinare col rendere i sentimenti più profondi o più nobili le comprensioni di senso o significato. Scavare entro se stessi psicologicamente o esistenzialmente non traccia una via verso di essa. Nessuna interiorizzazione che venga dal mondo - e al «mondo», in questo senso, appartiene tutto ciò che l'uomo è di per sé - fa avanzare verso l'interiorità cristiana. Vi porta solo la fede, la disponibilità ad andare dove si trova Cristo.

Ma ciò è anche realmente esatto? O è pur sempre,

107

ancora una volta, una escogitazione che parte dall'uomo? Un brano di filosofia dell'interiorizzazione, solo espressa in termini teologici? Questa interiorità di Dio non è pur un ambito psicologico, solo proiettato sul piano metafisico o, presuntamente, pneumatico?

L'interrogativo si può porre, ma la risposta non viene più da una discussione teoretica. Se mai in qualche luogo si appiatta, è qui che grava l'oscurità del possibile scandalo, poiché a ogni interrogativo del dubbio sarà possibile una risposta - ma ogni risposta a sua volta può esser messa in questione. Verosimilmente per ogni aspetto della nostra esistenza, che la fede rivendica, v'è pure un'altra qualificazione naturale. In ultima analisi, la fede deve necessariamente riposare in se stessa. Credere in verità significa pur questo, osare un nuovo inizio. Ma gli inizi non si possono provare, bensì solo attuare. Iniziare significa entrare in una esistenza - ma quest'esistenza come potrebbe dimostrare a chi non v'è dentro che essa c'è e ha diritto [di affermarsi]? Essa può solo esserci, affermarsi e per il resto attendere il giudizio [finale].

Tuttavia nell'esistenza cristiana v'è qualcosa che può chiarire a chi vuoi vedere ciò che avviene. Nella misura in cui l'uomo si fa credente, nella misura in cui lascia che si affermi in lui la realtà del Dio vivente e si assoggetta a ciò che viene da Lui, nella stessa misura si libera di se stesso. Non nel senso che per l'interiorità psichica acquisita sia in grado di giudicare l'esterno, o per la spiritualità approfondita possa giudicare la vita dell'anima. Non nel senso che egli cresca nell'approfondimento entro di sé e da quella profondità veda in modo più giusto. Ma in lui sorge ciò che altrimenti non può sorgere, assolutamente no;

108

un autentico, anzi l'unico autentico punto archimedeo, sulla base del quale egli può sottoporre a giudizio se stesso come totalità. Nella misura in cui l'uomo realizza l'interiorità cristiana, accoglie nel raggio del suo sguardo se stesso e diviene capace dell'autoconoscenza vera e propria cristiana. Essa ha una chiaroveggenza, un pescaggio, per cosi dire, una inesorabilità e insieme una forza creativa di rinnovamento - ciò tuttavia non è ancora la realtà più vera, ma essa è in grado di fare ciò che altrimenti è impossibile: abbracciare con lo sguardo tutt'intorno l'essere proprio nella sua interezza; scrutare oggettivamente nel proprio io e giudicarlo. Ciò può avvenire solo perché qui non è più solo l'io umano a giudicare se stesso; non è più solo il dato di fatto psicologico della partizione tra io considerante e io considerato che si presenta e viene approfondito, ma il credente ottiene una partecipazione allo sguardo di Dio su di lui, sull'uomo. L'autoconoscenza cristiana è l'associazione all'atto con cui Dio guarda noi stessi, elargitaci per grazia. Così ad essa nulla rimane sottratto - parlando in linea di principio; in quale misura poi la possibilità sia realizzata anche di fatto, è questione del volere e dell'agire; -nessun resto di un io il più riservato, il più occulto. Tutto è costretto a cadere sotto il suo sguardo, la sua valutazione, giacché essa si appoggia su Dio. Solo qui diviene possibile quanto in sé è l'impossibile: il reale farsi nuovi.

Infatti è pur questa la brama indistruttibile dell'uomo: trarsi fuori da se stesso. Non fuggire correndo da sé; sarebbe la degenerazione vile di quella ardente aspirazione. Non diventare un altro nel senso di un cambiamento di persona; sarebbe una recita teatrale

109

dell'esistenza. No, in lui vive la coscienza che di necessità debba essere possibile per la persona l'impresa inaudita di venire fuori dall'io logoro, e appunto solo in tal modo divenire giustamente se stesso. Anzi, l'uomo di continuo tenta di compiere questo mistero fondamentale: nell'atto ardito; nella dedizione all'opera; negli incontri dell'amore; nelle crisi di passaggio entro lo sviluppo personale - fino ai processi, con carattere illusorio e tuttavia così colmi di significato, delle malattie psichiche. L'intera vita è un perenne tentativo di autosuperamento, ma esso non riesce mai. Si giunge sempre solo ad abbozzi, schizzi, pianificazioni. Non sfociano mai nella realtà perché non diviene possibile il momento decisivo, il balzo. L'uomo in verità rimane sempre irretito nel circolo dell'io. Ciò si fa possibile solo qui, mediante l'incarnazione di Dio, la redenzione e la grazia. Così dunque il messaggio più profondo di Cristo è la venuta di Dio e, con essa, la possibilità che si formino l'uomo nuovo, la nuova creazione, il nuovo cielo e la nuova terra - a partire da quel punto d'interiorità, che Dio stesso da e che è al tempo medesimo il punto del santo «al di sopra»; con il quale il credente sta interamente in se stesso, appena ora de! tutto intimo e uno con se stesso - e al di sopra di sé, libero da sé e capace di giudicarsi.

Ciò è quanto Gesù intende, qui ripetuto faticosamente con molte inutili parole. Di qui, da questa interiorità, viene il regno di Dio.

Ma non per rimanere in disparte, puramente «intcriore», semplicemente «spirituale», nell'uso privo di chiarezza di queste parole. Dio non vuole un regno

110

spirituale, ma il regno dello Spirito Santo, che però è creatore del mondo. Ciò che deve scaturire da quella interiorità, non è una anima immersa in se stessa, ma l'uomo nuovo. Non un ambito riservato, bensì la nuova creazione. Semplicemente tutto deve essere afferrato e rigenerato da questa interiorità.

Così adesso si dovrebbe parlare ancora del fatto che nella Chiesa v'è lo stesso ambito di interiorità, in ragione del quale è fondato il dato possente della «Chiesa invisibile». In ogni sacramento, nel dogma, in ogni espressione essenziale di ciò che si chiama «Chiesa» vive questa sfera di interiorità. Ma qui non possiamo addentrarci ulteriormente nell'argomento.

La risurrezione però e il compimento del mondo significheranno che la santa interiorità, di cui abbiamo parlato, coincide con l'essere concreto dell'uomo. Tutto ciò che è collegato all'uomo e alle cose allora sta nell'interiorità, avvolto da essa, attuandosi in virtù d'essa. Proprio in questo tuttavia, l'interiorità si è aperta; manifesta* in tutto ciò che esiste. Niente sarà più «occulto». L'interiorità sarà integralmente penetrata dallo sguardo, dagli occhi di tutti coloro che sono veggenti nella luce di Dio. In ogni gesto umano risplenderà l'interiorità; in ogni frammento della creazione, in ogni foglia e in ogni goccia d'acqua - anzi, ci è consentito parlare della foglia e della goccia senza cadere nella favola, giacché la stessa Apocalisse parla degli alberi della vita e della sacra corrente.

Il mistero del mondo risorto consisterà in questo:

* Gioco di parole in tedesco tra offen, «aperto» e offenbar, «manifesto», «rivelato» (n.d.t.).

Ili

tutte le cose saranno divenute totalmente interiori;

l'interiorità sarà divenuta integralmente manifesta in modo plenario; sarà unità.

LA PREGHIERA DI RICHIESTA

Nel Nuovo Testamento si discorre molto del chiedere. Spesso e con insistenza Gesù ne parla.

«Chiedete e vi sarà dato; bussate e vi sarà aperto» [Mt 7, 7]. E ancora: «Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo concederà]» [Gv 15, 16].

E affinchè invero soltanto risulti chiaro che si tratta di un chiedere reale, nel senso pieno e con tutta l'iniziativa, egli narra la parabola dell'uomo che a ora tarda viene dal suo vicino e chiede tré pani. Quello gli risponde che ormai tutti sono a riposo e che non può mettere più tutto in agitazione; ma l'uomo continua a bussare e a chiedere finché l'amico, «per la sua insistenza» e per liberarsene, fa quanto l'altro vuole. Così dovreste fare con Dio, dice Gesù [Cfr. Le 11, 5-8].

Certo l'energia del chiedere non sta nel parlare esterno e nello sforzo psichico, ma nell'intensità del moto del cuore e nella purezza della fede. Perciò il Signore esorta a non pensare - come i pagani - che le molte parole, o le parole scelte e belle riescano a ottenere; o, potremmo proseguire, che vi riescano l'individuazione, sviluppatasi qui, delle circostanze effettive di vita, o il senso pratico, o qualcosa d'altro che appartiene all'uomo e al mondo. Infatti Dio in realtà conosce ciò di cui abbiamo bisogno. Quanto deve venire da noi, non è che mostriamo a Dio quel che ci è necessa-

112

rio, o che lo moviamo a volere quanto è giusto, ma che abbiamo il vivo atteggiamento di fede e d'amore, che è ordinato alla sua paternità, la quale s'allea a tutta la sapienza e a tutta la benevolenza. Così Gesù da ai suoi un esempio e un criterio di ogni retto pregare, il Padre nostro, affinchè vedano come devono pregare.

Si dovrebbero dire ancora parecchie cose del genere.

Il mondo del Nuovo Testamento è pervaso dall'orientamento verso la preghiera e la richiesta*; le parole del Signore, le sue parabole, il suo atteggiamento personale ci avvicinano tale orientamento, tanto che ci sembra comportamento del tutto ovvio; una cosa bella, intima, profonda, che per necessità proviene dall'essenza. Quando però riflettiamo più a lungo e in maniera giusta su cose cristiane, ci sentiamo sempre poi chiaramente messi in guardia dal prendere alla leggera tale impressione di dimestichezza e owietà, e si mostra continuamente che proprio le cose in apparenza più ovvie sono tali nella minor misura.

Per esempio un dotto, che viva totalmente nel mondo del pensiero scientifico e al tempo stesso sia un uomo che riflette seriamente. Se domandassimo a tale persona: Che idea hai del pregare? - certo allora egli direbbe: Nulla avviene senza ragion sufficiente. In tutto v'è senso e consequenzialità. Tutto l'essere e il divenire costituiscono quel grande contesto che chiamiamo «natura», e in cui tutto è, come deve necessariamente essere. Ma è religioso quell'uomo che

* Assonanza tra belen, «pregare» e billeri, «chiedere» su cui l'Autore gioca per tutto il saggio (n.d.t.).

113

accoglie con reverenza questo contesto e vi si inserisce. E pregare significherà immergervisi dentro meditativamente; adattarsi in ciò che è necessario; presagire, al di là dell'esterno e del contingente, la profondità che va all'interno; insomma, comprendere se stessi come membra del gran Tutto ... Ciò è pensato con profondità, è anche religioso, pio. Ma non ha nulla a che fare col pregare in senso cristiano, e, ancor meno, col chiedere del Vangelo.

O un medico, diciamo uno psichiatra. Che idea hai tu del pregare? Egli dirà: Molti disturbi della vita psichica vengono dall'irrequietezza e dalla convulsione del volere; dal voler fare, conquistare, estorcere. Proprio questa inquietudine e queste forzature rendono incapaci di volere in modo giusto. Quando vi ci si incapsula, non si vede nulla rettamente, perché non si ha chiara visione di che cosa propriamente si voglia; perché non si vuole movendo dalla giusta profondità; perché non si rimane nella linea del volere possibile. Chiedere significa dunque anzitutto e soprattutto 'sganciare' il volere*. Non volere questo e quello e tutto il possibile, ma sciogliersi. Chiedere significa liberarsi da intenzioni, abbandonandosi alla grande esistenza, nella fiducia verso la sua saggezza e pienezza di senso. Proprio nell'agire così lo sguardo acquisterà chiarezza per cogliere la giusta pienezza di senso; la persona diventerà una con se stessa nel suo volere. E questa la grazia della preghiera ... Un pensiero nobile e pieno di saggezza di vita. Ma il chiedere cristiano significa qualche cosa d'altro.

* II verbo usato da Guardini è abschirren, che significa propriamente «staccare i cavalli dalla carrozza» (n.d.t.).

114

E si potrebbe ancora interrogare una persona di grande profondità, che non fosse tuttavia un cristiano; un mistico molto spiritualizzato, come esistono in tutte le religioni. Che cos'è il giusto chiedere? Certo risponderebbe: abbandonare la propria volontà nella volontà di Dio. Non voler nulla d'iniziativa propria, solo che si compia il volere divino. E per il resto, venerare, ringraziare, adorare ... E un orientamento di pensiero e sentimenti mirabile; è anche vero. Ma se deve essere vero in senso cristiano, si deve scorgere e assicurare qualcosa d'altro.

In tutto quanto è stato detto qui, manca appunto quello che importa in prima istanza nel Nuovo Testamento e in dirczione del quale pongono l'accento le parabole di Gesù: il fatto che il credente è chiamato a un'autentica iniziativa.

Il chiedere del Nuovo Testamento è un chiedere reale, non uno puramente apparente. In esso si rilevano l'abbisognare e l'aspirare vero e proprio dell'uomo, si atteggiano in parole e si presentano davanti a Dio. Sicuramente, rimettendo tutto alla sua santa sapienza e obbedendo al suo volere. Ogni petizione cristiana ha la condizione previa, sempre intesa in concomitanza: se così è giusto al tuo cospetto - altrimenti, in verità, essa cercherebbe di affermare la propria volontà contro quella del Signore e incorrerebbe nella perdita della salvezza. Restando però entro l'ampiezza infinita del volere di Dio, si prega realmente:

«Dammi questo ... difendimi da questo ... aiutami per questo ...».

Tale chiedere non è nulla di ovvio, stabilisce invece presupposti di portata molto vasta, che non si dan-

115

no sulla base del mondo. Vogliamo enuclearli con cura. In tale operazione risulteranno visibili parecchie cose che sono essenziali per la comprensione dell'esistenza cristiana.

Anzitutto: come dev'essere allora Dio affinchè sia possibile una preghiera di domanda?

Finché si intende per «Dio» il Fondamento del mondo, il Senso dell'esistenza, il Vero e il Bene supremo, l'Autore onnipotente di tutte le cose, in altre parole «l'Essere assoluto», non v'è alcuno spazio per le preghiere di domanda in senso proprio. Esse scivolano via. Tale Essere sa tutto. Ma il suo occhio non posa volgendo lo sguardo sulla mia esistenza particolare. Esso opera tutto; ma non agisce in dirczione di me, singolo. E tutto in tutto, ma non il «mio Dio». In rapporto a tale Essere, una preghiera di domanda è fuori luogo. Essa ha in sé in tal caso - come esprimerci? - sì, qualcosa di addirittura penoso.

Se io debbo presentarmi sensatamente a Dio per chiedergli qualcosa con la preghiera, così da sentire che quest'atto è giusto davanti a Lui, ed è davanti a Lui pure nel mio sentire, allora Egli dev'essere diverso. Ma lo è anche! Il Dio di cui parla Gesù, e al quale Egli mi rimanda con la mia petizione, è e si atteggia anzi in modo assolutamente diverso, altro dall'«Esse-re assoluto» dei filosofi. Questo Dio decreta, si leva e agisce ... Egli si adira e punisce; ma quando poi gli uomini si convellono. Dio si pente del suo rigore e si riconcilia ... È lontano e si avvicina; guarda l'uomo, scende, gli si accosta ... Qui si parla in modo diverso che nella filosofia!

Ora si potrebbe dire che questo sia un'esperienza

116

figurata; una maniera di parlare infantilmente devota o storicamente non evoluta. Assolutamente no! È invece un linguaggio esatto. Tanto esatto che l'essenziale inerisce proprio a ciò che l'intelletto, il quale pensi in maniera non più «infantile» o «popolare», ma «seria» e «scientifica», dovrebbe cancellare. Infatti il Dio di cui qui si parla non è appunto l'Essere supremo dei filosofi, ma «il Dio di Gesù Cristo», e così come Egli si rivela nella Sacra Scrittura, anche e appunto nella sua maniera di parlare.

E questo il Dio cui si può rivolgere la preghiera di domanda. Davanti a Lui essa è un comportamento veramente umano. Nei Vangeli le cose procedono in modo tale, e il Dio che sta dietro il loro accadere è tale, che gli uomini con il loro pregare chiedendo, trovano posto presso di Lui - come figli presso il padre. E Dio è in verità anche il «Padre nei cieli», ma non solo in termini figurati, bensì veramente e realmente.

Ma come dev'essere l'uomo affinchè la preghiera di domanda si faccia possibile? Non un verme; non un essere da nulla. Il pregare chiedendo, di cui qui si tratta, non è un mendicare*, non è un non potere da sé, con la connotazione della debolezza. La preghiera di domanda cristiana ha dignità, e dignità di fronte a Dio. L'uomo deve dunque essere qualcosa che Dio stesso tiene in onore. Non può essere nemmeno un frammento di natura, un'articolazione nel meccanismo del mondo. Neppure qualcosa del genere può pregare chiedendo nel senso cristiano. Egli deve ave-

* Qui Guardini, oltreché su beten e bitien (vedi sopra), gioca anche su bettein, «mendicare» (n.d.t.),

117

rè iniziativa, e precisamente iniziativa nello spazio di Dio. Così è anche di fatto. Dio ha voluto vivente l'uomo di cui parla Gesù. Non l'ha costruito, innalzandolo davanti a sé, come puro oggetto del suo operare, ma l'ha formato come cuore pulsante in mezzo al mondo insensibile; come volontà libera in mezzo alle necessità dell'esistenza. Dio l'ha posto come incaricato e aiuto nella creazione e lo coinvolge in un santo accordo dell'operare. L'accordo deve risultare vivo. La sua iniziativa, la sua energia di cominciamento deve destarsi. L'uomo deve volere, portare il suo volere davanti a Dio, e Dio assume la volontà della sua creatura nel contesto del proprio agire stesso.

Forse replicherai che Dio pur crea anche questo volere e chiedere. Questo comunque è esatto. Ma con ciò noi ci fermiamo al mistero della creazione in genere, e soprattutto dell'essere libero. Non lo comprenderemo mai; ma dobbiamo curare che non ci assorbisca le verità e le distinzioni su cui poggia la nostra esistenza. Siamo obbligati da Dio a non far divenire il mistero della sua operatività onnicomprensiva un potere che ci spenga l'agire e il volere nostri propri. Dio tutto opera; ma, all'interno del suo operare che tutto abbraccia, rimane vero che l'uomo ha iniziativa. Che siamo chiamati a un operare nostro proprio, e che il nostro operare e chiedere vale al cospetto di Dio.

Di qui risulta chiaro che cosa sia il «figlio di Dio». Non schiavo, ma figlio; figlio però non come essere alquanto debole, indifeso, ma figlio, figlio di Dio* maggiorenne e capace di responsabilità.

* Guardini qui si vale della differenza in tedesco fra Kind (figlio come bambino) e Sohn (figlio senza la connotazione infantile) (n.d.t.).

118

E ancora una volta: come dobbiamo pensare la relazione tra Dio e l'uomo? Vi sono diverse relazioni e diversi modi in cui vengono enunciate. Una pietra ha con un'altra pietra il rapporto delle cose senza vita;

viene enunciato nella forma di legge naturale e intercorre come deve intercorrere secondo tale legge ... Tra esseri viventi i rapporti hanno altra natura. Anche qui vigono leggi e necessità; ma necessità di tipo più profondo, le quali sgorgano dalla vita che crea ... Vi sono però ancora rapporti di genere particolare, che non si possono captare in «leggi». Quando esiste una persona e un giorno da qualche dirczione gliene viene incontro un'altra, si sviluppa tra le due un legame, e dal legame nasce un destino, allora non si può esprimere ciò che avviene in questo caso in leggi, psicologiche, sociologiche o che altro. Qui v'è un mistero che si può solo narrare. Trova la sua espressione in una storia.

Ora, ciò che ha luogo tra Dio e l'uomo, non è solo una «relazione» tra l'Essere assoluto e quello finito. Essa dovrebbe essere espressa «fìlosoficamente», e ogni cuore credente scorgerebbe subito che ciò non ha nulla a che fare con la sua relazione - che è invece un incontro, un destino, e può solo essere narrato così: «Un giorno Dio vide la pena e l'angustia di questa persona. Ed ecco andò da lei, mediante questo pensiero, o questo evento e le parlò ... La persona però avvertì la parola e rispose ... E poi accadde questo e questo altro ... e la fine fu ...». Così si dovrebbe esprimere tale fatto. Ciò di cui si tratta in questo caso non si svolge tra «l'Essere assoluto» e «l'uomo», ma tra Dio e me. Lui, il Vivente, e me, che esisto come 'io'

119

irripetibile. «Dio e l'anima mia e nient'altro al mondo». E quando io stupito replicassi: «Signore, e gli altri?», egli allora direbbe: «Per ciascuno v'è solo 'io' e 'lui', e null'altro». Ma questo «Dio e me» è una storia che viene narrata, e che si verifica tante volte quanti uomini esistono. Quella storia che Dio non si stanca di lasciar accadere - anzi, non solo di lasciare avvenire, ma di operarla e sperimentarla vivendola Lui stesso. La sua santa gioia, invero, è di inserirsi, impe-gnandovisi, in questa storia.

Ed è questo il carattere particolare, il tono del cuore, l'intimità dell'essere cristiani: il suo attuarsi entro questa storia. Essa è sempre nuova, e sempre l'unica, ogni volta. Tanto unica e tanto profonda, così onnicomprensiva - realmente di «tutto quanto esiste», del «mondo intero» - che è un mistero come si possa passare da essa alla storia del fratello, quella tra Dio e l'altro. In verità però non si può nemmeno trapassarvi tanto facilmente, ma solo così come è concesso da Dio. Egli ha certo compaginato i diversi destini come singoli e sempre unici, ma non come solitari*. La linea di una nuova storia d'esistenza scaturisce sempre da altre, che la precedono: quelle dei genitori. Essa sperimenta continuamente influenze operanti di natura diversa da altre, che la toccano e la incrociano: di educatori, maestri, persone incontrate. Entra sempre in rapporto di reciproco influsso con altre, di compagni e amici; e certo in qualche modo è anche orientata verso una o alcune linee d'esistenza con cui dovrà convergere in un legame più profondo,

* In tedesco è efficace l'assonanza tra einuin, «singolo», einzig, «unico», einsam, «solitario» (n.d.t.).

120

con carattere di destino. Ma Dio è il Prowidente. Nell'intreccio di questi contatti e di queste unioni, incroci di esistenze e opposizioni Egli opera le sorti umane. Egli stesso vi è entro, e le vive insieme, poiché la sua inabitazione d'amore non si rapporta invero solo a un'«anima astratta», o a una «salvezza» altrettanto astratta, ma nell'intera persona umana vivente.

«È sua gioia abitare tra gli uomini» [cfr. Prv 8, 31].

Così egli non è solo per ciascuno «il suo Dio», ma viene sempre nuovo e sempre in modo diverso il momento in cui «due o tré» [Mt 18, 20] possono dire «il nostro Dio». Quello è il fondamento d'una intimità e d'un senso d'essere accolti e custoditi da Dio nell'amicizia, nel matrimonio, nelle comunanze dell'educazione e dell'opera tra persone credenti.

Esse vi sono legate in una comune storia di Dio, che si va intessendo, dall'una all'altra persona, da gruppo a gruppo e alla fine intreccia tutti gli uomini in una santa rete, che si chiama provvidenza.

Dio però - certo lo si può descrivere così; e sarà una buona descrizione, che deriva dal Vangelo e dalla prima lettera di san Giovanni - è colui che entra interamente nella storia, in ciascuna, anzi in questa mia, ora; così interamente da esservi entro in realtà come uno che ama - chi ama però non divide - e da trovarsi al tempo stesso in tutte le altre storie d'esistenze umane, ugualmente senza divisioni e riserve;

così da inabitare e dominare fino in fondo l'intero, senza violare la sacra esclusività del singolo. Forse con queste espressioni si enuncia su Dio quanto di più grande può venir detto dall'uomo su di Lui.

121

Come stanno le cose, viste nella prospettiva di questo rapporto, con la preghiera di domanda? Anzi, come vi si colloca il mondo, dal momento che pregare chiedendo significa che qualcosa nel mondo accada?

La filosofia antica ha un concetto degno di nota. Essa parla della potentia oboedientialis, della capacità d'essere assunti a servizio da parte di un appello dall'alto, di una potenza superiore. Il mondo ha questa capacità in misura inestimabile. Importa solo che sia chiamata. Ma come viene chiamata? Dalle forme, dotate di senso, del permanere [nell'esistenza] è chiamata a costruire configurazioni che durino. Dalla vita, ai processi del produrre, del crescere, del fiorire e del maturare, e il mondo ne è pieno. Dal cuore dell'uomo, dal suo spirito, a impegnarsi nell'opera creativa, e sorge la cultura. Quando collega due persone che si amano, le chiama nella loro storia e si forma un destino - e ora siamo giunti: anche quel rapporto tra il cuore di Dio e l'uomo, che può venir narrato solo nella forma di quella storia santa, recupera entro di sé il mondo, e in modo integrale e al titolo supremo, se è pur vero che è stato detto:

«tutto [deve] concorre[re] al bene di coloro che amano Dio» [Rom 8, 28].

Il mondo intero è chiamato a entrare nella relazione d'amore tra Dio e l'uomo. Qui la richiesta è sovrana:

«Qualunque cosa chiederete al Padre in mio nome» -quella relazione si annoda nel nome di Gesù - «ve lo concederà]» [Gv 15, 16].

Ora, ecco le condizioni per l'autentica preghiera

122

di domanda. Dio è colui che viene con movimento libero. L'uomo è chiamato da Dio all'iniziativa dell'accordo [con Lui]. Tra Dio e l'uomo si svolge la santa avventura del loro amore. Entro di essa è coinvolto il mondo. La preghiera di domanda è però la forma in cui l'uomo si rivolge a Dio, affinchè Egli faccia servire il mondo al suo amore.

Il mondo non è così disposto di per sé. A partire dal mondo semplicemente, non si da preghiera di richiesta. Cristo ci ha detto che il mondo è appunto disposto così e ci ha esortato a vivere in tale prospettiva. Ha rivelato il Dio, fondandosi sul quale ciò è possibile, il Padre nei cicli. Ci ha detto che cosa siamo noi stessi e che cosa dovremmo divenire quando ci diede «potere di divenire figli di Dio» [Gv 1, 12]. Egli ci ha detto che cosa intercorre tra Dio e l'uomo:

l'amore, quello reale. E ci ha detto che, se si muove da esso, nel mistero della Provvidenza, il mondo può essere assunto a servizio [dell'uomo].

Certo, ci ha detto pure al tempo stesso che la fede è «la vittoria che ha sconfìtto il mondo» [1 Gv 5, 4]. Tutto ciò non si compie da sé. La Provvidenza non è prosecuzione dell'ordinamento del mondo. Esso sorge dalla fede e nella misura in cui la fede si rafforza. La fede deve «vincere» la sostanza immediatamente data dal mondo, il rapporto immediato con esso, in-troducendolo nella novità [di vita].

REALISMO CRISTIANO

Nel cuore dell'uomo v'è un impulso molto nobile:

ascendere direttamente a ciò che è alto e perfetto.

123

Ma la realtà più alta e grande, perfetta in senso assoluto è Dio; quindi il cuore umano vuole salire a Lui, rettilineamente, senza mezzi e vie traverse. Ciò poi è stato anche tentato dall'uomo in modi di genere diverso. Ha messo in tensione l'energia del suo pensiero ed è asceso al di sopra delle cose finite all'Assoluto, all'Essere infinito, all'Idea suprema. La sua forza d'amore ha cercato Colui che è adempimento e compiendo di tutto il bene ed il bello. L'immersione meditativa religiosa, si è raccolta verso l'Intcriore, il Nascosto, Colui che permane in tutto il mutare, e così si è spinta avanti fino all'esperienza del Divino. E la ascesi ha tracciato la via all'immersione mistica, in quanto l'uomo si è sciolto dall'attaccamento a quanto è di poco conto, passeggero, e ha orientato interamente le sue energie intime all'Uno-Etemo.

Da questa volontà dell'uomo sono scaturite cose grandi. Essa ha portato l'esistenza alle sue vette supreme. Furono suo frutto gli attingimenti più chiari dell'Eterno e Permanente; il dischiudersi delle profondità più intime, i distacchi più eroici. Ma avverte d'essere in situazione singolare colui che da questi sforzi possenti dell'aspirazione bramosa dell'uomo viene al Vangelo. Per esempio, quando si viene da Fiatone, che con la sua ardita ascesa all'altezza ha conferito a questa volontà un'espressione filosofica tanto potente; o da Buddha, con la sua inaudita energia di autoliberazione; o da Piotino, con la sua abissale immersione nell'Uno - e si entra nel mondo dei Vangeli; allora si può avere la sensazione di capitare esattamente in una strettoia. Là si vedono tutte le forze - e quali forze - orientale all'Infinito, Assoluto, Uno; qui viene presa sul serio l'esistenza del tutto

124

particolare, grande e piccola insieme, con la sua preoccupazione per il bisogno e la pena quotidiana, e si continua ad esortare all'amore verso il prossimo, alla fedeltà alle cose d'ogni giorno, alla fiducia nella Provvidenza. Là ampiezza filosofica, grandezza ascetica d'intenti, profondità mistica; qui l'oppressione del quotidiano e le accidentalità di quanto appunto va accadendo. Qualcuno può avere l'impressione che nello spazio del Nuovo Testamento le cose corrano in modo peculiare terra terra, quotidianamente legate al prossimo fatto. Ci si potrebbe chiedere: perché tutto non viene dominato dall'unica grande esigenza? Perché l'uomo non è incitato a lasciar cadere ciò che non è Dio e a cercare Lui solo direttamente, esclusivamente? Perché non vengono interpellate le energie del pensare, dell'immersione meditativa, della formazione di sé, cosicché scompaia tutto il resto? A quale scopo prendere sul serio la realtà quotidiana? A qual fine vincolarsi al servizio degli uomini e delle cose?

Quando applichiamo l'attenzione all'atteggiamento intimo di Gesù e dei suoi discepoli, quale risulta chiaro nel suo orientamento di fondo e in molti particolari, notiamo che esso non conosce quell'ascesa diretta a Dio, filosofica o ascetica o mistica. Ma non è facile chiarirsi come stiano propriamente le cose in materia.

Se uno chiedesse: perché no? Perché non dovrebbe essermi consentito di farlo? - la risposta verosimilmente sarebbe: perché la cosa non regge. Non esiste questa via diretta da tè a Dio. Ma se tenti di tracciarla, sussiste il pericolo che tu incorra in un inganno.

Dove si cela tale inganno? Nel mondo - e al tem-

125

pò stesso nel pensare, nel sentire, nel vedere e nell'a-gire dell'uomo stesso. Esso sta proprio nel trapasso dal finito all'Infinito, dal condizionato all'Assoluto, da ciò che ha carattere di mondo al Divino. Chi cerca questo trapasso così, tout court, in realtà non giunge a Dio, ma a un «Essere assoluto», rispetto al quale rimane molto indeciso che cosa significhi propriamente. L'Essere assoluto dei filosofi - che cos'è in senso proprio? Dal punto di vista cristiano, e se Dio è il Dio vivo della Rivelazione, allora, per conoscerlo, quel «Dio filosofico» è altrettanto un pericolo quanto un aiuto. La seduzione più profonda a rimanere nel «mondo» - a divinizzarlo - esso, il mondo, cui appartengono anche lo spirito umano, la logica, la cultura, lo spirito collettivo, tutto -, a (enervisi stretti. Il più solido trinceramento di ciò che separa da Dio come nessun'altra cosa, l'orgoglio intellettuale. In questo Assoluto può celarsi l'inganno intero del mondo che afferma se stesso.

E l'inganno del cuore. A quale mèta giunge l'uomo che si abbandona semplicemente all'impulso religioso, dell'intimo, alla catena delle esperienze mistiche, all'autoliberazione ascetica? Qui sta la minaccia dell'inganno insito nella religiosità; l'ambiguità del sacro secondo modalità naturale; tutto ciò che di non limpido e di appiattato nel retroscena si nasconde nell'impulso religioso dell'uomo. Vi è dentro intero l'uomo non purificato; tutta l'autoaffermazione dell'orgoglio, della sensualità e della cupidigia del mondo. In che cosa si imbatte dunque l'uomo su questa strada? Guardiamoci attorno, dunque; scrutiamo il pensare e il sentire religioso dell'uomo del nostro tempo: è ben vero che vi è all'opera quell'impulso.

126

Dove ha portato allora? A dèi, a spiriti, a demoni, a fondamenti primordiali del mistero dell'esistenza, a potenze neutre, all'adorazione dell'istinto, alla rinuncia a se stessi davanti al destino o al nulla.

Non sono, queste, delle esagerazioni. L'uomo intero è nel turbamento confuso del peccato; anche e appunto le sue energie più alte dello spirito, del cuore, della coscienza, dell'impulso religioso. Esse non sono fidate. Dobbiamo prendere sul serio, realmente sul serio, ciò che il Signore dice, sulla sapienza e la potenza e la maturità da maggiorenne, per così dire, di questo mondo. Sono pur quelle forze di cui stiamo parlando - ma egli dice che l'essenziale, Dio e il suo Regno, sono loro nascosti! Egli è rivelato ai «piccoli e infanti» [nepiois, Mt 11, 25], cioè a coloro che sacrificano l'autonomia apparente e ribelle e confessano d'aver bisogno del Mediatore.

Questa è la realtà decisiva: la santa e ineludibile legge della meditazione.

«Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» [Mt 11, 27]. E ancora: «Io sono la via» [Gv 14,6].

L'uomo giunge al Dio vero e vivo non direttamente, ma solo mediante Cristo. Ma il fenomeno cui abbiamo volto la nostra attenzione, rientra in questo contesto. E una parte della legge della mediazione.

Giovanni nella sua prima lettera dice:

«Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (4, 20).

L'uomo non vede Dio - questo non vedere ha una 127

amplissima portata; non significa solo l'insensibilità corporea. Dio è «invisibile» anche per il nostro spirito, per il nostro cuore. Non si può cogliere Dio per via diretta, poiché Egli è nascosto. Dio è come una montagna, la cui vetta è inaccessibile e avvolta e velata da nubi. Si vede la forma della montagna solo quando si scorge la vetta. Dio è come un discorso, i cui pensieri decisivi non sono compresi. Finché chi sa non li dischiude, tutto rimane privo di chiarezza.

Il mondo è colmo di divinità, ma fluttuante, confusa, non interpretabile dal cuore egoista e tale da indurre in perplessità e sconcerto il cuore debole. Essa riceve il suo senso vero solo se la si guarda dal volto di Dio; ma si scopre appena nella Rivelazione. Ciò che è visibile di Dio, si fa chiaro realmente solo quando Egli mostra il suo volto nella Rivelazione.

Ora si potrebbe rispondere: In realtà Egli mostra il volto! La Rivelazione dice in verità chi Egli è! Cristo invero ci racconta di Lui! Ora, perché non si dovrebbe lasciare da parte tutto, uomini e cose, e andare direttamente a Lui? La risposta può essere soltanto:

perché Egli - almeno di regola; anche qui c'è dello straordinario - non vuole. Perché non vuole che sia tralasciato il suo mondo. Non è solo rivelazione della sua gloria, ma anche della sua volontà. Ha posto l'uomo in un ordine delle cose, delle altre persone, dei processi e degli avvenimenti; quest'ordine è la sua volontà, e non si può saltarla.

L'uomo è via a Dio per l'uomo - le persone che gli sono destinate. E come divengono strada per Lui? Quando egli è pronto e disponibile a prenderle come sono: nell'amicizia, nel matrimonio, nel lavoro, nella responsabilità, negli incontri dell'esistenza.

128

Quando il cristiano è pronto a guardare all'uomo com'egli è, non a vederlo come lui stesso vuole o teme, ma come quello è di per sé; quando i suoi occhi con i loro sguardi non prescrivono all'altro come debba essere, ma gli concedono d'essere liberamente colui che egli è; quando il cuore gli dona spazio per determinarsi da sé e lo accoglie com'è, sempre nuovo, giorno per giorno, l'amico, lo sposo, l'allievo, il compagno di lavoro - quando il cristiano agisce così, in quel suo agire avviene qualcosa. La fede mi dice che l'altra persona, così come viene incontro a me, non è un che di indifferente. L'incontro è la provvidenza e contiene la destinazione. Così quella persona mi porta la volontà di Dio. Se dunque io mi presento nei suoi confronti nell'atteggiamento obbediente del vedere, del prendere sul serio, della giustizia e della pazienza, in ciò vengo educato a orientarmi al Dio vivo. L'autoaffermazione nel mio vedere e desiderare viene allentata, rilassata. Dall'intimo si produce maggior libertà, ampiezza, luminosità: Dio vi appare più chiaro. Quanto Dio mi dice di se stesso attraverso la rivelazione del suo volto nel Cristo vivo, nelle parole di Cristo sul Padre, sulla sua onnipotenza e sul suo amore - si fa chiaro solo quando io accolgo l'uomo nell'obbedienza verso questo stesso Padre.

Senza la Rivelazione, Dio rimane sconosciuto; dopo che Egli si è rivelato rimane ancora, per così dire, non dischiuso. Per capirlo si deve percorrere la strada che passa attraverso la volontà concreta di Dio -ciò soltanto apre lo sguardo all'autorivelazione di Dio. Vogliamo dirlo, questa volta, con un'espressione iperbolica: se una persona si immergesse nelle parole della Scrittura e vi applicasse ogni sua energia, ma

129

trascurasse l'uomo, che gli è assegnato dal destino, dal dovere, dalla professione come prossimo, non capirebbe l'autorivelazione di Dio. Deve, in certo senso, lasciare Dio e andare verso il vicino - nell'obbedienza verso questo stesso Dio, se vuoi pervenire a Dio.

Anche le cose per l'uomo sono via a Dio. Infatti è Dio che le ha create. Anch'esse sono sua volontà.

Il campo che da il suo frutto è così com'è. L'uomo non può cambiarlo. Qui gli va incontro la volontà di Dio. Il campo porta frutto solo quando l'uomo lo prende nella sua verità. Ogni lavoro ha la sua verità, secondo l'essenza delle cose che vi si presentano e che Dio ha create. L'uomo non deve accomodarsi le cose con la sua fantasia, ma prenderle come sono. Se agisce così, se serve la verità che si trova in esse e viene da Dio, egli stesso si fa vero e retto. Viene liberato dall'arbitrio della fantasia, del sentimento, della smania di dominio. Diviene reale, e il suo sguardo si apre a Dio.

Chi aggiusta le cose secondo la sua fantasia - il che significa al tempo stesso che vi gira attorno; infatti a chi tenesse fermo di fronte a loro esse farebbero sentire costantemente che una simile manovra non va -, chi fa violenza alla verità delle cose, fa violenza pure a Dio. Pensa anche Dio in termini fantastici, - perché lo scansa. Ma se prende le cose come sono, anche il suo pensare Dio allora consegue realtà. Se accetta le cose come volontà del Dio vivo, lo portano in un atteggiamento in cui comprende la parola con cui Dio parla di se stesso. Esse gli insegnano che cosa significhi esser Dio il Creatore di questa realtà, l'esser Egli il Signore, il Vero e Giusto e Fedele.

130

Anche il destino per l'uomo è via verso Dio. Non si può capire Dio e trascurare ciò che porta il corso degli avvenimenti quotidiani.

Gli stoici hanno detto: renditi insensibile a tutto quel che avviene e raccogliti in tè stesso sull'essenziale. È un atteggiamento fllosofico - ed è errato addirittura filosoficamente, perché non pensa alla convulsione spasmodica che nasce da tale separazione dalle connessioni naturali. Comunque non è cristiano, poiché non posso conoscere rettamente Dio quando prescindo da ciò che la sua volontà mi manda in sorte. Egli mi ha collocato nel contesto dell'accadere e gli eventi che mi capitano vengono da Lui. La parola in cui Dio mi parla di sé, viene aperta all'interpretazione mediante ciò che mi accade e io la capisco nella misura in cui accolgo con obbedienza e fiducia queste vicende.

L'assolutismo religioso ritiene di poter afferrare Dio con forze proprie. Ma la cosa non riesce. Solo quando Dio con libera rivelazione dice chi Egli è, l'uomo lo può esperire. Ma la stessa parola che Dio dice su di sé si può capire solo quando l'uomo accetta l'esistenza com'essa è, nell'obbedienza verso questo medesimo Dio. Il mondo dell'altro e le cose gli schiudono il senso così che egli comprenda la parola di Dio.

Questo è il realismo cristiano.

Dio è l'uno e il tutto, ma il mondo è reale ed è posto entro la sua volontà. Dio non ha messo l'uomo in relazione astratta con sé, ma l'ha collocato in questa realtà, in modo che venga a Lui partendo da essa. Chi è Dio, che cosa è l'uomo e il suo destino

131

eterno, si trova nella parola di Dio. Ma questa parola poi si fa comprensibile solo quando l'uomo accetta la realtà, l'altra persona e l'ordine delle cose, là dove

10 concerne, e l'insieme degli avvenimenti, dove lo toccano.

E non deve essere di necessità così, se è avvenuta, fatto che costituisce la quintessenza e il fondamento del cristianesimo, l'incarnazione di Dio? Questa realtà immensa, immane ha pur un significato solo quando essa è fondamentale in senso assoluto per tutto, per l'esistenza intera. Dio avrebbe pur potuto anche parlare direttamente al singolo. Egli, il Dio creatore di tutto e onnipresente, di fronte al quale tutto è aperto, avrebbe pur potuto venire in contatto di ciascuno spirito umano e attrarlo a sé senza mediazioni. A quale scopo la deviazione attraverso un redentore? A qual fine il messaggio incomprensibile, provocante scandalo, del Figlio di Dio che si lega entro questa esistenza umana, se non vi fosse espressa una legge assolutamente suprema: che cioè la creazione rappresenta una totalità, e che l'uomo non può eludere la realtà e venire a Dio direttamente e privatamente, ma deve percorrere per necessità la via che passa per la realtà della creazione di Dio?

Cristo dice:

«Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» [Gv 14, 6]; «Chi ha visto me ha visto il Padre» [Gv 14, 9].

È questa la legge dell'incarnazione, secondo la quale

11 Dio invisibile e ignoto non ci si manifesta dall'abisso del nostro animo, come esige la mistica assoluta; non attraverso la suprema elevazione del pensiero, come vogliono i filosofi; non nello sforzo dell'aspirazione

132

morale e del distacco dal mondo, come afferma l'ascesi autonoma - ma dal volto dell'uomo e dalla parola di Cristo. Questa legge fondamentale prosegue nell'esistenza - quell'esistenza che non proviene da un'origine qualsiasi, ma dallo stesso Lògos che parla in Cristo che il Padre nella sua provvidenza chiama al suo servizio. La parola rivelante di Cristo si fa chiara solo quando io accetto il prossimo, e la cosa, e il destino. L'esistenza cristiana non è qualcosa di assoluto, in senso filosofico, di distaccato misticamente, di ascetico in termini sistematici, ma di storico. Come tale è fondata dall'incarnazione, e quella strettoia, quel vincolamento alla quotidianità che, provenendo dalla filosofia e dalla mistica assoluta, credevamo di sentire nel Nuovo Testamento, è appunto l'espressione di ciò che importa.

Questo rapporto con la realtà è ciò che emerge nel carattere dell'atteggiamento cristiano, e si chiama: verità, amore e umiltà. Queste tré cose sono strettamente unite. Anzi sono una e la medesima realtà. L'essenza dell'amore cristiano non sta nel sentimento, ma nell'aprirsi dello sguardo, intcriormente;

nel fatto che la volontà dia spazio all'altro d'essere come egli è; che il cuore prenda l'altra persona così come si presenta e viene incontro, ad accoglierla sempre di nuovo da lei stessa - più esattamente, dalla volontà del Padre. Questo è amore e significa che esso è verità: amare vuoi dire aprirsi alla verità dell'altro. Anzi, aiutare l'altro a conseguire tutta la sua verità. Non coartarlo in un'immagine che la nostra propria volontà gli prescrive, ma aiutarlo a farsi integralmente colui che egli è di per se stesso. Proprio in

133

ciò anche chi ama diviene lui stesso vero, poiché l'autentico inganno è la ricerca di sé; e questo farsi veri nell'obbedienza verso la realtà, libera anche lo sguardo perché possa cogliere Dio. E questo è umiltà. Infatti umiltà non significa avvilire se medesimi, ma ri-nunziare a che l'essere debba essere in modo diverso da come esso è in virtù del volere di Dio.

134

CAPITOLO QUARTO

LA FEDE NELLA GRAZIA E LA COSCIENZA DELLA COLPA

La grazia è presupposto, forma intrinseca e forza operante dell'esistenza cristiana. Così l'autocomprensione cristiana dipende dal capire che cosa sia la grazia. Questo mio discorso cerca di avvicinarsi alla sua essenza partendo da un problema particolare, quello della colpa. Esso si chiede: quale significato ha per questo la coscienza della colpa da parte di una persona, se essa crede nella grazia?

Dovremmo anzitutto chiarirci che cosa significa credere nella grazia.

II

Incontriamo l'idea della grazia anche nella coscienza generale.

Così, per esempio, nella vita giuridica. Là, «grazia» significa l'atto mediante il quale il supremo soggetto d'autorità statale condona una pena già irrogata. Questo atto presuppone la convinzione che esistano due modi di poter sistemare, ridurre all'ordine, nell'ambito dello Stato e della sua legge, il fatto del delitto: l'uno, quello normale, con l'emanazione della sentenza e

135

l'esecuzione della pena; ma poi anche uno straordinario, in cui nessuna pena ha luogo e tuttavia si stabilisce «giustizia». Al di sopra della norma legale, che esige la pena, sta dunque un'istanza che, senza attentare alla legge, tratta a fondo il dato oggettivo della colpa, partendo da un punto che sta più in alto della mera legge e ha un particolare carattere di realtà viva.

Un'idea corrispondente si trova nell'ambito del creare culturale. Anche qui essa si rapporta al concetto di un decorso normale e ve ne contrappone uno straordinario. La norma è determinata dall'aspetto della prestazione. E normale quella conoscenza che può essere acquisita mediante un lavoro coscienzioso di ricerca e di pensiero; è tale quell'opera organizzativa o tecnica che scaturisce da uno sforzo corrispondente. L'esistenza umana poggia sulla circostanza che il suo patrimonio medio, quanto a ordinamenti, azioni, opere, possa essere prodotto mediante una prestazione regolare. A questo decorso normale si pone di fronte quello secondo il quale atti o opere di particolare contenuto di valore scaturiscono da uno stato straordinario di commozione, da un raro contatto con le necessità del momento storico, e da un talento fuor del comune. Non si rivelano nell'ordine generale costituito da lavoro e risultato, non si possono esigere ne garantire. Opere di estrema profondità d'immersione, in cui si realizzano comprensivamente valori e che abbiano una forma di pura limpidezza, devono necessariamente riuscire. Esse presuppongono un favore, una felicità del momento, che non si possono cogliere con nessuna norma. Anche in tal caso si parla di grazia, e si intende la modalità in cui sorge quanto è particolarmente ricco di valore: per

136

opera di energie creative straordinarie; in virtù di una particolare combinazione, che rende possibile quanto, di regola, non ha buon esito. Entrambe queste circostanze hanno il carattere della graziosita*;

poiché in generale domina non il talento elevato, ma la media, e in genere l'esistenza sembra essere ostile alla realizzazione delle cose elevate.

La stessa idea torna a ricorrere nel rapporto degli uomini tra loro. Una quantità innumerevole di relazioni umane necessario alla vita e atte a promuoverla ha il carattere della regolarità. Esse si formano da sé secondo necessità della natura e dell'ordine sociale, come nella famiglia, nella convivenza della comunità e dello Stato; o invece possono essere prodotte in cia-scun caso come relazioni d'affari e associazioni di tipo organizzativo. A lato d'esse, v'è però anche l'ambito dell'incontro». Vi domina un fattore a-razionale, che ha effetti favorevoli o fatali: chiamati superficialmente caso, con maggior profondità disposizione divina [Fùgung] ovvero destino. Tra questi incontri, si annoverano quelli in cui una persona si imbatte proprio in quell'uomo, di cui aveva bisogno nell'interiorità più profonda; quegli che porta l'amore che ricolma, o la conoscenza che schiude il senso dell'esistenza, o l'indirizzo d'una strada per la propria opera.

Anche qui si fa strada con forza la sensazione di ciò che ha il carattere di grazia: di un accadimento che ne si verifica regolarmente, ne può essere prodotto con la volontà, ma ha il carattere del favore che,

* Usiamo il termine, nel senso ormai antiquato, di ciò che viene concesso per degnazione, condiscendenza, benevolenza sovrana (in tedesco Huid, affine per significato a Gunst, prima tradotto con 'favore') (n.d.1.).

137

raro, non può essere atteso. Suscita in chi lo esperisce un sentimento di umiltà, che sa di avere ricevuto un dono al di là del diritto e del titolo ad averlo, e una gratitudine, che anzitutto si rivolge alla persona in questione, ma poi, al di là di essa, all'esistenza medesima.

Tale sentimento di ciò che viene per grazia può affiorare anche nell'ambito di relazioni già in atto: per esempio da un'ora ricolmata in modo del tutto limpido; dal sollievo goduto dal cuore, quando una pesante esperienza di vita si dissolve nella comprensione piena e nella schietta accoglienza; da una rinunzia compiuta con sincerità; da un perdono persuasivo;

dalla nobiltà di una persona che si rivela improvvisamente, e via dicendo.

Anzi, vi sono persone la cui stessa esistenza viene avvertita come qualcosa di mirabile. E precisamente questa impressione sembra nascere non di fronte a una grandezza dominatrice o creativa, per esempio dinanzi a un genio. Il peso di una esistenza così sembra non lasciar emergere il sentimento vero e proprio di quanto è dato per grazia: esso ha sempre in sé qualcosa capace di sciogliere e con felicità donare. L'impressione si verifica invece allorquando nella personalità interessata l'esistenza si apre, si fa trasparente, lieve; quando diventa pegno che purezza e nobiltà siano possibili. Vi sono addirittura persone in cui quanto si presenta come grazia assume il carattere di cosa non terrena. Di fronte ad esse nasce il sentimento che vengano da altra parte; ma da questa regione superiore la loro natura arreca con sé il messaggio che l'esistenza nu-tre buone intenzioni verso di noi, e nella forza mite del loro essere diviene più facile crederlo, nonostante l'obiezione che la realtà quotidiana eleva.

138

Il parlare in tal modo di quanto ha carattere di grazia, presuppone una determinata concezione della struttura dell'essere - che peraltro si può avere anche senza possederne un sapere esplicito. Che cosa essa intenda ci si fa chiaro nel miglior modo quando ci chiediamo: in qual mai sorta di esistenza dovrebbe di necessità essere impossibile una cosa del genere? In ogni caso, in un mondo strutturato interamente così come la scienza naturale pensa l'essere. Dove tutto si svolge con costrizione meccanica o necessità biologica, non può affiorare un sentimento motivato di tal genere. Solo che, persino qui, dobbiamo fare una limitazione: finanche la natura fisica o biologica non potrà venir pensata solo in termini di «scienze naturali», se in essa ci si deve potere imbattere in forme che orientano in quella dirczione. O non abbiamo già sentito qualcosa del genere, quando ci siamo trovati improvvisamente di fronte a un albero perfetto -pensiamo all'impressione, che viene resa dalla poesia di Mórike sul bei faggio?* O a un animale di compiuta nobiltà, forse anche, per di più, inoffensivo? Le favole e del pari le leggende, ma a un livello più elevato, non hanno captato tali sensazioni e non le hanno fatte assurgere entro la loro sfera? Pensiamo alla forma dell'unicorno, che in certo modo è una pura creatura di quella sensazione. Quell'idea per necessità dovrebbe essere impossibile anche in un ordinamento sociale o statale, che fosse impostato esclusivamente

* Cfr. il commento che della poesia Die schone Buche di Eduard Mórike fa lo stesso Guardini nel voi. Gegeniuart uni Geheimnis, Eine Avslegung von fiinf Gedichten Eduard Morika, Wurzburg 1957, pp. 15-24 (in corso di pubblicazione presso la Morcelliana).

139

su diritto e legge. O in un mondo di uomini che vivessero solo d'intelletto e volontà, di dovere e ordine, o addirittura per il puro utile.

Quindi, l'esperienza di quanto ha carattere di «grazia» presuppone che nell'esistenza, accanto all'elemento di ciò che è formale e si presta pertanto ad essere penetrato a fondo, di quanto ha natura di legge e normatività, si dia anche il non razionale, il non prevedibile, il creativo, l'origine*, la forma non derivabile; e inoltre che questi aspetti non minaccino l'esistenza, non turbino il mondo, ma al contrario concorrano a edificarlo, anzi, loro soli gli conferiscano il suo senso più autentico.

A sua volta quell'esperienza presuppone che si dia la disposizione mirante all'esistenza personale, ciò che viene incontro, il portare e l'offrirsi; cioè, dunque, come gli elementi appena nominati, ma nell'ambito della storia. Certo il miglior modo di designarli è chiamarli libertà, una libertà di orientamento benevolo. Non però del singolo, come facoltà d'agire in un modo o nell'altro, ma come libertà sovraindividuale, qualità dell'esistenza storica come tale. È il fattore creativo, di incontro, di dono insito nella situazione -un'altra volta non come turbamento dell'esistenza, come arbitrio, caso, ma tale da colmare e offrire garanzia. A monte di esso si risale al divino, in cui sapienza, bontà e potenza sono indicibilmente una cosa sola.

Infine, rientra tra i presupposti di tale esperienza di vita quello per il quale certi valori, anzi una sorta particolare di tutte le cose valide e preziose in gene-

* Ur-Sprunp. nell'originale tedesco con trattino per sottolineare l'etimologia: «salto primordiale», appunto «originario» (n.d.t.).

140

rè, possono farsi reali solo in virtù di un'assenza di proposito, solo se non voluti: ciò che è nobile, elevato e non comune. Quando si coglie in modo puro la sua realizzazione, ciò può avvenire solo nel senso che qui qualcosa «riesca» e «venga donato», come bontà, condiscendenza a favore (Huid) - di nuovo non della singola persona ma dell'esistenza in genere. Al tempo stesso come fortuna. Si realizza qualcosa che sarebbe potuto non essere, allo stesso modo, buono; anzi, molto più non esistere che esistere. Si è costituito, è venuto alla luce nonostante l'esistenza. Come una vittoria, che però sia stata conquistata facilmente - nel qual caso «facilmente» non significa «a buon mercato», ma «senza prestazione», il che, certo, vien concesso «assai difficilmente».

Ci dev'essere dunque qualcosa al di sopra del quotidiano, del normale, e di quanto s'attiene a leggi, al di sopra del volere e dell'offrire prestazioni, qualcosa da cui derivi che tutto ciò avvenga. Nel concetto di quanto ha carattere di 'grazia' sta un moto di trascen-dimento. L'evento di grazia sopravanza tanto i confini del diritto quanto anche quelli dell'essere e del potere quotidiano - appellato e autorizzato da quel 'qualcosa'. Si può anche dire che quel 'qualcosa', quell'entità o potenza superiore, si chini verso il basso, quando le piace; si cali entro l'ambito dell'essere e del diritto normale.

A tal proposito bisogna fare attenzione ancora a qualcosa d'ulteriore. L'esistenza umana è costruita verso l'alto e verso il basso a gradi, attraverso diversi livelli di rango. Lo sviluppo pieno d'un grado, però, dipende dal fatto che il grado di volta in volta supe-

141

riore, che è indipendente rispetto a quelli, sottratto alla loro portata, venga loro incontro d'iniziativa propria. Così, per esempio, la salute fisica non è certo identica al retto comportamento; tuttavia la garanzia ultima della sanità corporea sta nel fatto che il mondo morale, il quale sta al di sopra dell'ambito organico, sia ben ordinato. Ma ciò, se si considera dal punto di vista dell'ambito inferiore, è «grazia».

Ciò significa: il mondo di ciò che si riferisce all'ordine, il mondo della «legge» sussiste in se stesso, con valori e criteri propri. L'elemento con carattere di grazia si colloca al di sopra d'esso, in dirczione altra da esso, non può essere estorto a forza a partire da esso. Tuttavia l'intrinseca sanità e sensatezza del 'normale' dipende dall'ipotesi che si presenti lo 'straordinario'. L'ultima garanzia di quanto si può 'produrre* sta nel verificarsi di ciò che ha carattere di 'fortuna'. Una conferma decisiva, anzi il compimento del 'diritto' deriva dal fatto che «la grazia è emanata di fronte al diritto». Quanto è eroico ha il suo senso non solo per sé, ma anche per la realtà quotidiana; questa intristisce, se l'eroico non rifulge da qualche parte, in qualche momento dell'esistenza. Il genio è ciò che in ultima analisi rende visibile e feconda la media. L'eccezione non solo conferma, ma rende possibile la regola, nel senso oggettivo, come nell'atto vivente'.

1. Qui sta la chiave per la «sociologia dei consigli evangelici» nel loro rapporto con la vita che rientra nella normalità: quindi della verginità, della povertà volontaria e della rinuncia a governarsi da sé; al matrimonio, al giusto possesso e alla conduzione responsabile della propria esistenza. (Cfr. in proposito R. Guardini, /( senso della Chiesa in La realtà della Chiesa, Morcelliana, Bresda 19793, V conferenza, «Comunità», pp. 97-117).

142

Il significato di quanto ha carattere di grazia, qui sviluppato, tuttavia è ancora improprio. O costituisce un fenomeno fluttuante, che ha bisogno ancora dell'ultima determinazione di senso - o si tratta della forma volatilizzata di qualcosa, che un tempo era caratterizzato in modo chiaro; dell'essere scivolato via di qualcosa, che un giorno aveva la sua autentica collocazione. Quindi si tratta della preparazione, nell'ambito del mondo, di un fenomeno cristiano, o anche della sua contraffazione secolarizzata.

Con questo ci troviamo dinanzi al problema dell'essenza autentica, cioè cristiana, della grazia.

Ili

Essa non può essere dedotta da presupposti psicologici o filosofia, ma solo accolta dalla Rivelazione. La grazia è il principio di quell'esistenza che ci viene incontro dalla persona, dal destino, dal messaggio di Gesù.

La parola non designa dunque nessuna categoria religiosa generale, nessun concetto della scienza della religione, ma un «nome»: la determinazione di fondo di quell'esistenza che prende come punto d'avvio Cristo.

La comprensione del rapporto di grazia tuttavia presuppone che sia colto in maniera esatta un altro aspetto: il peccato. Esso a a sua volta può essere visto rottamente solo nel contesto di ciò che significa creazione.

Voglia il lettore non impazientirsi. Non se ne ricava molto, quando si parla di queste cose in termini psicologici o storici. Se mai, in modo serio, cioè con categorie teologiche. Ma se si cerca di affrontare in

143

maniera giusta il problema, si vede presto che, semplicemente così, la faccenda non va. Qui si tratta di problemi d'esistenza, che però risultano intrecciati. Così si può trattare uno degli aspetti della questione solo quando si assumono insieme gli altri.

Vi si aggiunge una difficoltà particolare, che oggi incontra il linguaggio cristiano. Le parole di cui deve necessariamente disporre, in origine avevano un contenuto univoco, cioè appunto cristiano. Esse esprimevano determinati elementi della Rivelazione. Nel corso dell'epoca moderna sono state tratte entro l'elemento mondano, secolarizzate. In tale processo il loro significato non solo si è annacquato, ma falsato. Così oggi non si può usare nessuna parola cristiana in modo puro e semplice, poiché i significati, a cui pensa involontariamente l'ascoltatore, ma ancor più la loro risonanza immediata e la disposizione psicologica che suscitano, non corrispondono più a ciò che importa. Ogni parlare che abbia serietà, quindi, è costretto a distinguere le parole, e in esse a rimettere in valore il senso autentico, talvolta non senza un certo dispendio di violenza. Ciò oggi rende faticoso parlare di cose cristiane al di fuori dello spazio ecclesiale - per quanto ciò, dall'altra parte, sia facilitato dal desiderio vivo dappertutto di non ascoltare annacquamenti e razionalismi, ma ciò che è genuino.

Il compito ha inizio già a proposito del concetto di creazione. Ciò che significa «creazione» nel senso della Rivelazione è sparito dalla coscienza generale. Per la visione delle scienze naturali, «mondo» è uguale a «natura»; quindi ciò che è puramente e semplicemente dato ovvio, necessario, appunto «il naturale». Per

144

la visione della scienza della cultura, il «mondo» è spazio e presupposto dell'esistenza storica, e ancora una volta risultato del creare storico. Certo i concetti della storia e del creare eliminano l'owietà naturale, ma, al suo posto, ne fondano un'altra, quella culturale. «Mondo» qui è ovvio come il punto di partenza puramente necessario dell'esistenza storica e culturale.

Per la Rivelazione, il mondo non è in alcun modo la realtà prima e ovvia, a monte della quale non si possa più risalire; la base di necessità, che è presupposta da tutto l'altro. Non vi sono motivi per cui il mondo debba esistere necessariamente; ne cause efficienti, ne leggi logiche cogenti, ne una qualche altra esigenza assoluta di senso. La fede esprime positivamente questa non-necessità, dicendo che il mondo è stato creato da Dio. Non emanato da Dio, attraverso un effetto necessario della sua essenza, o comunque chiamato all'esistenza monisticamente; ma il concetto del creare si trova sotto la categoria personale: è atto libero. Il mondo esiste perché Dio lo vuole. Ed Egli vuole perché vuole. Che però questo volere non sia arbitrio, ma, in un'assoluta signoria di sé, porti al tempo stesso il carattere di un senso definitivo e infinito, trova espressione nel fatto che Dio ha creato il mondo per amore.

Ma ciò in fondo significa: l'esistenza della creazione è già per se stessa «grazia»2. Non sussiste alcuna necessità preliminare che la creazione esista ed esista così, ma è pura opera della libertà. Non vi sono esigenze di

2. La parola, come mostrano le virgolette, è presa ancora in senso indistinto, come pura antìtesi a ciò che è necessario, anche necessario a partire da Dio.

145

senso che muovano da essa medesima, perché la creazione debba necessariamente venire all'essere, ma essa riceve se medesima, essenza ed essere, come grazia. Tutte le necessità e le owietà corrono solo nell'ambito del mondo; la sua stessa esistenza è dono.

Questa coscienza si fa chiara nel modo in cui il credente si colloca rispetto al mondo. Egli ne lo prende in termini di ciò che è per natura, ne come presupposto d'un processo di cultura, ma come qualcosa per la quale ringrazia. Che esso esista e sia così co-m'è, è un dono. La forma determinante dell'esistenza non è ne la legge naturale, ne il processo culturale, ma la relazione personale. L'ultima realtà dietro tutto non è un Es, un che di neutro, un senso, un'idea, una legge, una massa di materia e di energie operanti o qualsiasi altra cosa del genere - ma Lui. Non «un lui», die sarebbe un demiurgo. «Egli» puramente e semplicemente: Dio e non «l'Assoluto», ma colui che si è mostrato e nominato, quando gli è piaciuto, e ha detto: «Io sono colui che sono» [Es 3, 14]. Ogni relazione con una qualche cosa o avvenimento si proietta in senso definitivo verso una relazione con Dio. Dietro tutte le regolarità secondo leggi sta la libertà dell'appello, cui risponde la libertà dell'ascoltare e del decidere donata da Dio stesso.

Il secolo diciannovesimo ha pensato in termini di natura e ancora in categorie di cultura. Per esso l'esistenza, in ultima analisi, era ovvia - finché la decadenza della fine del secolo non scosse tale sicurezza. Pertanto è molto importante se oggi si fa strada un sentimento del mondo che lo avverte come non ovvio, e con esso una filosofia dello stesso orientamento. Ma se questa assenza di owietà non giunge a rap-

146

portarsi alla fede, deve di necessità assumere il carattere del puro rischio, dell'azzardo, anzi della terribilità e pertanto della paura angosciosa.

Ma torniamo indietro. Già che qualche cosa esista

- esista per opera di Dio, come sua creazione e dono

- è «grazia». Nell'ambito di quest'esistenza complessiva l'uomo, in un senso autentico, era posto sotto la categoria della grazia. La sua esistenza non era impostata su un semplice effetto di ciò che egli era, ma su un incontro personale con Dio. L'uomo doveva esistere orientato a Dio, che gli veniva incontro nella libertà dell'amore. Forma fondamentale della sua esistenza non era l'«in sé», quindi lo scaturire dal proprio centro e il compiersi per forza propria, ma lo ad, l'orientamento, come Agostino ha fatto emergere con una chiarezza valida per tutte le epoche. L'uomo non ha una «natura» data a priori e che si adempia attraverso un semplice dispiegamento o sviluppo. La sua essenza invece consiste nel trascendere il «puramente umano» per entrare nel divino, e soltanto in quella sede deve conseguire l'«umano autentico» che Dio intende. In formulazione portata all'estremo: la «natura» intesa da Dio non è la prima cosa, bensì l'ultima. L'uomo interamente «naturale», l'adempimento puro, pieno e libero, «bello» dell'essenza umana si trova appena alla fine, non all'inizio ed è il frutto dell'abbandono in dedizione a ciò che è al di sopra dell'uomo. (L'uomo «naturale» dell'epoca moderna è un'espressione di profondissima alienazione da Dio e di uno sprofondare dell'immagine dell'uomo entro quanto ha carattere di natura.) La forma fondamentale dell'esistenza umana è il ponte, non il masso o

147

blocco. Ancor meglio il trapasso, l'involo verso l'alto. Appunto questo è ciò che significa, ancora una volta, la grazia; tuttavia in un senso più elevato che nel caso della creazione; il Dio libero viene incontro, perché

10 vuole per amore; l'uomo vive diretto a trapassare in alto verso di Lui, lasciando se stesso e diventando se medesimo proprio così3.

Tuttavia il Paradiso nel senso biblico non significa

11 mito di una beata esistenza infantile, ma questa condizione nella sua originaria purezza e forza, quale era prima della prova e così come, a partire dall'uomo, influiva efficacemente sulla creazione.

Ma il peccato è il delitto contro il mistero della grazia.

Dobbiamo purificare di nuovo i concetti. Peccato significa più che agire non etico, violazione della legge morale e via dicendo. È delitto contro il Vivente. Ma non contro il Vivente che è tale in modo naturalistico, bensì il Vivente santo. Contro Dio, che è la stessa santità e bontà, e contro quell'esistenza della grazia, quel riceversi dalla mano di Dio, di cui si parlava. Così peccato non era semplicemente un errore morale, che certo portava responsabilità morale, ma per il resto avrebbe lasciato l'errante come colui che egli era, bensì costituiva una catastrofe. Peccato era un crimine, che immediatamente distruggeva la forma

3. In questa formulazione c'è un pericolo: di relatìvizzare la grazia alla natura; quindi di affermare che la grazia appartenga all'essenza del creato. Sottolineo espressamente che non si intende questo. Ma, per precisare il rapporto secondo questo aspetto, occorrerebbero ricerche teologiche più profonde di quanto sia possibile in questo saggio. Vedi in proposito R. Guardini, Christliche Bewusstsein, Versiiche ilber Pascal, Mùnchen 19502, pp. 99 ss. (tr. it Pascal, Morcelliana, Brescia 19924, pp. 90 ss.).

148

esistenziale dell'uomo. Era il rifiuto dell'«orientamen-to intenzionale verso» (Auf-hin als Gesinnung) e del-l'obbedienza; con dò era il rifiuto della grazia come esistenza. Era la volontà dell'uomo di vivere senza di essa, con le risorse proprie e per sé - ma appunto in tal modo era il crollo dell'uomo in basso, al di sotto di se stesso.

Nella coscienza etica moderna non ha più posto la consapevolezza di che cosa sia propriamente il peccato. La coscienza tragica degli antichi l'ha sentito ancora, così come la coscienza mitica della saga - solo che in verità era scivolato nella dimensione dell'incerto e del cosmico. All'essenza del peccato appartiene il carattere della tragicità assoluta, e precisamente trascendente.

Tragicità significa che l'azione scaturisce dalla libertà, ma che i suoi effetti si sottraggono alla libertà;

le vanno incontro come un dato di fatto di cui assumere responsabilità, e che tuttavia non dipende da essa. Nemmeno ciò è soltanto il lato storico del fenomeno. Prima d'esso, al di sotto di esso, sta qualcosa che è più intrinseco all'essenza. La libera decisione produce una situazione di senso dell'essere personale intimo, un vuoto di valore e un'opposizione a esso, vale a dire appunto una colpa, su cui la libertà non ha più alcun potere, poiché colui che ha attuata la decisione, proprio perché l'ha compiuta, è divenuto diverso da come era prima. Appartiene alla colpa religioso-tragica la conseguenza che l'azione la quale produce la colpa, in quanto si verifica, si stacca dal piano su cui è avvenuta - cosicché il disvalore che ne deriva è sottratto alla libertà propria. Un'ingiustizia puramente etica può essere superata senz'altro. Quando chi

149

agisce si accorge della sua ingiustizia, la condanna e si preoccupa di divenire migliore, la questione è sistemata, nella misura stessa in cui la visione giudicante è genuina e la volontà pura. È una cosa molto netta e sana, ma nel fenomeno essa è radicalmente diversa dalla colpa religiosa. Totalmente priva di tragicità, come poi, in fondo, ogni eticismo pensa in termini razionalistici e ottimistici.

Nel tragico, inoltre, la colpa ha un carattere non individualistico. L'azione semplicemente etica sgorga dalla responsabilità individuale e rimane entro la sua portata. Appartiene alla sfera dell'orientamento intenzionale del singolo che la commette. È colpevole chi commette la colpa; la responsabilità è portata da colui che ha adottato la decisione. Questa rappresentazione costituisce una secolarizzazione dell'idea cristiana della libertà. La coscienza cristiana di responsabilità non è etica, ma religioso-etica. Deriva dalla fede. Ma in quell'ambito non esiste più il singolo isolato; il singolo invece si pone nella solidarietà con tutti i singoli per il fatto che tutti sono mèmbri della totalità umana. Totalità però, a sua volta, non nel senso moderno biologico e sociologico, bensì nel senso della Rivelazione: nel singolo, Dio chiama l'insieme degli uomini; ed Egli intende l'insieme degli uomini come tale da culminare di volta in volta nel singolo. Ciò valse in modo particolare per il primo singolo, col quale l'insieme degli uomini in genere fu chiamato rappresentativamente alla decisione. Così la prima colpa, sebbene colpa del primo singolo, lo fu di tutti. Anche questo non è favola o saga, ma un fenomeno di suprema serietà, al quale certo il pensiero individualistico non ha alcuna possibilità di giungere.

150

La risposta alla colpa fu assoluta e tragica - decadenza dell'umanità, rovina del mondo. In termini di valore: colpa inespiabile; in termini d'essere: la morte.

Questo stato di cose, sebbene sia catastrofe assoluta, contiene un'elevata ricchezza di senso. È la conseguenza della colpa vista nella luce autentica. Per quanto terribile sia, l'uomo religioso lo comprende e lo riconosce contro se stesso. L'idea diventa assurda e irreale soltanto non appena si muta il sentimento dell'esistenza. Appena l'uomo esce dal mondo della fede e comincia a pensare in termini «profani». Quando poi egli prende il mondo in prospettiva di «scienza naturale» o in «chiave culturale», cioè come dato ovvio e autonomo, quell'idea si trasforma in una assurdità o in poesia. Per l'uomo credente il mondo non «doveva» esistere per necessità; esso esiste perché la volontà libera di Dio volle che esistesse. Pertanto il mondo non sta in una sicurezza naturalistica o in un'assolutezza culturale, ma, nel senso vero e proprio della parole, «in gioco». Il mondo è vulnerabile da parte della libertà. Ve la catastrofe cosmica che sorge nella libertà religiosa. Ve la possibilità che il mondo perda il suo senso perché l'uomo lo perde al gioco. Quando ciò si verifica, è cosa terribile, ma rientra nell'ordine. E appunto la precisa conseguenza del fatto che lo «schema» dell'esistenza umana è la grazia.

Di qui si fa chiaro che cosa significhi redenzione. Essa non indica un passo più innanzi sulla strada dell'umanità verso la saggezza; non l'apparire di una grande personalità, che abbia approfondito la coscienza religiosa; non lo spuntare di nuove possibilità religioso-etiche, l'esperienza vissuta dell'apertura d'u-

151

na breccia nell'intimo e via dicendo. Redenzione invece significa un nuovo impegno da parte della libertà d'amore di Dio. Egli trae il mondo decaduto entro un nuovo inizio. Entra nella storia una personalità che è essa stessa completamente storica, cioè erede degli avvenimenti antecedenti, ma comincia in modo pienamente nuovo, poiché la sua libertà deriva immediatamente da Dio. È il Figlio di Dio fatto uomo -che proprio in tal modo rivela l'essenza dell'esistere personale di Dio, l'Unità e Trinità. A lui viene consegnato di nuovo il mondo per la decisione.

Redenzione significa dunque che viene posto un inizio assolutamente nuovo nella storia, che deriva da sopra di essa, «dall'alto»; e che il mondo, l'uomo e la colpa dell'uomo divengono contenuto di questo inizio, cioè della decisione divino-umana assolutamente libera. Il Redentore assume la storia dell'umanità entro la sua libertà, e decide per Dio. Assume l'esistenza umana entro il suo amore. Anche la colpa; essa sarà nell'amore. Poiché Egli si trova nell'inizio assoluto, nella grazia sostanziale, là si pone - e più in alto, assolutamente più in alto di là dove si trovava un tempo l'uomo, quando si rese colpevole. Così Egli è in grado - e più che soltanto in grado -, di superare la tragicità della prima colpa, in quanto, Lui stesso incolpevole, si fece garante per il colpevole. Ciò Egli può fare nell'amore. Infatti «amore» è, al di sopra di ogni paragone, più di quel sentimento per il quale impiega il termine l'epoca moderna. Amore nel senso del Nuovo Testamento è una santa unità dell'essere e della validità, venendo dalla libera creatività di Dio. L'amore sta esso stesso sotto la categoria della grazia. Anzi l'amore fonda la grazia. La grazia è ciò

152

che diviene possibile nell'amato, quando chi ama è Dio. In questo amore creativo si fa proprio della creatura quanto appartiene al Dio che ama. Il Redentore assume come propria la colpa e da al redento come propria l'espiazione.

Con ciò la modalità d'essere della grazia viene messa di nuovo in risalto.

Fede significa accogliere questa decisione redenti-va di Cristo, del secondo Uomo dell'inizio. Significa riconoscere nella fede lo stato di perdizione della propria esistenza e ricevere il principio della nuova vita del Redentore.

Quindi ricevere un'esistenza che si innalza al di sopra delle possibilità proprie tanto, quanto la colpa era sottratta, sollevata al di sopra della libertà propria. Ricevere una nuova esistenza dotata di senso non dalla natura e da quanto è ovvio, non da diritto e capacità propria, ma da dono. Non sviluppata dall'essere proprio, ma tale da venirci incontro da parte di Dio.

Una reale esistenza religiosa nuova! Perdono del peccato, eliminazione della colpa, giustificazione mediante la nuova giustizia - tutti questi concetti devono essere presi in tutta la loro vigorosità. Non idealmente, non in senso etico, non in quello psicologico, ma con tutto il realismo dell'idea originaria cristiana. Non costituiscono insegnamento, stimolo, educazione gli schemi sui quali si può edificare l'idea di redenzione, ma creazione, fondazione dell'esistenza, nascita, inizio di vita.

Certo rammentiamo la scena di Matteo, cap. 9, dove il paralitico viene portato da Gesù, e questi lo riceve con le parole:

153

«Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati» (v. 2).

Gli ascoltatori cominciano a mormorare; ciò secondo loro è bestemmia, solo Dio può perdonare. Allora Gesù replica:

«Che cosa è dunque più facile, dire: Ti sono rimessi i peccati, o dire; Alzati e cammina?» (v. 5).

A me pare che la risposta debba essere: senza alcun paragone è più difficile dire: «Ti sono perdonati i tuoi peccati» che «Alzati e cammina». Infatti dire la seconda frase, efficacemente, quindi non per retorica o con intenti terapeutici, è un miracolo ed è riservato alla potenza creativa di Dio. Al contrario, dire: «Ti sono perdonati i tuoi peccati» - ancora una volta in modo efficace, non solo come consolazione; non solo come assicurazione che Dio non si adira più, ma come eliminazione reale della colpa; come fondazione nella giustizia reale - ciò è altrettanto un atto creativo, ma di grado superiore. Esso significa che il nucleo di senso dell'uomo, cioè la sua libertà, la sua responsabilità, la sua qualità di valore davanti a Dio, viene fatto materia prima per una seconda creazione intellettuale-spirituale (geistig-geistlich) e viene elevato a una nuova esistenza di valore. Appunto questo è il significato della fede cristiana.

Ma ciò è grazia in senso assoluto. Accoglimento di qualcosa che in ogni modo travalica i limiti del proprio volere ed essere. Partecipazione al nuovo inizio, che è posto in Cristo - nella fede alla sua parola.

Grazia è la forma dell'esistenza umana intesa da Dio, che è esistenza nella fede. Lo era nell'uomo originario, venne distrutta dal peccato. La ridiviene mediante la redenzione.

154

Qui grazia significa che l'uomo viene «sovredifica-to» in Cristo verso Dio. Che egli riceve il nuovo inizio e, movendo da esso, entra nel cimento col «mondo», che sta ancora nella vecchiezza - e con questo però si intendono non solo «le cose» o «gli altri», ma anche lui stesso. In questo suo essere ordinato verso Dio, in questo accogliere il dono assoluto, l'uomo in genere diviene se stesso. Ma è Dio colui che può e vuole tutto ciò. E solo il concetto della grazia a costituire l'immagine dell'uomo. Esso rivela che cosa sia propriamente l'uomo secondo l'intenzione di Dio. Costituisce però anche l'immagine di Dio; diversa da quella dei «filosofi». Rivela chi sia propriamente Dio.

IV

E ora dovremmo volgerci al problema postoci all'inizio: quale significato abbia per la coscienza di colpa e peccato da parte di un uomo il suo eventuale credere alla grazia.

Per strutturare più chiaramente la risposta, prendiamo in aiuto l'idea dei gradi d'esistenza, e chiediamoci: come si presenterebbe il superamento della colpa al di fuori della fede nella grazia?

L'uomo ha commesso ingiustizia*. Lo sente, non si spinge però fino alla coscienza propriamente etica. Essa consiste nel sapere che v'è un inesorabile aut-aut tra bene e male nella convinzione che assolutamente

* Unrechi: nel senso generico d'un atto non giusto; potrebbe esser reso anche con «iniquità», che però in italiano ha una accezione in genere più astratta, e, quand'è usato per concrete azioni, indica quelle di gravita particolare commesse contro qualche persona o collettività (n.d.t.}.

155

il male non dovrebbe esistere; dell'impossibilità di re-lativizzare l'ingiustizia come tale mediante dipendenze psicologiche, funzioni o scopi di vita. Sul piano dell'esistenza di cui si parla qui, cioè quello immediato, di carattere naturale, psicologico, estetico, questo lineamento dell'ingiustizia non si presenta ancora affatto nella coscienza. Se si annuncia, viene rimosso. L'ingiustizia viene presa come un elemento dell'esistenza, come l'ombra necessaria accanto alla luce; come oscuro fondo radicale da cui si elevi la vita vigorosa e via dicendo. Un'ingiustizia avvertita così viene rielaborata in quanto, in qualche forma, esperita, e viene vissuta in profondità come orientata al potenziamento della vita. È giustificato quanto produce una scossa gagliarda, un differenziamento della sensibilità, una nuova ricchezza d'esperienza, una tensione creativa per conseguire nuovi valori. Il pensare e il sentire etico del romanticismo, di Nietzsche e, al suo seguito, di una gran parte dell'epoca attuale vanno in questa dirczione. Ma con questo non è ancora toccato affatto l'ambito etico genuino.

L'uomo vi giunge solo quando egli non si prende come essere naturale, come elemento funzionale in contesti, come bella forma la quale si sviluppa esteticamente, ma come persona che fa saltare ogni relativizza-zione del genere con l'assolutezza della sua obbigazione al valore e della sua coscienza morale. Quando egli coglie così l'elemento categorico dell'obbligazio-ne morale, a distinzione del carattere condizionato di tutte le altre esigenze; quando sperimenta che un'ingiustizia non può mai essere giustificata con un effetto, una reale responsabilità mai può essere tolta con il ricorso a un ambiente; quando egli si pone in tal

156

modo sul piano etico - allora come riuscirà a liberarsi dell'ingiustizia? Col riconoscere il dato di fatto che questa azione non sarebbe dovuta essere e che sua è la responsabilità. Col porsi di fronte alla propria ingiustizia, col condannarsi nella sua colpa, col volgere l'orientamento intenzionale al bene; col decidersi a un nuovo sforzo - e per il resto con l'assumere su di sé le conseguenze dell'atto. In che cosa consiste però il superamento? Appunto nella circostanza che la sua conoscenza scende realmente fino al fondo, che egli condanna in realtà il male compiuto e si converte risolutamente al bene. Questo comportamento viene sentito come una conclusione dalla volontà di vita che si spinge in avanti, e l'energia orale si fa libera per affrontare i compiti venturi. La giustificazione del proseguire però sembra stare nel fatto che la singola azione si trova nel contesto della totalità della vita, il soggetto che la compie è al tempo stesso il soggetto del corso della vita nel suo insieme, e l'ultima decisione sul carattere etico della vita di cui si tratta consegue dalla totalità d'essa: dal come essa avanza e realizza la sua figura etica complessiva.

Comunque, rimane certo sempre un residuo. La decisione etica è tale che, sulla sua base soltanto, non si può riuscire a salire al di sopra d'essa. L'assoluto che v'è in essa ne fa, appunto come atto concreto, qualche cosa d'assoluto. Così, in ultima istanza, l'ingiustizia commessa, tuttavia permane. Ciò poi trova espressione anche in certi stati psicologici, quando la persona non riesce a svincolarsi dall'ingiustizia, si irretisce, la continua ripetutamente a sperimentare rivivendola - il che può approfondirsi fino a giungere alla malinconia.

157

Come avviene che l'ingiustizia venga dominata e superata nell'ambito della fede nella grazia?

Ciò che si è affermato sull'assolutezza del dover essere, sul carattere incondizionato della responsabilità e via dicendo, rimane fermo; viene però inserito in un contesto di nuovo tipo. Sotto l'ingiustizia etica come violazione della legge morale, perpetrata dall'individuo, giace una realtà più profonda, che affiora nella misura in cui si realizza la situazione di fede.

Un esempio tratto dalla psicologia più recente forse avvicina meglio quanto intendiamo: la teoria della psicanalisi sull'essenza della consapevolezza di colpa. Essa distingue uno strato superiore che deriva dalla singola cattiva azione; al di sotto d'esso uno più profondo, che si radica nei primordi dell'esistenza individuale. Questa più profonda coscienza di colpa verrebbe dall'esperienza infantile di un primitivo legame affettivo istintuale col padre ovvero con la madre, come anche dal conflitto di sentimenti, che nascerebbe nei confronti dell'altra parte parentale. Quel legame sarebbe caratterizzato proprio da questo conflitto, sentito come tale da non dover esistere, pertanto sarebbe rimosso con l'inizio della sociabilità. Al tempo stesso, si svilupperebbe la coscienza etica nel senso vero e proprio, come giudizio su ciò che è giusto o invece ingiusto, avuto riguardo alla totalità sociale. Questo giudizio di coscienza apparirebbe nel singolo caso sorgere direttamente dal contenuto di senso della stessa azione di volta in volta in questione, per esempio dalla sensibilità per la nobiltà e il carattere costruttivo della fedeltà, e relativamente per la malvagità in sé e la natura distruttiva del tradimento. In verità, però, sotto questo strato superiore del giudizio

158

morale starebbe anche quella prima esperienza vissuta caratterizzata come colpa, cosicché in ogni giudizio morale singolo emergerebbe insieme inconsciamente quel primo giudizio di fondo. Di là proverrebbe la dimensione di profondità dell'esperienza della colpa;

l'aspetto pervasivo, che convocherebbe la totalità dell'esistenza a soffrire insieme l'elemento per cui ne va della vita, inquietante e allarmante. Su questa tesi naturalmente ci sarebbe molto da dire; che essa stravolge lo stato di cose oggettivo della moralità facendone uno soggettivo, cioè trasforma la «colpa» in «esperienza vissuta di colpa»; che non si può ricondurre il comandamento etico a presupposti sociologici, poiché in tal modo va perduto proprio il suo carattere decisivo, l'incondizionatezza, e via dicendo. Tuttavia essa contiene qualcosa di molto significativo: elimina il carattere individualistico dell'azione etica e la riallaccia a nessi profondi, che erano sfuggiti all'etica moderna. Si riconosce che il fenomeno della colpa non è confinato all'atto cosciente della decisione, ma si spinge al di là d'essa, in moto di ascesa e di discesa. È molto sintomatico che si sia inteso di poter dare una spiegazione dell'idea del peccato originale in questa teoria! Questa opinione è, anzitutto, il malinteso, divenuto stereotipo, di aver spiegato il senso essenziale d'un processo dell'esistenza quando si siano messi in chiaro alcuni meccanismi psicologici che vi giocano. Ciò che significa propriamente la credenza per fede nel peccato originale si trova in sede del tutto diversa. Tuttavia la teoria contiene l'indicazione di qualcosa che l'etica dell'epoca moderna aveva perduto: dell'elemento cioè sovrarazionale, sovraetico e so-vraindividuale della colpa, e con ciò anche un aiuto,

159

degno di gratitudine, per la preparazione psicologica della dottrina rivelata sul peccato originale.

Nella misura in cui viene realizzata la fede nella grazia, penetra nell'ambito individuale la coscienza di quella colpa, che precede ciascun singolo comportamento colpevole, perché essa abbraccia l'esistenza umana in genere. Non consiste nel fatto che l'uomo abbia commesso questo o quel peccato, ma nella circostanza che egli è peccatore, perché, nella decisione originaria, ha distrutto la forma d'esistenza del primo stato di grazia. La sensibilità individualistica obietta:

Eppure questo non l'ho fatto! Allora, anzi, non vivevo ancora! La coscienza cristiana replica: Proprio questa obiezione e la forma di coscienza che ne sta alla base derivano dallo stato di chi è decaduto. Essa stessa è già frutto della colpa, giacché significa che la persona singola vuole tenersi fuori dalla totalità, vuole avere una esistenza particolare. La persona isolata incolpevole però non esiste, v'è invece una colpa della comunità, prima dell'esistenza individuale di questo o quel singolo, nella quale ogni singolo entra nascendo4.

Quel peccato originale, che pone nella colpevolezza l'intera esistenza, si sottrae a ogni sforzo personale. La sua remissione, la fondazione a nuovo dell'uomo nella forma d'esistenza della grazia, possono

4. Bisognerebbe aggiungere subito che la sensibilità collettivistica o totalizzante immediata è altrettanto non cristiana, perché non attribuisce quanto le spetta alla dignità della persona. Per altro l'obiezione del cristianesimo contro tutte le teorie naturalistiche dell'uomo e della sua responsabilità non deriva dal fatto che in esse questo o quell'aspetto parziale sia sminuito, ma che esse prendono sempre l'uomo per sé solo, invece di intenderlo a partire dalla Rivelazione, dal giudizio del Dio della santità, della grazia e de! giudizio.

160

essere essi stessi solo grazia. Questo era invero il contenuto dell'esperienza paolina. L'etica farisaica della legge - a differenza dell'etica abramitica della fede e dall'etica pneumatica dei profeti - era, nonostante i suoi presupposti di fede, individualismo morale. Poggiava sull'ipotesi che la situazione umana possa essere dominata e salvata con le energie proprie, mediante l'adempimento della legge. Paolo ha vissuto l'impossibilità di questa ipotesi ed esperito che il reinserimento nella forma della grazia può avvenire solo a partire da un nuovo inizio che è sottratto all'uomo. Solo Dio può farlo; lo ha fatto in Cristo. Così il perdono della prima colpa, la costituzione della giustizia fondamentale si possono sperare solo mediante il vincolo di fede con Cristo.

Quanto però all'azione colpevole individuale, essa in certo modo torna a dispiegare la colpa originaria. Essa, allo stesso modo, non è solo azione non etica, ma peccato. Non viola solo il comandamento morale, ma attacca la forma di grazia dell'esistenza, strappa da Dio. Che non porti con sé le conseguenze della prima colpa, dipende dai presupposti diversi dei due tipi di colpa. Ma qui non ci si può addentrare più profondamente nel tema.

L'interrogativo che si pone a questa ricerca è: che cosa significa la fede nella grazia per la coscienza della colpa? La risposta per noi nasce dalle considerazioni svolte finora. Il fenomeno morale persiste nel suo rigore. Viene però assunto in un contesto più profondo. Vi riceve un nuovo peso, e tuttavia al tempo stesso viene risolto in maniera particolare. Diventa più umano, si vorrebbe dire, in quanto viene rapportato a Dio.

161

Il carattere assoluto dell'obbligazione morale permane. La persona sa di essere incondizionatamente sottoposta a obbligo da parte del dover-essere etico, che in verità in ultima analisi è esigenza della stessa santità divina. Come nessuno le può togliere questa obbligazione, nessuno le può sottrarre nemmeno la responsabilità del suo fallimento, del suo venir meno. La colpa individuale però viene, per così dire, afferrata dal basso dalla colpa del complesso dell'umanità; il singolo concorre a portare la colpa di tutti. In tal modo è dissello l'individualismo etico. Non v'è un trarsi fuori aristocraticamente dalla colpa dei molti. Non i singoli «distinti» e non la sordida massa. La colpa di tutti penetra in quella individuale e da parte di essa ne deve essere sostenuta in concomitanza la responsabilità. Proprio perciò, tuttavia, la colpa individuale viene sostenuta da quella del complesso dell'umanità. Ciò, eticamente, non equivale a un affrancamento;

tuttavia è un alleviamento* nel cuore e nell'esperienza immediata. Se non esiste l'aristocratismo etico, nemmeno esiste la solitudine della responsabilità con la sua freddezza inumana.

Alla base dell'individualismo etico sta realmente un'inumanità. Nel corso del suo sviluppo, l'epoca moderna ha perpetrato una sostituzione che affascina tremendamente la sensibilità di fede. Essa ha enucleato il concetto del «soggetto», nel campo logico come in quello etico - ma, guidata dalla sua volontà d'autonomia, gli ha sostituito insensibilmente il concetto di

* Nell'originale, assonanza tra Ablosung, «affrancamento» («distacco», «esoneramento») e Losung, «alleviamento» («scioglimento», «soluzione» ecc.)(n.<U).

162

soggetto assoluto. «Soggetto» si è mutato gradualmente in «soggetto assoluto». Ma, portato onestamente all'ultima istanza, ciò significa: l'uomo ha preteso di esistere in un modo in cui esiste solo Dio, e si è arrogato così ciò che solo Dio è in grado di compiere. L'esclusività aristocratica dell'individualismo etico, così come la sua fredda solitudine, non sono più umane, ma un'usurpazione del divino. Proprio perciò tuttavia diventano inumane5. La fede nella grazia istituisce l'umanità della colpa, in quanto il singolo entra nella comunanza della responsabilità. Ma proprio per questo gli altri intervengono accanto a lui. Ciò non equivale a una funzionalizzazione dell'elemento etico. Al contrario: la impedisce, se non è un caso che accanto all'individualismo etico dell'epoca moderna sia subentrata la relativizzazione sociologica, nella quale la responsabilità del singolo è andata totalmente perduta. Di fatto i due fenomeni sono strettamente uniti. Essi costituiscono due facce dello stesso complesso di realtà [Sachverhalt). La coscienza della grazia al contrario raccoglie insieme in una totalità vitale dialettica i due momenti, che in quella concezione si staccano l'uno dall'altro. Certo essa rinuncia alla soluzione razionale. L'unità sta nell'esistenza credente, ed essa travalica qualsiasi formula.

Così pure, permane il carattere del valere, proprio dell'elemento etico. Ciò che distingue l'atto etico dal-

5. In un senso molto profondo, certo proprio questa trasgressione puramente umana (Menschiiche) è l'umano. È qualcosa di diverso dall'umanistico {Humane). Questo esercita la «misura» e vi si mantiene. La sua rapina a Dio non sta nel titanismo della trasgressione, ma nella pretesa occulta della forma apparentemente modesta: la ribellione della «classicità», l'orgoglio della «cultura» (Bildung). Per contro, la trasgressione aperta ha quasi il privilegio di una maggior sincerità.

163

l'azione utilitaristica: l'intrinseca altezza del bene come dell'obbligazione, altezza che si sostiene da sola, e la validità, in sé poggiante, dell'orientamento o «sentimento», che non possono subire attentato da situazioni, finalità, conseguenze empiriche, rimangono. Soltanto la fede nella grazia vede che non esiste un ambito del valere segregato, accanto a quello dell'essere. L'essere è determinato a partire dal valore; così esso viene messo in questione pure a partire dal valore. Il mondo risponde all'agire umano. L'agire morale decide sull'essere. Dal peccato è venuto il turbamento dell'essere, la morte - parimenti il turbamento dell'essere si ripercuote nell'ambito dell'orientamento intenzionale, attraverso tutto ciò che si chiama tentazione, accecamento, indebolimento.

Anche qui la fede nella grazia è in opposizione all'atteggiamento del diciannovesimo secolo - dell'idealismo in genere, che separa reciprocamente l'ambito dell'essere e del valere, e, per mantenerle la purezza del valere, abbandona la realtà in balìa del puro potere. La conseguenza è una peculiare irresponsabilità. Idea e orientamento intenzionale si dichiarano incompetenti di fronte alla situazione dell'essere; il potere stabilisce di non avere nulla a che fare con verità e diritto, e di essere autonomo nella realtà. Questa scissione, attraverso la quale l'uomo elude la sua concreta responsabilità, è cristianamente impossibile e viene eliminata proprio dalla dottrina del rapporto tra grazia e colpa. Ciò che è, deve essere assunto in responsabilità, poiché deriva da una decisione. D'altra parte ogni decisione è ripresa entro il contesto di ciò che è accaduto prima. Ciò non toglie l'onere, ma allevia.

164

Inoltre, e ora veniamo a ciò che più difficilmente si può esprimere: l'atteggiamento specificamente etico consiste nella solitudine per la purezza del «carattere categorico» del dover-esser, della persona, della responsabilità morale e via dicendo. Di conseguenza, il bene e il suo appello non possono essere toccati da qualcosa che venga dall'esterno. La persona nel suo dover-essere è sottratta a tutto l'altro da sé. Il fatto di aver agito bene o male, quindi l'attribuzione morale, si trova al di fuori di tutte le connessioni. Nello spazio, se così si può dire, del valere, dover-essere, essere responsabili moralmente, non riesce a entrare nessun potere concreto ... La cura di preservare questo carattere ha ragione d'esistere. Dal fatto che non sia intaccata dipende la purezza del fattore morale. Tuttavia la fede nella grazia dice: questa sensazione, ciononostante, ha un confine. Se ci esprimiamo più rigorosamente, non un confine, il che significherebbe solo delimitazione, qualcosa di più alto al di sopra di sé. Esiste «un luogo», se così mi è consentito dire, dove la forza d'obbligazione dell'elemento morale è una cosa sola con una potenza concreta. Quindi, non solo la potenza sta accanto all'esigenza, ma la validità normativa è identica alla potenza e precisamente in un'energia di realtà che è all'altezza dell'energia di «valenza» della norma, cioè alla potenza assoluta. Qui l'esigenza cessa di essere «norma» pura, astratta. Essa stessa è concreta. Qui ciò che esige non è una mera norma, bensì una realtà; che però, essendo identica alla norma, è legittimata a esigere. Questa potenza è essa medesima in tutto «etica». In nessun punto c'è mera potenza. Dappertutto, al tempo stesso, essa ha il carattere di ciò che vale. In nessun punto è soltanto

165

nell'oscurità dell'essere; dappertutto sta nella luminosità del valore. Non appena questa potenza vuole, il suo volere è identico al valere e legittimato a partire da esso. Ma ciò significa: l'ultima istanza, alla quale si riferisce la nostra esistenza morale, non è una legge, ma Qualcuno. È il Dio vivente. E precisamente questa non è semplicemente un'unità dialettica - poniamo, l'esser reale del valere o l'esser valida della realtà - ma sta in una qualità propria: nella santità. Non il Dio morale, ma il Dio Santo è la Realtà suprema, ultima.

Se però le cose stanno così, allora - comunque solo da là - potenza reale penetra in verità entro quell'ambito categoriale di cui si parlava. Allora si da un atto vivo, che influenza intimamente la qualità etica, in cui mi trovo in virtù della mia responsabilità. E l'atto del Dio Santo. Quest'atto ha un nome: l'amore. Il volere amoroso di Dio può afferrarmi nella mia responsabilità in modo tale che io ricevo un nuovo carattere etico, senza divenire per ciò eteronomo, senza venire sminuito nella mia dignità - come subito si preoccuperebbe l'atteggiamento puramente etico. Proprio questa è l'ultima essenza della grazia: l'atto d'amore di Dio può fondare, nella positività etica autentica, il colpevole in una nuova giustizia, senza attentare alla sua dignità etica. In una giustizia che viene da Dio e tuttavia appartiene all'uomo.

Qui si cela un antinomia; anzi la vera e propria antinomia della grazia. Non si può più risolverla, ma soltanto credere nella Parola di Dio, nell'essere e nel comportamento vivi di Cristo. Tuttavia si può riconoscere che quell'inadeguatezza dell'elemento categoriale etico, sottolineata con tanta insistenza, in ultima analisi è inumana. Si può giungere a cogliere questa

166

verità sperimentando vitalmente il perdono da parte di una persona. Quando ho fatto un'ingiustizia contro un altro, ed egli mi perdona - che cosa accade allora propriamente? Dal punto di vista del carattere meramente categoriale dell'atto, assolutamente nulla. Tuttavia è accaduto qualcosa. Quando io prendo la colpa in concreto, allora il perdono significa qualcosa che giunge fin entro il suo carattere categoriale. Io lo so, e precisamente nello spazio più intimo della mia responsabilità.

V

Sul problema ci sarebbe ancora molto da dire. Così si dovrebbe spiegare come l'accoglienza del perdono nella fede agisce sulla coscienziosità; se essa stimoli od ostacoli l'energia del tendere e aspirare ... Come si collochi la fede nel nuovo inizio, nell'uomo nuovo, rispetto alla situazione effettiva e quali conseguenze possa avere: per esempio quella di un abbellimento artificioso dell'esistenza, che tragga origine da quella fede, o invece di una permanente confutazione della fede, contraddetta dalla situazione effettiva ... Quale struttura dell'agire concreto ne sorga: una lotta dei due «inizi», un perenne appellare dell'uno all'altro, e per il resto la convinzione che la realizzazione ultima si può solo sperare, e altre cose del genere. Ciò che ci interessava qui era chiarire come il comportamento etico, mediante la fede alla grazia, riceva una nuova profondità d'immersione, «pescaggio», e al tempo stesso un alleviamento. Il comportamento umano riceve una «divinità» - non carpita surrettiziamente, o

167

pretesa, ma donata. Ma appunto solo in questo modo l'uomo in genere diviene veracemente umano. Tutte quelle inumanità, che si insediano necessariamente, come il crampo di un organo sottoposto a uno sforzo eccessivo, non appena l'uomo trascende se stesso, si risolvono. Forse è questa una espressione molto profonda di ciò che Cristo chiama «pace», «che egli solo può dare» [cfr. Gv 14, 17]. L'uomo per comprenderlo deve certo necessariamente aver sperimentato la miseria della coscienza morale abbandonata a se stessa.

168

CAPITOLO QUINTO

«RIVELAZIONE» COME FORMA DEL VIVERE

La prima proposizione di ogni dottrina sulla Rivelazione è questa: ciò che essa è, lo può dire solo essa medesima. Essa non rappresenta un gradino nella successione delle aperture naturali del senso dell'esistenza, ma viene puramente dall'iniziativa divina. Essa non è neppure un'autocomunicazione necessaria dell'Essere supremo, bensì un'azione del Dio personale libero. Quindi un avvenimento per comprendere il quale il pensiero deve andare alla scuola della Scrittura, e deve affrontare più volentieri il rischio di intendere Dio «umanamente» che filosofìcamente. «Dio rivela» significa soprattutto «Dio agisce». Questo agire incontra l'esistenza come essa è in sé; la pone sotto giudizio, col suo male e il suo bene; esige che si converta; quando obbedisce, tuttavia, la solleva anche in un nuovo inizio - anzi, il suo obbedire è già l'inizio; poiché è lo stèsso Dio, che la chiama, a donarle di poter obbedire. Così appartiene all'essenza della Rivelazione il non poter essere derivata dal mondo, ma dover necessariamente esser accolta da essa medesima.

Il Dio che parla in essa, tuttavia, è l'identico Dio che ha creato anche il mondo. Ciò cui si rivolge è la

169

sua creazione. Così si solleva l'interrogativo se in essa vi siano abbozzi anticipatori della Rivelazione, se possa essere d'aiuto, per intenderla, comprendere tali abbozzi. Non per dedurne la sua essenza, ma per preparare l'occhio e per educare il pensiero affinchè colgano meglio la realtà autentica.

Tali avvenimenti e rapporti, che rimandano all'evento vero e proprio del rivelare, esistono di fatto; tra loro sembra che due siano di particolare importanza.

II

Una cosa morta - per esempio un cristallo, o una macchina - si presenta già completa. Si può sottopor-la a ricerca e a calcolo. Si da un progresso nel vedere e nel conoscere solo nel senso che, per esempio, sue parti non sono state ancora notate o non ancora comprese nel loro rapporto con altre parti o con la totalità; o anche la relazione della cosa col contesto della natura in genere non era ancora stato visto in maniera esatta.

Del tutto diversa è la condizione del vivente. La sostanza constatabile del seme non mostra quale pianta vi si celi, ma chi considera deve attendere fino a che la sua forma si enuclei dall'intimo vivo. Il vivente non è bell'e fatto a priori, ma si realizza nella modalità del crescere e del trasformarsi. Ciò che dapprima era ancora soltanto in germe* passa ad essere realtà osservabile. E precisamente ciò si svolge in modo continua-

* Propriamente «impostazione, impianto, avvio, disposizione» {Ansati, n.d.1.}.

170

to, fino all'ultimo istante della vita - giacché pure l'appassire e il deperire è ancora «vita». Solo nella serie completa delle «apparizioni» si fa visibile l'intero essere. Il passare dallo stadio di nascondimento del germe alla condizione aperta della realizzazione è il modo in cui sussiste la vita; si può chiamare questo modo, in un senso allusivo, «rivelazione».

Il processo si fa più vario di forme e più ricco di senso nel caso dell'animale. Qui si aggiungono alla crescita le percezioni e il movimento spontaneo. L'animale si trova in relazione di scambio con l'ambiente; ne viene determinato e lo determina a sua volta. Anche nella molteplicità di queste relazioni con l'ambiente l'essere passa dalla disposizione alla realtà. Inoltre si svolge continuativamente il processo dell'esprimere. L'animale sente benessere e dolore e viene mosso da istinto. Questi sono in sé «intcriori», nascosti, ma si manifestano in cambiamenti dell'aspetto esteriore e dell'atteggiamento, in movimenti e attività.

La vita si svolge nella tensione tra possibilità ed essere. L'essere dapprima solo impostato, avviato, si realizza nell'avanzare della crescita e si attua nella tensione tra interno ed esterno: l'intemo nascosto si esprime nella forma e nel movimento percettibili. A differenza del non vivente, che non ha un interno, ma semplicemente è «là», si possono chiamare, quelle del vivente, modalità di essere dell'autorivelazione.

La forma del sussistere fonda anche il tipo di conoscibilità. Il non vivente può essere colto senz'altro. Se lo sguardo è sufficientemente acuto, lo vede nella sua totalità. L'essere del vivente invece deve essere accolto dalle aperture con cui esso stesso si rivela. Anche nel caso della pianta e dell'animale v'è molto che

171

può essere semplicemente constatato: tutto l'elemento «meccanico». Ma ciò che ne esorbita - e cioè tutto quello che propriamente gli è essenziale - dev'essere accolto. Chi è avido di conoscenza deve attendere finché passi dalla «disposizione» alla realtà, dall'intimità all'espressione.

Quest'ultima circostanza significa ancora qualcosa d'altro: che la compaginazione del senso* non può essere semplicemente constatata, ma deve venire scrutata e capita. Chi osserva deve mettersi in una posizione di rispetto, di simpatia e di pazienza di fronte all'apertura o svelamento di sé che il vivente compie. In questo atteggiamento si delinea una pre-somiglian-za con quell'atto, cui è ordinata la vera e propria Rivelazione, cioè la fede.

Con nuovi tratti ritorna questo rapporto nell'ambito dell'uomo. Qui non sono solo la forma dell'essere, la sensazione e l'istinto a dover essere colti solo quando si realizzano nella crescita e si rivelano nell'espressione, ma l'anima spirituale e la persona che ha responsabilità di se stessa. Anche nell'uomo v'è parecchio che può venire semplicemente constatato, come avviene per la cosa senza vita; dell'altro viene desunto dalla forma e dal gesto, come nel caso della pianta e dell'animale; ma ciò che gli è peculiare e più • proprio pone nuove condizioni: deve essere lui stesso a comunicarlo. Quello che l'uomo reca nella coscienza e come sia intenzionalmente orientale, risulta chiaro solo quando lo dice e lo fa. Alla rivelazione attra-

* Si è creduto di tradurre cosi in questo punto il vocabolo composto, di difficile resa, Sinnverhalt (n.d.t.).

172

verso l'espressione si aggiunge quella attraverso la parola e l'atto. Essa emerge non dal rapporto tra intemo vivo ed estemo, ma da quello tra coscienza spirituale da un lato, parlare e agire dall'altro. Ciò che la determina è l'impulso spirituale verso la verità, la volontà personale di comunicazione e dono di sé - d'altro lato il senso, altrettanto spirituale, per la misura e l'interiorità e il sentimento, altrettanto personale, del riserbo distanziante e dell'autoconservazione. Questa rivelazione, poiché è più elevata in valore, è meno ovvia nel suo attuarsi e pretende di più da chi la riceve. Fino a un certo punto egli può esaminarla, constatare, dedurre - in ultima e decisiva istanza egli deve credere che tale rivelazione in genere possa verifìcarsi, e che questi che rivela ora la voglia realmente; egli deve accoglierla con reverenza e prestarle fiducia.

L'esistenza umana nel suo complesso non è strutturata in modo che in essa siano rapportate tra loro entità già complete nell'essere e riconoscibili senz'al-tro nel senso. Gli uomini invece sono coinvolti nel divenire; sono quindi entità che permanentemente determinano se stesse. Tutto ciò avviene a partire dall'interiorità creativa dello spirito e della libera disposizione della persona su di sé, cosicché sorge una modalità del tutto diversa del trovarsi l'un l'altro e dell'influire mutuamente: quella dell'incontro, dell'autocomunicazione, dell'annodarsi di vincoli di comunanza, del destino.

L'interno esce continuamente verso l'alto mediante parola e azione, dalla riservatezza dell'anima, dall'ambito di senso dello spirito, dalla libertà della persona. Una sfera d'esistenza si apre continuamente

173

all'altro, nella fiducia che quello entri in rapporto di comprensione, accetti la rivelazione e il dono di sé. Così l'esistenza umana si svolge attraverso «rivelazione» e «fede» - presi i termini in un senso preparatorio e del tutto interno al mondo, che però accenna a possibilità dapprima ancora sconosciute.

Con ciò è detto che l'esistenza umana non procede in modo semplice e facile, ma nella tensione e nel pericolo. La rivelazione di sé fa conto che l'altro entrerà nell'accordo della volontà di comprensione; tuttavia questo accordo è tanto più difficile da instaurare, quanto più importante è ciò di cui si tratta. Tale rivelazione di sé può anche giungere a un orecchio irresoluto; o non amichevole; o tale da non volere la verità. A chi ascolta con fiducia, a sua volta, può accadere che quanto egli accoglie come autentica apertura sia inganno o deformazione. Così l'esistenza umana, che riposa sulla rivelazione, è un compito che si deve continuamente rischiare e superare.

Ili

Fin qui si doveva parlare del primo abbozzo preliminare della rivelazione. L'altro sta nel modo in cui il senso di una cosa o d'un avvenimento si dischiude allo spirito.

Quando io, per esempio, ho davanti a me una macchina, in un primo momento vedo in essa un intrico confuso di partì dalle molteplici forme e di funzioni che si svolgono in maniere diverse. Io indago, confronto, collego finché da ultimo l'intero nella sua struttura e nella sua finalità si apre alla mia compren-

174

sione. Del pari, dapprima in una qualche forma di collaborazione umana - una fabbrica, una struttura di governo, un istituto di ricerca - io colgo una confusione irrelata di elementi particolari: edifici, macchine, apparati, persone, piani, ordinamenti di lavoro e via dicendo. Solo nel corso di uno sforzo di capire, perseguito per tempo sufficientemente lungo e con cura adeguata, la compagine della totalità e il nesso della sua prestazione si fanno chiari. - Non altrimenti avviene per un accadimento storico. Io vado saggiando i fili delle azioni; seguo le situazioni e i loro cambiamenti; mi spingo dai fenomeni alle loro cause, finché vedo come da quell'evento ha preso forma un brano d'esistenza umana. E così sempre oltre, sia che si dischiuda ora un'opera d'arte, nel suo carattere cosmico, sia che in un conflitto morale appaia luminosamente ciò che si deve fare, o che il rapporto con una persona giunga a chiarezza. Sempre v'è dapprima una pluralità - nella quale certo, per qualche tratto, già si vede la connessione, o la si presagisce come totalità. Cose e relazioni si incrociano tra loro. Lo spirito va saggiando, ha il sentimento di qualcosa di più vero e autentico, che però è celato, e si adopera per coglierlo; tenta uno schema dopo l'altro, finché quella realtà emerge. In quanto è accidentale e manchevole balena il necessario e il valido, in quanto è passeggero il permanente.

E un processo che contiene la grandezza e la miseria della nostra esistenza. I pensatori si sono continuamente arrestati su di esso, l'hanno interpretato con le più diverse immagini. E particolarmente bella la soluzione che tenta Agostino e con la quale fa proseguire l'eredità di un grande passato. Egli dice: lo

175

spirito umano viene in contatto con l'oggetto e si fa attento. Si adopera attorno a esso, lotta con esso, lo confronta con gli altri, cerca di penetrarlo. Tutto ciò che si deve cogliere in maniera immediata è problematico, frammentario e transeunte; tuttavia, in rapporto ad esso si manifesta qualcosa che è valido, perfetto ed etemo. Così la lotta procede finché è maturo il momento e dal dominio delle forme di significato imperiture lampeggia una luce che illumina lo spirito. Allora appare risplendendo l'essenziale dell'oggetto; il vero, il bene, il bello che sono in esso'.

Lo spirito l'ha presentito, ma non l'ha potuto cogliere con le proprie forze. Perché ciò avvenisse il significato doveva illuminarvisi dentro a partire dall'eterno. Anzi, già nel primo contatto l'eterno era operante e attraeva lo spirito al lavoro apparentemente vano dedicato alla conoscenza, finché fece breccia nel momento fecondo, e la cosa fu svelata nella sua luce. Si può chiamare «rivelazione» anche ciò: la cosa racchiusa entro la sua determinazione temporale e spaziale viene posta nel suo archetipo eterno come nel suo spazio di significato e vi diviene comprensibile - così come, d'altra parte, la pura for-

1. Vedi in proposito anche il bei passo della Settima lettera di Fiatone:

«Questo tuttavia io posso dire di tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui io mi occupo per averlo sentito esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscon nulla, a mio giudizio, di queste cose. Su di esse non c'è, ne vi sarà alcun mio scritto. Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s'accende da fuoco che balza: nasce d'improvviso nell'anima dopo un lungo periodo di discussioni sull'argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima» (tr. it. di A. Maddalena, in Fiatone, Opere, voi. li. Bari 1967, p. 1076; Guardini riporta la tr. ted. di Apeit, in Piato, Briefe, Leipzig 1918, pp. 71 s.).

176

ma di significato che è insediata nell'eterno si fa contemplabile nella cosa terrena ... In corrispondenza si deve pensare per la grande opera, per l'atto che ha successo, per l'azione che fonda e instaura; deve sempre venire «dall'eterna luce» un raggio, una forza, ciò che apra e renda facile, una norma e un'energia atte al compimento, affinchè la realtà più autentica possa farsi evento. Nessun avvenimento spirituale genuino si svolge solo tra me e l'oggetto, ma deve sopravvenirvi dentro dalla quiete e dall'altezza dell'eterno il «terzo». Affinchè ciò avvenga, però, sono poste di nuovo condizioni; e tanto più gravose, quanto più grande è la realtà di cui si tratta. Da una misteriosa libertà, che si dischiude per iniziativa propria, appare luminoso al di qua il significato, ne si può estorcerlo a forza, cosicché il suo venire ha il carattere della grazia sovrana - anche in ciò presignificando la Rivelazione, che invero è grazia. Nondimeno può venire solo quando lo spirito è in movimento e aspira ad esso amorosamente. Quanto più profondo e appassionato è questo movimento d'amore, tanto più aperta è la via per il raggio eterno.

Così, tutto quanto è spirituale si attua nella modalità di ciò che risplende trapassando al di qua e viene donato, vale a dire però della «rivelazione». Da questa circostanza, deriva che è grande e al tempo stesso minacciato da pericolo, prezioso e soggetto ad angustia e difficoltà.

Quel che s'è detto non spiega nulla affatto dell'essere di quella Rivelazione di cui propriamente si tratta: nella quale il Dio vivo viene all'uomo, svela il suo volto e manifesta il suo volere. Che cosa essa signifi-

177

chi, deve di necessità dirlo essa stessa. Non solo quanto essa da, dev'essere creduto, ma anche ciò che essa stessa è - anzi addirittura che essa in assoluto vi sia, poiché essa è inizio e non ha nulla cui possa appellarsi. Con essa tutto comincia; l'intera esistenza di fede. Tuttavia riflessioni come le precedenti hanno un senso: quello di abituare al modo in cui procedono le cose della vita e dello spirito; diversamente da quelle senza vita, un modo cioè che richiede più sforzo, che è più esposto ai pericoli, più nobile. Aiutano a riconoscere l'ottusità e grossolanità in cui scivoliamo continuamente, e preparano alla modalità in cui si attuano le cose di Dio.

178

CAPITOLO SESTO

LA RIVELAZIONE E LA FINITEZZA Un interrogativo e il tentativo di una risposta

Ora riprendiamo le nostre meditazioni domenicali sull'immagine di Dio nella Sacra Scrittura. Così credo che oggi, tra i due periodi del semestre, sia giusto dare spazio a un interrogativo, che si è levato forse, più o meno chiaramente, con maggiore o minore urgenza, in parecchi uditori'.

Quando parlai dell'annuncio di sé che Dio espresse nell'Antico e nel Nuovo Testamento, che stabilì come vero e, come, ciò facendo. Egli abbia rimandato anche ad altre concezioni, respingendole o attaccandole, potrebbe certo essersi sollevato l'interrogativo:

quell'uomo si esprime come se fosse vero solo ciò che egli dice - ma è proprio così? Egli parla come se esistesse solo la Bibbia - ma non vi sono anche altri libri sacri? Non esistono pure altre concezioni, provenienti da altre epoche e presso altri popoli? Il buddhi-smo è pur anche una grande religione, colma dei pensieri più profondi e audaci; i greci hanno detto cose meravigliose sul mondo e sull'esistenza dell'uo-

1. La meditazione fu tenuta all'inizio del semestre in occasione della celebrazione liturgica universitaria a S. Luigi, Monaco.

179

mo; negli antichi testi cinesi si leggono cose che provengono dalla più sicura conoscenza della realtà e dalla più matura esperienza, e così via, attraverso popoli ed epoche - perché allora, dunque, proprio ciò che dice la Bibbia nell'Antico e Nuovo Testamento dovrebbe essere vero, e solo ciò vero?

Chiediamoci ancor più nettamente, proprio in linea di principio: in cose divine può valere in genere un annuncio determinato? È pur vero che Dio è l'Infinito, Colui che trascende tutti i criteri di misura - è possibile fissarlo a una determinata dottrina e regola di vita? Non è questa ristrettezza e autoritarietà? Non è forzatura in un punto, dove dovrebbe dominare la più rigorosa modestia nelle affermazioni personali e la maggiore riverenza davanti all'esperienza dell'altro?

Dio è pur Colui con il quale hanno rapporto tutti i popoli e al quale tutte le epoche sono contemporanee. Così ogni popolo deve necessariamente poterlo esprimere come lo sente, e aver ragione di comportarsi così. Ogni epoca deve di necessità erigere la sua immagine del divino, e, quando la intende in modo onesto, poter dire che è vera. Ciascun uomo è vicino a Dio, ma ognuno è diverso. Pertanto ciascuno deve poter dire: così io lo sperimento vitalmente, così lo sento, e così Egli è reale per me. Qui non si può dare una verità determinata nel senso delle cose terrene, dove qualcosa è come lo constatano esperienza e scienza e non altrimenti; ma la verità religiosa si da innumerevoli volte ed essa consiste di caso in caso nel modo in cui uno, in atteggiamento di onestà, sente ed esprime ciò che è suo.

180

Quand'anche non si dovesse avanzare oltre, e dire:

chi ha capito di che cosa si tratta, pone al centro del suo pensiero religioso l'incomprensibilità di Dio. Rinuncia a ogni enunciazione determinata, poiché essa equivale sempre a presunzione, e rimane in atto di silente riverenza davanti all'Ineffabile.

È un problema difficile, e appare oggi particolar-mente urgente, poiché l'uomo è così interamente caduto al di fuori dell'ordine della tradizione. Egli, nonostante tutta la scienza e l'esattezza tecnica, è insicuro fino ad avere paura. Nonostante tutto lo scambio e tutte le organizzazioni, a causa della solitudine non sa trovare la strada.

Attraverso la guerra è giunto presso popoli stranieri e ha visto che sono diversi e pensano diversamente: allora, chi ha ragione? La scienza gli ha mostrato quanto variamente e profondamente si sono mutate le concezioni nel corso del tempo: allora non è tutto coinvolto nel fluire? Continuamente si cerca di persuaderlo, in giornali, radio, riunioni, ora in un senso, ora in un altro e sempre con la pretesa più elevata: a chi dovrebbe ancora credere? Ciò lo rende diffidente contro tutte le affermazioni - o invece accetta qualsivoglia d'esse, che appunto gli faccia impressione, e vi si attiene disperatamente, col sentimento in sottofondo: solo, non lasciare la presa, altrimenti precipiti nel vuoto!

Così comprendiamo che l'interrogativo di cui si parlava è particolarmente pressante e vogliamo cercare di affrontarlo.

Ora, ciò non può avvenire nel senso che noi ponderiamo tutti i motivi che portano a vedere come il

181

messaggio della Sacra Scrittura sia vero, e unico vero. A farlo, sarebbero necessarie innumerevoli conferenze. C'è però ancora un'altra maniera di giungere al risultato. La prima si preoccupa di dire tutto, o almeno ciò che è più importante, per poi poter dedurne:

Quindi le cose stanno così! - l'altra, per contro, cerca l'elemento decisivo. Non sviluppa l'intera questione, ma indugia su un determinato punto: un punto tale però da determinare l'intero.

Tentiamo di rispondere per questa strada.

II

Vogliamo partire dal problema del modo in cui si svolge la nostra vita.

Si attua in maniera che noi esperiamo la totalità, o qualcosa di determinato in essa? Abbiamo tutto, o dobbiamo necessariamente scegliere?

Ve l'aspirazione bramosa a entrare nel tutto. Ciascuno di noi l'ha già sentita. Per esempio di notte, quando das ùbermass der Sterne (la massa sterminata delle stelle) gli parlò dell'illimitatezza del cosmo; o sul mare, quando la sua ampiezza lo richiamò al largo; o sulla vetta d'un monte, quando egli sentì che cos'è lo spazio. Così uno ha aspirato a uscire da sé, si è sentito al di fuori di sé, forse una volta in un momento eletto ha avvertito che cos'è «Tutto» - ma poi è dovuto di necessità tornare al proprio posto, su questa terra, su questo paese, nel luogo dove vivere. E se non era un terribile romantico, ha avuto poi la consapevolezza: va bene così. Io sto qui e in nessun altro posto.

182

Ve anche la bramosa aspirazione a immergersi nelle profondità a perdita d'occhio della storia. Anch'essa attrae a uscire da sé, calandosi nel passato:

nella ricchezza della classicità; nella battaglia spirituale dell'epoca moderna agli inizi; nella magnificenza del medioevo; nello splendore dell'antichità; nella grandezza dell'Egitto - e così sempre più a monte, fino alla magia dei tempi primordiali. La strada si stende parimenti anche in avanti. Chi non ha mai pensato: Ah, se potessi vedere che cosa nascerà da tutto ciò che oggi è all'opera! Potessi sperimentare che ne sarà dell'umanità, del mondo! Ma poi egli ha dovuto ritornare al presente, all'anno 1950, al giorno attuale, all'ora in cui v'era da fare questo e quello. E anche a quel punto ha sentito: Va bene così. Io vivo ora e in nessun altro momento. La serietà dell'esistere consiste nel fatto che io riconosco questo dato di fatto.

È importante comprenderlo. L'uomo ha il suo posto nello spazio e nel tempo. In tal modo è chiaramente «là» nel contesto dell'esistenza umana. Questa posizione gli da sicurezza; al tempo stesso però anche lo stringe, e sorge l'aspirazione all'infinitezza. In ciò si esprime una reale infinitezza dell'essere, che non può essere legato entro alcun «luogo» - ma sarebbe «romanticismo» cercare l'adempimento diretto di tale aspirazione. Noi siamo esseri storici. Come tali, non siamo riferiti all'incommensurabilità dello spazio cosmico, ma ad un determinato punto entro di esso. Non all'estensione a perdita d'occhio dei tempi, ma ad un determinato momento nel loro corso. Dal mio riconoscerlo e dal mio inserirmici dipende la limpidezza dell'esistenza, la chiarezza della responsabilità e l'onestà dell'agire.

183

Ciascuno di noi ha certo sentito anche un altro desiderio: Ah, se potessi diventare diverso da quel che sono! Ancor più: Potessi diventare un altro da colui che sono! Perché devo necessariamente essere questa persona? Con queste qualità, queste debolezze, questi compiti e doveri, questi fatti spiacevoli, sempre uguali, in rapporto ai quali nasce il tedio, queste angustie e sofferenze e mancanze d'una via d'uscita? Perché devo rimanere incarcerato in me stesso? Non ci dovrebbe essere un rinvigorimento che ricrei fin nell'intimo, un rinnovamento di tutto ciò che è «vecchio» e logoro, se io potessi diventare assolutamente un altro? Pure, le cose stanno così: semplicemente non si può più reggere a se stessi! Se non sopravviene l'incantesimo delle favole, per il quale un uomo è trasformato per esempio in un uccello; poi uno lo riscatta e ridiventa uomo, quando è passato attraverso il mistero del divenire mutandosi, non deve aver vissuto una prodigiosa liberazione? La liberazione dalla tormentosa monotonia dell'essere identico a sé? O che cosa sta dietro il godimento legato al gioco teatrale, se non il piacere di svolgere un ruolo, di poter scivolare entro un altro essere umano? Che cosa significa il piacere della maschera, se non la parvenza di poter sfuggire a se stessi?

Tuttavia la nostra coscienza morale sa che ogni etica comincia e finisce con l'atteggiamento del dire sì a ciò che si è; con l'accettare se stessi e persistere in se medesimi.

Interrogandoci ancora una volta: l'uomo è soddisfatto, realmente soddisfatto di ciò che deve fare? Del suo lavoro, della sua professione? Chi non ha il senti-

184

mento ch'egli sceglierebbe volentieri di fare qualco-s'altro e non ritiene che allora diverrebbe felice? Chi non vorrebbe aggiungere alle sue ancora altre attività, per crescere maggiormente in senso universale? Chi non vorrebbe poter collocarsi, col suo agire, nell'intero della vicenda mondiale? Ciascuno non ha una qualche attività da dilettante, qualche hobby, in cui coltiva altro da quelle che sono le sue prestazioni obbligatorie, foss'anche la raccolta di francobolli e la cura dei fiori? Già questo trapassare in un altro ambito significa un presagio dell'intero, della totalità.

Tuttavia sappiamo che cosa esce dalla vita dell'uomo che non fa nulla di determinato. Vediamo appunto, forse sperimentiamo in noi stessi come sia pericoloso occuparsi di tutto il possibile, e di nulla in modo esatto; sapere di tutto il possibile, e non essere su terreno proprio in nessun luogo.

L'uomo deve dunque scegliere. Nel caso favorevole, esistono determinate predisposizioni, che indicano la dirczione. Spesso le circostanze esercitano la loro coazione. Oppure ci si risolve per dò che appare più ragionevole. Però l'uomo deve sempre decidersi e nel suo attuare con nitidezza la sua decisione e nel rimanere fermo in essa consiste ciò che si dice «carattere».

Non avviene proprio lo stesso nelle relazioni con altre persone? Si possono amare tutte? Si può agire così, come intende il ben compreso amore del prossimo. Ma questo non deborda in un oceano senza rive. Non dice: Voglio amare ciascuno - ma voglio essere buono verso colui che di volta in volta mi viene accostato dalla situazione; e con ciò ritorna ancora la par-ticolarizzazione: questa persona, e non un'altra.

185

Si vorrebbe certo imparare a conoscere gente interessante. Ma se non ci si limita, ci si dissipa l'energia del comprendere, della simpatia e, soprattutto, del giudizio. Si possono certo avere molti amici; ma poi la parola perde il suo senso. Si può mantenere una reale fedeltà d'amicizia solo a pochi.

Per quanto grande possa essere la forza del cuore di un uomo o di una donna, essi devono pur dire una volta, e, più che dire, fare: Questo, o questa, e nessun'altro. Poi senz'altro vengono i momenti in cui avvertono i limiti di quella persona e vorrebbero andare a un'altra. Ma se conoscono più profondamente la vita, sanno che in ultima analisi tutto dipende dal loro serbare fedeltà.

Ci sarebbe da dire ancora parecchio del genere, ma abbiamo ben compreso che cosa s'intende. L'uomo non può avere tutto, ma deve scegliere solo quello che è determinato. Non può vivere nello sconfinato, ma deve prendere una dirczione. La base dell'esistenza non è l'infinità dello spazio, ma il «qui». Non l'illimitatezza del cosmo, ma l'«adesso». Non l'estensione a perdita d'occhio delle possibilità umane, ma quelle che sono date nel proprio io. Non la molteplicità delle persone che riempiono la terra, ma quelle che la disposizione della vita destina a ciascuno. E contenuto dell'agire non è l'immisurabile, che si possa fare oggetto di prestazione, ma ciò che professione e situazione esigono dal singolo.

Ne dipende tutto ciò che si chiama onestà, decenza, responsabilità. Ma se la persona soddisfa l'esigenza, se si limita e si determina, si compie una conversione: la singola azione compiuta giustamente apre lo

186

sguardo per entrare nell'intero. A chi da quanto gli spetta a ciò che è suo dovere - realmente quel che gli spetta - con l'attenzione dello spirito e la dedizione del cuore - verrà donato proprio in ciò l'intero.

Ili

Se qui sta la legge fondamentale dell'amare retta-mente, dovrebbe poi essere altrimenti nell'ambito religioso?

Il rapporto con Colui che pur è realtà più autentica, definitiva, la suprema che dia pienezza al significato, cioè con Dio, dovrebbe avere quel carattere che in tutte le cose umane avrebbe effetto di confusione e di distruzione? La relazione con Dio dovrebbe portare all'indeterminato, e dissolvere ciò che invece forma la quintessenza della limpidezza, della chiarezza, della possibilità di responsabilità, cioè la verità? In rapporto a Dio dovrebbe esistere «verità» al plurale?

Al contrario, la legge della decisione non deve necessariamente trovare la sua ultima e definitiva conferma di fronte a Dio?

Vogliamo ascoltare le parole in cui si è espressa classicamente la veduta secondo la quale l'elemento religioso non è chiaramente determinabile, ma invece è diverso da uomo a uomo, da paese a paese, da epoca a epoca. Si trovano nel Faust di Goethe. Margherita ha interrogato l'uomo che la vuole conquistare: «Come stai con la religione?» Faust scantona; ma essa sente che si tratta della cosa importante, la più importante, onore e fedeltà - e non desiste: «Credi tu

187

in Dio?». L'inquieto risponde con sublimità filosofico-poetiche e infine dice:

Nenn es dann mie du wilist:

Nenn 's Glùck! Hen! Liebe!

Goti!

Ich habe keinen Namen

Dafùr! Gefùhl ist alles;

Nome ist Schall und Ranch Umnebeind Hinmeisglut

«Chiamalo come vuoi. Chiamalo Gioia, Chiamalo Cuore, Amore, Chiamalo pure Dio. Per un tal senso io non conosco nome. Il sentimento è tutto.

Il nome è un suono solamente: un fumo, Che avvolge in nebbie il folgorio del sole»*.

Nelle parole non si fa luce tutta l'impossibilità di questa concezione? E non solo questo. Le parole stanno in una determinata situazione. Faust le dice alla fanciulla che vuole sedurre. A tal fine deve allettare quella creatura innocente fuori dagli ordinamenti della sua esistenza, rendere insicura la sua coscienza morale, e non può farlo meglio che confondendo la risolutezza della sua fede religiosa ...

Nel caso di noi uomini, sembra che realmente le cose stiano così: noi, quando si tratta di Dio, ci dispensiamo dai criteri, di fronte ai quali nelle altre circostanze rispondiamo del nostro essere e agire.

IV Ora, però, qualcuno potrebbe dire: certo, ogni uo-

* W. Goethe, Faust, Parte i. Atto il. Scena /( giardino di Maria, (tr. it di V. Errante, inJ.W. Goethe, Opere, a cura di L. Mazzucchetti, voi. IV, Firenze 1963, p. 160).

188

mo deve decidersi, anche nella sfera religiosa. Dio è l'Infinito, e l'infinito non può essere afferrato dall'uomo, perciò egli deve avvicinarsi a Dio in un modo determinato. I criteri per questa determinazione stanno nella sua esistenza propria: nel tempo in cui vive; nel paese la cui civiltà e cultura lo circondano; nella predisposizione, che orienta il suo bisogno religioso in una dirczione o in un'altra.

Dio non è determinabile, quindi è l'uomo che deve necessariamente determinarlo; ma l'uomo lo fa partendo da ciò che egli stesso è, e ciascun uomo è diverso. Ciò significa: nell'ambito religioso non v'è una verità valida, ma solo una individuale. In termini più precisi: nella sfera religiosa non v'è alcuna verità, ma solo una veracità.

È esatto questo? Sarebbe ancora giusto se la determinazione stesse solo nell'uomo, sebben pure ciò sia ancora da vedere. Ma la determinazione sta anche, anzi in prima linea ed essenzialmente, in Dio stesso.

La Rivelazione biblica, che solo gradualmente si riconosce quanto sia grande, o meglio, quanto inaudita, dice che Dio medesimo si è deciso.

Dio è eterno. Egli è contemporaneo a ogni tempo. Non si è però manifestato a ogni epoca, e a ciascuna secondo la modalità d'essa, ma in determinate ore e in una maniera determinata; in modalità decisiva però quando s'è fatto uomo. Dio è infinito. La sua presenza ricolma la terra. Ma la sua autoattestazione non è avvenuta in quanto Egli abbia parlato in ogni paese, bensì soltanto in uno determinato - quello che ha prescelto, la Palestina.

Dio travalica tutte le forme e misure, quindi è vici-

189

no a ogni essere. Ma non si è manifestato in quanto sia apparso a ciascun essere, bensì ha chiamato determinate persone e attraverso di esse ha rivolto la parola a tutti, attraverso i profeti e gli apostoli.

Fede e vita religiosa poggiano sull'iniziativa di Dio, sulla rivelazione e redenzione. Tuttavia questa iniziativa non ha una forma generale, che si sia rivolta al mondo universalmente e abbia ricevuto la sua strutturazione dalla situazione storica di volta in volta esistente, nuova da ciascuna di esse, ma è invece essa stessa storica, o, per dire più esattamente, tale da creare storia sacra. Dio si accosta al mondo per sua decisione.

Si è deciso in dirczione di questa nostra Terra, al paese ch'è la Palestina, alla cittadina di Nazareth. Si è deciso in dirczione degli anni del tempo della Terra che, nei tempi dell'universo, non sono che un battito di palpebra, e, nell'ambito del tempo della Terra, degli anni di Augusto, dell'ora in cui l'Angelo salutò la Vergine. Si è deciso a entrare in quest'essere umano, Gesù di Nazareth, «il figlio del falegname»; nelle sue parole, nel suo modo di agire, nel suo destino.

Perché Dio ha operato così? Non v'è una risposta vera e propria a tale comportamento. Non si possono addurre «motivi» per ciò. Non sono mancate teorie per tale motivazione, da Piotino a Max Scheler, filosofi hanno tentato di mostrare che Dio avrebbe dovuto creare il mondo per necessità intcriore: per l'impulso comunicativo della sua essenza; per l'impulso a giungere alla consapevolezza di se stesso in rapporto al mondo, e così via. Con questo però Dio è legato al mondo e la verità è distrutta. L'unica risposta è que-

190

sta: Dio ha creato il mondo perché l'ha voluto, per pura libertà. Non ve n'era necessità di sorta. Ne il mondo fu una conseguenza proveniente dall'essenza di Dio, ne Egli ne ebbe bisogno. Parlando in termini assoluti, non sarebbe mancato nulla, se fosse mancato il mondo. Dio solo basta.

La stessa risposta che Dio abbia creato il mondo per amore non fa avanzare. Non appena con ciò si debba esprimere un perché contenutistico, siamo a Piotino. Questi opinava che Dio sia amante; ma che l'amore significhi autocomunicazione. Pertanto, Egli non avrebbe potuto far altro che creare per la necessità d'amore della sua natura così come la sorgente sarebbe costretta a fluire, perché sarebbe sua essenza il riversarsi. Ma in tal modo si torna a distruggere la Rivelazione.

Quando essa parla dell'amore di Dio, intende qualcosa che proviene da pura libertà. Una decisione per l'amore, che - e noi sentiamo come diventino problematiche le parole, ma non pronunciarle sarebbe ancor peggio - sarebbe potuta anche non accadere. L'amore essenziale di Dio ha la sua pienezza e adempimento in Lui stesso, nella relazione delle santissime Persone tra loro. Per questo, anzi, la dottrina della sua vita una e trina è la difesa della verità di Dio. Dire che Dio sia il Solamente-Uno, si trae dietro necessariamente la deduzione che Egli abbia dovuto creare il mondo per poter amare, e questo è già l'inizio del rinnegamento di Dio. No, Dio non ha bisogno del mondo nemmeno per ciò; giacché la pienezza assoluta dell'amore è eternamente reale in Lui stesso;

reale in un modo e in una misura che si lasciano addietro tutto l'umano. Qui però si tratta dell'amore di

191

Dio per il mondo, per il finito, e tale amore non è necessario. Dio sarebbe amante anche senza di esso. Che si sia risolto per esso, è stata pura libertà: Egli l'ha voluto - perché l'ha voluto.

V

Anzi, qui v'è addirittura una di quelle grandi occasioni di «scandalo», che il cristianesimo da; di scandalo dello spirito filosofico, che si ribella a che si parli di Dio in questo modo.

Dio non è l'Assoluto? L'Essere perfetto, che non può essere messo in relazione con alcuna affermazione, che contenga realtà finita-condizionata? Si può dire che Dio, il quale dev'essere pensato con puri concetti d'assolutezza, sia libero; che si decida; che faccia quello che si può cogliere non come necessità, ma soltanto come factum, come dato di fatto; che Egli scelga tra possibilità; cosicché non si può chiedere:

«Perché lo fai?» (Gv 9, 12); che Egli, mediante l'incarnazione stessa, faccia ingresso entro la storia in una maniera determinante secondo il luogo, il tempo e la forma e, in virtù della resurrezione, rimanga per l'eternità determinato storicamente - si possono pensare cose del genere su Dio? Ciò non è antropomorfismo? O persino mitologismo?

La risposta a queste obiezioni è univoca e spinge quella decisione, di cui si parlava, a tutta la sua nettezza: appunto ciò che l'assolutismo filosofico avverte come impossibile, è il contenuto della Rivelazione. È proprio questo che essa vuoi dire. Il Dio «assolutisti-

192

co» non esiste. Esiste solo il Dio che si manifesta nella Rivelazione. Ed Egli è tale da fare tutto ciò di cui si discorreva prima. E così come deve necessariamente essere per poterlo fare. E libero. Egli pondera e si consulta; sceglie. Viene, agisce, sta presso di noi in quanto è l'Incarnato per l'eternità.

Dio è anche l'Assoluto, certo, ma non può essere racchiuso nei concetti d'assolutezza, bensì deve essere pensato anche con concetti di fattualità. Egli è eterno, ma entra anche storicamente nel tempo. E so-vraspaziale, ma sta anche in un luogo, così che si può dire: a Betlemme, e non ad Atene. E onnipresente, ma appare anche in forma determinata, come Gesù di Nazareth. Egli penetra ogni cosa col suo influsso operante, ma agisce anche così che questo determinato miracolo è opera sua.

Questo è vero e anche l'altro - ma come possano essere insieme e in uno le due cose non ha ne concetto ne parola che lo esprima. Ha solo un nome, ed è «Dio». Accoglierlo; sacrificare le strutture del proprio pensiero e pensare movendo dalla Rivelazione del santo nome - questo è fede. Dapprima obbedienza assai dura; poi sacra ampiezza di nuova verità.

All'interrogativo perché Dio abbia creato, e adottato un disegno, e scelto; perché Egli sia venuto e si sia fatto uomo e tale sia rimasto, non v'è, abbiamo visto, alcuna risposta vera e propria che origini da noi. Nella luce di quanto s'è appena detto, tuttavia, noi presentiamo che ve ne deve essere una proveniente da Dio, solo che noi non possiamo coglierla. Forse contemplarla, percepirla ed esperirla vivendola sarà il contenuto della eternità.

193

Quella Realtà inconoscibile e non nominabile deve essere qualcosa di ineffabile. Deve consistere nel significato e nell'importanza che ha finito per Dio. Non per essenza, poiché allora ne avrebbe bisogno, ma per libertà, perché Egli così vuole. Egli concede al finito di significare qualcosa per Lui: ciò forse è il cuore, il nucleo centrale di quanto si chiama «amore». Non l'amore in genere, sul quale possiamo parlare da noi stessi, ma il suo, che Egli medesimo deve di necessità proclamare, se vogliamo sapere qualcosa. Quell'amore, di cui Giovanni dice:

«Dio è amore» (1 Gv 4, 8), e ancora: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare [prima] Dio, ma è lui die ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4, 10).

Questa è la risposta all'interrogativo che abbiamo posto all'inizio. Qui non si tratta di questa o quella particolarità, ma della totalità della Rivelazione e dell'esistenza cristiana che poggia su di essa.

La nostra risposta certo non era esauriente. Ci sarebbe ancora molto da chiarire e da fondare. Ma essa, credo, accenna al punto decisivo. Non dice tutto, ma qualcosa di determinato; questa realtà determinata però mette in movimento l'intero.

Dio è così come appare in essa. Non esiste il Dio della pura inconcepibilità, il Dio dell'indeterminatezza, che ciascuno dovrebbe precisare a sé. Sarebbe un Dio che l'uomo si fa a sua misura, per eludere la decisione. Il Dio reale è quello che si è deciso e appunto così ha chiamato l'uomo a decidersi di fronte a Lui.

Con questo non abbiamo dimostrato nulla. Abbiamo indicato solo un carattere che appartiene a tutto

194

l'umano - ma che deve necessariamente appartenere anche a Colui che ha creato l'uomo. Dio non può, nel suo rapporto con noi, smentire ciò che ha posto come vincolante per tutta la nostra esistenza.

La verità di questa proposizione può essere esperita. Quando si viene ad essere tormentati da quell'interrogativo di cui si parlava, può accadere che queste risolutezze e determinatezze a una persona appaiano del tutto sciocche. Ma se poi col sentimento ci si immedesima più precisamente in quell'apparente mancanza di senso, si nota ch'essa contiene un senso ultimo, definitivo, ed eccola divenire impulso a salire verso la realtà più vera e autentica. Ciò che sembra tanto impossibile è appunto ciò che importa. Ciò che viene avvertito come estrema obiezione è il contenuto più proprio della Rivelazione.

195

INDICE

Premessa di Giulio Colombi

ROMANO GUARDINI Fede - Religione - Esperienza

CAPITOLO PRIMO La fede nell'epoca della riflessione

CAPITOLO SECONDO Esperienza religiosa e fede

CAPITOLO TERZO Tré discorsi dottrinali ......

L'interiorità cristiana, 97 - La preghiera di richiesta, 112 - Realismo cristiano, 123.

CAPITOLO QUARTO La fede nella grazia e la coscienza della colpa

CAPITOLO QUINTO «Rivelazione» come/orma del vivere

CAPITOLO SESTO

La Rivelazione e la finitezza. Un interrogativo

e il tentativo di una risposta .....

 

 

 

 

 

2001

Novembre

Ottobre

Settembre

Giugno

Maggio

Aprile

Marzo

Febbraio

Gennaio

2000

Dicembre

Novembre

Ottobre

Settembre

    Politica Cultura Scienze  Società  Religione Psiche  Filosofia  Ambiente Arte  Cinema Sport Napoli Università Home