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ROMANO GUARDINI
FEDE - RELIGIONE ESPERIENZA
Saggi teologici
MORCELLIANA
Titolo originale dell'opera da cui sono tratti i saggi
del presente volume:
Unterscheidung des Christlichen Gesammelte Studien
1923-1963 © Matthias Grùnewaid Verlag - Mainz 19943 ©
Verlag Ferdinand Schóningh - Paderborn 19943 © Tutti i
diritti d'autore sono della Katholische Akademie in Bayern
Traduzione di Giulio Colombi
© 1984 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 -
25121 Brescia
Seconda edizione: 1995
ISBN 88-372-1559-2
Tipolitografia La Nuova Cartografica S.p.A. - Brescia
1995
PREMESSA
La problematica, che suscita l'appassionato interesse
dell'Autore nei saggi di cui si compone questo libro superava,
quand'egli vi dedicò sforzi di approfondimento estremamente seri e
sofferti, la contingenza delle 'mode' culturali dell'epoca: in essa
infatti s'affacciano temi di rilevanza perenne, certo particolarmente
sentiti nell'età moderna e in quella post-modema, che stiamo vivendo;
vi si avverte l'urgenza di questioni esistenzialmente decisive, per
l'uomo e per il credente, qualunque forma assumano nel variare delle
mentalità, nelle vicissitudini della riflessione teologica.
Ancor oggi, e più che mai, è acceso, sia in campo
protestante che cattolico, il dibattito sul rapporto tra la specificità
d'una fede - e in particolare quella cristiana - e la genericità della
disposizione religiosa, sia pur che si concreti in religioni
determinate. Guardini lo affrontava con molta profondità e risolutezza
già nel 1934, distanziandosi in modo preciso e sottilmente argomentato
dalla soluzione radicale della «teologia dialettica» barthiana. E
abbiamo superato ai nostri giorni quella «estenuazione» della forza
esistentiva del credere, che subentra nell'epoca moderna con il
sopravvento della riflessività, fenomeno
pure inevitabile e a suo modo positivo, estenuazione su cui Guardini
faceva considerazioni finemente attente alla soggettività del credente
nel 1928? Il lungo e impegnato scrìtto sulla fede nella grazia e la
coscienza della colpa anticipa tutte le
attuali discussioni sulla caduta del senso del peccato,
sui riduttivismi sociologici e psicologici, sulla possibilità di
cogliere l'esigenza del perdono, non solo nella comunità ecclesiale, ma
nella società umana. In genere, è la ben calibrata puntualizzazione di
ciò che è distintivamente cristiano in senso positivo rispetto a
esperienze vissute - etiche, asceti-che, mistiche, che vengano
sottoposte a una teorizzazione soltanto filoso/tea - quanto, con rigore
e acutezza, emerge in questi saggi o discorsi.
Non inganni l'assenza, o quasi, di apparato
scientifico, e non si sia corrivi pertanto a escluderli da una
valu-tazione teologica in senso proprio: a prescindere dal/atto
che il lettore avvertito vi può riconoscere la feconda e congeniale
frequentazione di Agostino, di Pascal, di Kierkega-ard, e la ricca
informazione sulla scienza della religione più quotata,
oltreché degli esponenti di rilievo delle correnti teologiche a lui
contemporanee, è la forza germinale di un pensiero con una propria
originalità che qui si esprime, a proprio rischio e con la massima
onestà: non certo con la sicumera di chi presume di avere in materie
ardue, dove anche la reciproca fecondazione interdisciplinare è
chiamata in causa, soluzioni complete e compatte, che dispensino dalla
fatica di un'ulteriore ricerca, nella teoria e nella prassi.
In questa temperie spirituale e secondo questi paradigmi
d'indagine, che senz'olirò sono alieni dalle strutturazioni - e talora
non, forse, dalle strettoie? - accademiche, si comprende come, accanto
alle trattazioni ampie e articolate, possano apparire, e assumere non
minar peso, anche tré brevi «discorsi dottrinali» che mantengono la
freschezza di una nobile oralità, svolgendo con spunti molto nuovi il
tema (^//'interiorità cristiana, della preghiera di
richiesta, del realismo cristiano.
In questi scritti, Guardini si rivela ancor sempre un
maestro della riflessione che, in atmosfera di fede, fugge
dall'astrazione nel senso deteriore e si reimmerge continuamente nel
concreto dell'esperienza vissuta, delllLrìebnis, senza rinunciare
tuttavia al discernimento sagace.
giulio colombi
ROMANO GUARDIMI
Fede - Religione - Esperienza
CAPITOLO PRIMO LA FEDE NELL'EPOCA DELLA RIFLESSIONE
II medioevo ha pensato molto e profondamente. Ha pensato
con una fiducia che ci appare quasi giovanile. Con quell'ardimento con
cui può pensare solo quegli, le cui radici vitali stanno protette nella
terra non illuminata, al di qua d'ogni pensiero. Ben potevano pensare i
grandi intellettuali del medioevo! Le origini della loro vita erano
così vigorose e stavano celate in tali profondità, che nessun pensiero
poteva recare loro danno alcuno. Anzi, la loro anima, il loro spirito,
il loro sangue, tutt'intera la loro pianta umana nel suo germinare
vivevano con tale vigoria, che avevano bisogno del pensiero per
oggettivare tale vita e in tal modo attenuare la sua potenza. Si
potrebbe dire che ciò rassomigliava al salasso nella medicina di
allora: quelle costituzioni non avevano alcun sentore dell'anima, ma
certo del contrario, e avevano necessità di assottigliare gli umori
vitali. Il pensiero religioso poteva gettarsi fiduciosamente su realtà
della fede; la stessa vita religiosa, la fede erano al sicuro. Questa
vita di fede era così elementare che la sua pressione senz'altro non si
sarebbe potuta sopportare, se il pensiero non l'avesse elevata
incessantemente nell'ogget-tività illuminata.
Tuttavia la fede in se stessa rimane comunque
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sempre inizio. Il pensiero non vuole «andarle alle
spalle» o «a monte». Essa resta non riflessa. Si riflette sui
contenuti di fede, e sull'intero mondo nella prospettiva della fede; non
sulla fede in se stessa. Eppure sì, si riflette anche sulla fede
medesima; ma costruttivamente, non in atteggiamento critico. Si riflette
sulla fede per considerare le meraviglie della sua struttura;
per vedere come si atteggi rispetto ad altre forme di
conoscenza. Ma non la si pone sotto lo sguardo critico. Di nuovo, ciò
non significa che non si siano conosciuti dubbi di fede. Li si è certo
conosciuti; però in prima istanza come peccati. Ma ciò significa che
il dubbio soprattutto non stava sotto una categoria noetica - così come
nemmeno la fede -, bensì sotto la categoria dell'esistenza santa;
quindi di ciò che dev'essere difeso come santo, che è comandato come
santo, di quanto è spiritualmente giusto e non giusto. Pertanto,
rispetto al dubbio ci si collocava in quell'atteggiamento in cui, se si
guarda la cosa in termini essenziali, di fatto ci si deve contrapporre:
non lo si discuteva, ma lo si combatteva. Infatti, come l'autentica fede
non può essere confutata, ma solo morire, così il dubbio di fede in
fondo non può essere risolto con la discussione, ma solo superato col
vivere, con l'agire, col sacrificarsi. Ma in questi comportamenti si
tratta di una difesa della vita, non di un approfondimento teoretico.
Nell'epoca moderna la situazione cambia. L'intera vita
passa nell'ambito della riflessione, anche la vita della fede. Non solo
i contenuti della vita, ma la vita stessa, il suo svolgersi, il suo
ambiente, i suoi presupposti vengono presi in considerazione. E
precisamente, circostanza qui decisiva, non in senso costruttivo, ma
critico. Quindi con l'interrogativo: com'è costitui-
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ta questa realtà? Perché e donde è così? Da che cosa
dipende? E, a monte di tutto, l'interrogativo: questo processo di vita,
quindi, per esempio, questa presa di posizione o questa convinzione,
giustifica la pretesa che avanza, di essere sottratta alla discussione?
D'essere un prius, un fondamento, che si dovrebbe rispettare? O
è anch'essa in qualche modo «funzione» di altro? Conseguenza,
risultato, espressione, mezzo per un fine - e allora non sarebbe anche
consentito a tutto ciò di rivendicare qualche peso maggiore di quello
che spetta appunto a una «funzione»? Questo è il problema, questo
l'atteggiamento spirituale propriamente critico: quello della
riflessione.
II
Nei discorsi di Buddha ritorna continuamente questo
avvertimento: il monaco deve vigilare attentamente presso tutto ciò che
egli vive: presso le sue esperienze, i suoi sentimenti, il suo agire e
il suo omettere1. Se vede qualcosa di bello e prova piacere,
lo deve notare, penetrare, e dirsi: «Dunque questo è piacere! Dunque
così è questo piacere! Dunque da ciò viene questo piacere!» Quando
qualcosa gli da do-
1. Cosi per esempio Raccolta delle [Esposizioni]
medie [Majjhima-Nikaya] I, 10 [ed. ted. K.E. Neumann, Die Reden
Coturno Buddho's, Leipzig 1921' voi. I, pp. 122 ss., p. 131]: «Cosi
egli vigila verso l'intimo sui sentimenti intorno al sentimento, vigila
verso l'esterno sui sentimento intorno al sentimento. Egli osserva come
sorgono i sentimenti, osserva come i sentimenti se ne vanno, osserva
come i sentimenti sorgono e se ne vanno. 'Ecco il sentimento'; questa
cognizione ora gli è presente, nella misura in cui appunto è atta al
sapere; ed egli rimane non radicato, e in nessun posto del mondo è
attaccato. Così però, o monaco, il monaco veglia sui sentimenti
intorno al sentimento». E così via attraverso l'intero ambito della
vita.
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lore, egli deve cogliere questi dolori, comprenderli
nella loro specificità e nelle loro cause e dirsi: «Dunque questo è
dolore! Dunque così è questo dolore! Dunque da ciò viene questo
dolore!» E così con tutto. Allora che cosa accade? Allora gradualmente
si dissolve l'incantesimo del piacere, l'adesione al piacere;
l'incantesimo del dolore, la paura di fronte ad esso.
Allora si dissolve l'esperienza vissuta della paura e del dolore.
Allora, man mano, svanisce la vita stessa. Se il monaco ha fatto tutto
ciò - e ancora molto altro che quest'esercizio sostiene o da esso si
sviluppa - con sufficiente profondità, purezza ed energia, allora
giunge il momento in cui la vita stessa scompare. «Così conoscendo,
così vedendo, l'animo viene staccato dalla follia del desiderio,
liberato dalla follia dell'esistenza». Il monaco è «morto,
disawezzato, sradicato, sfuggito, strappato a ogni sete di vita,
ridestato alla vigilanza infinitamente perfetta». A lui si fa chiaro:
«Non v'è più nulla!»
Qui viene sviluppato in un sistema ascetico un processo
che ciascuno può osservare in se medesimo:
un atto, un complesso di atti, un agire, un ordinamento
dell'agire rimangono securizzanti, convincenti;
per me, per la persona che li vive, danno sostegno,
sostengono questa mia esistenza finché la sua radice mantiene il suo
punto di partenza nel non saputo, nel non conscio. Se però continuo a
dirigere il raggio della coscienza verso la radice di questi processi di
vita, la loro freschezza e vigoria ne vengono menomate. Se poi dirigo
pienamente il raggio della coscienza su di essi in quella forma, si
potrebbe dire, acuta di il-luminazione, di cui dicevamo, quella critica
cioè, con la volontà di «andare loro alle spalle», di dissolverli,
di ridurre il dato a condizione, di riconoscerlo come
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una funzione; se io attuo quanto davvero significa
propriamente «riflessione», cioè il rispecchiamento del processo di
vita nel nitido spazio della coscienza, dalla radice alla foglia, dal
primo spuntare del germe alla fine, così da potervi guardare attorno,
sopra e sotto, dentro e attraverso - allora quella vita vi rimette un
determinato collegamento con le sue sorgenti. In un certo senso muore.
Perde una determinata sicurezza, uno slancio, una forza persuasiva che
prima possedeva. Cala - ed è qui che ci interessa in particolare - la
sua capacità di sostenere la mia esistenza.
Io voglio essere; come quest'essere vivo, personale. Ma
lo posso solo se sono protetto, al sicuro in un «senso» o
«significato», se vivo in vista di un Incondizionato che da salvezza.
La persona non può puramente e semplicemente sussistere; la persona non
può essere come la pianta, semplicemente collocata lì. Può sussistere
solo come sussiste lo spirito: mirando al valore e all'essenza; alla
verità, e bontà, e diritto, all'ordine spirituale; in dirczione di un
Incondizionato; in ultima analisi, di Dio. La persona è se stessa
essenzialmente nella relazione con Dio, in un reale rapporto con Lui -
sia in senso positivo, e allora per la salvezza; sia in senso negativo,
e allora per la disperazione. Quest'Incondizionato che da salvezza, dal
quale dipende la mia esistenza personale, viene però accolto,
sostenuto, attuato umanamente da un «so-strato» vivente: dalla mia
vita umana, spirituale e corporea; da una struttura d'atti; da un
tessuto di conoscenze, prese di posizione, azioni, sentimenti ... In
quella fase storica «precritica» delineata la vita era senz'altro
dotata di capacità portante per tali contenuti di senso. Vólto, con
semplice abbandono, a quel-
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le realtà incondizionate, l'uomo era in grado di
accogliere in sé con sicurezza e pienezza il senso che dava garanzia
alla persona. Non appena però si compie quell'estenuazione del tessuto
corporeo e spirituale della vita per opera della riflessione, la sua
forza di sostenere vitalmente i contenuti di senso personale, che sono
condizione di salvezza, appare sminuita.
Valori, norme, essenze, idee, complessi di senso; la
stessa verità e il bene di Dio - tutto ciò viene accolto realmente
nell'atto del pensare, valutare, volere, fare allorquando viene pensato,
valutato, voluto, fatto non solo in modo «esatto», ma anche con la
risolutezza, la profondità, la potenza d'esperire vitalmente
corrispondenti. Non basta che quei contenuti siano «intesi»
rettamente, designati con rimandi, determinati in maniera calzante,
giudicati validi in senso og-gettivo. Il contenuto di senso dovrebbe
essere realizzato nell'atto, nello svolgersi della vita; ma la misura in
cui così si realizza il senso non dipende soltanto dall'esattezza dei
contenuti, ma pure - e in modo sempre più preciso quanto più si tratta
dei contenuti di senso propriamente personali - dal peso con cui si
esperisce e vive l'atto; dall'ampiezza e dal 'pescaggio'
dell'esperienza; dalla forza vitale e sensitività dell'atto
realizzante. Io «ho» il contenuto nella misura in cui attuo potenza
viva applicandomi ad esso. Ho il valore nella proporzione in cui,
cogliendolo, «divengo» io stesso. Possiedo, dell'incondizionato
oggettivo, tanto quanto, afferrandolo, «sono» vivo in quest'atto che
lo afferma. Se questo è vero; se questa è realmente una legge del
mondo spirituale2 - allora la misura in cui si
2. Cfr. in proposito: R Guardini, Heilige Schnft und
Glaubenswissen-schaft, in «Die Schiidgenossen», 8 (1928).
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realizza il senso non dipende solo dall'esattezza con la
quale viene colto l'oggetto, ma anche - e in modo che cresce in
precisione, quanto più si tratta dei contenuti di senso personali -
dall'intensità, con cui il soggetto, questo soggetto, questa persona
compie l'atto vivo dell'afferrare l'oggetto; dalla misura della sua
disponibilità e capacità di realizzare un atto, e di realizzare se
stesso nell'atto. Se l'uomo vivo si fa fiacco, impedito, freddo, pavido;
se l'intensità della partecipazione, l'audacia dell'abbandonarsi
calano, insieme con la capacità di immettersi nell'atto con il proprio
vivo patrimonio d'energia, allora la misura della realizzazione del
valore cala - per quanto, in senso oggettivistico, si sappia ancora, per
quanto d'esatto ancora si colga.
Tutto ciò non si dovrebbe intendere su un piano
psicologistico. Il senso come tale; l'essenza e il valore;
tanto più il Dio vivo e il bene salvifico non dipendono
dall'atto umano. Sussistono in sé. Certo, però, da tutto questo
dipende il loro farsi effettuali nell'agire che sia dotato di valore. Se
dunque l'atto concreto è indebolito da qualche causa, allora lo è
anche l'appropriazione di quel senso, e per ciò stesso l'adempimento
dell'esistenza personale, che vi è collegato. Questo è poi anche
effettualmente il punto in cui subentra la crisi con l'inizio dell'epoca
moderna. Essa non deriva da singoli problemi oggettivi; ma dall'effetto
di estenuazione della vita operato dalla riflessione. Abbraccia tutta la
vita spirituale, anche quella della fede3.
3. Cfr. in proposito anche R. Guardini, Der Glaube in
unserer Zeit, Wùrzburg 19632, come anche Glaubensgeschichte
und Glaubensaueifel, in Glaubenserkenntnis, Wùrzburg 1949,
pp. 106 ss. (tr. it in prep. presso la Morcelliana).
19
In essa non si tratta di chiedersi se questa o quella
proposizione di fede sia vera. Diviene invece diffìcile all'uomo
afferrare come in genere contenuti che hanno i giusti tìtoli per
promuovere la fede possano entrare nella vita. Diviene difficile alla
sua energia d'atto e d'esperienza vissuta realizzare nell'atto e
nell'esistenza l'enormità di una rivelazione e del suo contenuto. È
indebolita la capacità di reggere a contenuti assoluti. Gli atti
concreti di vita - e in verità quello di qual-siasi fede, come d'ogni
conoscere, prender posizione, agire è un atto concretamente vivo -
hanno perduto la loro immediatezza sotto l'influsso della riflessione;
ma è innanzitutto la capacità di dar corpo a contenuti
assoluti che sembra indebolita con tale processo.
A motivo dello sviluppo spirituale dell'epoca moderna
cadono parecchie illusioni. La critica storica mostra in più luoghi
dipendenze, dove prima si vedeva qualcosa di originario. L'esame dei
rapporti riconduce all'ambiente e al campo di attuazione più di una
cosa e di un processo che prima parevano avere un'esistenza a sé. La
realtà si fa più spoglia. Ma non è questo l'essenziale, lo specifico.
Tutto ciò precederebbe d'un passo la verità storica, ed essa può
essere pari-menti autentica verità, quindi non recar mai pregiudizio a
quella della fede. Al contrario, questa dovrebbe emergerne più pura e
vigorosa. II fenomeno specifico che qui ci occupa è che la vita stessa
si fa insicura. La vita umana ha il compito di realizzare contenuti
og-gettivi nello svolgimento concreto dei suoi atti; compiere prese di
posizione incondizionate di fronte a esigenze incondizionate. È proprio
quest'energia che appare indebolita. Ma con ciò anche l'intensità con
cui quei contenuti vengono fatti propri, le compo-
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nenti soggettive di quel che si chiama «conoscere
vero» e «essere buono». Qui: la forza dell'atto di fede come
assimilazione dei contenuti della Rivelazione.
In tal modo il pericolo della scepsi si fa incombente.
Quindi il pericolo di scorgere, nel diminuire di una forza di
realizzazione immediata, la fine della possibilità di realizzare
contenuti assoluti in genere. Il pericolo di rinunciare in genere
all'assimilazione di tali contenuti, qui quelli della Rivelazione. Anzi,
infine il pericolo di dichiarare che tali contenuti non esistono
affatto, e comunque ogni giudizio sulla loro esistenza è ozioso.
Qui affonda una delle radici del «dubbio di fede
moderno». Quindi non in una scossa particolare di carattere logico, o
psicologico o storico, o condizionata in qualsiasi altro modo, che
provenga da qualche problema determinato, ma nell'effetto della
riflessione sulla forza della realizzazione di contenuti assoluti in
genere.
Così l'elemento decisivo per il nucleo dell'attuale
situazione di fede non è il preoccuparsi di questo o quel problema
particolare - il che naturalmente mantiene tutta la sua importanza. Il
compito vero e proprio scende più in profondità. Si tratta di vedere
il significato di quella stessa situazione e di prender cognizione del
come sia possibile una fede che nasca dallo stato attuale dello spirito.
L'uomo che si trova in questa situazione non può spezzare la linea
della riflessione senza avvertire di aver abdicato a se stesso -quindi
si tratta del problema del come quest'uomo, partendo dai fondamenti di
una vita, basato sui quali esiste, possa accogliere contenuti assoluti
negli atri
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che è in grado di compiere. Con questo è già detto
qualcosa, che però deve essere ancora precisato espressamente: le
argomentazioni finora svolte non hanno affatto revocato in dubbio, in
termini dogmatici, la tesi fondamentale cristiana secondo la quale la
via verso la fede è aperta ad ogni uomo. Ciò però significa che
l'atto della fede può essere compiuto muovendo da qualsiasi
costituzione psichica e in ogni punto dello sviluppo cristiano. Questa
possibilità ovviamente rimane anche di fronte a quell'indebolimento
della forza d'atto di cui si parla qui.
Giacché anzitutto è proprio della struttura dell'atto
conoscitivo - e, analogamente, degli altri atti che realizzano un senso
- che l'oggetto possa essere colto, fissato, investito da un assenso
«obiettivamente», quando v'è solo il minimo di partecipazione
soggettiva la quale consiste nella presenza di disponibilità e volontà
di cogliere così [l'oggetto]; nell'attuazione inoltre delle operazioni
richieste, esatte in senso noetico, sia formalmente che materialmente.
Ciò rimane sempre possibile, per quanto l'intensità
viva dell'atto sia indebolita.
A prescindere da questo, tuttavia, anche tale
infiacchimento è sempre solo approssimativo. Significa appunto
«infiacchimento», non «distruzione»4. Rimane sempre
richiesto un minimo di forza di realizzazione affinchè l'oggetto venga
fatto proprio.
4. Anche questa è possibile. Allora abbiamo un caso
psicopatologico. Ma questo esorbita dalle nostre considerazioni. Avrebbe
per noi solo un interesse euristico, nella misura in cui ogni sfasatura
dell'atto o della situazione della vita psichica normale in un
determinato punto trapassa nel patologico; cosicché dunque le patologie
sono casi-limite delle condizioni normali, e proprio per questo gettano
su di esse chiara luce.
22
Con questo resta sempre anche quella misura di natura
praesupposita, che è necessaria affinchè la grazia della fede
trovi la base d'atto naturale occorrente.
Qui dunque non facciamo null'altro che porre accanto ad
altre un tipo di difficoltà di fede, fattasi par-ticolarmente
significativa per l'uomo d'oggi. Non per esigere condizioni particolari
per lui, per esempio come se si trattasse di persone «colte» a fronte
di altre più ignoranti, o progredite e criticamente «illuminate»
rispetto a persone ingenue. Ma appunto per mostrargli con tutta la
chiarezza il suo dubbio di fede -proprio per il fatto, tuttavia, che
viene compresa la sua angustia e difficoltà nella fede.
Ancora un altro cammino porta allo stesso punto. Ciò
che noi abbiamo chiamato «senso» nel significato più ampio, l'idea,
l'essenza, il valore o comunque vogliamo esprimere ciò che è assoluto
nel suo valere, ha un duplice aspetto: significa da una parte
preziosità, elevatezza, pienezza che rende felici. Significa però
anche al tempo stesso legame, peso, difficoltà, destino. Ogni altezza
che si sia mai levata nella coscienza degli uomini, è divenuta anche
giogo per loro. Tutto ciò che è nobile ha anche portato sofferenza. I
valori sono dolori.
Già la profonda incommensurabilità del valore, che è
dato in compito, con la nostra forza viva, significa dolore. Io amo il
bene; lo voglio realizzare. Ma esso è assoluto; io, al contrario, sono
limitato. Certo, l'aspirare, il tendere all'infinito è bello; ma v'è
anche qualcosa di terribile, se si guarda solo dalla prospettiva umana.
Il «tu devi» dell'esigenza assoluta significa un giogo. Esso pesa
sull'essere umano vivente. Non vogliamo recitare la parte di eroi. Che
altro significa
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mai lo sguardo bramoso, nostalgico verso un'esistenza
esente da doveri e che goda di una semplice unità con se stessa, come
emerge in favole, saghe e sogni, se non il fatto che la nostra nobiltà
forma pure il nostro giogo?
Ma vi si aggiunge qualcosa di più: ogni valore è puro,
univoco Finché lo si prende in senso astratto. Tuttavia gli è data una
peculiare duplice efficacia, non appena entra nel concreto ambito di
vita. Preso in sé, ogni valore è solo benefico, positivo. Ma dove si
trova il valore, in rapporto al quale nella vita concreta non sorga
anche la minaccia d'un pericolo? E in modo tanto più forte e sottile,
quanto più è elevato il valore? La «verità» per sé è univocamente
positiva. Ma «dire la verità» - non ci manca sempre un capello a che
significhi pure «essere duri»? Quando la «bontà» non diventa anche
debolezza? Quanto a lungo la «benedizione», l'«abbandono» preserva
la dignità?
E se anche tutto ciò si avverasse nel caso più alto
-come poi avverrà nella media? E se anche nel singolo - come poi tra i
molti? Quali cose terribili ha già portato sugli uomini la volontà di
mantenere pura la fede! Quali inumanità lo zelo per la causa di Dio!
Quali attentati alla natura l'aspirazione a staccarsi dalla realtà
terrena! Si obietterà: non quella volontà, quello zelo,
quell'aspirazione in se stessi, ma il fallimento degli uomini! Ma è
anzi appunto qui che sta il problema, nel fatto che non esistono un
«volere», uno «zelare», un «aspirare» per se stanti, in
un'univocità astratta, ma sempre solo come volere e zelare di questa
persona. In tale condizione però non sono univoci, bensì colmi di
enigmatiche polivalenze. E già così: un'infinita sofferenza dipende da
ogni valore. E tanto più do-
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lorosa, quanto più nobile è il valore ... e quanto
più elevato il rango del volere che si dirige ad esso ...
Dobbiamo scendere ancora una volta più in profondità:
noi uomini non siamo esseri armonici: si ripercuotono in noi profonde
contraddizioni. Ciò che significa «vita» è in sé scisso: volontà
di vita e volontà di morte sono intrecciate tra loro; volontà di
piacere e volontà di dolore. Tutto ciò può divenire per noi via al
piacere e motivo di ascesa, ma anche tutto può farsi strumento di
sofferenza e di rovina. Tutto tormenta l'uomo, poiché è lui stesso a
volersi tormentare. Chi ha sentore della malinconia, nelle sue
molteplici forme e ramificazioni, ha cognizione anche di questa volontà
enigmaticamente muta che v'è in noi, di dover soffrire, di dover
affondare5. Chi è perspicace, vede la potenza oscura della
malinconia passare attraverso la vita umana, in cospirazione con tutte
le potenze dell'innaturalità, della crudeltà, della confusione. E non
vi sono armi nella sua mano che più taglienti si volgano contro la
propria stessa vita, di quel che siano appunto i valori più nobili. Tra
tutte le realtà elevate e sublimi, l'umanità per quale ha sofferto
più spaventosamente che per quelle religiose? Proprio perché è la
realtà suprema, più delicata, più intima; proprio perché ne dipende
la salvezza, la più gelosa difesa e sicurezza, il senso dell'uomo
puramente e semplicemente; poiché essa tocca l'interiorità più
sensitiva ... A cominciare dallo scrupolo del bambino
5. Vedi in proposito Vom Sinn der Schwermut, pp.
502-503 di Unterschei-dung des Christlichen, Mainz 1963; tr. it. Ritratto
della malinconia, Morcellia-na, Brescia 19934.
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che prega fino al vaneggiamento di essere reietto
nell'animo disperato, o all'incendio intcriore del fanatico; dalla
pressione di rappresentazioni infantili non illuminate fino
all'innaturale di parecchie unilateralità, fraintendimenti,
immeschinimenti e durezze ...
Tutto questo esiste; e in qualche forma è penetrato in
ogni uomo e attraverso tutti i tempi. Tutto ciò si accumula e corrode
l'energia viva della realizzazione del valore. Quando una persona per
lunghi anni della sua giovinezza si è tormentata in quella terribile cornee
di un malinteso dovere religioso, nello scrupolo - e quanti ve ne sono!
- che cosa accade poi? Allora la capacità e l'owia disponibilità
volenterosa alla dedizione al valore religioso scemano, e un giorno
s'instaura l'indifferenza all'appello del valore; la riluttanza;
addirittura una rivolta con la forza degli elementi. L'energia d'atto
era stata sottoposta a richieste eccessive; ora essa se ne va. L'animo
era troppo tormentato; ora si difende con l'insensibilità.
Ma fenomeni simili possono verificarsi anche nella
collettività. E là sembra che a quell'effetto sopra delineato della
riflessione corra parallelo l'effetto dell'angustia nell'esperienza dei
valori. L'umanità ha sofferto per un determinato periodo sotto i
valori; ora risponde con l'insensibilità! Essa è per il cuore ciò che
la scepsi è per la conoscenza6.
Ciò non equivale a un'accusa contro questo o quel
metodo religioso. Qui si tratta di qualcosa di più profondo che non
siano questioni metodologiche. Ogni
6. Forse si considera sotto questo punto di vista la
mancanza di spiritualità, spesso rimproverata alla gioventù
dell'ultima generazione, interamente dedita alla macchina e allo sport -
anche la gioventù più nobile.
26
metodo, alla fine, produce questo effetto. E appartiene
alla nostra esistenza umana la necessità di «metodo»; determinate
forme tramandate, strutture di educazione alla realizzazione del valore.
Per il nostro problema il contesto di fenomeni delineato
ha il significato di diminuire in genere la concreta energia della
realizzazione del valore religioso. Così anch'essa viene indebolita. Il
credente diventa meno sensibile; diviene più ottuso, indifferente - o
invece irritabile, diffidente di fronte ai valori cristiani.
Ciò anzitutto porta con sé l'interrogativo
particolare: non ci troviamo dinanzi al compito di una nuova pedagogia
del valore per essere ricettivi ad esso, per l'energia e la risolutezza
nel realizzarlo? Come rimangono forti, capaci di discernimento,
profonde, vigorosamente continuative tali disposizioni? Quando si
indeboliscono? In quale misura e per quale via possono essere formate? E
così via.
Poi: quali spostamenti si sono verificati, che ci
con-cernano particolarmente? Il credente - soprattutto quello che crede
in un corpus comunitario - convinto dell'assolutezza della
realtà religiosa, è fin troppo incline a trasferire questa assolutezza
del bene salvifico anche su determinate costellazioni fondanti di
valori;
e di conseguenza a respingere a priori la
questione se non abbiano luogo allora, in queste configurazioni portanti
di valore, degli spostamenti. Ma se questi si verificano - e uno sguardo
alla storia basta per constatarlo - e non se ne tiene adeguato conto,
allora il carattere di qualcosa di sopravvissuto, che inerisce
all'immagine di valore fondante, si ripercuote sullo stesso bene
salvifico e lo fa apparire allo stesso modo «passato».
27
Ma per il resto, ed è questo che soprattutto ci
interessa qui, quell'indebolimento della forza di esperire il valore
religioso, si congiunge con l'indebolimento sopra descritto della
realizzazione del senso colto dalla fede. Infatti, in verità, cogliere
con la fede il patrimonio della Rivelazione non è un freddo constatare
una situazione oggettiva, ma il vivo annodarsi di una realtà con una
Realtà; è dedizione, legame, fiducia, unione e pertanto poggia non
meno sulla valutazione e sulla percezione viva di una preziosità che su
un esatto giudizio sulla situazione oggettiva.
Ili
Noi dunque dobbiamo chiarirci su come si presenti una
«fede riflessa» a differenza di una «immediata» - prendendo questa
parola con quella restrizione, sotto la quale può essere in genere
«immediata» la fede cristiana, che invero viene dalla grazia e quindi
sempre si distingue dalla natura. È quella situazione di fede, che è
espressa dalla parola di Newman: «Fede significa saper sostenere
dubbi».
Un esempio tratto dalla logica potrebbe avvicinare alla
comprensione del problema: io riconosco che 2 x 2 è = 4. Ho riflettuto
sulla struttura oggettiva di questa proposizione e ho capito che è
esatta. Possibili motivi in opposizione, poniamo - che il semplice
rapporto matematico rappresenti rapporti penetrabili per via logica, che
per altro possono essere sommamente complicati - tali motivi in
contrario dunque io li ho parimenti sottoposti a riflessione e li ho
riconosciuti errati. Io capisco e dichiaro: 2x2=4. Ve anco-
28
ra possibile un dubbio su ciò? A me sembra di sì. Non
nel senso che sussistano problemi irresoluti, od obiezioni che non
abbiano finora alcuna risposta. Questi, anzi, secondo il nostro
presupposto, dovrebbero essere nel complesso superati. Non si tratta
quindi di un dubbio che si debba togliere con lo spiegare con maggior
nitidezza e precisione o col pensare più in profondità. Non appena
però s'è fatto tutto, su questo piano della constatazione dei dati di
fatto e della penetrazione dei contesti, dell'esattezza materiale e
formale; non appena sono avvenute tutte le risoluzioni e le confutazioni
che si esigono, l'interrogativo: la cosa sta realmente così? non
potrebbe essere anche altrimenti?, può essere posto ancor sempre
sensatamente. Di che tipo è questo «dubbio»? Non deriva dalla sfera
contenutistica del processo conoscitivo, ma dal rapporto in cui si pone
il contenuto con l'attuosità concreta del processo.
Torniamo al problema: come dovrebbe essere una certezza
che mi rendesse impossibile anche questo dubbio?
Ciò richiede che ci si accordi preliminarmente su una
cosa. Che significa verità? La migliore risposta è ancora sempre
l'antica classica: adaequatio rei et intel-lectus, l'accordo tra
l'oggetto e l'immagine che inte-riormente Io riproduce - prendendo la
parola «immagine» in quel senso più Iato che abbraccia al tempo
stesso percezione e contenuto rappresentativo e concettuale.
Questa «adeguazione» però contiene un duplice
aspetto: in primo luogo quello della corrispondenza oggettiva tra le
determinazioni ontologiche della cosa e i contenuti rappresentativi
ovvero concettuali che la
29
riproducono noeticamente. Vogliamo chiamare questo dato
di fatto della adeguazione controllabile tra oggetto e contenuto
dell'immagine Inesattezza». Con ciò però non si da ancora piena
verità. «Verità» significa, secondo il suo pieno contenuto di senso,
non solo adeguazione oggettiva, ma anche che questa adeguazione è
attuata in modo vivo dal pensante; che egli sperimenta il suo dato di
fatto, il suo contenuto particolare, il significato e la portata d'esso
ecc. Una esattezza noetica è verità nel senso pieno solo quando essa
si fa intima al conoscente, diviene in atto nella sua interiorità. Con
questo non si intende che egli colga l'oggetto «profondamente» a
differenza di chi lo coglie «superficialmente» o che ne tragga
conseguenze pratiche, a differenza di una considerazione meramente
teoretica. Si tratta invece di una distinzione nel cogliere
teoreticamente l'oggetto in questione. Nel momento dell'esattezza ha
luogo una corrispondenza oggettiva e di questa corrispondenza si prende
cognizione; viene constatata. Nel secondo caso ciò che è colto
esattamente viene anche [riprodotto in modo vivente; accolto nell'ambito
dell'interiorità, assimilato, fatto proprio. Il conoscente vive
nell'oggetto. Solo i due momenti insieme costituiscono verità nel senso
pieno. Non si possono mai staccare reciprocamente per intero. Tuttavia
sussiste tra di essi una tensione.
Il momento dell'esattezza può essere enucleato per
determinati tratti e fino a un certo grado: dovunque si tratti di fatto
solo della constatazione di situazioni oggettive. Caso limite sarebbe la
macchina per pensare, quale abbiamo di fatto a disposizione nella
calcolatrice. Qui la funzione dell'esattezza è oggettiva
30
in tal misura che il pensiero ha bisogno di addurre il
punto di partenza in cui viene fissata l'esattezza e di prendere
cognizione del punto finale. Dovunque si tratti solo di constatazioni
«meccaniche», di fatto basta la mera esattezza, ed equivale ad uno
sgravio essenziale del peso del pensare produrre questa funzione con il
massimo risparmio possibile di energia, cioè appunto meccanizzarlo7.
Il meccanismo ha adempiuto il suo senso, quando il risultato toma
giusto. Ma senz'altro è facile scorgere che il risultato di una
calcolatrice, quello di un apparato statistico ecc. non sono «verità»
nel senso pieno della parola. Rappresentano esattezza con spunti di
verità. Verità autentica diventano solo quando vengono [riprodotti,
vengono assimilati, fatti propri. E precisamente l'importanza del
fattore di assimilazione cresce nella misura in cui si tratta di oggetti
che mi interessano; di oggetti dell'ambito spirituale personale.
Da due forme di realizzazione della verità, di cui
l'una rappresenta il minimo, l'altra il massimo di tale genuina
realizzazione della verità, risulta chiaro che la verità costituisce
l'attuazione di un esatto contenuto; che quindi contiene il momento
esistenziale dell'assimilazione della «vita nell'oggetto», della
autoat-
7. Si possono trovare analogie a questo fenomeno
dappertutto dove, nella vita dell'uomo, importa solo che determinate
funzioni siano svolte. Cultura significa per largo tratto la creazione
di meccanismi che adempiono tali funzioni; per esempio le forme del
rapporto sociale. Basta che le forme di quesd rapporti siano colte nel
loro senso oggettìvo e attuate con esattezza. Non hanno altro compito
che di strutturare nel modo più agevole la relazione tra gli uomini.
Sono 'riguardo' oggettivato. Sarebbe errato esigere da esse che siano un
riguardo attuato, cioè effettivo amore del prossimo. La vita ne sarebbe
intollerabilmente aggravata. In modo analogo si dovrebbe parlare di
molti ambiti.
31
tuazione diretta all'oggetto. Quello è la convinzione.
Comunque si chiami l'oggetto, verità nel senso pieno della parola si
realizza solo nella convinzione. E che il fattore della convinzione si
celi anche già nella verità più semplice, si dovrà mostrare più
avanti. Questa, dunque il grado supremo di realizzazione della verità,
è la contemplazione di Dio, che secondo la definizione di san Tommaso
fonda la beatitudine eterna8. Se la conoscenza della verità
deve fondare la beatitudine, allora è chiaro senz'altro che essa
equivale a un atto di vita.
La verità viene dunque conosciuta quando in uno
svolgimento o atto vivo, l'obiettiva presa dell'oggetto viene fatta
propria. La misura della realizzazione della verità dipende dalla
misura in cui, da una parte, è precisa la corrispondenza, dall'altra,
fine e vigoroso e capace di esaurire il contenuto è l'atto vivente che
lo [riproduce.
Riprendiamo ora il problema posto sopra. Come dovrebbe
essere configurata una certezza, vale dire, dunque, una conoscenza di
verità, che renda impossibile quell'interrogativo sul dubbio?
Dovrebbe starmi innanzi un contesto oggettivo colto
senza errori e chiaramente penetrato. Esso sarebbe in sé vero; assoluto
in senso noetico. Questa assolutezza noetica dovrebbe però essere
realizzata anche nell'atto. Io dunque non dovrei solo constatare:
le cose stanno assolutamente così - ma dovrei speri-
8. Prendiamo in senso filosofico ciò che è inteso qui;
più esattamente, intendiamo il concetto filosofico, che vi è
contenuto, della realizzazione della verità.
32
montare quest'«assoluto esser così» nell'atto
conoscente con un'intensità d'atto, adeguata alla sua assolutezza. La
forza e chiarezza della completa consapevolezza: «Le cose stanno
così», dovrebbe corrispondere all'assolutezza di quel contesto
oggettivo di dati. Ma ciò significa: «io dovrei essere capace di una
conoscenza assoluta non solo come contenuto, ma anche come atto». Ciò
però non avviene. Il pensiero umano contiene essenzialmente il
paradosso di poter constatare: «Qui v'è un assoluto; in tal modo si
può dimostrare, vale a dire presentare in maniera inconfutabile, che
questo sta assolutamente in tali termini» - ma l'atto concreto, col
quale viene colto, viene constatato, viene posseduto intcriormente, tale
contesto di dati, come atto, nella sua misura dinamica, non è assoluto,
ma condizionato: la sua forza di attuazione noetica, l'intensità
dell'esperire la verità sono limitate. Nell'atto concreto dunque la
verità non può essere realizzata adeguatamente. Rimane uno scarto, una
sproporzione tra valenza del contenuto e misura dell'atto.
E precisamente questa sproporzione sussiste di fronte a
ogni oggetto. Qualsiasi verità come tale è assoluta, cioè, appunto
«vera», ed è indifferente quale possa essere il suo particolare
contenuto. Ma vi si aggiunge però ancora il significato del contenuto
stesso. Non appena il contenuto della conoscenza in se stesso è
qualcosa di assoluto, si tratta dunque, poniamo, di norme o di idee, o
addirittura dell'Assoluto tout court, di Dio, allora tale
discrepanza aumenta ancora pure a partire dal contenuto.
Determinate indoli non riescono a vedere questa
sproporzione. La loro recettività a contesti di dati logici oggettivi
è tanto forte, rispettivamente la loro esi-
33
genza di vivezza esperienziale è così esigua che, alla
loro consapevolezza, quel resto sfugge ed esse suppongono di essere
assolutamente certe in termini effettivi, secondo l'atto. Esse erigono
la finzione di un soggetto logico astratto e privo di spessore iniziale,
che accolga contesti di dati oggettivo-logici e, senza altro, realizzi
evidenza logica. Ciò che esiste è il soggetto concreto, l'uomo
conoscente. Conoscere realmente significa farsi intcriormente
consapevoli, con l'atto concreto conoscente, del contenuto conoscitivo.
Ma ciò avviene nella misura in cui l'intensità con cui è compiuto
l'atto corrisponde al peso ontico del contenuto - colto con esattezza.
La misura di questa corrispondenza è essa soltanto l'autentica verità9.
L'atteggiamento conoscitivo più complesso che mira al
concreto non è suscettibile di quella apparente univocità. Esso
avverte la sproporzione, lo scarto. Dove si trova la soluzione?
Non appena ho fatto ciò che il pensiero può fare;
non appena la coscienza intellettuale mi dice che il
contesto di dati sia formalmente che materialmente è là in termini
ineccepibili; allora viene l'istante in cui il problema della conoscenza
non diviene più cosa del pensare oggettivo, ma di un atto più
profondo, cioè:
del superare l'inadeguatezza costitutiva dell'atto
conoscitivo quanto all'esattezza del conoscere; giungere
9. A tal proposito bisogna far notare particolarmente
che lutto questo non ha nulla affatto in comune con un
emozionalismo-psicologico della conoscenza, con una noetica
dell'esperienza vissuta [Eriebnis] o una vitaliz-zazione
pragmatica della verità. Si tratta solo di rendersi pienamente conto
del fatto che «conoscere» è un atto concreto con un significato
contenutistico universale, sovraconcreto; ma questo è legato a quello,
è posseduto intcriormente da esso; appunto «saputo». Conoscenza è
oggetto saputo. Qui importa tutta la conseguenza di quest'esser saputo.
34
ad arrestare, movendo dall'assolutezza oggettiva del
contesto di dati quale si è colto, quella soggettiva possibilità di
oscillazione, quella fluenza del sentimento della verità. Allora sono
al punto in cui non ricerco più, ma decido; non guardo più, ma
stabilisco: «Le cose in questo caso stanno così!». Io impegno me
stesso col mio onore, in quanto onore di questa persona umana che
conosce, sull'affermazione che le cose stanno così. Il più semplice
atto logico che coglie un contesto di dati, e lo esprime, viene
designato con la stessa parola con cui si indica la decisione d'un
giudice: il giudizio. Non v'è nessun puro rispecchiamen-to
dell'oggetto. Nel centro e cuore dell'atto noetico giace qualcosa di
più profondo: il pervenire a fermare la fluenza che deriva da quella
sproporzione; la delineazione in fermi contorni di quell'ultima
indeterminatezza costituzionale. Sarebbe però un fraintendimento
volontaristico vedere qui un «atto di volontà». In verità si tratta
di qualcosa di molto più profondo che di un «volere». E l'atto
elementare della persona, con cui essa si afferma contro il caos;
noeticamente, eticamente e criticamente al tempo stesso. La persona con
il suo essere vivo s'impegna a sostenere che quanto ha afferrato è
univocamente e realmente così. Ma, appunto ciò facendo, essa s'impegna
per se stessa. La frase: «Questo sta così» implica l'altra: «Io sono
così». È il principio di [non]* contraddizione «compiuto
at-tuosamente»: la forma elementare della fedeltà. Chi non la esercita
soggiace al caos.
* Satz vom Widerspnith: nell'uso italiano, in
un'ottica diversa riferita allo stesso principio, si è soliti
aggiungere il «non». Le parentesi quadre, dovunque ricorrano, indicano
aggiunte o integrazioni (specialmente per i rimandi biblici) del
traduttore (n.d.t.).
35
Un parallelo a questo sul piano del far proprio il
valore:
Io mi trovo di fronte a una situazione, cioè a un
complesso strutturato di persone, avvenimenti, rapporti dal quale una
compagine di valori si volge a me, ponendomi esigenze. Lo afferro, lo
penetro, lo pondero, e giungo al risultato: «Questo si deve fare.
Questo valore è, qui, quello richiesto, quello da realizzarsi. In ciò
io realizzo qui il bene». Così allora io decido: «Quest'esigenza è
il mio dovere». Con tale frase io riconosco, nel caso dell'esigenza di
valore che prima restava sospesa, il carattere categorico; il carattere
del dover essere. Essa ha l'assolutezza etica:
«Questo è il bene. Come assoluto lo si deve fare».
Ora, in corrispondenza del rapporto noetico sopra
delineato, si precisa: «può risultare indiscutibilmente chiaro che
questo valore è ciò che dovrebbe essere». Tuttavia il sentimento del
valore morale, la viva consapevolezza dell'obbligazione, la coscienza in
cui si salda il contatto della volontà con l'esigenza obiettiva,
possono ancora oscillare; di conseguenza anche decisione e azione
possono rimanere sospese. (La forma patologica di questa oscillazione è
lo scrupolo, così frequente. Esso viene caratterizzato dal fatto che
può essere presente in modo pieno e intero la visione giusta, come si
mostra subito quando l'interessato deve consigliare un'altra persona. Ma
la forza della realizzazione, la fermezza operativa del giudizio, la
definizione della risoluzione non corrispondono a quell'esattezza della
visione.) Questo vacillare nella percezione della validità e
dell'obbligazione, nel far propria l'esigenza derivano - in
corrispondenza a quello della certezza noetica prima considerato - non
da mancate
36
chiarezze in ciò che appartiene all'oggetto, non da
problemi di principio o da una confusa complicatezza della situazione
pratica, ma dalla circostanza che l'assolutezza del dover essere, in sé
constatata, non viene adeguatamente 'realizzata' nell'atto concreto di
esperire l'obbligazione e di far proprio il valore. E ancora una volta
sono una «decisione», un «giudizio», un atto di definizione che
viene dalla trascendenza della libertà, a risultare bloccati da
quell'oscillare10.
La stessa struttura ricorre in tutte quelle relazioni
con un oggetto, che poggiano su un atto di dedizione e abbandono, di
vincolamento della fedeltà, di legame assunto personalmente;
rifacendoci a una parola di sant'Agostino, le chiamiamo relazioni di
adesione. Vi sono legate in modo particolarmente stretto conoscenza
e valutazone; realizzazione di verità ed esperienza di valore
(apprezzamento). Vi rientra il rapporto sessuale con carattere
definitivo: il matrimonio. Vi appartiene il rapporto di simpatia e di
responsabilità consolidato in termini morali personali: l'amicizia.
Inoltre il rapporto, ugualmente definito, verso la totalità sociale, lo
Stato: il dovere civico-statuale. Del pari quello verso la creazione e
il lavoro: professione e servizio, e così via.
Vi appartiene anche, e precisamente come la realtà
suprema non solo nel grado, ma nella qualità, il rapporto verso Dio
corrispondente alla Rivelazione:
la fede, Yadhaerere Deo. Se per altro il rapporto
vuoi essere effettiva fede cristiana, a differenza di una me lo.
Di conseguenza la soluzione giusta, sia pedagogicamente che eticamente,
è sempre quella di giungere in qualche modo a una decisione. Quando
ciò non riesce con le forze proprie, allora aiuta una volontà
estranea, un'autorità.
37
ra
esperienza vissuta religiosa, o d'un'esperienza del valore religioso non
impegnativa, deve allora contenere l'aspetto della definizione. Dev'essere
fides; l'annodarsi di una relazione di fedeltà. Definitivo
vincola-mento della propria persona alla persona di Dio rivelante.
Definitivo accoglimento della verità rivelata di Dio nella propria
convinzione. Definitiva accetta-zione del bene rivelato di Dio come
contenuto della propria vita. Questa definitività è caratterizzata dal
fatto che rinunziarvi di volontà propria, anzi anche soltanto metterla
volontariamente in questione, non è solo, poniamo, errore o insicurezza
rispetto ai valori, ma peccato".
Questo rapporto di fede ora sperimenta quel logoramento
o estenuazione degli atti di vita realizzanti, e del fondamento vitale
portante, di cui si parlava prima. La fede come grazia, come l'essere
conosciuti e chiamati da Dio, come virtù teologale infusa, come
il-luminazione da parte del lumen fidei, la fede sta al di là di
tali cambiamenti. Ma il materiale umano, in cui tale appello è accolto
e gli si da risposta; il complesso delle strutture bio-psichiche
individuali e sociali, degli atti, delle competenze ecc., in cui si
esplica la virtù teologale, è celato entro le vicissitudini del tempo
- e qui del resto sta a sé il problema della misura in cui l'effetto
elevante e rassicurante del grande contesto credente della Chiesa, nella
Tradizione e nella comunità, mitighi quell'immersione e abbandono in
balìa, e crei una certa elevazione al di sopra del tempo.
11. Cfr. in proposito R. Guardini, Heilige Schrift
und Glaubenswissen-schaft, loc. cit (cfr. nota 2).
38
Questo poi avviene anche, di fatto, e lo si può
dimostrare. Ma qui non consideriamolo e cogliamo il problema nella sua
forma più acuta. Allora dobbiamo dire: nel rapporto di fede si trova
nella misura più alta quella tensione di cui abbiamo parlato sopra.
II credente sa di essere obbligato e di volere cogliere
e far proprio il patrimonio contenuto nel messaggio di Dio, il bene di
Dio, nel concreto atto di fede e negli atti della vita cristiana che vi
si fondano. È certo che sono i contenuti senz'altro assoluti;
«assoluti» per validità come per sostanza12. Dalla
Rivelazione è certo che la grazia lo abilita a prendere tali contenuti
con un'intensità e definitività divine: la fede, la speranza, l'amore
o carità stessi sono virtù «teologali», «infuse». Esse stesse, le
quali sono gli atti specifici con cui si fa proprio il dono di Dio che
si attua nella Rivelazione, sono d'origine divina. Il contenuto della
Rivelazione dev'essere fatto proprio con l'energia della fede,
dell'amore, della speranza elargita da Dio. Ma le due cose, contenuto
divino ed energia divina, devono essere «attuate» umanamente. La
grazia della fede e dell'amore deve in certo modo «incarnarsi» nella
consistenza umana concreta, corporea e spirituale, dell'atto. L'atto
così strutturato, soprannaturale e naturale, deve concretamente far
proprio quel contenuto divino, nella conoscenza, nella dedizione, nella
convinzione, nell'azione.
Ma qui risiede la sproporzione.
12. Non prendo in considerazione la distinzione che
risulta nell'uso della parola «assoluto» in questo e in quel caso: là
in un senso universalmente filosofico, qui in uno teologico.
39
Anzitutto: la forza di realizzazione umano-concreta, la
capacità di appropriazione, l'intensità dell'esperienza della verità,
dell'esperire vitalmente il valore e via dicendo, stanno in un rapporto
essenzialmente inadeguato tanto rispetto al contenuto come anche al
nucleo soprannaturale d'atto della relazione di fede e d'amore. Infatti
l'uomo, con la sua potenza sempre finita, rimarrà sempre e
necessariamente tanto al di sotto della ricchezza assoluta di contenuto
e di significato della Rivelazione, quanto dell'energia divina propria
della grazia della fede e dell'amore. Questa sproporzione esiste sempre;
viene anche sperimentata sempre, in qualche modo. Ma poi: l'uomo
dell'epoca moderna non la vive solo nella misura in cui essa è
essenzialmente umana, data con l'incommensurabilità che sussiste in
assoluto tra Dio e la creatura; ma sente ancora una insufficienza
particolare, condizionata dal tempo, la quale in sé non dovrebbe
esistere, e le cui ragioni stanno in quell'effetto indebolente sia della
riflessione che dell'angustia e difficoltà a proposito del valore.
Così quest'uomo si trova in una condizione dell'energia
psicologica della fede che è costitutivamente indebolita - sottolineo:
dell'energia d'atto psicologica, controllabile sperimentalmente. La
grazia della fede in sé non ne è toccata. Nemmeno la «prestazione»
religiosa; l'opera della fede come via verso la salvezza;
tutte cose che possono essere addirittura più forti che
nell'atteggiamento di fede psicologicamente integro. -
Quest'indebolimento viene a torto designato con la parola «dubbio»; a
meno che si parli di un dubbio costituzionale a differenza di un
«dubbio come atto». Esso accentua però tutti gli spunti reali di
40
dubbio, il cui contenuto sia afferrabile; quindi tutte
le varie questioni di fede, quali scaturiscono dalla problematica
storica, psicologica, filosofica. Si potrebbe dire che tale
indebolimento rappresenti una affinità a qualsiasi possibile dubbio;
una sagacia nell'avvenire una difficoltà dovunque si annidi; una
tendenza sempre vigile a sottolineare in tutte le questioni di fede
l'elemento negativo e a conferirgli una forza distruttiva, che
altrimenti esso non avrebbe avuto.
Questa intima, chiamiamola inadeguatezza di fede, è
distinta dai dubbi concreti ed è diversa la difficoltà di dominarla,
rispetto a quanto avviene per tutti i dubbi. A questi cioè esiste una
risposta, almeno teoricamente possibile. Possono essere risolti, o
almeno si può dire perché non si possono risolvere. Il pensiero può
riportarli a una antinomia, che invero non può essere più dissella, ma
può comunque essere compresa nel suo significato. Quella inadeguatezza
di fede però non può essere in assoluto «risolta», ma solo
sostenuta, sopportata. E superata, meglio: guarita. Certo, come
situazione complessiva, solo in un lontano futuro. Quando avremo
superato l'epoca moderna. Quando l'uomo che ha perduto l'ingenuità
della fede medievale e ora già da lungo tratto cammina attraverso la
riflessione, acquisterà stabilità di fronte ad essa. Quando sarà
realmente divenuto maggiorenne;
anche sul piano religioso. Quando la sua fede avrà
acquisito proprietà che ci è dato il compito di raggiungere al posto
dell'entusiasmo di fede, di freschezza giovanile, che è andato perduto:
il carattere nella fede. Quando in maturità e indipendenza personale,
la viva energia d'atto si sarà consolidata in una fermezza che, al
livello dell'adulto disincantato, corrisponde a
41
quell'intensità che possedeva, al proprio livello, la
fede giovanile.
E allora: vive in profondo nella nostra epoca una
speranza in una Pentecoste. Paolo dice: i carismi sono necessari, quando
si tratta di portare la fede. Lo saranno anche quando l'anima getterà
il suo grido dal deserto, dall'aridità e dalla debolezza di fede:
«A tè protendo le mie mani, sono davanti a tè come
una terra riarsa» [Sai 142 (143), 6]
Fino a quel momento non resterà altro che sopportare
questa situazione. Reggere fino a che essa porti i suoi frutti.
È però una situazione che sembra strutturarsi nel modo
seguente:
Per qualche strada, con la ricerca o con l'esperienza
vissuta, prevalentemente con sforzo personale o con la mediazione di
persone che ne hanno l'autorevolezza, o comunque altrimenti, sono giunto
a vedere: «Qui parla Dio». Sono convinto: «Egli mi parla dalla Chiesa
attuale, in cui il Cristo vivo è contemporaneo a me». Ora, quale
carattere ha questa affermazione: «sono giunto a vedere»? Questa
assicurazione:
«sono convinto»? Mediante quella paradossale funzione
della facoltà conoscitiva, con la quale posso afferrare l'oggetto
obiettivamente, anche quando l'attuazione viva, l'esperire vitalmente il
contenuto oggettivo, il farlo proprio non tengono dietro pienamente, io
colgo, dalla figura che mi sta dinanzi, dalla configurazione comunitaria
che ho davanti, da questi determinati eventi storici, contesti
dottrinali, struttura di valori, ordinamenti di vita, o comunque si
possa caratterizzare l'elemento cristiano oggettivo, da ciò io mi rendo
42
conto che qui, obiettivamente, parla quella realtà di
Dio. Mi convinco che io qui devo compiere la viva adesione di fede, la
viva assimilazione del contenuto di fede. Soltanto, devo dire, questo
patrimonio il quale mi viene incontro non mi sopraffa. A rigore, in
verità, tale «sopraffazione» non avviene. Ma rientra nell'essenza di
questa situazione il fatto che chiaramente e con dolore si abbia
coscienza: la verità non sopraffa. L'intensità con cui mi rendo
consapevole di quella realtà e del suo contenuto, si trova non soltanto
nel rapporto di sproporzione sempre presente tra energia umana di
appropriazione e oggetto divino, ma, per di più, in quella relazione di
sproporzione condizionata dal tempo sopra delineata, tra la forza
d'attuazione indebolita e il contenuto eterno che esige l'attuazione. Si
apre una spaccatura tra forza e contenuto dell'atto; e questa spaccatura
rimane, e resta avvertita profondamente. Si potrebbe esprimere questa
situazione con la variazione d'una frase, che s'è detta, di Newman:
«Sappiamo come sarebbe se noi credessimo con un'energia d'attuazione
non indebolita. Desidereremmo che fosse così. Ma non lo è». L'atto di
fede concreto è povero di pienezza esperienziale; è tenue quanto a
intensità d'esperienza vissuta. C'è da essere sconfortati quando
confrontiamo il modo in cui noi sperimentiamo il nostro essere cristiani
con quello che viene descritto nel Nuovo Testamento! Quale povertà! E
tuttavia: la fede di cui oggi ci è dato il compito, nonostante tutta la
sua povertà, è fede reale; e il nostro sguardo non deve volgersi
addietro, ma in avanti. Nell'atto di fede v'è la circostanza che noi in
virtù d'essa siamo in grado di camminare come su una sottile cresta,
accanto agli abissi dei problemi,
43
al di sopra del vortice del mutarsi del sentimento della
vita e del rapporto col mondo. Qualcosa di impercettibilmente fine; un
nulla apparentemente per l'osservazione psicologica; e tuttavia là,
fisso, ma con elasticità... Che qui forse stia qualcosa di spirituale
in senso vero e proprio? Che in qualche modo si sottrae alla percezione
psicologica? O qualcosa di spirituale nel senso 'pneumatico'*, che si
esprime in ciò che è accentuatamente 'spirituale' e pertanto non
giunge a farsi valere in modo giusto sul piano psicologico? Così
sarebbe errato se noi, nel pàthos di uno slancio del pensiero, o
nell'ebrezza d'un'esperienza vissuta, ci gettassimo al di sopra e al di
là di questa difficoltà. Dobbiamo invece ammettere queste
insufficienze. Ammettiamo il fatto che è tanto scarso ciò che rende
facile la fede. Non ci trasporta entro di essa. Il contenuto di fede non
ci sopraffa; e dobbiamo rinunciare a questa sopraffazione, a questo
travolgimento. L'atto della fede e il far progressivamente propri
contenuti di fede non vengono sostenuti dall'esperienza beatificante
dell'attuazione realizzata con energia integra, non indebolita, quindi,
dall'«esperienza vissuta di fede» nel senso particolare della parola.
Si è cominciato a parlare dell'esperienza vissuta {Eriebnis)
quando s'è fatto chiaro che il vigore d'essa andava recedendo.
La fede per noi è anzitutto e essenzialmente come Paolo
la definisce: obbedienza. Noi ci rendiamo conto: la voce che esige
chiama da fuori. Noi compiamo l'atto d'obbedienza e lo teniamo fermo.
Noi varchia-
* L'autore raddoppia Geistliches, che può avere
significato naturale, con Pneumalisches, che lo precisa nel senso
dello Pneuma, dello Spirito Santo (n.d.t.}.
44
mo la soglia con l'intenzione d'annodare un rapporto di
fedeltà personale, e con l'accogliere il contenuto divino. Mentre ciò
avviene, però, nel compiere l'atto quella inadeguatezza permane. Così
resta un dato costante che noi siamo necessitati a esigere sempre di
nuovo da noi stessi quell'obbedienza. Ciò che abbiamo chiamato
nell'esempio sopra esposto, tratto dalla logica, il portare a un arresto
la fluida inadeguatezza della conoscenza, l'atto personale del
«giudizio» - qui ritorna su un piano più elevato. Noi dobbiamo sempre
di nuovo arrestare quel «dubbio di fede» costituzionale, quella
insicurezza intcriore, movendo dall'obbedien-za di fede. Così la fede
ha in modo particolare il carattere della disciplina; dell'imposizione
d'un rigore;
della lotta; del superamento. Nell'obbedienza e per
fedeltà, nell'atto deìVadhaesio, l'io dev'essere continuamente
proiettato oltre, là donde viene la voce che chiama; per così dire poi
l'essere vivente dev'essere trascinato dietro, esso che passa solo
esitando e con incertezza sul ponte. Sarebbe molto a buon mercato voler
interpretare questa situazione di fatto nel senso che ora bisogni
rinunciare all'aspirazione a una «fede viva», a un «cattolicesimo
della vita e della pienezza», e risolversi a un «cattolicesimo del
rigore imposto», per poi comparare questo «cattolicesimo del rigore
imposto» con le vecchie psicologie e metodi, consueti prima della
crisi! Sarebbe a buon mercato, e molto pericoloso, si potrebbe dire
molto in proposito. Si tratta invece di fronteggiare questa realtà e le
obbli-gazioni assunte parlando, scrivendo e agendo. Si tratta di portare
avanti autenticamente i problemi visibili nella volontà di vitalità
cattolica! Quando non li si vedrà e non si renderà loro giustizia, non
avremo ere-
45
sie. No, questo no, ma qualcosa di peggio: il tacito
rifiuto di venire [alla fede]. Non lo si nota. Non si fa rimarcare in
convegni e in occasione di grandi dimostrazioni. Ma di fronte a Dio
esiste. Che sia così si deve vedere e ammettere. Non dovremmo prendere
il criterio di misura della fede da un'altra epoca. Non dovremmo
equiparare la fede in senso puro e semplice, come atto fondamentale
salvifico, con la credulità, per esempio, del medioevo, o col periodo,
colmo di carismi, del cristianesimo primitivo. Non dovremmo equiparare
la sua inadeguatezza costituzionale con il concetto teologico del
«dubbio»; o col concetto pastorale della «freddezza di fede» moderna
- perché in tal modo allora quell'inadeguatezza sarebbe senz'altro
eguagliata a peccato, e sorgerebbe il dovere di eliminarla. Ne nasce un'intcriore
situazione di coazione, una mancanza di verità. Quella insicurezza
costituzionale viene rimossa con violenza, sotto la pressione della
coscienza. Si suggerisce una forma di certezza che non può essere
genuina, solo qualcosa di artificioso. Ma la realtà rimossa mina
l'intera persona. Va preparando una rivolta segreta, ed ecco, un bei
giorno, tutto è dileguato. L'uomo si ritrova là vuoto.
Dobbiamo ammettere ciò che esiste.
Ancora di più: dobbiamo vedere quanto di grande in tale
processo vuoi nascere: il compito possente di un atteggiamento di fede
passato attraverso la riflessione.
IV
Attraverso tutti questi aspetti la fede dell'uomo
moderno acquista un che di peculiarmente forzato.
46
Gli manca ciò che potremmo chiamare la naturalezza
infantile, l'immediatezza fiduciosa della fede. Questa fede è
laboriosa. Ed è una fatica che nell'essenziale non diviene più agevole
quando il credente matura. Al contrario: questa fatica della fede è
caratterizzata dalla coscienza del suo permanere. In ore particolari
può essere superata di slancio; ma nel complesso persiste.
Onde la profonda nostalgia del nostro tempo verso una
Pentecoste: la profonda aspirazione al carisma. Un'aspirazione che dalla
teologia della esperienza vissuta è stata psicologizzata. In verità si
tratta nel caso d'essa di qualcosa di molto più profondo:
dell'aspirazione che all'anima, nella virtù dello Pneuma di Cristo, sia
consentito che si dia una capacità di attuazione con cui essa possa
'realizzare' quei contenuti divini - che sa essere veri e che si sforza
costantemente nell'obbedienza della fede di attuare in modo vivo -con
una corrispondenza anche solo un poco maggiore! È quindi sintomatico
che quell'uomo, Newman, il quale ha sperimentato il problema della fede
faticosa come a malapena l'hanno sperimentato altri scrittori di
teologia, quell'uomo che ha definito la fede come la capacità di
reggere a quella inadeguatezza con un permanente sforzo per obbedire
parli continuamente di «realizzare» i contenuti di fede; quindi
dell'energia per attuare anche in modo vivo ciò che vien tenuto fermo
come vero.
Quindi questa fede ha anche una serietà austera. Ora
noi non abbiamo affatto la letizia di fede dei tempi passati. La
bramiamo; anzi, forse al modo in
47
cui si ha nostalgia della propria fanciullezza. Tuttavia
sentiamo che altro ci è stato assegnato. E in fondo non vogliamo
assolutamente scaricarci di ciò che ci è stato addossato, perché è
grande.
Ciò non significa che noi non possiamo essere lieti
della nostra fede. Conosce momenti di profonda e pura gioiosità. Ma
anch'essa è sempre austera. La nostra fede è molto seria. Ha la
serietà di tutta la nostra epoca. Ed è bene così. Non dovremmo
lasciar determinare l'immagine della nostra epoca da quelle anteriori.
La nostra ha la stessa dignità. E una fede - in quelle ore-in cui la
realizziamo in modo puro, la sentiamo all'altezza della realtà attuale;
all'altezza della macchina. Non ha bisogno delle forme e degli
ordinamenti organici della terra non toccata dalla tecnica. Non ha
bisogno di ripararsi in camere blindate fuggendo dalle sedi
dell'industria e dalla dinamica del traffico moderno. Appunto perché
vive così forzata; appunto perché si è indurita nel reggere
permanentemente a quel dubbio - proprio perciò è all'altezza del
nostro tempo. All'altezza di ciò che ci attornia e crea. Pertanto essa
ha ancora un tratto ulteriore: aspira alla forma di vita semplice. La
pienezza sorgiva, la ricchezza di forme di tempi anteriori non possiamo
più realizzarla! Nemmeno lo vogliamo. Davanti alla ricchezza del
medioevo ci sentiamo poveri. Poveri anche davanti alla, si direbbe
quasi, dionisiaca pienezza di fede del barocco. Ma noi amiamo la nostra
povertà. Nel suo rigore sta una purezza dello spirito. Nelle chiese
cerchiamo spazio semplice, forma chiara; schiettezza del colore e della
materia. Questo non è solo senso dello stile. Non solo bisogno di
autentica espressione di struttura e funzione. Significa
48
qualcosa di molto più profondo. E un'espressione
dell'onestà e dell'interna angustia al tempo stesso; la volontà di
sostenere fino all'ultimo la lotta per la fede, che ci è affidata, sul
piano più semplice. Sul piano dove valori, realtà, ordinamenti si
presentano in una essenzialità trasparente, delineata con chiari
contorni, affrancata da tutto il superfluo.
Tutto ciò ci suggerisce una parola: quella dello
Spirito. In senso particolare diviene «spirituale» la nostra fede. Con
ciò non si è fatta rinuncia a ciò che prima venne detto sulla forma
umana, quindi corporeo-spirituale, dell'atteggiamento della religione
cattolica. E tuttavia, paragonata con la pienezza di sensibilità
d'animo, con la zampillante intimità di sentimento e profondità
psichica dell'antica vita di fede, la fede che a noi è richiesto di
avere ha un carattere particolare di spiritualità: riflessione,
nettezza del pensare, sobrietà nella visione del problema, serietà
della decisione, fedeltà del vincolo personale, disciplina e lavoro
quotidiano dell'obbedienza - da queste cose è determinata la nostra
fede.
Non è solo il mondo naturale a essere «disincantato»;
lo è anche quello cristiano. Ed è questa la prova che ci è affidato
il compito di cogliere e vivere: il soprannaturale, rivelazione e
grazia, è qualcosa d'altro dall'incanto d'una piena di fantasia e di
sensibilità d'animo precritiche. In un mondo svuotato di illusione e
poesia una fede romantica non può vivere; ma certo lo può una
cristiana. Essa può essere di per sé sobria, e poi tanto più
fortemente si innalzerà nella sua soprannaturalità.
Forza dello spirito, limpidezza e interiorità dello
spirito, coraggio di osare e forza del persistere nella
49
disciplina e nell'ordine: sono le forze di cui deve
vivere la nostra fede.
Ciò non significa rassegnazione, ma verità. E siamo
convinti: gradualmente quella tensione, che nel momento attuale è quasi
innaturale, tra contenuto di fede e forza dell'atto, che deve
necessariamente trovare la sua espressione in un atteggiamento di fede
così aspro, quasi si vorrebbe dire scettico - questa tensione
lentamente in una certa misura si mitigherà. Le energie d'atto si
rafforzeranno su un nuovo piano, Qui stanno problemi
dell'interpretazione della nostra evoluzione culturale, delle finalità
che ci poniamo, del lavoro di formazione, che ora non possiamo spiegare:
tutto ciò che si può chiamare dottrina operativa della fede, dottrina
operativa della preghiera e della vita intcriore; in connessione con una
dottrina operativa dello spirituale in genere, non solo nell'ambito
religioso.
Non pensiamo tuttavia che le possibilità di
realizzazione della fede, quali ebbero medioevo e barocco, siano il
culmino supremo. Ve ne sono ancora; forse più elevate, quelle comunque
che si trovano sulla nostra strada. Abbiamo il presagio di un fervore,
di una profondità e una forza di superamento della fede -almeno grandi
altrettanto quanto quelle del medioevo, naturalmente di un colorito
psichico del tutto diverso. Più grandi però in quanto non hanno più
una copia di appoggi che quella fede possedeva. Una forza di fede che
come tale possiede una risolutezza corrispondente a quella che
contraddistingue la tecnica moderna, nell'ambito del pensiero della
moderna volontà di conoscere, in quello del creare, del conquistare,
del dominare.
50
Ma tutto ciò è futuro. E quanto è negativo un
romanticismo volto all'indietro, che cerca di imitare l'organicità
della fede medioevale, o persino rinuncia a ciò che gli è proprio, di
fronte alla pienezza medioevale, e si dichiara andato a fondo -
altrettanto romantico sarebbe un utopismo della fede che, presentando le
cose in maniera fantasiosa, si volesse convincere d'avere una forza di
fede «tecnica», che in verità non esiste.
Ciò che a noi rimane assegnato è di perseverare
nell'obbedienza di quella fede, la cui prestazione permanente consiste
nel «sostenere il dubbio».
51
CAPITOLO SECONDO ESPERIENZA RELIGIOSA E FEDE
Anzitutto: che cos'è l'elemento religioso? Ponendo
questa domanda non pensiamo ancora al cristianesimo e alla Chiesa, ma a
quelle rappresentazioni e ai quei simboli, a quei modi di comportamento
e a quelle intuizioni peculiari che troviamo dappertutto nel corso della
storia e che, a differenza della vita economica, del diritto, dell'arte
e via dicendo, chiamiamo «religione»'.
La vita religiosa sembra derivare da due fonti.
Anzitutto da un modo particolare d'esser toccati dall'esistenza*.
L'esistenza - si prenda l'espressione nel suo senso più complessivo -
contiene cose, esseri viventi, persone, avvenimenti, ordinamenti. Tutto
ciò
1. Per tutto l'argomento cfr. gli scritti di R. Otto,
specialmente: Dos Htilige, Bresiau 1917 I3 ed. (tr.
it. di E. Buonaiuti, Ilsacro, Bologna 1926;
Milano 19813) e Dos Gefuhi des
Uberweltlichen, Mùnchen 1932; W.F. Otto, Die Gotler
Griechenlands (1929; tr. it. G/i dèi della Grecia, Firenze
19682); L. Lévy-BruhI, La mentalité primitive, Paris
1925 (tr. it. La mentalità primitiva, Torino 19814) e
L'àme primitive, Paris 1927 (tr. it L'anima primitiva,
Torino 1948); D. Van Der Leeuw, Phanomenologie der Religion,
Tùbingen 1933;
19562 (tr. it Fenomenologia della
religione, Torino 19752); R. Guardini, Religion und
Ojfenbarung, Wùrzburg 1958.
* Dasein: come scrive subito dopo l'Autore, non
ha qui il senso particolare assunto nel pensiero di M. Heidegger
(l"esserd' dell'uowio), ma un significato generico, quale
riceve nel linguaggio comune (n.d.t.).
53
ha le sue diverse proprietà, dell'essere e del
rapportarsi, quali sono colte nell'esperienza; le sue leggi, quali
vengono stabilite dalla scienza. Costituisce un contesto in sé
concluso, «il mondo», con i suoi diversi ambiti; articolato in
superiore e interno, essenza ed espressione, causa ed effetto, fine e
mezzo, totalità e singolarità, in ordine gerarchico del valore, scopi
degli avvenimenti ecc. L'uomo coglie questo mondo come configurazione
d'essenza e di senso e cerca di comprenderlo. Lo sperimenta vivendolo
come resistenza e cerca di superarlo e di signoreggiarlo. Riconosce in
esso esigenze - soddisfare o non soddisfare le quali determina il senso
della sua esistenza, morali, culturali - e si sforza di dar loro
adempimento.
Al di fuori di tutto questo, però, l'uomo incontra
nella realtà del mondo o in rapporto a essa ancora un'altra qualità,
un valore, un'essenzialità, un'esigenza. Di regola essa emerge in
relazione alle restanti determinazioni del mondo esterno o intcriore,
viene sostenuta da esse, si rileva da esse. In certo modo come un
carattere peculiare relativo all'essere in genere; al fatto che in
genere qualcosa sia, che sia così [come è], che abbia tale potenza,
abbia limiti, sia condizionato, soggetto a pericoli ... O come una
determinatezza concernente i singoli fenomeni nell'ambito di questo
essere del mondo: poniamo l'ampiezza dello spazio, la grandezza e il
numero dei corpi celesti, i ritmi del tempo, della luce, dell'attuarsi
della vita; la solitudine delle steppe e l'oscurità dei boschi;
fenomeni dell'esistenza umana come nascita e morte, rapporto tra i
sessi, sonno e risveglio; pericolo, morte, ordine e disordine dello
Stato, della res publica; determinate creazioni come edifici,
opere figurative, canti, simbo-
54
li; particolari personalità umane e loro rapporti;
disposizioni del destino...
Questa qualità può affiorare in rapporto a tutte le
determinazioni dell'esistenza e collegarsi con esse. Conferisce loro una
particolare vigoria e potenza, elevatezza, terribilità - ma anche una
particolare vicinanza e profondità, qualcosa che tocca nell'intimo, che
attira, che eccita, che ricolma. Emerge in rapporto alla sostanza del
mondo, alle cose ed eventi dell'esistenza; ma allo stesso tempo risulta
chiaro che non è ne identica, ne vincolata ad essi. Anzi, porta chi la
esperisce in una peculiare tensione con le cose e i fenomeni,
relativamente ai quali essa affiora, e fa sì che tale persona li
avverta come inautentici. La qualità di cui parliamo ha la
particolarità di distogliere dalle cose. Essa non viene dall'immediato
contesto del nascere o sorgere e venir meno della realtà fisica,
biologica, psicologica, come altrimenti avviene per le proprietà
dell'essere, ma da altrove - e chiama verso altra dirczione: là, donde
viene.
È la qualità religiosa. La si è descritta come il
misterioso, il meraviglioso, il numinoso, il sacro; l'eterogeneo, il
non-terreno, il sovra-mondano, l'ignoto. Le connotazioni negative nella
serie enumerata contengono manifestamente negazioni di tipo particolare.
Non dicono puramente e semplicemente «no» in rapporto a ciò che viene
designato come «mondo» e di cui si parla di caso in caso. Non
quest'apparato qui, come oggetto afferrabile; non quest'edificio davanti
a me come struttura composta di pietra e legno; non, questa persona
umana nella sua consistenza biologica e psichica; non questo arcobaleno
come fenomeno atmosferico. Al tempo stesso però significando un qual-
55
che cosa che, caratterizzato in modo preciso, si trova
nella coscienza ed è «ignoto» solo perché non può essere espresso
con gli altri contenuti di esperienza.
Anche l'organo con cui è esperito è stato designato in
modi diversi: sentimento religioso, animw*, anima, cuore,
coscienza (morale). Queste denominazioni hanno in sé alcunché di
fluttuante. Ciò che esse vogliono indicare è strutturato diversamente
dagli organi e dagli atti specifici della vita spiritualmente definita
in altre dimensioni: intelletto, intuizione, percezione contemplativa (Anschauung),
volontà, forza dell'ordine, del dar forma, ecc. È più universale,
più difficile da isolare. È più una vibrazione, una tensione della
vita nel suo complesso, che un atto particolare. Può congiungersi con
tutti gli atti particolari - così come la qualità religiosa oggettiva
può congiungersi con tutte le proprietà degli elementi del mondo,
così che possiamo parlare di dottrine, immagini, comandamenti,
istituzioni, edifici sacri ... Così sorgono il pensare, il considerare,
l'agire, il lottare, il creare religiosi. L'organo religioso non è
neppure limitato al fattore spirituale soltanto, anzi, oltre alle
funzioni «intellettuali», sono partecipi dell'esperienza religiosa
anche quelle emozionali e corporee. Pertanto giungiamo al risultato di
agganciare la potenza [o facoltà] che regge l'esperienza religiosa
all'essenza complessiva dell'uomo: in una particolare recettività
dell'uomo, nella sua interezza, all'appello di quella qualità numinosa,
che, per parte sua, può emergere a ogni singolo momento, come pure in
rapporto alla totalità del mondo e dell'esistenza umana.
* Gemili nell'originale, parola polivalente e di
difficile traduzione: t l'animo, o anche ["umore', l'indole', il 'temperamento',
il 'cuore' (n.d.t.).
56
Il rapporto «centro d'esperienza religiosa - qualità
religiosa dell'esistenza» ha, come le altre relazioni fondamentali,
anche il «nucleo categoriale». Come nel conoscere, nel volere morale e
nei vari ambiti dell'agire e del creare, così anche nella relazione
religiosa v'è un valore specifico, una significanza valida per
l'esistenza. Si è espresso questo valore religioso di fondo con il
concetto - inteso in senso generale - del «sacro». Il senso
dell'esistenza dipende dalla condizione che gli sia tributato quanto gli
spetta, come dalla posizione che si assume verso i valori della verità
e del bene.
Il nome accenna anche alla dirczione, nella quale si
pone il significato dell'elemento religioso: ciò che ha in se stesso
quella sorta particolare di validità non terrena, «sacro» [o
«santo», heilig], è anche ciò che da salvezza, che sana e
guarisce*. Che cosa dev'essere risanato? E guarito da che cosa? Che cosa
deve ricevere salvezza? E quale salvezza? Il tipo delle designazioni
già di per sé da indizio di che cosa si tratti qui: non di particolari
atti spirituali e del loro senso, ma della stessa esistenza umana, come
totalità e in senso puro e semplice. Dev'essere guarita da malattia,
riscattata dalla morte.
Ma ciò non basta ancora; vi rientra ancora la persona
con il suo essere rapportata all'eternità e, soprattutto, l'«Altro»,
il fattore religioso. L'esistenza umana dev'essere guarita e salvata
dalla malattia -mediante il rapporto col sacro; dalla morte - mediante
il rapporto col numinoso. Diciamo dunque: dalla
* Gioco di parole tra heilig («santo» o
«sacro»), Heil («salvezza») e hei-kn («sanare»,
«guarire») (n.d.t.).
57
«perdizione». Deve ricevere un senso esistenziale
sacro; «salvezza eterna», «vita etema» - nel qual caso «etemo» non
significa in primo luogo la durata, ma la particolare maniera di
esistere del sacro. Tutto ciò si compie nella partecipazione al
«sacro», attraverso la conoscenza, l'esser toccati, l'assimilazione
per amore, e ora si dovrebbero nominare le varie forme della
realizzazione del valore religioso, che si costruiscono sugli atti del
conoscere, del volere, del sentire; che si attuano in processi del
cambiamento dell'orientamento spirituale, della purificazione e del
raccoglimento della vita intcriore; nei momenti in cui l'interiorità
apre una breccia e si trasforma; nello sforzo di far dominare la
religione nella vita e via dicendo.
Il rapporto con l'esperienza presentato, tuttavia, non
basta ancora da solo a fondare l'intero fenomeno del comportamento
religioso e delle configurazioni che ne scaturiscono - le «religioni».
A questa prima «fonte» se ne aggiunge ancora un'altra.
All'«esperien-za» deve aggiungersi ancora lo «sforzo
dell'esistenza». Con questo termine designiamo tutte quelle fatiche del
pensare e del rappresentare, dell'esperienza del valore e della
decisione di volontà, del lavoro che ordina e crea, le quali si
dirigono verso il reperimento e l'attuazione del senso dell'esistenza.
La pura e semplice esperienza religiosa rimane muta, informe, infeconda,
anzi può opprimere e distruggere, se non entra in collegamento con i
vari ambiti significanti della vita e con il lavoro che lotta per
illuminarli.
Così per esempio v'è l'esperienza di quel momento
religioso che si trova nell'origine. Viene sentito dietro il risveglio
al mattino, dietro la nascita, dietro
58
il sorgere delle cose in genere: come quel mistero, «da
cui tutto proviene». Da sola, però, quest'esperienza porta solo a una
muta venerazione o al senso d'essere colmati. A sua volta,
l'interrogativo soltanto intellettuale sull'origine delle cose sfocia
nella risposta semplicemente scientifica o filosofica, che lascia uno
spazio vuoto. Non tuttavia per il fatto che nella serie degli effetti e
delle cause conosciuti rimanga una lacuna, ma perché la serie, per
quanto completa sia, come totalità non basta. Infatti l'interrogativo
sul «donde» a priori ha diversi strati. Dopo che è stato detto
tutto quanto si può dire partendo dalla comprensione diretta del mondo,
l'interrogativo continua a sussistere, perché in esso si annuncia lo
strato religioso. Esso si acquieta solo quando con l'immagine
intellettuale si congiunge l'esperienza religiosa - in forma
indipendente o in quella di un processo che si attua in concomitanza.
Solo allora nasce un fenomeno religioso pieno: l'esperienza dell'origine
religiosa, messa in moto e illuminata mediante il sussidio della
problematica di pensiero, espressa nelle sacre dottrine sull'origine del
mondo e dell'esistenza individuale, nelle consacrazioni cultuali del
mattino e della nascita, nei simboli del farsi nuovi. Parimenti non
pervengono a rispondere al problema del senso degli avvenimenti sviluppi
di pensiero puramente storici o sociologici, poiché il complesso degli
eventi contiene uno strato con cui queste considerazioni non sono in
assoluto correlate. La risposta vera e propria viene solo quando il quid
religioso, che si esprime negli accadimenti storici e nelle
configurazioni sociologiche, il mistero dello svolgersi della vita,
quello che di incomprensibile in concetti, e tuttavia colmante, v'è
nella corrente
59
dell'esistenza, vengono sperimentati in maniera
credibile. Allora la riflessione razionale si collega con
quest'esperienza, sorgono le diverse forme del mito, della fede in una
guida degli eventi, in una rimunerazione, in un giudizio ... Si
dovrebbero fare considerazioni corrispondenti sulla sofferenza, sulla
morte, sul peccato e così via.
Tuttavia anche per gli ambiti oggettuali del mondo vale
un ragionamento corrispondente. Che cos'è per esempio la luce? Il
cielo? La zona «superiore» del mondo a differenza di quella inferiore?
Risposte di carattere astronomico non esauriscono l'interrogativo,
poiché esso è orientale a più di quanto quelle possono dare. La
ricerca di questo «più» si calma solo quando dal citato ambito
d'essere emergono particolari esperienze religiose; nel caso del
fenomeno fisiopsichico della luce, perviene alla condizione di «dato»
la chiarezza numinosa, entra in rapporto con le considerazioni naturali,
e così si enuclea il fatto propriamente religioso della «luce sacra»,
dell'altezza sovrana, della volta del ciclo che esercita la sua potenza
... Di contro quell'ambito d'essere e di significato, che è espresso
dai fenomeni della profondità, dell'occultez-za, della notte; del sonno
e della morte, della fecondità e al tempo stesso dell'orrore della
terra ... O anche solo quella realtà misteriosa, che si chiama 'albero'.
Già il fatto di esser sentito come misterioso, indica Io strato
particolare che risiede in questo interrogativo. Una indagine intesa in
modo puramente intellettuale sull'essenza dell'albero non sarà mai
rapportata all'impressione della misteriosità. Non è solo un errore,
ma una superficialità quella del positivismo quando prende la
sensazione della misteriosità come
60
espressione della circostanza che il dato di fatto
scientifico non è ancora chiaro. Da sola, una situazione og-gettiva
scientifica non ancora vista in profondità, non significa mai
«mistero», ma «problema». Quella del mistero è una sensazione
specifica; essa fa presagire la zona religiosa e non scompare con la
risposta scientifica - cioè, può anche scomparire; non però perché
abbia trovato la sua soluzione legittima, ma perché è morta sotto il
dominio della pura razionalità. Ma ciò è tutt'altro che un guadagno.
Nel problema sull'essenza dell'essere; più esattamente
nell'interrogativo su che cosa sia il fatto che io sia, esista, e
attorno a me esista qualcosa, si cela uno strato religioso. Solo quando
l'autentica esperienza religiosa gli da quanto lo soddisfa,
l'interrogazione si acquieta. Solo movendo dall'esperienza religiosa
l'applicazione intellettuale che si sforza volgendosi ai diversi ambiti
della realtà e configurazioni del significato dell'esistenza ne
consegue la sua ultima dimensione di profondità - così come, da parte
sua, l'esperienza religiosa si sviluppa e si fa feconda soltanto in
contatto con quelle regioni dell'essere e con l'aiuto della ricerca
scientifica naturale.
Ciò che si è detto dell'«interrogarsi», cioè del
ricercare «verità», vale però anche dell'aspirazione che tende alla
libertà, allo sviluppo morale, all'ordine e al diritto alla felicità,
alla pienezza personale da raggiungere. Senza l'esperienza religiosa in
tutto questo resta uno spazio vuoto, una inquietudine, un'inautenticità.
Solo a partire da essa trova compimento il fenomeno dell'«attivo
aspirare» umano e delle sue «conquiste». Ma viceversa: senza il
dispiegamento rapportato al mondo; senza ciò che chiamiamo «cultura»,
quindi
61
sforzo intellettuale, assiologico, di carattere
simbolico, pratico, creativo, l'esperienza religiosa rimane serrata,
muta, infeconda. Anzi, può divenire pericolosa, angustiare, assumere il
carattere dello scongiuro, distruggere.
II
Ora chiediamoci quali ripercussioni storiche ha avuto
l'esperienza religiosa. Come l'atto stesso dell'esperienza s'è
sviluppato e si è collegato con gli sforzi per conquistare l'esistenza;
come è stato inteso il pensare, partendo da essa; e quali risultati
(religioni) sono scaturiti dalla sua interpretazione.
Io cerco di dare la risposta mediante uno schema adatto
a conferire in se stesso un ordine ai risultati della ricerca di scienza
delle religioni.
Al principio - il quale ancora adesso, sebbene coinvolto
in un rapido processo di inaridimento, è constatarle presso i popoli
«primitivi» - v'è una situazione religiosa, che viene interpretata da
due teorie in lotta tra di loro, quella del mano e quella
«animistica».
La prima sostiene che il primo stadio sia una coscienza
intensiva di una potenza religiosa dominante, di un'energia numinosa che
scorre attraverso ogni cosa. Quindi ancora nessuna rappresentazione di
dèi o di esseri superiori, ma l'impressione di una possanza operante
dappertutto, che ci viene incontro da ogni parte, con carattere di
mistero, di un quid «privo di modalità» ma che si adatti a
ciascuna più precisa determinazione, che viene designato con
un'espressione vaga: mano, orenda, manitù ecc. Dappertutto v'è
«po-
62
lenza». Non si intende con tale designazione vigore
naturale, fortezza psichica, potenza politica ecc. - o piuttosto anche
queste realtà, anche la cosa o avvenimento come dato immediato, ma in
quanto promana da una fonte misteriosa ed è percorsa da un'energia
prodigiosa. Il primitivo direbbe persino, verosimilmente, che anzitutto
vi sia l'attrezzo reale, o il campo, o la guerra, e che quanto noi
chiamiamo con questo nome sia un prodotto artificiale staccato,
estenuato. In verità l'esistenza del mondo e dell'uomo sarebbero così
come egli li sperimenta ... La potenza è costantemente in atto
d'operare e di trasformarsi. Riceve le sue caratterizzazioni, sviluppa i
suoi contenuti in rapporto con i contenuti del mondo e dell'esistenza di
quanto di volta in volta le viene incontro o accade: la messe che
cresce, l'animale, il campo, la costellazione, il rè, la donna, la
malattia e altre realtà. Queste sono dotate di potenza, sono
condensazioni del mano. L'organo religioso le coglie così.
L'essere toccati dalla potenza e il concepire la cosa nel suo essere
empirico sono strettamente correlati. L'uno è inteso a partire
dall'altro - ma siamo noi a pensare così, in quanto moviamo da una
separazione tra il numinoso e «ciò che ha carattere di mondo». Il
primitivo non ha ancora separato i due. Egli sente la totalità
dell'esistenza come unità: potenza che si specifica in quanto incontra,
mondo delle cose e degli eventi riempito di potenza ... La potenza viene
sentita tanto più fortemente, quanto più la cosa è sorprendente,
eccitante:
una costruzione straordinaria, una roccia dalla sagoma
particolare, una stella molto luminosa, punti culminanti della vita,
fenomeni di crisi della comunità e altre realtà ancora. Ma anche ciò
è già dello psicologi-
63
smo. Quando l'esperire primitivo vede più mano,
nel cacciatore particolarmente fortunato, con ciò non interpreta a
posteriori il successo verificatosi; ma la fortuna venatoria è a
priori potenza e viene direttamente sentita così. La recettività
religiosa (divinazione) coglie e articola il mondo fenomenico secondo
gradi e particolarità del contenuto di potenza ... Ma poiché l'intero
atteggiamento di vita, la struttura del rappresentare, del sentire e del
valutare la vita organico-psichica complessiva, assumono questa
modalità, queste incarnazioni della potenza sono anche operanti di
fatto e determinano l'andamento fattuale del divenire della vita. Se un
primitivo è convinto che la potenza l'ha abbandonato, perde realmente
la sua gagliardia venatoria o bellica, realmente si ammala e muore.
L'altra teoria pone al principio l'esperienza del-l'«anima».
L'uomo coglie la propria esistenza concreta con i suoi sensi d'ogni
giorno. La incontra però anche nel sogno, e precisamente in circostanze
eccitanti:
per esempio in una condizione d'altro genere, o come
situata in un altro luogo. Nel sogno incontra anche persone che abitano
molto lontano, o sono morte da lungo tempo. Egli interpreta quest'altro
essere con la rappresentazione dell'«anima». Con tale termine però
non s'intende «spirito» nel senso più tardo, l'immateriale a
differenza del corpo, ma lui stesso, l'uomo come totalità; solo in un
altro stato. Un'altra modificazione dell'essere concreto; una sorta di
condizione dei «doppio», in virtù della quale l'uomo esiste
diversamente che nella sua prima forma. Mediante esso egli può
trattenersi in un luogo diverso da quello che occupa con la prima forma;
o in una configurazione diversa, per esempio quale animale, o albe-
64
ro, o oggetto2. Questa rappresentazione
mostra che l'applicazione del principio di [non] contraddizione
all'esistenza umana non risale a data molto antica e che la mentalità
più primordiale poggia sulla coscienza del darsi delle cose l'una
nell'altra. Anche questa rappresentazione potrebbe essere connessa col
senso di un vincolo numinoso che lega tutte le cose, e in ragione del
quale appare soltanto relativa la delimitazione naturale delle cose con
contorni, e tutto l'insieme degli avvenimenti si presenta come
emanazione d'una costante dimostrazione di potenza.
«Anima» ora è l'elemento potente, misterioso,
numinoso. Il primitivo interpreta l'essere partendo da qui. Tutto ha
un'«anima» del genere; cose, avvenimenti, esseri viventi. È essa che
nel fenomeno lo tocca con il senso del numinoso: egli teme al cospetto
d'essa; è essa che egli cerca di riconciliare o di ridurre sotto il suo
potere. Questa rappresentazione si fa particolarmente intensiva per
derivazione dall'esperienza della morte. I morti sono divenuti pura
«anima». Non nel nostro senso, come spiritualità staccata dal corpo;
ma come forma dell'esistenza dell'uomo intero, forma invisibile,
eterogenea, dotata di potenza. Essi hanno una potenza enorme - tanto che
un eroe della famiglia nemica può minacciare di uccidersi per avere a
disposizione del suo odio l'intera terribile potenza dello stato dei
morti.
Nelle due teorie si mostra una polarità; là il numi-
2. Un complesso di rappresentazione per noi molto
estraneo, ma pre-«ente in tutti i popoli primitivi. Ne contengono dei
resti le nostre fàvole, quando raccontano come un mago malvagio o un
gigante abbia la sua «vita» non in se stesso, ma altrove, in un
oggetto o animale nascosti molto lontano, e possa essere ucciso solo
quando questo oggetto è stato distrutto.
65
noso è una potenza amorfa, fluente, che si condensa
dappertutto; qui lo sono le «anime», figure con una forma, esseri
dotati d'un centro con una identità propria, che conducono un'esistenza
caratterizzata, forniti di iniziativa, di volontà e intenzionalità,
amichevole od ostile, e di grande potenza. Stanno dietro le «prime»
forme delle cose, in esse, in relazione con esse. Forse le due teorie
risalgono a un'antitesi strutturale, che non si può più a sua volta
eliminare.
Ora, il principio dello sviluppo ulteriore sembra
consistere nel fatto che la potenza numinosa liberamente fluente o
l'animazione sentita dappertutto si raccoglie in forme permanenti; tra
queste figure di potenza, tuttavia, ve ne sono alcune che emergono con
significato eminente.
È fondamento di tale processo da una parte lo sviluppo
dello stesso sentire religioso; dall'altra la penetrazione religiosa di
determinati ambiti dell'esistenza, particolarmente significativi; per
esempio quello della notte, della malattia o della crescita. Le forze
creative della cultura religiosa si sviluppano; i criteri di questa
cultura diventano più esigenti; la coscienza religiosa si esprime,
comprende se stessa mediante riflessione e creazione di immagini; si
libera dal legame e dalla pressione della pura immediatezza. Nascono
rappresentazioni di esseri sovrumani ed extraumani, di una potenza
numinosa diretta a determinati valori ... Nascono i miti, i culti con le
narrazioni sacre che li fondano. Un mondo di dèi nel senso rigoroso
della parola, il fenomeno delle grandi divinità sembra poi far la sua
apparizione quando la potenza numinosa acquista forma in una compagine
sensibile del tutto supe-
66
riore, chiaramente definita e permanente: per esempio in
quella del cielo che s'inarca al di sopra, della luce, della forza
coordinatrice e signoreggiante, della fraternità. Qui v'è una
totalità di senso, grande a sufficienza per raccogliere in sé
un'esperienza numinosa di intensità possente; di validità e
comprensibilità generale bastante per affermarsi nell'intera vita dei
gruppi etnici corrispondenti e durante lungo tempo.
Forse perché ciò avvenga è necessario anche un evento
storico che faccia sperimentare la divinità come particolarmente
appartenente [a se stessi], potente, salvante. E una persona con
possibilità inconsuete d'essere sopraffatta da esperienze religiose;
con forza creativa del contemplare; con una energia dell'accogliere o
concepire e del produrre grande a sufficienza, perché la potenza di
senso numinosa che si annuncia possa trar forma da essa - cioè un
veggente. In certo qual modo la divinità nasce in quella persona. La
sua predicazione la immette autorevolmente nella coscienza generale,
cosicché per tutti ora è la divinità presente3.
Così un ambito di senso dell'esistenza si ricolma di
essenza numinosa e l'intero si espone in una forma valida per il popolo
e per l'epoca - un ambito di senso che continuamente si fa valere, che
concerne e interessa la totalità della vita, ma si distingue da altri
ambiti come settore particolare. Per esempio l'ambito di ciò che è
celeste concerne tutto il complesso dell'esistenza; ma si distingue
dalla sfera di quanto è inferiore, oscuro, fecondo, produttivo, dalla
terra che è nutrice, elargitrice, generatrice, ma contempora-
3. Il nucleo storico dei miti eziologia.
67
neamente è terribile e divoratrice, dal sonno e dalla
morte. Le divinità uranie si distinguono da quelle ctonie, Zeus da Gaia
[o Gea, la terra, n.d.t.], ma entrambe sono esseri divini
autentici, significativi nell'ambito complessivo dell'esistenza.
L'esistenza viene interpretata mediante l'esperienza
numinosa, viene designata con termini religiosi, ordinata, dominata a
fondo - d'altro lato la potenza numinosa stessa viene fatta risaltare,
è per così dire dispiegata a partire dai vari ambiti di senso
dell'esistenza. Il mondo con la sua molteplicità viene installato, come
nella sua patria, nel numinoso - e proprio per tal via l'esperienza
religiosa viene rielaborata e sviluppata culturalmente. In questo modo i
diversi atti «spirituali» penetrano nello spazio dell'esperire vissuto
religioso. Il nume viene sottoposto all'esame sulla sua signifìcanza, e
così si avvia la questione etica, razionale, storica, in altre parole,
critica.
Con ciò ha inizio il processo con cui quelle figure
numinose vengono minate. A lungo andare esse non resistono
all'interrogativo critico. Per esempio, l'esigenza del pensiero etico,
alla lunga, non tollera una pluralità di dèi. Spinge a norme assolute,
che a loro volta presuppongono un ordine unitario del mondo religioso.
Del pari il problema filosofico, che è orientale inflessibilmente verso
alcunché di ultimo e assoluto, sia dell'essere, o dell'ordine, o della
norma. Anche il pensiero sociale cerca una monarchia nel divino, per
trovarvi la garanzia suprema dell'ordine e dell'autorità ... D'altro
lato è proprio della natura della stessa esperienza religiosa che i
numi fatti emergere rimangano vivi, ovvero si reggano solo per un cer-
68
to tempo. La storia mostra come le varie figure di
divinità vadano scomparendo nei momenti in cui l'esperienza religiosa
attraversa nuove soglie. Stato e società con le loro tendenze
conservatrici cercano di mantenerle in vita. La devozione piena d'empito
dei «movimenti» spirituali e popolari però le dissolve. Così
gradualmente si fanno strada rappresentazioni di super-divinità, che
assommano la molteplicità dei numi, per esempio quella del dio supremo
del cielo. O di divinità in obliquo, le quali passano attraverso
le varie figure particolari di dèi, come la divinità del destino.
Ovvero diversi numi trapassano l'uno nell'altro, intervengono l'uno al
posto dell'altro, appaiono come modificazioni di un'unica entità
fondamentale, così nel tardo Dioniso o nello Zeus ellenistico.
Vi si aggiungono particolari esperienze di unione. Nei
culti misterici viene vitalmente sperimentata l'u-ni-totalità della
vita; nello spiritualismo dell'epoca ellenistica l'ordinamento totale
dell'essere, la razionalità del Tutto domina, la validità universale
dei valori supremi, del vero, del buono e del bello, come base di una
divinità pervasiva del Tutto.
Ciò da ultimo porta all'emergere di figure divine
uni-totali: di tipo esperienziale-cultuale come rappresentazioni
mistiche dell'Uno-Tutto, di tipo speculativo-filosofico come concetti
dell'Essere supremo, del Valore e dell'Intelletto sommi, come quello del
Brahman degli indiani e del Nous e del Lògos
dell'ellenismo4.
4. A questo proposito prescindo dalla questione se
esista un monoteismo reale fin dall'inizio - da intendere teologicamente
come risultato di un'operazione occulta della grazia orientata al Messia
venturo e al tempo stesso come effetto postumo della coscienza di fede
dell'Eden. Questo aspetto sarebbe poi efficace nei diversi processi
constatabili psicologicamente e storicamente.
69
Allo sviluppo così delineato dell'elemento religioso
oggettivo ne corrisponde un altro del fattore soggettivo. Qui possiamo
accennarvi solo brevemente; la recettività religiosa si trasforma; il
complesso degli atti religiosi cresce in dirczione di profondità o
ampiezza, intensità o molteplicità; concentrazione o differenziazione.
Alle diverse sfere oggettuali sono ordinate altrettante distinzioni
degli atti e degli stati. Qui rientra tutto ciò che si chiama
disposizione ed ereditarietà religiosa; ma anche formazione da parte di
altri e di se medesimi, crescita come anche esercitazione;
consequenzialità intcriore come risultato sopravveniente ...
Ili
In questa lunga serie, dal mona, comprese le sue
condensazioni, come dalle rappresentazioni dell'anima proprie dei
primitivi, comprese le loro varie trasformazioni fino alla divinità
pantelstica mistica e all'Uno assoluto della speculazione religiosa, si
trovano cesure forti: affiora luminosamente l'intuizione religiosa,
fanno breccia strati di profondità intcriore, realtà dell'esistenza e
del mondo fino a un dato momento non padroneggiate vengono interpretate
a partire dall'esperire numinoso. Nondimeno, questa molteplicità a
perdita d'occhio costituisce un unico fenomeno complessivo.
I suoi differenti stadi vengono retti dal medesimo atto:
l'esperienza numinosa nel suo libero dominare. Alla base sta il medesimo
principio differenziante: l'esistenza e il lavoro spirituale correlato
ai suoi diversi
70
ambiti di significato. Si trovano nello stesso spazio:
il mondo che comprende natura e cultura. Le diverse religioni, quali
configurazioni oggettive, come anche quali forme d'atto e
d'atteggiamento, si collocano su una linea che prosegue. Con ciò non
s'intende «sviluppo» nel vecchio senso, secondo il quale una forma
trapasserebbe in un'altra mediante adattamento e tramutazione graduali.
Nessuna vera forma trapassa in un'altra; essa muore e ne nasce un'altra.
Non sorgono mai divinità superiori in senso vero proprio «dal»
dinamismo primitivo. Ma la potenza fondamentale che crea la religione,
l'esperienza dappertutto operante dell'Altro-Divino, fa cadere le forme
in cui si è espressa e che divengono inadeguate nel progredire appunto
di questa esperienza, e ne emergono altre. Le singole forme della serie
si distinguono tra loro spesso in modo molto brusco, apparentemente
inconciliabile; tuttavia si tratta di distinzioni all'interno della
stessa cosmicità. L'esperienza religiosa può essere profonda, forte,
sublime quanto vuole; può collegarsi con i valori culturali di più
elevato rango e con quelli personali più nobili, con le energie umane
più potenti e rare - essa comunque è sempre un elemento della
dotazione immediata dell'uomo, rimane nello spazio del mondo immediato,
è essa stessa mondo.
Si può stabilire questo dato di fatto con due prove a
ritroso.
Se si considera la strada che imbocca lo sviluppo
complessivo della storia delle religioni, sembra portare da una
pluralità di figure religiose a una unità sempre più forte, anzi alla
Divinità come Uno. A un primo sguardo, ciò significa un progresso
incondizionato.
71
Senz'altro è più puro e più giusto pensare la realtà
numinosa come essere unico, perfetto, che tutto opera, in una parola
assoluto. Ma per erigere i chiari piani di comparazione dobbiamo
intraprendere alcune piccole operazioni: da un lato trar fuori dalle
forme primordiali ciò che è semplicemente arretratezza culturale,
difetto di sviluppo etico, fantasiosità incontrollata nel pensare, vita
istintuale con carattere naturalistico, e ridurle alla loro sostanza
puramente religiosa. Dall'altra parte, dobbiamo chiarire a noi stessi
ciò che nelle forme «monoteisti che» in verità è solo
standardizzazione logica, calo della forza creativa di rappresentazione,
apparato concettuale di epoche culturali 'tardive'; non dovremmo nemmeno
dimenticare ciò che noi, persone d'oggi, riusciamo a scorgere dentro i
monoteismi indiani o ellenistici perché moviamo dalla fede rivelata. Se
ciò è accaduto - possiamo allora parlare di un univoco progresso? La
rappresentazione più giusta è senza dubbio un guadagno; tuttavia al
tempo stesso diminuisce l'intensità dell'esperienza diretta. Si pensa
più che sperimentare vitalmente. L'unità divina emerge chiaramente; al
tempo medesimo il mondo si svuota di contenuto religioso. Nella misura
in cui diventa più esatta la rappresentazione di Dio, il mondo si fa
più profano. Anzi, persino nella stessa rappresentazione di Dio si può
rilevare una perdita; certo si afferma vittoriosamente l'unità e
l'assolutezza, viene sfrondato l'elemento antropomorfico, viene
enucleato quello spirituale - ma in cambio la rappresentazione stessa
perde di ricchezza contenutistica e di afferrabilità concreta. Essa si
stacca dalla realtà dell'uomo nel mondo. Essa subisce danno nel suo
rapporto diretto con i dati geografici e cultu-
72
rali, con i diversi gruppi etnici e le stratificazioni
sociali. Diviene più universale e appunto per ciò meno caratterizzata.
Se però vita religiosa significa che tutto ed ogni cosa si compiano
partendo dalla realtà di Dio e mirando a essa, in quel modo diviene
molto più difficile condurre una vita di immediatezza religiosa.
Così qualsiasi progresso apparentemente univoco verso
la divinità come Uno nella storia delle religioni, a una considerazione
più precisa, diviene davvero problematico. In verità esso appartiene
in tal modo al movimento generale della cultura, in cui la conquista di
un valore attraverso la lotta viene pagata con la perdita di un altro.
Certo noi non ci chiudiamo alla prestazione speculativa, che si
manifesta nell'Uno Supremo di Piotino; o al lavoro di immersione
contemplativa, alla purificazione delle anime e alla ricchezza
esponenziale religiosa, che furono necessario per dare coscienza della
realtà del Brahman. Ma quando, in contrapposizione, valutiamo la
forza d'esperienza religiosa dei primitivi, che non era cosa di singole
personalità altamente sviluppate, ma dell'intero popolo;
quando ci preoccupiamo seriamente delle
rappresentazioni, con le quali essi lavorano, facendo la tara ai
malintesi dei relatori, e vediamo quanto profondo patrimonio religioso,
da allora perduto, contengono quelle rappresentazioni, allora non
sappiamo se possiamo in assoluto parlare di un univoco progresso5.
5. Nei suoi scritti già citati L. Lévy-BruhI sottopone
a una indagine molto accurata queste rappresentazioni. È un merito
elevato da parte sua, di contro alle false interpretazioni
razionalistiche, portarle al loro contenuto puramente religioso e
preservare il diritto della coscienza «prelogica» di contro a quella
«logica». Tuttavia, lui stesso è troppo razionalista storico e
psicologico per vedere il senso di queste rappresentazioni. Di
73
Questa è la prima prova a ritroso, dalla quale emerge
l'unità del fenomeno complessivo della storia delle religioni. Un'altra
sta nel fatto che le diverse fasi possono coesistere nello stesso
popolo, anzi nella stessa persona. Il citato orientamento d'esperienza e
di pensiero, che produce nel sistema neoplatonico quella suprema
prestazione di monomorfìsmo religioso, di cui si è parlato, genera al
tempo stesso un gran numero di esseri intermedi tra quella
Sovra-Divi-nità e l'uomo, cioè, tuttavia, di nuovo «dèi», che solo
non possono esplicarsi pienamente perché sottoposti alla pressione di
quell'Essere supremo. Anzi, possono ripresentarsi fasi apparentemente
superate. Dopo che i secoli diciottesimo e diciannovesimo avevano
enucleato con tanta coscienza di sé la «pura» idea di Dio, avevano
espunto tutti gli elementi antropomorfici e avevano coltivato una
religiosità, che avrebbe dovuto soddisfare ogni pretesa della filosofia
e dell'etica, venne alla luce quella linea, che ha inizio con Hólderlin
e porta a noi passando per Friedrich Nietzsche, Stefan George e Rainer
Maria Riike. Oggi «dèi» sembrano essere possibilità serie in modo
del tutto diverso da come lo sono stati per il classicismo di Weimar. La
situazione della psicologia della religione, da cui potrebbero scaturire
gli dèi, non sembra troppo lontana - anche se naturalmente sarebbero di
altro genere da quelli anteriori, e certo dovrebbero trovare invece il
loro addentellato là dove si vanno svolgendo gli spostamenti decisivi
nella coscienza storica: per esempio
che cosa si tratti, può farsi chiaro quando si osserva
per esempio quale aiuto tali rappresentazioni, che si suppongono
superate, possano prestare nella comprensione del mondo concettuale
paolino, cioè, quindi, di dad di fatto fondamentali del cristianesimo.
74
nella modalità in cui è vitalmente esperito il popolo,
il sangue, lo Stato, il potere e via dicendo6. Anzi, sembra
siano operanti tendenze religiose di pensiero ed esperienza vissuta, la
cui struttura non è dissimile da quelle del fenomeno del mana.
Ricordo l'inclinazione dell'epoca più recente a staccare il divino
dalla forma di persona, anzi da ogni determinatezza enunciabile e a
portarlo alla forma di un potere che domina in maniera inafferrabile.
Persino orientamenti di pensiero in apparenza tanto decisamente
cristiani come la teologia dialettica non sono garantiti da questa
possibilità.
Pur con tutta la significanza delle distinzioni che le
separano, la serie di queste configurazioni costituisce un unico
fenomeno. Esse scaturiscono tutte dagli stessi presupposti, si staccano
le une dalle altre, trapassano le une nelle altre, svaniscono,
ritornano. Il sorgere delle singole forme costituisce di volta in volta
la conquista di determinati valori e la perdita di altri. Esse
costituiscono un continuum tale, che ci si può chiedere se alla
loro successione si possa applicare anche solo il concetto di progresso;
se sia a suo luogo invece quello di una mobilità fluente, nella quale
le configurazioni vengono e vanno a mo' di onde.
IV
Viste dalla prospettiva cristiana, nel complesso esse
appartengono alla religiosità «naturale», alla imme-
6. Certamente un politeismo dopo Cristo sarebbe qualcosa
di diverso da uno avanti Cristo. L'antico politeismo era in situazione
di avvento, avanti alla linea storica di divisione in senso assoluto;
quello nuovo sta dietro.
75
diatezza religiosa. Pur con tutta l'interiorità e il
fervore dell'esperire vissuto numinoso, pur con tutta la
significatività di contenuti speculativi e termi nologici;
pur con tutta l'energia di formare l'uomo e dar
configurazione all'esistenza, tuttavia esse rimangono, in ultima
analisi, non vincolanti, non normative. Di fronte ad esse - anche di
fronte alle forme di divinità 'mo-noteistiche' - è impossibile
quell'atto che fonda l'atteggiamento vetero e neo-testamentario: la 'fede',
per il fatto che tutte non scaturiscono da quella modalità del
«darsi», che si chiama 'Rivelazione' nell'Antico e Nuovo Testamento.
Ora però anche la scienza generale delle religioni
rivendica per sé il concetto di rivelazione. Essa constata che molte
religioni cercano di dimostrarsi assolute con l'appellarsi a
un'ispirazione celeste. Ovvero indaga l'esperienza vissuta dei fondatori
di religioni;
mostrando che si verifica l'irruzione di un nuovo
contenuto religioso, fino a quel momento nascosto, nella coscienza di
una persona dotata di capacità da veggente, di un «profeta», un
evento personale, che poi acquisisce significato anche per la
generalità.
Prendiamo un esempio: una persona cammina da sola. Si fa
mezzogiorno; il sole cuoce; tutto sembra immerso nella calma. Ed ecco si
accorge di come sia solitària e comincia ad aver paura. Essa supera
questa paura; eticamente, col riprendersi e contenersi, o liricamente,
col trame motivo per una poesia. O soggiace a tale paura e scruta per
vedere se giunge nelle vicinanze d'altri uomini. Per il resto
quest'esperienza vissuta non assume ulteriore importanza. La cosa può
andare però, a questo riguardo, anche diversamente:
nell'ardente e immota calma del mezzodì, improvviso
76
la sorprende un terrore che non ha nulla a che fare con
il sentimento, diciamo, borghese, dell'essere soli. Che cos'è stato?
L'antico terrore 'panico'. Usiamo ancora adesso il termine, parlando del
panico, ma ha perso il suo significato. In realtà nella parola si cela
il nome «Pan» e, dove l'esperienza è autentica, essa contiene un
elemento numinoso. Ora, supponiamo che fosse stato un pastore
nell'antica Grecia o Asia Minore ad avere tale esperienza, in quelle
solitudini montane dai contorni grandiosi, arse dal sole. Supponiamo
inoltre che fosse stato non solo un uomo dalla sensibilità vivace, che
tuttavia in altri campi restava tranquillo nell'esistenza quotidiana, ma
una personalità religiosamente creativa: quindi un uomo, per il quale
non solo dietro il terrore appariva chiara la presenza di un'entità
numinosa, ma ai cui occhi tale entità prendeva corpo in un'immagine.
Un'immagine in cui l'esperienza vissuta concresceva con determinate
strutture di significato dell'esistenza dei pastori, cosicché ora anche
altri, i quali avevano avuto un'esperienza analoga, potevano
riconoscerla in questa forma. Supponiamo dunque che l'uomo fosse stato
un veggente, e allora improvvisamente sarebbe stata davanti ai suoi
occhi e nel suo sentimento una singolare divinità: di forma per metà
animale, per metà umana; con uno sguardo in cui parlava la natura
stessa, e tuttavia, a sua volta, più che soltanto la natura;
che emanava il terrore della solitudine, la violenza
folle della potenza naturale, ma insieme anche il suo potere di sedurre
cuore e sensi: il dio Pan. Questa esperienza vissuta, sperimentata con
sufficiente forza, con sufficiente creatività, soggettivamente tale da
sopraffare, e al tempo stesso tanto valida in termini da
77
poter divenire tipica per una certa generalità
etnico-culturale, sarebbe stata rivelazione. Irruzione di una realtà
numinosa, che si esprime in un determinato ambito dell'esistenza,
nascosta in una figura numinosa, mediante la quale viene interpretata
in- categorie religiose una sfera di senso dell'esistenza. «Pan» non
è sorto come «personificazione» di qualche fenomeno naturale, o come
risposta allegorica al problema del fondamento o motivo di determinate
impressioni della natura. Queste sono escogitazioni razionalisti-che.
Quest'essere divino è scaturito da un esperire vitale, in cui agli
occhi e nel sentimento di una persona particolarmente dotata, di un
veggente che è stato dimenticato, ma nel settore religioso forse fu
geniale al pari di un Talete come filosofo o di un Policleto come
scultore - questa figura apparve, dando tanto valida espressione a una
determinata possibilità religiosa, che da allora in poi pure altri, che
ne erano sfiorati nella solitudine, poterono dire: «Ecco Pan!».
Considerate le più varie circostanze, anche gli altri
numi si dovrebbero riportare a un'esperienza vissuta di rivelazione,
dagli dèi della fecondità o degli astri di epoche più primitive fino
alle grandi divinità degli indiani e dei greci, anzi fino alle sublimi
concezioni del Brahman, del Nous, del Sovra-Essere.
A questa esperienza vissuta poi si ordina una
particolare forma di convinzione, che non si può scuotere con obiezioni
o argomenti tratti dal campo profano, poiché è fondata in
un'esperienza numinosa, proveniente da altrove: la «fede».
Sarebbe ciò rivelazione e fede nel senso biblico? No,
ma solo un tipo determinato, particolarmente intenso, d'esperienza
religiosa.
78
Che cosa è dunque rivelazione nel senso velerò- e
neotestamentario? Essa significa appunto la breccia che infrange quel
contesto di esperienza e interpreta-zione religiose del mondo. Si pone
di traverso rispetto a ogni ambito d'esperienza, anche e precisamente
quella religiosa. Con ciò non si afferma che quelle esperienze
religiose siano puramente «naturali», come intende il termine la
psicologia razionalistica;
quindi, poniamo, sentimenti d'armonia e di significato
affini all'elemento estetico, o fantasie simboliche, o risultati di
rimozioni di istinti o altro ancora. Già la più semplice valutazione
mostra che esse hanno un autentico contenuto di senso, quindi non
possono essere derivate da altro. Inoltre però: tutte le altre
esperienze, comprese le categorie d'essenza e di valore da essa derivate
o che vengono alla luce in presenza d'esse, costituiscono «il mondo».
Portano il carattere di ciò che è «mondano», sia della «natura»,
sia della «cultura»; come dato prossimo o remoto, fin nella più
profonda interiorità psicologica, nella suprema altezza assiologica,
nella più distante lontananza ideale. E sempre «il mondo» e il suo
contesto «naturale». Al contrario, all'essenza dell'esperienza
religiosa appartiene l'impressione che il suo oggetto non rientri nel
semplice dato nel mondo; che esso invece sia misterioso, indicibile,
altro, che venga altronde e conduca altrove. Questo carattere del
sovra-terreno o sovra-mondano è così potente da essere equiparato, da
parte della scienza delle religioni, addirittura al concetto teologico e
di fede nel soprannaturale. Ma ciò costituisce una confusione
fondamentale. In verità, quella non-naturalità appartiene pur sempre
al mondo - cioè alla sua realtà religiosa. Si dovrà trattare ancora
del come essa si rapporti a Dio. Tuttavia il Dio
79
della Rivelazione, che parla nell'Antico e nel Nuovo
Testamento, non appartiene in alcun senso al mondo, nemmeno nella sua
realtà religiosa. Il suo essere non deriva dalla copia di qualità
delle cose della vita, Non è eretto nella coscienza a partire
dall'impressione di sacralità prodotta dall'esistenza del mondo, per
opera dell'atto religiosamente creativo di una persona dotata di
capacità da veggente, ma si presenta all'uomo apparendo dalla
sovranità assoluta della sua sacra libertà e si rivolge a lui. Ma
l'uomo cui accade questo - per esempio il profeta - sa che perviene a
lui qualcosa che si pone di traverso, che incrocia tutto, anche ogni
realtà religiosa immediata.
Ancora una volta, con ciò non si afferma che
l'esperienza religiosa naturale sia accessibile ad arbitrio. Chi la
sperimenta, invece, sa di non poterla produrre a forza. Viene appunto
quando viene. Si può solo sperarla e accoglierla. Essa ha il carattere
del favore, del dono che non solo non si può conquistare lottando, ma
nemmeno meritare. Non si trova negli ordinamenti del «diritto», ma
della libertà.
Questo carattere è così convincente, che anche
mediante esso si è intrapreso un livellamento e si è equiparata questa
venuta spontanea, che s'attua come favore, con la «grazia» nel senso
teologico - di fede. Un'altra volta una confusione; poiché
quell'impossibilità di estorcere a forza tale esperienza è solo un
caso della spontaneità universale, che è propria di ogni essere
puramente vivo, e riceve qui un'accentuazione particolare solo per la
specificità dell'ambito d'esperienza. E l'autosignoria dell'ambito
d'essere e della struttura di significato che sono più elevati,
rispetto a quelli inferiori. Per contro quella della Rivelazione biblica
è una libertà per essenza diversa: è
80
quella della Persona suprema, anzi puramente e
assolutamente santa. Non la specificità di uno strato dell'essere;
l'impossibilità di produrre a forza una regione del senso; la
riservatezza d'una profondità cosmica, la quale si apre solo per legge
propria, ma quella libertà personale e santa, che non è sussunta sotto
alcuna categoria di filosofia della religione e si fa chiara solo
attestando se stessa.
«Rivelazione» è l'appello, che il Dio santo e signore
di sé rivolge all'uomo; svelando proprio così chi egli. Dio, sia - e
chi, di fronte a lui, sia l'uomo. Già al primo preciso evento di
Rivelazione, che si collega alla persona di Abramo e riveste carattere
d'esemplarità per tutte le epoche; poi di nuovo nel secondo avvenimento
di vocazione, di analoga possanza, che si rivolge a Mosè, ciò risulta
chiaro. «Fede» però non è esperienza vissuta, scossa intcriore,
convinzione scaturita dall'esperienza, ma anzitutto ed essenzialmente
obbedienza a questo appello: allacciarsi d'un vincolo di fedeltà a
quella Persona che di là parla; coscienza di essere da essa
determinati, orientali e al tempo stesso accolti in un nuovo rapporto di
salvezza, che pone un inizio.
V
Questa fede è qualcosa di essenzialmente altro da
qualsiasi «esperienza religiosa». Ciò che da essa nasce, l'esistenza
credente con il suo ordine, è qualcosa di diverso per essenza da
qualsivoglia «religione», tanto che, presa come caso limite, appare
possibile una fede senza esperienza nel senso dell'essere scossi
personalmente; la nuda fede dell'obbedienza7. Questa di-
81
stinzione appartiene all'essenza della coscienza
cristiana. Essa è data con la rivendicazione presentata dalla
Rivelazione, d'esser verità assoluta, vincolante per ciascuno. Non
espressione d'una scoperta di un senso religioso, che riesca sulla base
di determinati presupposti; non dipendente da struttura e complesso di
doti religiose, ma appello di Dio, del Signore del mondo, che impone
obbligo a ogni uomo8.
A partire da questa fede si afferma la critica radicale,
che supera ogni possibilità di giudizio storico o fìlosofico e si
esercita in rapporto a qualsiasi esperienza religiosa e configurazione
religiosa; a ogni religione oggettiva o soggettiva. Di fronte a questa
critica, il più elevato concetto monomorfico di Dio non regge
essenzialmente meglio del mano dei primitivi, perché essa non
colpisce soltanto il singolo contenuto, ma soprattutto l'origine dal
«mondo» e svela l'ambiguità di tutte le espressioni religiose, la
quale proviene dall'intrinseca condizione irredenta dello stesso
elemento religioso9.
7. Vedi in proposito La fede nella riflessione, supra
pp. 13 ss. di questo volume. Il problema di quale sia il modo in cui si
riesce ad avere la sicurezza che qui parla Dio esigendo fede, dovrebbe
essere approfondito con una ricerca particolare.
8. Questo stato di cose è presentato in maniera
classica nella piccola lezione di Seren Kierkegaard, Sulla differenza
tra un apostolo e un genio (tradotta, con altri saggi, sotto il
titolo Der Begriff des Auserw&hlten, da Theo-dor Haecker,
Innsbruck 1926, pp. 31.3-333).
9. È importante vederlo. Il bisogno di redenzione da
parte dell'uomo non significa soltanto che egli deve essere trasposto
dall'ambito profano a quello religioso, ma che le sue stesse forze
religiose e l'intero mondo delle configurazioni religiose devono essere
redenti: anzi, essi più che mai e in misura particolare. Parimenri
essere redento non significa per l'uomo divenire coscienzioso, etico, ma
il bisogno di una redenzione per la stessa vita della coscienza morale,
insieme col mondo delle rappresentazioni etiche. Che un uomo «di
orientamento mondano» abbia bisogno di redenzione sembra cosa ovvia. È
meno evidente che pure nella più profonda,
82
D'altra parte. Rivelazione e fede portano a chiarezza e
libertà tutti gli autentici valori, contenuti nell'elemento religioso
immediato. La fede prende a suo servizio il mondo dell'esperienza
religiosa e delle configurazioni che ne scaturiscono - così come prende
a suo servizio il mondo dei dati di natura e culturali, linguaggio,
concetti, simboli, valore -, certo tutto trasformando. La storia della
fede nel mondo si svolge nel processo, in cui risulta quanto essa sia
capace di prendere realmente a suo servizio questo mondo di forme e di
significato, di rielaborame i contenuti, ma di rimanere vigile al tempo
stesso nella sua responsabilità verso la Rivelazione, o quanto invece
sia coinvolta nella trasformazione.
Dobbiamo però tornare ancora a quel particolare
carattere, che ha l'oggetto d'ogni autentica esperienza religiosa. Esso
costituisce un problema inquietante. Nei confronti delle qualità
immediate di «natura» e «cultura», esso è «altro», diverso; in
rapporto all'elemento profano, è «numinoso» - al tempo stesso
tuttavia la Rivelazione lo svela come non «propriamente altro», non
«propriamente sacro»*; lo allinea invece in una sola serie con i
restanti dati dell'esperienza in generale, del «mondo». Ne viene una
peculiare man-
sublime, intima esperienza religiosa si celino la
ricerca di sé e l'inganno del peccato - talora cosi occulti che qui
vede con chiarezza solo il carisma del «discernimento degli spiriti».
Questo stesso carisma però deriva dalla redenzione, così come ne
traggono origine il dogma e il mysterium della Chiesa, la lex
credenti et mandi. Ma su questo argomento, sulla critica derivante
da Rivelazione e fede, esercitata in rapporto alla religione, si
dovrebbero dire moltissime cose.
* Heilig, che in tedesco, come s'è detto,
assomma i significati di «sacro» e «santo» (n.rf.t.).
83
canza di chiarezza. Ciò che ora segue non vuoi essere
nulla di definitivo, ma solo un tentativo, che forse aiuta a vedere più
chiaro.
Io penso che quell'elemento numinoso immediato al quale
si rivolge l'esperienza religiosa sia esso stesso ancora una qualità al
mondo. Io penso che il mondo non sia solo «così», ma anche
«altrimenti»; non solo «profano», ma pure «sacro» in un senso
immediato;
non solo «mondano», ma anche «numinoso». Il mondo è
qualcosa di molto più possente di quanto veda il razionalismo. Nella
chiarezza e nella totalità in tensione del suo significato esso è
«natura-cultura» più l'«al-tro». Quelle qualità del
«non-terreno», o della «sovra-mondanità», di cui parla la scienza
della religione, non costituisce che l'altra faccia di quella stessa
totalità del mondo, la cui prima faccia è il «terreno» e il
«mondano». La duplicità di questa impressione è appunto ciò che
costituisce la tensione del fenomeno del mondo e porta in moto
dialettico il suo sperimentare e pensare. Le impressioni: «questo mondo
così conformato» e «l'altro che in esso viene incontro»;
«ciò che appartiene a questo mondo» e «ciò che sta
al di là di esso» - queste espressioni insieme con gli atteggiamenti,
le strutture di coscienza, le formazioni concettuali, le teorie, le
forme di valore, le prese di posizione e via dicendo, che ne promanano,
appartengono entrambe all'unità «mondo». In esse si sviluppa quel
qualcosa di complesso che viene chiamato «mondo» o «esistenza» e si
costruisce tra il «così» e r«altrimenti», l'«essere terreno» e
l'«essere non-terreno». Alla sua essenza appartiene l'essere
familiare, rivolto [all'uomo] - ma al tempo stesso di carattere
misterioso, estraneo, volto in dirczione d'allontanamento.
84
La nostra coscienza risponde a questo duplice carattere
dell'esistenza con la sensibilità e l'atteggiamento «profani» -
prendendo la parola in senso totalmente positivo - e «religiosi». Il
fattore della loro possanza consiste, per il mondo e l'esistenza,
nell'essere appunto così. Ma anche - per anticipare la cosa - il motivo
per il quale possono essere autonomizzati. Di fronte a un mondo solo
«mondano» non si potrebbe mai intraprendere il tentativo di fondarlo
puramente su se stesso. L'uomo non riuscirebbe mai a prenderlo così
terribilmente sul serio.
L'«altro» della Rivelazione, per contro, è un
essere-altro di tipo non solo più forte, ma puramente e semplicemente
definitivo. Qui si presenta chiaramente non solo l'«altro»
intramondano e dialettico; ma il «propriamente altro» del Dio vivo che
giudica, che relega entro i suoi limiti il mondo come intero e lo svela
nella sua condizione decaduta. Il processo «che da»* in tale caso non
è la libera esperienza religiosa, ma l'autorivelazione di Dio, che
scaturisce da iniziativa sovrana, nel suo svolgimento storico,
soprattutto in Cristo.
La fede si dirige a questa Rivelazione. La relazione «Rivelazione-fede»
si pone di traverso rispetto all'altra, «mondanità-esperienza
religiosa». La prima è indipendente in linea di principio dalla
seconda; la utilizza e nello stesso tempo la sottopone a critica -come
anche la cultura religiosa è tanto promossa quanto scossa dalla fede.
Dirò subito di più su questo argomento.
* "Gebendeo (tra virgolette anche nel testo
originale) nel senso in cui si parla anche di un «dato» (n.d.f.).
85
La coscienza che sia credente nel senso della
Rivelazione, per sua natura non è un caso particolare della coscienza
religiosa in genere, ma qualcosa di diverso. Quanto diverso, risulterà
chiaro proprio dalla tensione che ora sorge tra «fede» e
«religione»; con la possibilità, ivi fondata, di una critica
all'esperienza religiosa e alle sue produzioni, anche e appunto le più
elevate.
Questa critica non si svolge secondo punti di vista
immanenti, per esempio della purezza dell'esperienza vissuta religiosa e
della forza da parte delle concezioni in questione d'illuminare
l'esistenza, ma secondo un criterio che deriva da un al di là
dell'esperienza:
dalla Parola di Dio e dalla esistenza di Cristo.
Si può parlare addirittura di un depotenziamento delle
forze e dei valori religiosi da parte della fede. Non appena appare la
fede reale, la «religione» perde d'importanza in misura decisiva. Ciò
è di una portata che si chiarirà subito.
Se si deve parlare seriamente di fede cristiana, allora
la sua essenza non dev'essere «costruita» mediante concetti o dedotta
da esperienze. Se la fede è ciò ch'essa rivendica di essere, può
essere determinata solo da se stessa, dalla Rivelazione accolta con
fede. È una pretesa, che chi non ha la fede respingerà. Egli dirà che
in tal modo è già presupposto quel che è da dimostrarsi. Ma se
rifletterà sul fatto che la fede non rappresenta il risultato di una
catena d'esperienze, o il «dunque» conclusivo di un'argomentazione
deduttiva, ma l'inizio di una nuova esistenza, ammetterà che questa
fede - se è ciò che afferma di essere - non può parlare altrimenti.
Un inizio reale, un principio esistenziale, non può giustificare la sua
essenza par-
86
tendo da ciò che lo precede. È «ruota che gira su se
stessa». Le deduzioni cominciano solo nell'ambito di ciò che deriva
dall'inizio10.
Secondo la sua coscienza propria, la fede non è una
cognizione tra le altre, non è un legame morale tra gli altri, non è
il parto di esperienze risolutive che presagiscono sacre connessioni, ma
la specifica risposta alla Rivelazione. Rivelazione a sua volta non è
un fenomeno generale del chiarirsi della religione, non è una breccia
che si apra attraverso strati inferiori della coscienza, non è un
illuminarsi di strutture di senso, fino a quel momento nascoste, della
realtà religiosa, ma un parlare positivo di Dio, che si svolge entrando
nella storia.
Ciò a sua volta presuppone una determinata immagine di
Dio, appunto quella che emerge dalla Rivelazione. Secondo essa, Dio non
è solo potenza, idea, valore, realtà, in una parola: l'Essere
infinito-assoluto. La sua determinazione decisiva sta invece proprio in
ciò che costituisce nella Sacra Scrittura lo skàndalon dei
filosofi: l'apparente antropomorfismo. Le rappresentazioni che con tale
designazione vengono caratterizzate come non evolute o non serie in
verità sono esatte. Esse intendono l'aspetto decisivo per il quale la
rappresentazione di Dio propria della Scrittura si distingue dalle
altre: l'assoluta personalità, il carattere
10. Con dò non dovrebbero essere svalutate le diverse
forme della prova, dell'indizio, del processo per produrre
verosimiglianza ecc. Esse hanno tutte il loro pieno significato, dalla
prova per dimostrare Dio e Cristo fino al fondamento della simpatia
motivata. Ma la fede non scaturisce da esse. Non viene prodotta da esse.
Esse si limitano a prepararle la strada, la giustificano davanti alla
coscienza intellettuale e morale. Essa stessa «zampilla» dal punto
d'inizio; quell'unità in cui grazia e libero volere, operare di Dio e
nucleo personale sono inscindibilmente collegati.
87
d'iniziativa, la storicità di Dio. Questa realtà di
Dio non si può cogliere unicamente con le categorie de\-r«assolutezza»;
devono esservi aggiunte quelle della «fattualità». Il Dio vivo è
realmente tale da decidere, da levarsi, venire, parlare, agire,
adirarsi, rappacificarsi, pentirsi, perdonare. Ora, Rivelazione è il
modo in cui Egli parla nel 'tempo', fede è l'atto umano specifico, che
vi risponde.
Se ci poniamo sotto gli occhi il fenomeno della fede
come totalità, l'elemento decisivo non consiste in una esperienza
vissuta sopraffacente, in una intellezione che generi chiarezza, in
un'ascesa etica, in un sentimento traboccante, in una emozione mistica
che scuota e via dicendo. Il punto critico del fenomeno della fede sta
invece nell'essere «obbedienza». La determinazione della fede come
obbedienza ha alcunché di meschino, di non creativo, di non geniale. In
tal modo essa è definita come qualcosa che è altro da tutto ciò che
ha a che fare col talento, con le doti, e che si può legittimare
mediante valori immediati. Il concetto di obbedienza ha qualcosa di
formale, si potrebbe dire di ascetico, ma appunto questo è ciò che
interessa per la determinazione «critica». La fede nella Rivelazione
in ultima analisi si legittima proprio non per derivazione dai valori
dell'esistenza del mondo. Viene d'altronde e sottopone e critica
l'esistenza del mondo. Ma realmente d'altronde: non solo nel senso
dell'impressione numinosa. Non appena la fede venga fondata a partire
dal carattere numinoso dell'esistenza e dell'esperienza religiosa che vi
poggia, diviene un elemento del mondo. Essa cessa d'essere fede nel
senso cristiano e diviene un fattore della vita religiosa generale. E
proprio contro questa caratteriz-
88
zazione che si dirige quella definizione della fede
quale obbedienza11.
Il punto «critico» decisivo per la purezza del
fenomeno, nella relazione «Rivelazione-fede» non è l'alternativa se
in esso si attui una emozione religiosa che scuota, si renda possibile o
chiaro un éthos religioso superiore, ma se l'uomo veda e
riconosca che Dio parla e sia disposto ad ascoltarlo. Naturalmente v'è
qui verità, addirittura quella autentica. Naturalmente sono qui supremi
valori che conferiscono santità, e fondazioni dell'essere. È vero che
Dio è il Santo e la vita santa stessa. Che Egli, il santo-vero, il
vivente e il vivificante si presenti, è invero contenuto della
Rivelazione, la quale esige l'obbedienza di fede. Ma nell'ordine delle
posizioni quell'aspetto dell'obbedienza forma il punto critico. E in
rapporto ad esso che si definisce la «purezza» della fede.
La relazione «comando della Rivelazione-obbedienza di
fede» si pone di traverso, incrocia quella dialettica del «così» e
«altrimenti», del «mondano» e del «religioso» di cui si parlava.
In essa sta l'unico trascendimento autentico del mondo. Non appena viene
colto nel suo senso pieno il comando della Rivelazione espresso nella
Scrittura, si fa anche chiaro che tale comando non
11. La quale, per altro, ha paralleli molto
significativi; cioè nel modo in cui nella Genesi è formulata la prima
esigenza di Dio: appunto come obbedienza. Quando esaminiamo la
situazione mirando al suo contenuto di motivazione, naturalmente viene
alla ribalta una serie di conflitti, dietro cui si celano elementari
tensioni istintuali e via dicendo. La cosa decisiva però non sta nel
fatto che ci si chieda se l'uomo voglia la conoscenza del bene e del
male o una qualche soddisfazione di un istinto o del desiderio del
potere, ma se sia disposto a obbedire alla maestà di Dio che gli viene
incontro.
89
può emanare dal mondo. Nulla nel mondo può comandare
così; non gli è lecito e non ne è in grado. Il fenomeno del comando
della Rivelazione biblica presuppone che Dio sia al di là del mondo e
indipendente, in un modo essenzialmente altro da qualsiasi
sovra-mondanità puramente religiosa.
Qui è necessaria una delimitazione.
Anche la teologia protestante, rappresentata in modo
particolarmente consequenziale da quella dialettica, definisce la fede
come obbedienza. Ma come «mera» obbedienza, con l'intento di staccarla
da qualsiasi continuità con l'esistenza creata. Per essa l'uomo,
insieme col mondo, non è solo «nel peccato», decade allontanandosi da
Dio per il peccato, sconvolto e confuso dal peccato, ma egli «è
peccato». Allora ogni esperienza religiosa, vista cristianamente, non
deve essere solo problematica, ma semplicemente caduta, apostasia; ogni
pensiero che parta dal mondo non solo insicuro e sviante, ma
semplicemente antidivino. Ma allora la Rivelazione è puramente e
semplicemente incommensurabile col mondo. Non solo si pone «di
traverso» rispetto a ogni elemento religioso, ma in modo irrelato;
semplicemente in contraddizione. Non si può assolutamente capire come
l'uomo sia in grado di cogliere il fatto della Rivelazione -
impossibile, se visto nella prospettiva del mondo -, riferirlo a sé ed
entrare in sintonia con esso. E qualcosa a cui il singolo si decide con
se stesso; in un rischio che non può fondare con nulla e che non è in
grado di motivare a nessun altro. Lo osa fare - in vista della
possibilità non solo di cadere in errore, ma di divenire
metafisicamente un pazzo. La fede è il salto assoluto
nell'incommensurabile.
90
L'intento cristiano di questo punto di vista è chiaro,
gli interessa la purezza dell'elemento cristiano di contro al mondo.
Senonché la spinge fino alla di-struttività. Due dati di fatto
decisivi parlano contro di esso. Primo, che il Nuovo Testamento
semplicemente non lo conosce - a meno che si strappino alcuni passi di
san Paolo dalla totalità [del suo pensiero] e li si asso-lutizzi. Ma
poi si può mostrare che tale visione costituisce una specifica
struttura, una tragicismo nordico, esattamente determinabile, cui si
pone di contro, come complemento, un'adesione al mondo senza riserve.
Questa concezione semplifica lo stato delle cose, lo
esaspera e lo priva di realtà. Uaut-<iut in questa forma -
predicato un tempo da Kierkegaard in modo che tanto scoteva - non è
cristiano. Il cammino dello sviluppo teologico-fìlosofico tedesco
potrebbe presto mostrarlo, poste alcune circostanze. La visione
cristiana è molto più complessa. Non è vero che l'uomo e il mondo
siano «peccato», e quindi ogni esperienza religiosa sia mancanza di
verità e contraddizione contro Dio. In ogni punto dell'esperienza
religiosa v'è verità, che viene da Dio, che a Lui si dirige; ma in
ogni punto essa è anche ambivalente, e quindi piena del pericolo
dell'assenza di verità e della ribellione. Anzi, proprio questo è
l'elemento di gravita, il fatto che vero e non vero, rimandi e
indicazioni di Dio e sviamento lontano da Lui sono intrecciati tra loro.
Dire: tutta la realtà terrena è contro Dio; mettere da parte tutto e
compiere il balzo nel radicalmente altro sarebbe molto più facile
-quando non fosse privo di senso e impossibile. Ciò che scaturisce da
questo tentativo è una fede disperata, congiunta con l'incapacità di
vagliare nel mondo ciò che è cristiano e quanto non lo è; di inserire
il
91
mondo nel cristianesimo; di superarlo e al tempo stesso
di ricuperarlo alla sua destinazione. Un abbandono pertanto del mondo in
balìa della pura mondanità, e il paganesimo si avvicina
pericolosamente12.
VI
Tuttora resta sempre un interrogativo: che cosa è
quell'elemento numinoso, che orienta verso di sé l'e-
12. Ma può verificarsi tale comando rivelante? Ogni
parola di Dio che provenga da al di là del mondo deve pur esprimersi
nella materia dd mondo; nel materiale psicologico, nelle forme
linguistiche, nelle strutture simboliche e via dicendo - in tali
elementi può rendersi chiara una reale trascendenza? Abbiamo già
toccato il problema; bisognerebbe svilupparlo a sé e in profondità.
Qui solo un argomento: il problema diviene possibile nel suo senso pieno
solo quando effettivamente si può svolgere una rivelazione. In
un'esistenza in cui la Rivelazione non fosse possibile, quel problema in
assoluto non affiorerebbe. Esso, visto nella totalità della coscienza
storica, non significa affatto puro «problema». Non appena vengi
rettamente inteso, fa tosto avanzare la decisione di fede, e
precisamente nella forma preliminare d'una decisione a essere aperti
alla possibilità.
Ma come si legittima la Rivelazione effettivamente
avvenuta? Approssimativamente - come s'è già detto - mediante una
copia di aspetti: con il suo illuminare i contesti dell'esistenza, fa
apparire come dati nuovi valori supremi; oltre aiuto per padroneggiare
l'esistenza; lascia presagire l'adempimento dell'aspirazione alla
salvezza, e via dicendo. In ultima analisi e in senso proprio, però, il
comando di rivelazione non legittima affatto se stesso. L'atteggiamento
di tutti i passi decisivi della Scrittura lo conferma. Il comando di
rivelazione è emanato. Se chi lo ode ha l'atteggiamento corrispondente,
la specifica disposizione di prontezza, allora si fa consapevole per
quale motivo esso emani - quando, come, in quali circostanze è cosa
secondaria. Questo ultimo convergere unificandosi di Rivelazione
avvenuta, giusta disposizione, consapevolezza che si attua e assenso -
questo accordo tra rivelazione e fede non si può risolvere
ulteriormente poiché in esso è posto appunto quell'inizio, a monte del
quale esistenzialmente non si può più ricorrere, e che si deve invece
necessariamente esprimere in una struttura circolare di fondazioni o
motivazioni che si fondano reciprocamente. In ultima istanza la
relazione «rivelazione - fede» non provi se stessa, ma si appella alla
conferma, e definitivamente al giudizio (di Dio].
92
sperienza religiosa? Tra esso e il Dio Santo che si erge
nella Rivelazione sussiste pur una somiglianzà, se non una connessione!
Dobbiamo respingere il radicalismo della teologia dialettica, che
accentua la distinzione tra «altro» cristiano e l'«altro» religioso
fino all'impossibilità di relazione. Nell'esperienza religiosa è pur
vero che si parli di «Dio», e precisamente con evidenza - come si
colloca questa divinità rispetto a quella che parla nella Rivelazione?
Il «mondo» nel suo intero, così abbiamo visto, ha
esso stesso carattere religioso. Ciò deriva dal fatto che è stato
creato da Dio e sussiste solamente in virtù' di Lui; dal fatto che è
pervaso dalla sua operazione, e tutto in esso la esprime; poiché «in
lui noi viviamo, ci moviamo ed esistiamo» [At 17, 28]. Così il «numino-so»
anzitutto non può essere altro che «autotestimonianza naturale di
Dio» nella sua creazione; il trasparire, dato con l'essere delle cose
stesse, dell'archetipo divino; la vibrazione dell'atto creativo che si
fa valere nella realtà delle cose.
Se l'uomo si trovasse nella giusta situazione,
coglierebbe di là il Dio vivente e sarebbe condotto alla
autotestimonianza di Lui nella Rivelazione. Ma già questa divaricazione
tra rivelazione naturale e positiva non è esatta. Cioè, essa è
calzante nella nostra situazione; dobbiamo necessariamente farla, per
pensare e parlare rettamente. In sé la necessità di divaricare così
è già una situazione di emergenza*.
Il mondo è creato in modo da entrare nell'essere reale.
Esso è tale da stare nell'esistenza concretamen-
* Gioco di parole intraducibile tra Notwendigkeit,
'necessità', e Not-stand, 'situazione d'emergenza' (n.d.t.).
93
tè, per essenza. Ciò rende possibile quel tentativo
che è stato intrapreso nel primo peccato e in qualsiasi peccato
successivo: il tentativo dell'uomo di prendere il mondo, e se medesimo
con esso, in senso autonomo, come bastante da solo.
Questa separazione tuttavia non traccia la cesura in
modo da decorrere tra l'elemento «mondano» del mondo da un lato, e
tutto ciò che ha rapporto con Dio dall'altro. In realtà però l'esser
determinato da Dio appartiene indissociabilmente al mondo. Con tutto il
proprio essere, esso è immagine di Dio, poiché è sua opera ed effetto
permanente del suo volere. Così la separazione del mondo deve
riprendere in sé necessariamente anche ciò che da notizia di Dio. È
questo che vuole anche la volontà d'autonomia, poiché questa
proprietà del mondo costituisce appunto la sua «profondità» e la sua
preziosità «infinita». Sul fatto che il mondo ha dimensione numinosa,
ha la qualità dell'«altro», si fonda anzi, in ultima analisi, il
tentativo di rendere il mondo autonomo e autarchico. Solo un mondo che
è tale eccita all'usurpazione e la fa apparire possibile.
Così il taglio incide tra il mondo, che in sé indica e
rimanda a Dio, da un lato, e Lui stesso, nella sua maestà sovrana,
dall'altro. Questo taglio cerca di separare l'immanenza di Dio nel mondo
dalla sua integrità sacra, di abbattere tale immanenza sul mondo e di
porre la totalità del mondo in se stessa - senza di Lui, anzi contro di
Lui, che è il Signore del mondo. L'esperienza del mondo prende il
mondo, che in verità è numinoso per derivazione da Dio, come numi-noso
in se stesso, e lo divinizza.
In conseguenza tutto si confonde. Già nella prima
94
esperienza religiosa operano l'aspirazione e lo sforzo
di staccare da Lui l'alito del Dio vivente, il suo trasparire attraverso
le cose, e prenderlo per sé. Nascono i numi, gli esseri divini:
condensazioni dell'irradiazione divina staccate dal Signore del mondo,
fino alle configurazioni supreme del monomorfismo religioso.
Queste forme, prese semplicemente per sé, sono
improntate alla ribellione, o errate, o ambigue - almeno indecise e
perciò pericolose. Chi vi si attacca al mondo; almeno si trova nel
pericolo di soggiacergli.
Solo a partire dalla Rivelazione la libera esperienza
religiosa, insieme con il pensiero e la creatività a essa riferentesi,
e con le configurazioni religiose (religioni) che ne scaturiscono, può
essere recuperata a Dio, in quanto tutto ciò entra a servire la fede.
Allora l'esperienza religiosa viene sciolta dalla sua ambiguità, e resa
un elemento dell'esistenza cui, sotto la tutela della fede, va dato
cristianamente l'assenso. Anzi, soltanto mediante essa la fede
acquisisce quelle energie creative, di cui ha bisogno per svilupparsi.
Se, per citare un esempio, una persona sensibile sperimenta vitalmente
la natura e il suo misterioso operare, gliene può venire incontro un
che di numinoso. Se lo prende come a sé stante, lo interpreta solo
partendo da esso medesimo, giunge allora alla rappresentazione di
potenze divine della primavera, di una Madre Terra creatrice, quindi di
una Natura-Dio in qualche forma. Con ciò, tuttavia, egli ha frainteso
la numinosità dell'esperienza della natura effettivamente presente, si
svia allontanandosi dal Dio vivo e incorre in un irretimento nella
natura. Francesco d'Assisi ha fatto quest'esperienza in forma assai
intensa. Tuttavia è rimasto nella chiara inequivocabile fede al
95
Dio vivo, al Creatore del mondo, al Redentore dal
peccato, al Santificatore mediante la grazia, l'amore e il superamento
di sé. Così egli ha avuto una cognizione non illusoria di come stiano
le cose quanto a quell'elemento numinoso; esso rappresenta le tracce di
questo Dio; testimonianze del fatto che noi «viviamo, ci moviamo ed
esistiamo in lui»; vibrazione per così dire della sua potenza creativa
entro il mondo. Perciò egli non ha raccolto queste qualità attorno a
un autonomo centro del mondo, ma le ha riferite al Creatore sovrano
rivelato. L'esperienza del carattere religioso della natura è stata
ripresa a livello superiore dalla sua fede al Signore della creazione.
Così essa è stata purificata per ricorso a tale fede e ha immesso la
sua esuberanza nella rappresentazione di fede di Dio, Creatore,
prowidente, ricco e benevolo.
96
CAPITOLO TERZO TRÉ DISCORSI DOTTRINALI
L'INTERIORITÀ CRISTIANA
Dopo che a Gerusalemme la decisione è stata adottata,
Gesù mette i suoi discepoli di fronte all'essenziale, per attrezzarli
alla lotta. Rientrano in questo contesto anche le parole di Le 17, 20
ss.
Il Signore ha operato il segno possente della
distribuzione del pane a migliaia di persone. Ciò ha fatto sulle
persone una profonda impressione, ed esse hanno voluto innalzarlo alla
dignità di rè, affinchè eriga il regno d'Israele. Egli però si è
sottratto al popolo -e allora si afferma:
«II Regno di Dio non viene con ostentazione (Geprange)
esteriore. Non si può dire: Eccolo qui o eccolo là; infatti il
Regno di Dio è intcriore (inwendig) a voi»*.
Qui cade dalla bocca di Gesù stesso quella parola che
in seguito nella storia del pensiero cristiano, so-
* Riportiamo, qui di seguito, la traduzione della CEI,
da cui quella di Guardini se ne stacca per certi aspetti: «II Regno di
Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo
qui, eccolo là. Perché il Regno di Dio è in mezzo a voil». Si deve
notare che oggi gli esegeti tendono accentuatamente a interpretare i'evtoc
uu5v del greco originale proprio con «in mezzo», «tra» e non
«dentro di voi», possibilità ermeneutica che del resto l'Autore
immediatamente dopo considera (n.d.t.).
97
prattutto nell'epoca moderna, ha acquisito un'importanza
tanto grande: quella sull'interiorità cristiana.
Vogliamo perseguirne l'essenza. Non ci riuscirà facile
afferrarla. Semplicemente credendo, ne abbiamo una chiara cognizione. Ma
non appena cerchiamo di determinarla con pensiero preciso, le
difficoltà si accumulano. Tuttavia molto dipende dal nostro comprendere
che cosa significa «l'interiorità cristiana» - altrimenti
difficilmente raggiungeremo una chiara autocomprensione cristiana, e
riusciremo a penetrare a fondo tutte le mezze verità, le confusioni e
le falsificazioni che sogliono aderire proprio a questo concetto,
Anzitutto si dovrebbe chiarire il senso diretto e
immediato del testo. Non appena si collazionano i diversi paralleli, si
vede che non è assolutamente limpido in modo univoco. Le parole di
Gesù possono significare: voi non dovete attendere il regno di Dio,
perché è già tra voi. Certo non lo vedete, finché credete che i suoi
segni siano quali quelli per l'erezione di regni mondani, per esempio la
guerra, la conquista di possedimenti o cose simili. Ha invece carattere
intellettuale, spirituale ...* invece possono significare:
Non dovete attendere il regno di Dio come realtà che
s'insedi esteriormente; è in voi stessi, nei vostri cuori.
Quanto al significato immediato del testo, le cose
* Guardini usa gli aggettivi geistìg e geistlich,
che in tedesco denotano la spiritualità, diremmo, neutra il primo,
religiosa il secondo. Poiché 11 lingua italiana non ha questa risorsa
distintiva, sarà il contesto a determinare il senso più esatto di 'spirituale',
'spiritualità' nei diversi casi; qui si e tentato di discernere
traducendo geislig con 'intellettuale', il che in realti è una
forzatura (n.d.t.).
98
stiano come vogliono; comunque Gesù sottolinea un
particolare carattere del regno di Dio a differenza delle cose e
avvenimenti visibili dell'esistenza umana. In confronto di essi, il
regno è «intcriore».
Come dunque immaginava il regno di Dio l'epoca di Gesù?
Anzitutto come un ristabilimento della libertà
nazionale. I romani sarebbero stati scacciati, la terra sarebbe stata
indipendente e la stirpe reale avita sarebbe giunta di nuovo al trono.
Un rè della casa di Davide avrebbe dominato a Gerusalemme; questo
dominio terreno però avrebbe dovuto costituire al tempo stesso un
prodigio operato in virtù del ciclo. Il nuovo rè, il Messia, sarebbe
dovuto essere allo stesso tempo profeta, taumaturgo, organo diretto di
Dio. Il suo dominio avrebbe dovuto avere un carattere misterioso
apocalittico. Il regno si sarebbe dovuto trovare in Palestina, con la
capitale Gerusalemme; ma espandersi attraverso il mondo intero e
accogliere in sé tutti i popoli nell'unità della regalità messianica.
Gesù ha respinto quest'idea del regno. A quanti
attendono questo regno e aspettano i segni visibili del suo avvento,
egli dice: «II regno di Dio è in voi».
Con queste parole non vuole distogliere, poniamo, gli
uomini dalla vita esteriore. Non dice: devi entrare nella quiete, invece
che nella lotta. Non: tu devi ritirarti nel regno dello spirituale e
lasciare l'elemento politico; occuparti di cose elevate invece che delle
ambigue faccende del giorno; trovarti con poche persone scelte invece
che con la folla e il suo chiasso. Pensieri del genere sono lontani da
Gesù. Ciò che Egli vuole non ha nulla a che fare con l'interiorità
99
culturale o umanistica dell'esistenza ritirata nello
spi-rituale-intellettuale, orientata all'altezza.
Che cosa potrebbe dunque significare in assoluto
«interiorità»? Vogliamo non risparmiarci la fatica, e perseguire
invece con precisione il problema.
Ve interiorità del corpo. Così si parla per esempio
degli organi interni, a distinzione di quelli esterni; di ferite interne
invece di quelle sulla superficie corporea. «Più in profondo», in una
nuova regione di profondità, sta l'interiorità dell'elemento psichico,
che differisce da quello organico. Io posso misurare un'area corporea
infiammata che è lunga o larga tanto o tanto. Il dolore che essa
produce non ha estensione. L'infiammazione è corporea e pertanto
«esterna»; il dolore può avere cause corporee, ma in sé è psichico,
nella coscienza, e perciò, a confronto con l'elemento corporeo, è
intcriore in maniera particolare.
Ora però, se paragoniamo un semplice dolore corporeo
con un sentimento dell'anima, per esempio l'ira, si presenta alla
ribalta una nuova differenza di profondità. L'ira per un'ingiustizia è
«più profonda» in un senso nuovo rispetto al dolore corporeo. In quel
dolore viene alla coscienza la lesione corporea;
l'ira invece è un sentimento dell'anima e ha un
contenuto, per esempio il torto subito.
Ora, l'ira stessa può avere a sua volta diversi gradi
di profondità. E diverso, se io mi adiro per la sfronta-tezza di una
persona o per lo sciupio o il guasto di un nobile oggetto. Qui la
distinzione viene dal rango di valore dell'oggetto. Può essere fondata
tuttavia nell'essenza intrinseca del sentimento stesso. Ogni sentimento,
si chiami ira o gioia o bontà, ha gradi di profondità. Non si può
risolvere ulteriormente che cosa
100
sia la «profondità» della bontà - a differenza per
esempio della sua «forza» o dalla sua «ampiezza». Profondità qui
significa un carattere originario, in conformità del quale questo
processo di vita scende maggiormente nell'intimo, è più «intcriore».
Vi sono anche gradi di profondità nel rapporto di
diversi strati di sentimento tra loro. Così io posso scoprire che, al
di sotto dell'ira quale sento verso una persona, sta una simpatia; che
questa simpatia è l'elemento propriamente portante, e l'ira non fa che
poggiare su di esso, o addirittura ne è fatta crescere.
Infine la profondità propriamente spirituale. Io posso
voler bene a una persona per motivi del tutto diversi: per egoismo, o
benevolenza, o perché non posso vedere l'angustia d'un altro, o per
reale disinteresse. Ora, l'elemento spirituale d'un comportamento è il
suo senso, e il modo in cui, esso si costruisce sulla base di questo
senso. Questo elemento spirituale sta «più in profondità» di quello
psichico o del sentimento. Esso stesso a sua volta può calare in
profondità a perdita d'occhio. Anzitutto secondo il rango del senso,
cui in esso si da consentimento: così l'autentico disinteresse è più
profondo della simpatia, che si sente oppressa dall'angustia e
sofferenza altrui. Poi secondo il carattere immediato di profondità,
che l'atto stesso spirituale possiede: un amore può essere profondo, ma
privo di energia di superamento; può avere la più forte passione, e
tuttavia essere superficiale.
Si potrebbero dire ancora molte cose del genere.
Comunque è risultato chiaro come l'esistenza dell'uomo sia costruita
dall'interno verso l'estemo - si può anche dire dall'esterno verso l'intemo.
Così dapper-
101
tutto, sia nella stratificazione dei diversi ambiti
dell'esistenza, sia entro ciascuno degli ambiti stessi, si fa valere la
dimensione della profondità.
Ora, quando Gesù parla dell'interiorità del
regno - intende qualcosa di questo genere?
Lo si è pensato. Si è affermato che, in virtù del
cristianesimo, l'umanità sia divenuta «interiorizzata». I popoli
giovani ancora barbari sarebbero stati fatti passare da una situazione
primitiva a una più profonda; i popoli antichi colti sarebbero stati
portati dalla dissipazione, dalla scissione spirituale, dall'eccesso di
affinamento della loro situazione a un raccoglimento intcriore. Questo
rafforzamento e approfondimento del mondo intcriore sarebbe proseguito
nel corso della storia medievale e moderna. Nell'epoca moderna, con
l'inizio nel Rinascimento, avrebbe avuto principio poi una nuova fase
particolarmente importante di questa interiorizzazione: l'uomo avrebbe
scoperto l'importanza e significatività del singolo essere, della sua
irrepetibile soggettività; il che, poi, di conseguenza, si sarebbe
ripercosso anche in una religiosità, moralità, concezione del diritto
ecc. «interiorizzate». Secondo questa visione l'interiorità del Nuovo
Testamento sarebbe un passo sulla linea del progresso generale. La
storia umana avrebbe il senso di realizzare sempre più pienamente le
dimensioni di profondità della nostra esistenza, e Gesù
significherebbe qualcosa di particolarmente importante su questa strada.
Stanno così le cose? Manifestamente no! Vogliamo però
essere cauti. Naturalmente anche così. Uomini la cui vita è dominata
dalla coscienza dell'onnipresenza di Dio, della Provvidenza, della vita
eterna che è
102
entro il nostro essere redento - tali uomini diverranno
più interiori necessariamente anche in senso psicologico e culturale.
L'attuazione di questa fede coinvolgerà costantemente nel suo sviluppo
anche le profondità naturali dell'uomo. Tuttavia, quanto intende Gesù
essenzialmente è qualcosa d'altro.
Per interiorità Egli non intende il dispiegamento della
psiche, il divenire più profondo del cuore o dell'animo, la
realizzazione progrediente del senso spirituale mediante opere e atti.
Nemmeno intende dire che tra gli ambiti dell'intimo finora conosciuti se
ne schiuda uno nuovo - così come, per esempio, secondo l'opinione di
parecchi, la nostra coscienza, dalle nuove cognizioni psicologiche
dovrebbe acquisire un nuovo carattere di profondità. Ciò che Gesù
intende, è, in linea di principio, diverso da tutto ciò che è umana
interiorità, sebbene naturalmente debba essere realizzato dall'uomo, e
poi metta anche in movimento tutte le energie di interiorità in attesa.
Questa interiorità non viene in assoluto dall'uomo, ma da Dio.
Ora però noi dobbiamo distinguere ulteriormente - in
verità abbiamo deciso di non eludere alcuna difficoltà, ma di andare
realmente al fondo. Ve l'esperienza vissuta religiosa: l'esperienza di
ciò che è misterioso, che si trova dietro le cose e gli eventi: la
coscienza del non nominabile, del misterioso, del «numinoso»; il
presentimento del primo inizio, dell'ultima fine e dell'unità che tutto
assomma. Tutto ciò è in certo modo connesso con Dio; intende Dio; lo
ricerca.
Così si potrebbe pensare che quell'interiorizzazione
significhi, per questa esperienza religiosa, divenire
103
sempre più profonda; per queste condizioni e questi
atti religiosi, svilupparsi sempre più in dirczione della forza, del
raccoglimento e della ricchezza di senso. Anche ciò non sarebbe esatto.
Ciò che Gesù intende è, anzitutto, non un dispiegarsi
della disposizione religiosa naturale, come è nelle aspirazioni e negli
sforzi dei sistemi mistici e ascetici delle diverse religioni. Egli
invece è venuto per rivelare Dio che è sovrano di fronte al mondo. Per
dirci che cosa Dio pensa di noi, come noi ci troviamo di fronte a Lui, e
che cosa Egli esige da noi. Per annunciare a noi che cosa è
intenzionato Dio a fare nei nostri rapporti. Gesù non porta
possibilità più elevate d'esperienza religiosa e indicazioni per l'autosviluppo
religioso, ma ci annuncia la grazia, la redenzione, la nuova creazione,
il giudizio. Dapprima e in maniera fondamentale qui non si tratta di
esperienza umana, ma d'un agire di Dio, per un decreto libero e
imperscrutabile; e divenire cristiano significa prendere questo agire
nella fede alla parola di Cristo come l'ultimo fondamento e criterio
decisivo della propria esistenza - e non importa che esperienza viva si
faccia in tale circostanza; se vi ci si «approfondisca» o no; se vi si
divenga armonici o dilacerati; perfetti e compiuti o frammentari.
Così anche l'interiorità che Gesù intende non è in
prima istanza un'interiorità del nostro essere psicologico ne
spirituale, ma quella che Dio crea in noi. Non è una dimensione di
profondità che rimanga in attesa nella disposizione religiosa, ma non
sia ancora dischiusa, bensì semplicemente è un dono di Dio. Poi certo,
quando Dio la dona, essa diviene subito anche 'psicologica' e 'spirituale',
cioè esplicitata e adattata
104
negli atti e nelle condizioni dell'uomo - il che
sviluppa necessariamente le disposizioni date e fa avanzare le
evoluzioni storiche; certo anche le sottopone a critica, le scuote, le
trasforma. L'interiorità cristiana non è uno spazio in noi, che si
presenti già pronto e in cui Dio venga, ma è il Dio stesso, che viene
per realizzare il suo Regno, a produrre la profondità e l'ampiezza
intcriore, in cui vuole abitare. Essa dipende da Dio e può essere
ricevuta solo dalle sue mani. Certo, ancora una volta: se Dio la crea,
allora essa si realizza nell'essere e nella vita psicofisici, e ciò
significa al tempo stesso anche un dilatarsi, un farsi 'spazioso'
dell'uomo concreto, un rafforzarsi degli atti e delle circostanze, un
elevarsi del mondo interno, soltanto nel quale l'uomo, in assoluto,
diviene ciò che si era proposto di fare con lui il Creatore.
Ma non siamo ancora alla realtà propria e autentica.
Che cos'è in ultima analisi questa interiorità? Il
luogo «dove» è Dio.
E dove è Dio? In se stesso.
La serietà di Dio - questo è il luogo dov'Egli sta. La
gioia di Dio per se stesso; la conoscenza con cui penetra la propria
essenza - ecco il luogo dov'Egli abita. La misurazione perfetta della
sua etema grandezza; l'assenso amoroso della sua stessa santità - ecco
il luogo dove è Dio. Il «dove» di Dio è il suo atto proprio. Infatti
il suo essere intero per Lui consiste nell'atto. Tutto ciò che Egli è,
Egli pensa. Tutto ciò che Egli vale, lo misura. Tutto ciò che Egli ha,
lo gode. Niente «si trova» meramente in Dio; tutto sta entro la sua
pura vitalità. Questo è il suo luogo: il fatto che Egli possiede se
stesso nell'atto.
105
Così questa affermazione è poi anche una inadeguatezza
pura e semplice, in quanto solo Lui ha questa energia d'atto. Egli
sfugge a qualsiasi altro atto. L'interiorità di Dio è il suo luogo e
al tempo stesso il suo nascondimento. Appunto ciò che lo rende
manifesto senza residui a se medesimo, la sua luminosità assoluta, lo
chiude per tutto ciò che Egli non è:
«Egli abita nella luce, che per tutto [quanto è
creato] è inaccessibile» [1 Tim 6, 16].
Questo Dio, con la sua comprensione di sé, viene in
noi. Così parla Cristo. Ma il suo apostolo dice che noi siamo la
«stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa,
il popolo che Dio si è acquistato, perché proclami le sue opere
meravigliose, di Lui che [ci] ha chiamato dalle tenebre alla sua
mirabile luce, [noi] che un tempo [eravamo] non popolo, ora invece siamo
il popolo di Dio, [noi] un tempo esclusi dalla misericordia» [1 Pt 2, 9
s.]. E inoltre dice che «la sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni
bene per quanto riguarda la vita e la pietà, mediante la conoscenza di
colui che ci ha chiamati con la sua gloria e potenza. Con queste ci ha
donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché
[diventassimo] per loro mezzo partecipi della natura divina» [2 Pt 1,3
s.].
L'interiorità di Dio s'accosta al credente quando Dio
dunque viene a lui - perché Dio è Lui stesso la sua interiorità.
Quando Dio si dona all'uomo, gli dona pure la sua santa interiorità.
Essa si fa valere, si afferma nel credente. Nella partecipazione della
grazia, nel far proprio l'amore egli deve associarsi nell'at-tuarla -
ciò soltanto costituisce l'interiorità cristiana.
106
Così nell'esistenza cristiana v'è un profondo mistero:
ecco un uomo, una creatura, un frammento di mondo. Ma in lui si leva il
Dio vivente. Egli non è creatura, non è mondo. Dio è Dio. Egli vive
nella interiorità sua propria e concede all'uomo di poterne
partecipare. Non da risorsa propria e come possesso proprio, ma per
grazia e come grazia. In quanto l'uomo cosi agisca credendo ed amando,
in lui si desta una vita che non proviene da lui stesso. Tuttavia egli
è reale, ha una umana realtà, e solo in tal modo diventa propriamente
uomo secondo il senso voluto dal suo Creatore.
Ciò avviene mediante la fede, la carità, la speranza.
Sono le «virtù teologali»; le virtù «infuse», mediante le quali
l'uomo s'associa all'attuarsi della vita divina. Tra loro vige
l'inesprimibile unità dell'atto cristiano d'esistenza, di cui Paolo
parla dappertutto nelle sue lettere, anche quando non discorre
espressamente di ciò.
Questa è l'interiorità che Cristo intende. Essa si
pone di traverso rispetto a tutti gli altri ambiti d'interiorità. A
tutte le forme naturali d'interiorità, che sono correnti nel mondo,
quella intesa da Cristo sopraggiunge dal cielo, dal di sopra,
dall'Altro. Non le ci si può avvicinare col rendere i sentimenti più
profondi o più nobili le comprensioni di senso o significato. Scavare
entro se stessi psicologicamente o esistenzialmente non traccia una via
verso di essa. Nessuna interiorizzazione che venga dal mondo - e al
«mondo», in questo senso, appartiene tutto ciò che l'uomo è di per
sé - fa avanzare verso l'interiorità cristiana. Vi porta solo la fede,
la disponibilità ad andare dove si trova Cristo.
Ma ciò è anche realmente esatto? O è pur sempre,
107
ancora una volta, una escogitazione che parte dall'uomo?
Un brano di filosofia dell'interiorizzazione, solo espressa in termini
teologici? Questa interiorità di Dio non è pur un ambito psicologico,
solo proiettato sul piano metafisico o, presuntamente, pneumatico?
L'interrogativo si può porre, ma la risposta non viene
più da una discussione teoretica. Se mai in qualche luogo si appiatta,
è qui che grava l'oscurità del possibile scandalo, poiché a ogni
interrogativo del dubbio sarà possibile una risposta - ma ogni risposta
a sua volta può esser messa in questione. Verosimilmente per ogni
aspetto della nostra esistenza, che la fede rivendica, v'è pure
un'altra qualificazione naturale. In ultima analisi, la fede deve
necessariamente riposare in se stessa. Credere in verità significa pur
questo, osare un nuovo inizio. Ma gli inizi non si possono provare,
bensì solo attuare. Iniziare significa entrare in una esistenza - ma
quest'esistenza come potrebbe dimostrare a chi non v'è dentro che essa
c'è e ha diritto [di affermarsi]? Essa può solo esserci, affermarsi e
per il resto attendere il giudizio [finale].
Tuttavia nell'esistenza cristiana v'è qualcosa che può
chiarire a chi vuoi vedere ciò che avviene. Nella misura in cui l'uomo
si fa credente, nella misura in cui lascia che si affermi in lui la
realtà del Dio vivente e si assoggetta a ciò che viene da Lui, nella
stessa misura si libera di se stesso. Non nel senso che per
l'interiorità psichica acquisita sia in grado di giudicare l'esterno, o
per la spiritualità approfondita possa giudicare la vita dell'anima.
Non nel senso che egli cresca nell'approfondimento entro di sé e da
quella profondità veda in modo più giusto. Ma in lui sorge ciò che
altrimenti non può sorgere, assolutamente no;
108
un autentico, anzi l'unico autentico punto archimedeo,
sulla base del quale egli può sottoporre a giudizio se stesso come
totalità. Nella misura in cui l'uomo realizza l'interiorità cristiana,
accoglie nel raggio del suo sguardo se stesso e diviene capace dell'autoconoscenza
vera e propria cristiana. Essa ha una chiaroveggenza, un pescaggio, per
cosi dire, una inesorabilità e insieme una forza creativa di
rinnovamento - ciò tuttavia non è ancora la realtà più vera, ma essa
è in grado di fare ciò che altrimenti è impossibile: abbracciare con
lo sguardo tutt'intorno l'essere proprio nella sua interezza; scrutare
oggettivamente nel proprio io e giudicarlo. Ciò può avvenire solo
perché qui non è più solo l'io umano a giudicare se stesso; non è
più solo il dato di fatto psicologico della partizione tra io
considerante e io considerato che si presenta e viene approfondito, ma
il credente ottiene una partecipazione allo sguardo di Dio su di lui,
sull'uomo. L'autoconoscenza cristiana è l'associazione all'atto con cui
Dio guarda noi stessi, elargitaci per grazia. Così ad essa nulla rimane
sottratto - parlando in linea di principio; in quale misura poi la
possibilità sia realizzata anche di fatto, è questione del volere e
dell'agire; -nessun resto di un io il più riservato, il più occulto.
Tutto è costretto a cadere sotto il suo sguardo, la sua valutazione,
giacché essa si appoggia su Dio. Solo qui diviene possibile quanto in
sé è l'impossibile: il reale farsi nuovi.
Infatti è pur questa la brama indistruttibile
dell'uomo: trarsi fuori da se stesso. Non fuggire correndo da sé;
sarebbe la degenerazione vile di quella ardente aspirazione. Non
diventare un altro nel senso di un cambiamento di persona; sarebbe una
recita teatrale
109
dell'esistenza. No, in lui vive la coscienza che di
necessità debba essere possibile per la persona l'impresa inaudita di
venire fuori dall'io logoro, e appunto solo in tal modo divenire
giustamente se stesso. Anzi, l'uomo di continuo tenta di compiere questo
mistero fondamentale: nell'atto ardito; nella dedizione all'opera; negli
incontri dell'amore; nelle crisi di passaggio entro lo sviluppo
personale - fino ai processi, con carattere illusorio e tuttavia così
colmi di significato, delle malattie psichiche. L'intera vita è un
perenne tentativo di autosuperamento, ma esso non riesce mai. Si giunge
sempre solo ad abbozzi, schizzi, pianificazioni. Non sfociano mai nella
realtà perché non diviene possibile il momento decisivo, il balzo.
L'uomo in verità rimane sempre irretito nel circolo dell'io. Ciò si fa
possibile solo qui, mediante l'incarnazione di Dio, la redenzione e la
grazia. Così dunque il messaggio più profondo di Cristo è la venuta
di Dio e, con essa, la possibilità che si formino l'uomo nuovo, la
nuova creazione, il nuovo cielo e la nuova terra - a partire da quel
punto d'interiorità, che Dio stesso da e che è al tempo medesimo il
punto del santo «al di sopra»; con il quale il credente sta
interamente in se stesso, appena ora de! tutto intimo e uno con se
stesso - e al di sopra di sé, libero da sé e capace di giudicarsi.
Ciò è quanto Gesù intende, qui ripetuto faticosamente
con molte inutili parole. Di qui, da questa interiorità, viene il regno
di Dio.
Ma non per rimanere in disparte, puramente «intcriore»,
semplicemente «spirituale», nell'uso privo di chiarezza di queste
parole. Dio non vuole un regno
110
spirituale, ma il regno dello Spirito Santo, che però
è creatore del mondo. Ciò che deve scaturire da quella interiorità,
non è una anima immersa in se stessa, ma l'uomo nuovo. Non un ambito
riservato, bensì la nuova creazione. Semplicemente tutto deve essere
afferrato e rigenerato da questa interiorità.
Così adesso si dovrebbe parlare ancora del fatto che
nella Chiesa v'è lo stesso ambito di interiorità, in ragione del quale
è fondato il dato possente della «Chiesa invisibile». In ogni
sacramento, nel dogma, in ogni espressione essenziale di ciò che si
chiama «Chiesa» vive questa sfera di interiorità. Ma qui non possiamo
addentrarci ulteriormente nell'argomento.
La risurrezione però e il compimento del mondo
significheranno che la santa interiorità, di cui abbiamo parlato,
coincide con l'essere concreto dell'uomo. Tutto ciò che è collegato
all'uomo e alle cose allora sta nell'interiorità, avvolto da essa,
attuandosi in virtù d'essa. Proprio in questo tuttavia, l'interiorità
si è aperta; manifesta* in tutto ciò che esiste. Niente sarà più
«occulto». L'interiorità sarà integralmente penetrata dallo sguardo,
dagli occhi di tutti coloro che sono veggenti nella luce di Dio. In ogni
gesto umano risplenderà l'interiorità; in ogni frammento della
creazione, in ogni foglia e in ogni goccia d'acqua - anzi, ci è
consentito parlare della foglia e della goccia senza cadere nella
favola, giacché la stessa Apocalisse parla degli alberi della vita e
della sacra corrente.
Il mistero del mondo risorto consisterà in questo:
* Gioco di parole in tedesco tra offen,
«aperto» e offenbar, «manifesto», «rivelato» (n.d.t.).
Ili
tutte le cose saranno divenute totalmente interiori;
l'interiorità sarà divenuta integralmente manifesta in
modo plenario; sarà unità.
LA PREGHIERA DI RICHIESTA
Nel Nuovo Testamento si discorre molto del chiedere.
Spesso e con insistenza Gesù ne parla.
«Chiedete e vi sarà dato; bussate e vi sarà aperto»
[Mt 7, 7]. E ancora: «Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome
ve lo concederà]» [Gv 15, 16].
E affinchè invero soltanto risulti chiaro che si tratta
di un chiedere reale, nel senso pieno e con tutta l'iniziativa, egli
narra la parabola dell'uomo che a ora tarda viene dal suo vicino e
chiede tré pani. Quello gli risponde che ormai tutti sono a riposo e
che non può mettere più tutto in agitazione; ma l'uomo continua a
bussare e a chiedere finché l'amico, «per la sua insistenza» e per
liberarsene, fa quanto l'altro vuole. Così dovreste fare con Dio, dice
Gesù [Cfr. Le 11, 5-8].
Certo l'energia del chiedere non sta nel parlare esterno
e nello sforzo psichico, ma nell'intensità del moto del cuore e nella
purezza della fede. Perciò il Signore esorta a non pensare - come i
pagani - che le molte parole, o le parole scelte e belle riescano a
ottenere; o, potremmo proseguire, che vi riescano l'individuazione,
sviluppatasi qui, delle circostanze effettive di vita, o il senso
pratico, o qualcosa d'altro che appartiene all'uomo e al mondo. Infatti
Dio in realtà conosce ciò di cui abbiamo bisogno. Quanto deve venire
da noi, non è che mostriamo a Dio quel che ci è necessa-
112
rio, o che lo moviamo a volere quanto è giusto, ma che
abbiamo il vivo atteggiamento di fede e d'amore, che è ordinato alla
sua paternità, la quale s'allea a tutta la sapienza e a tutta la
benevolenza. Così Gesù da ai suoi un esempio e un criterio di ogni
retto pregare, il Padre nostro, affinchè vedano come devono
pregare.
Si dovrebbero dire ancora parecchie cose del genere.
Il mondo del Nuovo Testamento è pervaso
dall'orientamento verso la preghiera e la richiesta*; le parole del
Signore, le sue parabole, il suo atteggiamento personale ci avvicinano
tale orientamento, tanto che ci sembra comportamento del tutto ovvio;
una cosa bella, intima, profonda, che per necessità proviene
dall'essenza. Quando però riflettiamo più a lungo e in maniera giusta
su cose cristiane, ci sentiamo sempre poi chiaramente messi in guardia
dal prendere alla leggera tale impressione di dimestichezza e owietà, e
si mostra continuamente che proprio le cose in apparenza più ovvie sono
tali nella minor misura.
Per esempio un dotto, che viva totalmente nel mondo del
pensiero scientifico e al tempo stesso sia un uomo che riflette
seriamente. Se domandassimo a tale persona: Che idea hai del pregare? -
certo allora egli direbbe: Nulla avviene senza ragion sufficiente. In
tutto v'è senso e consequenzialità. Tutto l'essere e il divenire
costituiscono quel grande contesto che chiamiamo «natura», e in cui
tutto è, come deve necessariamente essere. Ma è religioso quell'uomo
che
* Assonanza tra belen, «pregare» e billeri,
«chiedere» su cui l'Autore gioca per tutto il saggio (n.d.t.).
113
accoglie con reverenza questo contesto e vi si
inserisce. E pregare significherà immergervisi dentro meditativamente;
adattarsi in ciò che è necessario; presagire, al di là dell'esterno e
del contingente, la profondità che va all'interno; insomma, comprendere
se stessi come membra del gran Tutto ... Ciò è pensato con
profondità, è anche religioso, pio. Ma non ha nulla a che fare col
pregare in senso cristiano, e, ancor meno, col chiedere del Vangelo.
O un medico, diciamo uno psichiatra. Che idea hai tu del
pregare? Egli dirà: Molti disturbi della vita psichica vengono
dall'irrequietezza e dalla convulsione del volere; dal voler fare,
conquistare, estorcere. Proprio questa inquietudine e queste forzature
rendono incapaci di volere in modo giusto. Quando vi ci si incapsula,
non si vede nulla rettamente, perché non si ha chiara visione di che
cosa propriamente si voglia; perché non si vuole movendo dalla giusta
profondità; perché non si rimane nella linea del volere possibile.
Chiedere significa dunque anzitutto e soprattutto 'sganciare' il
volere*. Non volere questo e quello e tutto il possibile, ma
sciogliersi. Chiedere significa liberarsi da intenzioni, abbandonandosi
alla grande esistenza, nella fiducia verso la sua saggezza e pienezza di
senso. Proprio nell'agire così lo sguardo acquisterà chiarezza per
cogliere la giusta pienezza di senso; la persona diventerà una con se
stessa nel suo volere. E questa la grazia della preghiera ... Un
pensiero nobile e pieno di saggezza di vita. Ma il chiedere cristiano
significa qualche cosa d'altro.
* II verbo usato da Guardini è abschirren, che
significa propriamente «staccare i cavalli dalla carrozza» (n.d.t.).
114
E si potrebbe ancora interrogare una persona di grande
profondità, che non fosse tuttavia un cristiano; un mistico molto
spiritualizzato, come esistono in tutte le religioni. Che cos'è il
giusto chiedere? Certo risponderebbe: abbandonare la propria volontà
nella volontà di Dio. Non voler nulla d'iniziativa propria, solo che si
compia il volere divino. E per il resto, venerare, ringraziare, adorare
... E un orientamento di pensiero e sentimenti mirabile; è anche vero.
Ma se deve essere vero in senso cristiano, si deve scorgere e assicurare
qualcosa d'altro.
In tutto quanto è stato detto qui, manca appunto quello
che importa in prima istanza nel Nuovo Testamento e in dirczione del
quale pongono l'accento le parabole di Gesù: il fatto che il credente
è chiamato a un'autentica iniziativa.
Il chiedere del Nuovo Testamento è un chiedere reale,
non uno puramente apparente. In esso si rilevano l'abbisognare e
l'aspirare vero e proprio dell'uomo, si atteggiano in parole e si
presentano davanti a Dio. Sicuramente, rimettendo tutto alla sua santa
sapienza e obbedendo al suo volere. Ogni petizione cristiana ha la
condizione previa, sempre intesa in concomitanza: se così è giusto al
tuo cospetto - altrimenti, in verità, essa cercherebbe di affermare la
propria volontà contro quella del Signore e incorrerebbe nella perdita
della salvezza. Restando però entro l'ampiezza infinita del volere di
Dio, si prega realmente:
«Dammi questo ... difendimi da questo ... aiutami per
questo ...».
Tale chiedere non è nulla di ovvio, stabilisce invece
presupposti di portata molto vasta, che non si dan-
115
no sulla base del mondo. Vogliamo enuclearli con cura.
In tale operazione risulteranno visibili parecchie cose che sono
essenziali per la comprensione dell'esistenza cristiana.
Anzitutto: come dev'essere allora Dio affinchè sia
possibile una preghiera di domanda?
Finché si intende per «Dio» il Fondamento del mondo,
il Senso dell'esistenza, il Vero e il Bene supremo, l'Autore onnipotente
di tutte le cose, in altre parole «l'Essere assoluto», non v'è alcuno
spazio per le preghiere di domanda in senso proprio. Esse scivolano via.
Tale Essere sa tutto. Ma il suo occhio non posa volgendo lo sguardo
sulla mia esistenza particolare. Esso opera tutto; ma non agisce in
dirczione di me, singolo. E tutto in tutto, ma non il «mio Dio». In
rapporto a tale Essere, una preghiera di domanda è fuori luogo. Essa ha
in sé in tal caso - come esprimerci? - sì, qualcosa di addirittura
penoso.
Se io debbo presentarmi sensatamente a Dio per
chiedergli qualcosa con la preghiera, così da sentire che quest'atto è
giusto davanti a Lui, ed è davanti a Lui pure nel mio sentire, allora
Egli dev'essere diverso. Ma lo è anche! Il Dio di cui parla Gesù, e al
quale Egli mi rimanda con la mia petizione, è e si atteggia anzi in
modo assolutamente diverso, altro dall'«Esse-re assoluto» dei
filosofi. Questo Dio decreta, si leva e agisce ... Egli si adira e
punisce; ma quando poi gli uomini si convellono. Dio si pente del suo
rigore e si riconcilia ... È lontano e si avvicina; guarda l'uomo,
scende, gli si accosta ... Qui si parla in modo diverso che nella
filosofia!
Ora si potrebbe dire che questo sia un'esperienza
116
figurata; una maniera di parlare infantilmente devota o
storicamente non evoluta. Assolutamente no! È invece un linguaggio
esatto. Tanto esatto che l'essenziale inerisce proprio a ciò che
l'intelletto, il quale pensi in maniera non più «infantile» o
«popolare», ma «seria» e «scientifica», dovrebbe cancellare.
Infatti il Dio di cui qui si parla non è appunto l'Essere supremo dei
filosofi, ma «il Dio di Gesù Cristo», e così come Egli si rivela
nella Sacra Scrittura, anche e appunto nella sua maniera di parlare.
E questo il Dio cui si può rivolgere la preghiera di
domanda. Davanti a Lui essa è un comportamento veramente umano. Nei
Vangeli le cose procedono in modo tale, e il Dio che sta dietro il loro
accadere è tale, che gli uomini con il loro pregare chiedendo, trovano
posto presso di Lui - come figli presso il padre. E Dio è in verità
anche il «Padre nei cieli», ma non solo in termini figurati, bensì
veramente e realmente.
Ma come dev'essere l'uomo affinchè la preghiera di
domanda si faccia possibile? Non un verme; non un essere da nulla. Il
pregare chiedendo, di cui qui si tratta, non è un mendicare*, non è un
non potere da sé, con la connotazione della debolezza. La preghiera di
domanda cristiana ha dignità, e dignità di fronte a Dio. L'uomo deve
dunque essere qualcosa che Dio stesso tiene in onore. Non può essere
nemmeno un frammento di natura, un'articolazione nel meccanismo del
mondo. Neppure qualcosa del genere può pregare chiedendo nel senso
cristiano. Egli deve ave-
* Qui Guardini, oltreché su beten e bitien
(vedi sopra), gioca anche su bettein, «mendicare» (n.d.t.),
117
rè iniziativa, e precisamente iniziativa nello spazio
di Dio. Così è anche di fatto. Dio ha voluto vivente l'uomo di cui
parla Gesù. Non l'ha costruito, innalzandolo davanti a sé, come puro
oggetto del suo operare, ma l'ha formato come cuore pulsante in mezzo al
mondo insensibile; come volontà libera in mezzo alle necessità
dell'esistenza. Dio l'ha posto come incaricato e aiuto nella creazione e
lo coinvolge in un santo accordo dell'operare. L'accordo deve risultare
vivo. La sua iniziativa, la sua energia di cominciamento deve destarsi.
L'uomo deve volere, portare il suo volere davanti a Dio, e Dio assume la
volontà della sua creatura nel contesto del proprio agire stesso.
Forse replicherai che Dio pur crea anche questo volere e
chiedere. Questo comunque è esatto. Ma con ciò noi ci fermiamo al
mistero della creazione in genere, e soprattutto dell'essere libero. Non
lo comprenderemo mai; ma dobbiamo curare che non ci assorbisca le
verità e le distinzioni su cui poggia la nostra esistenza. Siamo
obbligati da Dio a non far divenire il mistero della sua operatività
onnicomprensiva un potere che ci spenga l'agire e il volere nostri
propri. Dio tutto opera; ma, all'interno del suo operare che tutto
abbraccia, rimane vero che l'uomo ha iniziativa. Che siamo chiamati a un
operare nostro proprio, e che il nostro operare e chiedere vale al
cospetto di Dio.
Di qui risulta chiaro che cosa sia il «figlio di Dio».
Non schiavo, ma figlio; figlio però non come essere alquanto debole,
indifeso, ma figlio, figlio di Dio* maggiorenne e capace di
responsabilità.
* Guardini qui si vale della differenza in tedesco fra Kind
(figlio come bambino) e Sohn (figlio senza la connotazione
infantile) (n.d.t.).
118
E ancora una volta: come dobbiamo pensare la relazione
tra Dio e l'uomo? Vi sono diverse relazioni e diversi modi in cui
vengono enunciate. Una pietra ha con un'altra pietra il rapporto delle
cose senza vita;
viene enunciato nella forma di legge naturale e
intercorre come deve intercorrere secondo tale legge ... Tra esseri
viventi i rapporti hanno altra natura. Anche qui vigono leggi e
necessità; ma necessità di tipo più profondo, le quali sgorgano dalla
vita che crea ... Vi sono però ancora rapporti di genere particolare,
che non si possono captare in «leggi». Quando esiste una persona e un
giorno da qualche dirczione gliene viene incontro un'altra, si sviluppa
tra le due un legame, e dal legame nasce un destino, allora non si può
esprimere ciò che avviene in questo caso in leggi, psicologiche,
sociologiche o che altro. Qui v'è un mistero che si può solo narrare.
Trova la sua espressione in una storia.
Ora, ciò che ha luogo tra Dio e l'uomo, non è solo una
«relazione» tra l'Essere assoluto e quello finito. Essa dovrebbe
essere espressa «fìlosoficamente», e ogni cuore credente scorgerebbe
subito che ciò non ha nulla a che fare con la sua relazione - che è
invece un incontro, un destino, e può solo essere narrato così: «Un
giorno Dio vide la pena e l'angustia di questa persona. Ed ecco andò da
lei, mediante questo pensiero, o questo evento e le parlò ... La
persona però avvertì la parola e rispose ... E poi accadde questo e
questo altro ... e la fine fu ...». Così si dovrebbe esprimere tale
fatto. Ciò di cui si tratta in questo caso non si svolge tra «l'Essere
assoluto» e «l'uomo», ma tra Dio e me. Lui, il Vivente, e me, che
esisto come 'io'
119
irripetibile. «Dio e l'anima mia e nient'altro al
mondo». E quando io stupito replicassi: «Signore, e gli altri?», egli
allora direbbe: «Per ciascuno v'è solo 'io' e 'lui', e null'altro».
Ma questo «Dio e me» è una storia che viene narrata, e che si
verifica tante volte quanti uomini esistono. Quella storia che Dio non
si stanca di lasciar accadere - anzi, non solo di lasciare avvenire, ma
di operarla e sperimentarla vivendola Lui stesso. La sua santa gioia,
invero, è di inserirsi, impe-gnandovisi, in questa storia.
Ed è questo il carattere particolare, il tono del
cuore, l'intimità dell'essere cristiani: il suo attuarsi entro questa
storia. Essa è sempre nuova, e sempre l'unica, ogni volta. Tanto unica
e tanto profonda, così onnicomprensiva - realmente di «tutto quanto
esiste», del «mondo intero» - che è un mistero come si possa passare
da essa alla storia del fratello, quella tra Dio e l'altro. In verità
però non si può nemmeno trapassarvi tanto facilmente, ma solo così
come è concesso da Dio. Egli ha certo compaginato i diversi destini
come singoli e sempre unici, ma non come solitari*. La linea di una
nuova storia d'esistenza scaturisce sempre da altre, che la precedono:
quelle dei genitori. Essa sperimenta continuamente influenze operanti di
natura diversa da altre, che la toccano e la incrociano: di educatori,
maestri, persone incontrate. Entra sempre in rapporto di reciproco
influsso con altre, di compagni e amici; e certo in qualche modo è
anche orientata verso una o alcune linee d'esistenza con cui dovrà
convergere in un legame più profondo,
* In tedesco è efficace l'assonanza tra einuin,
«singolo», einzig, «unico», einsam, «solitario» (n.d.t.).
120
con carattere di destino. Ma Dio è il Prowidente.
Nell'intreccio di questi contatti e di queste unioni, incroci di
esistenze e opposizioni Egli opera le sorti umane. Egli stesso vi è
entro, e le vive insieme, poiché la sua inabitazione d'amore non si
rapporta invero solo a un'«anima astratta», o a una «salvezza»
altrettanto astratta, ma nell'intera persona umana vivente.
«È sua gioia abitare tra gli uomini» [cfr. Prv 8,
31].
Così egli non è solo per ciascuno «il suo Dio», ma
viene sempre nuovo e sempre in modo diverso il momento in cui «due o
tré» [Mt 18, 20] possono dire «il nostro Dio». Quello è il
fondamento d'una intimità e d'un senso d'essere accolti e custoditi da
Dio nell'amicizia, nel matrimonio, nelle comunanze dell'educazione e
dell'opera tra persone credenti.
Esse vi sono legate in una comune storia di Dio, che si
va intessendo, dall'una all'altra persona, da gruppo a gruppo e alla
fine intreccia tutti gli uomini in una santa rete, che si chiama
provvidenza.
Dio però - certo lo si può descrivere così; e sarà
una buona descrizione, che deriva dal Vangelo e dalla prima lettera di
san Giovanni - è colui che entra interamente nella storia, in ciascuna,
anzi in questa mia, ora; così interamente da esservi entro in realtà
come uno che ama - chi ama però non divide - e da trovarsi al tempo
stesso in tutte le altre storie d'esistenze umane, ugualmente senza
divisioni e riserve;
così da inabitare e dominare fino in fondo l'intero,
senza violare la sacra esclusività del singolo. Forse con queste
espressioni si enuncia su Dio quanto di più grande può venir detto
dall'uomo su di Lui.
121
Come stanno le cose, viste nella prospettiva di questo
rapporto, con la preghiera di domanda? Anzi, come vi si colloca il
mondo, dal momento che pregare chiedendo significa che qualcosa nel
mondo accada?
La filosofia antica ha un concetto degno di nota. Essa
parla della potentia oboedientialis, della capacità d'essere
assunti a servizio da parte di un appello dall'alto, di una potenza
superiore. Il mondo ha questa capacità in misura inestimabile. Importa
solo che sia chiamata. Ma come viene chiamata? Dalle forme, dotate di
senso, del permanere [nell'esistenza] è chiamata a costruire
configurazioni che durino. Dalla vita, ai processi del produrre, del
crescere, del fiorire e del maturare, e il mondo ne è pieno. Dal cuore
dell'uomo, dal suo spirito, a impegnarsi nell'opera creativa, e sorge la
cultura. Quando collega due persone che si amano, le chiama nella loro
storia e si forma un destino - e ora siamo giunti: anche quel rapporto
tra il cuore di Dio e l'uomo, che può venir narrato solo nella forma di
quella storia santa, recupera entro di sé il mondo, e in modo integrale
e al titolo supremo, se è pur vero che è stato detto:
«tutto [deve] concorre[re] al bene di coloro che amano
Dio» [Rom 8, 28].
Il mondo intero è chiamato a entrare nella relazione
d'amore tra Dio e l'uomo. Qui la richiesta è sovrana:
«Qualunque cosa chiederete al Padre in mio nome»
-quella relazione si annoda nel nome di Gesù - «ve lo concederà]» [Gv
15, 16].
Ora, ecco le condizioni per l'autentica preghiera
122
di domanda. Dio è colui che viene con movimento libero.
L'uomo è chiamato da Dio all'iniziativa dell'accordo [con Lui]. Tra Dio
e l'uomo si svolge la santa avventura del loro amore. Entro di essa è
coinvolto il mondo. La preghiera di domanda è però la forma in cui
l'uomo si rivolge a Dio, affinchè Egli faccia servire il mondo al suo
amore.
Il mondo non è così disposto di per sé. A partire dal
mondo semplicemente, non si da preghiera di richiesta. Cristo ci ha
detto che il mondo è appunto disposto così e ci ha esortato a vivere
in tale prospettiva. Ha rivelato il Dio, fondandosi sul quale ciò è
possibile, il Padre nei cicli. Ci ha detto che cosa siamo noi stessi e
che cosa dovremmo divenire quando ci diede «potere di divenire figli di
Dio» [Gv 1, 12]. Egli ci ha detto che cosa intercorre tra Dio e l'uomo:
l'amore, quello reale. E ci ha detto che, se si muove da
esso, nel mistero della Provvidenza, il mondo può essere assunto a
servizio [dell'uomo].
Certo, ci ha detto pure al tempo stesso che la fede è
«la vittoria che ha sconfìtto il mondo» [1 Gv 5, 4]. Tutto ciò non
si compie da sé. La Provvidenza non è prosecuzione dell'ordinamento
del mondo. Esso sorge dalla fede e nella misura in cui la fede si
rafforza. La fede deve «vincere» la sostanza immediatamente data dal
mondo, il rapporto immediato con esso, in-troducendolo nella novità [di
vita].
REALISMO CRISTIANO
Nel cuore dell'uomo v'è un impulso molto nobile:
ascendere direttamente a ciò che è alto e perfetto.
123
Ma la realtà più alta e grande, perfetta in senso
assoluto è Dio; quindi il cuore umano vuole salire a Lui,
rettilineamente, senza mezzi e vie traverse. Ciò poi è stato anche
tentato dall'uomo in modi di genere diverso. Ha messo in tensione
l'energia del suo pensiero ed è asceso al di sopra delle cose finite
all'Assoluto, all'Essere infinito, all'Idea suprema. La sua forza
d'amore ha cercato Colui che è adempimento e compiendo di tutto il bene
ed il bello. L'immersione meditativa religiosa, si è raccolta verso l'Intcriore,
il Nascosto, Colui che permane in tutto il mutare, e così si è spinta
avanti fino all'esperienza del Divino. E la ascesi ha tracciato la via
all'immersione mistica, in quanto l'uomo si è sciolto dall'attaccamento
a quanto è di poco conto, passeggero, e ha orientato interamente le sue
energie intime all'Uno-Etemo.
Da questa volontà dell'uomo sono scaturite cose grandi.
Essa ha portato l'esistenza alle sue vette supreme. Furono suo frutto
gli attingimenti più chiari dell'Eterno e Permanente; il dischiudersi
delle profondità più intime, i distacchi più eroici. Ma avverte
d'essere in situazione singolare colui che da questi sforzi possenti
dell'aspirazione bramosa dell'uomo viene al Vangelo. Per esempio, quando
si viene da Fiatone, che con la sua ardita ascesa all'altezza ha
conferito a questa volontà un'espressione filosofica tanto potente; o
da Buddha, con la sua inaudita energia di autoliberazione; o da Piotino,
con la sua abissale immersione nell'Uno - e si entra nel mondo dei
Vangeli; allora si può avere la sensazione di capitare esattamente in
una strettoia. Là si vedono tutte le forze - e quali forze - orientale
all'Infinito, Assoluto, Uno; qui viene presa sul serio l'esistenza del
tutto
124
particolare, grande e piccola insieme, con la sua
preoccupazione per il bisogno e la pena quotidiana, e si continua ad
esortare all'amore verso il prossimo, alla fedeltà alle cose d'ogni
giorno, alla fiducia nella Provvidenza. Là ampiezza filosofica,
grandezza ascetica d'intenti, profondità mistica; qui l'oppressione del
quotidiano e le accidentalità di quanto appunto va accadendo. Qualcuno
può avere l'impressione che nello spazio del Nuovo Testamento le cose
corrano in modo peculiare terra terra, quotidianamente legate al
prossimo fatto. Ci si potrebbe chiedere: perché tutto non viene
dominato dall'unica grande esigenza? Perché l'uomo non è incitato a
lasciar cadere ciò che non è Dio e a cercare Lui solo direttamente,
esclusivamente? Perché non vengono interpellate le energie del pensare,
dell'immersione meditativa, della formazione di sé, cosicché scompaia
tutto il resto? A quale scopo prendere sul serio la realtà quotidiana?
A qual fine vincolarsi al servizio degli uomini e delle cose?
Quando applichiamo l'attenzione all'atteggiamento intimo
di Gesù e dei suoi discepoli, quale risulta chiaro nel suo orientamento
di fondo e in molti particolari, notiamo che esso non conosce
quell'ascesa diretta a Dio, filosofica o ascetica o mistica. Ma non è
facile chiarirsi come stiano propriamente le cose in materia.
Se uno chiedesse: perché no? Perché non dovrebbe
essermi consentito di farlo? - la risposta verosimilmente sarebbe:
perché la cosa non regge. Non esiste questa via diretta da tè a Dio.
Ma se tenti di tracciarla, sussiste il pericolo che tu incorra in un
inganno.
Dove si cela tale inganno? Nel mondo - e al tem-
125
pò stesso nel pensare, nel sentire, nel vedere e
nell'a-gire dell'uomo stesso. Esso sta proprio nel trapasso dal finito
all'Infinito, dal condizionato all'Assoluto, da ciò che ha carattere di
mondo al Divino. Chi cerca questo trapasso così, tout court, in
realtà non giunge a Dio, ma a un «Essere assoluto», rispetto al quale
rimane molto indeciso che cosa significhi propriamente. L'Essere
assoluto dei filosofi - che cos'è in senso proprio? Dal punto di vista
cristiano, e se Dio è il Dio vivo della Rivelazione, allora, per
conoscerlo, quel «Dio filosofico» è altrettanto un pericolo quanto un
aiuto. La seduzione più profonda a rimanere nel «mondo» - a
divinizzarlo - esso, il mondo, cui appartengono anche lo spirito umano,
la logica, la cultura, lo spirito collettivo, tutto -, a (enervisi
stretti. Il più solido trinceramento di ciò che separa da Dio come
nessun'altra cosa, l'orgoglio intellettuale. In questo Assoluto può
celarsi l'inganno intero del mondo che afferma se stesso.
E l'inganno del cuore. A quale mèta giunge l'uomo che
si abbandona semplicemente all'impulso religioso, dell'intimo, alla
catena delle esperienze mistiche, all'autoliberazione ascetica? Qui sta
la minaccia dell'inganno insito nella religiosità; l'ambiguità del
sacro secondo modalità naturale; tutto ciò che di non limpido e di
appiattato nel retroscena si nasconde nell'impulso religioso dell'uomo.
Vi è dentro intero l'uomo non purificato; tutta l'autoaffermazione
dell'orgoglio, della sensualità e della cupidigia del mondo. In che
cosa si imbatte dunque l'uomo su questa strada? Guardiamoci attorno,
dunque; scrutiamo il pensare e il sentire religioso dell'uomo del nostro
tempo: è ben vero che vi è all'opera quell'impulso.
126
Dove ha portato allora? A dèi, a spiriti, a demoni, a
fondamenti primordiali del mistero dell'esistenza, a potenze neutre,
all'adorazione dell'istinto, alla rinuncia a se stessi davanti al
destino o al nulla.
Non sono, queste, delle esagerazioni. L'uomo intero è
nel turbamento confuso del peccato; anche e appunto le sue energie più
alte dello spirito, del cuore, della coscienza, dell'impulso religioso.
Esse non sono fidate. Dobbiamo prendere sul serio, realmente sul serio,
ciò che il Signore dice, sulla sapienza e la potenza e la maturità da
maggiorenne, per così dire, di questo mondo. Sono pur quelle forze di
cui stiamo parlando - ma egli dice che l'essenziale, Dio e il suo Regno,
sono loro nascosti! Egli è rivelato ai «piccoli e infanti» [nepiois,
Mt 11, 25], cioè a coloro che sacrificano l'autonomia apparente e
ribelle e confessano d'aver bisogno del Mediatore.
Questa è la realtà decisiva: la santa e ineludibile
legge della meditazione.
«Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al
quale il Figlio lo voglia rivelare» [Mt 11, 27]. E ancora: «Io sono la
via» [Gv 14,6].
L'uomo giunge al Dio vero e vivo non direttamente, ma
solo mediante Cristo. Ma il fenomeno cui abbiamo volto la nostra
attenzione, rientra in questo contesto. E una parte della legge della
mediazione.
Giovanni nella sua prima lettera dice:
«Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non
può amare Dio che non vede» (4, 20).
L'uomo non vede Dio - questo non vedere ha una 127
amplissima portata; non significa solo l'insensibilità
corporea. Dio è «invisibile» anche per il nostro spirito, per il
nostro cuore. Non si può cogliere Dio per via diretta, poiché Egli è
nascosto. Dio è come una montagna, la cui vetta è inaccessibile e
avvolta e velata da nubi. Si vede la forma della montagna solo quando si
scorge la vetta. Dio è come un discorso, i cui pensieri decisivi non
sono compresi. Finché chi sa non li dischiude, tutto rimane privo di
chiarezza.
Il mondo è colmo di divinità, ma fluttuante, confusa,
non interpretabile dal cuore egoista e tale da indurre in perplessità e
sconcerto il cuore debole. Essa riceve il suo senso vero solo se la si
guarda dal volto di Dio; ma si scopre appena nella Rivelazione. Ciò che
è visibile di Dio, si fa chiaro realmente solo quando Egli mostra il
suo volto nella Rivelazione.
Ora si potrebbe rispondere: In realtà Egli mostra il
volto! La Rivelazione dice in verità chi Egli è! Cristo invero ci
racconta di Lui! Ora, perché non si dovrebbe lasciare da parte tutto,
uomini e cose, e andare direttamente a Lui? La risposta può essere
soltanto:
perché Egli - almeno di regola; anche qui c'è dello
straordinario - non vuole. Perché non vuole che sia tralasciato il suo
mondo. Non è solo rivelazione della sua gloria, ma anche della sua
volontà. Ha posto l'uomo in un ordine delle cose, delle altre persone,
dei processi e degli avvenimenti; quest'ordine è la sua volontà, e non
si può saltarla.
L'uomo è via a Dio per l'uomo - le persone che gli sono
destinate. E come divengono strada per Lui? Quando egli è pronto e
disponibile a prenderle come sono: nell'amicizia, nel matrimonio, nel
lavoro, nella responsabilità, negli incontri dell'esistenza.
128
Quando il cristiano è pronto a guardare all'uomo
com'egli è, non a vederlo come lui stesso vuole o teme, ma come quello
è di per sé; quando i suoi occhi con i loro sguardi non prescrivono
all'altro come debba essere, ma gli concedono d'essere liberamente colui
che egli è; quando il cuore gli dona spazio per determinarsi da sé e
lo accoglie com'è, sempre nuovo, giorno per giorno, l'amico, lo sposo,
l'allievo, il compagno di lavoro - quando il cristiano agisce così, in
quel suo agire avviene qualcosa. La fede mi dice che l'altra persona,
così come viene incontro a me, non è un che di indifferente.
L'incontro è la provvidenza e contiene la destinazione. Così quella
persona mi porta la volontà di Dio. Se dunque io mi presento nei suoi
confronti nell'atteggiamento obbediente del vedere, del prendere sul
serio, della giustizia e della pazienza, in ciò vengo educato a
orientarmi al Dio vivo. L'autoaffermazione nel mio vedere e desiderare
viene allentata, rilassata. Dall'intimo si produce maggior libertà,
ampiezza, luminosità: Dio vi appare più chiaro. Quanto Dio mi dice di
se stesso attraverso la rivelazione del suo volto nel Cristo vivo, nelle
parole di Cristo sul Padre, sulla sua onnipotenza e sul suo amore - si
fa chiaro solo quando io accolgo l'uomo nell'obbedienza verso questo
stesso Padre.
Senza la Rivelazione, Dio rimane sconosciuto; dopo che
Egli si è rivelato rimane ancora, per così dire, non dischiuso. Per
capirlo si deve percorrere la strada che passa attraverso la volontà
concreta di Dio -ciò soltanto apre lo sguardo all'autorivelazione di
Dio. Vogliamo dirlo, questa volta, con un'espressione iperbolica: se una
persona si immergesse nelle parole della Scrittura e vi applicasse ogni
sua energia, ma
129
trascurasse l'uomo, che gli è assegnato dal destino,
dal dovere, dalla professione come prossimo, non capirebbe l'autorivelazione
di Dio. Deve, in certo senso, lasciare Dio e andare verso il vicino -
nell'obbedienza verso questo stesso Dio, se vuoi pervenire a Dio.
Anche le cose per l'uomo sono via a Dio. Infatti è Dio
che le ha create. Anch'esse sono sua volontà.
Il campo che da il suo frutto è così com'è. L'uomo
non può cambiarlo. Qui gli va incontro la volontà di Dio. Il campo
porta frutto solo quando l'uomo lo prende nella sua verità. Ogni lavoro
ha la sua verità, secondo l'essenza delle cose che vi si presentano e
che Dio ha create. L'uomo non deve accomodarsi le cose con la sua
fantasia, ma prenderle come sono. Se agisce così, se serve la verità
che si trova in esse e viene da Dio, egli stesso si fa vero e retto.
Viene liberato dall'arbitrio della fantasia, del sentimento, della
smania di dominio. Diviene reale, e il suo sguardo si apre a Dio.
Chi aggiusta le cose secondo la sua fantasia - il che
significa al tempo stesso che vi gira attorno; infatti a chi tenesse
fermo di fronte a loro esse farebbero sentire costantemente che una
simile manovra non va -, chi fa violenza alla verità delle cose, fa
violenza pure a Dio. Pensa anche Dio in termini fantastici, - perché lo
scansa. Ma se prende le cose come sono, anche il suo pensare Dio allora
consegue realtà. Se accetta le cose come volontà del Dio vivo, lo
portano in un atteggiamento in cui comprende la parola con cui Dio parla
di se stesso. Esse gli insegnano che cosa significhi esser Dio il
Creatore di questa realtà, l'esser Egli il Signore, il Vero e Giusto e
Fedele.
130
Anche il destino per l'uomo è via verso Dio. Non si
può capire Dio e trascurare ciò che porta il corso degli avvenimenti
quotidiani.
Gli stoici hanno detto: renditi insensibile a tutto quel
che avviene e raccogliti in tè stesso sull'essenziale. È un
atteggiamento fllosofico - ed è errato addirittura filosoficamente,
perché non pensa alla convulsione spasmodica che nasce da tale
separazione dalle connessioni naturali. Comunque non è cristiano,
poiché non posso conoscere rettamente Dio quando prescindo da ciò che
la sua volontà mi manda in sorte. Egli mi ha collocato nel contesto
dell'accadere e gli eventi che mi capitano vengono da Lui. La parola in
cui Dio mi parla di sé, viene aperta all'interpretazione mediante ciò
che mi accade e io la capisco nella misura in cui accolgo con obbedienza
e fiducia queste vicende.
L'assolutismo religioso ritiene di poter afferrare Dio
con forze proprie. Ma la cosa non riesce. Solo quando Dio con libera
rivelazione dice chi Egli è, l'uomo lo può esperire. Ma la stessa
parola che Dio dice su di sé si può capire solo quando l'uomo accetta
l'esistenza com'essa è, nell'obbedienza verso questo medesimo Dio. Il
mondo dell'altro e le cose gli schiudono il senso così che egli
comprenda la parola di Dio.
Questo è il realismo cristiano.
Dio è l'uno e il tutto, ma il mondo è reale ed è
posto entro la sua volontà. Dio non ha messo l'uomo in relazione
astratta con sé, ma l'ha collocato in questa realtà, in modo che venga
a Lui partendo da essa. Chi è Dio, che cosa è l'uomo e il suo destino
131
eterno, si trova nella parola di Dio. Ma questa parola
poi si fa comprensibile solo quando l'uomo accetta la realtà, l'altra
persona e l'ordine delle cose, là dove
10 concerne, e l'insieme degli avvenimenti, dove lo
toccano.
E non deve essere di necessità così, se è avvenuta,
fatto che costituisce la quintessenza e il fondamento del cristianesimo,
l'incarnazione di Dio? Questa realtà immensa, immane ha pur un
significato solo quando essa è fondamentale in senso assoluto per
tutto, per l'esistenza intera. Dio avrebbe pur potuto anche parlare
direttamente al singolo. Egli, il Dio creatore di tutto e onnipresente,
di fronte al quale tutto è aperto, avrebbe pur potuto venire in
contatto di ciascuno spirito umano e attrarlo a sé senza mediazioni. A
quale scopo la deviazione attraverso un redentore? A qual fine il
messaggio incomprensibile, provocante scandalo, del Figlio di Dio che si
lega entro questa esistenza umana, se non vi fosse espressa una legge
assolutamente suprema: che cioè la creazione rappresenta una totalità,
e che l'uomo non può eludere la realtà e venire a Dio direttamente e
privatamente, ma deve percorrere per necessità la via che passa per la
realtà della creazione di Dio?
Cristo dice:
«Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» [Gv
14, 6]; «Chi ha visto me ha visto il Padre» [Gv 14, 9].
È questa la legge dell'incarnazione, secondo la quale
11 Dio invisibile e ignoto non ci si manifesta
dall'abisso del nostro animo, come esige la mistica assoluta; non
attraverso la suprema elevazione del pensiero, come vogliono i filosofi;
non nello sforzo dell'aspirazione
132
morale e del distacco dal mondo, come afferma l'ascesi
autonoma - ma dal volto dell'uomo e dalla parola di Cristo. Questa legge
fondamentale prosegue nell'esistenza - quell'esistenza che non proviene
da un'origine qualsiasi, ma dallo stesso Lògos che parla in
Cristo che il Padre nella sua provvidenza chiama al suo servizio. La
parola rivelante di Cristo si fa chiara solo quando io accetto il
prossimo, e la cosa, e il destino. L'esistenza cristiana non è qualcosa
di assoluto, in senso filosofico, di distaccato misticamente, di
ascetico in termini sistematici, ma di storico. Come tale è fondata
dall'incarnazione, e quella strettoia, quel vincolamento alla
quotidianità che, provenendo dalla filosofia e dalla mistica assoluta,
credevamo di sentire nel Nuovo Testamento, è appunto l'espressione di
ciò che importa.
Questo rapporto con la realtà è ciò che emerge nel
carattere dell'atteggiamento cristiano, e si chiama: verità, amore e
umiltà. Queste tré cose sono strettamente unite. Anzi sono una e la
medesima realtà. L'essenza dell'amore cristiano non sta nel sentimento,
ma nell'aprirsi dello sguardo, intcriormente;
nel fatto che la volontà dia spazio all'altro d'essere
come egli è; che il cuore prenda l'altra persona così come si presenta
e viene incontro, ad accoglierla sempre di nuovo da lei stessa - più
esattamente, dalla volontà del Padre. Questo è amore e significa che
esso è verità: amare vuoi dire aprirsi alla verità dell'altro. Anzi,
aiutare l'altro a conseguire tutta la sua verità. Non coartarlo in
un'immagine che la nostra propria volontà gli prescrive, ma aiutarlo a
farsi integralmente colui che egli è di per se stesso. Proprio in
133
ciò anche chi ama diviene lui stesso vero, poiché
l'autentico inganno è la ricerca di sé; e questo farsi veri
nell'obbedienza verso la realtà, libera anche lo sguardo perché possa
cogliere Dio. E questo è umiltà. Infatti umiltà non significa
avvilire se medesimi, ma ri-nunziare a che l'essere debba essere in modo
diverso da come esso è in virtù del volere di Dio.
134
CAPITOLO QUARTO
LA FEDE NELLA GRAZIA E LA COSCIENZA DELLA COLPA
La grazia è presupposto, forma intrinseca e forza
operante dell'esistenza cristiana. Così l'autocomprensione cristiana
dipende dal capire che cosa sia la grazia. Questo mio discorso cerca di
avvicinarsi alla sua essenza partendo da un problema particolare, quello
della colpa. Esso si chiede: quale significato ha per questo la
coscienza della colpa da parte di una persona, se essa crede nella
grazia?
Dovremmo anzitutto chiarirci che cosa significa credere
nella grazia.
II
Incontriamo l'idea della grazia anche nella coscienza
generale.
Così, per esempio, nella vita giuridica. Là,
«grazia» significa l'atto mediante il quale il supremo soggetto
d'autorità statale condona una pena già irrogata. Questo atto
presuppone la convinzione che esistano due modi di poter sistemare,
ridurre all'ordine, nell'ambito dello Stato e della sua legge, il fatto
del delitto: l'uno, quello normale, con l'emanazione della sentenza e
135
l'esecuzione della pena; ma poi anche uno straordinario,
in cui nessuna pena ha luogo e tuttavia si stabilisce «giustizia». Al
di sopra della norma legale, che esige la pena, sta dunque un'istanza
che, senza attentare alla legge, tratta a fondo il dato oggettivo della
colpa, partendo da un punto che sta più in alto della mera legge e ha
un particolare carattere di realtà viva.
Un'idea corrispondente si trova nell'ambito del creare
culturale. Anche qui essa si rapporta al concetto di un decorso normale
e ve ne contrappone uno straordinario. La norma è determinata
dall'aspetto della prestazione. E normale quella conoscenza che può
essere acquisita mediante un lavoro coscienzioso di ricerca e di
pensiero; è tale quell'opera organizzativa o tecnica che scaturisce da
uno sforzo corrispondente. L'esistenza umana poggia sulla circostanza
che il suo patrimonio medio, quanto a ordinamenti, azioni, opere, possa
essere prodotto mediante una prestazione regolare. A questo decorso
normale si pone di fronte quello secondo il quale atti o opere di
particolare contenuto di valore scaturiscono da uno stato straordinario
di commozione, da un raro contatto con le necessità del momento
storico, e da un talento fuor del comune. Non si rivelano nell'ordine
generale costituito da lavoro e risultato, non si possono esigere ne
garantire. Opere di estrema profondità d'immersione, in cui si
realizzano comprensivamente valori e che abbiano una forma di pura
limpidezza, devono necessariamente riuscire. Esse presuppongono un
favore, una felicità del momento, che non si possono cogliere con
nessuna norma. Anche in tal caso si parla di grazia, e si intende la
modalità in cui sorge quanto è particolarmente ricco di valore: per
136
opera di energie creative straordinarie; in virtù di
una particolare combinazione, che rende possibile quanto, di regola, non
ha buon esito. Entrambe queste circostanze hanno il carattere della
graziosita*;
poiché in generale domina non il talento elevato, ma la
media, e in genere l'esistenza sembra essere ostile alla realizzazione
delle cose elevate.
La stessa idea torna a ricorrere nel rapporto degli
uomini tra loro. Una quantità innumerevole di relazioni umane
necessario alla vita e atte a promuoverla ha il carattere della
regolarità. Esse si formano da sé secondo necessità della natura e
dell'ordine sociale, come nella famiglia, nella convivenza della
comunità e dello Stato; o invece possono essere prodotte in cia-scun
caso come relazioni d'affari e associazioni di tipo organizzativo. A
lato d'esse, v'è però anche l'ambito dell'incontro». Vi domina un
fattore a-razionale, che ha effetti favorevoli o fatali: chiamati
superficialmente caso, con maggior profondità disposizione divina [Fùgung]
ovvero destino. Tra questi incontri, si annoverano quelli in cui una
persona si imbatte proprio in quell'uomo, di cui aveva bisogno
nell'interiorità più profonda; quegli che porta l'amore che ricolma, o
la conoscenza che schiude il senso dell'esistenza, o l'indirizzo d'una
strada per la propria opera.
Anche qui si fa strada con forza la sensazione di ciò
che ha il carattere di grazia: di un accadimento che ne si verifica
regolarmente, ne può essere prodotto con la volontà, ma ha il
carattere del favore che,
* Usiamo il termine, nel senso ormai antiquato, di ciò
che viene concesso per degnazione, condiscendenza, benevolenza sovrana
(in tedesco Huid, affine per significato a Gunst, prima
tradotto con 'favore') (n.d.1.).
137
raro, non può essere atteso. Suscita in chi lo
esperisce un sentimento di umiltà, che sa di avere ricevuto un dono al
di là del diritto e del titolo ad averlo, e una gratitudine, che
anzitutto si rivolge alla persona in questione, ma poi, al di là di
essa, all'esistenza medesima.
Tale sentimento di ciò che viene per grazia può
affiorare anche nell'ambito di relazioni già in atto: per esempio da
un'ora ricolmata in modo del tutto limpido; dal sollievo goduto dal
cuore, quando una pesante esperienza di vita si dissolve nella
comprensione piena e nella schietta accoglienza; da una rinunzia
compiuta con sincerità; da un perdono persuasivo;
dalla nobiltà di una persona che si rivela
improvvisamente, e via dicendo.
Anzi, vi sono persone la cui stessa esistenza viene
avvertita come qualcosa di mirabile. E precisamente questa impressione
sembra nascere non di fronte a una grandezza dominatrice o creativa, per
esempio dinanzi a un genio. Il peso di una esistenza così sembra non
lasciar emergere il sentimento vero e proprio di quanto è dato per
grazia: esso ha sempre in sé qualcosa capace di sciogliere e con
felicità donare. L'impressione si verifica invece allorquando nella
personalità interessata l'esistenza si apre, si fa trasparente, lieve;
quando diventa pegno che purezza e nobiltà siano possibili. Vi sono
addirittura persone in cui quanto si presenta come grazia assume il
carattere di cosa non terrena. Di fronte ad esse nasce il sentimento che
vengano da altra parte; ma da questa regione superiore la loro natura
arreca con sé il messaggio che l'esistenza nu-tre buone intenzioni
verso di noi, e nella forza mite del loro essere diviene più facile
crederlo, nonostante l'obiezione che la realtà quotidiana eleva.
138
Il parlare in tal modo di quanto ha carattere di grazia,
presuppone una determinata concezione della struttura dell'essere - che
peraltro si può avere anche senza possederne un sapere esplicito. Che
cosa essa intenda ci si fa chiaro nel miglior modo quando ci chiediamo:
in qual mai sorta di esistenza dovrebbe di necessità essere impossibile
una cosa del genere? In ogni caso, in un mondo strutturato interamente
così come la scienza naturale pensa l'essere. Dove tutto si svolge con
costrizione meccanica o necessità biologica, non può affiorare un
sentimento motivato di tal genere. Solo che, persino qui, dobbiamo fare
una limitazione: finanche la natura fisica o biologica non potrà venir
pensata solo in termini di «scienze naturali», se in essa ci si deve
potere imbattere in forme che orientano in quella dirczione. O non
abbiamo già sentito qualcosa del genere, quando ci siamo trovati
improvvisamente di fronte a un albero perfetto -pensiamo
all'impressione, che viene resa dalla poesia di Mórike sul bei faggio?*
O a un animale di compiuta nobiltà, forse anche, per di più,
inoffensivo? Le favole e del pari le leggende, ma a un livello più
elevato, non hanno captato tali sensazioni e non le hanno fatte
assurgere entro la loro sfera? Pensiamo alla forma dell'unicorno, che in
certo modo è una pura creatura di quella sensazione. Quell'idea per
necessità dovrebbe essere impossibile anche in un ordinamento sociale o
statale, che fosse impostato esclusivamente
* Cfr. il commento che della poesia Die schone Buche
di Eduard Mórike fa lo stesso Guardini nel voi. Gegeniuart uni
Geheimnis, Eine Avslegung von fiinf Gedichten Eduard Morika,
Wurzburg 1957, pp. 15-24 (in corso di pubblicazione presso la
Morcelliana).
139
su diritto e legge. O in un mondo di uomini che
vivessero solo d'intelletto e volontà, di dovere e ordine, o
addirittura per il puro utile.
Quindi, l'esperienza di quanto ha carattere di
«grazia» presuppone che nell'esistenza, accanto all'elemento di ciò
che è formale e si presta pertanto ad essere penetrato a fondo, di
quanto ha natura di legge e normatività, si dia anche il non razionale,
il non prevedibile, il creativo, l'origine*, la forma non derivabile; e
inoltre che questi aspetti non minaccino l'esistenza, non turbino il
mondo, ma al contrario concorrano a edificarlo, anzi, loro soli gli
conferiscano il suo senso più autentico.
A sua volta quell'esperienza presuppone che si dia la
disposizione mirante all'esistenza personale, ciò che viene incontro,
il portare e l'offrirsi; cioè, dunque, come gli elementi appena
nominati, ma nell'ambito della storia. Certo il miglior modo di
designarli è chiamarli libertà, una libertà di orientamento benevolo.
Non però del singolo, come facoltà d'agire in un modo o nell'altro, ma
come libertà sovraindividuale, qualità dell'esistenza storica come
tale. È il fattore creativo, di incontro, di dono insito nella
situazione -un'altra volta non come turbamento dell'esistenza, come
arbitrio, caso, ma tale da colmare e offrire garanzia. A monte di esso
si risale al divino, in cui sapienza, bontà e potenza sono
indicibilmente una cosa sola.
Infine, rientra tra i presupposti di tale esperienza di
vita quello per il quale certi valori, anzi una sorta particolare di
tutte le cose valide e preziose in gene-
* Ur-Sprunp. nell'originale tedesco con trattino
per sottolineare l'etimologia: «salto primordiale», appunto
«originario» (n.d.t.).
140
rè, possono farsi reali solo in virtù di un'assenza di
proposito, solo se non voluti: ciò che è nobile, elevato e non comune.
Quando si coglie in modo puro la sua realizzazione, ciò può avvenire
solo nel senso che qui qualcosa «riesca» e «venga donato», come
bontà, condiscendenza a favore (Huid) - di nuovo non della
singola persona ma dell'esistenza in genere. Al tempo stesso come
fortuna. Si realizza qualcosa che sarebbe potuto non essere, allo stesso
modo, buono; anzi, molto più non esistere che esistere. Si è
costituito, è venuto alla luce nonostante l'esistenza. Come una
vittoria, che però sia stata conquistata facilmente - nel qual caso
«facilmente» non significa «a buon mercato», ma «senza
prestazione», il che, certo, vien concesso «assai difficilmente».
Ci dev'essere dunque qualcosa al di sopra del
quotidiano, del normale, e di quanto s'attiene a leggi, al di sopra del
volere e dell'offrire prestazioni, qualcosa da cui derivi che tutto ciò
avvenga. Nel concetto di quanto ha carattere di 'grazia' sta un moto di
trascen-dimento. L'evento di grazia sopravanza tanto i confini del
diritto quanto anche quelli dell'essere e del potere quotidiano -
appellato e autorizzato da quel 'qualcosa'. Si può anche dire che quel
'qualcosa', quell'entità o potenza superiore, si chini verso il basso,
quando le piace; si cali entro l'ambito dell'essere e del diritto
normale.
A tal proposito bisogna fare attenzione ancora a
qualcosa d'ulteriore. L'esistenza umana è costruita verso l'alto e
verso il basso a gradi, attraverso diversi livelli di rango. Lo sviluppo
pieno d'un grado, però, dipende dal fatto che il grado di volta in
volta supe-
141
riore, che è indipendente rispetto a quelli, sottratto
alla loro portata, venga loro incontro d'iniziativa propria. Così, per
esempio, la salute fisica non è certo identica al retto comportamento;
tuttavia la garanzia ultima della sanità corporea sta nel fatto che il
mondo morale, il quale sta al di sopra dell'ambito organico, sia ben
ordinato. Ma ciò, se si considera dal punto di vista dell'ambito
inferiore, è «grazia».
Ciò significa: il mondo di ciò che si riferisce
all'ordine, il mondo della «legge» sussiste in se stesso, con valori e
criteri propri. L'elemento con carattere di grazia si colloca al di
sopra d'esso, in dirczione altra da esso, non può essere estorto a
forza a partire da esso. Tuttavia l'intrinseca sanità e sensatezza del
'normale' dipende dall'ipotesi che si presenti lo 'straordinario'.
L'ultima garanzia di quanto si può 'produrre* sta nel verificarsi di
ciò che ha carattere di 'fortuna'. Una conferma decisiva, anzi il
compimento del 'diritto' deriva dal fatto che «la grazia è emanata di
fronte al diritto». Quanto è eroico ha il suo senso non solo per sé,
ma anche per la realtà quotidiana; questa intristisce, se l'eroico non
rifulge da qualche parte, in qualche momento dell'esistenza. Il genio è
ciò che in ultima analisi rende visibile e feconda la media.
L'eccezione non solo conferma, ma rende possibile la regola, nel senso
oggettivo, come nell'atto vivente'.
1. Qui sta la chiave per la «sociologia dei consigli
evangelici» nel loro rapporto con la vita che rientra nella normalità:
quindi della verginità, della povertà volontaria e della rinuncia a
governarsi da sé; al matrimonio, al giusto possesso e alla conduzione
responsabile della propria esistenza. (Cfr. in proposito R. Guardini, /(
senso della Chiesa in La realtà della Chiesa,
Morcelliana, Bresda 19793, V conferenza, «Comunità», pp.
97-117).
142
Il significato di quanto ha carattere di grazia, qui
sviluppato, tuttavia è ancora improprio. O costituisce un fenomeno
fluttuante, che ha bisogno ancora dell'ultima determinazione di senso -
o si tratta della forma volatilizzata di qualcosa, che un tempo era
caratterizzato in modo chiaro; dell'essere scivolato via di qualcosa,
che un giorno aveva la sua autentica collocazione. Quindi si tratta
della preparazione, nell'ambito del mondo, di un fenomeno cristiano, o
anche della sua contraffazione secolarizzata.
Con questo ci troviamo dinanzi al problema dell'essenza
autentica, cioè cristiana, della grazia.
Ili
Essa non può essere dedotta da presupposti psicologici
o filosofia, ma solo accolta dalla Rivelazione. La grazia è il
principio di quell'esistenza che ci viene incontro dalla persona, dal
destino, dal messaggio di Gesù.
La parola non designa dunque nessuna categoria religiosa
generale, nessun concetto della scienza della religione, ma un «nome»:
la determinazione di fondo di quell'esistenza che prende come punto
d'avvio Cristo.
La comprensione del rapporto di grazia tuttavia
presuppone che sia colto in maniera esatta un altro aspetto: il peccato.
Esso a a sua volta può essere visto rottamente solo nel contesto di
ciò che significa creazione.
Voglia il lettore non impazientirsi. Non se ne ricava
molto, quando si parla di queste cose in termini psicologici o storici.
Se mai, in modo serio, cioè con categorie teologiche. Ma se si cerca di
affrontare in
143
maniera giusta il problema, si vede presto che,
semplicemente così, la faccenda non va. Qui si tratta di problemi
d'esistenza, che però risultano intrecciati. Così si può trattare uno
degli aspetti della questione solo quando si assumono insieme gli altri.
Vi si aggiunge una difficoltà particolare, che oggi
incontra il linguaggio cristiano. Le parole di cui deve necessariamente
disporre, in origine avevano un contenuto univoco, cioè appunto
cristiano. Esse esprimevano determinati elementi della Rivelazione. Nel
corso dell'epoca moderna sono state tratte entro l'elemento mondano,
secolarizzate. In tale processo il loro significato non solo si è
annacquato, ma falsato. Così oggi non si può usare nessuna parola
cristiana in modo puro e semplice, poiché i significati, a cui pensa
involontariamente l'ascoltatore, ma ancor più la loro risonanza
immediata e la disposizione psicologica che suscitano, non corrispondono
più a ciò che importa. Ogni parlare che abbia serietà, quindi, è
costretto a distinguere le parole, e in esse a rimettere in valore il
senso autentico, talvolta non senza un certo dispendio di violenza. Ciò
oggi rende faticoso parlare di cose cristiane al di fuori dello spazio
ecclesiale - per quanto ciò, dall'altra parte, sia facilitato dal
desiderio vivo dappertutto di non ascoltare annacquamenti e
razionalismi, ma ciò che è genuino.
Il compito ha inizio già a proposito del concetto di
creazione. Ciò che significa «creazione» nel senso della Rivelazione
è sparito dalla coscienza generale. Per la visione delle scienze
naturali, «mondo» è uguale a «natura»; quindi ciò che è puramente
e semplicemente dato ovvio, necessario, appunto «il naturale». Per
144
la visione della scienza della cultura, il «mondo» è
spazio e presupposto dell'esistenza storica, e ancora una volta
risultato del creare storico. Certo i concetti della storia e del creare
eliminano l'owietà naturale, ma, al suo posto, ne fondano un'altra,
quella culturale. «Mondo» qui è ovvio come il punto di partenza
puramente necessario dell'esistenza storica e culturale.
Per la Rivelazione, il mondo non è in alcun modo la
realtà prima e ovvia, a monte della quale non si possa più risalire;
la base di necessità, che è presupposta da tutto l'altro. Non vi sono
motivi per cui il mondo debba esistere necessariamente; ne cause
efficienti, ne leggi logiche cogenti, ne una qualche altra esigenza
assoluta di senso. La fede esprime positivamente questa non-necessità,
dicendo che il mondo è stato creato da Dio. Non emanato da Dio,
attraverso un effetto necessario della sua essenza, o comunque chiamato
all'esistenza monisticamente; ma il concetto del creare si trova sotto
la categoria personale: è atto libero. Il mondo esiste perché Dio lo
vuole. Ed Egli vuole perché vuole. Che però questo volere non sia
arbitrio, ma, in un'assoluta signoria di sé, porti al tempo stesso il
carattere di un senso definitivo e infinito, trova espressione nel fatto
che Dio ha creato il mondo per amore.
Ma ciò in fondo significa: l'esistenza della creazione
è già per se stessa «grazia»2. Non sussiste alcuna
necessità preliminare che la creazione esista ed esista così, ma è
pura opera della libertà. Non vi sono esigenze di
2. La parola, come mostrano le virgolette, è presa
ancora in senso indistinto, come pura antìtesi a ciò che è
necessario, anche necessario a partire da Dio.
145
senso che muovano da essa medesima, perché la creazione
debba necessariamente venire all'essere, ma essa riceve se medesima,
essenza ed essere, come grazia. Tutte le necessità e le owietà corrono
solo nell'ambito del mondo; la sua stessa esistenza è dono.
Questa coscienza si fa chiara nel modo in cui il
credente si colloca rispetto al mondo. Egli ne lo prende in termini di
ciò che è per natura, ne come presupposto d'un processo di cultura, ma
come qualcosa per la quale ringrazia. Che esso esista e sia così
co-m'è, è un dono. La forma determinante dell'esistenza non è ne la
legge naturale, ne il processo culturale, ma la relazione personale.
L'ultima realtà dietro tutto non è un Es, un che di neutro, un
senso, un'idea, una legge, una massa di materia e di energie operanti o
qualsiasi altra cosa del genere - ma Lui. Non «un lui», die
sarebbe un demiurgo. «Egli» puramente e semplicemente: Dio e non
«l'Assoluto», ma colui che si è mostrato e nominato, quando gli è
piaciuto, e ha detto: «Io sono colui che sono» [Es 3, 14]. Ogni
relazione con una qualche cosa o avvenimento si proietta in senso
definitivo verso una relazione con Dio. Dietro tutte le regolarità
secondo leggi sta la libertà dell'appello, cui risponde la libertà
dell'ascoltare e del decidere donata da Dio stesso.
Il secolo diciannovesimo ha pensato in termini di natura
e ancora in categorie di cultura. Per esso l'esistenza, in ultima
analisi, era ovvia - finché la decadenza della fine del secolo non
scosse tale sicurezza. Pertanto è molto importante se oggi si fa strada
un sentimento del mondo che lo avverte come non ovvio, e con esso una
filosofia dello stesso orientamento. Ma se questa assenza di owietà non
giunge a rap-
146
portarsi alla fede, deve di necessità assumere il
carattere del puro rischio, dell'azzardo, anzi della terribilità e
pertanto della paura angosciosa.
Ma torniamo indietro. Già che qualche cosa esista
- esista per opera di Dio, come sua creazione e dono
- è «grazia». Nell'ambito di quest'esistenza
complessiva l'uomo, in un senso autentico, era posto sotto la categoria
della grazia. La sua esistenza non era impostata su un semplice effetto
di ciò che egli era, ma su un incontro personale con Dio. L'uomo doveva
esistere orientato a Dio, che gli veniva incontro nella libertà
dell'amore. Forma fondamentale della sua esistenza non era l'«in sé»,
quindi lo scaturire dal proprio centro e il compiersi per forza propria,
ma lo ad, l'orientamento, come Agostino ha fatto emergere con una
chiarezza valida per tutte le epoche. L'uomo non ha una «natura» data a
priori e che si adempia attraverso un semplice dispiegamento o
sviluppo. La sua essenza invece consiste nel trascendere il «puramente
umano» per entrare nel divino, e soltanto in quella sede deve
conseguire l'«umano autentico» che Dio intende. In formulazione
portata all'estremo: la «natura» intesa da Dio non è la prima cosa,
bensì l'ultima. L'uomo interamente «naturale», l'adempimento puro,
pieno e libero, «bello» dell'essenza umana si trova appena alla fine,
non all'inizio ed è il frutto dell'abbandono in dedizione a ciò che è
al di sopra dell'uomo. (L'uomo «naturale» dell'epoca moderna è
un'espressione di profondissima alienazione da Dio e di uno sprofondare
dell'immagine dell'uomo entro quanto ha carattere di natura.) La forma
fondamentale dell'esistenza umana è il ponte, non il masso o
147
blocco. Ancor meglio il trapasso, l'involo verso l'alto.
Appunto questo è ciò che significa, ancora una volta, la grazia;
tuttavia in un senso più elevato che nel caso della creazione; il Dio
libero viene incontro, perché
10 vuole per amore; l'uomo vive diretto a trapassare in
alto verso di Lui, lasciando se stesso e diventando se medesimo proprio
così3.
Tuttavia il Paradiso nel senso biblico non significa
11 mito di una beata esistenza infantile, ma questa
condizione nella sua originaria purezza e forza, quale era prima della
prova e così come, a partire dall'uomo, influiva efficacemente sulla
creazione.
Ma il peccato è il delitto contro il mistero della
grazia.
Dobbiamo purificare di nuovo i concetti. Peccato
significa più che agire non etico, violazione della legge morale e via
dicendo. È delitto contro il Vivente. Ma non contro il Vivente che è
tale in modo naturalistico, bensì il Vivente santo. Contro Dio, che è
la stessa santità e bontà, e contro quell'esistenza della grazia, quel
riceversi dalla mano di Dio, di cui si parlava. Così peccato non era
semplicemente un errore morale, che certo portava responsabilità
morale, ma per il resto avrebbe lasciato l'errante come colui che egli
era, bensì costituiva una catastrofe. Peccato era un crimine, che
immediatamente distruggeva la forma
3. In questa formulazione c'è un pericolo: di
relatìvizzare la grazia alla natura; quindi di affermare che la grazia
appartenga all'essenza del creato. Sottolineo espressamente che non si
intende questo. Ma, per precisare il rapporto secondo questo aspetto,
occorrerebbero ricerche teologiche più profonde di quanto sia possibile
in questo saggio. Vedi in proposito R. Guardini, Christliche
Bewusstsein, Versiiche ilber Pascal, Mùnchen 19502, pp.
99 ss. (tr. it Pascal, Morcelliana, Brescia 19924, pp.
90 ss.).
148
esistenziale dell'uomo. Era il rifiuto
dell'«orientamen-to intenzionale verso» (Auf-hin als Gesinnung) e
del-l'obbedienza; con dò era il rifiuto della grazia come esistenza.
Era la volontà dell'uomo di vivere senza di essa, con le risorse
proprie e per sé - ma appunto in tal modo era il crollo dell'uomo in
basso, al di sotto di se stesso.
Nella coscienza etica moderna non ha più posto la
consapevolezza di che cosa sia propriamente il peccato. La coscienza
tragica degli antichi l'ha sentito ancora, così come la coscienza
mitica della saga - solo che in verità era scivolato nella dimensione
dell'incerto e del cosmico. All'essenza del peccato appartiene il
carattere della tragicità assoluta, e precisamente trascendente.
Tragicità significa che l'azione scaturisce dalla
libertà, ma che i suoi effetti si sottraggono alla libertà;
le vanno incontro come un dato di fatto di cui assumere
responsabilità, e che tuttavia non dipende da essa. Nemmeno ciò è
soltanto il lato storico del fenomeno. Prima d'esso, al di sotto di
esso, sta qualcosa che è più intrinseco all'essenza. La libera
decisione produce una situazione di senso dell'essere personale intimo,
un vuoto di valore e un'opposizione a esso, vale a dire appunto una
colpa, su cui la libertà non ha più alcun potere, poiché colui che ha
attuata la decisione, proprio perché l'ha compiuta, è divenuto diverso
da come era prima. Appartiene alla colpa religioso-tragica la
conseguenza che l'azione la quale produce la colpa, in quanto si
verifica, si stacca dal piano su cui è avvenuta - cosicché il
disvalore che ne deriva è sottratto alla libertà propria.
Un'ingiustizia puramente etica può essere superata senz'altro. Quando
chi
149
agisce si accorge della sua ingiustizia, la condanna e
si preoccupa di divenire migliore, la questione è sistemata, nella
misura stessa in cui la visione giudicante è genuina e la volontà
pura. È una cosa molto netta e sana, ma nel fenomeno essa è
radicalmente diversa dalla colpa religiosa. Totalmente priva di
tragicità, come poi, in fondo, ogni eticismo pensa in termini
razionalistici e ottimistici.
Nel tragico, inoltre, la colpa ha un carattere non
individualistico. L'azione semplicemente etica sgorga dalla
responsabilità individuale e rimane entro la sua portata. Appartiene
alla sfera dell'orientamento intenzionale del singolo che la commette.
È colpevole chi commette la colpa; la responsabilità è portata da
colui che ha adottato la decisione. Questa rappresentazione costituisce
una secolarizzazione dell'idea cristiana della libertà. La coscienza
cristiana di responsabilità non è etica, ma religioso-etica. Deriva
dalla fede. Ma in quell'ambito non esiste più il singolo isolato; il
singolo invece si pone nella solidarietà con tutti i singoli per il
fatto che tutti sono mèmbri della totalità umana. Totalità però, a
sua volta, non nel senso moderno biologico e sociologico, bensì nel
senso della Rivelazione: nel singolo, Dio chiama l'insieme degli uomini;
ed Egli intende l'insieme degli uomini come tale da culminare di volta
in volta nel singolo. Ciò valse in modo particolare per il primo
singolo, col quale l'insieme degli uomini in genere fu chiamato
rappresentativamente alla decisione. Così la prima colpa, sebbene colpa
del primo singolo, lo fu di tutti. Anche questo non è favola o saga, ma
un fenomeno di suprema serietà, al quale certo il pensiero
individualistico non ha alcuna possibilità di giungere.
150
La risposta alla colpa fu assoluta e tragica - decadenza
dell'umanità, rovina del mondo. In termini di valore: colpa
inespiabile; in termini d'essere: la morte.
Questo stato di cose, sebbene sia catastrofe assoluta,
contiene un'elevata ricchezza di senso. È la conseguenza della colpa
vista nella luce autentica. Per quanto terribile sia, l'uomo religioso
lo comprende e lo riconosce contro se stesso. L'idea diventa assurda e
irreale soltanto non appena si muta il sentimento dell'esistenza. Appena
l'uomo esce dal mondo della fede e comincia a pensare in termini
«profani». Quando poi egli prende il mondo in prospettiva di «scienza
naturale» o in «chiave culturale», cioè come dato ovvio e autonomo,
quell'idea si trasforma in una assurdità o in poesia. Per l'uomo
credente il mondo non «doveva» esistere per necessità; esso esiste
perché la volontà libera di Dio volle che esistesse. Pertanto il mondo
non sta in una sicurezza naturalistica o in un'assolutezza culturale,
ma, nel senso vero e proprio della parole, «in gioco». Il mondo è
vulnerabile da parte della libertà. Ve la catastrofe cosmica che sorge
nella libertà religiosa. Ve la possibilità che il mondo perda il suo
senso perché l'uomo lo perde al gioco. Quando ciò si verifica, è cosa
terribile, ma rientra nell'ordine. E appunto la precisa conseguenza del
fatto che lo «schema» dell'esistenza umana è la grazia.
Di qui si fa chiaro che cosa significhi redenzione. Essa
non indica un passo più innanzi sulla strada dell'umanità verso la
saggezza; non l'apparire di una grande personalità, che abbia
approfondito la coscienza religiosa; non lo spuntare di nuove
possibilità religioso-etiche, l'esperienza vissuta dell'apertura d'u-
151
na breccia nell'intimo e via dicendo. Redenzione invece
significa un nuovo impegno da parte della libertà d'amore di Dio. Egli
trae il mondo decaduto entro un nuovo inizio. Entra nella storia una
personalità che è essa stessa completamente storica, cioè erede degli
avvenimenti antecedenti, ma comincia in modo pienamente nuovo, poiché
la sua libertà deriva immediatamente da Dio. È il Figlio di Dio fatto
uomo -che proprio in tal modo rivela l'essenza dell'esistere personale
di Dio, l'Unità e Trinità. A lui viene consegnato di nuovo il mondo
per la decisione.
Redenzione significa dunque che viene posto un inizio
assolutamente nuovo nella storia, che deriva da sopra di essa,
«dall'alto»; e che il mondo, l'uomo e la colpa dell'uomo divengono
contenuto di questo inizio, cioè della decisione divino-umana
assolutamente libera. Il Redentore assume la storia dell'umanità entro
la sua libertà, e decide per Dio. Assume l'esistenza umana entro il suo
amore. Anche la colpa; essa sarà nell'amore. Poiché Egli si trova
nell'inizio assoluto, nella grazia sostanziale, là si pone - e più in
alto, assolutamente più in alto di là dove si trovava un tempo l'uomo,
quando si rese colpevole. Così Egli è in grado - e più che soltanto
in grado -, di superare la tragicità della prima colpa, in quanto, Lui
stesso incolpevole, si fece garante per il colpevole. Ciò Egli può
fare nell'amore. Infatti «amore» è, al di sopra di ogni paragone,
più di quel sentimento per il quale impiega il termine l'epoca moderna.
Amore nel senso del Nuovo Testamento è una santa unità dell'essere e
della validità, venendo dalla libera creatività di Dio. L'amore sta
esso stesso sotto la categoria della grazia. Anzi l'amore fonda la
grazia. La grazia è ciò
152
che diviene possibile nell'amato, quando chi ama è Dio.
In questo amore creativo si fa proprio della creatura quanto appartiene
al Dio che ama. Il Redentore assume come propria la colpa e da al
redento come propria l'espiazione.
Con ciò la modalità d'essere della grazia viene messa
di nuovo in risalto.
Fede significa accogliere questa decisione redenti-va di
Cristo, del secondo Uomo dell'inizio. Significa riconoscere nella fede
lo stato di perdizione della propria esistenza e ricevere il principio
della nuova vita del Redentore.
Quindi ricevere un'esistenza che si innalza al di sopra
delle possibilità proprie tanto, quanto la colpa era sottratta,
sollevata al di sopra della libertà propria. Ricevere una nuova
esistenza dotata di senso non dalla natura e da quanto è ovvio, non da
diritto e capacità propria, ma da dono. Non sviluppata dall'essere
proprio, ma tale da venirci incontro da parte di Dio.
Una reale esistenza religiosa nuova! Perdono del
peccato, eliminazione della colpa, giustificazione mediante la nuova
giustizia - tutti questi concetti devono essere presi in tutta la loro
vigorosità. Non idealmente, non in senso etico, non in quello
psicologico, ma con tutto il realismo dell'idea originaria cristiana.
Non costituiscono insegnamento, stimolo, educazione gli schemi sui quali
si può edificare l'idea di redenzione, ma creazione, fondazione
dell'esistenza, nascita, inizio di vita.
Certo rammentiamo la scena di Matteo, cap. 9, dove il
paralitico viene portato da Gesù, e questi lo riceve con le parole:
153
«Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati»
(v. 2).
Gli ascoltatori cominciano a mormorare; ciò secondo
loro è bestemmia, solo Dio può perdonare. Allora Gesù replica:
«Che cosa è dunque più facile, dire: Ti sono rimessi
i peccati, o dire; Alzati e cammina?» (v. 5).
A me pare che la risposta debba essere: senza alcun
paragone è più difficile dire: «Ti sono perdonati i tuoi peccati»
che «Alzati e cammina». Infatti dire la seconda frase, efficacemente,
quindi non per retorica o con intenti terapeutici, è un miracolo ed è
riservato alla potenza creativa di Dio. Al contrario, dire: «Ti sono
perdonati i tuoi peccati» - ancora una volta in modo efficace, non solo
come consolazione; non solo come assicurazione che Dio non si adira
più, ma come eliminazione reale della colpa; come fondazione nella
giustizia reale - ciò è altrettanto un atto creativo, ma di grado
superiore. Esso significa che il nucleo di senso dell'uomo, cioè la sua
libertà, la sua responsabilità, la sua qualità di valore davanti a
Dio, viene fatto materia prima per una seconda creazione
intellettuale-spirituale (geistig-geistlich) e viene elevato a
una nuova esistenza di valore. Appunto questo è il significato della
fede cristiana.
Ma ciò è grazia in senso assoluto. Accoglimento di
qualcosa che in ogni modo travalica i limiti del proprio volere ed
essere. Partecipazione al nuovo inizio, che è posto in Cristo - nella
fede alla sua parola.
Grazia è la forma dell'esistenza umana intesa da Dio,
che è esistenza nella fede. Lo era nell'uomo originario, venne
distrutta dal peccato. La ridiviene mediante la redenzione.
154
Qui grazia significa che l'uomo viene «sovredifica-to»
in Cristo verso Dio. Che egli riceve il nuovo inizio e, movendo da esso,
entra nel cimento col «mondo», che sta ancora nella vecchiezza - e con
questo però si intendono non solo «le cose» o «gli altri», ma anche
lui stesso. In questo suo essere ordinato verso Dio, in questo
accogliere il dono assoluto, l'uomo in genere diviene se stesso. Ma è
Dio colui che può e vuole tutto ciò. E solo il concetto della grazia a
costituire l'immagine dell'uomo. Esso rivela che cosa sia propriamente
l'uomo secondo l'intenzione di Dio. Costituisce però anche l'immagine
di Dio; diversa da quella dei «filosofi». Rivela chi sia propriamente
Dio.
IV
E ora dovremmo volgerci al problema postoci all'inizio:
quale significato abbia per la coscienza di colpa e peccato da parte di
un uomo il suo eventuale credere alla grazia.
Per strutturare più chiaramente la risposta, prendiamo
in aiuto l'idea dei gradi d'esistenza, e chiediamoci: come si
presenterebbe il superamento della colpa al di fuori della fede nella
grazia?
L'uomo ha commesso ingiustizia*. Lo sente, non si spinge
però fino alla coscienza propriamente etica. Essa consiste nel sapere
che v'è un inesorabile aut-aut tra bene e male nella convinzione
che assolutamente
* Unrechi: nel senso generico d'un atto non
giusto; potrebbe esser reso anche con «iniquità», che però in
italiano ha una accezione in genere più astratta, e, quand'è usato per
concrete azioni, indica quelle di gravita particolare commesse contro
qualche persona o collettività (n.d.t.}.
155
il male non dovrebbe esistere; dell'impossibilità di
re-lativizzare l'ingiustizia come tale mediante dipendenze psicologiche,
funzioni o scopi di vita. Sul piano dell'esistenza di cui si parla qui,
cioè quello immediato, di carattere naturale, psicologico, estetico,
questo lineamento dell'ingiustizia non si presenta ancora affatto nella
coscienza. Se si annuncia, viene rimosso. L'ingiustizia viene presa come
un elemento dell'esistenza, come l'ombra necessaria accanto alla luce;
come oscuro fondo radicale da cui si elevi la vita vigorosa e via
dicendo. Un'ingiustizia avvertita così viene rielaborata in quanto, in
qualche forma, esperita, e viene vissuta in profondità come orientata
al potenziamento della vita. È giustificato quanto produce una scossa
gagliarda, un differenziamento della sensibilità, una nuova ricchezza
d'esperienza, una tensione creativa per conseguire nuovi valori. Il
pensare e il sentire etico del romanticismo, di Nietzsche e, al suo
seguito, di una gran parte dell'epoca attuale vanno in questa dirczione.
Ma con questo non è ancora toccato affatto l'ambito etico genuino.
L'uomo vi giunge solo quando egli non si prende come
essere naturale, come elemento funzionale in contesti, come bella forma
la quale si sviluppa esteticamente, ma come persona che fa saltare ogni
relativizza-zione del genere con l'assolutezza della sua obbigazione al
valore e della sua coscienza morale. Quando egli coglie così l'elemento
categorico dell'obbligazio-ne morale, a distinzione del carattere
condizionato di tutte le altre esigenze; quando sperimenta che
un'ingiustizia non può mai essere giustificata con un effetto, una
reale responsabilità mai può essere tolta con il ricorso a un
ambiente; quando egli si pone in tal
156
modo sul piano etico - allora come riuscirà a liberarsi
dell'ingiustizia? Col riconoscere il dato di fatto che questa azione non
sarebbe dovuta essere e che sua è la responsabilità. Col porsi di
fronte alla propria ingiustizia, col condannarsi nella sua colpa, col
volgere l'orientamento intenzionale al bene; col decidersi a un nuovo
sforzo - e per il resto con l'assumere su di sé le conseguenze
dell'atto. In che cosa consiste però il superamento? Appunto nella
circostanza che la sua conoscenza scende realmente fino al fondo, che
egli condanna in realtà il male compiuto e si converte risolutamente al
bene. Questo comportamento viene sentito come una conclusione dalla
volontà di vita che si spinge in avanti, e l'energia orale si fa libera
per affrontare i compiti venturi. La giustificazione del proseguire
però sembra stare nel fatto che la singola azione si trova nel contesto
della totalità della vita, il soggetto che la compie è al tempo stesso
il soggetto del corso della vita nel suo insieme, e l'ultima decisione
sul carattere etico della vita di cui si tratta consegue dalla totalità
d'essa: dal come essa avanza e realizza la sua figura etica complessiva.
Comunque, rimane certo sempre un residuo. La decisione
etica è tale che, sulla sua base soltanto, non si può riuscire a
salire al di sopra d'essa. L'assoluto che v'è in essa ne fa, appunto
come atto concreto, qualche cosa d'assoluto. Così, in ultima istanza,
l'ingiustizia commessa, tuttavia permane. Ciò poi trova espressione
anche in certi stati psicologici, quando la persona non riesce a
svincolarsi dall'ingiustizia, si irretisce, la continua ripetutamente a
sperimentare rivivendola - il che può approfondirsi fino a giungere
alla malinconia.
157
Come avviene che l'ingiustizia venga dominata e superata
nell'ambito della fede nella grazia?
Ciò che si è affermato sull'assolutezza del dover
essere, sul carattere incondizionato della responsabilità e via
dicendo, rimane fermo; viene però inserito in un contesto di nuovo
tipo. Sotto l'ingiustizia etica come violazione della legge morale,
perpetrata dall'individuo, giace una realtà più profonda, che affiora
nella misura in cui si realizza la situazione di fede.
Un esempio tratto dalla psicologia più recente forse
avvicina meglio quanto intendiamo: la teoria della psicanalisi
sull'essenza della consapevolezza di colpa. Essa distingue uno strato
superiore che deriva dalla singola cattiva azione; al di sotto d'esso
uno più profondo, che si radica nei primordi dell'esistenza
individuale. Questa più profonda coscienza di colpa verrebbe
dall'esperienza infantile di un primitivo legame affettivo istintuale
col padre ovvero con la madre, come anche dal conflitto di sentimenti,
che nascerebbe nei confronti dell'altra parte parentale. Quel legame
sarebbe caratterizzato proprio da questo conflitto, sentito come tale da
non dover esistere, pertanto sarebbe rimosso con l'inizio della
sociabilità. Al tempo stesso, si svilupperebbe la coscienza etica nel
senso vero e proprio, come giudizio su ciò che è giusto o invece
ingiusto, avuto riguardo alla totalità sociale. Questo giudizio di
coscienza apparirebbe nel singolo caso sorgere direttamente dal
contenuto di senso della stessa azione di volta in volta in questione,
per esempio dalla sensibilità per la nobiltà e il carattere
costruttivo della fedeltà, e relativamente per la malvagità in sé e
la natura distruttiva del tradimento. In verità, però, sotto questo
strato superiore del giudizio
158
morale starebbe anche quella prima esperienza vissuta
caratterizzata come colpa, cosicché in ogni giudizio morale singolo
emergerebbe insieme inconsciamente quel primo giudizio di fondo. Di là
proverrebbe la dimensione di profondità dell'esperienza della colpa;
l'aspetto pervasivo, che convocherebbe la totalità
dell'esistenza a soffrire insieme l'elemento per cui ne va della vita,
inquietante e allarmante. Su questa tesi naturalmente ci sarebbe molto
da dire; che essa stravolge lo stato di cose oggettivo della moralità
facendone uno soggettivo, cioè trasforma la «colpa» in «esperienza
vissuta di colpa»; che non si può ricondurre il comandamento etico a
presupposti sociologici, poiché in tal modo va perduto proprio il suo
carattere decisivo, l'incondizionatezza, e via dicendo. Tuttavia essa
contiene qualcosa di molto significativo: elimina il carattere
individualistico dell'azione etica e la riallaccia a nessi profondi, che
erano sfuggiti all'etica moderna. Si riconosce che il fenomeno della
colpa non è confinato all'atto cosciente della decisione, ma si spinge
al di là d'essa, in moto di ascesa e di discesa. È molto sintomatico
che si sia inteso di poter dare una spiegazione dell'idea del peccato
originale in questa teoria! Questa opinione è, anzitutto, il malinteso,
divenuto stereotipo, di aver spiegato il senso essenziale d'un processo
dell'esistenza quando si siano messi in chiaro alcuni meccanismi
psicologici che vi giocano. Ciò che significa propriamente la credenza
per fede nel peccato originale si trova in sede del tutto diversa.
Tuttavia la teoria contiene l'indicazione di qualcosa che l'etica
dell'epoca moderna aveva perduto: dell'elemento cioè sovrarazionale,
sovraetico e so-vraindividuale della colpa, e con ciò anche un aiuto,
159
degno di gratitudine, per la preparazione psicologica
della dottrina rivelata sul peccato originale.
Nella misura in cui viene realizzata la fede nella
grazia, penetra nell'ambito individuale la coscienza di quella colpa,
che precede ciascun singolo comportamento colpevole, perché essa
abbraccia l'esistenza umana in genere. Non consiste nel fatto che l'uomo
abbia commesso questo o quel peccato, ma nella circostanza che egli è
peccatore, perché, nella decisione originaria, ha distrutto la forma
d'esistenza del primo stato di grazia. La sensibilità individualistica
obietta:
Eppure questo non l'ho fatto! Allora, anzi, non vivevo
ancora! La coscienza cristiana replica: Proprio questa obiezione e la
forma di coscienza che ne sta alla base derivano dallo stato di chi è
decaduto. Essa stessa è già frutto della colpa, giacché significa che
la persona singola vuole tenersi fuori dalla totalità, vuole avere una
esistenza particolare. La persona isolata incolpevole però non esiste,
v'è invece una colpa della comunità, prima dell'esistenza individuale
di questo o quel singolo, nella quale ogni singolo entra nascendo4.
Quel peccato originale, che pone nella colpevolezza
l'intera esistenza, si sottrae a ogni sforzo personale. La sua
remissione, la fondazione a nuovo dell'uomo nella forma d'esistenza
della grazia, possono
4. Bisognerebbe aggiungere subito che la sensibilità
collettivistica o totalizzante immediata è altrettanto non cristiana,
perché non attribuisce quanto le spetta alla dignità della persona.
Per altro l'obiezione del cristianesimo contro tutte le teorie
naturalistiche dell'uomo e della sua responsabilità non deriva dal
fatto che in esse questo o quell'aspetto parziale sia sminuito, ma che
esse prendono sempre l'uomo per sé solo, invece di intenderlo a partire
dalla Rivelazione, dal giudizio del Dio della santità, della grazia e
de! giudizio.
160
essere essi stessi solo grazia. Questo era invero il
contenuto dell'esperienza paolina. L'etica farisaica della legge - a
differenza dell'etica abramitica della fede e dall'etica pneumatica dei
profeti - era, nonostante i suoi presupposti di fede, individualismo
morale. Poggiava sull'ipotesi che la situazione umana possa essere
dominata e salvata con le energie proprie, mediante l'adempimento della
legge. Paolo ha vissuto l'impossibilità di questa ipotesi ed esperito
che il reinserimento nella forma della grazia può avvenire solo a
partire da un nuovo inizio che è sottratto all'uomo. Solo Dio può
farlo; lo ha fatto in Cristo. Così il perdono della prima colpa, la
costituzione della giustizia fondamentale si possono sperare solo
mediante il vincolo di fede con Cristo.
Quanto però all'azione colpevole individuale, essa in
certo modo torna a dispiegare la colpa originaria. Essa, allo stesso
modo, non è solo azione non etica, ma peccato. Non viola solo il
comandamento morale, ma attacca la forma di grazia dell'esistenza,
strappa da Dio. Che non porti con sé le conseguenze della prima colpa,
dipende dai presupposti diversi dei due tipi di colpa. Ma qui non ci si
può addentrare più profondamente nel tema.
L'interrogativo che si pone a questa ricerca è: che
cosa significa la fede nella grazia per la coscienza della colpa? La
risposta per noi nasce dalle considerazioni svolte finora. Il fenomeno
morale persiste nel suo rigore. Viene però assunto in un contesto più
profondo. Vi riceve un nuovo peso, e tuttavia al tempo stesso viene
risolto in maniera particolare. Diventa più umano, si vorrebbe dire, in
quanto viene rapportato a Dio.
161
Il carattere assoluto dell'obbligazione morale permane.
La persona sa di essere incondizionatamente sottoposta a obbligo da
parte del dover-essere etico, che in verità in ultima analisi è
esigenza della stessa santità divina. Come nessuno le può togliere
questa obbligazione, nessuno le può sottrarre nemmeno la
responsabilità del suo fallimento, del suo venir meno. La colpa
individuale però viene, per così dire, afferrata dal basso dalla colpa
del complesso dell'umanità; il singolo concorre a portare la colpa di
tutti. In tal modo è dissello l'individualismo etico. Non v'è un
trarsi fuori aristocraticamente dalla colpa dei molti. Non i singoli
«distinti» e non la sordida massa. La colpa di tutti penetra in quella
individuale e da parte di essa ne deve essere sostenuta in concomitanza
la responsabilità. Proprio perciò, tuttavia, la colpa individuale
viene sostenuta da quella del complesso dell'umanità. Ciò, eticamente,
non equivale a un affrancamento;
tuttavia è un alleviamento* nel cuore e nell'esperienza
immediata. Se non esiste l'aristocratismo etico, nemmeno esiste la
solitudine della responsabilità con la sua freddezza inumana.
Alla base dell'individualismo etico sta realmente
un'inumanità. Nel corso del suo sviluppo, l'epoca moderna ha perpetrato
una sostituzione che affascina tremendamente la sensibilità di fede.
Essa ha enucleato il concetto del «soggetto», nel campo logico come in
quello etico - ma, guidata dalla sua volontà d'autonomia, gli ha
sostituito insensibilmente il concetto di
* Nell'originale, assonanza tra Ablosung,
«affrancamento» («distacco», «esoneramento») e Losung,
«alleviamento» («scioglimento», «soluzione» ecc.)(n.<U).
162
soggetto assoluto. «Soggetto» si è mutato
gradualmente in «soggetto assoluto». Ma, portato onestamente
all'ultima istanza, ciò significa: l'uomo ha preteso di esistere in un
modo in cui esiste solo Dio, e si è arrogato così ciò che solo Dio è
in grado di compiere. L'esclusività aristocratica dell'individualismo
etico, così come la sua fredda solitudine, non sono più umane, ma
un'usurpazione del divino. Proprio perciò tuttavia diventano inumane5.
La fede nella grazia istituisce l'umanità della colpa, in quanto il
singolo entra nella comunanza della responsabilità. Ma proprio per
questo gli altri intervengono accanto a lui. Ciò non equivale a una
funzionalizzazione dell'elemento etico. Al contrario: la impedisce, se
non è un caso che accanto all'individualismo etico dell'epoca moderna
sia subentrata la relativizzazione sociologica, nella quale la
responsabilità del singolo è andata totalmente perduta. Di fatto i due
fenomeni sono strettamente uniti. Essi costituiscono due facce dello
stesso complesso di realtà [Sachverhalt). La coscienza della
grazia al contrario raccoglie insieme in una totalità vitale dialettica
i due momenti, che in quella concezione si staccano l'uno dall'altro.
Certo essa rinuncia alla soluzione razionale. L'unità sta
nell'esistenza credente, ed essa travalica qualsiasi formula.
Così pure, permane il carattere del valere, proprio
dell'elemento etico. Ciò che distingue l'atto etico dal-
5. In un senso molto profondo, certo proprio questa
trasgressione puramente umana (Menschiiche) è l'umano. È
qualcosa di diverso dall'umanistico {Humane). Questo esercita la
«misura» e vi si mantiene. La sua rapina a Dio non sta nel titanismo
della trasgressione, ma nella pretesa occulta della forma apparentemente
modesta: la ribellione della «classicità», l'orgoglio della
«cultura» (Bildung). Per contro, la trasgressione aperta ha
quasi il privilegio di una maggior sincerità.
163
l'azione utilitaristica: l'intrinseca altezza del bene
come dell'obbligazione, altezza che si sostiene da sola, e la validità,
in sé poggiante, dell'orientamento o «sentimento», che non possono
subire attentato da situazioni, finalità, conseguenze empiriche,
rimangono. Soltanto la fede nella grazia vede che non esiste un ambito
del valere segregato, accanto a quello dell'essere. L'essere è
determinato a partire dal valore; così esso viene messo in questione
pure a partire dal valore. Il mondo risponde all'agire umano. L'agire
morale decide sull'essere. Dal peccato è venuto il turbamento
dell'essere, la morte - parimenti il turbamento dell'essere si
ripercuote nell'ambito dell'orientamento intenzionale, attraverso tutto
ciò che si chiama tentazione, accecamento, indebolimento.
Anche qui la fede nella grazia è in opposizione
all'atteggiamento del diciannovesimo secolo - dell'idealismo in genere,
che separa reciprocamente l'ambito dell'essere e del valere, e, per
mantenerle la purezza del valere, abbandona la realtà in balìa del
puro potere. La conseguenza è una peculiare irresponsabilità. Idea e
orientamento intenzionale si dichiarano incompetenti di fronte alla
situazione dell'essere; il potere stabilisce di non avere nulla a che
fare con verità e diritto, e di essere autonomo nella realtà. Questa
scissione, attraverso la quale l'uomo elude la sua concreta
responsabilità, è cristianamente impossibile e viene eliminata proprio
dalla dottrina del rapporto tra grazia e colpa. Ciò che è, deve essere
assunto in responsabilità, poiché deriva da una decisione. D'altra
parte ogni decisione è ripresa entro il contesto di ciò che è
accaduto prima. Ciò non toglie l'onere, ma allevia.
164
Inoltre, e ora veniamo a ciò che più difficilmente si
può esprimere: l'atteggiamento specificamente etico consiste nella
solitudine per la purezza del «carattere categorico» del dover-esser,
della persona, della responsabilità morale e via dicendo. Di
conseguenza, il bene e il suo appello non possono essere toccati da
qualcosa che venga dall'esterno. La persona nel suo dover-essere è
sottratta a tutto l'altro da sé. Il fatto di aver agito bene o male,
quindi l'attribuzione morale, si trova al di fuori di tutte le
connessioni. Nello spazio, se così si può dire, del valere,
dover-essere, essere responsabili moralmente, non riesce a entrare
nessun potere concreto ... La cura di preservare questo carattere ha
ragione d'esistere. Dal fatto che non sia intaccata dipende la purezza
del fattore morale. Tuttavia la fede nella grazia dice: questa
sensazione, ciononostante, ha un confine. Se ci esprimiamo più
rigorosamente, non un confine, il che significherebbe solo
delimitazione, qualcosa di più alto al di sopra di sé. Esiste «un
luogo», se così mi è consentito dire, dove la forza d'obbligazione
dell'elemento morale è una cosa sola con una potenza concreta. Quindi,
non solo la potenza sta accanto all'esigenza, ma la validità normativa
è identica alla potenza e precisamente in un'energia di realtà che è
all'altezza dell'energia di «valenza» della norma, cioè alla potenza
assoluta. Qui l'esigenza cessa di essere «norma» pura, astratta. Essa
stessa è concreta. Qui ciò che esige non è una mera norma, bensì una
realtà; che però, essendo identica alla norma, è legittimata a
esigere. Questa potenza è essa medesima in tutto «etica». In nessun
punto c'è mera potenza. Dappertutto, al tempo stesso, essa ha il
carattere di ciò che vale. In nessun punto è soltanto
165
nell'oscurità dell'essere; dappertutto sta nella
luminosità del valore. Non appena questa potenza vuole, il suo volere
è identico al valere e legittimato a partire da esso. Ma ciò
significa: l'ultima istanza, alla quale si riferisce la nostra esistenza
morale, non è una legge, ma Qualcuno. È il Dio vivente. E precisamente
questa non è semplicemente un'unità dialettica - poniamo, l'esser
reale del valere o l'esser valida della realtà - ma sta in una qualità
propria: nella santità. Non il Dio morale, ma il Dio Santo è la
Realtà suprema, ultima.
Se però le cose stanno così, allora - comunque solo da
là - potenza reale penetra in verità entro quell'ambito categoriale di
cui si parlava. Allora si da un atto vivo, che influenza intimamente la
qualità etica, in cui mi trovo in virtù della mia responsabilità. E
l'atto del Dio Santo. Quest'atto ha un nome: l'amore. Il volere amoroso
di Dio può afferrarmi nella mia responsabilità in modo tale che io
ricevo un nuovo carattere etico, senza divenire per ciò eteronomo,
senza venire sminuito nella mia dignità - come subito si preoccuperebbe
l'atteggiamento puramente etico. Proprio questa è l'ultima essenza
della grazia: l'atto d'amore di Dio può fondare, nella positività
etica autentica, il colpevole in una nuova giustizia, senza attentare
alla sua dignità etica. In una giustizia che viene da Dio e tuttavia
appartiene all'uomo.
Qui si cela un antinomia; anzi la vera e propria
antinomia della grazia. Non si può più risolverla, ma soltanto credere
nella Parola di Dio, nell'essere e nel comportamento vivi di Cristo.
Tuttavia si può riconoscere che quell'inadeguatezza dell'elemento
categoriale etico, sottolineata con tanta insistenza, in ultima analisi
è inumana. Si può giungere a cogliere questa
166
verità sperimentando vitalmente il perdono da parte di
una persona. Quando ho fatto un'ingiustizia contro un altro, ed egli mi
perdona - che cosa accade allora propriamente? Dal punto di vista del
carattere meramente categoriale dell'atto, assolutamente nulla. Tuttavia
è accaduto qualcosa. Quando io prendo la colpa in concreto, allora il
perdono significa qualcosa che giunge fin entro il suo carattere
categoriale. Io lo so, e precisamente nello spazio più intimo della mia
responsabilità.
V
Sul problema ci sarebbe ancora molto da dire. Così si
dovrebbe spiegare come l'accoglienza del perdono nella fede agisce sulla
coscienziosità; se essa stimoli od ostacoli l'energia del tendere e
aspirare ... Come si collochi la fede nel nuovo inizio, nell'uomo nuovo,
rispetto alla situazione effettiva e quali conseguenze possa avere: per
esempio quella di un abbellimento artificioso dell'esistenza, che tragga
origine da quella fede, o invece di una permanente confutazione della
fede, contraddetta dalla situazione effettiva ... Quale struttura
dell'agire concreto ne sorga: una lotta dei due «inizi», un perenne
appellare dell'uno all'altro, e per il resto la convinzione che la
realizzazione ultima si può solo sperare, e altre cose del genere. Ciò
che ci interessava qui era chiarire come il comportamento etico,
mediante la fede alla grazia, riceva una nuova profondità d'immersione,
«pescaggio», e al tempo stesso un alleviamento. Il comportamento umano
riceve una «divinità» - non carpita surrettiziamente, o
167
pretesa, ma donata. Ma appunto solo in questo modo
l'uomo in genere diviene veracemente umano. Tutte quelle inumanità, che
si insediano necessariamente, come il crampo di un organo sottoposto a
uno sforzo eccessivo, non appena l'uomo trascende se stesso, si
risolvono. Forse è questa una espressione molto profonda di ciò che
Cristo chiama «pace», «che egli solo può dare» [cfr. Gv 14, 17].
L'uomo per comprenderlo deve certo necessariamente aver sperimentato la
miseria della coscienza morale abbandonata a se stessa.
168
CAPITOLO QUINTO
«RIVELAZIONE» COME FORMA DEL VIVERE
La prima proposizione di ogni dottrina sulla Rivelazione
è questa: ciò che essa è, lo può dire solo essa medesima. Essa non
rappresenta un gradino nella successione delle aperture naturali del
senso dell'esistenza, ma viene puramente dall'iniziativa divina. Essa
non è neppure un'autocomunicazione necessaria dell'Essere supremo,
bensì un'azione del Dio personale libero. Quindi un avvenimento per
comprendere il quale il pensiero deve andare alla scuola della
Scrittura, e deve affrontare più volentieri il rischio di intendere Dio
«umanamente» che filosofìcamente. «Dio rivela» significa
soprattutto «Dio agisce». Questo agire incontra l'esistenza come essa
è in sé; la pone sotto giudizio, col suo male e il suo bene; esige che
si converta; quando obbedisce, tuttavia, la solleva anche in un nuovo
inizio - anzi, il suo obbedire è già l'inizio; poiché è lo stèsso
Dio, che la chiama, a donarle di poter obbedire. Così appartiene
all'essenza della Rivelazione il non poter essere derivata dal mondo, ma
dover necessariamente esser accolta da essa medesima.
Il Dio che parla in essa, tuttavia, è l'identico Dio
che ha creato anche il mondo. Ciò cui si rivolge è la
169
sua creazione. Così si solleva l'interrogativo se in
essa vi siano abbozzi anticipatori della Rivelazione, se possa essere
d'aiuto, per intenderla, comprendere tali abbozzi. Non per dedurne la
sua essenza, ma per preparare l'occhio e per educare il pensiero
affinchè colgano meglio la realtà autentica.
Tali avvenimenti e rapporti, che rimandano all'evento
vero e proprio del rivelare, esistono di fatto; tra loro sembra che due
siano di particolare importanza.
II
Una cosa morta - per esempio un cristallo, o una
macchina - si presenta già completa. Si può sottopor-la a ricerca e a
calcolo. Si da un progresso nel vedere e nel conoscere solo nel senso
che, per esempio, sue parti non sono state ancora notate o non ancora
comprese nel loro rapporto con altre parti o con la totalità; o anche
la relazione della cosa col contesto della natura in genere non era
ancora stato visto in maniera esatta.
Del tutto diversa è la condizione del vivente. La
sostanza constatabile del seme non mostra quale pianta vi si celi, ma
chi considera deve attendere fino a che la sua forma si enuclei
dall'intimo vivo. Il vivente non è bell'e fatto a priori, ma si
realizza nella modalità del crescere e del trasformarsi. Ciò che
dapprima era ancora soltanto in germe* passa ad essere realtà
osservabile. E precisamente ciò si svolge in modo continua-
* Propriamente «impostazione, impianto, avvio,
disposizione» {Ansati, n.d.1.}.
170
to, fino all'ultimo istante della vita - giacché pure
l'appassire e il deperire è ancora «vita». Solo nella serie completa
delle «apparizioni» si fa visibile l'intero essere. Il passare dallo
stadio di nascondimento del germe alla condizione aperta della
realizzazione è il modo in cui sussiste la vita; si può chiamare
questo modo, in un senso allusivo, «rivelazione».
Il processo si fa più vario di forme e più ricco di
senso nel caso dell'animale. Qui si aggiungono alla crescita le
percezioni e il movimento spontaneo. L'animale si trova in relazione di
scambio con l'ambiente; ne viene determinato e lo determina a sua volta.
Anche nella molteplicità di queste relazioni con l'ambiente l'essere
passa dalla disposizione alla realtà. Inoltre si svolge
continuativamente il processo dell'esprimere. L'animale sente benessere
e dolore e viene mosso da istinto. Questi sono in sé «intcriori»,
nascosti, ma si manifestano in cambiamenti dell'aspetto esteriore e
dell'atteggiamento, in movimenti e attività.
La vita si svolge nella tensione tra possibilità ed
essere. L'essere dapprima solo impostato, avviato, si realizza
nell'avanzare della crescita e si attua nella tensione tra interno ed
esterno: l'intemo nascosto si esprime nella forma e nel movimento
percettibili. A differenza del non vivente, che non ha un interno, ma
semplicemente è «là», si possono chiamare, quelle del vivente,
modalità di essere dell'autorivelazione.
La forma del sussistere fonda anche il tipo di
conoscibilità. Il non vivente può essere colto senz'altro. Se lo
sguardo è sufficientemente acuto, lo vede nella sua totalità. L'essere
del vivente invece deve essere accolto dalle aperture con cui esso
stesso si rivela. Anche nel caso della pianta e dell'animale v'è molto
che
171
può essere semplicemente constatato: tutto l'elemento
«meccanico». Ma ciò che ne esorbita - e cioè tutto quello che
propriamente gli è essenziale - dev'essere accolto. Chi è avido di
conoscenza deve attendere finché passi dalla «disposizione» alla
realtà, dall'intimità all'espressione.
Quest'ultima circostanza significa ancora qualcosa
d'altro: che la compaginazione del senso* non può essere semplicemente
constatata, ma deve venire scrutata e capita. Chi osserva deve mettersi
in una posizione di rispetto, di simpatia e di pazienza di fronte
all'apertura o svelamento di sé che il vivente compie. In questo
atteggiamento si delinea una pre-somiglian-za con quell'atto, cui è
ordinata la vera e propria Rivelazione, cioè la fede.
Con nuovi tratti ritorna questo rapporto nell'ambito
dell'uomo. Qui non sono solo la forma dell'essere, la sensazione e
l'istinto a dover essere colti solo quando si realizzano nella crescita
e si rivelano nell'espressione, ma l'anima spirituale e la persona che
ha responsabilità di se stessa. Anche nell'uomo v'è parecchio che può
venire semplicemente constatato, come avviene per la cosa senza vita;
dell'altro viene desunto dalla forma e dal gesto, come nel caso della
pianta e dell'animale; ma ciò che gli è peculiare e più • proprio
pone nuove condizioni: deve essere lui stesso a comunicarlo. Quello che
l'uomo reca nella coscienza e come sia intenzionalmente orientale,
risulta chiaro solo quando lo dice e lo fa. Alla rivelazione attra-
* Si è creduto di tradurre cosi in questo punto
il vocabolo composto, di difficile resa, Sinnverhalt (n.d.t.).
172
verso l'espressione si aggiunge quella attraverso la
parola e l'atto. Essa emerge non dal rapporto tra intemo vivo ed estemo,
ma da quello tra coscienza spirituale da un lato, parlare e agire
dall'altro. Ciò che la determina è l'impulso spirituale verso la
verità, la volontà personale di comunicazione e dono di sé - d'altro
lato il senso, altrettanto spirituale, per la misura e l'interiorità e
il sentimento, altrettanto personale, del riserbo distanziante e
dell'autoconservazione. Questa rivelazione, poiché è più elevata in
valore, è meno ovvia nel suo attuarsi e pretende di più da chi la
riceve. Fino a un certo punto egli può esaminarla, constatare, dedurre
- in ultima e decisiva istanza egli deve credere che tale rivelazione in
genere possa verifìcarsi, e che questi che rivela ora la voglia
realmente; egli deve accoglierla con reverenza e prestarle fiducia.
L'esistenza umana nel suo complesso non è strutturata
in modo che in essa siano rapportate tra loro entità già complete
nell'essere e riconoscibili senz'al-tro nel senso. Gli uomini invece
sono coinvolti nel divenire; sono quindi entità che permanentemente
determinano se stesse. Tutto ciò avviene a partire dall'interiorità
creativa dello spirito e della libera disposizione della persona su di
sé, cosicché sorge una modalità del tutto diversa del trovarsi l'un
l'altro e dell'influire mutuamente: quella dell'incontro,
dell'autocomunicazione, dell'annodarsi di vincoli di comunanza, del
destino.
L'interno esce continuamente verso l'alto mediante
parola e azione, dalla riservatezza dell'anima, dall'ambito di senso
dello spirito, dalla libertà della persona. Una sfera d'esistenza si
apre continuamente
173
all'altro, nella fiducia che quello entri in rapporto di
comprensione, accetti la rivelazione e il dono di sé. Così l'esistenza
umana si svolge attraverso «rivelazione» e «fede» - presi i termini
in un senso preparatorio e del tutto interno al mondo, che però accenna
a possibilità dapprima ancora sconosciute.
Con ciò è detto che l'esistenza umana non procede in
modo semplice e facile, ma nella tensione e nel pericolo. La rivelazione
di sé fa conto che l'altro entrerà nell'accordo della volontà di
comprensione; tuttavia questo accordo è tanto più difficile da
instaurare, quanto più importante è ciò di cui si tratta. Tale
rivelazione di sé può anche giungere a un orecchio irresoluto; o non
amichevole; o tale da non volere la verità. A chi ascolta con fiducia,
a sua volta, può accadere che quanto egli accoglie come autentica
apertura sia inganno o deformazione. Così l'esistenza umana, che riposa
sulla rivelazione, è un compito che si deve continuamente rischiare e
superare.
Ili
Fin qui si doveva parlare del primo abbozzo preliminare
della rivelazione. L'altro sta nel modo in cui il senso di una cosa o
d'un avvenimento si dischiude allo spirito.
Quando io, per esempio, ho davanti a me una macchina, in
un primo momento vedo in essa un intrico confuso di partì dalle
molteplici forme e di funzioni che si svolgono in maniere diverse. Io
indago, confronto, collego finché da ultimo l'intero nella sua
struttura e nella sua finalità si apre alla mia compren-
174
sione. Del pari, dapprima in una qualche forma di
collaborazione umana - una fabbrica, una struttura di governo, un
istituto di ricerca - io colgo una confusione irrelata di elementi
particolari: edifici, macchine, apparati, persone, piani, ordinamenti di
lavoro e via dicendo. Solo nel corso di uno sforzo di capire, perseguito
per tempo sufficientemente lungo e con cura adeguata, la compagine della
totalità e il nesso della sua prestazione si fanno chiari. - Non
altrimenti avviene per un accadimento storico. Io vado saggiando i fili
delle azioni; seguo le situazioni e i loro cambiamenti; mi spingo dai
fenomeni alle loro cause, finché vedo come da quell'evento ha preso
forma un brano d'esistenza umana. E così sempre oltre, sia che si
dischiuda ora un'opera d'arte, nel suo carattere cosmico, sia che in un
conflitto morale appaia luminosamente ciò che si deve fare, o che il
rapporto con una persona giunga a chiarezza. Sempre v'è dapprima una
pluralità - nella quale certo, per qualche tratto, già si vede la
connessione, o la si presagisce come totalità. Cose e relazioni si
incrociano tra loro. Lo spirito va saggiando, ha il sentimento di
qualcosa di più vero e autentico, che però è celato, e si adopera per
coglierlo; tenta uno schema dopo l'altro, finché quella realtà emerge.
In quanto è accidentale e manchevole balena il necessario e il valido,
in quanto è passeggero il permanente.
E un processo che contiene la grandezza e la miseria
della nostra esistenza. I pensatori si sono continuamente arrestati su
di esso, l'hanno interpretato con le più diverse immagini. E
particolarmente bella la soluzione che tenta Agostino e con la quale fa
proseguire l'eredità di un grande passato. Egli dice: lo
175
spirito umano viene in contatto con l'oggetto e si fa
attento. Si adopera attorno a esso, lotta con esso, lo confronta con gli
altri, cerca di penetrarlo. Tutto ciò che si deve cogliere in maniera
immediata è problematico, frammentario e transeunte; tuttavia, in
rapporto ad esso si manifesta qualcosa che è valido, perfetto ed etemo.
Così la lotta procede finché è maturo il momento e dal dominio delle
forme di significato imperiture lampeggia una luce che illumina lo
spirito. Allora appare risplendendo l'essenziale dell'oggetto; il vero,
il bene, il bello che sono in esso'.
Lo spirito l'ha presentito, ma non l'ha potuto cogliere
con le proprie forze. Perché ciò avvenisse il significato doveva
illuminarvisi dentro a partire dall'eterno. Anzi, già nel primo
contatto l'eterno era operante e attraeva lo spirito al lavoro
apparentemente vano dedicato alla conoscenza, finché fece breccia nel
momento fecondo, e la cosa fu svelata nella sua luce. Si può chiamare
«rivelazione» anche ciò: la cosa racchiusa entro la sua
determinazione temporale e spaziale viene posta nel suo archetipo eterno
come nel suo spazio di significato e vi diviene comprensibile - così
come, d'altra parte, la pura for-
1. Vedi in proposito anche il bei passo della Settima
lettera di Fiatone:
«Questo tuttavia io posso dire di tutti quelli che
hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui io mi
occupo per averlo sentito esporre o da me o da altri o per averlo
scoperto essi stessi, che non capiscon nulla, a mio giudizio, di queste
cose. Su di esse non c'è, ne vi sarà alcun mio scritto. Perché non
è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun
modo comunicare, ma come fiamma s'accende da fuoco che balza: nasce
d'improvviso nell'anima dopo un lungo periodo di discussioni
sull'argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se
medesima» (tr. it. di A. Maddalena, in Fiatone, Opere, voi. li.
Bari 1967, p. 1076; Guardini riporta la tr. ted. di Apeit, in Piato, Briefe,
Leipzig 1918, pp. 71 s.).
176
ma di significato che è insediata nell'eterno si fa
contemplabile nella cosa terrena ... In corrispondenza si deve pensare
per la grande opera, per l'atto che ha successo, per l'azione che fonda
e instaura; deve sempre venire «dall'eterna luce» un raggio, una
forza, ciò che apra e renda facile, una norma e un'energia atte al
compimento, affinchè la realtà più autentica possa farsi evento.
Nessun avvenimento spirituale genuino si svolge solo tra me e l'oggetto,
ma deve sopravvenirvi dentro dalla quiete e dall'altezza dell'eterno il
«terzo». Affinchè ciò avvenga, però, sono poste di nuovo
condizioni; e tanto più gravose, quanto più grande è la realtà di
cui si tratta. Da una misteriosa libertà, che si dischiude per
iniziativa propria, appare luminoso al di qua il significato, ne si può
estorcerlo a forza, cosicché il suo venire ha il carattere della grazia
sovrana - anche in ciò presignificando la Rivelazione, che invero è
grazia. Nondimeno può venire solo quando lo spirito è in movimento e
aspira ad esso amorosamente. Quanto più profondo e appassionato è
questo movimento d'amore, tanto più aperta è la via per il raggio
eterno.
Così, tutto quanto è spirituale si attua nella
modalità di ciò che risplende trapassando al di qua e viene donato,
vale a dire però della «rivelazione». Da questa circostanza, deriva
che è grande e al tempo stesso minacciato da pericolo, prezioso e
soggetto ad angustia e difficoltà.
Quel che s'è detto non spiega nulla affatto dell'essere
di quella Rivelazione di cui propriamente si tratta: nella quale il Dio
vivo viene all'uomo, svela il suo volto e manifesta il suo volere. Che
cosa essa signifi-
177
chi, deve di necessità dirlo essa stessa. Non solo
quanto essa da, dev'essere creduto, ma anche ciò che essa stessa è -
anzi addirittura che essa in assoluto vi sia, poiché essa è inizio e
non ha nulla cui possa appellarsi. Con essa tutto comincia; l'intera
esistenza di fede. Tuttavia riflessioni come le precedenti hanno un
senso: quello di abituare al modo in cui procedono le cose della vita e
dello spirito; diversamente da quelle senza vita, un modo cioè che
richiede più sforzo, che è più esposto ai pericoli, più nobile.
Aiutano a riconoscere l'ottusità e grossolanità in cui scivoliamo
continuamente, e preparano alla modalità in cui si attuano le cose di
Dio.
178
CAPITOLO SESTO
LA RIVELAZIONE E LA FINITEZZA Un interrogativo e il
tentativo di una risposta
Ora riprendiamo le nostre meditazioni domenicali
sull'immagine di Dio nella Sacra Scrittura. Così credo che oggi, tra i
due periodi del semestre, sia giusto dare spazio a un interrogativo, che
si è levato forse, più o meno chiaramente, con maggiore o minore
urgenza, in parecchi uditori'.
Quando parlai dell'annuncio di sé che Dio espresse
nell'Antico e nel Nuovo Testamento, che stabilì come vero e, come, ciò
facendo. Egli abbia rimandato anche ad altre concezioni, respingendole o
attaccandole, potrebbe certo essersi sollevato l'interrogativo:
quell'uomo si esprime come se fosse vero solo ciò che
egli dice - ma è proprio così? Egli parla come se esistesse solo la
Bibbia - ma non vi sono anche altri libri sacri? Non esistono pure altre
concezioni, provenienti da altre epoche e presso altri popoli? Il
buddhi-smo è pur anche una grande religione, colma dei pensieri più
profondi e audaci; i greci hanno detto cose meravigliose sul mondo e
sull'esistenza dell'uo-
1. La meditazione fu tenuta all'inizio del semestre in
occasione della celebrazione liturgica universitaria a S. Luigi, Monaco.
179
mo; negli antichi testi cinesi si leggono cose che
provengono dalla più sicura conoscenza della realtà e dalla più
matura esperienza, e così via, attraverso popoli ed epoche - perché
allora, dunque, proprio ciò che dice la Bibbia nell'Antico e Nuovo
Testamento dovrebbe essere vero, e solo ciò vero?
Chiediamoci ancor più nettamente, proprio in linea di
principio: in cose divine può valere in genere un annuncio determinato?
È pur vero che Dio è l'Infinito, Colui che trascende tutti i criteri
di misura - è possibile fissarlo a una determinata dottrina e regola di
vita? Non è questa ristrettezza e autoritarietà? Non è forzatura in
un punto, dove dovrebbe dominare la più rigorosa modestia nelle
affermazioni personali e la maggiore riverenza davanti all'esperienza
dell'altro?
Dio è pur Colui con il quale hanno rapporto tutti i
popoli e al quale tutte le epoche sono contemporanee. Così ogni popolo
deve necessariamente poterlo esprimere come lo sente, e aver ragione di
comportarsi così. Ogni epoca deve di necessità erigere la sua immagine
del divino, e, quando la intende in modo onesto, poter dire che è vera.
Ciascun uomo è vicino a Dio, ma ognuno è diverso. Pertanto ciascuno
deve poter dire: così io lo sperimento vitalmente, così lo sento, e
così Egli è reale per me. Qui non si può dare una verità determinata
nel senso delle cose terrene, dove qualcosa è come lo constatano
esperienza e scienza e non altrimenti; ma la verità religiosa si da
innumerevoli volte ed essa consiste di caso in caso nel modo in cui uno,
in atteggiamento di onestà, sente ed esprime ciò che è suo.
180
Quand'anche non si dovesse avanzare oltre, e dire:
chi ha capito di che cosa si tratta, pone al centro del
suo pensiero religioso l'incomprensibilità di Dio. Rinuncia a ogni
enunciazione determinata, poiché essa equivale sempre a presunzione, e
rimane in atto di silente riverenza davanti all'Ineffabile.
È un problema difficile, e appare oggi particolar-mente
urgente, poiché l'uomo è così interamente caduto al di fuori
dell'ordine della tradizione. Egli, nonostante tutta la scienza e
l'esattezza tecnica, è insicuro fino ad avere paura. Nonostante tutto
lo scambio e tutte le organizzazioni, a causa della solitudine non sa
trovare la strada.
Attraverso la guerra è giunto presso popoli stranieri e
ha visto che sono diversi e pensano diversamente: allora, chi ha
ragione? La scienza gli ha mostrato quanto variamente e profondamente si
sono mutate le concezioni nel corso del tempo: allora non è tutto
coinvolto nel fluire? Continuamente si cerca di persuaderlo, in
giornali, radio, riunioni, ora in un senso, ora in un altro e sempre con
la pretesa più elevata: a chi dovrebbe ancora credere? Ciò lo rende
diffidente contro tutte le affermazioni - o invece accetta qualsivoglia
d'esse, che appunto gli faccia impressione, e vi si attiene
disperatamente, col sentimento in sottofondo: solo, non lasciare la
presa, altrimenti precipiti nel vuoto!
Così comprendiamo che l'interrogativo di cui si parlava
è particolarmente pressante e vogliamo cercare di affrontarlo.
Ora, ciò non può avvenire nel senso che noi ponderiamo
tutti i motivi che portano a vedere come il
181
messaggio della Sacra Scrittura sia vero, e unico vero.
A farlo, sarebbero necessarie innumerevoli conferenze. C'è però ancora
un'altra maniera di giungere al risultato. La prima si preoccupa di dire
tutto, o almeno ciò che è più importante, per poi poter dedurne:
Quindi le cose stanno così! - l'altra, per contro,
cerca l'elemento decisivo. Non sviluppa l'intera questione, ma indugia
su un determinato punto: un punto tale però da determinare l'intero.
Tentiamo di rispondere per questa strada.
II
Vogliamo partire dal problema del modo in cui si svolge
la nostra vita.
Si attua in maniera che noi esperiamo la totalità, o
qualcosa di determinato in essa? Abbiamo tutto, o dobbiamo
necessariamente scegliere?
Ve l'aspirazione bramosa a entrare nel tutto. Ciascuno
di noi l'ha già sentita. Per esempio di notte, quando das ùbermass
der Sterne (la massa sterminata delle stelle) gli parlò
dell'illimitatezza del cosmo; o sul mare, quando la sua ampiezza lo
richiamò al largo; o sulla vetta d'un monte, quando egli sentì che
cos'è lo spazio. Così uno ha aspirato a uscire da sé, si è sentito
al di fuori di sé, forse una volta in un momento eletto ha avvertito
che cos'è «Tutto» - ma poi è dovuto di necessità tornare al proprio
posto, su questa terra, su questo paese, nel luogo dove vivere. E se non
era un terribile romantico, ha avuto poi la consapevolezza: va bene
così. Io sto qui e in nessun altro posto.
182
Ve anche la bramosa aspirazione a immergersi nelle
profondità a perdita d'occhio della storia. Anch'essa attrae a uscire
da sé, calandosi nel passato:
nella ricchezza della classicità; nella battaglia
spirituale dell'epoca moderna agli inizi; nella magnificenza del
medioevo; nello splendore dell'antichità; nella grandezza dell'Egitto -
e così sempre più a monte, fino alla magia dei tempi primordiali. La
strada si stende parimenti anche in avanti. Chi non ha mai pensato: Ah,
se potessi vedere che cosa nascerà da tutto ciò che oggi è all'opera!
Potessi sperimentare che ne sarà dell'umanità, del mondo! Ma poi egli
ha dovuto ritornare al presente, all'anno 1950, al giorno attuale,
all'ora in cui v'era da fare questo e quello. E anche a quel punto ha
sentito: Va bene così. Io vivo ora e in nessun altro momento. La
serietà dell'esistere consiste nel fatto che io riconosco questo dato
di fatto.
È importante comprenderlo. L'uomo ha il suo posto nello
spazio e nel tempo. In tal modo è chiaramente «là» nel contesto
dell'esistenza umana. Questa posizione gli da sicurezza; al tempo stesso
però anche lo stringe, e sorge l'aspirazione all'infinitezza. In ciò
si esprime una reale infinitezza dell'essere, che non può essere legato
entro alcun «luogo» - ma sarebbe «romanticismo» cercare
l'adempimento diretto di tale aspirazione. Noi siamo esseri storici.
Come tali, non siamo riferiti all'incommensurabilità dello spazio
cosmico, ma ad un determinato punto entro di esso. Non all'estensione a
perdita d'occhio dei tempi, ma ad un determinato momento nel loro corso.
Dal mio riconoscerlo e dal mio inserirmici dipende la limpidezza
dell'esistenza, la chiarezza della responsabilità e l'onestà
dell'agire.
183
Ciascuno di noi ha certo sentito anche un altro
desiderio: Ah, se potessi diventare diverso da quel che sono! Ancor
più: Potessi diventare un altro da colui che sono! Perché devo
necessariamente essere questa persona? Con queste qualità, queste
debolezze, questi compiti e doveri, questi fatti spiacevoli, sempre
uguali, in rapporto ai quali nasce il tedio, queste angustie e
sofferenze e mancanze d'una via d'uscita? Perché devo rimanere
incarcerato in me stesso? Non ci dovrebbe essere un rinvigorimento che
ricrei fin nell'intimo, un rinnovamento di tutto ciò che è «vecchio»
e logoro, se io potessi diventare assolutamente un altro? Pure, le cose
stanno così: semplicemente non si può più reggere a se stessi! Se non
sopravviene l'incantesimo delle favole, per il quale un uomo è
trasformato per esempio in un uccello; poi uno lo riscatta e ridiventa
uomo, quando è passato attraverso il mistero del divenire mutandosi,
non deve aver vissuto una prodigiosa liberazione? La liberazione dalla
tormentosa monotonia dell'essere identico a sé? O che cosa sta dietro
il godimento legato al gioco teatrale, se non il piacere di svolgere un
ruolo, di poter scivolare entro un altro essere umano? Che cosa
significa il piacere della maschera, se non la parvenza di poter
sfuggire a se stessi?
Tuttavia la nostra coscienza morale sa che ogni etica
comincia e finisce con l'atteggiamento del dire sì a ciò che si è;
con l'accettare se stessi e persistere in se medesimi.
Interrogandoci ancora una volta: l'uomo è soddisfatto,
realmente soddisfatto di ciò che deve fare? Del suo lavoro, della sua
professione? Chi non ha il senti-
184
mento ch'egli sceglierebbe volentieri di fare
qualco-s'altro e non ritiene che allora diverrebbe felice? Chi non
vorrebbe aggiungere alle sue ancora altre attività, per crescere
maggiormente in senso universale? Chi non vorrebbe poter collocarsi, col
suo agire, nell'intero della vicenda mondiale? Ciascuno non ha una
qualche attività da dilettante, qualche hobby, in cui coltiva
altro da quelle che sono le sue prestazioni obbligatorie, foss'anche la
raccolta di francobolli e la cura dei fiori? Già questo trapassare in
un altro ambito significa un presagio dell'intero, della totalità.
Tuttavia sappiamo che cosa esce dalla vita dell'uomo che
non fa nulla di determinato. Vediamo appunto, forse sperimentiamo in noi
stessi come sia pericoloso occuparsi di tutto il possibile, e di nulla
in modo esatto; sapere di tutto il possibile, e non essere su terreno
proprio in nessun luogo.
L'uomo deve dunque scegliere. Nel caso favorevole,
esistono determinate predisposizioni, che indicano la dirczione. Spesso
le circostanze esercitano la loro coazione. Oppure ci si risolve per dò
che appare più ragionevole. Però l'uomo deve sempre decidersi e nel
suo attuare con nitidezza la sua decisione e nel rimanere fermo in essa
consiste ciò che si dice «carattere».
Non avviene proprio lo stesso nelle relazioni con altre
persone? Si possono amare tutte? Si può agire così, come intende il
ben compreso amore del prossimo. Ma questo non deborda in un oceano
senza rive. Non dice: Voglio amare ciascuno - ma voglio essere buono
verso colui che di volta in volta mi viene accostato dalla situazione; e
con ciò ritorna ancora la par-ticolarizzazione: questa persona, e non
un'altra.
185
Si vorrebbe certo imparare a conoscere gente
interessante. Ma se non ci si limita, ci si dissipa l'energia del
comprendere, della simpatia e, soprattutto, del giudizio. Si possono
certo avere molti amici; ma poi la parola perde il suo senso. Si può
mantenere una reale fedeltà d'amicizia solo a pochi.
Per quanto grande possa essere la forza del cuore di un
uomo o di una donna, essi devono pur dire una volta, e, più che dire,
fare: Questo, o questa, e nessun'altro. Poi senz'altro vengono i momenti
in cui avvertono i limiti di quella persona e vorrebbero andare a
un'altra. Ma se conoscono più profondamente la vita, sanno che in
ultima analisi tutto dipende dal loro serbare fedeltà.
Ci sarebbe da dire ancora parecchio del genere, ma
abbiamo ben compreso che cosa s'intende. L'uomo non può avere tutto, ma
deve scegliere solo quello che è determinato. Non può vivere nello
sconfinato, ma deve prendere una dirczione. La base dell'esistenza non
è l'infinità dello spazio, ma il «qui». Non l'illimitatezza del
cosmo, ma l'«adesso». Non l'estensione a perdita d'occhio delle
possibilità umane, ma quelle che sono date nel proprio io. Non la
molteplicità delle persone che riempiono la terra, ma quelle che la
disposizione della vita destina a ciascuno. E contenuto dell'agire non
è l'immisurabile, che si possa fare oggetto di prestazione, ma ciò che
professione e situazione esigono dal singolo.
Ne dipende tutto ciò che si chiama onestà, decenza,
responsabilità. Ma se la persona soddisfa l'esigenza, se si limita e si
determina, si compie una conversione: la singola azione compiuta
giustamente apre lo
186
sguardo per entrare nell'intero. A chi da quanto gli
spetta a ciò che è suo dovere - realmente quel che gli spetta - con
l'attenzione dello spirito e la dedizione del cuore - verrà donato
proprio in ciò l'intero.
Ili
Se qui sta la legge fondamentale dell'amare retta-mente,
dovrebbe poi essere altrimenti nell'ambito religioso?
Il rapporto con Colui che pur è realtà più autentica,
definitiva, la suprema che dia pienezza al significato, cioè con Dio,
dovrebbe avere quel carattere che in tutte le cose umane avrebbe effetto
di confusione e di distruzione? La relazione con Dio dovrebbe portare
all'indeterminato, e dissolvere ciò che invece forma la quintessenza
della limpidezza, della chiarezza, della possibilità di
responsabilità, cioè la verità? In rapporto a Dio dovrebbe esistere
«verità» al plurale?
Al contrario, la legge della decisione non deve
necessariamente trovare la sua ultima e definitiva conferma di fronte a
Dio?
Vogliamo ascoltare le parole in cui si è espressa
classicamente la veduta secondo la quale l'elemento religioso non è
chiaramente determinabile, ma invece è diverso da uomo a uomo, da paese
a paese, da epoca a epoca. Si trovano nel Faust di Goethe.
Margherita ha interrogato l'uomo che la vuole conquistare: «Come stai
con la religione?» Faust scantona; ma essa sente che si tratta della
cosa importante, la più importante, onore e fedeltà - e non desiste:
«Credi tu
187
in Dio?». L'inquieto risponde con sublimità
filosofico-poetiche e infine dice:
Nenn es dann mie du wilist:
Nenn 's Glùck! Hen! Liebe!
Goti!
Ich habe keinen Namen
Dafùr! Gefùhl ist alles;
Nome ist Schall und Ranch Umnebeind Hinmeisglut
«Chiamalo come vuoi. Chiamalo Gioia, Chiamalo Cuore,
Amore, Chiamalo pure Dio. Per un tal senso io non conosco nome. Il
sentimento è tutto.
Il nome è un suono solamente: un fumo, Che avvolge in
nebbie il folgorio del sole»*.
Nelle parole non si fa luce tutta l'impossibilità di
questa concezione? E non solo questo. Le parole stanno in una
determinata situazione. Faust le dice alla fanciulla che vuole sedurre.
A tal fine deve allettare quella creatura innocente fuori dagli
ordinamenti della sua esistenza, rendere insicura la sua coscienza
morale, e non può farlo meglio che confondendo la risolutezza della sua
fede religiosa ...
Nel caso di noi uomini, sembra che realmente le cose
stiano così: noi, quando si tratta di Dio, ci dispensiamo dai criteri,
di fronte ai quali nelle altre circostanze rispondiamo del nostro essere
e agire.
IV Ora, però, qualcuno potrebbe dire: certo, ogni uo-
* W. Goethe, Faust, Parte i. Atto il. Scena /( giardino
di Maria, (tr. it di V. Errante, inJ.W. Goethe, Opere, a cura
di L. Mazzucchetti, voi. IV, Firenze 1963, p. 160).
188
mo deve decidersi, anche nella sfera religiosa. Dio è
l'Infinito, e l'infinito non può essere afferrato dall'uomo, perciò
egli deve avvicinarsi a Dio in un modo determinato. I criteri per questa
determinazione stanno nella sua esistenza propria: nel tempo in cui
vive; nel paese la cui civiltà e cultura lo circondano; nella
predisposizione, che orienta il suo bisogno religioso in una dirczione o
in un'altra.
Dio non è determinabile, quindi è l'uomo che deve
necessariamente determinarlo; ma l'uomo lo fa partendo da ciò che egli
stesso è, e ciascun uomo è diverso. Ciò significa: nell'ambito
religioso non v'è una verità valida, ma solo una individuale. In
termini più precisi: nella sfera religiosa non v'è alcuna verità, ma
solo una veracità.
È esatto questo? Sarebbe ancora giusto se la
determinazione stesse solo nell'uomo, sebben pure ciò sia ancora da
vedere. Ma la determinazione sta anche, anzi in prima linea ed
essenzialmente, in Dio stesso.
La Rivelazione biblica, che solo gradualmente si
riconosce quanto sia grande, o meglio, quanto inaudita, dice che Dio
medesimo si è deciso.
Dio è eterno. Egli è contemporaneo a ogni tempo. Non
si è però manifestato a ogni epoca, e a ciascuna secondo la modalità
d'essa, ma in determinate ore e in una maniera determinata; in modalità
decisiva però quando s'è fatto uomo. Dio è infinito. La sua presenza
ricolma la terra. Ma la sua autoattestazione non è avvenuta in quanto
Egli abbia parlato in ogni paese, bensì soltanto in uno determinato -
quello che ha prescelto, la Palestina.
Dio travalica tutte le forme e misure, quindi è vici-
189
no a ogni essere. Ma non si è manifestato in quanto sia
apparso a ciascun essere, bensì ha chiamato determinate persone e
attraverso di esse ha rivolto la parola a tutti, attraverso i profeti e
gli apostoli.
Fede e vita religiosa poggiano sull'iniziativa di Dio,
sulla rivelazione e redenzione. Tuttavia questa iniziativa non ha una
forma generale, che si sia rivolta al mondo universalmente e abbia
ricevuto la sua strutturazione dalla situazione storica di volta in
volta esistente, nuova da ciascuna di esse, ma è invece essa stessa
storica, o, per dire più esattamente, tale da creare storia sacra. Dio
si accosta al mondo per sua decisione.
Si è deciso in dirczione di questa nostra Terra, al
paese ch'è la Palestina, alla cittadina di Nazareth. Si è deciso in
dirczione degli anni del tempo della Terra che, nei tempi dell'universo,
non sono che un battito di palpebra, e, nell'ambito del tempo della
Terra, degli anni di Augusto, dell'ora in cui l'Angelo salutò la
Vergine. Si è deciso a entrare in quest'essere umano, Gesù di
Nazareth, «il figlio del falegname»; nelle sue parole, nel suo modo di
agire, nel suo destino.
Perché Dio ha operato così? Non v'è una risposta vera
e propria a tale comportamento. Non si possono addurre «motivi» per
ciò. Non sono mancate teorie per tale motivazione, da Piotino a Max
Scheler, filosofi hanno tentato di mostrare che Dio avrebbe dovuto
creare il mondo per necessità intcriore: per l'impulso comunicativo
della sua essenza; per l'impulso a giungere alla consapevolezza di se
stesso in rapporto al mondo, e così via. Con questo però Dio è legato
al mondo e la verità è distrutta. L'unica risposta è que-
190
sta: Dio ha creato il mondo perché l'ha voluto, per
pura libertà. Non ve n'era necessità di sorta. Ne il mondo fu una
conseguenza proveniente dall'essenza di Dio, ne Egli ne ebbe bisogno.
Parlando in termini assoluti, non sarebbe mancato nulla, se fosse
mancato il mondo. Dio solo basta.
La stessa risposta che Dio abbia creato il mondo per
amore non fa avanzare. Non appena con ciò si debba esprimere un perché
contenutistico, siamo a Piotino. Questi opinava che Dio sia amante; ma
che l'amore significhi autocomunicazione. Pertanto, Egli non avrebbe
potuto far altro che creare per la necessità d'amore della sua natura
così come la sorgente sarebbe costretta a fluire, perché sarebbe sua
essenza il riversarsi. Ma in tal modo si torna a distruggere la
Rivelazione.
Quando essa parla dell'amore di Dio, intende qualcosa
che proviene da pura libertà. Una decisione per l'amore, che - e noi
sentiamo come diventino problematiche le parole, ma non pronunciarle
sarebbe ancor peggio - sarebbe potuta anche non accadere. L'amore
essenziale di Dio ha la sua pienezza e adempimento in Lui stesso, nella
relazione delle santissime Persone tra loro. Per questo, anzi, la
dottrina della sua vita una e trina è la difesa della verità di Dio.
Dire che Dio sia il Solamente-Uno, si trae dietro necessariamente la
deduzione che Egli abbia dovuto creare il mondo per poter amare, e
questo è già l'inizio del rinnegamento di Dio. No, Dio non ha bisogno
del mondo nemmeno per ciò; giacché la pienezza assoluta dell'amore è
eternamente reale in Lui stesso;
reale in un modo e in una misura che si lasciano
addietro tutto l'umano. Qui però si tratta dell'amore di
191
Dio per il mondo, per il finito, e tale amore non è
necessario. Dio sarebbe amante anche senza di esso. Che si sia risolto
per esso, è stata pura libertà: Egli l'ha voluto - perché l'ha
voluto.
V
Anzi, qui v'è addirittura una di quelle grandi
occasioni di «scandalo», che il cristianesimo da; di scandalo dello
spirito filosofico, che si ribella a che si parli di Dio in questo modo.
Dio non è l'Assoluto? L'Essere perfetto, che non può
essere messo in relazione con alcuna affermazione, che contenga realtà
finita-condizionata? Si può dire che Dio, il quale dev'essere pensato
con puri concetti d'assolutezza, sia libero; che si decida; che faccia
quello che si può cogliere non come necessità, ma soltanto come factum,
come dato di fatto; che Egli scelga tra possibilità; cosicché non si
può chiedere:
«Perché lo fai?» (Gv 9, 12); che Egli, mediante
l'incarnazione stessa, faccia ingresso entro la storia in una maniera
determinante secondo il luogo, il tempo e la forma e, in virtù della
resurrezione, rimanga per l'eternità determinato storicamente - si
possono pensare cose del genere su Dio? Ciò non è antropomorfismo? O
persino mitologismo?
La risposta a queste obiezioni è univoca e spinge
quella decisione, di cui si parlava, a tutta la sua nettezza: appunto
ciò che l'assolutismo filosofico avverte come impossibile, è il
contenuto della Rivelazione. È proprio questo che essa vuoi dire. Il
Dio «assolutisti-
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co» non esiste. Esiste solo il Dio che si manifesta
nella Rivelazione. Ed Egli è tale da fare tutto ciò di cui si
discorreva prima. E così come deve necessariamente essere per poterlo
fare. E libero. Egli pondera e si consulta; sceglie. Viene, agisce, sta
presso di noi in quanto è l'Incarnato per l'eternità.
Dio è anche l'Assoluto, certo, ma non può essere
racchiuso nei concetti d'assolutezza, bensì deve essere pensato anche
con concetti di fattualità. Egli è eterno, ma entra anche storicamente
nel tempo. E so-vraspaziale, ma sta anche in un luogo, così che si può
dire: a Betlemme, e non ad Atene. E onnipresente, ma appare anche in
forma determinata, come Gesù di Nazareth. Egli penetra ogni cosa col
suo influsso operante, ma agisce anche così che questo determinato
miracolo è opera sua.
Questo è vero e anche l'altro - ma come possano essere
insieme e in uno le due cose non ha ne concetto ne parola che lo
esprima. Ha solo un nome, ed è «Dio». Accoglierlo; sacrificare le
strutture del proprio pensiero e pensare movendo dalla Rivelazione del
santo nome - questo è fede. Dapprima obbedienza assai dura; poi sacra
ampiezza di nuova verità.
All'interrogativo perché Dio abbia creato, e adottato
un disegno, e scelto; perché Egli sia venuto e si sia fatto uomo e tale
sia rimasto, non v'è, abbiamo visto, alcuna risposta vera e propria che
origini da noi. Nella luce di quanto s'è appena detto, tuttavia, noi
presentiamo che ve ne deve essere una proveniente da Dio, solo che noi
non possiamo coglierla. Forse contemplarla, percepirla ed esperirla
vivendola sarà il contenuto della eternità.
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Quella Realtà inconoscibile e non nominabile deve
essere qualcosa di ineffabile. Deve consistere nel significato e
nell'importanza che ha finito per Dio. Non per essenza, poiché allora
ne avrebbe bisogno, ma per libertà, perché Egli così vuole. Egli
concede al finito di significare qualcosa per Lui: ciò forse è il
cuore, il nucleo centrale di quanto si chiama «amore». Non l'amore in
genere, sul quale possiamo parlare da noi stessi, ma il suo, che Egli
medesimo deve di necessità proclamare, se vogliamo sapere qualcosa.
Quell'amore, di cui Giovanni dice:
«Dio è amore» (1 Gv 4, 8), e ancora: «In questo sta
l'amore: non siamo stati noi ad amare [prima] Dio, ma è lui die ha
amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i
nostri peccati» (1 Gv 4, 10).
Questa è la risposta all'interrogativo che abbiamo
posto all'inizio. Qui non si tratta di questa o quella particolarità,
ma della totalità della Rivelazione e dell'esistenza cristiana che
poggia su di essa.
La nostra risposta certo non era esauriente. Ci sarebbe
ancora molto da chiarire e da fondare. Ma essa, credo, accenna al punto
decisivo. Non dice tutto, ma qualcosa di determinato; questa realtà
determinata però mette in movimento l'intero.
Dio è così come appare in essa. Non esiste il Dio
della pura inconcepibilità, il Dio dell'indeterminatezza, che ciascuno
dovrebbe precisare a sé. Sarebbe un Dio che l'uomo si fa a sua misura,
per eludere la decisione. Il Dio reale è quello che si è deciso e
appunto così ha chiamato l'uomo a decidersi di fronte a Lui.
Con questo non abbiamo dimostrato nulla. Abbiamo
indicato solo un carattere che appartiene a tutto
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l'umano - ma che deve necessariamente appartenere anche
a Colui che ha creato l'uomo. Dio non può, nel suo rapporto con noi,
smentire ciò che ha posto come vincolante per tutta la nostra
esistenza.
La verità di questa proposizione può essere esperita.
Quando si viene ad essere tormentati da quell'interrogativo di cui si
parlava, può accadere che queste risolutezze e determinatezze a una
persona appaiano del tutto sciocche. Ma se poi col sentimento ci si
immedesima più precisamente in quell'apparente mancanza di senso, si
nota ch'essa contiene un senso ultimo, definitivo, ed eccola divenire
impulso a salire verso la realtà più vera e autentica. Ciò che sembra
tanto impossibile è appunto ciò che importa. Ciò che viene avvertito
come estrema obiezione è il contenuto più proprio della Rivelazione.
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INDICE
Premessa
di Giulio Colombi
ROMANO GUARDINI Fede - Religione - Esperienza
CAPITOLO PRIMO La fede nell'epoca della riflessione
CAPITOLO SECONDO Esperienza religiosa e fede
CAPITOLO TERZO Tré discorsi dottrinali ......
L'interiorità cristiana, 97 - La preghiera di
richiesta, 112 - Realismo cristiano, 123.
CAPITOLO QUARTO La fede nella grazia e la coscienza
della colpa
CAPITOLO QUINTO «Rivelazione» come/orma del vivere
CAPITOLO SESTO
La Rivelazione e la finitezza. Un interrogativo
e il tentativo di una risposta
.....
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