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OPERE DI ROMANO GUARDINI

EDIZIONE ITALIANA A CURA DEL « CENTRO DI STUDI FILOSOFICI DI GALLARATE 

ROMANO GUARDINI

ELOGIO DEL LIBRO

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera Lob des Buches

by Matthias-Grunewald-Verlag, Mainz

Tradu2Ìone di giuseppe scandiani

© by Editrice Morcelliana S.p.A. - Bresda 1985 Tipolitografia La Nuova Cartografica - Bresda 1985

PREMESSA

Come talvolta accade che in maniera del tutto improvvisa si viene toccati da un pensiero, che muove da una qualche parte del proprio animo, così mi è venuto in mente che sarebbe stato bello pronunciare l'elogio del libro. Anzi, in un periodo in cui tanti amanti dei libri hanno perduto i loro amici, e molti altri invece, che sarebbero stati capaci di tale nobile amicizia, ne sono stati tenuti lontani dal lungo dominio dello spirito maligno, questo pensiero mi è sembrato essere addirittura un compito.

Dunque voglio assumere questo compito — anche se sono convinto a priori che non riuscirò a misurare la profondità dell'oggetto in questione, ne ad avere ragione della sua complessità, poiché quanto più lungamente ho riflettuto sulla sua natura, tanto più chiaro mi

è apparso che il libro costituisce un argomento inesauribile. In esso si ritrova assolutamente tutto ciò che l'uomo ha creato. In esso si esprime il suo proprio essere. Anzi — posso parlare così in quanto ogni panegirico si basa su una sorta di entusiasmo, al quale è concesso dire cose che altrimenti sembrerebbero esagerate — il libro pare essere addirittura un simbolo in assoluto della nostra esistenza, tan-,to ampia è la sua natura e al tempo stesso tanto complessa, tanto mutevole e d'altra parte tanto maneggevole nel senso proprio della parola.

Tanto avevo scritto, allorché composi il discorso; erano i primi tempi dopo la guerra, quando libri buoni erano così rari e quelli disponibili così miseri. Oggi è diverso. Molte cose belle e importanti sono nuovamente a disposizione, e si può anche pretendere che siano fatte bene. Qualcuno tuttavia ha capito che non è una cosa ovvia possedere dei libri; e ci basta anzi dare un'occhiata all'Est più vicino, per renderci conto di come sia addirittura un segno idi dignità umana salvaguardata il poter liberamente disporre di libri.

Abbiamo così motivo per riflettere un poco su ciò che in essi ci è salvaguardato e su ciò che non abbiamo forse ancora apprezzato secondo il dovuto.

Monaco di Baviera, autunno 1951

amici MIEI'

Voi amate il libro? Dato che solamente a coloro che amano il libro è rivolto il mio discorso, devo porre questa domanda all'inizio. Da altri il mio discorso verrebbe recepito forse come stupido, e sicuramente come superfluo.

Tuttavia non vogliamo lasciare nulla nell'approssimativo; per questo dobbiamo intenderci ancor meglio su che cosa significhi qui la parola «amare». Non solo cioè che nel libro si cerchi volentieri del diletto o della distrazione. E neppure che esso costituisca una fonte inesauribile di conoscenza, o una camera del tesoro, dalla quale profondità e bellezza di pensieri illuminino il lettore. Tutto ciò sarebbe certamente amore, e amore non piccolo.

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11 quale tuttavia passerebbe per così dire attraverso il libro. Ma come è inteso qui, l'amore si rivolge al libro in se stesso e come tale.

Chi ama il libro, prende in mano, col sentimento di una tranquilla familiarità, quell'oggetto che così si chiama, stampato su carta e rilegato in tela o cuoio o pergamena. Lo sente come una creatura, che si tiene in onore e si cura, e della cui concretezza materiale si è lieti. Non è per lui solo il mezzo a uno scopo, sia pure il più spirituale, bensì qualcosa di pienamente compiuto in se stesso, saturo di significati molteplici e capace di dare con ricchezza.

Questo vero amante del libro lo si riconosce già dal modo in cui lo prende dallo scaffale, lo apre, lo sfoglia e lo rimette al suo posto. D'altra parte, quello che io intendo non è tuttavia il puro bibliofilo, che considera il libro solo come prodotto estetico o come oggetto da collezione. Costui non va al di là del fatto esteriore — sebbene a me una persona del genere sia comunque più gradita di colui che prende il libro come puro mezzo allo scopo e che provoca così un'impressione simile a

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quella che si ha quando un uomo tratta animali al solo fine di uno studio scientifico o di "una valutazione pratica.

Quello che io voglio dire può essere espresso anche in un altro modo: l'amore per il libro è proprio di colui che se ne sta seduto alla sera nella sua stanza, mentre intorno è silenzio — presupposto, ovviamente, che intorno a lui, al fortunato, sia veramente silenzio — ed ecco che, improvvisamente, i libri presenti nella stanza diventano per lui come esseri viventi. Singolarmente viventi. Oggetti piccoli, eppure pieni di mondo. Che stanno lì senza muoversi e senza far rumore, e tuttavia pronti in ogni momento ad aprire le proprie pagine e a cominciare un dialogo: forte o tenero, pieno di gioia o di tristezza, un dialogo che racconta del passato, che rimanda al futuro o che invoca l'eternità, e tanto più inesauribile, quanto più ne sa attingere colui che ad essi si awi-

* Nell'originale: um so weniger w erschópfen, je mehr der za schópfen vermag, der w ihnen kommt: gioco di parole tea scbopfen = «attingere» e erschópfen = «esaurire» (er--scbopfen = «attingere fino in fondo») (n.d.f.).

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II

Avete mai pensato, amici miei, che meravigliosa opera della creatività umana è un libro? Con ciò non penso ancora affatto al suo contenuto spirituale: l'opera del poeta, o la rappresentazione dello storico, o l'ideologia del filosofo — intendo bensì, come ho già detto, la cosa concreta, che si può tenere in mano e che appunto si chiama «il libro».

Pensate alla carta, che è fatta di materiali che in un primo momento hanno un aspetto del tutto diverso: avanzi di tessuto, fibre vegetali e altre cose ancora. Mi è sempre sembrato incomprensibile come materiale così disparato e confuso possa diventare carta: questo oggetto compatto e puro; o piatto, tale che con piacere ci si passa sopra la mano; o granuloso, pieno di vivace irregolarità; oppure dotato di una fine ruvidezza, di una raffinatezza che fa sì che nessun particolare spicchi e dia nell'occhio. Quant'è meravigliosa la superficie di questa carta! Una chiara simmetria complessiva, una luminosa apertura, e insieme l'amichevole disponibilità ad accogliere i segni della scrit-

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tura, colmi di significato!

Oppure pensate alla scrittura. Consideratela appunto come semplice insieme di forme impresse su una superficie. Ogni lettera è anzi una piccola, armoniosa figura. Esistono però anche brutte scritture; tuttavia, basta che una scrittura non sia priva di nobiltà, perché si possa riconoscere la struttura in sé conclusa di ogni singolo segno grafico. Per noi, abituati alla lettura, il segno grafico è divenuto qualcosa di astratto, che serve affinchè ci possiamo comprendere, e nulla di più. Ma che originariamente esso era qualcosa di più, lo si intuisce dalla sua forma così espressiva: un'immagine, semplificata al massimo, che descrive un oggetto. Anzi, esso aveva un significato misterioso; era una figura magica, che evocava esseri occulti e incatenava arcane potenze. Tutto ciò traspare ancora, come dietro un velo, attraverso i segni grafici — per rendercene conto, ci basta confrontare una bella scrittura con gli uncini e i cappi artificiosi della stenografia.

Al tempo stes30 però ognuna di queste pic-

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cole figure, compiute in se stesse, tende a un sottile rapporto di integrazione con le altre;

secondo un'inclinazione ad associarsi ad esse. Sono per così dire atomi della figuratività, pronti ad unirsi in insiemi più ampi, e da questo collegamento nasce la parola. Si tratta nuovamente di una forma che, seppur apparentemente indeterminata, si percepisce — ed è una scoperta che tranquillizza — come unità. L'arte dell'incisore consiste nel dare alle lettere una forma che permetta a ciascuna di esse di unirsi con tutte le altre in quell'associazione che è la parola — naturalmente nel rispetto delle regole della lingua in questione, che anzi sono molto diverse; pensiamo per esempio agli accumuli di consonanti richiesti dalla lingua tedesca, a differenza di quelle romanze. Non solo: è essenzialmente solo in quel contesto che è la parola che la singola lettera sviluppa, come forma, la sua piena forza. In ogni nuova figura data da una nuova parola, cioè nella vicinanza a questa o a quell'altra lettera; nella compagine di una parola breve o lunga, costituita da questi o quei segni grafici, essa acquisisce valori espressivi sempre nuovi.

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A sua volta la parola si unisce ad altre parole, piccole e grandi, poche o molte, formando così la frase. Queste frasi si associano in periodi, finché finalmente si ha la pagina, la superficie stampata. E se il tipografo conosce il proprio mestiere, ecco comparire sul fondo bianco la peculiare immagine nera: fine e sottile, fissa e pure piena di vita, articolata e saldamente conchiusa.

Col che c'è comunque una certa differenza, se la pagina è composta in un solo blocco o se si divide in due colonne; se contiene solo il •testo vero e proprio o se ha anche le note a pie di pagina, e così via.

Bisogna anche pensare a quelle cose così piccine che si chiamano segni d'interpunzione:

punto, virgola, punto e virgola, due punti, punto interrogativo, lineetta. Essi devono rendere chiara la struttura della frase, che anzi non è nient'altro che la struttura del pensiero, o meglio, della sua enunciazione. Articolano così, come attraverso sottili accenti, la configurazione della frase. E ciò in maniera molteplice, in quanto su questo punto ogni lingua ha la sua sensibilità — pensiamo solo al modo in cui

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viene trattata la proposizione relativa. Forse si potrebbe dire che tanto minore è il numero dei segni d'interpunzione, quanto più chiaro è il modo in cui la grammatica della lingua in questione costruisce la frase; e tanto maggiore, quanti più elementi di non-f ormato, il che significa però anche di viva potenzialità, essa contiene.

E, nei libri ben composti, com'è bello il frontespizio! In opere antiche, diciamo del se-dicesimo o del diciassettesimo secolo, si trovano frontespizi, che ricordano la facciata di una casa costruita con nobile eleganza: chiari, sereni, conchiusi, e al tempo stesso così promettenti riguardo a ciò che, dietro a tale parete, si rivelerà all'interno del libro.

Non vanno dimenticate quelle forme che contraddistinguono l'inizio di un capitolo. La prima parola viene per esempio composta in caratteri grandi, oppure viene composta in questo modo tutta la prima riga, e così al lettore viene fatto presente che egli deve per così dire ricominciare un'altra volta, facendo in questo modo uno sforzo di attenzione e di collaborazione. Oppure la prima lettera cresce in gran-

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dezza, talora anche in ricchezza di forma, rispetto alle altre, e si ha così l'iniziale. Nelle stampe antiche, e ancor più nei loro precursori, i manoscritti, essa costituisce un'immagine assai artistica, che talora si sviluppa su tutta la pagina e a sua volta provoca forme di transizione rispetto al corpo del testo.

Non è meraviglioso tutto ciò? Naturalmente — e con questo la cerchia dei miei ascoltatori si restringe forse ancor di più — bisogna anche essere in grado di meravigliarsi. A colui che trova tutto ovvio, simili considerazioni sembreranno stupide. In realtà a costui manca la parte migliore della vita spirituale: la capacità di essere toccati da un'entità, da un processo, da una forma, e di mantenere in vita tale rapporto.

Ci sarebbe qualcos'altro da dire. Se non temessi di mettere alla prova la vostra pazienza, vi parlerei delle proprietà dei caratteri romano e gotico; e all'intemo di queste due grandi famiglie, vi parlerei a sua volta dell'individualità dei diversi caratteri tipografici in uso in Europa.

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Alcuni sono monumentali, altri eleganti o graziosi. Alcuni severi, altri fantasiosi. Alcuni tutti tesi al risparmio, altri rigogliosi, caratterizzati da uno spreco di spazio e di forma, e così via tutte le altre differenze usuali nel mondo dei caratteri grafici. In un famoso romanzo, «L'idiota» di Dostoevskij, c'è un passo molto bello, quando il principe Myskin, dovendo aspettare in un'anticamera, comincia a parlare dei diversi tipi di calligrafia e discute su come siano l'anima e il carattere di ciascuna e in che cosa consista la loro bellezza. Si potrebbe fare lo stesso con buoni caratteri tipografici. Non posso dimenticare la visita che feci, molti anni fa, a Jakob Hegner a Hellerau vicino a Dresda; aprendo i cassetti della sua officina, egli mi mostrò gli splendidi antichi campioni di stampa che aveva raccolto, e mi spiegò in che cosa consistessero la forza espressiva e la bellezza di ciascuno. È proprio vero che già in se stesso, e a prescindere dal contenuto del libro, ogni tipo di carattere porta il lettore sensibile in un'atmosfera determinata.

Si potrebbe anche discutere su che cosa si-

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gnifìca che in una stessa pagina sia mantenuto sempre lo stesso carattere o ne vengano impiegati diversi; che tutto sia composto in carattere normale oppure qua e là spicchi il corsivo; che una nota sia composta in corpo minore o nello stesso corpo del testo; che le maiuscole siano frequenti, come in tedesco, o. rare, come in italiano e in francese, o che non ci siano affatto, come in testi critici e in libri composti secondo criteri assolutamente moderni — e molte altre cose simili. Tutto ciò pertiene a quella cosa che si chiama «libro».

Poi c'è ancora la legatura come tale. Anzitutto è necessario che i fogli siano tagliati in maniera corretta, così che la parte stampata sia ben centrata all'interno della pagina. Gli spazi liberi ai margini, a destra e a sinistra, sopra e sotto, si distinguono reciprocamente secondo un criterio preciso, e tuttavia si rapportano l'uno all'altro in maniera tale che la parte stampata fluttui liberamente nello spazio, e ail tempo stesso vi sia saldamente racchiusa. Generalmente dispiace, quando, a una pagina composta bene, il legatore lascia

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troppo poco spazio in alto, così che quella vi batte contro la testa; o sotto, così che vi scivola sopra; o ai lati, così che si ha l'impressione che essa soffochi.

Ma per quel che riguarda la legatura del volume * stesso: non è, ancora una volta, una cosa degna di nota il modo in cui essa raccoglie le molte pagine in unità, così che lo si può sfogliare, avanti e indietro? Non è meraviglioso che si possa leggere lentamente o velocemente, trovare e ripetere e confrontare, mentre l'insieme come tale rimane sempre perfettamente ordinato? La struttura del libro non è forse una delle grandi forme che hanno permesso all'umanità di dominare il caos e che, una volta scoperte, rimangono costantemente valide? Nella battaglia dell'umanità contro il nemico oscuro ci sono infatti simili vittorie. Tali sono, per esempio, gli strumenti elementari, il martello o la ruota; oppure la strada e il ponte; il tetto e la porta. Una di queste forme fondamentali è anche il libro.

In questa sua proprietà, ail libro è eretto un

* Band: la parola in tedesco, affine al verbo binden, «legare», significa a un tempo «volume» e «legatura» (n.d.t.}.

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monumento in uno dei luoghi più sublimi della poesia di tutti i tempi, ossia nell'ultimo Canto della Divina Commedia. Ivi Dante racconta come gli sia stato accordato di contemplare, nella profondità dell'essere divino, l'unità dell'esistenza. C'è una quantità incalcolabile di cose, che nascono, si trasformano e trapassano. Esistono quindi nel tempo e nell'insufficienza, ma hanno la radice del loro essere e del loro senso nei modelli eterni e perfetti. Granito e cristallo di rocca, vite e rosa, rondine e capriolo — ognuna di queste cose è unita alle molte altre della loro specie nel modello secondo il quale sono formate. I diversi modelli si raccolgono a loro volta nella semplicità del pensiero del mondo da parte di Dio, pensiero che è loro fondamento e misura. Per questo rapporto di tutti i rapporti Dante utilizza la similitudine del libro:

Nel suo profondo vidi che s'interna legato con amore in un volume, dò che per l'universo si squaderna;

sustanee e accidenti e lor costume, quasi connati insieme, per tal modo che ciò ch'i' dico è un semplice lume.

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Al libro non si può certo rendere onore maggiore.

E all'immagine di Dante non si può forse aggiungere per così dire la contro-immagine della designazione ebraica per «cosa», che è uguale a quella per «parola»; così che l'esistenza appare come un discorso, e le cose come le parole di questo discorso, pronunciato dal Creatore non solo attraverso suoni, ma attraverso forme ed energie; così che dunque le singole lettere appaiono come i simboli dell'unità originaria di ciò che è ed accade? Da questa rappresentazione può derivare ogni sorta di magia e di stregoneria, come tra l'altro è anzi effettivamente successo nella cabbalistica;

ma la profondità di un'idea non è mai contraddetta dal suo abuso. E realmente non si tratta solo di profondità del pensiero divino, quando il Salmo diciottesimo dice che «i cieli 'raccontano la magnificenza di Dio»; che le Sue opere Lo annunciano e «non sono parole, ne discorsi, di cui non si oda il suono», bensì «per tutta la terra... si diffonde quello che essi dicono».

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Quando si consacra una chiesa, nello spazio principale vengono tracciate, a partire dai quattro angoli, due strisce di cenere, che si incrociano trasversalmente, e col suo pastorale il vescovo disegna le lettere dell'alfabeto latino lungo una striscia, quelle dell'alfabeto greco lungo l'altra, affinchè l'edificio, che significa appunto la creazione riportata in quel sacro da cui nacque, contenga in sé la quintessenza di tutti gli elementi presenti sulla terra... Col magnifico stile che gli è proprio, Agostino vede invece la storia come un «carraen pulcherrimum decurrens per tempera»: un canto assolutamente stupendo, che corre attraverso i tempi.

Quest'idea non fa forse sorgere nuovamente, e questa volta a partire dalla composizione tipografica, l'immagine del libro — nell'insieme ordinato dei suoi segni reciprocamente connessi — come simbolo del Tutto?

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Ili

Ora però sarete d'accordo, amici miei, che

10 pronunci una parola d'intercessione a favore dei libri, e spero che non la considererete una pedanteria. Essi hanno bisogno di tale parola, in quanto non sempre — si potrebbe quasi dire: solo di rado — sono in buone mani.

Come va dunque trattato un libro, se lo si ama? Che cosa si può pretendere dal suo possessore?

Anzitutto va tenuto pulito — un'esigenza in sé tanto ovvia e in realtà non sempre adempiuta. Che impressione deprimente fa un libro sporco! È come una persona trascurata e maltrattata da coloro che dovrebbero renderle onore.

Il minimo segno di rispetto che si debba al libro è di avere le mani pulite, quando lo si apre, e di fare attenzione che sia pulito anche

11 luogo in cui lo si vuole porre.

Chi prende in mano un libro e vede che si squinterna, e precisamente in quel punto di

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contatto tra due quinterni ove si sia rotto il dorso, magari in maniera tale che se ne sia lacerata la copertura — costui capisce subito:

chi ha fatto questo, non ama il libro. Amerà magari il contenuto del libro, ma non quell'oggetto singolare, in cui materia e spirito si uniscono in maniera così meravigliosa. Un libro può essere utilizzato per anni, e la sua legatura tuttavia non rompersi, così che le pagine si possono sfogliare comodamente, ma nella struttura che le lega costituiscono una salda unità.

Inoltre non bisogna spianare le pagine con l'unghia o col taglio della mano, altrimenti si formerebbe una piega. In questo modo si rovinerebbe immediatamente il margine. La pagina perderebbe poi la propria elasticità e la capacità di stendersi con eleganza. Le accadrebbe come alla sua sorella nel regno della natura, la foglia della pianta, quando viene piegata e in questo modo le si toglie la felice flessibilità che le è propria.

A meno che non sia veramente necessario — sia per scopi scientifici sia per altri seri motivi —, non si deve nemmeno scrivere sul-

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le pagine di un libro. Per questo ci sono pagine apposite.

Il libro parla, e, se esso è buono, ciò che dice è il frutto di riflessione e di lungo lavoro;

perciò non bisogna opporgli senz'altro le proprie personali osservazioni. Infatti il libro non può in alcun modo difendersi, quando improvvisamente, per una qualche ispirazione o impulso estemporanei, si scrive un'osservazione sul suo margine. Ciò non produce forse, già esteriormente, la stessa impressione che farebbe un urlo che interrompa un discorso bene ordinato? E, se le si rilegge in seguito, tali osservazioni in margine non fanno per lo più un effetto penoso? Non si pensa forse: Come ho potuto scrivere qualcosa di così sconsiderato, o pedante, o presuntuoso; e non lo si cancella forse dalla pagina?

Si potrebbe toccare un altro argomento, che costituisce un motivo di autentici conflitti per colui che ama i propri libri, ossia il prestito.

Che cosa potrebbe essere più ovvio del fatto che colui che possiede un libro lo presti a qualcun altro che vorrebbe leggerlo? Poiché

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quest'ultimo ne ha bisogno, ma non ne può disporre; poiché quella lettura gli farebbe bene; poiché è bello creare un contatto umano nella forma di conoscenza o nella gioia che scaturisce dalla lettura di un medesimo libro. Ma in questo modo quali esperienze non si fanno! Quanto tempo passa, prima che il 'libro dato in prestito torni al suo proprietario, e in che stato esso ritorna, se spesso lo si vorrebbe addirittura gettare via? Subisce tutti quelli che abbiamo chiamati i torti che si possono fare a un libro. E sporco; la legatura si è rotta; le pagine hanno delle pieghe; ha le orecchie; in margine ci sono dei segni, se non addirittura delle osservazioni. E il comportamento di colui che ha preso in prestito è così disinvolto che si ha l'impressione che egli non abbia avuto affatto coscienza di avere in mano libri appartenenti ad altri... Prima si poteva comperare un nuovo esemplare — ma se oggi non si ha più tale possibilità? Per non parlare dell'insostituibilità di molti libri nel nostro tempo.

È qui pressoché impossibile trovare un modo che faccia giustizia sia al dovere nei con-

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fronti dell'altrui vita spirituale sia alla preoccupazione per i propri amati libri. Conosco persone che affrontano il conflitto con una decisione radicale nell'un senso o nell'altro, senza però con ciò risolverlo. Il conflitto così rimane, e ognuno deve trovare il compromesso corrispondente alla propria situazione.

Ci sarebbero da dire altre cose di questo genere: per esempio, che bisogna tenere i libri al riparo dal sole, affinchè il dorso non sbiadisca... spolverarli ogni tanto, affinchè la polvere non penetri nel taglio... rivoltare di tanto in tanto i volumi pesanti, affinchè il peso delle pagine non tiri unilateralmente verso il basso la rilegatura, e simili.

Basti tuttavia quanto è stato detto. Altrimenti pensereste forse che non sia poi del tutto errata la vecchia opinione, che accomuna libri e pedanteria, e ciò mi dispiacerebbe. Amore e pedanteria sono infatti due cose differenti.

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IV

Torniamo ora all'essenziale — e precisamente col riflettere sul rapporto tra il libro e il mistero della parola.

Che cos'è infatti una parola? Si suole dire che essa sia «spirituale», e con dò si pensa di renderle un onore. In realtà, in questo modo la si volatilizza, in quanto essa è umana, è intima unità di spirito e corpo. È un insieme di toni e di suoni, articolato attraverso la loro diversità, il grado della loro forza e il ritmo del loro movimento. In questo insieme l'uomo introduce quello che vive nascosto nel suo spirito e nei suo cuore. Io penso a qualcosa, e nessuno ne sa nulla. Poi però formo una parola, fatta di suoni, e vi introduco il mio pensiero, o meglio, la parola nasce nella misura in cui il pensiero prende forma sonora, e nella sonorità della parola il mio intimo si apre. Si apre nello spazio che è tra me, il parlante, e l'altro, l'ascoltatore.

Con ciò non s'intende lo spazio puramente fisico, bensì quello umano; esso stesso corpo-reo-spirituale, costituito dalla distanza, este-

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riormente misurabile, e dal rapporto personale tra il nostro io e il nostro tu. Il primo elemento c'è sempre; il secondo invece sorge attraverso il reciproco interessamento nella forma di attenzione, volontà di verità, riverenza, amore, e dura quanto quello. In questo spazio si trova la parola, e finché essa risuona, vi è aperto il mio pensiero. Presto quel suono si spegne; subentra il silenzio, e il pensiero è nuovamente nascosto; ma ora non più solo in me, in quanto l'altro l'ha udito e lo porta nel proprio spirito. Quindi questi risponde — co-m'è bella quest'espressione: ant-wortet *, forma la contro-parola —, e il misterioso processo si compie nel ritorno da lui a me. A mia volta, parlo nuovamente, ora come nuova risposta, e così il pensiero si sviluppa. Nello scambio tra persona e persona si compiono comunicazione e contro-comunicazione, si esprimono accordo e contraddizione, e il senso di

'-" Abbiamo lasciato qui l'originale tedesco, in luogo dell'italiano «risponde», con cui non sarebbe stato possibile procedere a un'identica divisione etimologica: entro il verbo antworten, «rispondere», Guardini distingue mediante trattino una radice Wort, «parola», e un prefisso ant, «contro» (n.d.t.}.

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ciò che è inteso diviene tra di noi di volta in volta più chiaro: si compiono verità e comunione nella verità.

Tutto ciò è già, di per sé, la parola. Ma dobbiamo dire più precisamente: la frase. Per prima cosa infatti non vengono parole, che possano quindi essere ordinate in unità superiori; credere questo sarebbe meccanicismo. Per prima cosa vengono bensì enunciazioni, atti di conoscenza, cioè: frasi. La parola è un elemento dell'atto di conoscenza; e tale è, a priori, la sua funzione nella frase, essa è essenzialmente un membro della frase... Tuttavia non vogliamo perderci nella filosofia del discorso. Siano frasi o parole, in ogni caso esse risuonano, per spegnersi immediatamente.

Ed ecco che all'uomo è riuscito qualcosa di meraviglioso — ancora una volta una delle forme originarie, grazie alle quali egli vince il caos. Questa volta quel caos che si chiama «dimenticanza»; egli è in grado di fissare in segni permanenti la parola il cui suono muore. Già nella forma sonora della parola lo spirito aveva trovato il proprio corpo. Tuttavia il suono era solo temporaneo, e così era tempora-

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neo anche questo corpo. Ora l'uomo gli trova per così dire un secondo corpo, che non appartiene più al mondo dell'orecchio, bensì a quello dell'occhio. Ogni suono si trasforma in una figura visibile, in un segno grafico; la parola parlata si trasforma in parola stampata, e il discorso ha luogo ora sulle pagine del libro.

Il libro è dunque un discorso che permane anche dopo che è stato pronunciato: grazie ai segni, che hanno la proprietà della durata, il lettore può far sì che la parola venga continuamente ripetuta. Naturalmente, in questo modo diviene chiaro anche che cosa propriamente la lettura dovrebbe essere: appunto un risvegliare l'originario discorso parlato. Quando un uomo dell'antichità prendeva in mano un libro — o meglio, un rotolo di scrittura; il libro aveva per lui una figura diversa che per noi —, non leggeva solo con gli occhi, bensì pronunciava le parole a mezza voce. In questo modo aveva la garanzia che venisse ogni volta evidenziata l'intera forma della parola e della frase. Egli parlava e ascoltava al tempo stesso, e ascoltando controllava la propria lettura. Noi uomini d'oggi

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leggiamo tacendo, e con ciò esiste il pericolo che non cogliamo fino in fondo il senso delle parole. L'occhio scivola da un segno all'altro, l'intelletto si rivolge immediatamente ai loro significati; cade l'elemento corporeo. È qui un obiettivo dell'imparare a leggere, soprattutto quando si tratta di libri in cui è essenziale la sonorità della parola; quando si tratta di linguaggio stilisticamente elaborato, sia prosa o poesia. Quando vengono lette, cose di questo genere andrebbero riportate ogni volta al discorso parlato. Il guadagno sarebbe grande.

Ma non è forse ancora una volta meraviglioso di che cosa sia capace il libro? Questa possibilità, sempre aperta, che la parola un tempo parlata torni nuovamente in vita?

Si obietterà comunque che esistono due diversi modi di scrivere, e quindi pure due diversi tipi di libro; e questo è vero.

Q sono i libri autenticamente parlati. Spesso sono semplicemente nati da un discorso; vere e proprie conferenze o conversazioni messe per iscritto, che sono poi state rielaborate. O per lo meno lo scrittore, mentre scriveva, ha

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parlato interiormente a qualcuno: a uomini determinati, che egli sentiva come destinatari della sua parola, ma anche a un pubblico indeterminato di ascoltatori, «ai giovani», o «agli spi-ti in ricerca», o a persone che si occupavano degli stessi argomenti dell'autore. Simili libri si riconoscono subito: dàlia loro inflessione, dalla struttura delle loro frasi, dal modo in cui si sviluppano i pensieri. In essi carta e scrittura sono solo dei surrogati: divengono veramente vivi solo quando vengono letti ad alta voce.

Altri invece sono «scritti» in un senso particolare. Le loro frasi hanno un rapporto essenziale col foglio e con la penna. Per essi la lingua è un materiale che modella e con cui si costruisce. Ciò che è scritto si trova nello stesso spazio in cui si trova un'opera d'arte, in attesa che ivi lo si visiti. Anche questo tipo di libro è buono. In questo modo sono forse sorti addirittura gli scritti maggiori; quelli che sono autenticamente «opere». Intorno ad essi, la solitudine sembra regnare e circondare lo scrittore insieme con la sua opera. Ma ciò nonostante anche queste opere sono parlate, solo che lo sono in un altro modo e a un altro a-

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scoltatore. Chi parla qui, parla a se stesso; all'esistenza; o, in un senso estremo, a Dio. È sempre comunque discorso, e autentica lettura significa renderlo sonoro; solamente che il suono è un altro.

Da quanto è stato detto risulta chiara un'altra relazione del libro: quella con la memoria;

con quella misteriosa capacità, propria dell'uomo, di risollevare dal passato al presente quanto è successo precedentemente, e pur tuttavia — e questo è essenziale, poiché altrimenti il ricordo perderebbe la propria dimensione spazio-temporale e si trasformerebbe in follia — senza dimenticare che è passato. Anzi, propriamente Passolutamente caduco non esiste. Ogni avvenimento prosegue negli effetti che ha provocato; ogni mutamento di uno stato prosegue nei nuovi stati da esso suscitati. Il mondo stesso è dunque, per così dire, la grande memoria, nella quale tutto ciò che è stato esiste ancora. Ma si tratta di una memoria che non conosce se stessa; è la forza conservativa dell'essere. Solo nell'uomo si rivela l'autentica memoria, quella della coscienza. Le immagmi di ciò

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che mi è successo, di ciò che ha avuto luogo intorno a me, rimangono in me e si ordinano entro la mia vita intcriore, così che ivi se ne raccoglie una quantità incalcolabile. Conservati nella loro forma più perfetta: non accumulati caoticamente, bensì ordinati in maniera vitale;

sempre conchiusi e mai assolutamente chiusi;

non in movimento e pure afferrabili in ogni istante. Nel decimo libro delle sue Confessioni, Agostino ha scritto su questo argomento qualcosa di imperituro. Percepiamo la sua commozione, quando dice: «Grande è il potere della memoria, un qualcosa che fa rabbrividire, non so di quale genere, o mio Dio, una molteplicità profonda e infinita. E questo è lo spirito, e questo sono io stesso. Che cosa sono io allora, mio Dio? Che tipo di essere? Una vita complessa, dalle forme molteplici e così assolutamente incommensurabile. Vedi, nei campi e negli antri e sotto le volte della mia memoria, innumerevoli e pieni in quantità innumerevole di innumerevoli generi di cose; disponibili attraverso immagini, come tutti quanti i corpi, o attraverso presenza immediata, come le entità spirituali, o attraverso non so quali concetti

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e denominazioni, come gli affetti dello spirito... Attraverso tutto ciò io accorro, e volo qua e là; mi spingo pure, per quanto posso, nel profondo, e una fine non c'è mai. Tanto grande è il potere della memoria, tanto grande è il potere della vita nell'uomo, che è mortale» (17,26).

Ora, nel contesto di quello che si chiama «memoria» si inserisce anche il libro. Ciò che è scritto è per così dire memoria oggettiva. È a mia disposizione, e posso servirmene in ogni istante. Allora comincia a parlare, e ciò che fu un tempo, diviene presente... Del resto non dobbiamo nascondere che la scrittura è anche distruggitrice della memoria. Prima che storia, saggezza e poesia fossero scritte e lette, esse venivano trasmesse, attraverso una viva tradizione, di generazione in generazione. La ricerca ha riconosciuto quanto fosse affidabile tale tradizione. Chi ha avuto occasione di constata-tare quanto ampia fosse la memoria di analfabeti dotati di talento, sa che anche quel progresso, costituito dalla possibilità di scrivere e di •leggere, dovette essere pagato con una perdita.

Se tutto ciò è così — ed sarebbe ancora molto da dire, in quanto l'argomento è inesau-

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ribile —, allora il libro non è forse veramente quintessenza e simbolo della vita umana?

Si capisce assai bene la riverenza che epoche antiche nutrivano nei confronti delle cose scritte. Si trattava di qualcosa non solo di utile e prezioso, ma di misterioso e che incuteva un devoto rispetto. La parola scritta poteva costituire senz'altro una formula di potere, nel senso dello scongiuro, della protezione o della maledizione. Un'eco di questo sentimento, liberato di ogni torbidezza, si ode ancora, allorché consideriamo la riverenza che Francesco d'Assisi nutriva nei confronti della parola scritta, Lui, che aveva rigettato da sé ogni cosa, per essere completamente libero; che, temendo l'avidità di possesso, non aveva permesso ai suoi di avere alcun libro, sollevava tuttavia da terra, ovunque trovasse qualcosa di scritto, anche il più piccolo foglietto, e lo onorava.

Allo stesso modo aveva anche lui l'abitudine di'interrogare il Libro sacro, abitudine coltivata ancor oggi in qualche luogo. La «Leggenda dei tré compagni» racconta: «Dopo che essi ebbero pregato, il beato Francesco prese il libro chiuso (i Vangeli) e, inginocchiandosi da-

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vanti all'altare, lo aprì. Si imbattè subito in quel consiglio del Signore: 'Se vuoi essere perfetto, va' e vendi ogni cosa e da ai poveri, e a-vrai un tesoro nel cielo'». Non diciamo troppo presto che si tratta di superstizione. Uno stesso atteggiamento ha diversi significati nella vita di persone diverse. Ciò che Francesco fece, è connesso al suo rapporto col Dio presente così come col testo della Sacra Scrittura. Si sentiva guidato in ogni momento dalla volontà divina ed era pronto a obbedire immediatamente;

ma la parola della Scrittura era per lui parola immediatamente rivolta da Dio al suo servitore.

V

E ora i nostri pensieri dovrebbero fare un altro passo: dovremmo chiederci che cosa significhi il libro nel contesto della vita umana. Devo dire subito che non ne abbiamo la possibilità, poiché finiremmo per essere coinvolti

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.nella ricchezza e nella complessità della storia. Solo alcuni cenni concluderanno le nostre considerazioni.

Bisognerebbe parlare per esempio di quel libro in cui si racconta la storia di un popolo. E non intendo questo racconto solo come ricordo 'di un singolo, o come opera della ricerca storica, ma in un senso che fa esso stesso la storia, che ha in sé qualcosa che fonda, forma e conserva. Pensiamo per esempio alla scena che incontriamo nell'Antico Testamento, nel libro di E-ster: «Dato che la notte seguente il rè non potè dormire, si fece portare il libro delle memorie, la cronica del regno; da questo libro si lesse ad alta voce davanti a lui. Vi si trovò scritto» che Mardocheo, padre adottivo di Ester, aveva salvato la vita al rè, ma che per questo non aveva ricevuto alcuna ricompensa, e da 'quel momento muta la storia sua e di tutto il suo popolo (6,1 ss.). Qui il libro conserva dunque la memoria di ciò che, secondo il narratore, è significativo per la vita del regno. Per i posteri, per il sovrano come per il popolo, esso diviene una fonte di saggezza e di guida al ret-to comportamento.

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Oppure pensiamo a quel libro che raccoglie

l'ordinamento legale vigente, il codice. Non significa solo la raccolta delle leggi in vigore, bensì rappresenta l'ordine stesso.

Sopra di esso si trova — provocando una certa ripercussione ancora sul nostro tempo di realismo scettico — un po' di quel potere di domare il caos delle passioni umane, proprio della legge che i fondatori dello Stato avevano ricevuto dalla saggezza divina.

Pensiamo anche al significato di quei libri che contengono i classici. Per la cultura occidentale essi hanno un senso particolare — senso che, con un accento diverso, ma forse ancora più forte, si trova anche nella cultura cinese. Non rappresentano semplicemente dei testi scritti bene, bensì sono nati con un particolare favore della storia.

Non pochi elementi devono concorrere, affinchè sorga il fenomeno della classicità. Quanto viene detto deve essere forte nel contenuto e chiaro nella forma. Deve trovarsi a un alto livello di cultura personale e oggettiva — d'altra parte non deve eccedere ancora in raffina-

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tezza, ma ricevere dalla semplicità di quei tempi un soffio di freschezza, un che di non consunto e di originariamente essenziale. Ultima cosa da non dimenticare: il modo in cui queste opere nascono non è ancora diventato, a causa della scrittura, qualcosa di scontato. C'è in tutto ciò ancora una certa misura di eccezione e di rarità, di vocazione e di grazia, così che l'opera può spiccare e ha tempo per radicarsi come modello nella coscienza della comunità. Per questo motivo i classici hanno un che di intangibile e di normativo. In maniera sempre nuova penetrano nella vita delle generazioni successive e determinano la loro formazione spirituale. Un volume che contenga l'Odissea o la Divina Commedia, il Fedone di Fiatone o il Tao-te-king, ha un valore esemplare nella sua concreta corporeità: seme e monumento, nutrimento e giudizio al tempo stesso.

Poi ci sono quei libri che vengono utilizzati nel culto e che contengono le prescrizioni per un comportamento ispirato alla santità, le agende, i testi per le formule sacre, la lettura e la preghiera. Quando un libro del genere viene sollevato con gesto solenne, posto sull'altare o sul

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leggio, si percepisce con grande intensità l'unità di figura tangibile e contenuto spirituale, di intendimento concreto e stimolo omnicompren-sivo, di ciò che è divenuto storia e ciò che è permanentemente valido.

Finché non arriviamo finalmente al «libro» per eccellenza, la Bibbia. Essa è la raccolta delle Scritture sacre, «bibita»; è il disegno dal quale, in maniera sempre nuova, la rivelazione parla all'uomo come parola di Dio. Parla a ogni uomo, poiché, anche se è stata scritta in epoche determinate, essa viene tuttavia dall'eternità e perciò è sempre contemporanea.

Riguardo al significato che questo libro può avere nella vita dell'uomo; non solo nei suoi singoli contenuti, bensì come insieme, come canone delle parole sacre; come volume che si tiene in casa e si porta con sé, che si prende in mano e si apre — o meglio, che si ha presso di sé, corporeamente presente e misteriosamente elevato al tempo stesso; che parla, con la propria ininterrotta presenza, alla vita dell'uomo, se questa è disposta ad accogliere le sue parole — riguardo a ciò ci sarebbe molto da dire. Vorrei

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solamente raccontare un avvenimento di cui a suo tempo ho fatto esperienza. In una delle grandi battaglie dell'ultima guerra, un reparto si trovava in una situazione disperata. Il cappellano militare era presente e, sentendo che non aveva da dire nulla di accettabile in quell'ora, tolse di tasca il proprio Nuovo Testamento, ne strappò le pagine e ne diede una a ogni uomo.

Il libro sta davanti a noi come una figura originaria. In esso si riassume l'esistenza.

La sua fecondità, ma anche i suoi pericoli. Infatti, se da una parte il libro ci può gratificare, consolare e dare coraggio — con quanta profondità esso può anche inquietare, ingannare e distruggere! Ma su questo punto non vogliamo soffermarci, poiché la nostra intenzione era appunto quella di pronunciare l'elogio del ' libro, e non di metterlo sotto accusa *.

* Questo discorso fu pronunciato dall'Autore neB'aano 1948 come conferenza al Leibniz-Kolleg dell'Università di Tubìnga.

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