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OPERE DI ROMANO GUARDINI

EDIZIONE ITALIANA A CURA DEL « CENTRO DI STUDI FILOSOFICI DI GALLARATE »

ROMANO GUARDINI

IL MONDO RELIGIOSO DI DOSTOJEVSKIJ

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera:

Religiose Gestalien in Dostojewskijs 'W'frk (E) by Kosel Verlag - Mùnchen

Traduzione di maria luisa Rossi

© by Morcelliana - Brescia, 1951-1968 Tipografia editoriale « Aldo Manuzio » - S. Martino B.A. (VE.)

PREMESSA

L'ELEMENTO RELIGIOSO NEL MONDO DI DOSTOJEVSKIJ

I sette capitoli di questo libro trattano dell'esistenza religiosa e dei suoi problemi come essi ci appaiono nei grandi romanzi di Dostojevski): Delitto e Castigo, L'Idiota, I Demoni, L'Adolescente e I Fratelli Ka-ramàzov. Vorrei farli precedere da una breve premessa.

Chi si dispone a parlare degli aspetti religiosi dell'opera di Dostojevski) si accorge presto che l'argomento comprende tutto intiero il mondo di questo scrittore. Non vi è infatti nessuna figura di un certo rilievo, nessun avvenimento di una certa importanza per la vicenda narrata che. non siano, immediatamente o mediatamente, pieni di significato religioso. In ultima analisi i personaggi di Dostoevski) sono determinati da motivi e da potenze religiose; le loro decisioni più profonde vengono di là. Ma c'è di più: il suo mondo in quanto tale, il sistema delle sue realtà e dei suoi valori e tutta la sua atmosfera sono in fondo di natura religiosa... Cosa significhi voler abbracciare questo mondo mi fu chiaro quando nell'estate del 1930 invano tentai di esaurire in due lezioni un argomento così vasto. Il mondo dei cinque grandi romanzi, tanto più se si citano sia pur oc-sionalmente le opere minori, è di una vastità che opprime. figure, destini, sìmboli appaiono e scompaiono

ai nostri occhi... E se anche dopo qualche tempo ci si accorge del continuo ricorrere di determinati motivi nella figurazione dei personaggi e nel giucco dei rapporti e delle situazioni e delle stesse idee fondamentali nell'interpretazione del mondo e dell'esistenza umana, nell'opera di questo scrittore, paragonabile a una selva rigogliosa che si estende a perdita d'occhio, questi elementi coordinatori non hanno che il valore di semplici punti di riferimento.

Vorrei dunque spiegare come ho cercato di orien-tarmi in questo mondo; forse così risulterà più chiaro il nesso che lega i singoli capitoli di questo libro.

Occorreva anzi tutto domandarsi quale idea si facesse Dostojevskij dell'uomo. Qui apparve subito chiaro che i nostri concetti psicologici abituali: intelletto, intuizione, fantasia, volontà, azione, creazione, sentimento e passione vanno usati in un senso molto più elastico e generale perché qui queste facoltà non esistono allo stato puro ma in ciascuna ài esse sono date insieme anche le altre. La soluzione del nostro problema riusciva così più facile se l'osservazione non si rivolgeva agli atti individuali dell'uomo ma ai diversi piani del suo essere totale: la vita sensibile e intellettuale, il cuore e l'anima, il sogno e il simbolo, lo spirito e lo "pneuma".

Interessanti rivelazioni porto poi. il quesito come fosse costruita la persona nei romanzi di Dostojevskij, tanto più alla luce del confronto con la struttura a noi ben nota della persona addentale. Quali sono i rapporti tra persona e persona e i legami che uniscono il singolo alle comunità, alla società. Si viene a constatare con stupore che il sistema di questi rapporti è estremamente largo, complesso, instabile ed elastico

a un tempo, il che permette di penetrare più intimamente nella compagine interna dei romanzi e di rendersi conto dei problemi che riguardano la struttura e la vulnerabilità della persona in genere.

S'inseriva qui la questione dei diversi domini della vita e della cultura e del loro reciproco rapporto; risultò tra l'altro che nel mondo di Dostojevskij i veri elementi di difesa e di sostegno dell'esistenza quotidiana, a cominciare dal lavoro, sembrano ignorati. Cosi questi uomini appaiono in modo particolare esposti al destino e alle potenze religiose.

Si trattava ancora di mettere in luce le realtà fondamentali di cui si compone l'esistenza e dunque domandarsi che cosa significhino nel mondo di Dostojevskij la natura, l'universo, la terra, il sole, gli alberi, e le piante, la campagna, gli animali. Che cos'è per lui il popolo? Che cosa sono la madre, il bambino, il ragazzo e la fanciulla? Come vede Dostojevskij l'adulto e il vecchio? Conosce la personalità matura e com'è costruita? Che significato hanno il dolore e il male e le loro forme diverse: la malattia, la povertà, la ubriachezza, la psicopatia, il declassamelo sociale, la demenza, la pazzia? Che cos'è il male, ovvero che cosa sono il peccato, il delitto, la corruzione, la bassezza, la viltà, fino al male come potenza, fino al satanico? E non bisogna trascurare anche certi stati di allucinazione e di confusione.

Di qui l'indagine si volgeva ai più semplici e nello stesso tempo più significativi fenomeni dell'esistenza:

la vita, l'essere, il tempo, l'eternità; a quelli del limitare dell'esistenza: la morte, la fugacità, il nulla; agli stati di crisi: noia, stanchezza, disgusto, angoscia, disperazione, apatia, smarrimento...

Infine era la volta dei valori che trovano riconosci-

mento nel mondo di Dostojevskij, a cominciare dai più nobili: l'onore, la distinzione, la sincerità, l'innocenza e la libertà, l'amore, l'umiltà e la gioia, a cui fanno corona la luce, il bene, la bellezza, l'unità, la tranquillità.

A questo punto veniva a porsi la vera questione dell'elemento religioso. Essa conduceva al tentativo di una fenomenologia degli atti e delle forme religiose di esistenza, esemplificata nel tessuto complessivo dell'« esistere dipendente » (rùckverbundenen Dase-ins).

Bastava approfondire un poco l'indagine per accorgersi che tutti i diversi aspetti di questo mondo erano saturi di valore religioso, quanto maggiore era la loro vicinanza alle realtà elementari. Così il sole, la terra, l'albero, l'animale; forme di esistenza come la gioia, la malattia, il dolore; concetti come la vita e l'essere e persino fenomeni del limite come la morte, la fugacità, il nulla, si rivelavano, appena raggiunto un determinato punto, di natura essenzialmente religiosa.

La sovrabbondanza delle figure, l'affollarsi dei problemi finivano per stancare e confondere lo sguardo. Sentii la necessità di un filo conduttore che desse ordine e unità a un argomento così vasto e mi parve di trovarlo nel rapporto in cui i personaggi di Dosto-jevskij si trovano con la terra, col popolo e con le potenze fondamentali dell'esistenza.

Ho preso le mosse da alcune figure silenziose la cui esistenza si assorbe tutta entro quel rapporto, per passare poi a quelle in cui esso diventa cosciente, si differenzia e, in certune, si esaspera, e giungere infine ai personaggi in cui la coscienza di questo legame si fa "cultura" senza perdere però nulla della propria sostanza. Seguono questa via i primi quattro capitoli del libro che partono dal popolo e da alcune sue figure ca-

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ratteristiche per condurre alle due Sònje, agli homi-nes religiosi e, •finalmente, ai Aljòsa Karamàzov..

Alla stessa linea sono però riferite anche quelle figure in cui quel rapporto fondamentale appare compromesso o allentato, deformato o sovvertito e alcuni suoi aspetti particolari spinti all'estremo o dottrinariamente iperbolizzati. Già nel primo capitolo vedremo ciò che diciamo "popolo" e "natura" trasformarsi, per via di esagerazioni e di deformazioni, in qualcosa di patologico e di pagano. Il quinto capitolo studia la rivolta a Dio e alla legge morale e insieme il fenomeno del demonismo come essi appaiono nella figura di Ivàn Karamàzov e nella "Leggenda del Grande Inquisitore". Il sesto cerca di spiegare attraverso due personaggi dei Demoni in cosa consista, secondo Dosfojevskif, l'ateismo. in Kirìllov esso ci appare come negazione aggressiva congiunta alla volontà di affermarsi come superuomo; in Stavròghin è atteggiamento negativo, accompagnato dal fenomeno del vuoto intcriore. Nelle figure di questi due capitoli affiorano anche alcuni aspetti del problema religioso del nostro tempo che la nostra indagine, spero, contribuirà a mettere in luce per qualche aspetto.

Restavano escluse da questo schema, sema però essergii del tutto estranee, due figure, due personaggi dell'Idiota., la cui vera realtà è da ricercarsi altrove:

sono esse Nasfàsja Filippovna che per essenza si trova sotto la categoria della perfezione, e accanto a lei, nello stesso romanzo, il principe Myskin, la cui essenza è determinata dal suo singolare rapporto con la persona del Cristo. Di essi si occupa l'ultimo capitolo.

Questa ricapitolazione era necessaria per non fare apparire irragionevole l'aver tenuto nei limiti di questo

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libro questo saggio sull'esistenza religiosa in. Dostojevskij. Essa voleva dare V assicurazione che questi fochi capitoli si appoggiano su un sistema di coordinate sufficientemente esteso.

Quanto al metodo dell'indagine, è stata mia cura di lasciare il più che fosse possibile la parola a Dosto-jevskij, citando dai suoi testi tutto ciò che potesse dar risalto alla voce e ai gesti dei personaggi e chiarire l'intreccio e il seguito degli avvenimenti. Le citazioni si sono fatte di conseguenza numerose e in parte lunghe. Ma non c'era altra via; la mia modesta esperienza non permettendomi di sperare che il lettore intervenisse nel lavoro di interpretazione col testo alla mano su una semplice indicazione di pagina.

Se mi sono tenuto possibilmente vicino al testo, attingendovi tutto quanto mi potesse esser utile, non ho esitato d'altra parte a rinunciare, salvo mi occorresse a titolo di informazione, a tutta l'abbondante letteratura su Dostojevskij. Di ciò che è stato scritto su Do-stojevskij — e senza dubbio si tratta in parte di lavori molto importanti — ho letto molto poco e anche da questo poco mi sono mantenuto indipendente. Dove me ne sono giovato l'ho detto. Poiché mi sentivo in contatto sufficientemente intimo con l'opera di questo scrittore, mi è parso di avere il diritto di tale autonomia. Non avendo d'altra parte la pretesa d'aver esaurito l'argomento non ho sentito neppure il dovere di discutere i punti di vista degli -altri critici di Dostojevskij.

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CAPITOLO PRIMO

IL POPOLO E LA SUA ASCESA VERSO IL SACRO

II popolo

"Popolo" è la parola che per Dostojevskij significa il compendio di ciò che nell'uomo è genuino, profondo, sostanziale. Il popolo è sfera dell'umanità schietta e primitiva, profondamente radicata nelle sue tradizioni, vigorosa ed augusta. Ma è popolo anche l'uomo indifeso, perseguitato dal destino, sfruttato dagli abili e dai furbi, oppresso dai prepotenti. Proprio per questa ragione esso è però, più di tutte le forme dell'umano, vicino alle cose eterne, cinto dalla protezione dell'amore divino. La parola "popolo" ha in Dostojevskij, come in tutti i grandi romantici, un suono solenne e nostalgico che commuove e conforta.

Il popolo vive in intima unione con gli elementi primordiali dell'esistenza. È cresciuto con la terra, sulla terra cammina, lavora, da essa trae le sue possibilità di vita. Inserito nel grande ordine della natura, nel ritmo alterno della luce e della vegetazione, sente, forse senza saperlo esprimere, la vivente unità dell'universo.

Per quanto miserabile e peccatore, il popolo rappresenta l'umanità autentica ed è sano e forte nonostante il suo avvilimento perché è inserito nella stessa strut-

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tura fondamentale dell'esistenza, mentre l'uomo colto, 1'" occidentalista", che ha voluto emanciparsi, ha perso ogni naturale appoggio, e vive in un clima artificioso e malato.

L'uomo del popolo vive invece nel gran circolo del sangue, e come parte di una famiglia, di un gruppo, dell'umanità, è percorso dalla corrente della vita collettiva. Egli è preso dal complesso degli avvenimenti nei quali si compie il destino e non ha alcuna possibilità di sottrarvisi, ma non sente, del resto, il bisogno di farlo. Così la sua vita è tutta colmata dalle realtà fondamentali dell'esistenza, dalle cose di tutti i giorni, da gioie e dolori semplici ma ricchi di ciò che è essenziale.

Il popolo è ancora l'uomo immediato, in cui l'unità non si è spezzata. Non riflette; accetta l'esistenza come gli è data. Non pensa e non sente in modo astratto, ma per immagini e avvenimenti. Non segue una dottrina, parte dalla situazione concreta, lo hic et nunc. In lui l'istinto è ancora infallibile, perciò sa orientarsi e distinguere. Le forze dell'intuizione sono ancora intatte. Conosce il linguaggio simbolico delle cose e in forma di visione può essergli ancora rivelato il senso dell'universo. È saggio e veggente; gli sono maestre le tacite potenze creative.

Così il popolo, e l'uomo del popolo, vive l'integra realtà dell'esistenza. Questo però fa sì ch'egli le sia completamente abbandonato e ne debba sopportare tutto il peso. Tuttavia egli non si domanda se questo peso sia giusto. La vita c'è, con tutta la sua gravezza, e l'uomo semplice non conosce ancora i vari modi, le tecniche per sottrarvisi. La sopporta semplicemente ed in questo è grande.

Il popolo è abbandonato, tribolato, oppresso. Sarà

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anche astuto, ma non cesserà per questo di essere prigioniero della vita. C'è anche molto male nel popolo:

accanto ad un'allegria infantile e ad una bontà delicatissima, ci sono passioni che si scatenano fulminee e possono crescere sino ad un insensato furore. Cattiveria e violenza imprevedibile, furore bestiale, crudeltà spieiata, ubriachezza, insensibilità, corruzione, tutte le potenze del male operano in lui e tuttavia, anzi persino in questo, il popolo è "buono come un fanciullo".

In fondo Dostojevskij, come tutti i romantici, ne fa un essere mitico. Il popolo di cui egli parla sono gli uomini che vediamo tutti i giorni, ma dietro ad essi si entra, in un'altra sfera, in un ambito originario ed essenziale e gli uomini reali sono "popolo" nella misura in cui si rivelano la presenza di questa altra sfera.

Questo popolo è vicino a Dio.

Come abbiamo accennato nell'introduzione, nel mondo di Dostoevskij i fenomeni elementari della vita acquistano un senso religioso; così, ad esempio, la terra e il sole, gli animali e le piante, la maternità, l'infanzia, il dolore e la morte. Essi sono, anzi, saturi di valore religioso. Oltre a significare quello che sono, significano anche "un'altra cosa". Sono vie per cui il creato s'immerge in questo "altro", s'avvicina a Dio... Il popolo deve essere perciò singolarmente aperto e ricettivo al senso della vicinanza del divino. Dio gli è vicino, perché esso è aperto a queste realtà elementari, perché vive l'esistenza nella sua integrità e ad essa si abbandona nello stesso tempo totalmente.

In altre parole più precise: per questo modo di sentire, Dio non ha staccato da sé il mondo, sua creatura. In Occidente il sentimento religioso sembra dominato

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dalla credenza che Dio, dopo aver creato il mondo e averlo compiuto in ogni sua parte, l'abbia posto nella solitudine delle cose concluse e perfette, sicché il rapporto religioso si è come stabilito a distanza. Creati per così dire nel distacco, l'uomo e il mondo sembrano trovarsi nel finito soli e tendere a Dio di là dalla distanza che da Lui li separa. Anche se Dio viene concepito come immanente al mondo — e anzi ad onta di tutte le correnti monistiche — questa immanenza sembra tuttavia sentita come se da lontano Dio si riaccostasse alla sua opera — che Egli avrebbe ontologicamente distaccata da sé — per penetrarla e colmarla di sé. Il mondo di Dostojevskrj, invece, non si sente posto dal Creatore nel distacco delle opere compiute, non pare affatto sentirsi autonomo ma riposare, invece, con particolare immediatezza, nella mano di Dio. Questo mondo ci appare continuamente in divenire, tutto vi è fluido, e Dio sembra operarvi una misteriosa vicenda che l'uomo, se è unito a Lui nella fede, sempre in qualche modo avverte1.

Il popolo, però, che non ha ancora abbandonato la semplicità della condizione umana primitiva e, legato alla terra, di essa si nutre e ad essa insieme si affida totalmente, sente di essere al centro di questo campo di forze dell'azione divina, sente questa dappertutto operante e ne intuisce il mistero, l'inquietante presenza. I suoi enigmi gli rimangono impenetrabili e tuttavia di quando in quando gli giunge l'onda esuberante del fiume vivo, il bagliore di campo della fiamma, l'il-luminazione del significato.

Tutto questo però non va inteso in senso naturali-

1 Cfr. il Capitolo terzo.

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stico e nemmeno pantelstico. L'uomo di Dostojevskij non adora la natura e non identifica il mondo con Dio. Nella vivente unità del creato un intervento decisivo fa di questa esistenza un'esistenza cristiana. Quell'opera misteriosa che Dio svolge nella natura è caratterizzata dalla redenzione, è un'azione in vista di una nuova creazione. Dio si manifesta bensì nella natura e nella vita, ma nel segno di Cristo, e mediante Cristo invita l'uomo a uscire dal puro e semplice complesso dei legami naturali per entrare nel Suo regno. Se ciò non avviene e l'uomo non si stacca dal semplice piano naturale, non sarà più una creatura di Dio, ma un esse-,rè pagano.

Dostojevskij ha detto la sua opinione su questo punto nel modo in cui è solito affrontare le grandi questioni, ricorrendo cioè all'opposizione dialettica dei personaggi. Questi vengono così a integrarsi a vicenda ma insieme a sottoporsi reciprocamente a una critica. Nei romanzi incontriamo molte figure in cui parla l'anima del popolo così come Dostoevskij l'ha sentita. Ma nella posizione di alcuni altri si rivela un pericolo latente:

essi fanno del mondo di Dio e del popolo di Dio qualcosa di assai diverso, in cui si tradisce insieme un elemento patologico e una perversione. Penso a Sà-tov, nei Demoni, il fanatico dell'idea di popolo, per il quale Dio diventa "un attributo della personalità del popolo"; a Màrj a Lebjàdkina, nella cui coscienza la Madre di Dio e la terra si fondono nella pagana Magna Mater e a cui il sole, simbolo di Dio, parla con l'infinita malinconia di Dioniso2.

Ma nella falsa spontaneità immediata di questo naturalismo c'è come una "frattura", da cui si giunge

2 Cfr. più avanti, pp. 28-29.

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alla realtà del Dio cristiano. È il Cristo, che il popolo, che crede in lui, Sente presente nella natura, nella esistenza quotidiana e in ciò che vi accade. "Anche gli animali hanno Cristo", dice lo stàrets Zòsima al giovane contadino e "gli uccellini lo lodano". E tutto dò che accade manifesta al credente la volontà di Dio, di Cristo. Così l'esistenza, pur conservando tutta la sua realtà terrestre, è posta sotto la maestà del volere di Dio che da essa parla all'uomo, sotto la potenza della protezione sicura della sua Provvidenza.

Quest'azione trasformatrice appare soprattutto nel dolore. Il popolo di Dostojevskij soffre terribilmente. Tutta la sua esistenza è segnata dal dolore. Ma esso è accettato e sofferto come espressione della volontà di Dio e, anche se talvolta qualcuno mormora o si ribella, questo non toglie nulla al significato decisivo di quel-l'accettazione. In tal modo si compie una continua trasformazione del mondo, da realtà puramente naturale, in creazione che ha un linguaggio cristiano.

"Terra", "natura", "popolo" non sono perciò realtà naturali, ma realtà riscattate ed hanno una stretta affinità con quella che san Paolo chiama la nuova creazione, che nelle Lettere agli Efesini e ai Colossesi si fonde col concetto della Chiesa, Corpo mistico di Cristo.

Così il popolo vive in una disposizione intcriore che gli permette di accogliere direttamente anche la parola della rivelazione. Dice lo stàrets Zòsima:

II prete apra davanti a loro questo libro e si metta a leggerlo senza parole difficile e senza ostentazione, senza darsi delle arie di superiorità, ma con dolcezza e commozione, rallegrandosi lui stesso di leggerlo e di essere da essi ascoltato e compreso, sentendo anche lui amore per queste parole, non fermandosi se non di rado a spiegare qualche parola

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oscura per gli umili; e non abbia timore, essi capiranno tutto, tutto comprenderà un cuore ortodosso.3

La parola della Scrittura è parola rivelata. Ma quando per la disposizione di fede di cui si è parlato son riconosciuti nell'intera esisteva l'azione continua e il messaggio ininterrotto del Dio vivente, la Parola cade in un terreno atto ad accoglierla ed è capita anche se l'intelligenza speculativa non riesce a penetrarne tutto il significato. Così il popolo, benché ignorante, è il primo a udire la parola di Dio.

"Senza la parola di Dio il popolo perisce perché la sua anima ha sete della parola e anela ad accoglierne tutta la bellezza". In questa frase appare chiaramente l'affinità profonda che esiste tra la creazione e la rivelazione, affinità che il peccato ha potuto offuscare ma non sopprimere. "La bellezza": ricordiamo a questo proposito che il vocabolo greco charis significa anche "leggiadria" e "amabilità" e che nella coscienza cristiana la condizione definitiva dell'umanità e del mondo perfetti sarà la glorificazione e la piena ed eterna bellezza dell'Apocalisse. Questo modo cristiano di sentire ha radici profonde nello strato antico. L'idea di una frattura tra la parola rivelata e la realtà del mondo gli è estranea, come lo è sempre stata per l'Oriente, per il quale "nuova creazione" e "beata immortalità" erano i termini che servivano a designare il frutto della redenzione.

Così profondi sono questi rapporti tra Dio e la sua creatura che il popolo stesso diventa un mistero divino al quale bisogna credere. Chi perde il contatto col popolo lo perde anche col Dio vivente — un'idea, que-

3 I Fratelli Karamàzov, tr. di A. Poliedro, Milano, Frassi-neffi, 1950, p. 322.

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sta, che sa di romanticismo e può quindi apparire sospetta, ma il cui vero significato si spiega per il legame che in Dostojevskij esiste tra il "popolo di Dio" e la "nuova creazione". "Chi non crede a Dio, non crede nemmeno a un popolo di Dio. Ma chi crede a un popolo di Dio intuirà anche il sacro mistero di Dio, anche se fino allora non ha creduto in lui". A chi saprà penetrare nel segreto dell'esisteva umile e credente del popolo, nella quale si rinnova continuamente il mistero dell'azione creatrice e redentrice di Dio, saranno aperti gli occhi davanti al mistero stesso di Dio.

Si è parlato più sopra di romanticismo e Dosto-evskij, infatti, fu senza dubbio uno dei più grandi romantici. Ma il suo popolo non è una figurazione romantica in senso superficiale. A parte il fatto che vi Si manifestino alcuni aspetti essenziali della concezione cristiana del mondo, questo popolo non è per nulla idealizzato, ma visto in una luce molto realistica — ove non si intenda per realismo una realtà nuda e spoglia, della quale Dostojevskij direbbe ch'essa è povertà e aridità del poeta. Il popolo è visto da lui in tutta la sua sozzura, nei suoi vizi, nella sua depravazione e ignoranza; torpido, avido, dedito soprattutto in modo ripugnante al bere. Tuttavia è "popolo di Dio".

La sua esistenza non è giudicata santa per se stessa ove Dostojevskij sembra incline a crederlo, lì egli soggiace al suo panslavismo metafisico — ma essa in ogni suo aspetto è aperta alla santità; immediatamente di là dai suoi confini c'è Dio. Può accadere allora da un momento all'altro che l'individuo più corrotto, standosene mezzo ubriaco in una taverna, si metta a parlare di Dio e del senso dell'esistenza con tanta profondità che non si può fare a meno di ascoltarlo, poiché egli è degno di fede... Ora questo può solo acca-

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dere se tutta l'esistenza, per quella disposizione di cui s'è detto, confina immediatamente con Dio.

Le donne credenti

Sullo sfondo dei romanzi di Dostojevskij vive ed agisce il popolo, folla più o meno anonima. Da ogni parte vediamo i suoi sguardi fissi su di noi, dappertutto sentiamo battere il suo cuore. Da questa folla spiccano tuttavia con maggior rilievo alcune figure singole delineate con tratti individuali; eppure totalmente inserite nel tessuto collettivo. Le troviamo in tutti i romanzi: ora è un servo, ora un contadino, oppure un piccolo borghese, un soldato; passanti che entrano un momento, dicono qualche parola e scompaiono tra la folla; clienti di un'osteria, operai, venditori al mercato, arrivati e decaduti, gente savia e stolta... Parti-colarmente interessanti ci sembrano alcune figure, appena rilevate dalla folla anonima, al principio dei fratelli Karamàzov. Siamo al terzo capitolo del primo libro intitolato "Le donne credenti", quando il popolo va a trovare il suo grande amico, lo stàrets Zòsima.

Viene fatta avanzare un'ossessa, una certa Klikusa che "ogni tanto va fuori di sé, guaisce e abbaia come un cane". Un caso abbastanza comune. Dostojevskij dice che si tratta di

una terribile malattia femminile, attestante, soprattutto, pare, da noi in Russia, la dura sorte delle nostre donne di campagna, una malattia che deriva dalle fatiche sfibranti troppo vicine a parti laboriosi, irregolari, privi di ogni assistenza medica; e inoltre dalla disperazione, dalle percosse, ecc., che certe nature femminili non possono sopportare. (I Fratelli Karamàzov, p. 52).

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"Disperazione": un eccesso di fatica, di sofferenza, d'oppressione; e nessun amore che soccorra e illumini, nessuna possibilità di difendersi, di trovare una via di uscita come saprebbe fare con la sua ingegnosità e la sua capacità d'invenzione la personalità che la civiltà abbia resa libera. Qui la creatura è schiava del suo dolore. Ma per bocca dell'uomo fatto maturo e libero e dalla sua saggezza nutrita d'amore Dio parla e consola.

Nessuna illusione tuttavia. Sebbene l'inferma in presenza dello stàrets si calmi e la morsa si allenti, una volta tornata nel suo mondo tutto sarà ancora come prima. Da un punto di vista umano il suo destino è senza via d'uscita. Ma Dio è lì presente. Qui non si fa appello ne alla giustizia, ne alla dignità umana. L'uomo resta legato alla sua sorte e non se ne libera inte-riormente nemmeno col giudicarla immeritata. Se poi tutto rimane come prima e recarsi dal sant'uomo procura soltanto un sollievo effimero, la bontà di Dio non è per questo messa in dubbio. L'uomo continua ad esistere nel suo immutato soffrire senza via d'uscita e rimane unito con Dio di cui gli riesce incomprensibile la volontà senza che la sua fede ne venga turbata.

Incombe qui qualcosa di oscuro e di terribile; tuttavia nel profondo una voce consola e sulla creatura scende una promessa come sul seme sepolto nella terra.

Dopo aver parlato all'ossessa lo stàrets si rivolge a un'altra donna:

— Eccone una che viene da lontano! — diss'egli indicando una donna non ancora vecchia, ma assai magra e smunta, la quale, più che abbronzata, era come tutta annerita in viso. Essa stava in ginocchio e guardava lo stàrets

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con gli occhi fissi. C'era nel suo sguardo una specie di esaltazione.

Da lontano, bàtjuska, da lontano, trecento verste da qui. Da lontano, padre da lontano, — cantilenò la donna, dondolando la testa da una parte all'altra e appoggiando una guancia alla palma della mano. Parlava come se si lamentasse. C'è nel popolo un dolore silenzioso e paziente:

esso si ritrae in sé e tace. Ma c'è pure un dolore lacerante: esso erompe una volta in lagrime e si sfoga, da quell'istante, in lamentazioni. Specialmente nelle donne. Ma non è più leggero del dolore silenzioso. I lamenti non acquetano che corrodendo e lacerando ancora di più il cuore. Un simile dolore non vuoi neanche conforto, si pasce del sentimento della propria inestinguibilità. I lamenti non sono che un bisogno d'irritare senza posa la ferita.

— Siete della città? — proseguì lo stàrets, osservandola curiosamente.

— Della città, padre, della città; veniamo dalla campagna, ma siamo gente di città, viviamo in città. Sono venuta, padre, per vederti. Abbiamo sentito parlar di tè, bàtjuska, abbiamo sentito. Ho sotterrato un figliolino piccoletto, poi sono andata a pregar Dio. In tré monasteri sono stata, e mi hanno detto: « Va, Nastàsjuska, anche laggiù », cioè qui da voi, golùbcik, da voi. Son venuta, ieri sono stata alla messa notturna, e oggi eccomi da voi.

— Perché piangi?

— Piango il mio figliolino, bàtjuska; quasi tré anni aveva, ancora due mesi soltanto e avrebbe avuto tré anni. È per il piccino che mi tormento padre, per il piccino. Era l'ultimo figliolino rimasto, quattro ne avevamo, io e Nikìtuska; ma in casa nostra i bambini non vivono, benamato, non vivono. I tré primi, li ho sotterrati, e non li ho pianti troppo, ma quest'ultimo l'ho sotterrato e non lo posso dimenticare. Ecco, mi par che sia qui, davanti a me:

non si allontana. Mi ha disseccato l'anima. Guardo i suoi pannolini, la camiciola e le scarpettine, e singhiozzo. (I Fratelli Karamaz.ov, pp. 52-3).

Ecco un'altra creatura prigioniera di un dolore da cui ne la ragione, ne la volontà, ne la cultura l'aiuteranno a uscire. Ed è mirabile vedere come lo stàrets sappia capirne l'esistenza.

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Da principio egli cerca di consolarla ricordandole che il bambino è nella gloria di Dio. La donna non dubita, ma il sentimento è troppo inesorabilmente acerbo:

quel conforto è vano. Lo stàrets si accorge di essere in presenza di qualcosa di invincibile, contro cui è inutile lottare:

Questa è l'antica « Rachele che piange i suoi figli e non può consolarsi, perché essi non sono più », e tale è la sorte a voi, madri, assegnata sopra la terra. E tu non consolarti, non occorre che tu ti consoli, non consolarti e piangi; ma ogni volta che piangi, ricordati senza fallo che il tuo figlioletto è uno degli angioli di Dio, e di là ti guarda e ti vede, e gioisce delle tue lacrime, e le indica al Signore Iddio. E ancora a lungo durerà questo tuo sublime pianto materno, ma ti si convertirà alla fine in gioia tranquilla, e le amare tue lacrime non saranno più che lacrime di silenziosa tenerezza e di purificazione del cuore, la quale salva i peccati. (I Fratelli Karamàzov, p. 55).

Nulla è mutato della situazione, perché nulla si può mutare. Ma questa realtà immutabile sarà offerta a Dio, tutta, in un abbandono completo, totale, alla Sua volontà. A partire da questo momento, allora, essa apparirà trasformata. Questo avverrà dall'intimo del cuore, toccato dalla grazia e offerto a Dio in -dono d'amore. La trasformazione di un'esistenza insopportabile per la virtù d'amore d'un cuore pieno di Dio sarà dunque il miracolo che il popolo credente avrà saputo operare.

Va' da tuo marito, madre, va' oggi stesso. — Andrò, caro, seguirò la tua parola. Tu mi hai rimescolato il cuore. (I Fratelli Karamàzov, p. 55).

Poi, dopo la vecchierella che in ansia per il suo figliolo vorrebbe ricorrere a pratiche superstiziose per

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averne notizie, è la volta della più cupa di tutte queste figure:

Ma lo starets aveva già notato nella folla i due occhi ardenti e fissi su di lui di una contadina macilenta, dall'aria di tisica, sebbene ancora giovane. Essa lo guardava in silenzio, i suoi occhi gli rivolgevano una preghiera, ma pareva che temesse di avvicinarsi.

— Tu che hai, mia cara?

— Assolvi l'anima mia, buon padre, — diss'ella con voce sommessa e lenta, poi si mise in ginocchio e si prostro ai suoi piedi. — Ho peccato, padre mio, e ho paura del mio peccato.

Lo starets si sedette sull'ultimo scalino, la donna gli si avvicinò, restando in ginocchio.

— Son vedova, da tré anni. — cominciò con un bisbiglio, quasi tremando. — Era una vita dura con mio marito; lui era vecchio, mi aveva caricata di botte. Era in letto, malato; io pensavo, guardandolo: e se guarisce e si alza di nuovo, che sarà allora? E mi venne allora questo pensiero...

— Aspetta, — disse lo starets e accostò l'orecchio proprio alle sue labbra. La donna continuò con un bisbiglio sommesso, tanto che non si potè quasi afferrar nulla. Terminò presto.

— Sono tré anni? — domando lo starets.

Tré anni. Dapprima non ci pensavo, ma adesso mi sono ammalata e l'angoscia non mi lascia più. (I Fratelli Karamàzov, p. 56).

Ancora un dolore senza vie d'uscita. Una miseria che la disperazione ha reso colpevole. Solo nel pensiero, ma in questo pensiero tutto si concentra e diventa malinconia, disperazione. E di nuovo lo starets vede con chiarezza come stanno le cose e come sia inutile tentare di dissolvere la compagine serrata di un'esistenza chiusa in se stessa e come murata nel proprio destino. Qualsiasi ragionamento, qualsiasi conforto o consiglio urterebbe contro questo muro e ricadrebbe inerte. Perciò egli parte da questa esistenza e indica

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nel pentimento la via per cui essa potrà essere trasformata nella sottomissione a Dio:

« Non temer nulla, non temer mai, e non angosciarti. Purché il pentimento non s'indebolisca in tè, e poi Dio perdonerà tutto. Del resto, non c'è, e non ci può essere, su tutta la terra un peccato che Dio non perdoni a chi si pente sinceramente. Ne l'uomo può commettere un peccato così grande che esaurisca l'infinito amore di Dio. Può forse esserci un peccato che sorpassi il divino amore? Non pensare che al pentimento, senza posa, e scaccia ogni paura. Credi che Dio ti ama come tu non ne hai nemmeno idea, e ti ama anche col tuo peccato e nel tuo peccato. Per uno solo che si pente c'è più gioia in cielo che per dieci giusti, è stato detto da tempo. Va' dunque e non temere. Non affliggerti per la gente, non andare in collera per le offese. Al defunto perdona in cuor tuo ogni affronto che ti abbia fatto, riconciliati con lui sinceramente. Se ti penti, vuoi dire che ami. Ma, se ami, sei già di Dio... Con l'amore tutto si riscatta, tutto si salva. Se io, peccatore al pari di tè, mi sono intenerito e ho avuto pietà di tè, tanto più ne avrà Dio. .L'amore è un tale inestimabile tesoro, che con esso puoi comprare il mondo intero e riscattare non solo i tuoi peccati, ma anche gli altrui. Va' e non temere ».

Egli fece tré volte il segno della croce su di lei, si tolse una piccola immagine e gliela mise al collo. (I Fratelli Karamàzov, pp. 56-57).

C'è nell'esistenza di questo popolo una grandezza che rende pensosi. Vera grandezza, non semplicemente una cupa rassegnazione, che altrimenti esso non potrebbe esser condotto da un pastore d'anime, sia pure infinitamente saggio e infiammato d'amore, per le vie straordinarie della rinuncia ad ogni illusione, del-l'accettazione di un destino avverso compiuta senza gesti eroici, con umile aderenza alla realtà. Chi intuisce che cosa sia la santità, ossia un'esistenza vissuta incondizionatamente e con grandezza nella fede, s'accorge che qui ne esistono i presupposti.

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Ma la semplicità con cui questo popolo affronta e vince la dura e opaca realtà quotidiana partendo dalle più alte intuizioni religiose, la prontezza nel capire e nel seguire la via indicata si spiegano solo con quella generale disposizione dell'animo che abbiamo descritta. L'esistenza del popolo è direttamente legata alla terra e al destino. Direttamente, ma non in mero senso naturalistico, pagano; e nemmeno come lo penserebbe l'idealismo, quasi si trattasse solo del grado preparatorio di un'esistenza umana completa, di una prima forma di coscienza che solo attraverso la riflessione diventerebbe pura spiritualità. Questi sono schemi dell'Occidente e Dostojevskij ha lottato proprio perché non venissero applicati al suo popolo e ha combattuto, così facendo, per tutto l'uomo. In quella immediatezza si apre piuttosto continuamente una "frattura" che, dalla semplice adesione alla natura e da una forma di pietà pagana, conduce a un profondo rapporto spiri-tuale-pneumatico con Dio, attraverso l'unione col Cristo e l'accettazione dell'esistenza come volontà di Dio.

'Paganesimo

Abbiamo già accennato come lo stesso Dostoevskij abbia passato al vaglio della critica il suo concetto della posizione religiosa del popolo. Ciò è avvenuto in due personaggi dei Demoni, il romanzo che più di ogni altra sua opera rivela la minaccia sempre incombente delle forze della distruzione.

Troviamo qui un personaggio singolare: Màrja Le-bjàdkina, "la zoppa" degli appunti di Dostojevskij che recenti pubblicazioni hanno reso accessibili. È la crea-

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tura deforme e inferma di mente a cui Stavròghin si unisce sperando di trovare nella mostruosità di questo legame quell'eccitamento dei sensi che ormai gli è negato.

Questo personaggio è disegnato con un intuito psicologico incredibile. Màrja Lebjàdkina ha la mente turbata, sovente del tutto sconvolta. Ma ogni tanto dice cose profonde, addirittura profetiche. Sembra non accorgersi di quello che avviene intorno a lei e invece rivela sovente uno spirito d'osservazione straordinariamente acuto. È un povero essere disgraziato ma non conosce la paura. Vittima di un fratello depravato che la tormenta, vive tuttavia come le principesse delle fiabe, libera da ogni senso di minaccia e di paura.

Anche in lei infatti la vita trae alimento dalle forze elementari di cui s'è parlato e soprattutto da una intima, profonda comunione con la natura. Questo legame è essenzialmente religioso, ma la "frattura" di cui si è parlato, la trasformazione di quel rapporto nella sottomissione fidente alla volontà personale di Dio, sembra non essere qui avvenuto.

C'è'in Màrja Lebjàdkina qualcosa che ricorda i personaggi stregati. delle fiabe, un'allegria che rattrista e può repentinamente mutarsi in malinconia profonda. Si pensa agli uomini cui un "genio delle acque" ha sconvolto la mente o che hanno avuto rapporto con i "trolli" e sono diventati un po' strani... Nel suo spirito le realtà religiose vivono una vita naturalistica, pagana, mitica come nelle antiche leggende.

Un giorno che Satov è andato a trovarla e s'intrattiene con lei, ella si abbandona alle sue fantasticherie e gli racconta del tempo in cui era stata in convento:

A quel tempo una romita che faceva penitenza fra noi

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per aver predetto l'avvenire mi sussurrò, uscendo dalla chiesa: — La Madre di Dio, che è secondo tè? — È la Gran Madre, le risposi, la speranza del genere umano. — Sì, disse, la Madre di Dio è la gran madre, la terra umida, e in lei è racchiusa una gran gioia per l'uomo. E ogni affanno terreno e ogni lacrima terrena è per noi una gioia;

e quando avrai abbeverato la terra sotto di tè con le tue lacrime per una profondità di mezzo arsin, allora gioirai subito di ogni cosa. E non avrai più assolutamente nessun dolore, dice, tale è la profezia. — Questa parola mi s'impresse allora nel cuore. Cominciai da quel tempo, prosternandomi nella preghiera, a baciare ogni volta la terra; la bacio e piango. E ti dirò, Sàtuska, che in queste lacrime non c'è nulla di cattivo; e se anche tu non avessi nessun dolore, le tue lacrime scorrerebbero ugualmente solo per la gioia. Le lacrime scorrono da sé, è così. Me ne andavo alle volte sulla riva del lago; da una parte il nostro monastero, dall'altra la nostra montagna aguzza, che si chiama appunto Monte Acuto. Io salgo su questa montagna, volto la faccia verso oriente, cado a terra, piango, piango, e non ricordo più da quanto tempo io pianga, allora io non ricordo più nulla e non so più nulla. Poi mi alzo, mi volgo indietro, e il sole tramonta, è così grande, magnifico, glorioso, -ami tu guardare il sole, Sàtuska? E' bello e triste. Mi volgo di nuovo indietro verso oriente e un'ombra, l'ombra della nostra montagna, fugge lontano sul lago, come una freccia, sottile, lunga lunga, e si stende per una versta più in là, fino all'isola che c'è nel lago, e quell'isola di pietra la taglia per metà e, appena l'ha tagliata, il sole tramonta subito definitivamente e tutto si spegne a un tratto. E allora comincio a sentirmi tutta triste, allora la memoria mi torna all'improvviso e ho paura dell'oscurità, Sàtuska4.

Si direbbe una vecchia ballata, piena d'incanto... Ma Dio non è più qui il Dio vivente, il cui volto ci appare in tutte le cose, la cui voce ci parla in ogni segno, in ogni destino, Dio che trasforma e santifica la realtà quando andiamo a Lui, Lo invochiamo e

4 I Demoni, tc. di A. Poliedro, Torino, Slavia, 1929, voi. I, pò. 207-8.

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ubbidiamo alla Sua parola. La terra qui non è simbolo della profondità feconda e insieme della sacra inviolabilità dell'ordine divino, come ad esempio nelle parole che Sònja dice a Raskòlnikov dopo aver indovinato la sua colpa:

... i suoi occhi, fino allora pieni di lagrime, subitamente lampeggiarono. — Alzati! (Lo afferrò per una spalla; egli si sollevò guardandola quasi stupefatto). Va' subito, all'istante, a metterti sul crocicchio, inchinati, bada dapprima la terra che hai profanata, e poi inchinati a tutto il mondo, rivolto ai quattro punti cardinali, e dì a tutti, a voce alta:

« Ho ucciso! » Allora Iddio ti manderà di nuovo la vita...5.

In Màrja Lebjàdkina c'è ben altro: c'è l'abisso di una natura non riscattata, una malinconia che attira nelle profondità.

Con la prodigiosa sicurezza dell'artista che crea tipi umani che s'affermano da soli con una propria atmosfera e una propria linea, Dostojevskij pone accanto a Màrja Lebjàdkina Sàtov, l'unico compagno che per una segreta affinità sappia comprenderla. Bruciano entrambi dello stesso fuoco, ma ciò che per la donna si chiama "natura", per Sàtov ha un altro nome: si 'chiama "popolo".

Il romanzo non sviluppa soltanto il lato demoniaco dell'uomo sciolto da ogni vincolo, della civiltà che ha rinnegato le proprie origini, ma ci mostra anche il demone opposto: la natura divinizzata e il popolo innalzato a idolo. Stavròghin, l'incredulo, l'egoista, ha acceso della mente malata di Sàtov la fede nella divinità del popolo.

5 Delitto e Castigo, tr. di A. Poliedro, Torino, Slavia, 1930, voi. II, pp. 173-4.

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Sàtov ne trae tutte le conseguen2e:

Non un popolo... si è finora fondato sui princìpi della scienza e della ragione, non si è mai avuto un simile esempio, salvo forse per un momento, e per istoltezza. Il socialismo già nella sua essenza dev'essere ateìsmo, poiché ha precisamente proclamato, fin dalle sue prime parole, di essere un ordinamento ateo e di volersi fondare esclusivamente sui princìpi della scienza e della ragione. La ragione e la scienza hanno sempre, adesso e fin dal principio dei secoli, adempito nella vita dei popoli soltanto una funzione secondaria e ausiliaria; e l'adempiranno sino alla fine dei secoli. I popoli si formano e si muovono per un'altra forza imperiosa e dominatrice, ma la cui origine è sconosciuta e inesplicabile. Questa forza è il desiderio inestinguibile di giungere a una fine e nello stesso tempo la negazione di questa fine. È una forza che senza posa e infaticabilmente afferma la propria esistenza e nega la morte. Lo spirito della vita, come dice la Scrittura, « i fiumi di acqua viva », del cui esaurimento ci minaccia l'Apocalisse. Il principio estetico, come dicono i filosofi, il principio morale, come gli stessi lo identificano. « La ricerca di Dio », come la chiamo io più semplicemente. Il fine di ogni movimento popolare, in ogni popolo e in ogni periodo della sua esistenza, è unicamente la ricerca di Dio, del suo Dio, del suo proprio Dio, e la fede in lui come unico vero. Dio è la personalità sintetica di tutto il popolo, dalla sua origine sino alla sua fine. Non è ancora mai accaduto che tutti i popoli o molti di essi avessero in comune lo stesso Dio, ma ciascuno ha sempre avuto il proprio. È un segno di decadenza dei popoli quando cominciano ad avere degli dèi comuni, gli dèi muoiono e muore la fede in loro, insieme con gli stessi popoli.

Abbasso Dio ad attributo del popolo?... Al contrario, innalzo il popolo a Dio... Il popolo è il corpo di Dio. Ogni popolo è popolo solamente fino a quando ha il suo dio particolare e ripudia senza alcun compromesso tutti gli altri dèi del mondo, finché crede che col suo dio vincerà e scaccerà dal mondo tutti gli altri dèi. Così tutti han creduto fin dal principio dei secoli, tutti i grandi popoli almeno, tutti quelli che si sono in qualche modo segnalati, che sono stati alla testa dell'umanità... Se un gran

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popolo non ha fede che la verità sia in lui solo (proprio in lui solo ed esclusivamente in lui), se non ha fede di essere il solo capace e chiamato a risuscitare a salvar tutti 'con la propria verità, diventa immediatamente un materiale etnografico e non è più un gran popolo... Ma la verità è una sola e, per conseguenza, anche un unico popolo può possedere il vero Dio, anche se gli altri popoli abbiano i loro grandi dèi particolari. L'unico popolo « portatore di Dio » è il popolo russo. (I Demoni, voi. II, pp. 65-66 e 67-68).

Ragionamenti mostruosi — e si direbbero pensati oggi-

Qui non è più il popolo di cui si parlava dianzi. Si rivela qui piuttosto l'elemento demoniaco potenzialmente presente in quella concezione del popolo. E la forza religiosa che qui è chiamata "Dio" non è più il Dio vivente, Creatore e Signore, di cui si è parlato, Cristo redentore che ci da la forza di vincere noi stessi, ma qualche cosa che indurrà un giorno a porre il popolo e —- date altre premesse — lo Stato come assoluto.

Una pagina più avanti ne troviamo la conferma, in parole di inaudita veemenza:

Nikolàj Vsjevolòdovii lo guardò severamente: — Volevo soltanto sapere: voi stesso credete in Dio o no?

— Io credo nella Russia, io credo nella sua ortodossia... Io credo nel corpo di Cristo... Io credo che il nuovo avvento si compirà in Russia... Io credo... — si mise a balbettare Sàtov, esaltato.

— Ma in Dio, in Dio?

— Io... io crederò in Dio.

Non un muscolo vibrò sul viso di Stavròghin. Sàtov lo fissava con uno sguardo di fuoco, provocante, come se col suo sguardo volesse incenerirlo. (J Demoni, voi. II, pp. 69-70).

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CAPITOLO SECONDO

LE SILENZIOSE E LA GRANDE ACCETTAZIONE

Comunità di popolo e individuo

Nel capitolo precedente abbiamo parlato dell'esistenza religiosa del popolo e spiegato come Dio vi sia sentito presente nella Sua viva realtà. Come si è visto, per Dostojevskij il "popolo" è l'uomo che vive la vita nei suoi aspetti più semplici e veri perché è inserito nel suo vivo ed organico tessuto; Dio gli appare come Colui che tutto crea, governa e muove e che s'incontra nell'umile esistenza quotidiana.

Dio non è sentito però come "natura", semplice matrice di questa esistenza, radice del mondo. Sul piano che dal puro ordine naturale conduce a Dio appare a un certo punto una frattura: in ciò che è e accade è veduto il Cristo, in ogni avvenimento è riconosciuta la volontà di Dio ed in questo spirito di volontaria sottomissione è vissuto il dolore, sostrato permanente della nostra vita. In tal modo viene superato quello stato di immediatezza naturalistica che chiamiamo paganesimo — concezione pagana della natura o del popolo. Accettando con semplicità l'esistenza dalla mano di Dio, la volontà personale si trasforma in volontà divina e così, senza che la creatura cessi di esser unicamente creatura e Dio veramente Dio, si attua la loro unità vivente.

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Questo rapporto e l'immagine che esso suggerisce di una maestà divina, semplice, intima e misteriosa, presuppone che l'uomo resti fedele all'esistenza che gli è data e non assuma un atteggiamento artificioso di riflessione e di critica. Abbiamo già visto così alcune figure prender rilievo per una loro più spiccata individualità, senza per questo differenziarsi dalla massa anonima.

Vi sono ora in Dostojevskij altri personaggi che vivono con la stessa semplicità e immediatezza delle "donne credenti" l'esistenza quotidiana, ma in condizioni sociali e culturali più differenziate, figure perciò più mosse e con una personalità più rilevata. Salva restando la sostanziale semplicità del loro atteggiamento di fronte alla vita, vediamo questo assumere aspetti più vari e rivelare una sensibilità più delicata e più ricca, È il caso che si verifica quando un tipo semplice, pur non avendo ancora perso il suo carattere univoco, si è già troppo differenziato per poterlo conservare ancora per molto tempo. Momento, dunque, di grandi possibilità espressive, interessantissimo: ancora un passo e il tipo, in questa generazione o nella seguente, avrà perduto la sua semplicità.

. Sono figure di questo genere Sònja, la compagna di Vèrsilov, nell'Adolescente e un'altra Sònja, l'amica di Rodion Raskòlnikov, in Delitto e Castigo.

Sònja Andrèjevna

Sònia Andrèjevna è moglie di Macario Dogoiruki, il "pellegrino", e madre di Arcadie Makarovic, 1"'A-dólescente". Essa vive però col suo antico padrone, Andrèj Petrovic Vèrsilov che è il padre di Arcadie.

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La sua condizione umana è determinata dalla sua posizione tra questi due uomini.

Macario è un uomo singolare — parleremo di lui ancora a lungo nel capitolo seguente. Da come ce lo descrive Vèrsilov è un uomo alto e di bell'aspetto, serio, di nobile carattere,'assorto in una sua intensa vita intcriore che coll'andar del tempo si andrà facendo sempre più profonda. È servo della gleba, ma tutti lo sentono superiore alla sua condizione e se più tardi Vèrsilov, il suo padrone, finirà col trattarlo quasi da pari a pari, vi sarà indotto appunto dalla sua nobiltà innata. Egli ha sposato Sònja, ma all'epoca del matrimonio era già vecchio, molto più vecchio della sposa che aveva tenuta in braccio bambina, quando ancora "non si reggeva sulle gambette".

Padrone della tenuta è Vèrsilov •— una varietà del tipo dostoevskjano del "grande peccatore", cui fanno riscontro Stavròghin nei Demoni e Ivàn, e sotto un certo aspetto anche Aljòsa, nei Fratelli Karamàzov — un personaggio in cui l'elemento geniale si mescola col patologico, aperto ai sentimenti più nobili e nello stesso tempo minacciato dalle forze del male, da tutto ciò che è insano e persino demoniaco, una di quelle nature sempre sospese sopra un abisso, nelle quali i problemi più gravi del nostro tempo si pongono non soltanto all'intelligenza ma anzitutto nell'essere.

Nel suo tono tra ironico e annoiato che però sovente cela l'impeto di una commozione improvvisa e talvolta persino uno smarrimento doloroso, Vèrsilov racconta a suo figlio, l'Adolescente, come egli andò un giorno alla fattoria e la giovane sposa si diede a lui:

Giuro che attualmente sono estremamente pentito e che ora, in questo istante, per la millesima volta, vanamente rimpiango quel che accadde vent'anni fa. Inoltre^

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Iddio sa che tutto questo avenne del tutto involontariamente... e, in seguito, per quanto fu nelle mie forze, tutto si svolse nel modo più umano; almeno secondo quel ch'io allora stimavano umano '.

Questa storia è narrata con un singolare realismo che starei per dire fantastico. Vèrsilov non vuoi più lasciare la donna ma nemmeno abusare come padrone della sua autorità perché, a parte i suoi princìpi liberali, intuisce la nobiltà del carattere di Macario. Confessa perciò a quest'ultimo l'accaduto e cerca di indurlo a un compromesso, a dire il vero non molto onorevole:

Gli offrii allora tremila rubli... Gli assicurai sulla mia parola che, se avesse accettato le mie condizioni, cioè tremila rubli, la libertà (a lui e alla moglie beninteso), ed un viaggio anche in capo al mondo (ma senza la moglie beninteso) lo dicesse senz'altro e immediatamente gli avrei dato la libertà. Avrei fatto tornare a lui la moglie, li avrei ricompensati ambedue con tremila rubli... Il giorno dopo acconsentì al viaggio..., senza una parola, s'intende... ma senza dimenticare uno solo dei compensi da me offerti. (L'Adolescente, pp. 211-213).

Macario ha dunque accettato la nuova situazione; o meglio, ha dichiarato di rendersene conto e di non opporsi, visto che opporsi sarebbe inutile. Questo con tutta sincerità. Con la stessa sincerità perdona a sua moglie quello che è stato e sarà ancora, senza cessare per questo di volerle bene, ma anche senza rinunciare ai suoi diritti e trovar giusto quello che è ingiusto. Si fa poi pellegrino e noi lo incontreremo ancora, quando sarà cresciuto all'altezza di una grande fi-

1 L'Adolescente, tt. di E. Amendola Kuhn e F. Tosti, Torino, FrassineUi, 1943, p. 209.

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gura religiosa, quale impareremo ancora a conoscerlo. Manterrà tuttavia regolari rapporti con gli altri due e con l'andar del tempo farà di loro i suoi "figli spirituali", cogliendo in tal modo l'occasione che l'età gli offre per uscire da una situazione impossibile.

Li ama entrambi, eppure non dimentica quello che è accaduto. Non ne parla mai, ma il sentimento dell'ingiustizia subita rimane immutato. A sua volta Vèr-silov è pienamente consapevole del torto che gli ha fatto e gli continua a fare, ma non rinuncia alla donna. E finalmente Sònja diventa per lui strumento di salvezza.

Tutto questo racconto è molto strano e mette in rilievo la profonda differenza che separa la struttura della personalità orientale dall'occidentale.

Tra questi due uomini Sònja Andrèjevna si trova in una situazione assai difficile; pure ella è diversa da come noi, forse, la pensiamo.

Suo figlio ne fa un ritratto molto penetrante:

II suo viso era, talvolta, straordinariamente attraente. Aveva fattezze semplici, ma per nulla volgari, era un po' pallida e anemica. Le sue guance erano molto magre, perfino emaciate e sulla faccia si vedevano molte rughe;

intorno agli occhi, invece non ve n'erano; e gli occhi, abbastanza grandi e aperti, ardevano sempre di una luce dolce e tranquilla, che m'aveva attratto verso di lei fin dal primo giorno. Amavo anche in lei il fatto che nel suo viso non vi era mai alcuna espressione di tristezza e di avvilimento; la sua espressione anzi sarebbe stata addirittura lieta, se non fosse stata così spesso preoccupata; s'impauriva a volte saltando su per delle inezie e senza ragione, ascoltava talaltra, tutta agitata, la conversazione di qualche sconosciuto, finché non si fosse persuasa che tutto andava come prima. Proprio così: secondo lei, tutto andava bene, se era come prima! L'essenziale per lei era che nulla cambiasse, che

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non avvenisse nessuna novità, neppure piacevole. Si sarebbe potuto credere che qualche cosa l'avesse molto spaventata nella sua infanzia. Oltre i suoi occhi, mi piaceva l'ovale allungato del suo viso e credo che se gli zigomi fossero stati un tantino meno sporgenti, non soltanto in gioventù, ma anche adesso avrebbe potuto essere detta una bella donna. Non aveva più di trentanove anni, ma i suoi capelli color castano-scuro cominciavano già ad essere qua e là brizzolati. (L'Adolescente, pp. 163-64).

A sua volta Vèrsilov nel tono leggero che gli è abituale dice di lei cose assai profonde:

Umiltà, innocuità, remissività e nello stesso tempo fermezza, forza, vera forza: ecco il carattere di tua madre. Nota ch'è la migliore di tutte le donne ch'io abbia mai incontrato. E che vi sia in lei della forza lo attesto io, che ho visto come questa forza l'abbia sostenuta. Quando si tratta, non dirò già di convinzioni, che in questo caso non vi possono essere, ma di quella che da tipi come lei vien chiamata convinzione e che sembra santa per loro, queste donne son pronte ad affrontare anche il martirio-Diro a questo proposito, fra parentesi, che non so perché ma ho il sospetto che ella non abbia mai creduto alla umanità dei miei sentimenti e perciò abbia sempre tremato dinanzi a me; ma, pur tremando, non si lasciò tuttavia piegare a nessuna educa2Ìone. Simile gente è capace, non so come, di una tale resistenza che noi non arriviamo neppure a comprendere e in genere sa meglio di noi sbrigare i propri affari. È capace di continuare a vivere a modo suo nelle situazioni più innaturali, rimanendo coerente a se stessa in situazioni del tutto aliene alla propria indole. Noi non sappiamo agire così.

— Chi è questa gente di cui parlate? Non vi capisco!

— Il popolo, amico mio; parlo del popolo. Da molto tempo ormai ha dimostrato questa sua grande forza vitale, moralmente e politicamente. Ma, per tornare al nostro problema, dirò che tua madre non sempre tace; dice talvolta qualcosa, ma lo dice in un modo tale che tu subito t'accorgi d'aver perduto il tuo tempo a parlare, pur essendoti per cinque anni dedicato a prepararla gradatamente. Inoltre le sue risposte sono sempre inattese. Nota ancora ch'io non

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la reputo affatto una donna stupida: anzi, in questo suo modo d'agire vi è una certa intelligenza che a volte è perfino straordinaria. (L'Adolescente, pp. 207-208).

È una figura che non si dimentica, di cui sentiamo tutta la forza profonda, la silenziosa perseveranza.

Sònja sa di aver fatto male. Avrebbe trovato natura-lissimo che suo marito le chiedesse conto della sua condotta e la trattasse duramente. D'altra parte sembra — come dobbiamo dire? — ch'ella non ritratti la sua a-zione ma la lasci stare com'è... Quando Macario la lascia libera, o meglio, dichiara di non voler far nulla per rivendicare i suoi diritti, ella non prova in fondo alcuna gioia; sente che ciò non conferma in alcun modo un eventuale diritto della passione, ma accetta l'offerta... Quando poi vive con Vèrsilov sa di essere sempre in colpa perché il suo matrimonio non può esser sciolto. Tuttavia non cambia vita, senza che si possa parlare per questo di un'infatuazione passionale, di leggerezza, di ostinazione, o, peggio ancora, di cinismo. Ella ama Vèrsilov di un amore costante, immutabile. Sa anche che per lui questo amore è la salvezza, sebbene egli la tratti con la volubilità capricciosa di un malato. Ma ella sa anche che questo non attenua la loro colpa. Il perdono di Macario, dato per il passato e per l'avvenire, la libertà ch'egli le ha concesso di vivere con Vèrsilov, hanno reso possibile tutto questo, ma ella non si sente in alcun modo giustificata. Soltanto, Macario acquista ai suoi occhi una grandezza sacra e misteriosa e la sua colpa resta, se è lecito dire una cosa simile, in qualche modo santificata — un concetto, questo, che la nostra coscienza occidentale, ove si sia conservata intatta, non si sente di appro-

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vare e che, applicato da noi, condurrebbe probabilmente presto all'ipocrisia; ma qui esso sembra il solo atto ad esprimere lo stato d'animo di Sònja.

Un giorno, poco prima della morte di Macario, Sònja, ormai invecchiata — i figli di lei e Vèrsilov, Lisa e l'Adolescente, sono già grandi — si è seduta vicino al figliolo infermo e ha ragionato con lui del corso singolare della sua vita. Il racconto prosegue poi così:

Pronunziò queste parole svelta svelta, arrossendo, e poi volle andarsene subito, perché anche lei non amava mostrare i suoi sentimenti, e in questo mi somigliava, e poi, naturalmente non voleva mettersi a parlare con ine di Macario Ivànovic; bastava quel che ci potevamo dire con lo sguardo. Ma questa volta fui proprio io, che odiavo ogni esibizione di sentimenti, ad afferrarle con forza la mano:

la guardavo con dolcezza negli occhi, sorridendo quietamente e teneramente, e coll'altra mano accarezzavo il suo caro viso, le sue guance infuocate. Ella si chinò e premette la fronte contro la mia.

Ebbene, che Cristo sia con tè, — disse all'improvviso, raggiante. — Guarisci... Tè ne rimeriterò. Poveretto, (Macario) è molto, molto ammalato. È Iddio che dispone della vita... Ah, che cosa ho detto, no, non può essere!...

Se n'andò. Aveva sempre stimato per tutta la sua vita, con venerazione e tremore, il suo legittimo marito, il pellegrino Macario Ivànovic che le aveva perdonato generosamente una volta per sempre. [L'Adolescente, pp. 57-77).

Non è facile voler spiegare questa figura senza toccare ciò che invece non va nemmeno sfiorato.

Forse ella è così: la sua forza non sta nel prendere un'iniziativa, ma è tutta nel ricevere. E questo avviene con tanta semplicità, con tale oblio di sé, che la sua figura assurge a una tacita grandezza.

Ella subisce la vita, ma con fermezza, come in un profondo consenso e senza lasciarsi dominare o diso-

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rientare dagli eventi. Quando un avvenimento decisivo si è compiuto, nulla vale più a cancellarlo dalla sua coscienza ed esso vi acquista una realtà sempre più viva e vissuta. Così, per questa sua limpida forza, tutta l'esistenza si concentra in pochi momenti essenziali connessi a quell'avvenimento.

Per il suo modo di sentire, destino, colpa, necessità . e sacrificio sembrano stranamente formare una cosa sola. Sebbene non sembri disposta a tornare indietro, ella riconosce il suo peccato e lo condanna sinceramente... Non sa come avrebbe potuto agire in modo diverso ma non consentirebbe mai a cercare una giustificazione al suo agire. Sa che esso, ancor oggi, è colpevole, ma non pensa nemmeno un istante di cambiar vita. E se di qualsiasi altra donna potremmo dire che cerca di illudersi, che giudica superficialmente il suo torto o che la sua condanna non è sincera, nel caso di Sònja non possiamo far altro che crederle.

. È una creatura singolare. La coscienza di esser colpevole è in lei sempre ugualmente viva e dolorosa, eppure non fa nulla per mutare il suo stato. Potrebbe forse, pensa Sònja, esser diverso? Tutta la vita offre con le sue vicende un sviluppo inestricabile ed ella l'accetta senza cercare di spiegarsela.

Ma nel suo intimo il contegno di Macario solleva tutto, e dunque anche lei, su un piano religioso.

Forse — dico così perché sono argomenti che danno una responsabilità non lieve — forse le cose stanno in questo modo: Sònja sa di essere colpevole ma sente su di sé la mano di Dio. Oppure è profondamente pia, ma questa pietà non le fa evitare il peccato. Del resto queste considerazioni, come altre del genere, lasciano insoddisfatti. Non toccano il segno, probabil-

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mente perché tutta la vicenda è giudicata da un punto di vista troppo occidentale. La pietà di Sònja, forse, sta nel suo doloroso immobilizzarsi in un destino che secondo lei non poteva essere diverso, in una colpa che, ella sa, non avrebbe dovuto commettere ma che non vede come avrebbe potuto evitare.

Rimane ferma in un atteggiamento di silenziosa e dolente perseveranza, che è solo possibile perché ella sente in qualche modo la presenza di Dio in ogni cosa.

Tutto in fondo è incomprensibile. Ma ella non chiede di capire. Nulla deve essere spiegato: non il destino, non la colpa, non l'amore, non il consenso. E nemmeno — anche se non è detto — la presenza di Dio in ogni cosa. Nulla di "nuovo" deve aggiungersi. Soffrire sino in fondo il mistero di questa vita sembra essere la sua sorte particolare.

Anche qui Dio è Colui che ci viene incontro nell'esistenza quotidiana. Questa esistenza è incomprensibile e perciò Dio è anzitutto mistero. Mai si chiede se Dio sia; Egli è. Mai si chiede se sia santo, se aborrisca la colpa con avversione infinita; Egli la aborrisce. Mai si chiede se Egli sia l'amore, un amore che tutto comprende; Egli è amore. Mai è chiesto se ciò • che accade venga da Lui, se Egli sia presente in ogni cosa; è così. E tutto questo è incomprensibile.

La donna, Sònja, porta il peso di questo mistero e intanto si aprono in lei profondità alle quali non sapremmo che nome dare perché manca forse a definirle la categoria corrispondente. La filosofia morale d'Occidente sembra rifiutarsi di fornire qui un concetto positivo, nel timore — e non ascoltare l'avvertimento sarebbe per noi fatale! — che si possa cancellare

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la linea che divide il giusto dall'ingiusto, il bene dal male. Neppure il nostro pensiero religioso occidentale sembra poter dare a questa esistenza un valore positivo senza incontrare difficoltà. Ma se sapremo coglierne la profonda nota originale, sentiremo chiaramente di trovarci in presenza di qualche cosa di grande moralmente e anche dal punto di vista cristiano.

Tutto in lei esprime questo mistero doloroso di una colpa che pure in qualche modo è santificata. Esso ci appare ancora una volta in un ricordo dell'Adolescente, un giorno che la mamma è andata a trovarlo in collegio ov'egli ha trascorso la sua infanzia solitària. Ella ha parlato con lui e col direttore dell'istituto e ora si volge per andare:

Obbediente scesi le scale dietro la mamma; uscimmo dal portone: io sapevo che tutti mi guardavano dalla finestra. Mamma si voltò verso la chiesa e per tré volte si fece il segno della croce con un inchino profondo; le sue labbra tremavano, la campana suonava forte e solenne dal campanile; a un tratto non potè più frenarsi, mi pose le mani sul capo e incominciò a piangere.

— Mammina, basta... è una vergogna... ci, vedono dalla finestra...

Ella si raddrizzò in fretta.

— Oh, Signore... che Iddio sia con tè, che gli angeli celesti ti proteggano, la Santa Vergine, il Santo Nicola... Oh Signore, oh Signore! — ripeteva svelta svelta, facendosi sempre il segno della croce; — cuoricino mio, mio caro! Aspetta, colombino...

In fretta si frugò in tasca e ne tirò fuori il fazzoletto turchino a quadretti; un angolo era legato fortemente con un nodo, ed essa si mise a scioglierlo... ma era duro.

— Ebbene, fa lo stesso, prendi anche il fazzoletto, è pulito, ti può servire, ci son dentro quattro monetine da venti copechi; potranno servirti; perdona, cuoricino, non

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ho di più in questo momento... perdona, colombino mio. *

Presi il fa2zoletto; volevo osservare che il signor Tou-chard ed Antonina Vasilievna ci davano un ottimo vitto e che non avevamo bisogno di nulla, ma mi trattenni.

Ancora una volta mi fece il segno della croce, ancora una volta recitò sottovoce una preghiera e ad un tratto mi fece un inchino come aveva fatto prima ai Touchard; un inchino profondo, lento, lungo: non lo dimenticherò mai. Trasalii senza sapere perché. Che cosa aveva voluto significare questo inchino? confessava forse la sua colpa dinanzi a me? Soltanto molto più tardi tale spiegazione mi venne in mente. Ma allora provai una vergogna immensa, perché « di lassù mi guardavano e Lambert, forse m'avrebbe picchiato » (L'Adolescente, pp. 558-39).

Se chiedessimo a Sònja: « È bene quello che fai? » risponderebbe: « No ».

E ancora: « L'aiuto che dai a Vèrsilov ti giustifica? » risponderebbe: « Oh, no! ».

« Non sarebbe meglio che tè ne andassi? ». « No! ». « Ma cosa vuoi dire tutto questo? ». « Dio lo sa ». « E che cosa farai adesso? ». « Rimango ».

E noi dobbiamo crederle. Credere che possa darsi un'esperienza simile, vissuta e sofferta nella sua contradditorietà dolorosa: ma senza ricavarne un principio, una teoria.

Questa è la storia di Sònja. Ella però rifiuterebbe istintivamente anche solo di pensarla come l'abbiamo narrata noi. Ella la vive ma non ammetterebbe mai una giustificazione anche solo teorica, poiché questo farebbe sprofondare tutto nell'abisso. Per la propria salvezza, esigerebbe che fosse mantenuto un chiaro giudizio di condanna. Poiché ella può vivere solo a patto che questo giudizio non sia infirmato. Appena il suo fare e patire fossero accolti in una teoria che li spiegasse e li giustificasse, verrebbe infirmata la di-

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stinzione stessa tra ciò che è bene e ciò che è male. Comincerebbe allora quella mistificazione diabolica a cui soggiace Rodion Raskòlnikov e dalla quale Ivàn Karamàzov trarrà la sua filosofia della rivolta.

Sònja Semjònovna

Nel romanzo "Delitto e Castigo tocca a un'altra Sònja sostenere il peso delle cose incomprensibili.

Ella è la figlia di primo letto di un ex funzionario, il consigliere titolare Semiòn Marmelàdov. Questi si è risposato "per compassione" con una povera vedova, Katjerìna Ivànovna, ed anche da questo matrimonio sono venuti dei figli. Poi l'uomo ha cominciato a bere, si è rovinato, e il romanzo ha inizio con l'incontro, avvenuto in un'osteria, fra l'inquieto ed errabondo Raskòlnikov e Marmelàdov. Questi fa il racconto delle sue miserie: la famiglia si trova ridotta non solo in povertà ma nell'indigenza assoluta e un giorno Katjerìna Ivànovna ormai consunta dalla tisi ha rinfacciato alla figliastra di non essere di alcun aiuto, di non fare quello che tante altre fanno, sicché questa è uscita in silenzio ed è andata a vendersi. Per la denuncia di alcune vicine malevole, Sònja ha poi dovuto farsi iscrivere nella lista delle prostitute e ora la famiglia vive del suo disonore.

Dopo il suo delitto Raskòlnikov capita per caso in questa famiglia. Egli sente che la fanciulla si trova in una situazione analoga alla sua, esclusa dalla cerchia delle persone rispettabili. Mentre in ogni altro luogo egli è costretto a tacere, qui può parlare. Si confida con lei ed infine, dopo aver lottato a lungo con se stesso, segue il consiglio di Sònja e va a costituirsi.

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Viene così condannato; ella lo segue in Siberia e lo aiuta col suo amore a rinascere a una vita nuova.

Sònja è la più soave tra le figure femminili di Do-stojevskij. Ben si può dire ch'ella rappresenti per lui l'infanzia cara a Dio e sia espressione del mistero del Regno di Dio che va ai fanciulli e agli umili, non ai grandi e ai sapienti, e accoglie i pubblicani e le peccatrici mentre la gente rispettabile e "per bene" •lo rifiuterà. Così ella è "creatura di Dio" in un senso tutto particolare, in quanto cioè su di lei sta insondabile il mistero della divina Provvidenza. In questo mondo ella è indifesa, eppure è avvolta nella sollecita protezione del Padre.

Sònja ci appare la prima volta quando si reca da Raskòlnikov per invitarlo all'ufficio funebre di suo padre:

In questo momento l'uscio si aprì piano e nella stanza, guardandosi timidamente attorno, entrò una fanciulla. Tutti si volsero verso di lei con meraviglia e curiosità. Raskòlnikov di primo acchito non la riconobbe. Era Sònja Semjò-novna Marmelàdova... Era una ragazza modestamente e quasi poveramente vestita, dall'aspetto ancora molto giovanile che quasi sembrava una bambina, modesta e garbata di modi, con un viso sereno, ma come un po' spaurito. Aveva indosso un vestitino da casa semplicissimo, in capo un vecchio cappello non più di moda... Avendo inaspettatamente trovato una stanza piena di gente, più che rimanere impacciata, si smarrì del tutto, s'intimidì come un bimbo, e fece anche la mossa per ritirarsi.

E più avanti:

Durante la conversazione Raskòlnikov l'aveva attentamente considerata. Ella aveva un visetto magrolino, molto

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pallido, abbastanza irregolare, un po' aguzzo, con un piccolo naso e un mento aguzzi. Non la si poteva neppur dire bellina, ma in compenso i suoi occhi celesti erano così limpidi e, quando essi si animavano, l'espressione del viso diventava così buona e semplice, che involontariamente ci si sentiva attirati. Il suo volto, come tutta la sua figura, aveva poi anche una speciale caratteristica: non ostante i suoi diciott'anni, ella sembrava quasi ancora una fanciulletta, sembrava di gran lunga più giovane che non fosse, quasi una vera bambina, e tale caratteristica si manifestava a volte, in modo persino un po' buffo, in certe sue mosse. (Delitto e Castigo, voi. I, pp. 283 e 285-6).

Ma soprattutto quando Raskòlnikov, che ella ormai ama con tutta l'anima, le lascia indovinare il suo delitto, appare in lei e ci commuove il candore infantile.

... La guardava e a un tratto gli sembrò di vedere nel suo viso quello di Lizavèta, quando egli le si avvicinava con l'accetta e lei indietreggiava verso la parete, con un ' braccio teso in avanti, con uno spavento tutto infantile sul volto, proprio come i bimbi, quando cominciano d'un tratto ad aver paura di qualche cosa, e guardano fissi con inquietudine l'oggetto che li spaventa, indietreggiano e, tendendo innanzi la manina, si preparano a piangere. Quasi la stessa cosa accadeva ora a Sònja: ugualmente inerte, ugualmente sbigottita, lo guardò un po' di tempo, e d'un tratto, allungando innanzi il braccio sinistro, lievemente, appena appena gli appoggiò le dita sul petto e prese a sollevarsi adagio dal letto, arretrando sempre di più, mentre il suo sguardo si faceva sempre più immobile. L'orrore di lei si comunicò d'improvviso anche a lui: proprio lo stesso sgomento comparve anche sul suo volto, proprio allo stesso modo cominciò egli pure a guardarla, e quasi perfino con lo stesso sorriso infantile. (Delitto e Castigo, voi. II, p. 163).

Una volta Raskòlnikov, in un'ora di felice abbandono, pensando a Sònja sente la sua immagine sorgergli

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spontaneamente dal cuore e l'associa a quella Lizavèta a cui Sònja era unita da un'amicizia singolare. "Lizavèta, Sònja, care, silenziose creature. Voi non vi difendete, ve ne andate... dolce, cara Sònja". Forse in queste parole è la chiave di quest'anima così semplice eppur misteriosa. Sònja non si difende; accetta. "Non chiedere nulla, non rifiutare nulla", così è stata definita una volta la suprema santità del cuore. Qualcosa di simile ci sembra di scorgere qui, pur nel paradosso di una situazione terribile. Sònja accetta la rovina immeritata in cui l'ubriachezza del padre ha gettato la famiglia. Non cerca di difendersi, neppure ribellandosi inferiormente o, almeno, esprimendo un giudizio. Trova, naturale che la matrigna le rinfacci la loro miseria. E quando Raskòlnikov si esprime poco favorevolmente nei riguardi della donna, ne prende le parti:

Mi batteva! Che avete mai detto? O Dio! mi batteva! E anche se mi avesse battuta, che ci sarebbe! Via, che ci sarebbe? Voi non sapete nulla, nulla... (Delitto e Castigo, voi. II, p. 52).

Sònja non si difende, ma non è debole. Quando •occorre, questa personcina rivela una forza indomabile. Nella chiarezza della sua coscienza singolarmente diritta tien testa all'uomo che pure ella ama quando egli tenta di giustificarsi con la teoria del superuomo. Esige da lui la verità inferiore e l'espiazione della colpa. Ma lo segue poi in Siberia e condivide i suoi sentimenti. Là, dove il sacrificio spontaneo sembra essere la sua naturale atmosfera, ella s'incarica con la stessa spontaneità ed energia dell'assistenza ai condannati, sicché "mammina Sònja" diventa in breve tempo un personaggio importante. Le lettere in cui ella

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manda notizie ai parenti di Raskòlnikov esprimono in maniera assai caratteristica la forza serena che emana di tanta abnegazione:

Sònja... ogni mese regolarmente scriveva a Pietroburgo... e regolarmente ogni mese riceveva di là una risposta. Le lettere di Sònja parvero dapprima a Dùnja e a Razumichin — sorella e cognato di Raskòlnikov — un po' aride e poco esaurienti; ma finirono tutt'e due per riconoscere che meglio non si poteva scrivere, perché da quelle lettere ri- • sultava pur sempre l'immagine più completa e più precisa della sorte del loro infelice fratello. Le lettere di Sònja eran piene di una realtà quotidiana, di una descrizione quanto mai semplice e chiara di tutto l'insieme della vita di Raskòlnikov nel reclusorio. Non vi si esponevano ne le speranze personali di lei, ne le sue congetture sull'avvenire e nemmeno ella vi descriveva i propri sentimenti. Anziché dei tentativi di spiegare lo stato morale di lui e in genere tutta la sua vita intcriore, vi erano solo dei fatti, cioè parole da lui dette, notizie precise sullo stato della sua salute, desideri espressi nel tale colloquio, cose che le aveva chieste, o di cui l'aveva incaricata, eccetera. Tutte queste notizie venivan date nel modo più particolareggiato. L'immagine dello sventurato fratello finì per venir fuori da sé e disegnarsi precisa e limpida; ne ci potevano essere errori, perché tutti quelli eran fatti genuini. (Delitto e Castigo, voi. II, pp. 312-13).

C'è qui un chiara e coraggiosa aderenza alla realtà. E ci troviamo così davanti al paradosso di un atteggiamento inerme che in ultima analisi è un segno di forza, e proprio solo di chi si sente nelle più profonde radici dell'essere perfettamente sicuro. Ci sembra di vedere attuato qui qualcosa di simile a ciò che esprime la parola di san Paolo: "Non resistete al male, ma vincete il male col bene", o anche la parola del Signore: "Se uno ti percuote sulla guancia sinistra, offrigli anche la destra".

C'è qui la forza di una libertà inconsapevole, un

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Ulteriore raccoglimento verso un centro sicuro, sebbene non di sé cosciente.

Un giorno il discorso cade sulla spaventosa miseria che regna nella casa di Sònja:

Sònja disse dò in uno stato di disperazione, agitandosi e soffrendo, mentre si torceva le mani. Le sue pallide guance si accesero di nuovo, nei suoi occhi si espresse lo spasimo. Si vedeva che era tutta rimescolata, che aveva una gran voglia di dire qualcosa, di parlare, di prender le parti di Katjerìna Ivànovna. Una specie di pietà insaziabile, se così d si può esprimere, si dipinse all'improvviso in tutti i suoi lineamenti. {Delitto e Castigo, voi. II, p. 51).

"Compassione insaziabile": l'altruismo che la disarma e le fa accettare un destino qualsiasi senza giudicare, senza condannare; che le da anche la genialità del cuore, ond'ella vive, come se fosse sua, la sorte altrui, ma senza pretenziosità, senza inframmettenze e vanità alcuna. La sua è pura, fervida partecipazione.

In questo fervore generoso la figura e il destino del suo prossimo emergono chiaramente e acquistano l'ambito dove esprimersi nella propria verità. Così, ad esempio, quando ella prende le parti della sua disgraziata matrigna:

È così infelice; ah, com'è infelice! Ed è malata... Perdo cerca giustizia... È pura... Crede che in tutto vi debba essere giustizia e lo esige. E se anche la tormentate non farà niente di male. Lei stessa non si accorge che è impossibile che tra uomini vi sia giustizia, e si irrita... È come un bambino, come un bambino, è giusta, giusta.

Una donna, forse è bene ricordarlo, parla così di un'altra donna che l'ha spinta a disonorarsi. Questa compassione chiaroveggente assurge a vera

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grandezza nell'ora in cui Raskòlnikov le confessa il suo delitto.

Come inconscia di sé ella balzò su, e, torcendosi le mani, andò fino al mezzo della stanza; ma rapidamente tornò a sedersi accanto a lui, quasi toccandogli la spalla con la propria. D'improvviso, come trafitta, sussultò, mandò un grido e, senza saperne neppure lei il perché, si buttò dinanzi a lui in ginocchio.

— Che avete fatto, che avete fatto di voi! — proferì disperatamente e, balzata in piedi, gli si gettò al collo, • Io abbracciò e lo strinse forte forte con le mani.

Raskòlnikov indietreggiò e la guardò con un triste sorriso;

— Come sei strana, Sònja, mi abbracci e mi baci dopo che ti ho detto di questo. Non hai coscienza di quello che fai.

— No, no, non c'è ora ai mondo uno più infelice di tè! — esclamò come un'esaltata, senza aver udito la sua osservazione e d'un tratto si mise a piangere dirottamente, come in un attacco isterico.

Un sentimento che egli da tempo più non conosceva affluì in un'ondata nella sua anima e di colpo la raddolcì. Egli non vi fece resistenza: due lagrime sgorgarono dai suoi occhi e rimasero sospese alle ciglia. (Delitto e Castigo, voi. II, p. 164).

Sarebbe naturale che si sentisse delusa: Raskòlnikov si è fatto amare senza dire con sincerità a quale destino quest'amore l'avrebbe legata e ora le parla senza affetto, come se piuttosto volesse vendicarsi del proprio affanno tormentandola. Sarebbe anche naturale che provasse sdegno o paura. Niente di tutto questo, invece. Ella ha nel cuore solo il destino di lui, lo vede in una luce che non inganna. Il suo destino vero, quello della sua anima. E quando, più tardi, egli cerca con dei sofismi di ricavare una teoria del suo delitto, non si lascia per nulla confondere:

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— Oh! tacete, tacete! — grido Sònja, giungendo le mani. — Vi siete allontanato da Dio, e Dio vi ha colpito, vi ha abbandonato al demonio!...

— A proposito, Sònja, quando io stavo coricato al buio e mi venivano tutti quei pensieri, era il demonio che mi tentava? Eh?

— Tacete! Non ridete, bestemmiatore, nulla, nulla voi comprendete. O Signore! Nulla, nulla egli • comprenderà! (Delitto e Castigo, voi. II, pp. 171-2).

Anche la sua vita non è senza colpa. A questa colpa ha ceduto per amore di altri. Certo, non avrebbe dovuto farlo. Ma l'aveva creduto un dovere. E perciò, nonostante tutto, è pura e la sua purezza sta nel subire soffrendo ciò che ella aborrisce.

— Vorrei vedere che questo non fosse un orrore! Che non fosse un orrore il vivere, come fai, in questo fango per cui senti tant'odio, e nello stesso tempo sapendo anche tu (basta solo aprir gli occhi) che con questo non aiuti nessuno e non salvi nessuno da niente! Ma dimmi dunque, una buona volta, — proferì, quasi con esaltazione, — come mai una simile vergogna e tanta bassezza possono trovar posto in tè accanto ad altri opposti e sacri sentimenti? Sarebbe più giusto, vedi, mille volte più giusto e più ragionevole gettarsi a capofitto nell'acqua e finirla di colpo! . — E di loro che sarebbe? — domandò debolmente Sònja dopo avergli dato un sguardo pieno di sofferenza, ma nello stesso tempo come se non si meravigliasse per nulla del suo consiglio. Raskòlnikov la guardò stranamente.

Egli lesse tutto in quel solo suo sguardo. Ella stessa dunque aveva già avuto quel pensiero. Forse molte volte e seriamente aveva pensato, nella sua disperazione, come finirla di colpo, tanto seriamente che ora quasi non si era sorpresa del suo consiglio... Che cosa, che cosa aveva potuto fino a quel giorno arrestare la sua decisione di farla finita di colpo? E allora soltanto comprese pienamente che cosa significassero per lei quei poveri, piccoli orfanelli e quella pietosa, semipazza, Katjerìna Ivànovna con la sua tisi e il suo picchiar la testa nel muro.

Ma nondimeno gli era chiaro, d'altra parte, che Sònja,

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col suo carattere e con l'istruzione che pure aveva ricevuta, in nessun caso poteva restarsene così. Tuttavia esisteva per lui un quesito: come mai aveva potuto, anche già troppo a lungo, rimanere in quello stato senza impazzire, se non aveva la forza di buttarsi nell'acqua?... Che cosa mai la sorreggeva? Non già la depravazione? Tutta quella. sozzura evidentemente l'aveva toccata solo in modo meccanico; di vera depravazione nel suo cuore non n'era penetrata ancora nemmeno una goccia: egli lo vedeva; ella stava dinanzi ai suoi occhi... (Delitto e Castigo, voi. II, pp. 57-58).

Una prima risposta l'ha già data egli stesso. Ma poi indovina:

Passarono forse cinque minuti. Egli camminava sempre in su e in giù, tacendo e senza guardarla. Infine le si avvicinò; gli scintillarono gli occhi. La prese per le spalle con le due mani e la guardò diritto nel viso lacrimoso. Il suo sguardo era arido, infiammato, penetrante, le labbra ' gli tremavano. A un trattò si chinò tutto rapidamente e, prosternatosi a terra, le baciò il piede. Sònjecka si scostò barcollando da lui, come da un pazzo. E in realtà egli aveva proprio l'aria di un pazzo.

— Che fate, che fate? Davanti a me! — ella mormorò impallidendo, e il cuore le si strinse dolorosamente. Egli si alzò subito.

— Non a tè mi sono inchinato, ma a tutta la sofferenza umana, — proferì in un certo modo bizzarro e si allontanò verso la finestra. — Ascolta, — aggiunse, tornando verso di lei dopo un minuto, — poco fa ho detto a un mio offensore che egli non valeva il tuo solo dito mignolo... e che oggi ho fatto onore a mia sorella mettendola a sedere accanto a tè!

— Ah, che gli avete mai detto! E davanti a lei! — gridò spaventata Sònja, — sedere in mia compagnia! Un onore! Ma io... non ho onore... Ah, perché avete detto questo?

— Non per il tuo disonore e il tuo peccato ho detto questo di tè, bensì per le tue gran sofferenze. Ma che tu sia una peccatrice, è proprio vero — soggiunse quasi ispirato, — e per questo soprattutto sei peccatrice, che inutil-

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mente hai ucciso e venduto tè stessa. (Delitto e Castigo, voi. II, pp. 56-57).

Vi è un elemento decisivo, che più avanti è messo ancora in evidenza: "Immaginatevi, Sònja,... di sapere che... Katjerìna Ivànovna e anche i bambini sarebbero periti ugualmente e anche voi, per giunta (siccome voi non vi contate per nulla, così dico per giunta)." In questo caso l'avrebbe fatto ugualmente. Ciò che in lei vive è puro dono di sé e non considera il valore della posta messa in giucco ma dona semplicemente, dona tutto anche quando il sacrificio sembra inutile. Qui si esprime un atteggiamento di assoluto disinteresse e proprio in questo oblio di sé sta in un senso prorondo la salvezza di Sònja.

Nel grande dialogo, caro- a Dostojevskij, Raskòl-nikov, con la sua cattiveria abituale, ha fatto sentire a Sònia profondamente tutta la sua miseria.

Egli poi continua:

— Tu dunque, Sònja, preghi molto Dio? — le domandò.

Sònja taceva, egli stava in piedi accanto a lei e aspettava la risposta.

— Che sarei mai senza Dio? — sussurrò ella rapida, con energia, alzando su di lui i suoi occhi tutt'a un tratto scintillanti, e gli serrò forte la mano nella propria...

— E Dio che cosa fa per tè? — domandò [egli], continuando l'interrogatorio.

Sònja tacque a lungo come se non potesse rispondere. Il suo debole petto palpitava dall'agitazione.

— Tacete! Non fatemi domande! Voi non siete degno!.. gridò ad un tratto guardandolo severamente e con collera...

— Tutto fa! — ella sussurrò rapidamente, abbassando di nuovo gli occhi...

Con una nuova e strana, quasi morbosa sensazione egli considerava quel pallido, magro e irregolare volto ango-

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loso, quei miti occhi azzurri che potevano scintillare di tanto fuoco, di un così austero ed energico sentimento. quel piccolo corpo ancora tremante di sdegno e di collera e tutto ciò gli pareva più strano, quasi impossìbile. (Delitto e Castigo, voi. II, pp. 59-60).

Questa fanciulla vive, pur in mezzo a tanta corruzione, una profonda vita cristiana. Che significa la strana risposta: "Che sarei mai senza Dio?" e l'altra, ancora più sorprendente: "Tutto fa per me?" Cos'è questo "tutto" e cosa è Sònja « per opera di Dio? ».

Forse l'unica risposta possibile è questa: Egli le è vicino nella Sua realtà vivente. La vita di Sònja è terribile. Tutto vi è terribile ed incomprensibile. "Ma perché non ti ho conosciuto prima! Perché non sei venuto prima?" grida a Raskòlnikov, dopo aver capito l'orrenda verità. Ora, questo "perché" pesa su tutta la sua vita. Ella lo sente e tuttavia sa che "Dio fa tutto" per lei. Applicare il metro della ragione o della giustizia qui non conduce a niente. Ma Dio si manifesta a questa creatura nella sua vivente realtà. Egli è Lui, ossia quel "tutto". Ed ella sta nel Suo cospetto. Come non sentire un profondo rispetto quando una creatura può dire di sé "Ciò che io sono, lo sono per volontà di Dio"? Poter dire questo è un segno di autentica esistenza religiosa. È tutta l'intimità dell'adozione divina in un'esistenza per il mondo irrimediabilmente perduta. E infatti si dimostrerà che "ciò che presso gli uomini è impossibile, è possibile presso Dio".

Perciò Raskòlnikov ha ragione di pensare che secondo Sònja un miracolo di Dio potrebbe accadere in qualunque momento. Sònja lo crede davvero, senza vedere per questo l'esistenza come in una 5aba.

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Poiché ella è là dove vivono coloro che Cristo ha detto beati.

Segue poi l'episodio indimenticabile del Nuovo Testamento.

Sul cassettone giaceva un libro. Ogni volta nell'andar su e giù egli l'aveva notato, ma ora lo prese e lo guardò. Era il Nuovo Testamento nella traduzione russa. Era un vecchio libro, usato, con legatura in cuoio.

— Questo di dove viene? — le gridò dal fondo della stanza. Ella era sempre ritta allo stesso posto, a tré passi dalla tavola.

— Me l'hanno portato, — rispose, come di malavoglia e senza guardarlo.

— Chi l'ha portato?

— Lizavèta l'ha portato, l'avevo pregata.

— Lizavèta! Strano! egli pensò. Tutto in Sònja diventava per lui più strano e prodigioso di minuto in minuto. Egli portò il libro verso la candela e si mise a sfogliarlo. (Delitto e Castigo, voi. II, p. 60).

Ora egli vuole che Sònja gli legga la storia del povero Lazzaro, il morto già in stato di putrefazione nel quale Cristo ha mostrato il suo potere sopra la morte, il suo potere di donare una vita nuova, poiché Egli è "la resurrezione e la vita". Ma ella si schermisce.

— Leggi! Voglio così — egli insistè, — leggevi pure a Lizavèta.

Sònja aprì il libro e cercò il punto. Le mani le tremavano, la voce le mancava. Due volte cominciò, senza riuscire mai a spiccare la prima parola.

— « Or v'era un certo Lazzaro, di Betania, infermo...'» — pronunziò alla fine con uno sforzo, ma d'un tratto, alla terza parola la sua voce vibrò e si ruppe, come una corda troppo tesa. Le si mozzò il respiro e le si serrò il petto.

Raskòlnikov capiva fino a un certo punto perché Sònja non si risolvesse a leggere, e quanto più lo capiva, tanto

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più rude e irritata pareva tarsi la sua insistenza perché leggesse. Capiva troppo bene quanto le fosse penoso in quel momento scoprire e svelare tutto il suo intimo. Aveva capito che questi sentimenti costituivano in realtà il vero segreto di lei, e forse già da tempo remoto, forse dalla fanciullezza, quand'era ancora in famiglia, accanto al padre disgraziato e alla matrigna impazzita dai dispiaceri, fra bambini affamati, le grida furiose e i rimproveri... Ma nello stesso tempo egli sapeva ora, e sapeva con certezza, che, pur essendo angosciata e avendo, nel mettersi a leggere, una gran paura chissà di che cosa, ella aveva insieme, non ostante tutta l'angoscia e tutti i timori, una voglia tormentosa di leggere, e precisamente a lui, perché egli udisse, e proprio allora, — « qualunque cosa dovesse poi accadere! »... Egli lesse ciò nei suoi occhi, lo capì dalla sua esaltata commozione... Ella si fece forza, represse nella gola lo spasimo che le aveva troncato la voce sul principio del versetto e seguitò la lettura del capitolo undicesimo del Vangelo di S. Giovanni. Lesse così fino al 19° versetto:

« E molti de' Giudei eran venuti a Marta e Maria per consolarle del loro fratello. Marta adunque, come udì che Gesù veniva, gli andò incontro: ma Maria sedeva in casa. E Marta a Gesù: Signore, se tu fossi stato qui, il mio fratello non sarebbe morto. Ma pure io so ancora al presente che tutto ciò che chiederai a Dio egli tei darà ».

A questo punto si fermò di nuovo, presentendo vergognosa che la sua voce avrebbe tremato e si sarebbe interrotta un'altra volta...

« Gesù le disse: II tuo fratello risusciterà. Marta gli disse: Io so ch'egli risusciterà nella risurrezione, nell'ultimo giorno. Gesù le disse: lo son la resurrezione e la vita, chiunque vive e crede in me, benché sia morto, vivrà. E chiunque vive e crede in me non morrà giammai in eterno. Credi tu questo? Ella gli disse: (e come se tirasse il respiro con dolore, Sònja lesse staccando le sillabe e con forza, quasi confessasse qualcuno ad alta voce): Sì, Signore:

io credo che tu sei il Cristo, il Figlio! di Dìo, che aveva da venire al mondo ». .

Ella stava per fermarsi, per alzare rapidamente gli occhi su di lui, ma presto si vinse e continuò a leggere. Ra-skòlnikov stava seduto e ascoltava immobile, senza voltarsi, coi gomiti sulla tavola e guardando in disparte. Arrivarono al 32° versetto.

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« Maria adunque, quando fu venuta lì ove era Gesù, vedutolo, gli si gettò ai piedi, dicendogli: Signore, se tu fossi stato qui, il mio fratello non sarebbe morto. Gesù adunque, come vide ch'ella, ed i Giudei ch'erano venuti con lei, piangevano, fremè nello spirito e si conturbò. E disse: Ove l'avete voi posto? Essi gli dissero: Signore, vieni e vedi. E Gesù lacrimò. Là onde i Giudei dicevano:

Ecco come l'amava. Ma alcuni di loro dissero: Non poteva costui, che aperse gli occhi al cieco, fare ancora che costui non morisse? ».

Raskòlnikov si era voltato verso di lei e la guardava commosso... Lei tremava già tutta in preda a vera, autentica febbre... Ella si avvicinava alla narrazione del grandissimo e inaudito miracolo, e un senso di grandiosa solennità l'aveva afferrata. La sua voce si era fatta sonora come metallo; solennità e gioia suonavano in quella e la rendevano più forte. Le righe si confondevano dinanzi a lei, perché la vista si oscurava, ma ella sapeva a memoria quel che leggeva. All'ultimo versetto: « non poteva costui, che aperse gli occhi al cieco... », ella, abbassata la voce, seppe rendere con passione e calore il dubbio, il rimprovero e il biasimo degli increduli, ciechi Giudei che un momento dopo, come colpiti dal fulmine, sarebbero caduti a terra singhiozzando e avrebbero cominciato a credere... «E anche lui, anche lui è accecato e incredulo, anche lui ora udrà, anche lui comincerà a credere, sì, sì! adesso, subito», fantasticava e tremava di gioiosa aspettazione.

« Là onde Gesù, fremendo di nuovo in se stesso, venne al monumento. Or quello era una grotta, e v'era una pietra posta disopra. E Gesù disse: Togliete via la pietra. Ma Marta, la sorella del morto, disse: Signore, egli pute già; perciocché egli è morto già da quattro giorni ».

Ella accentuò con energia la parola: quattro.

« Gesù le disse: non t'ho io detto che, se tu credi, tu vedrai la gloria di Dio? Essi adunque tolsero via la pietra dal luogo ove il morto giaceva. E Gesù, levati in alto gli occhi, disse: O Padre, io ti ringrazio che tu m'hai esaudito. Or bene sapevo io che tu sempre m'esaudisci, ma io ho detto ciò per la moltitudine qui presente: acciocché credano che tu m'hai mandato. E detto quello, gridò con gran voce: Lazzaro vieni fuori. E il morto uscì... »

(Con voce alta e ispirata, tremando e rabbrividendo, come se coi suoi occhi lo vedesse, seguitò):

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« ... avendo le mani ed i piedi fasciati, e la faccia involta in un asciugatoio. Gesù disse loro: scioglietelo e lasciatelo andare.

« Là onde molti de' Giudei ch'erano venuti a Maria, vedute tutte le cose che Gesù aveva fatte, credettero in\ lui ».

Più oltre ella non lesse, ne potè leggere: chiuse il libro e si alzò rapidamente dalla sedia.

— Continua a parlare della risurrezione di Lazzaro, — sussurrò a scatti, severamente, e rimase immobile, voltata da una parte, senza aver l'animo e come vergognandosi di levar gli occhi su di lui. Il suo tremito febbrile durava ancora. Il mozzicone di candela già da un pezzo si andava spegnendo nel candeliere storto, illuminando di luce scialba in quella misera stanza l'assassino e la peccatrice, stranamente uniti nella lettura del libro eterno. (Delitto e Castigo, voi. II, pp. 61-64).

Qui ci si rivela il vero segreto di Sònja.

Ella è là dove, secondo la parola di Cristo, si trovano gli umili e i reietti, i pubblicani e i peccatori. Tra lei e il Cristo c'è un'intesa; essi hanno un segreto in comune.

Questo le conferisce autorità, di questo ella vive. Di qui le viene quella chiarezza intcriore che le vieta di lasciarsi sedurre dai sofismi di Raskòlnikov, quantunque ella lo ami.

Ma ciò che si è detto dell'altra Sònja vale anche per lei. Ella non cerca di giustificare la sua esistenza. La vive, semplicemente; la subisce. Non ne ricava una teoria, nemmeno ai fini di comprenderla. La accetta, invece, nel suo incomprensibile intreccio perché crede di dover fare così. Tutto diventerebbe falso, ingannevole, demoniaco, se ella cercasse di giustificarsi; ella stessa ne perirebbe.

Un giorno che Raskòlnikov vorrebbe discutere Con lei la sua teoria del superuomo e il diritto che alcuni avrebbero di vivere, altri no, ella gli risponde:

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"Ma io non posso mica conoscere la Divina Provvidenza... E perché domandate quello che non si può domandare? Perché queste domande vuote?"

Son parole dette in una circostanza particolare, ma rivelano il rispetto di Sònja per il mistero delle cose sante.

Ne la ragione, ne la coscienza morale possono aiutarci a chiarire la posizione di Sònja e chi credesse di averla capita farebbe bene a non fidarsi troppo. Che forse egli ha in qualche modo offuscato la linea intangibile di distinzione tra il bene ed il male.

Sònja stessa non capirebbe. La sua pace interiore, cristiana sta nel non giustificarsi in alcun modo — qui anche solo voler capire significherebbe voler cercare una giustificazione — e nel continuare a vivere così, convinta della sua colpa; in attesa di un segno e pronta alla penitenza, con una fiducia che ella stessa non oserebbe esprimere apertamente.

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CAPITOLO TERZO

GLI UOMINI SPIRITUALI

II popolo e gli uomini spirituali

Siamo partiti dalla posizione religiosa del popolo. Abbiamo visto l'oscura folla anonima esprimere alcune figure singole, le "donne credenti", nei Fratelli Karamàzov. Due personaggi dei Demoni, Sàtov e Màrja Lebjàdkina, hanno poi rivelato in quell'atteggiamento la presenza di forze distruttive latenti e la loro personalità ci è così apparsa con caratteri più spiccati. Siamo giunti infine alle due Sònje, la madre dell'Adolescente e l'amica di Raskòlnikov, esse pure ancora "popolo", ma figure già molto nettamente individualizzate. Abbiamo spiegato la loro esistenza partendo da quel loro consenso totale alla vita nel quale ci è parso vedere il carattere peculiare del sentimento religioso del popolo, qui però in una situazione quanto mai scabrosa e difficile, e ci siamo trovati così in presenza di un fatto che una coscienza occidentale chiara e diritta non può risol-versi di accettare: nello smarrimento di una situazione umanamente confusa e moralmente equivoca, una fede ingenua e fiduciosa e un sincero spirito di dedizione hanno trovato un sostegno in qualche cosa che, in un senso razionalmente non più definibile, è più profondo della semplice distinzione che

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la coscienza morale opera tra il bene e il male, sebbene non porti affatto a cancellarla minimamente. E quanto profonda sia anche in queste due anime la certezza nella trasformazione redentrice della esistenza ad opera di una sofferenza accettata nella fede dicono le parole con le quali si chiude il dialogo tra Sònja e Raskòlnikov: "Prenderai su di tè la tua sofferenza e troverai così la redenzione... Poi verrai da me e io tè la metterò al collo (la crocetta donata da Sònja a Raskòlnikov), poi pregheremo e andremo via insieme".

Ci avviciniamo ora a un altro gruppo di figure le quali hanno a fondamento comune ancora la stessa realtà di cui abbiamo parlato: la vita, vissuta nella viva unione con le grandi forze dell'esistenza. Qui, anzi, quest'unione si purifica ulteriormente e si trasfigura giungendo a vera consapevolezza. Sono gli "uomini spirituali": il pellegrino Macario Dogol-ruki nell''Adolescente, l'arcivescovo Tichon nei Demoni, lo stàrets Zòsima nei Fratelli Karamàzov, dietro a cui sorge la figura del fratello Markèl, morto avanti tempo, e, finalmente, il discepolo dello stàrets, Aleksjèj Karamàzov, soprannominato Aljòsa.

Di Aljòsa che è una figura a parte parleremo nel capitolo seguente, mentre Tichon può essere considerato, nonostante alcune caratteristiche personali, come una prefigurazione dello stàrets. Avremo perciò da occuparci di quest'ultimo, in cui rivive il giovane fratello Markèl, e di Macario, il pellegrino.

Li abbiamo chiamati uomini spirituali, homines religiosi nel vero senso del termine. Anche nella vita degli altri personaggi di Dostojevskij prevale il fatto religioso, ma questo non si traduce in precisi atti

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spirituali, opera piuttosto nel complesso dell'esistenza e l'orienta verso Dio. Le donne credenti, dopo essersi avvicinate con l'aiuto dello stàrets al mistero divino tornano alla loro vita quotidiana. Sònja Andrèjevna resta la compagna di Vèrsilov e più tardi, mortole il marito, ne diverrà la moglie. L'altra Sònja si consacra tutta al suo amico e in seguito si unirà con lui. Questi uomini, invece, esprimono direttamente il momento religioso. In loro, esso appare in se stesso e domina su tutto il resto.

Ma poiché essi riconoscono a tutta l'esistenza un valore positivo, diventano con ciò stesso gli interpreti del senso religioso che è negli altri.

Macario, il pellegrino

Del pellegrino Macario abbiamo già parlato a proposito di Sònja, sua moglie. Ci è descritto come un vegliardo di bell'aspetto e di nobile carattere, geloso del proprio onore e pieno di dignità. In gioventù era chiamato "il tenebroso", forse a significare che egli, servo della gleba, era superiore come uomo alla sua condizione sociale e reagiva a questa situazione falsa assumendo un atteggiamento volu-tamente accentuato.

Macario è già anziano quando Sònja gli è data in moglie. Poiché le vuoi molto bene, il colpo che riceve quando viene a sapere ciò che è avvenuto fra lei e Vèrsilov, il padrone, è terribile.

Quando quest'ultimo gli confessa tutto e gli fa capire di non esser disposto a lasciare Sònja, egli rimane padrone di sé. Non s'abbandona a scenate.

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Riconosce un destino al quale ne umanamente ne socialmente potrebbe opporsi e si rassegna. Si trae per così dire in disparte e lascia Sònja libera, senza tuttavia approvare il tatto compiuto. Nel racconto che Vèrsilov fa all'Adolescente è detto:

Gli offrii allora tremila rubli e ricordo che taceva sempre, mentre io continuavo a parlare... Gli assicurai sulla mia parola che, se avesse accettato le mie condizioni, cioè tremila rubli, la libertà (a lui e alla moglie beninteso)... lo

•dicesse senz'altro e immediatamente gli avrei dato la libertà. Avrei fatto tornare a lui la moglie — più tardi, intende dire Vèrsilov — li avrei ricompensati con tremila rubli... Macario capiva benissimo che avrei fatto quel che dicevo, eppure continuò a tacere e soltanto quando lo volli abbracciare per la terza volta, si scansò, fece un gesto vago con la mano e s'andò con una tale disinvoltura che, t'assicuro, ne rimasi stupito. Mi vidi allora di sfuggita nello specchio e non me ne dimenticherò mai più. In genere

•quando questi tipi non parlano è peggio; era un carattere cupo e confesso che non soltanto non mi fidavo di lui,

•quando l'avevo chiamato nel mio studio, ma ne avevo una paura terribile: esistono tra quella gente caratteri, ve ne sono anzi moltissimi, che racchiudono in sé, per così dire, la personificazione di quel ch'è fuori del solito ordine e questo fa più paura delle percosse... Ecco perché avevo tirato fuori anzitutto i tremila rubli; fu un atto istintivo, m» per fortuna m'ero ingannato: Macario Ivànovic era un tipo del tutto diverso... Il giorno dopo acconsentì al viaggio..., senza una parola, s'intende... ma senza dimenticare uno solo dei compensi da me offerti.

— Prese il denaro?

— Altro che!... Non disponevo subito di tremila rubli, ma riuscii a trovarne settecento e glieli consegnai per le prime necessità. Ebbene: egli volle da me gli altri duemila trecento rubli sotto forma di una cambiale avallata, per

•sicurezza, da un commerciante. Dopo due anni reclamò legalmente il pagamento di quella cambiale con i relativi interessi, il che mi fece addirittura sbalordire, tanto più che girava allora a raccogliere fondi per la costruzione di

•un tempio. Da allora sono ventitré anni che gira il mon-

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do come un pellegrino. Non capisco perché un pellegrino abbia bisogno di tanto denaro personale... Il denaro... il denaro è una cosa a tal punto mondana. Io, beninteso, glielo avevo allora offerto sinceramente e, a dir la verità, nel primo impeto di ardore, ma poi, dopo tanto tempo, avrei potuto anche pentirmi... e speravo che avrebbe avuto qualche riguardo per me... o almeno per noi, me e lei, e che avrebbe almeno atteso qualche tempo. Invece non volle attendete per niente. (L'Adolescente, pp. 211-213).

Tutto questo è molto caratteristico. Ad onta dell'affronto atroce, nonostante il suo profondo dolore Macario accetta la somma offerta, fa metter tutto per iscritto e a tempo debito reclama non solo il denaro promesso ma anche gli interessi. È contadino e conosce la vita. Di Vèrsilov non si fida, soprattutto nei riguardi di Sònja e i fatti gli daranno ragione... Queste apparenti contraddizioni si conciliano nella sua grande anima perché, al di là di tutte le distinzioni, essa ha un suo centro segreto, profondo e impenetrabile alla nostra intelligenza, dal quale, senza infirmare le distinzioni valide nel mondo empirico, tutto può abbracciare, tutto capire, tutto sopportare, tutto penetrare d'amore.

Così Macario, nei lunghi anni che seguiranno quell'avvenimento, non modificherà il suo giudizio. Anche il dolore non si placa. L'offesa continua a bruciare e il desiderio di colei che pure è sua moglie è sempre vivo. Ma non ne parla. Lascia le cose come sono e sopporta tutto, con grande dignità, senza trarre profitto dalla situazione. E dimostrando sempre una gentilezza e un rispetto immutati, mantiene limpida la sua posizione. Di tanto in tanto va a trovare i suoi "figliuoli", verso i quali è .sempre ugualmente affabile. Ogni anno scrive la stessa lettera serena e riguardosa.

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— Sì, amico mio, e ti confesso che dapprima queste visite mi davano una terribile apprensione- in questi venti anni venne sei o sette volte e in principio, se capitavo in casa, non mi lasciavo vedere. Non capivo allora che significato avessero queste visite, ne perché venisse da noi. Ma più tardi, grazie ad alcune riflessioni, compresi come non fosse affatto stupido da parte sua. Infine, per puro caso, mi venne in mente di vederlo più da vicino, uscii dalla mia stanza per osservarlo e ti assicuro che egli mi fece un'impressione più che originale. La sua terza o quarta visita cadde appunto nell'epoca, in cui avevo assunto il posto di giudice istnittorc e in cui, naturalmente, m'ero messo, con tutte le mie forze, a studiare la Russia. Appresi da lui moltissime cose nuove. Trovai inoltre in lui proprio quello che mai mi sarei aspettato di trovare: una certa benevolenza, un carattere equilibrato e, cosa ancor più straordinaria, una certa allegria. Neanche la minima allusione a quel fatto (tu comprendi, vero?) ed un'arte sopraffina nel dire le cose con calma e magnificamente... E difficilmente parlava di religione, a meno che un altro portasse il discorso su quel tema; sapeva anche divertentissime storie sui conventi e la vita monacale, per chi si fosse interessato dell'argomento. E c'era in lui quel rispetto modesto, indispensabile alla vera eguaglianza, e senza cui, a mio parere, non si può raggiungere la perfezione. Anzi la mancanza di qualsiasi superbia permette di raggiungere la più alta dignità: quella d'un uomo che stima se stesso in qualsiasi situazione si trovi. (L'Adolescente, pp. 214-15).

Il fatto, nella sua sostanza, rimane immutato nel suo cuore. Tuttavia egli accoglie a poco a poco Sònja, Vèrsilov ed i loro figli sotto la sua protezione paterna. Diventano i suoi figli ed egli li ama di un amore che si libera tutto nella fede. Di un amore, vorrei dire, che ricorda l'amore del Padre celeste nel Nuovo Testamento, caldo, profondo, forte e generoso. E quantunque il bene resti sempre bene e il male male, quantunque l'onore sia sempre l'onore e l'offesa bruci, questo amore lo solleva sopra queste contraddizioni ed egli può contemplarle tutte dal-

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l'alto, un po' come il Padre che è nei cicli, di cui si dice nel Vangelo che "fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e piovere sui giusti e sugli ingiusti".

Abbiamo già detto come Macario dopo quell'avvenimento sia sempre in pellegrinaggio. Con questa parola non s'intende un pellegrinaggio occasionale ma una forma ascetica di vita. Ne parlano anche altri autori russi, per esempio Nikolàj Leskov nel Viaggiatore incantato e un anonimo nella Vita del pellegrino russo. Staccato interiormente da tutto, Macario va di paese in paese vivendo in uno spirito di rinuncia, rivolto solo a Colui che egli custodisce. in sé: Cristo.

Dio gli ha imposto quella sofferenza; egli l'accetta e la vive nell'imita2Ìone di Cristo. Così si compie in lui una profonda trasformazione. Il suo carattere si purifica, egli raggiunge la perfetta umiltà e il disinteresse assoluto. Diventa affabile, allegro, aperto. Quello che c'era in lui di buono viene in luce; appare la figura nascosta che solo di Dio vive. Il carattere individuale non va perduto, acquista anzi una pienezza e una chiarezza originali. Così Macario diventa una grande e pura espressione dell'anima del popolo.

Ecco come l'Adolescente ci descrive il suo aspetto:

Un vecchio completamente canuto, dalla lunga barba bianchissima, era seduto nella camera, ed evidentemente vi si trovava da un pezzo. Non sedeva sul letto, ma sullo sga-belletto di mamma, appoggiandosi al letto con la schiena. D'altronde, si teneva così diritto, che sembrava non avesse bisogno di alcun sostegno, benché fosse evidentemente malato. ... Aveva il viso allungato, i capelli foltissimi, ma non molto lunghi; dimostrava all'apparenza una settantina d'anni. Accanto a lui, sul tavolino, giacevano tré o quattro libri e un paio d'occhiali d'argento... Indovinai immediatamente

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chi fosse; soltanto non potevo capire come fosse rimasto per tutti quei giorni accanto a me, così quieto che fino a quel momento non l'avevo sentito.

Vedendomi non si mosse, ma mi diede uno sguardo intenso e silenzioso; anch'io lo guardavo, ma, mentre nei miei occhi c'era uno stupore sbalordito, nei suoi non c'era invece la minima meraviglia. Anzi, dopo avermi ben scrutato dalla testa ai piedi, in quei cinque o sei secondi di silenzio, egli a un tratto sorrise ed ebbe perfino un breve riso sommesso che, pur cessando quasi subito, gli lasciò una traccia luminosa e ilare sul viso e soprattutto negli occhi, ch'erano molto profondi e grandi ed irradiavano una luce particolare; aveva le palpebre abbassate e gonfie dalla vecchiaia e intorno gli occhi innumerevoli piccole rughe. Ma fu il suo viso soprattutto a colpirmi. (L'Adolescente, pp. 562-63).

La stessa luminosità è nel suo spirito.

Anzitutto m'attirava in lui la straordinaria purezza e l'assenza assoluta d'amor proprio che rivelava un cuore quasi scevro di peccati. Aveva « l'allegria » del cuore, e perciò « la virtù ». La parola « allegria » l'amava molto e la usava spesso. È vero che a tratti si sentiva in lui una strana estasi anormale, un intenerimento morboso: ma questo dipendeva in parte, suppongo, dal fatto che la febbre non l'abbandonava quasi mai e non turbava il suo « stato di grazia » '. C'erano in lui dei contrasti; accanto a una ingenuità, straordinaria, che a volte non s'accorgeva neanche dell'ironia (il che spesso mi faceva stizzire), c'era in lui anche una certa fine furberia, anzitutto nella polemica. Egli amava la polemica, ma vi si comportava in modo tutto suo e originale. (L'Adolescente, pp. 608-9).

Fino a che punto giungano quella luminosità e allegria appare in un breve episodio che si svolge nella camera del malato:

* Questa « estasi » è naturalmente tutt'altro che « morbosa ». Non dimentichiamo che il racconto è fatto da un « adolescente ».

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A un tratto scoppiò in una gran risata. Tatiana Pav-lovna, non so proprio perché, accusò il dottore d'essere ateo:

— Voi tutti dottorucci siete atei!

— Macario Ivànovic! — gridò il dottore fingendo, assai stupidamente, d'essere offeso e d'appellarsi a lui: — sono io un ateo?

— Tu un ateo? No, tu non sei un ateo, — rispose il vecchio con voce pacata, guardandolo fisso. — No, che Iddio sia lodato! — e scosse la testa: — Tu sei un uomo allegro.

— E chi è allegro non può essere ateo? — osservò il dottore con ironia.

— Anche questa è un'idea — disse Vèrsilov, senza ridere affatto. (L'Adolescente, pp. 594-95).

Quest'uomo è assolutamente disinteressato, definitivamente staccato da sé. Un episodio che troviamo a p. 598, parte terza del romanzo, ci colpisce. Il vecchio è seduto su di uno sgabello e il sole gli ferisce la vista. Sònja tenta inutilmente di spostare lo sgabello. Egli non se ne accorge. Lisa, la figlia di Sònja e di Vèrsilov, gli ordina sgarbatamente di alzarsi:

II vecchio le diede uno sguardo rapido, comprese e subito volle alzarsi, ma invano; si alzò per due palmi, poi di nuovo ricadde a sedere.

— Non riesco, uccellino mio, — disse a Lisa con tono lamentoso e guardandola come se si volesse scusare.

— Cianciar per delle ore vi riesce, ma per muovervi non avete la forza? ... Prendete la vostra gruccia, l'avete accanto, e alzatevi! — di nuovo l'apostrofò Lisa.

— Ah, è vero, — disse il vecchio affrettandosi ad afferrare la gruccia...

— Bisogna sollevarlo! — disse Vèrsilov, alzandosi; anche il dottore e Tatiana Paviovna si mossero, ma non ebbero il tempo d'avvicinarsi, che Macario Ivànovic, appoggiandosi con tutte le sue forze sulla gruccia, si alzò di colpo e con aria gioiosa di trionfo stette ritto guardandosi intomo:

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— Ecco che mi sono alzato! — esclamò con orgoglio, sorridendo gioiosamente. — Grazie, mia cara, d'avermi insegnato come fare; mentre io credevo che le gambe non mi volessero più ubbidire...

Ma non rimase ritto a lungo; aveva appena finito di parlare che la gruccia, su cui s'appoggiava con tutto il peso del corpo, scivolò, non si sa come, sul tappeto; e poiché le gambe veramente non lo sorreggevano, stramazzò disteso. Fu uno spettacolo terrificante. Tutti cacciarono un grido e si precipitarono ad alzarlo, ma, grazie a Dio, non s'era fatto male... L'alzarono e lo misero a sedere sul letto. Era pallidissimo, non per lo spavento, ma per la scossa avuta. (Il dottore aveva riscontrato in lui, oltre agli altri mali, anche una malattia di cuore). Mamma era fuori di sé dallo spavento. E a un tratto Macario Ivànovic, ancora pallido e tremante, appena tornato in sé, si rivolse a Lisa e con voce fioca, quasi tenera, le disse:

— Come vedi, mia cara, le gambe non mi reggono davvero!

Non so descrivere quel che provai in quell'attimo. Non c'era nelle parole del povero vecchio ne lamento ne rimprovero; si vedeva anzi ch'egli non aveva neanche notato il tono iroso delle parole di Lisa, accogliendole come un giusto rimprovero.

Anche questo disinteresse non è debolezza. Egli non fa di necessità virtù. Ha un cuore ardente e ama la vita:

È strano come l'anima rimanga attaccata alla vita, si ostini e sia lieta d'esser al mondo; pare che, se si dovesse ricominciare a vivere da principio, si sarebbe contentissimi. (L'Adolescente, p. 567).

Questa è vera vittoria su se stessi, vera trasformazione.

Macario vive tutto assorto in Dio. Prega molto: "Gesù Cristo, nostro Dio e Signore, abbi pietà di noi", sono le prime parole che l'"Ado-

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lescente" ode da lui nel "profondo silenzio" della camera del malato. La sua vita si compie tutta nella preghiera e questa è profonda e generosa. Un giorno, parlando del suicidio, dice:

II suicidio è il peggiore dei peccati... ma il giudice in questo caso è Dio soltanto perché egli soltanto conosce ogni limite e ogni misura. Noi abbiamo invece il dovere di pregare per questi peccatori. Ogni volta che sentirai parlare di un suicida, prima di addormentarti prega per lui con fervore, manda magari soltanto un sospiro per lui a Dio;

anche se non l'hai conosciuto affatto, tanto più gli gioverà la tua preghiera.

E come può giovargli la mia preghiera, s'egli è già condannato?

— E come lo sai tu? Molti son quelli che non credono e confondono con le loro parole la gente ignorante; tu però non dar loro ascolto, poiché essi stessi non sanno ove vadano. La preghiera innalzata da un vivo per un condannato viene ascoltata. Quando dunque hai finito di dir le tue preghiere prima del sonno, aggiungi: « Abbi pietà, Gesù Cristo, di tutti coloro per cui nessuno prega ». (L'Adolescente, p. 612).

Macario racconta antiche leggende della tradizione popolare — risalgono probabilmente alle Vite dei Santi Padri dei primi tempi cristiani:

Tutto ciò, — dice l'Adolescente, — rappresentava per me un mondo ignoto. Eppure confesso che non si poteva sentire Maria Egiziaca senza lacrime e non già per la sola commozione, ma per una specie di strana estasi; vi si rivelava qualcosa di straordinario e di ardente, come la steppa di sabbia arsa abitata dai leoni dove la santa cercava rifugio. (L'Adolescente, pp. 609-10).

Ma ci colpisce soprattutto il modo come egli sente la vita delle cose, la vita dell'universo. Parlando con l'Adolescente dice:

- Ti.

Un vecchio... dev'essere pronto a morire in qualsiasi momento e morire in piena coscienza, beato e pio, sazio dei suoi giorni, respirando per l'ultima volta pieno di gioia, andandosene come una spiga nel suo covone dopo aver compiuto il suo mistero.

— Voi dite sempre « mistero »; che cosa significa « aver compiuto il suo mistero? » — chiesi...

— Che cosa è il mistero? Tutto è mistero, amico, in tutto c'è il segreto di Dio. In ogni albero, in ogni piccola erba c'è sempre lo stesso mistero. Se un uccellino canta o miriadi di stelle brillano nel cielo, è sempre lo stesso mistero.

L'Adolescente obietta che la scienza ha eliminato il mistero. Macario ammette la scienza, ma la fa rientrare nella sua concezione religiosa del mondo e di qui ne mostra il limite. Il sapere si dissolve nel dubbio se non è sostenuto in ultima analisi dalla fede. Su questa e sulla preghiera si fonda tutta la esistenza umana. E la scienza è una forza singola in questo tutto in cui è compresa, così come la natura non sussiste separata per conto proprio, ma soltanto in Dio.

Segue poi il passo indicibilmente bello in cui egli racconta alcuni episodi della sua vita di pellegrino e mette in luce il significato profondo di questa esistenza.

— Passammo la notte all'aperto e mi svegliai il mattino di buon'ora, quando ancor tutti dormivano e il sole non era ancora sorto di dietro il bosco. Alzai il capo, mio caro, girai lo sguardo intorno e sospirai! Dovunque vidi bellezze ineffabili! Tutto era calmo, l'aria era leggera: l'erbetta cresceva — cresci pure, erbetta di Dio; — l'uccellino cantava — canta, uccellino di Dio —; un bambinello faceva sentir la sua. vocina fra le braccia di una donna, —-che Iddio sia con tè, piccolo essere umano, cresci per la gioia, bimbo mio! Fu come se allora, per la prima volta nella mia vita sentissi tutto questo in me... Mi sdraiai di

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nuovo e m'addormentai di un sonno dolcissimo. Si sta bene al mondo, caro mio! Ecco, se mi sentissi un po' meglio, in primavera, mi metterei di nuovo in cammino. E in fondo è meglio che tutto questo sia un mistero- è terribile e meraviglioso pel nostro cuore: « Tutto è in tè. Signore, ed io stesso sono in tè e tu accoglimi! » Non mormorare, giovanotto! È tanto più bello se è un mistero! — ripetè intenerito. (L'Adolescente, p. 573).

Nel primo capitolo, dedicato al popolo, abbiamo anche parlato della natura e detto come essa sia sentita dal popolo. Abbiamo spiegato come Dio parli all'uomo dalla natura perché questa non è qualcosa di conchiuso, di contrapposto a Dio, in modo che Egli vi sia appreso come infinitamente lontano e segreto. Essa riposa al contrario nella Sua mano ed Egli in essa vive. Si manifesta dappertutto nelle sue forme, dappertutto vi compie la Sua opera misteriosa...; e questo non è panteismo perché Dio è veramente il creatore ed essa la Sua Creatura. Questa immediatezza, poi, ha perso ogni carattere puramente naturale e si è trasformata in senso personale, religioso, cristiano nell'acccttazione della volontà di Dio e della sofferenza che essa impone. Questo pensiero nostro è espresso con grande semplicità dalle parole del pellegrino.

Qui sentiamo il mistero dell'amore di Dio per il mondo. Sentiamo che il mondo significa qualche cosa per Lui. Sentiamo il mistero del cuore di Dio e il mondo vicino a questo cuore. Il mistero di una unità che non confonde ma conserva nette le distinzioni, soprattutto quella per eccellenza tra creatura e Dio, e tuttavia ciò che ha distinto raccoglie in una suprema inesprimibile unità.

Solo da questo punto possiamo capire l'esistenza 75

di Macario: l'interiore singolare distacco dalle cose, che lo solleva sulle contraddizioni inconciliabili della esistenza, la forza di paterna comprensione, che non giustifica il male e tuttavia sa sopportarlo, la generosità di un cuore che ha imparato a soffrire e soffre tuttora una pena bruciante, che è stato offeso e non può cessare di accusare il torto patito e tuttavia non respinge gli uomini dai quali gli sono venute sofferenze, offese e ingiustizie, ma queste e quelli accoglie per fonderli tutti in una inesprimibile unità. C'è qui una suprema grandezza spirituale che vince tutte le contraddizioni. Macario è il popolo stesso assunto nella luminosità di una grande figura.

Lo stàrets Zòsima e suo fratello Markèl

Come Macario, il pellegrino, lo stàrets è già vecchio quando facciamo la sua conoscenza. Lo vediamo negli ultimi giorni della sua vita, nella luce "dei raggi obliqui del sole al tramonto", simbolo frequente in Dostojevskij di una suprema vicinanza metafisica. Visto con gli occhi della fede, il vegliardo non è soltanto il saggio che ha trovato la sua pace ma l'uomo inferiore, rinato a nuova vita e a contatto con l'Eterno. L'Eterno irrompe nella sua vita temporale e la morte significa la liberazione della forma intcriore che si è maturata in lui e il suo ingresso nella vita eterna. Così la saggezza del vecchio non è soltanto esperienza terrena e inferiore purificazione, ma un sapere che viene da quel contatto con l'Eterno.

Il vecchio stàrets è avvolto da questa luce calda e

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arcana di tramonto. Tutta la sua vita si concentra ed è presente nei giorni che precedono la sua morte. Toma alla sua memoria la giovinezza lontana e getta una luce rivelatrice sugli avvenimenti successivi ora che una lunga vita ha manifestato ciò che essa conteneva in germe... Ecco Markèl, il fratello morto tanti anni prima in giovane età. Zòsima allora non aveva compreso ma solo vagamente intuito la profondità di quell'anima. Pure l'aveva accolta in sé come un seme vivo ed esso ha dato poi i suoi frutti. Il giovinetto è lì, nello stesso tempo vicino e lontano, e questa lontananza del passato diventa la trasfigurazione dell'eternità. Egli fa cenno dal cielo, quasi beato psicagogo e messaggero dell'EroJ celeste. Ma nell'attimo in cui il vecchio muore e da un'esistenza conclusa nella santità si scioglie l'eterno, troviamo già pronta un'altra giovinezza, Aljòsa, il discepolo prediletto, che egli manda nel mondo a continuarvi la sua missione... Si pensa al fedone e alla pienezza dionisiaca che prorompe nel momento in cui Socrate muore: sovrabbondanza di vita che culmina nel momento della morte, evocata dalla potenza di un amore che fonde il passato e l'avvenire nel presente dell'irrompente eternità.

Il vegliardo che sulle soglie dell'eternità vede ora compiersi l'opera della sua vita sente ridestarsi la infanzia, ora tutta piena di significato.

' Padri e maestri, scusate le mie lacrime, che tutta la mia fanciullezza mi sembra ora che risusciti dinanzi a me, e io. respiro adesso come respiravo allora col mio petto infantile di otto anni, e provo, come allora, stupore e turbamento e gioia.

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Queste parole hanno una relazione profonda con la figura del povero Giobbe che ha conosciuto la vita in tutto dò che essa ha "di grande, di misterioso, di inconcepibile", là dove s'incontrano "la fugace apparenza terrena e l'eterna verità".

Dio risolleva Giobbe, gli restituisce la ricchez2a, passano di nuovo molti anni, ecco che egli ha già altri figli e li ama. O Signore! ma come poteva amare questi nuovi figli, ci si domanda, dopo aver perduto quegli altri? Ricordandoli, per cari che gli fossero i nuovi, poteva forse essere pienamente felice, come una volta? Ma certo, certo:

il vecchio dolore, per un grande mistero della vita umana, si trasforma a poco a poco in tenera gioia tranquilla; al fervido sangue giovanile succede la mite serena vecchiezza: io benedico il quotidiano levar del sole, e il mio cuore gli innalza come prima un canto, ma già ne preferisco il tramonto, i lunghi raggi obliqui, e con essi i dolci, pacati, commossi ricordi, le care immagini di una lunga vita benedetta, e sopra ogni cosa la divina verità che commuove, pacifica e tutto perdona! La mia vita è al termine, lo so e lo sento, ma sento pure in ognuno di questi giorni ri-mastimi come la vita terrena già si riattacchi a una nuova, infinita e ignota ma prossima vita, il cui presentimento fa trepidare l'anima mia di entusiasmo. (I Fratelli Karamàzov, pp. 320-21).

"È molto significativo che le notizie sulla "Vita dello stàrets Zòsima, morto in Dio, compilata secondo le sue proprie parole da Aleksjè] Fjòdorovic Kara-màzov" comincino col racconto che ha per titolo:

"Sul giovane fratello dello stàrets Zòsima".

Si chiamava Markèl ed è morto giovanissimo. In principio non voleva nemmeno sentir nominare Dio;

scherniva la religione, non tollerava che la sua vecchia balia accendesse la lampada davanti all'icona e se lo faceva ugualmente, lui la spegneva. Ma era poi avvenuta in lui una profonda trasformazione e Mar-

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kèl era diventato quegli che ora vive nella memoria del vegliardo.

Vennero delle chiare, serene, fragranti giornate: la Pasqua era tardi. Mi ricordo che tossiva tutta la notte, dormiva male e al mattino, dopo essersi vestito, provava sempre a sedersi in una poltrona. E così lo rammento: seduto, calmo, dolce e sorridente, malato, ma con un volto allegro, gioioso. (I Fratelli Karamàzov, p. 317).

La vita divina, l'amore di Dio urgono in lui irresistibili e nelle brevi settimane dell'ultima malattia egli appare trasfigurato. Egli si trasforma.

Qui è presagito il mistero, che ha il suo fondamento nella resurrezione del Signore e deve compiersi in ogni credente, dell'assunzione del corpo e della anima nel divino, della loro trasformazione non in uno "spirito" soltanto ma in una umanità celeste. Esso si esprime in un pensiero ripetuto sovente:

II Paradiso è già qui! "Paradiso" però significa uno stato in cui il mondo e Dio non sono due realtà separate ma il mondo è solo in quanto esiste in Dio e il desiderio divino d'amore si compie in quanto Dio può aprirsi nella creatura che si è data a Lui. "Paradiso" è l'unità celeste.

" Mamma, non piangere, diletta, diceva, io vivrò ancora a lungo, mi divertirò ancora molto con voi, e la vita è così allegra, così gioconda " — " Ah, mìo caro! che allegria può essere la tua, quando la notte ardi di febbre e tossisci, che quasi ti si lacera il petto? " — " Mamma, 'le rispondeva, non piangere, la vita è un Paradiso, e noi tutti siamo in Paradiso, e non vogliamo saperlo; ma se volessimo saperlo, domani stesso il mondo intero sarebbe un Paradiso " (I Fratelli Karamàzov, p. 317).

La "vita", somma di esistenza immediata, ardore

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del sangue, forza Ulteriore dell'anima, potenza intellettuale dello spirito, respiro dell'uomo concreto, noi qui la sentiamo non spiritualizzata o idealizzata, ma trasformata e trasferita su un piano diverso, quello del "Paradiso", realtà essenzialmente religiosa, non etica, sebbene includa anche il momento etico. E il momento estetico vi è presente non come tale, ma come bellezza santa, grazia, charis, frutto del dono religioso di sé, compiuto con purezza.

Non è un gioco della fantasia ma un sentimento profondamente serio che trova la sua conferma nell'amore. Markèl dice ai domestici:

" Miei cari, perché mi servite? Merito io forse di essere servito? Se Dio mi facesse la grazia e mi lasciasse in vita, io stesso mi metterei a servirvi, perché tutti devono servirsi l'un l'altro ". La mamma, ascoltando, scoteva il capo: " Mio caro, è la malattia che ti fa parlare così ". — " Mamma, gioia mia, diceva, non possono non esserci padroni e servitori, ma vorrei anch'io essere il servo dei miei servi, come essi sono i miei. Ti dirò ancora, mammina, che ognuno di noi è colpevole di fronte a tutti e io più di tutti ". La mamma allora sorrise perfino, piangeva e sorrideva: " Ma come puoi tu mai, gli diceva, essere più di tutti colpevole di fronte a tutti? Ci sono degli assassini, dei-briganti, ma quali peccati hai tu avuto il tempo di commettere per accusarti più di tutti? " — " Mammina, sangue mio, diceva (a quel tempo si era messo a dire delle parole così affettuose, così inattese), sangue mio dolce e caro, sappi che in verità ognuno è colpevole dinanzi a tutti per tutti e per tutto. Io non so come spiegarlo, ma sento fino allo spasimo che è così. E come facevamo a vivere adirandoci e senza saper nulla di questo? " (I Fratelli Kara-màzov, pp. 317-18).

Sentiamo la potenza di questa inferiore trasformazione. Essa si compie in pochi giorni. Appare un centro nuovo di vita spiritiuale, dono di Dio, e tra-

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sforma in uno slancio di intenso fervore tutta la esistenza.

E anche tutto il mondo si trasforma. Il "mondo" non è infatti qualcosa di finito, di statico, ma diviene nella misura in cui si trasforma l'uomo e come l'uomo gli permette — o gli impone — di divenire. Lo diciamo in un senso profondamente reale, non idealistico. Quando l'uomo commise il primo peccato, le tenebre scesero sul mondo ed esso si trovò prigioniero dell'errore. Ma quando l'uomo riacquista la libertà in Dio ed entra nel "Paradiso", comincia a essere paradiso anche intorno a lui. Ciò che si racconta di san Francesco non è "leggenda" ma verità. O, se vogliamo, leggenda, ma come ingenua e spontanea espressione di una superiore realtà spirituale di natura divina che si manifesta quando l'amore e la fede di un cuore sanno ridestarla.

Le finestre della sua .camera davano sul giardino, e il nostro giardino era ombroso, pieno di vecchi alberi, e sugli alberi erano spuntati i germogli primaverili, erano arrivati i primi uccellini e schiamazzavano e cantavano sulle sue finestre. E tutt'a un tratto, mentre li guardava con delizia, si mise a domandar perdono anche a loro: " Uccellini del buon Dio, allegri uccellini, perdonatemi anche voi, perché anche verso di voi ho peccato ". Questo nessuno di noi allora lo poteva capire, ma lui piangeva di gioia: " Sì, diceva, c'era tanta gioia di Dio intorno a me: gli uccellini, gli alberi, i prati, i deli, e io solo ho vissuto nell'onta, io solo ho disonorato ogni cosa, e non mi sono accorto affatto di tanta bellezza e di tanta gloria ". — " Tu ti carichi di troppi peccati! " piangeva a volte la mammina. " Mammina, gioia mia, è di allegrezza e non di dolore che piango; sono io stesso che voglio essere colpevole verso di loro, ma non tè lo posso spiegare, perché non so come amarli. Ma anche colpevole di fronte a tutti, se tutti mi perdonano, questo è il Paradiso! Non sono ora forse in Paradiso? " (J Fratelli Karamàzov, p. 318).

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Ed eccoci ora in presenza di un misterioso evento di generazione spirituale: una vita Ulteriore personale è trasfusa nella vita di un altro. Trasfusione non ideale o psicologica, ma vera e reale. Non un monistico fluire nella vita universa ma un'unità fondata su un principio che trascende tutte le distinzioni e tuttavia non le abolisce.

Ricordo che una volta entrai solo nella sua camera, mentre non c'era nessuno. Era una limpida sera, il sole tramontava e illuminava con un raggio obliquo tutta la stanza. Vedendomi, mi fece un cenno, io mi accostai, egli mi prese per le spalle, con le mani, mi guardò in viso con tenerezza, con amore: non disse nulla, mi guardò soltanto così per un minuto: « Su via, disse, adesso va' a giocare, vivi per me! ». Io allora uscii e andai a giocare. Molte volte poi nella vita ricordai fra le lacrime come egli mi avesse ordinato di vivere per lui. (I Fratelli Karamàzov, pp. 318-19).

Si è compiuto qui un mistero di divina generazione. Il fanciullo ha accolto in qualche cosa della vita del morente e questo poi ha dato i suoi frutti e ora fiorisce nel vegliardo in quella pienezza dispiegata che al giovinetto morto precocemente era stata negata.

' E a sua volta lo stàrets trasmette ad Aljòsa la sua ricchezza segreta. Sentiamo il calore del suo affetto nelle parole che lo salutano al suo arrivo:

Scorto Aljòsa, che entrando si era turbato e fermato sulla soglia, lo stàrets gli sorrise gioiosamente e gli tese la mano:

— Buon giorno, caro, buon giorno, eccoti qui anche tu. Lo sapevo che saresti venuto.

Aljòsa gli si accostò e s'inchinò fino a terra. (I fratelli Karamàwv, p. 312).

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Lo stàrets poi lo manderà nel mondo mostrandogli qui il suo destino. E così esso dovrà compirsi.

Sotto il segno dell'immagine fraterna tornano allo stàrets i ricordi della propria vita.

Egli è figlio di un modesto gentiluomo e le immagini della madre e dei familiari risplendono di luce lieta. A otto anni fa la sua prima esperienza religiosa:

durante la messa, il lunedì della settimana santa, gli appare in una improvvisa illuminazione il significato di "libro santo". Questa misteriosa unità dell'oggetto concreto, volume, fogli, segni, del loro significato, della rivelazione, questo tutto, questa santa unità che ora è lì aperta davanti a lui e di cui si fa lettura ad alta voce in chiesa... Da questo momento la sua vita inferiore è dominata dai racconti del Libro dei libri.

Frequenta poi per alcuni anni la scuola dei cadetti di Pietroburgo e si lascia prendere da quel caratte-ristico spirito militare composto di senso del dovere e dell'onore, di coraggio, di durezza e di brutalità. Terminata la sua preparazione si da a una vita sfrenata, tanto più che il denaro non gli manca. Presto è preso di simpatia per una fanciulla di buona famiglia, ma viene a sapere che è già fidanzata da molto tempo. Ferito nel suo orgoglio, non si da pace finché non ha provocato il rivale. La sera prima del duello torna a casa mezzo ubriaco e di pessimo umore e senza alcuna ragione precuote il suo attendente sul viso. Si desta alle prime luci del giorno e si rende conto della bassezza della sua azione. La vergogna opera in lui un cambiamento totale; domanda perdono all'attendente. Ora il duello gli appare in tutta la sua assurdità. Egli lascia che l'awer-

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sariò spari il primo colpo, poi butta via la pistola. All'indignazione generale risponde con la pubblica confessione della sua nuova esperienza e dichiara di volersi fare monaco.

Comincia ora una lunga vita di preghiera, di rinuncia e di penitenza. Egli va di paese in paese oppure vive nel raccoglimento del chiostro. Col passare del tempo appare evidente ch'egli è profondamente avanzato nella vita spirituale. I confratelli si rivolgono a lui perché li guidi sulla via della perfezione. Da ogni parte giungono persone che chiedono ammaestramento, consiglio, aiuto. Diventa stàrets, del numero di coloro che custodiscono e tramandano la sapienza e la forza divina, come abbiamo conosciuto nel primo capitolo accanto alle "donne credenti".

È molto significativo il modo come avviene la prima crisi, la sera avanti il duello:

Tornato la sera a casa, furioso e sconvolto, mi adirai col mio attendente Afanàsij e lo colpii due volte sul viso con estrema violenza, tanto che lo feci sanguinare. Egli era al mio servizio da poco tempo e già mi era accaduto di Eercuoterlo, mai però con così crudele bestialità. Lo credete, miei cari? quarant'anni sono passati da quel tempo e io me ne ricordo ancor oggi con vergogna e dolore. Mi coricai, dormii un tré erette e mi alzai che già si faceva giorno. Mi levai su a un tratto, non volendo più dormire, mi avvicinai alla finestra, l'aprii, — essa dava su di un giardino, — sorgeva il sole, era un tempo caldo e magnifico, gli uccelli si erano messi a gorgheggiare. " Che cos'è, pensai, questo senso d'infamia e di bassezza che ho nell'anima? Sarebbe forse perché vado a versare del sangue? No, pensai, non deve esser questo. Sarebbe forse perché temo la morte, perché temo di essere ucciso? No, nient'affatto, non è neppur questo... ". E indovinai tutt'a un tratto di che si trattava: era perché la sera prima avevo percosso Afanàsij! Tutta la scena mi si ripresentò di colpo, come

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se si ripetesse: egli mi stava davanti e io lo colpivo sul viso col braccio disteso, mentre lui teneva le braccia lungo i calzoni e il capo diritto, con gli occhi spalancati, come sull'attenti, sussultava a ogni colpo e non osava nemmeno alzare le mani per pararsi: un uomo era in quelle condizioni e un altro uomo lo percoteva! Che delitto! Fu come se un ago mi trafiggesse l'anima. Io stavo là come un demente e il sole splendeva, le foglioline gioivano e luccicavano, mentre gli uccellini lodavano Dio... Mi coprii il viso con le due palme, mi buttai sul letto e scoppiai In singhiozzi. Mi ricordai allora di mio fratello Markèl e delle sue parole ai domestici prima di morire: " Miei cari, perché mi servite? perché mi amate? e sono io degno di essere servito? ". " Sì, ne sono io degno? mi balzò in mente all'improvviso. Infatti, come posso esser degno che un altro uomo fatto come me a immagine e somiglianzà di Dio, mi debba servire? " E così questa domanda mi penetrò allora nell'intelletto per la prima volta in vita mia.

Il passato rivive e parla nel ricordo del fratello morto:

« Mammina, sangue mio, ognuno in verità è colpevole per tutti di fronte a tutti, ma gli uomini non lo sanno;

se lo sapessero, sarebbero subito in paradiso! ». « Signore, è mai possibile che non sia vero?, pensai piangendo, io forse sono realmente più colpevole di tutti, e anche peggiore di tuta sulla terra! ». E la verità mi apparve tutta di colpo, in tutta la sua luce. (J Fratelli Karamàzov, pp. 327-28).

Rivive in lui il fratello. Ciò che è stato concepito nello spirito si desta a vita. La benda cade dagli occhi. Egli vede le cose come sono. Vede sé e Dio proprio nel rapporto che implica un profondo problema umano e cristiano, particolarmente sentito in Oriente: il rapporto fra padrone e servitore, fra chi comanda e chi obbedisce, con le sue manifestazioni opposte di arroganza e umiltà, di sottomissione e ri-

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volta. La breccia attraverso l'egoismo è operata nel punto di maggior resistenza: nel rapporto che la società stabilisce fra persona e persona. Egli vede il prossimo e se stesso, al di là di ogni differenza sociale, così come tutti e due sono realmente. Ma non nella nuda realtà della natura, o dal punto di vista di uno stoicismo filosofico, bensì in Dio. Le parole del fratello morto gli tornano alla mente:

"Perché mi servite? perché mi amate? e sono degno di essere servito?" E subito egli continua il pensiero e lo conclude; "Infatti, come posso essere degno che un altro uomo, fatto come me, a immagine e somiglianzà di Dio, mi debba servire? E così questa domanda mi penetrò allora nell'intelletto per la prima volta in vita mia". È il rovesciamento di tutti i rapporti puramente umani che si è compiuto alla luce improvvisa di questa verità: l'uomo è fatto a immagine di Dio. Ogni uomo, dunque, è immagine di Dio, ogni uomo ha davanti a Dio questa dignità sacra, indipendentemente dalla sua condizione sociale. Il pensiero si sviluppa; sono sempre le parole del fratello: "Mammina, sangue mio, ognuno è colpevole a tutti per tutti, ma gli uomini non lo sanno; se lo sapessero, sarebbe subito il Paradiso". Nasce così l'idea, che poi avrà tanta importanza nella coscienza dello stàrets, della solidarietà di tutti nella colpa comune, riconosciuta nella propria — tuttavia sempre colpa davanti a Dio e riconosciuta in Dio.

Viene poi il duello e di nuovo par dì riascoltare l'ammonimento fraterno:

«Signori, esdamai tutt'a un tratto dal fondo' del cuore, guardate in giro i doni di Dio: il cielo sereno, l'aria pura, l'erbetta tenera, gli uccellini, la, natura bella e innocente,

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e noi, soltanto noi, gente empia e sciocca, non comprendiamo che la vita è un Paradiso, giacché basterebbe che volessimo capirlo, ed esso subito spunterebbe in tutta la sua bellezza, e noi ci abbracceremmo piangendo... ». E volevo ancora continuare, ma non potei, mi mancò perfino il respiro, tanta dolcezza e giovinezza era in me, e nel cuore una felicità quale non avevo mai provata in tutta la mia vita. (J Fratelli Karamàzov, pp. 129-30).

Cessa l'incantesimo che deformava le cose. Ora è chiaro che ciascuna ha in sé la possibilità di essere Paradiso, che in ciascuna Dio può manifestarsi, nel sole e nella terra, nella pianta e nell'animale, purché l'uomo si lasci invadere, nella fede e nel totale oblio di sé, dall'amore di Dio.

Nella persona del soldato, disprezzato prima, riappare il popolo, quella realtà dalla quale lo stàrets stesso proviene e a cui, dopo essersene allontanato, ritorna ora consapevole.

Il legame del popolo con Dio giunge in questo uomo alla sua pienezza. Egli solleva l'esistenza del popolo alla sfera dell'eroismo cristiano. E non solo, come Macario, per il semplice fatto di essere e di vivere com'egli è e vive, ma anche perché la conoscenza e la dottrina hanno fatto di lui uno spirito libero. Egli diventa così l'interprete e il depositario delle realtà e dei valori racchiusi nella coscienza cristiana degli umili, coscienza che si è formata attraverso l'accettazione dell'esistenza e di tutto ciò che vi accade come volontà di Dio.

Nel capitolo che ha per titolo Dalle conversazioni e dai sermoni dello stàrets Zòsima si profila un'immagine del popolo contemplata con grande amore. Ideologia romantica, si dirà; tuttavia quell'immagine

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è vera e bella. Quello che prima si è potuto dire del popolo è attinto per lo più a queste conversazioni. Esse svolgono con fede ardente una nobile concezione etica dei rapporti umani, importante soprattutto per la questione scabrosa delle differenze sociali:

« Tu sei distinto, tu ricco, tu intelligente e pieno di talento, e sia, che Dio ti benedica! Io ti rispetto, ma so che anch'io sono un uomo. Rispettandoti senza invidiarti, io mostro dinanzi a tè la mia dignità umana» (...) Accadrà infatti che anche il più corrotto dei nostri ricchi finirà per vergognarsi della sua ricchezza dinanzi al povero, e il povero, vedendo la sua umiltà, comprenderà e cederà davanti a lui, ricambiando con gioia e con affetto la sua nobile vergogna. Credetelo, finirà così... In questo mondo non si può fare a meno dei servi, ma agisci in maniera che il tuo servo si senta in casa tua più libero di spirito che se non fosse servo. (I Fratelli Karamàtov, pp. 347 e 349).

Ma non basta per attuare questo l'aiuto della sola ragione umana o un desiderio naturale di giustizia. Solo la fede può renderlo possibile.

« Pensano di assestarsi secondo giustizia, ma, avendo respinto Cristo, finiranno per inondare il mondo di sangue, perché il sangue chiama il sangue, e chi ha tratto la spada perirà di spada. E, se non ci fosse la promessa di Cristo, si sterminerebbero sulla terra l'un l'altro fino agli ultimi due uomini. E anche questi ultimi due, nel loro orgoglio, non saprebbero dominarsi, per cui l'ultimo sopprimerebbe il penultimo e poi anche se stesso » (I Fratelli Karamàwv, p. 349).

La vera forza è l'amore umile che prende vita da Dio.

« Certi pensieri, specialmente alla vista del peccato umano, ti rendono perplesso, e tu ti domandi: " Devo ricorrere alla forza o all'umile amore? ". Decidi sempre: ricorrerò

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all'umile amore. Se prenderai una volta per tutte questa decisione, potrai soggiogare il mondo intiero. L'amore umile è una forza formidabile, la più grande di tutte, come non ce n'è un'altra. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto osservati e sorvegliati, perché il tuo aspetto sia dignitoso. Ecco, tu sei passato accanto a un piccolo bambino, sei passato stizzito, pronunziando una brutta parola, con l'anima piena di collera; tu non l'hai forse neanche notato, ma il bambino ti ha veduto e la tua immagine, laida e cattiva, è forse rimasta nel suo cuore indifeso. Tu non lo sai nemmeno, ma può darsi che con ciò tu abbia già gettato in lui un mal seme, che forse crescerà, e questo perché non ti sei dominato dinanzi al bambino, perché non hai coltivato in tè l'amore vigile, attivo. Fratelli, l'amore è un maestro, ma bisogna saperlo acquistare, perché si acquista difficilmente, si paga a caro prezzo, con un lavoro continuato per lungo tempo, non dovendosi amare solo un istante, accidentalmente ma sino alla fine. Accidentalmente chiunque può amare, anche un malvagio ».. (I Fratelli Karamàzov, p. 351).

Questo amore si fonda sulla rinuncia per principio all'esclusivismo dell'esistenza individuale, a quella mentalità "occidentale" per cui l'uomo dice: "Tu, non io... io, non tu". Qui non è così. Il "tu" e l'"io" sono diversi ma nel "tu" c'è anche l'"io". Di questo appare un'unità dietro le distinzioni empiri-che, che non è frutto di confusione ma è fondata in Dio. Questo atteggiamento si manifesta particolar-mente in un senso profondo della solidarietà nel peccato:

Non dite: « Forse è il peccato, forse l'empietà, forse il cattivo ambiente, mentre noi siamo soli e deboli; l'ambiente cattivo ci guasterà e non lascierà che l'opera buona si compia ». Figli miei, non lasciatevi così abbattere! Non c'è che un mezzo di salvezza: rendersi responsabile di ogni peccato umano. È proprio così, amico mio: infatti, appena ti sarai sinceramente reso responsabile per tutti e per tutto, vedrai subito che è così per davvero e che

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anche tu sei colpevole per tutti e per tutto. Rigettando invece la tua pigrizia e la tua impotenza sugli uomini, finirai per contaminarti di orgoglio satanico e per mormorare contro Dio ».

Se poi la realtà dei fatti sembra dar torto a questo atteggiamento, esso dovrà essere mantenuto con la fede.

« Se poi si allontanerà insensibile al tuo perdono e schernendoti, non lasciarti fuorviare nemmeno da questo:

vuoi dire che l'ora sua non è ancora venuta, ma verrà a suo tempo; e, se non verrà non importa: se non lui, un altro per lui comprenderà e soffrirà, e si accuserà e si condannerà da sé, e la verità sarà adempita. Credi a questo, credi fermamente, perché è in questo che sta tutta la speranza e la fede dei santi ». (I Fratelli Karamàzov, pp. 351-52 e 353).

Anzi, l'unione delle creature che, riscattate dall'amore, in questo amore riconoscono veramente se stesse, va oltre l'uomo; vediamo riaffiorare così nello stàrets, vissuti e approfonditi nel corso di una lunga esperienza, momenti della vita Ulteriore del fratèllo Markèl:

« II mio giovane fratello domandava perdono agli uccelli: pare un non senso, ma è giusto, perché tutto,;

come l'oceano, scorre e comunica, tu tocchi in un punto e si ripercuote all'altro estremo del mondo. Sarà follia domandar perdono agli uccelli, ma gli uccelli, e i bambini, e ogni animale intorno a tè si sentirebbero meglio se tu stesso fossi più nobile di quel che ora sei, non fosse che un tantino. Tutto, vi dico, è come l'oceano. Pregheresti allora anche gli uccellini, struggendoti in un amore totale, come in una specie di estasi, e li pregheresti perché anch'essi ti rimettessero i i tuoi peccati. Abbi cara quest'estasi, per quanto insensata possa parere agli uomini» (I Fratelli Karamàzov, p. 351).

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L'atto religioso si estende persino alla natura inanimata:

« Conosci la misura, conosci i termini, apprendili. Rimanendo in solitudine, prega. Ti sia caro prosternarti sulla terra e baciarla. Baciala e amala incessantemente, insaziabilmente, ama tutti, ama ogni cosa, cerca tale estasi e tale esaltazione. Bagna la terra con le lacrime della tua gioia e ama cedeste tue lacrime. Non vergognarti di questa esaltazione, abbila cara, perché è un dono di Dio, un gran dono e non è dato a molti, ma solo agli eletti » (I Fratelli Karamàwv, p. 354).

Anch'egli ricorda un episodio della sua vita di pellegrino,, una scena in cui rivive il "Paradiso" di Markèl:

« Venne a sedersi con noi un giovanotto di belle sembianze, un contadino sui diciott'anni all'aspetto, che aveva fretta di arrivare il giorno dopo il suo posto per tirare con l'alzaia una barca mercantile. E io lo vedo che guarda dinanzi a sé con gli occhi commossi e limpidi. È una notte chiara, tranquilla e calda di luglio; il fiume è largo e se ne leva un vapore che rinfresca, qualche pesciolino guizza leggero, gli uccellini si sono chetati, tutto è calmo e sublime, ogni cosa prega Dio. Noi due soli non dormivamo, io e quel giovanet-to, e discorremmo della bellezza di questo mondo divino e del suo grande mistero. Ogni erbetta, ogni scarabeo, la formica, l'ape dorata, tutti conoscono in modo meraviglioso la propria via, pur non avendo l'intelligenza, attestano il divino mistero e lo compiono essi stessi di continuo: io vidi che il cuore del caro giovane si era infiammato. Egli mi confidò che amava la foresta e i suoi uccelletti: era uccellatore e comprendeva ogni loro verso, sapeva attirare ognuno di essi:

Io, diceva, non conosco nulla di meglio della vita della foresta; tutto, del resto, è buono ". — " Davvero, gli risposi, tutto è buono e magnifico, perché tutto è verità. Guarda, gli dissi, il cavallo, nobile animale che sta accanto all'uomo, o il bue, che lo nutre e lavora per lui, curvo e pensoso; guarda le loro sembianze: quanta mitezza, quanta devozione per l'uomo, che spesso li percuote senza pietà, che mansuetudine, che fiducia, e che bellezza nelle loro linee! Commuove perfino

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il saperli senza alcun peccato, perché tutto è perfetto, tutto è innocente, all'infuori dell'uomo, e Cristo è con essi ancora prima che con noi ". — " Ma è possibile, domanda il giovane, che Cristo sia anche con essi? ". — "E come può essere altrimenti?, gli dico io, il Verbo è infatti per tutti, ogni creatura, ogni essere, ogni fogliolina aspira al Verbo, canta la gloria di . Dio, piange inconsapevolmente rivolgendosi a Cristo, e così fa per il mistero della propria esistenza senza peccato " ». (J Fratelli Karamàzov, p. 324).

Troviamo qui quella relazione di fede e di amore con Dio e le sue creature di cui parla l'apostolo Paolo nella lettera ai Colossesi, là dov'è detto che "in Cristo è stato creato tutto quello ch'è in cielo e sulla terra, le cose visibili e quelle invisibili... \ Tutto è stato creato da lui e per lui. Ed egli è avanti ogni cosa e tutto sussiste in lui". Così anche nell'epistola agli Efesini: "Tutto in Cristo dev'esser posto come sotto un capo, quello che sta in cielo e quello che sta sulla terra".

Rivive la speranza nell'"uomo nuovo" e nella "nuova creazione", nel "nuovo cielo" e nella "nuova terra", la speranza in quel mistero di sovrabbondante unità, pienezza d'amore, libertà e bellezza che ispira il pensiero di san Paolo e le grandi visioni dell''Apocalisse, che fin da ora germoglia e cresce, ancora in segreto ma già trasparente nell'uomo santificato e un giorno sarà manifesto nella pienezza dei tempi.

Che la figura dello stàrets non sia idealizzata, che quest'uomo, di una spiritualità così alta, sia tuttavia profondamente reale risulta dalla descrizione del suo aspetto:

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Fin dal primo istante lo stàrets non gli2 piacque. In realtà, il viso dello stàrets aveva qualcosa che non sarebbe piaciuto anche a molti altri, all'infuori di Mjùsov. Era un piccolo omino curvo dalle gambe assai deboli, di soli sessantacin-que anni che per la malattia però sembrava ben più vecchio, di una decina d'anni almeno. Tutto il suo viso, piuttosto magro, era disseminato di rughettine minute, e ne aveva molte specialmente attorno agli occhi. Gli occhi poi erano piccini, chiari, mobili e brillanti, simili quasi a due punti luminosi. I capelli, brizzolati, non gli si erano conservati che sulle tem-. pie; la barbetta era minuscola e rada, a punta, e le labbra, che spesso sorridevano, erano sottili come due fettuccine. Il naso non era lungo, ma aguzzo come il becco di un uccello.

« Secondo ogni apparenza, — passò per la mente di Mjùsov, — un'animuccia maligna e meschinamente altezzosa » (J Fratelli Karamàwv, pp. 43-4).

Ma il popolo sa che cosa si nasconde sotto questa piccola figura. E i monaci che lo venerano gli affidano senza esitare la dirczione delle loro anime.

Così si può ben dire che "nel corso della sua vita egli abbia accolto nella sua anima tanti segreti degli uomini da leggere ora nei loro volti come in un libro".

Anzi questa chiaroveggenza diventa in certi momenti dono profetico, come nel famoso episodio della cella al principio del romanzo:

Ma tutta quella, scena, giunta ormai al colmo dello scandalo, finì nel modo più inatteso. A un tratto lo stàrets si alzò. Allèssa, che dalla paura provata per lui e per gli altri era quasi smarrito, ebbe tuttavia il tempo di sostenerlo per un braccio. Lo slàrets fece un passo verso Dmitrij Fjòdo-rovic e, giuntogli vicinissimo, si abbandonò dinanzi a lui in ginocchio. Aljòsa credeva già che fosse caduto per lo sfinimento, ma non era così. Inginocchiatesi, lo stàrets si prosternò a Dmitrij Fiòdorovic con un perfetto, preciso e

2 A Mjùsov, il liberale « occidentalista ».

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consapevole inchino, e sfiorò anche la terra con la fronte. Aljòsa ne fu così stupefatto che non fece nemmeno in tempo a sorreggerlo mentre si rìabava. Un pallido sorriso gli illuminava appena le labbra.

— Perdonate! Perdonate tutti! — diss'egli, volgendosi da tutte le parti a salutare i suoi ospiti.

Dmitrij Fjòdorovic rimase alcuni istanti come trasecolato:

prosternarsi a lui, che voleva dir ciò? Infine gettò un grido: « Oh Dio! » e, copertosi il viso con le mani, si slanciò fuori della stanza. Dietro di lui si precipitarono in folla tutti gli altri visitatori, senza neppure accomiatarsi, tanto erano turbati, ne salutare il padrone di casa. (I Fratelli Karamàzov, p. 82).

Egli stesso però, richiestone da Aljòsa, spiega cosa l'ha spinto ad 'agire così:

Ieri provai un'impressione terribile... come se il suo sguardo esprimesse tutto il suo destino. Egli ebbe un certo guardo... che per un istante fremetti nel mio cuore al pensiero di ciò che quell'uomo si prepara. Una volta o due nella mia vita vidi in altri la stessa espressione del viso... un'espressione che pareva rispecchiare tutto il destino di quegli uomini, e questo destino, ahimè! si è compiuto. Ti ho mandato da lui, Aleksjèj, perché pensavo che il tuo volto fraterno gli avrebbe fatto del bene. Ma tutto viene da Dio, e anche tutti i nostri destini. « Se il chicco di grano, caduto in terra, non morirà, rimarrà solo; ma, se morirà, darà molto frutto ». (J Fratelli Karamàzov, p. 313).

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CAPITOLO QUARTO,

IL CHERUBINO

Nei capitoli precedenti abbiamo parlato della linea ideale che dal popolo, attraverso le donne credenti e le due Sònje, conduce al pellegrino Macario, allo stàrets e a suo fratello Markèl che in lui sopravvive.

Abbiamo visto la posizione iniziale svilupparsi pur restando sostanzialmente identica. Davanti a noi era sempre l'uomo vivente in intima unione con le forze profonde della vita, anche se questa unione via via si manifestava in una forma sempre più personale e cosciente.

Sullo stesso piano si trova anche Aljòsa Kara-màzov, di cui ci occuperemo ora; esso è per lui il solido punto d'appoggio dal quale poi salirà tuttavia a ben maggiori altezze.

Aljòsa Karamàzov

Aljòsa è il vezzeggiativo di Aleksjèj Fjòdorovic Karamàzov e il fatto che tutti, anche chi lo conosce appena, e fin dal primo momento, lo chiamino così deve avere un significato particolare perché la sua natura non è tale da suggerire l'idea di un diminutivo. Il nome "Aljòsa" non è dunque un semplice vezzeggiativo, ma accenna a una ragione più pro-

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fonda. Tutti sanno che questo giovane non è come gli altri: viene da altrove, è come uno straniero;

pure tutti nello stesso tempo lo sentono singolarmente vicino fraterno e confidente:

Tutti — sta scritto di lui — amavano quell'adolescente, ovunque si presentasse, e questo fin dal primi suoi anni... Il dono di destare una speciale simpatia egli l'aveva in se, per così dire, dalla natura stessa, senza artifici e immediato. La stessa cosa gli accadeva anche a scuola, e tuttavia pareva che egli fosse proprio di quei fanciulli che suscitano la diffidenza dei compagni, talora lo scherno e forse anche l'odio. (I Fratelli Karamàzov, p. 21).

Egli è il discepolo prediletto dello stàrets, al quale si è votato interamente dal giorno in cui, come ubbidendo a un ordine imperioso, ha interrotto all'improvviso gli studi ed è tornato a casa per entrare in convento. Lo ha scelto per maestro, pronto, verso di lui, ad una perfetta sincerità e obbedienza per raggiungere un giorno, con l'aiuto del suo esempio, la saggezza e la perfezione spirituale. Egli si è tutto penetrato della figura del maestro raccogliendo così l'eredità misteriosa lasciata in un tempo lontano dal giovinetto Markèl, assunto alla gloria dei deli ma. sempre tuttora spiritualmente presente.

Ma Aljòsa non è soltanto il discepolo dello stàrets, anche se prendiamo questa parola nel suo significato più alto. Egli possiede una qualità che manca allo stàrets: la grandezza. Lo stàrets è un uomo profondo, saggio, di una grande purezza ed interiorità e meravigliosamente vivo. Si può ben dire di lui ch'egli possiede la proprietà rara di essere in sé completo. Non parlo della completezza che è dono di natura e, come in Nastàsja Filìppovna, gravida di destino, ma di quella acquisita, che, quando appare

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dopo una lunga preparazione, solleva tutto l'essere su un piano diverso. La "compiutezza", infatti, è più del termine ultimo di un determinato sviluppo; essa non è soltanto il grado più alto a cui può giungere la personalità ma quello a lei assegnato, valido e definitivo.

Così ad essa si perviene non solo per gradi successivi ma con un salto qualitativo. Meraviglioso è il tipo di perfezione raggiunto dallo stàrets, ma a confronto di Aljòsa appare evidente che il maestro non possiede ciò che invece il discepolo ha per dono di natura: la grandezza. E precisamente una grandezza particolare che impareremo a conoscere più avanti. Con questo non è ancora detto che Aljòsa raggiungerà la perfezione. Una grandezza compiuta, di tutte le rarità è certo la più rara. Ma chi possiede la grandezza è sempre un po' in vantaggio in confronto agli altri. Anche se rimane frammento, il frammento ne reca impresso il sigillo.

Il carattere di Aljòsa è già descritto con finezza e penetrazione nelle prime pagine dei fratelli Kara-màzov.

Non è quel che si dice un ragazzo d'ingegno. La sua intelligenza non supera la media. Ma ha "un cuore caldo, nostalgico" e sa amare profondamente. Fatto singolare, però, non c'è uomo al quale l'amore potrebbe legarlo in modo definitivo. Nemmeno, in fondo, il suo maestro, al quale si è pur intieramente dato.

È tranquillo, taciturno e si apparta volentieri a meditare. E "raramente è spensierato o anche solo allegro"; tuttavia "chiunque lo guardasse capiva che non era ne cupo ne imbronciato, ma sereno e cordiale".

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Risplende e s'irraggia da lui una luce di letÌ2Ìa. E del suo amore è detto che tutto può sopportare tranne l'incertezza e l'inazione. Non gli basta di ardere silenzioso, ma anela alla chiarezza dell'azione.

Dostojevskij mette particolarmente in rilievo alcune sue qualità veramente singolari:

Fra i coetanei non voleva mai mettersi in mostra. È forse per questo che non aveva mai paura di alcuno; i ragazzi però capirono tosto che egli non s'inorgogliva per nulla della sua intrepidità, ma sembrava non accorgersi nemmeno di essere ardito e impavido. (I fratelli Kara-màzov, p. 21).

L'intrepidità in Dostojevskij è un segno di elezione. Ha però forme diverse. Oltre Aljòsa solo Stavròghin, ch'io sappia, e fino a un certo punto anche la povera Màrja Lebjàdkina non conoscevano veramente la paura. Il principe Myskin, invece, reagisce alla paura con un coraggio assoluto. Non conoscer la paura significa esser sottratti all'influsso delle cose temibili. L'estrema freddezza di Stavròghin lo rende invulnerabile alla paura; ci ricorda il ghiaccio in cui sono immersi i più tristi dannati dell'Inferno di Dante. In Aljòsa, invece, c'è tanta fermezza, limpidezza e calore che' la paura non ha su di lui alcun potere.

A questa sua intrepidità si collega un altro aspetto del suo carattere:

Non serbava mai memoria delle offese, accadeva che, un'ora dopo l'offesa, già desse risposta all'offensore o si mettesse lui stesso a parlargli con aspetto così confidente e limpido, come se nulla ci fosse stato fra loro. E non che allora avesse l'aria di avere per caso dimenticato o di proposito perdonato l'offesa; non la considerava invece, semplicemente, come un'offesa, e questo gli cattivava e con-

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quistava pienamente l'animo dei fanciulli. (I Fratelli Kara-màzov, p. 22).

Un'altra caratteristica singolare, dunque: la mancanza di amor proprio. Non però frutto di una vittoria su se stesso, come nello stàrets, ma qualità originale come nel principe Myskin. Anch'essa costituisce una categoria metafisica o, più esattamente, religiosa: in quest'uomo vi è posto per il "Tu", vi è lo spazio in cui può affermarsi con piena libertà l'esistenza del prossimo.

Perciò Aljòsa non giudica mai. Si limita ad ascoltare e a distinguere il giusto dall'ingiusto; non approva quando approvare non è possibile ma non condanna. E quando non sa che cosa fare di meglio si allontana in silenzio. Per questo suo padre, il vecchio usuraio libertino, dice di volergli bene:

Sento bene che tu sei sulla terra l'unico che non mi abbia condannato, caro ragazzo mio; questo io lo sento, sai, non posso mica non sentirlo.

Tuttavia: è l'essere stesso di Aljòsa che "giudica". Per essere più esatti: vi è una chiarezza in lui che porta la distinzione tra il bene ed il male su un piano di consapevolezza, sicché in presenza sua questa differenza s'impone. "Tu sei la mia coscienza", gli dice Grùscegka. Tale egli è veramente, e non solo per lei. E lo è perché non giudica, perché vi è in lui l'assenza di ogni presunzione. Nella sua semplicità parla la verità stessa.

Dostoevskij parla con insistenza particolare della sua castità:

C'era in lui un solo tratto che in tutte le classi del 97

ginnasio, cominciando dalla più bassa fino alle più alte,

eccitasse nei compagni un desiderio continuo di farsi giucco di lui, non per derisione malvagia, ma perché la cosa li divertiva. Questo suo tratto era una selvaggia, esaltata pudicizia e castità. Egli non poteva sentire certe parole e certe conversazioni sulle donne... Vedendo che « Aljòsa Karamà-zov », quando si mettevano a parlar di « questo », si tappava rapidamente gli orecchi con le dita, gli altri qualche volta a bella posta gli facevano ressa attorno, e, levandogli a forza le mani dal capo, gli gridavano in entrambi gli orecchi delle oscenità, mentre egli si dibatteva, si gettava per terra, si copriva la faccia, e tutto ciò senza dir loro una sola parola, senza ingiuriarli, sopportando in silenzio l'affronto. Da ultimo però lo avevano lasciato in pace e non lo punzecchiavano più chiamandolo « ragazzuccia »; lo guardavano anzi, da questo lato, con compatimento. (I Fratelli Karamàzov, p. 22).

Questa castità viene dallo spirito; più esattamente, dallo "pneuma". La sua anima, consacrata alle realtà più sante, non sopporta l'impurità.

Forse egli sente nella irritabilità dei suoi sensi il pericolo insito di una caduta grave. Che Aljòsa sia in pericolo lo avvertiamo infatti da certi fenomeni patologici. Egli rimane intimamente legato alla madre morta, vittima della disonorante bassezza del marito. Da lei egli ha ricevuto le prime, forse decisive impressioni religiose e insieme anche una particolare emotività. Un giorno che il padre con ripugnante spavalderia racconta come usasse maltrattare la moglie finché ella fosse presa da un attacco del suo male, Aljòsa, rivivendo all'improvviso l'angoscia materna, è colto dalla stessa crisi nervosa.

E finalmente un ultimo tratto singolare:

Un altro suo tratto, assai caratteristico anzi, era quello di non darsi mai pensiero a spese di chi vivesse... Ma questa singolarità del carattere di Aleksjèi non la si poteva,

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a quanto pare, condannare molto severamente, perché chiunque l'avesse solo un tantino conosciuto si sarebbe subito convinto, venendogli un dubbio al riguardo, che Ale-ksjèj era proprio uno di quei giovani che somigliano agli « innocenti » e che, se gli fosse improvvisamente capitato fra le mani anche tutto un capitale, non avrebbe esitato a darlo via alla prima richiesta per un'opera buona o magari a consegnarlo ad un abile imbroglione che gliel'avesse domandato. In generale, poi, pareva che egli non conoscesse affatto il valore del denaro, parlando, s'intende in senso non letterale. Quando gli si dava un po' di spiccioli, ch'egli però non chiedeva mai, o non sapeva che fame per intere settimane, o non sapeva conservarli e in un momento gli sparivano di mano. Piotr Alexàndrovic Mjùsov, persona che, quanto a quattrini e a onestà borghese, era meticolosissima, avendo più tardi osservato Aleksjèi, pronunziò una volta su di lui il seguente aforisma: « Ecco forse l'unico uomo al mondo che, lasciato a un tratto solo e senza denari sulla piazza di una atta sconosciuta d'un milione di abitanti, non si perderà mai e non morrà ne di fame, ne di freddo, perché subito gli si darà da mangiare, subito gli si darà un posto; e, se non glielo si desse, lui stesso lo troverebbe da sé in un momento; e ciò non gli costerebbe sforzo od umiliazione di sorta, ne sarebbe un peso per chi gli desse il posto, ma, anzi, piuttosto un piacere » (I Fratelli Karamàzov, pp. 22-3).

Sentiamo nelle parole del "cronista" — il personaggio comprensivo, un po' mediocre, a cui Dostojev-skij ricorre talvolta per ottenere come un'atmosfera psicologica neutra — il significato profondo sottinteso. Siamo di nuovo in presenza di una qualità metafisica, propriamente parlando, cristiana: l'esortazione a non preoccuparci del domani. Anch'essa non acquisita ma profondamente connaturata. È la serenità perfetta di chi si sente solo impegnato da una realtà superiore; congenita, in più, ad una così luminosa forza di convinzione che subito si è disposti ad aiutarlo. Una specie di solidarietà si stabilisce

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tra lui ed il primo venuto poiché quest'ultimo si accorge che egli vive solo nella sollecitudine delle cose supreme.

La verità e l'angelo

Dobbiamo ora penetrare più profondamente nell'intimo di questa figura veramente straordinaria.

Fjòdor Karamàzov, il padre, dice un giorno all'altro figlio Ivàn;

— Che hai da guardarmi? Che occhi mi fai? I tuoi occhi

mi guardano e dicono: « grinta di ubriaco! » Nei tuoi occhi c'è la diffidenza, c'è il disprezzo nei tuoi occhi... Tu sei venuto con secondi fini. Ecco Aljòsa che mi guarda, ma i suoi occhi splendono. Aljòsa non mi disprezza. Aleksjèj, non amare Ivàn. (I Fratelli Karamàzov, p. 152).

Il suo astenersi dal giudicare qui è legato alla semplicità e alla trasparenza del suo essere: alla verità.

Ritroveremo la sincerità di Aljòsa forse soltanto nel principe Myskin. Essa ci colpisce soprattutto nel dialogo che ha luogo tra Aljòsa e il compagno Rakìtin, il "seminarista dall'animo volgare. Il discorso cade sul gesto sorprendente dello stàrets che si è prosternato davanti a Dmìtrij, fratello di Aljòsa1, e Rakìtin ironicamente osserva:

Gli innocenti fan sempre così: fanno il segno della croce sulla taverna e lanciano pietre contro il tempio. Così fa anche il tuo vecchio: il giusto lo caccia fuori col bastone e all'assassino s'inchina fino a terra.

— Che delitto? a quale assassino? Chi cosa dici mai?

1 Vedi sopra alla fine del terzo capitolo, pp. 91-92.

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— E Aljòsa restò come inchiodato- si fermò anche Rakìtin.

— A quale? Come se tu non lo sapessi! Scommetto che tu stesso ci avevi già pensato. A proposito, è curiosa: ascolta, Aljòsa, tu dia sempre la verità, pur tenendo sempre il piede in due staffe: ci hai pensato o non ci hai pensato? Rispondi.

— Ci ho pensato, — rispose Aljòsa sottovoce. Perfino Rakìtin si turbò. (J Fratelli Karamàzov, pp. 86-87).

Questa sincerità è così inaudita che persino un Rakìtin rimane confuso.

Più significativo ancora appare questo spirito di verità nella conversazione che ha luogo tra Aljòsa, Katjerìna Ivànovna e Ivàn, fratello di Aljòsa. Nel suo intimo Katjerìna ama Ivàn Karamàzov ma ella vuoi persuadere se stessa che è Dmìtrij l'uomo di cui è innamorata perché non saprebbe altrimenti liberarsi dall'intollerabile senso di umiliazione che la tortura dal giorno in cui si è offerta a Dmìtrij per salvare suo padre. Ella e Ivàn si nascondono i propri sentimenti e la conversazione si trascina così tormentosa per tutti finché Aljòsa, colto da un'eccitazione improvvisa, — "pareva soffocasse" — rimprovera alla donna di recitare una commedia:

— Di che parlate? non comprendo...

— Non lo so neppur io... È stato in me come un lampo improvviso... So che non faccio bene a dirlo, ma tuttavia dirò tutto, — continuò Aljòsa con la stessa voce rotta e tremante, — ho visto come in un lampo che mio fratello Dmìttji voi forse non l'amate affatto... fin dal principio... E anche Dmìtrij forse non vi ama punto... fin dal principio... ma vi stima soltanto... Non so davvero come adesso io osi dir tutto questo, ma bisogna bene che qualcuno dica la verità... perché la verità nessuno qui la vuoi dire...

— Che verità? — gridò Katjerìna Ivànovna, qualcosa d'isterico risonò nella sua voce.

— Eccola: — balbettò Aljòsa, come se si lanciasse in

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un abisso, — fate subito venire qui Dmìtrij, lo troverò io, che venga qui a prendere la vostra mano e poi prenda quella di mio fratello Ivàn, e unisca le vostre due mani. Voi tormentate Ivàn soltanto perché lo amate... e lo tormentate perché il vostro amore per Dmìtrij è uno strazio... un inganno... perché avete voluto persuadervi che sia così...

— Voi... voi... siete un piccolo mentecatto, ecco chi siete! — gli rispose bruscamente Katjerìna Ivànovna, pallida ormai m volto e con le labbra contratte dalla collera. Ivàn Fjòdorovic e un tratto fece una risata e si alzò. Aveva fra le mani il cappello. (I Fratelli Karamàzov, pp. 210-11).

Aljòsa sta con la verità in un rapporto tutto speciale. C'è in lui una forza di verità che non soltanto non mente ma afferma apertamente quello che è precisamente in un modo che trasforma il semplice fatto di dire il vero in un atto religioso, in una "illuminazione" che opera in lui. Ed ecco che un particolare apparentemente secondario s'illumina all'improvviso di un significato inatteso: Aljòsa è chiamato continuamente "angelo".

Il vecchio Karamàzov lo chiama "il mio angelo" e l'eccentrica Kochlàkov dice ch'egli "si è comportato come un angelo". Potrebbero essere dei semplici modi di dire, esagerazioni; ma anche Dmìtrij, fratello di Aljòsa, dice la stessa cosa.

Quando Aljòsa, dopo la morte del maestro, ha la sua prima crisi profonda e in questo turbamento dello spirito e della fede, che nello stesso tempo è rivolta dei sensi, "si risveglia la natura dei Karamà-zov", Rakìtin si accorge subito di che si tratta. Nella sua bassezza egli gode della caduta di un nobile spirito e getta olio sul fuoco:

— Sai, — dice a un certo punto — il tuo viso si è completamente alterato. Non c'è più nulla della tua famosa

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dolcezza di prima. Ti sei adirato con qualcuno, che? Ti hanno offeso?

— Lasciami, — disse a un tratto Aljòsa, continuando a non guardarlo e facendo con la mano un gesto di stanchezza.

— Oh, come sei! Ti metti a strillare proprio come tutti gli altri mortali. Tu, un angelo! Su via, Aljòsa, mi hai meravigliato, lo sai? tè lo dico sinceramente. (I Fratelli Karamàzov, p. 373).

Queste parole rimettono l'impressione che Aljòsa evidentemente fa su tutti... E possiamo aggiungere un passo singolare che troviamo a questo punto nell'abbozzo del romanzo:

Non so proprio cosa mi succede e come io possa osare, ma devo dire tutta la verità. Quale? Ebbene, questa — come gettandosi nel vuoto. — Chiamate Dmìtrij, affinchè unisca le vostre mani — perché voi amate soltanto lui e non fate che torturarlo.

Parole che vengono come dal centro profondo della visione di Dostojevskij e ci dicono molto di più di altre sue osservazioni marginali come egli abbia sentito l'anima di Aljòsa.

Ma la definizione più profonda è di Dmìtrij — e Ivàn la fa sua — quand'egli chiama Aljòsa "cherubino".

È dono singolare di Dostojevskij saper tradurre in evidenza e concretezza umana l'essere non umano, in modo che tuttavia l'immagine del sovrumano appaia nella persona che davanti ai nostri occhi vive e si muove, perfettamente reale. Così appare l'airuna2 in Smerdjàkov (nei fratelli Karamazov), la mario-

2 Figura della mitologia germanica, corrispondente a un dipresso alla mandragola (N. d. T.).

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netta nel sogno di Raskòlnikov e ancora la marionetta in Kirìllov (nei Demoni); il demone in Stavròghin e in Piotr Vjerchovènskij, grande il primo, il secondo spregevole. Ma si direbbe anche che Dostojevskij sia riuscito ad esprimere la natura angelica in una figura umana e precisamente in quella di Aljòsa Karamàzov.

La grandezza di Aljòsa di cui si è parlato prima non è soltanto una qualità umana; ivi si esprime anche qualcosa di sovrumano, la natura angelica. A questo proposito bisogna osservare che solo a partire della fine del Medioevo e soprattutto nell'epoca moderna l'angelo vive nel sentimento dei più come una figura un po' .sentimentale, mezzo femminile. Nell'Antico e nel Nuovo Testamento, invece, come pure nella coscienza cristiana primitiva e dei primi tempi del Medioevo l'angelo è un essere di straordinaria e quasi tremenda natura. Chi lo incontra rimane atterrito e sempre il colloquio ha inizio con l'esortazione: "Non temere", il che significa insieme che è data la forza per sostenerlo... Proprio la figura di questo essere sovrumano traspare da tutto il contegno di Aljòsa, più precisamente dal suo atteggiamento verso la verità.

Ed è una figura d'angelo particolare, in cui la verità è atto dell'esistere, che vive la santa verità: cioè il cherubino.

Così in certi momenti dire la verità significa per Aljòsa parlare come un messo di Dio. La verità prorompe allora da lui quasi come in un'estasi. Egli sente di doverla dire, di essere illuminato e incaricato di parlare.

Abbiamo già accennato a uno di questi episodi: la' conversazione con Katjerìna Ivànonvna. Ma ancora

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più memorabile è il colloquio tempestoso ch'egli ha con Ivàn. Parlano del fratello Dmìtri], accusato di parricidio, e Aljòsa dice:

...Non è lui che ha ucciso nostro padre, non è lui! Ivàn Fjòdorovic si fermo di colpo.

— Allora chi è l'assassino, secondo voi? — domandò con evidente freddezza, e nel tono della sua domanda risonò perfino un accento di arroganza.

— Lo sai anche tu, — disse Aljòsa con voce sommessa e penetrante.

— Chi? Alludi a quella favola del pazzo, dell'idiota epilettico? A Smerdjàkov? Aljòsa improvvisamente si sentì tremare tutto.

— Lo sai anche tu chi è, — si lasciò sfuggire, non potendone più. Egli ansava.

— Ma chi è, chi è? — gridò Ivàn già furioso. Tutta la sua riservatezza era sparita in un momento.

— Io so una cosa sola, — continuò Aljòsa, sussurrando, — non sei tu che hai ucciso il babbo.

— Non sei tu che hai ucciso il babbo, non sei tu! — domandò Ivàn trasecolato.

— Non sei tu che hai ucciso il babbo, non sei tu! — ripetè Aljòsa con, fermezza.

Seguì mezzo minuto di silenzio. ,

— Lo so bene che non sono io, deliri? — proferì Ivàn, con un pallido e tortuoso sorriso. Pareva che il suo sguardo si fosse conficcato in Aljòsa. Si trovavano di nuovo presso un lampione.

— No, Ivàn, tu stesso ti sei detto parecchie volte che l'assassino sei tu.

— Quando l'ho detto?... Io ero a Mosca... Quando l'ho detto? — balbettò Ivàn completamente smarrito.

— Tè lo sei detto molte volte, quando rimanevi solo. in questi due terribili mesi, — continuò Aljòsa, calmo e sicuro. Ma parlava ormai come fuori di sé, come obbedendo a una volontà non sua, a un irresistibile ordine superiore. — Ti accusavi e confessavi a tè stesso che nessuno, all'infuori di tè, era assassino. Ma tu non l'hai ucciso, t'inganni, non sei tu l'assassino, mi senti, non sei tu! Dio mi ha mandato a dirtelo.

Tacquero tutt'e due. Questo silenzio si protrasse per

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un intero lungo minuto. Erano fermi e si guardavano a vicenda negli occhi...

— Fratello, — riprese Aljòsa con voce tremante, — ti ho detto questo, perché so che tu crederai alla mia parola. Io tè l'ho detta, questa parola, per tutta la vita: non sei tu! Senti, per tutta la vita. Ed è Dio che mi ha suggerito di dirti questo, anche se tu, a partire da questo momento, dovessi odiarmi per sempre... Ma Ivàn Fjòdorovic evidentemente era già tornato del tutto in sé.

— Aleksjèj Fjòdorovic, — disse con un freddo sorriso, dando per la prima volta del "voi" a suo fratello — io non posso soffrire i profeti e gli epilettici, e soprattutto gli inviati di Dio, voi lo sapete troppo bene. Da questo istante io la rompo con voi e, credo, per sempre. Vi prego di lasciarmi immediatamente, a questo crocicchio. Del resto, ecco il vicolo che mena a casa vostra. Soprattutto, guardatevi bene dal venire da me oggi! Sentite? (I Fratelli Karamàzov, pp. 647-48).

Questo dialogo ha bisogno di un breve commento. Esso avviene la vigilia del processo che dovrà stabilire se Dmìtrij Karamàzov sia o no colpevole della morte di suo padre. In realtà egli è innocente e Aljòsa ne è persuaso. Egli è però altrettanto convinto della colpevolezza del quarto dei fratelli Karamàzov, il sinistro Smerdjàkov, che sotto certi aspetti non sembra nemmeno un essere umano. Ivàn si ostina invece a credere che Dmìtrij abbia ucciso. Egli odia il fratello, sia per il contrasto delle loro nature, sia e soprattutto perché Katjerìna Ivànovna, che egli ama e che nel segreto del suo cuore sa di appartenergli, vuoi convincere se stessa di amare invece Dmìtrij. Nel colloquio memorabile in cui i fratelli "imparano a cono-scersi", Ivàn ha aperto il suo cuore ad Aljòsa. Egli crede in Dio, ha detto, ma non accetta il mondo da Lui creato perché vi regna l'ingiustizia. Nella Leggenda del Grande Inquisitore ha poi raffigurato un uomo che per correggere questo mondo sbagliato si

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arroga il diritto di disporre del bene e del male e per alleggerire gli uomini dal peso di ogni colpa tutte le assume su di sé3. In seguito, perdurando la crisi, "lui". Satana, ha cominciato ad apparirgli in certi strani momenti di esaltazione morbosa. Si è presentato allora alla sua coscienza il problema del significato del male nel mondo, sotto un aspetto ora serio ora di scherno, e lo ha avvolto tra la coscienza e il delirio in un tessuto infernale di verità e di menzogna. Tutto poi ha finito per confondersi nella sua mente ed ora Ivàn si trova a questo punto: odia e disprezza suo padre e ne desidera la morte. Nell'evolversi della situazione egli sente nascere un pericolo per la vita del padre e nel suo smarrimento attende che esso si concreti, anzi lo spera. In fondo a questi pensieri criminosi c'è però anche una ragione più "elevata". Roso da un complesso di inferiorità, Ivàn aspira nella sua coscienza tormentata ad un'esistenza di eccezione. Questa consisterebbe nel porsi, come il Grande Inquisitore, al di sopra del bene e del male e nell'ar-rogarsi il diritto di fare il male e, dunque, anche di permetterlo. Smerdjàkov l'ha indovinato. Anche egli odia l'uomo che gli ha dato la vita con un atto mostruoso, che l'ha privato degli stessi diritti dei fratelli costringendolo a fare il cuoco, e ora lo maltratta e schernisce come un servo. Egli si sente d'accordo con Ivàn, crede di aver ricevuto da lui l'incarico di agire e interpreta in questo senso, con pieno diritto, la partenza di Ivàn la vigilia della notte fatale. È chiaro ora il senso del passo citato. Durante quelle visioni febbrili, nella luce smorta in cui verità e inganno si confondono, il pensiero di

3 Cfr. il capitolo seguente.

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Ivàn è sempre fisso sulla stessa domanda: È Satana quello che io vedo o sono io allucinato? Se è vera la prima ipotesi è l'orrore della vicinanza satanica contro la quale tutto in noi insorge istintivamente... Ma se è vera la seconda, allora tutto ciò che la visione rivela di malvagio e di terribile viene dal cuore stesso di Ivàn. In questa tremenda alternativa risuona la voce di Aljòsa: "Non tu hai ucciso il babbo!" Nella sua ' chiaroveggenza egli ha letto nel cuore di Ivàn e le sue parole vogliono dire: "L'origine del delitto non è in tè; non è in un atto della tua volontà sovrana. Tu non sei il Grande Inquisitore, il bestemmiatore di Dio, che si è arrogato il diritto di decidere del bene e del male ed ha permesso agli altri il delitto. Tu non sei ciò che saresti in questo caso: Satana stesso. L'idea dell'assassinio non l'hai concepita tu, quell'atto non l'hai voluto tu. È stato Satana. Satana esiste. Ma non è tè, e perciò tu non sei lui. Tu sei soltanto un uomo che egli ha tentato. Non sei, come credi, un essere superiore, ma soltanto un povero uomo sedotto da Satana. Se tu fossi il Grande Inquisitore, se fossi Satana, chiuso e indurito nel male, saresti perduto e costretto a disperare. Ma sei soltanto sedotto, sei soltanto un uomo ed hai aperta la via della salvezza perché puoi pentirti".

Straordinaria penetrazione psicologica! Aljòsa parla "ormai fuor di sé, come obbedendo a una volontà non sua, a un irresistibile ordine superiore":

Non sei tu l'assassino, mi senti, non sei tu! Dio mi ha mandato a dirtelo.

E poi ancora:

Io tè l'ho detta questa parola, per tutta la vita: non sei tu! Senti, per tutta la vita. Ed è Dio che mi ha sug-

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gerito di dirti questo, anche se fu, a partire da questo momento, dovessi odiarmi per sempre.

Odiare, perché? Perché non piuttosto ringraziarlo ed amarlo? La risposta di Ivàn mostra con quanta precisione Aljòsa abbia colto nel segno:

Aleksjèj Fjòdorovic, — disse con un freddo sorriso, dando per la prima volta del « voi » a suo fratello, — io non posso soffrire i profeti e gli epilettici, e soprattutto gli inviati di Dio, voi lo sapete troppo bene. Da questo istante io la rompo con voi e, credo, per sempre.

La parola di questo inviato, di questo "cherubino", è proprio parola di Dio, verità che salva purché si compia una conversione, cessi ogni resistenza a Dio e l'orgoglio sia piegato. A cosa deve rinunciare Ivàn, se non all'orgoglio del superuomo? Egli potrà salvarsi solo se vorrà essere un uomo come tutti gli altri, rinunciando a porsi al di sopra del bene e del male e sottomettendosi a questa distinzione in spirito di ubbidienza al volere divino. Ma appena la parola di salute tocca questo punto dolente della coscienza, questa insorge e lo stesso avviene qui. Si ostinerà, Ivàn per arrendersi? Il romanzo non risponde a questo quesito ma la grave malattia di Ivàn sembra indicare come probabile la prima ipotesi.

Da quanto si è detto sinora risalta con forte rilievo la misione di verità di Aljòsa, l'immagine, dunque, del cherubino.

Nello stesso senso interpretiamo anche la grande visione ch'egli ha dopo la morte dello stàrets.

Vinto dal dolore Aljòsa si è adormentato accanto alla bara e ora sogna che lo stàrets entra nella stanza e gli parla. Egli si sente chiamato alla promessa delle

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"nozze eterne" di cui parla il vangelo delle nozze di Cana che ora i sacerdoti leggono ad alta voce:

Sì, a lui, a lui si è avvicinato il vecchietto scarno, con fitte rughe sul volto, gioioso e sorridente... Com'è possibile? È dunque anche lui al festino, anche lui invitato alle nozze di Cana di Galilea...

— Tu pure, caro, sei invitato e convitato, — risuona su di lui una voce calma. — Perché ti sei nascosto qui, che non ti si vede?... Vieni anche tu con noi.

È la sua voce, la voce dello stàrets Zòsima... Lo stàrets ha dato la mano ad Aljòsa, questi si è alzato di ginocchioni.

— Rallegriamoci, — continua il vecchietto scarno, — beviamo il vino, nuovo, il vino della nuova e grande gioia;

vedi quanti ospiti? Ecco il fidanzato e la fidanzata, ecco il sapiente Mastro di Tavola, che assaggia il vino nuovo... Vedi tu il Sole nostro, lo vedi?

— Ho paura... Non oso guardare... — mormorò Aljòsa.

— Non aver paura di Lui. Egli è terribile per la Sua maestà, ci sgomenta con la Sua altezza. Ma infinitamente misericordioso, per amore si è fatto simile a noi e gioisce con noi, converte l'acqua in vino perché non sia interrotta la gioia degli ospiti, ne attende di nuovi, ne chiama sempre di nuovi, e già da secoli e secoli. Ecco che portano anche il vino nuovo, vedi, portano i vasi...

Qualcosa ardeva nel cuore di Aljòsa, qualcosa l'aveva colmato fino al dolore, lacrime di estasi gli erompevano dall'anima... Egli distese le braccia, gettò un grido e si svegliò...

Di nuovo la bara, la finestra aperta e la quieta, solenne, ritmica lettura del Vangelo. Ma Aljòsa ormai non ascoltava più quello che si leggeva. Cosa strana, si era addormentato in ginocchio, e ora stava in piedi, e tutt'a un tratto, come svellendosi dal suolo, si avvicinò con tré passi rapidi e fermi fino a toccare la bara... Solo un momento prima aveva sentito la sua voce, e quella voce gli risuonava ancora negli orecchi. Egli stava ancora in ascolto, attendeva altri suoni... ma a un tratto, voltatesi bruscamente, uscì dalla cella.

Non si fermò nemmeno sulla scaletta, ma scese abbasso rapidamente. La sua anima piena di estasi aveva sete di libertà, di spazio, d'immensità. Sopra di lui si aprì vasta,

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a perdita d'occhio, la volta celeste, piena di placide stelle scintillanti. Dallo zenit all'orizzonte si sdoppiava, ancora indistinta, la Via Lattea. Una notte fresca e calma fino all'immobilità avviluppava la terra. Le torri bianhce e le cupole dorate della cattedrale brillavano sopra un cielo di zaffiro. I magnifici fiori autunnali delle aiuole attorno alla casa si erano addormentati, in attesa del mattino. Il silenzio della terra pareva fondersi con quello del cielo, il mistero terrestre si congiungeva a quello stellare... Aijosa stava in piedi e guardava, e a un tratto, come falciato, si prosternò sulla terra.

Non sapeva perché l'abbracciasse, non si dava ragione del suo desiderio irresistibile di baciarla, di badarla tutta, ma la badava piangendo, singhiozzando e bagnandola delle sue lacrime, e giurava, nella sua esaltazione, di amarla in eterno. « Bagna la terra con le lacrime della tua gioia e ama queste tue lacrime... », gli risonò nell'anima. Per che cosa piangeva? Oh, egli piangeva nella sua estasi anche per quelle stelle che gli mandavano la loro luce dall'abisso, e « non si vergognava della sua esaltazione ». Si sarebbe detto che i fili di tutti quegli innumerevoli mondi di Dio SÌ fossero congiunti insieme nella sua anima e che essa fremesse tutta « al contatto degli altri mondi ». Avrebbe voluto perdonar tutto a tutti e domandare perdono, oh! non per sé, ma per tutti e per tutto, « per me lo domanderanno altri », tornò a risonare nell'anima sua. Ma ad ogni istante sentiva in modo più chiaro e quasi tangibile che qualcosa di saldo e d'incrollabile come quella volta celeste gli scendeva nell'animo. Un'Idea pareva insignorirsi del suo spirito, e ormai per tutta la vita e per l'eternità. Era caduto a terra debole adolescente, ma si alzò lottatore temprato per tutta la vita, e subito lo sentì e ne ebbe coscienza, in quello stesso momento della sua estasi. (I Fratelli Karamàzov, pp. 394-96).

Questo "sentimento incrollabile come la volta del cielo" è qualcosa che appartiene alla categoria della verità. Questa realtà solidamente fondata e indistruttibile che s'inarca come una volta e tutto abbraccia, questa eternità astrale, questa presenza di un'evidenza assoluta è "la verità".

Ili

Dio è qui Colui che si manifesta nell'eletto con la potenza della verità. Della verità che non solo è eterna e incrollabile, luminosa e ardente, ma significa anche amore e rinuncia, onde chi l'ha in sé non appare come un essere terribile e consumante, ma è chiamato familiarmente "Al]òsa", "Aljòska", vigile coscienza degli altri uomini, eppure amato da tutti.

Alla verità egli si è dunque consacrato ed il suo maestro lo manda ad annunciarla nel mondo:

— Tu sei più necessario laggiù. Là non c'è pace. Servirai e ti renderai utile. Se si levano i demoni, recita una preghiera. E sappi, figliuolo (lo stàrets amava chiamarlo così), che d'ora innanzi il tuo posto non è più qui. Ricordatene, ragazzo. Non appena Dio si sarà degnato di chiamarmi a sé, lascia il monastero. Lascialo del tutto.

Aljòsa ebbe un sussulto.

— Che hai? Il tuo posto per ora è qui. Ti benedico per una grande obbedienza da compiere nel mondo. Avrai da pellegrinare a lungo. E dovrai prender moglie, dovrai. Bisognerà che tu sopporti ogni cosa, finché non tornerai. E ci sarà molto da fare . Ma non dubito di tè, ed è per ciò che ti mando. Cristo è con tè. Custodiscilo ed egli ti custodirà. Conoscerai un gran dolore e nel tuo dolore sarai felice. Eccoti il mio testamento: nel dolore cerca la felicità. Lavora, lavora senza posa. Ricorda fin da oggi questa mia parola, giacché, se anche discorrerò ancora con tè, non solo i miei giorni, ma anche le mie ore sono contate. (J Fratelli Karamàzov, pp. 84-85).

Questa è di tutte le missioni la più difficile, la più insidiata.

La natura angelica presuppone difatti la possibilità di una caduta, poiché solo chi sta in alto può "cadere". Ora qui si tratta veramente di un'altezza e quest'altezza per giunta è sacra.

Anche Pintrepidità di cui si è parlato, il disinteresse, la castità, la serenità di Aljòsa hanno la loro

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origine qui. Esse sono espressione di una singolare elevatezza e insieme della possibilità di una caduta precipitosa. Aljòsa è un essere che non solo può declinare, ma anche cadere, precipitare.

Vi alludono alcuni passi molto significativi. Un giorno il vecchio ubriaco Fjòdor chiede a suo figlio Ivàn:

— Dio c'è o non c'è? Ma sul serio! Adesso ho bisogno di parlare sul serio.

— No, Dio non c'è.

— Aljòsa, c'è Dio?

— Dio c'è.

— Ivàn, e l'immortalità esiste? un'immortalità qualunque, anche piccola, minuscola?

— Neanche l'immortalità.

— Di nessun genere?

— Di nessun genere.

— Vale a dire, un perfettissimo zero, il nulla. Ma ci sarà forse qualche coserellina? Non sarebbe mai il nulla!

— Un perfettissimo zero.

— Aljòsa, esiste l'immortalità?

— Esiste.

— Dio e l'immortalità?

— E Dio e l'immortalità... (I Fratelli Karamàzov, p. 150).

Così questa volta. Ma poco tempo dopo, in un'ora di profondo sconforto, parlando con la piccola Lise, quella singolare creatura, mezzo malata e mezzo corrotta, che si direbbe perfino della natura degli elfi, Aljòsa dice:

— I miei fratelli si perdono, mio padre anche. E perdono altri con sé. È la « forza dei Karamàzov », come si espresse l'altro giorno padre Paìsio: una forza terrena, frenetica e bruta... Non so nemmeno se al di sopra di questa forza aleggi lo spirito di Dio. So appena che sono anch'io un Karamàzov... Sono un monaco, io, un monaco?

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Sono un monaco. Lise? Avete detto un momento fa che io sono un monaco?

— Sì, l'ho detto.

— E io, forse, non credo neanche in Dio!

— Voi non credete, che cosa dite? — proferì Lise con voce sommessa e cauta. Ma Aljòsa non rispose. C'era in quelle sue parole così improvvise qualcosa di troppo misterioso e di troppo soggettivo, qualcosa forse che per lui stesso non era chiaro, ma che senza dubbio già lo tormentava.

— Ed ecco, oltre a tutto il resto, che il mio amico se ne va, il più grande fra gli uomini abbandona la terra. (I Fratelli Karamàzov, p. 243).

Il senso di queste parole è chiaro. Aljòsa prevede la tentazione, non quella di dubitare teoricamente di Dio ma di ribellarsi a Lui.

E la tentazione viene davvero, potentemente descritta: quando il miracolo che Aljòsa nella sua fede ancora imperfetta aveva atteso per la glorificazione del maestro non si compie, e a lui, profondamente depresso nello spirito e insieme esaurito nel corpo, Rakìtin si avvicina nella veste del tentatore. Allora Aljòsa si mette all'improvviso a parlare usando le espressioni di suo fratello Ivàn, il "ribelle": pensa con i suoi pensieri, si trasforma in viso e Dostojevskij usa a suo proposito dei termini che abitualmente quando si tratta di lui non ricorrono:

— Così ora eccoti in collera e in rivolta contro il tuo Dio: non ti hanno promosso? non ti han dato la medaglia per la festa? Eh, voi!

Aljòsa guardò Rakìtin a lungo e con gli occhi socchiusi, nei quali passò un lampo... ma non di stizza contro Rakìtin.

— Io non mi rivolto contro il mio Dio, ma « non accetto il Suo mondo », — disse a un tratto Aljòsa con un sorriso forzato4.

4 Vedi a questo proposito il capitolo seguente, pp. 117-172.

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— Come, non accetti il mondo? — e Rakìtin riflette un istante sulla sua risposta. — Che scempiaggine è questa? Aljòsa non rispose.

— Su, lasciamo le bazzecole, veniamo al fatto: hai mangiato oggi?

— Non ricordo... mi pare di sì.

— Tu hai bisogno di ristoro, a giudicare dalla tua faccia. Fa pena guardarti. Stanotte, già, non hai dormito, ho sentito che là avevate una riunione. E poi tutto questo trambusto... Avrai certamente assaggiato soltanto un po' di pane benedetto. Io ho in tasca un salsicciotto, l'ho preso poc'anzi a ogni buon fine in città, nel venir qui, ma tu, già, non ne vorrai...

— Dammene.

— Eh, eh! Come sei diventato! È dunque una rivolta in pieno, sono le barricate! Su via, fratello, non è cosa da pigliare alla leggera. Vieni da me. Berrei anch'io volentieri della vodka, sono stanco morto. Per la vodka Corse non ti decidi... o ne berrai?

— Dammi anche la vodka.

Oh, oh! A meraviglia, fratello! — E Rakìtin lo guardò trasecolato. — Comunque sia, vodka o salsicciotto, questa è una occasione coi fiocchi e non si può lasciarla scappare, andiamo!

Aljòsa si alzò da terra in silenzio e seguì Rakìtin. (I Fratelli Karamàzov, pp. 372-73).

Qui l'"angelo" sta veramente davanti a un abisso... Ma si riprende. In casa di Grùscegka egli ritrova la via segreta dell'amore e della verità. Eppure proprio in questo momento avviene qualche cosa che somiglia davvero a una caduta: Aljòsa dimentica la consegna del maestro di soccorrere Dmtrij nell'estremo pericolo:

— Se ti vedesse tuo fratello Vanicka, sì che rimarrebbe stupito! A proposito, tuo fratello Ivàn Fjòdorovic è partito stamane per Mosca, lo sai?

— Lo so, — disse Aljòsa con indifferenza, e subito gli balenò alla mente l'iramagme del fratello Dmìtrrj, ma gli

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balenò appena e, benché egli si ricordasse di un certo affare urgente che ormai non si poteva più differire di un solo momento, di un certo dovere, di un obbligo imperioso, anche questo ricordo non gli fece nessuna impressione, non arrivò al suo cuore, e dileguò in quel medesimo istante dalla sua memoria. Ma Aljòsa se ne rammentò poi per lungo tempo. (I Fratelli Karamàzov, p. 373).

L'immagine del fratello affiora e scompare. Aljòsa non lo salva. La via del delitto è libera. Sopraggiunge la catastrofe.

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CAPITOLO QUINTO

I RIBELLI

La leggenda del Grande Inquisitore e il suo poeta Premessa

L'ultimo e maggior romanzo di Dostojevskij, I Fratelli Karamàzov contiene la "Leggenda del Grande Inquisitore". Al primo momento essa non sembra necessariamente legata col resto. Ma è posta a un punto così importante del racconto che già questo fatto ammonisce a esser prudenti nell'esprimere un giudizio. Tanto più se badiamo alla particolare composizione delle opere di Dostojevskij. Quello che ci colpisce nella vita Ulteriore dei suoi personaggi è il modo in cui appare costruita la loro personalità. La personalità occidentale tende a comporre in un chiaro equilibrio i propri singoli e ben caratterizzati aspetti, coordinandoli l'uno all'altro, il che le permette di concentrare la vita in un punto solo e determina il carattere, d'attività morale e storico, del nostro esistere. Gli uomini di Dostojevskij, invece, hanno una struttura diversa. Vorremmo paragonare l'unità della loro persona a quella di un complesso geografico, ad un paese ove ci siano pianure e montagne, fiumi e mari. Questa unità sembra risultare piuttosto da una coesistenza di elementi diversi, che natural-

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mente può diventare unità solo in quanto sia dominata da qualcosa che funga da legame, a una atmosfera, da un tono, da un fluido. I vari elementi particolari di essa sembrano compenetrarsi a vicenda. Debbono quindi esser tali da rendere possibile questa compenetrazione, ossia fluidi, aperti. Vien fatto di pensare alla differenza che osserviamo nella pittura occidentale fra il modo di comporre di Rembrandt e quello, ad esempio, dei maestri italiani del Rinascimento: in Rembrandt il centro non si trova in alcun luogo perché è dappertutto, diffuso come la sua luce. Così a formare un personaggio dostojevskiano possono concorrere pensieri, tendenze e forze psichiche che certo infrangerebbero la struttura dell'uomo occidentale. Ora la forma dei romanzi di Dostojevskij sembra corrispondere alla struttura dei suoi personaggi. Molte prolissità e incoerenze sono sicuramente dovute al suo modo affrettato, quasi affannoso, di comporre, ma questo non ha fatto che accentuare una tendenza già insita in lui. L'unità delle sue opere non è quella di un romanzo francese e nemmeno di un romanzo tedesco.

Nel rispondere perciò al quesito se una parte, un episodio, di un suo romanzo siano veramente essenziali all'economia dell'opera occorre procedere con molto maggior cautela che non per qualsiasi altro scrittore — ragione di più per considerare con particolare attenzione la "Leggenda del Grande Inquisitore".

Vi è in realtà tra la leggenda e tutto il resto dell'opera un legame molto stretto e l'abitudine di considerarla come qualcosa di conchiuso in sé porta a fraintendere il significato, oltre che l'intenzione

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di chi l'ha scritta, e a distruggere l'unità poetica del romanzo. Acquista essa allora il carattere penoso di un libello demagogico. In realtà la figura del "Grande Inquisitore" può esser capita soltanto in rapporto a tutto il libro del quale essa è parte.

La leggenda

Ivàn, il primogenito di Ivàn Fjòdor Paviovic Karamàzov e della sua seconda moglie toma a casa dall'università e vi incontra il fratello minore Aljòsa. In mezzo al disordine materiale e morale che regna nella casa paterna nasce tra i due fratelli una simpatia profonda. S'incontrano un giorno in una trattoria, la conversazione diventa tosto uno scambio d'opinioni e di idee e Ivàn espone al fratello la sua concezione anarchica e pessimista del mondo. Aljòsa obietta che vi è Uno in cui si risolve tutta l'assurdità della vita: Cristo. Ivàn risponde col racconto di un "poema" intitolato "II Grande Inquisitore".

L'incontro ha termine con un breve dialogo in cui si preannuciano spiacevoli avvenimenti.

Il sunto della leggenda è questo:

Cristo è vissuto ed ha predicato il suo verbo, ma dopo la morte le cose sulla terra si sono messe su una cattiva strada. Sono sorte false dottrine, i vizi sono entrati nel mondo e gli uomini si sono fatti reciprocamente tutto il male possibile. "Nella sua misericordia" Cristo decide allora di tornare, almeno per breve tempo, tra il popolo, tra il suo popolo "dolorante e sofferente", immerso nel pec-

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cato, ma che Lo ama come un fanciullo". E decide di andare « in Spagna, a Siviglia, al tempo della terribile inquisizione, quando ogni giorno ardevano al cielo i roghi per la gloria di Dio ».

Cristo si reca dunque laggiù e tutti Lo riconoscono.

Egli passa in mezzo a loro silenzioso, con un dolce sorriso d'infinita compassione. Il sole dell'amore arde nel Suo cuore, i raggi della Luce, del Sapere e della Forza si sprigionano dai Suoi occhi e, mondando gli uomini, ne fanno tremare i cuori in una rispondenza d'amore. Egli tende loro le braccia, li benedice e dal contatto di Lui, e perfino dalle Sue vesti, emana una forza salutare.

Dappertutto si risveglia la fede ed egli compie grandi miracoli. Ed ecco, nel momento in cui uno di questi miracoli avviene, passa •-

accanto alla cattedrale, sulla piazza, il cardinale grande inquisitore in persona. È un vecchio quasi novantenne, alto e diritto, dal viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei quali, come una scintilla di fuoco, splende ancora una luce... Aggrotta le sue folte sopracciglia bianche e il suo sguardo brilla di una luce sinistra. Egli allunga un dito e ordina alle sue guardie di afferrarlo. E tanta è la sua forza e a tal punto il popolo è docile e sottomesso e pavidamente ubbidiente, che la folla subito si apre davanti alle guardie e queste, in mezzo al silenzio di tomba che si è tatto di colpo, mettono le mani su Lui e lo conducono via.

Cristo è dunque in carcere. Si fa notte. Ed ecco giunge il Grande Inquisitore ed ha con lui uno strano colloquio:

« Sei Tu, sei Tu? » — Ma non ricevendo risposta, aggiunge rapidamente: — «Non rispondere, tari. E che

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potresti dire? So troppo bene quel che puoi dire: Del resto, non hai il diritto di aggiunger nulla a quello che Tu già dicesti una volta. Perché sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a disturbarci, lo sai anche Tu. Ma sai che cosa succederà domani?... Domani stesso io Ti condannerò e Ti farò ardere sul rogo, come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi si slancerà domani, a un mio cenno, ad attizzare il Tuo rogo, lo sai? Sì, forse Tu lo sai », aggiunse profondamente pensoso, senza staccare per un attimo lo sguardo dal suo Prigioniero. (I Fratelli Karamàwv, pp. 175-76).

Ma Cristo non dice nulla. È lì semplicemente. Guarda il cardinale e questi parla ininterrottamente.

Il sunto del lungo e febbrile discorso in poche parole è questo:

Cristo è venuto per dare agli uomini la piena libertà e la responsabilità assoluta delle loro azioni, ad annunciare ed esigere una vita di santità, opera dello spirito e dell'amore. Ed è stato compreso. Degli uomini sono andati nel deserto ed hanno tutto sacriEcato per essere inclusi "nella schiera degli eletti". Ma poco alla volta ci si è accorti che questo può toccare in sorte solo a pochissimi. La maggior parte non può sostenere il peso di tanta responsabilità e libertà, vivere nella spiritualità pura. E si è cercato un compromesso. Si è escluso dal cristianesimo tutto ciò che è superiore alle forze dei più e lo si è adattato alle loro possibilità e ai loro desideri. Al posto della libertà hanno dunque messo l'"autorità", al posto dello spirito il "miracolo", al posto della verità il "mistero", ossia la magia. Ora il popolo vive contento. Il messaggio di Cristo è andato perduto. Il popolo si è trasformato irrimediabilmente in massa. Ma in compenso ha il pane, i piaceri dei sensi, la sicurezza e si sente felice.

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Chi ha fatto questo?

Uomini che dapprima hanno cercato di percorrere la via della elezione, la via "dei solitari e delle vergini immacolate" — la risposta alla domanda, che cosa sarebbe stato degli altri, era probabilmente lasciata alla misericordia divina — ma che poi un giorno si sono turbati e non hanno più potuto sopportare un mondo fatto com'era fatto il loro, un'esistenza cristiana troppo esigente per i più, che finiscono col disperare, e dove i pochi, nonostante i loro sforzi, forse falliscono ugualmente; dove la sofferenza non diminuisce, anzi non ha più fine. C'è qualcosa che non va, hanno pensato, e sono giunti così alla convinzione che "l'opera di Cristo debba essere corretta".

Essi hanno riconosciuto che gli uomini vanno trattati come massa e non possono aspirare se non a una felicità mediocre. Ma in questo caso bisognava escludere dal cristianesimo quello che propriamente è di Cristo e commettere così il peccato più orribile. Quegli uomini hanno assunto la responsabilità di questo delitto e si sono consacrati a Satana per assicurare ai molti la loro parte di felicità. Nel fa? questo essi si sono però anche resi conto del loro immenso potere. Si sono levati contro Dio. Si sono eretti giudici di Cristo. Hanno preso personalmente in mano la salute degli uomini. Ora sono i padroni del mondo. Rappresenta questo nuovo ordine d'idee la Chiesa romana, in particolare la sua gerarchla, soprattutto però l'espressione più cosciente del suo spirito: l'ordine dei Gesuiti.

La Chiesa ha messo mano su Cristo. Ora egli non può rivolgersi liberamente agli uomini. Egli deve restare con ciò che è più suo nei limiti e nelle

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forme che la gerarchla gli impone. La sua parola è ora fissata, inquadrata, elaborata. Ma per questo appunto egli appartiene ora al passato. Nello stesso istante in cui volesse manifestarsi spontaneamente agli uomini nella sua realtà presente, in atto, egli distruggerebbe l'ordine stabilito. Metterebbe a repentaglio la salute degli uomini, alla quale la gerarchla ha provveduto una volta per sempre. Sarebbe l'eretico per eccellenza. Ora, poiché egli torna davvero, non chiamato, di propria iniziativa, è naturale che il Grande Inquisitore gli annunci per il giorno seguente la morte degli eretici. Il poema finisce poi così:

L'Inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta 'per qualche tempo che il suo Prigioniero gli risponda. Il suo silenzio gli pesa. Ha visto che il Prigioniero l'ha sempre ascoltato, fissandolo negli occhi col Suo sguardo calmo e penetrante e non volendo evidentemente obiettar nulla. Il vecchio vorrebbe che dicesse qualcosa, sia pure di amaro, di terribile. Ma egli tutt'a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bada sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle labbra hanno avuto un fremito; egli va verso la porta, la spalanca e Gli dice: « Vattene e non venir più... non venire mai più... mai più! ». E Lo lascia andare per le vie oscure della città. Il Prigioniero si allontana.

— E il vecchio?

— Il bacio gli arde nel cuore, ma il vecchio persiste nella sua idea.

Il piano dell ' interpretazi o ne

Che cosa significa questa leggenda? La prima interpretazione plausibile è quella accolta dalla maggior parte dei commentatori: Dosto-

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jevskij difenderebbe qui la causa di Cristo contro il suo peggiore avversario, e quest'avversario non sarebbe semplicemente l'incredulità, ma Vecclesiali-smo, ossia la trasformazione del vivo rapporto tra l'uomo e Dio in un sistema di garanzie di salvezza, di formule e di pratiche. Qui l'essenza del cristianesimo, la grazia, verrebbe sostituita da una tecnica di dominio sulle persone e sulle anime, dietro la quale si nasconderebbe, ancor più terribile, la volontà demoniaca di por le mani su Dio stesso. Tutto questo sarebbe opera ed espressione della Chiesa cattolica: a questa si contrapporrebbe la religione della libertà, dello spirito, dell'amore, della viva pienezza cristiana del cuore.

A chi ama la Chiesa anche le deche e ingiuste deformazioni dell'autore del poema non impediranno di riconoscere anche troppo precisamente quanta parte di dolorosa verità possa esservi in queste accuse. Soltanto, queste cose sono già state rilevate da altri, meglio di quanto non avvenga nei Fratelli Karamàzov l. Ci sentiremmo perciò molto delusi, se la "leggenda" rappresentasse soltanto una prosecuzione dell'antica lotta tra Roma e Bisanzio. Diciamo

1 "Anzitutto dal grande amico di Dostojevskij, Vladimir Solov'ev, col quale egli verso la fine della vita — Solov'ev era ancora giovanissimo — visse sei mesi nel famoso convento di Optina Pustin, vicino a Mosca, per studiarvi il monachesimo russo. Frutto di questi studi fu la figura dello stàrets nei Karamàzov. Aliòsa è probabilmente il giovane Solov'ev medesimo. Questi si convertì poi al cattolicesimo senza perdere per questo lo spirito di penetrazione e la ricchezza di pensiero proprio al cristianesimo orientale. Potè dunque fare anch'egli la sua critica del cattolicesimo dal punto di vista dell'Oriente e la fece con ben altra competenza di Dostojevskij. Vedi a questo proposito il volume Manarchia Sancii Petri e La Russie et l'Église universelle.

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Roma e Bisanzio perché — e questo va detto subito — sarebbe già partito preso indicare negli avversati di questa lotta "la Chiesa orientale" e "Roma". Semmai diciamo onestamente "Bisanzio" e "Roma", e chi conosce un po' del passato sa anche come terribilmente la "storia" pesi su questi due nomi.

Tuttavia noi abbiamo un'opinione troppo alta di Dostojevskij per credere che questo straordinario psicologo abbia potuto offrirci, anche se fosse stata la sua intenzione, nient'altro che un brano polemico. Se poi l'avesse voluto, ci appelleremmo dal polemista al creatore, persuasi che sotto il contrasto delle idee si celino strati più profondi dell'essere e agiscano forze più profonde dell'istinto, dell'anima e del sentimento religioso. E rivendicheremmo il diritto di interpretare Dostojevskij non ostante Dostojevskij. Poiché le creazioni di un grande scrittore non gli ubbidiscono, ma seguono le proprie leggi e sono più profonde di lui.

Liberandoci dunque dalla visione convenzionale ed esaminando più attentamente la "leggenda" nel suo rapporto col romanzo ci accorgeremo presto che la critica di "Roma" non può costituire il tratto essenziale nella figura del Grande Inquisitore e che interpretare la leggenda in questo senso non è un buon servizio reso a Dostojevskij. La critica è stata infatti non solo il suo lato più debole ma anche quello meno nobile. Egli ha avuto tré awersari, forse quattro: il socialismo, la civiltà razionalista e idealista d'Occidente, la Chiesa Cattolica e ... i Tedeschi. Ma dobbiamo subito rettificare: non "avversali" bensì "nemici": poiché nessuno di essi egli ha affrontato in campo aperto. Egli non ha com-

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battuto contro di essi ma ha preferito denigrarli. Forse che il socialismo si identifica col torbido e corrotto mondo dei Demoni? E la ragione e la tecnica dell'Occidente si riducono semplicemente a un materialismo diabolico come egli ama farcele apparire in tutta la sua opera, pur che si pensi per esempio alle Memorie del sottosuolo? Quanto alla Chiesa cattolica, nemmeno un nemico acconsentirebbe a riconoscerla nella caricatura sacrilega del Grande Inquisitore. Finalmente il Tedesco di Dostojevskij è una così sgradevole figura di uomo pedante e limitato, privo di doti, freddo, volgare e ridicolo e questi tratti appaiono così insistentemente e sono disegnati con tanta voluta e precisa raffinatezza che par di toccare col dito una invicibile avversione quasi fisica... Dostojevskij non era abbastanza forte per avere degli avversar! e perciò li ha resi spregevoli. Un'analisi attenta potrebbe mettere a nudo alcune radici di questo odio. Essa condurrebbe nel vero intimo di Dostojevskij, oppresso da tante inversioni e rimozioni.

Il "Grande Inquisitore" è certamente un attacco a Roma; vi troviamo pensieri e sentimenti che Dostojevskij manifesta anche in altre sue opere quando si parla di cattolicesimo o quando appare la figura di un cristiano cattolico. Solo, il significato della leggenda è altrove e si rivela soltanto quando si consideri l'economia complessiva del romanzo.

In realtà la leggenda è in relazione alla visione che Ivàn ha del diavolo e ai suoi discorsi sul mondo e su Dio. Vista in questo insieme e proprio in quanto Ivàn se ne va per giustificarsi, essa è la rivelazione della sua anima e della sua particolare esperienza religiosa.

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Il cristianesimo della leggenda

Di fronte alla figura del Signore nella leggenda — il lettore permetta che io inizi la mia analisi con un'impressione personale — mi sono sentito pervadere da principio da un grande, intimo fervore cristiano. Poi questo sentimento cominciò a sembrarmi dubbio: dove mi portava esso realmente? Decisi così di accogliere l'obiezione che sentivo sorgere in me e di porre la domanda apparentemente paradossale: di fronte a questo Cristo non ha ragione in ultima analisi il Grande Inquisitore? Questo Cristo non è in fondo un "eretico"? E mentre cercavo di rendermi ragione di un'impressione che andava facendosi sempre più precisa e insistente mi fu chiaro ad un tratto che in questa figura l'elemento cristiano è staccato dai piani e dagli ordini ai quali è per essenza riferito.

In questa figura di Cristo il fatto cristiano è sentito come un'esigenza di responsabilità totale e, insieme, come qualcosa di assolutamente fuor del comune. Questo cristianesimo non ha rapporti con la zona intermedia ove pur vive l'uomo e si svolge la sua esistenza quotidiana. Non che si voglia fare certo — lungi 'di voi — un'apologià della mediocrità. Come potremmo amare Dostojevskij e dimenticare che l'esistenza umana partecipa delle altezze e delle profondità e che perciò la sua regione intermedia ne è, nello stesso tempo, determinata e minacciata? Ma altezza e profondità pura sono va-lori-limite, e vita non può esservi senza quella sfera mediana dove tuttavia si è continuamente sollecitati a decidersi per l'una o per l'altra. Una vita priva di questa zona intermedia diventa irreale poi-

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che qui è il luogo dell'attuazione pratica, qui il campo e l'officina dell'esistenza. Quelle decisioni alle quali siamo sollecitati debbono tradursi qui in realtà effettiva, al fine di mostrarsi valide.

Essa è dunque la sfera dell'attuazione in senso stretto dove ha il suo fondamento tutto ciò che noi chiamiamo possibilità, misura, disciplina, ordine, salute, stabilità, tradizione — valori decisivi, che possono sembrare propri di una concezione severa e talvolta angusta della vita ma pure sono il fondamento della serietà dell'esistenza, di tutto dò che intendiamo per "carattere". Forse l'obiezione più forte che si possa muovere al quadro che Do-stojevskij ci da dell'esistenza umana è che vi manca appunto quella zona di mezzo. Per accorgersene basta osservare come i personaggi dei suoi romanzi tutto facciano tranne una sola cosa: lavorare. Il "lavoro" per noi significa in questo caso tutta l'esistenza quotidiana con le sue tribolazioni, la sua responsabilità e la sua dignità.

Questa sfera di mezzo comprende anche la realtà storica, come luogo dove non solo si affrontano rischi e sofferenze ma si pongono anche le basi di un'esistenza umana durevole. Qui le idee si con-vertono in forze, gli impulsi in istituzioni, le convinzioni in ordinamenti e leggi. Qui la responsabilità è guida alle azioni, se ne accettano le conseguenze e la realtà è virilmente affrontata.

Così questo ambito costituisce anche un aspetto fondamentale del fatto cristiano come realtà storica: la Chiesa. Essa è per natura Chiesa di tutti, non solo degli eletti, Chiesa dell'esistenza quotidiana, non soltanto delle ore eroiche. Anch'essa, come l'uomo, è ordinata, a partire da una zona

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mediana, sia all'altezza che alla profondità, ed è perciò espressione non soltanto di due ambiti limite ma anche ed essenzialmente delle possibilità medie dell'elemento cristiano.

Il cristianesimo della leggenda, invece, non ha alcun rapporto con questa sfera mediana, e questo lo rende irreale.

Nello stesso tempo e per la stessa ragione s'introduce qui una forma di ribellione molto sottile che consiste nell'ammettere solo un cristianesimo "puro". Identificare, infatti, il "fatto" cristiano con l'ideale cristiano, respingere le gradazioni, le approssimazioni, il "meglio", significa in fondo ribellarsi a Dio, che è il Dio dell'amore e dell'umiltà, ossia, in questo caso, della realtà.

Di qui possiamo spingere lo sguardo più in fondo. Basta aprirsi un poco allo stesso spirito e alla figura di Cristo come egli appare e parla a noi nel Nuovo Testamento per accorgersi com'egli sia ordinato a un determinato piano: quello della creazione. In quanto opera di Dio essa è detta buona;

egli la giudica e la condanna soltanto nel suo peccato, come corruzione della realtà originaria. E l'invito alla penitenza è precisamente esortazione a trasformare il mondo reale. La creazione rimane il piano di riferimento della rivelazione — come non può essere diversamente se è vero che il mondo è stato creato dal Logos e proprio questo Logos si è fatto uomo per riscattarlo.

Il mondo non può certamente esser considerato esclusivamente per se stesso. Esso ha un valore solo in quanto Dio l'ha creato per i propri fini e perciò esso si trova veramente compiuto solo nella

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Sua grazia. Ma in questo senso esso è davvero qualcosa e qualcosa che ha un significato. Neppure dopo il peccato il mondo ha cessato di essere creatura di Dio. Non è divenuto il nulla, un non-senso, e nemmeno il "peccato" in se stesso. Così parla non la società cristiana, ma solo una tormentata coscienza nordica. Ma secondo una concezione cristiana dei valori, la creazione è sì "giudicata", ma non respinta. Essa non è il nulla e nemmeno semplicemente il male, col quale ciò che viene da Dio non potrebbe esser posto che in un rapporto paradossale. Sebbene corrotto, il mondo rimane opera Sua, causa e fine della redenzione. Tutti i valori cristiani debbono esser compresi in rapporto alla creazione. Essi ci esortano alla vita della "nuova creatura", ma presuppongono come punto di partenza la vecchia creazione, così come l'origine divina di questa è il piano di riferimento mai abbandonato della nuova.

Perciò l'ubbidienza di Cristo al Padre non è tanto di chi si lascia sacrificare per un mondo scivolato nell'assurdo ma piuttosto l'ubbidienza glorificante dei Verbo incarnato che ha assunto nel corpo e nell'anima il vecchio mondo del Padre e lo inserisce nella nuova creazione.

Il Cristo del Grande Inquisitore, invece, non ha questo rapporto col mondo. Non sta in alcun rapporto essenziale al Padre Creatore. Non può farci credere di essere il Verbo in cui il mondo è stato creato e la cui incarnazione dovrà ora rigenerarlo trasformandolo. Questo Cristo non sta col mondo reale in quel santo rapporto d'amore che lo purifica e lo rinnova; la sua è soltanto compassione che invita a uscire dal mondo.

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È un Cristo distaccato. Un Cristo che esiste solo per sé. Egli non viene al mondo dal Padre e non va dal mondo al Padre. Non ama il mondo così com'esso è fatto e non lo riconduce veramente "a casa". Non è inviato e non è redentore. Non è mediatore fra il vero Padre celeste e il vero uomo. Quale sia il suo vero posto in realtà non si vede. Egli ci scuote, ma per lasciarci nell'incertezza della sua provenienza e della sua mèta. Il turbamento che suscita in noi ci rende perplessi e toglie in ultimo ogni speranza.

Abbiamo forse esagerato? Si legga allora il Nuovo Testamento e poi il "poema" e ci si affidi all'impressione che lascia in noi quella figura, si cerchi di entrare nel campo della sua irradiazione...

Ma poi: a chi dobbiamo del resto questo poema su Cristo? a un uomo che personalmente non crede affatto nel Redentore e prescrive come norma all'umile credente il prodotto intellettualistico della sua incredulità. A uno che forse non crede neppure in Dio, o meglio, come dice egli stesso, crede in Dio ma "non accetta la Sua creazione" — situazione oscura e tormentosa, intessuta di contraddizioni, conseguenza di una negazione più dissolvente della semplice negazione di Dio. A un uomo, finalmente, a cui Satana può apparire e mostrarsi perfettamente d'accordo con lui.

La leggenda non è certo il grido appassionato e sincero di un uomo che aneli al cristianesimo puro e nemmeno l'espressione teorica di tale cristianesimo, ma è la risposta di Ivàn ad Aljòsa, il quale alla filosofia anarchico-pessimistica del fratello aveva contrapposto la figura del Redentore. L'intenzione pale-

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se di Ivàn è di giustificare la propria concezione del mondo a se stesso.

Qual è dunque la "correzione" che il Grande In-quisitore vuole introdurre nel messaggio del Cristo del poema? Questa: egli fa valere l'uomo della realtà, con i suoi limiti e le sue debolezze, l'uomo della mediocrità insomma. Ma tutto questo è posto poi come assoluto e in tal caso profondamente falsato. In luogo del giusto mezzo cristiano, ne vediamo la caricatura insieme banale e diabolica e al termine di questo processo appare la maschera terrificante dell'uomo della massa. Questa è certamente opera anticristiana, satanica. Ma Satana non può falsare nulla che non sia, almeno in origine, vero, in questo caso proprio l'elemento che manca al cristianesimo della leggenda. Esso è irreale e irreale è l'uomo a cui si rivolge. Il Grande Inquisitore, dunque, ristabilisce il diseredato nei suoi diritti. Riconosce che l'uomo è quello che è e gli da un segno d'amore affermando che l'esigenza cristiana deve partire da quello che l'uomo è, non da ciò che dovrebbe essere. Egli ha pazienza. Conosce il significato dell'ubbidienza, il valore costruttivo dei fattori dell'ordine e della realtà. E solo perché sa intervenire con tanta efficacia in aiuto di un'umanità misconosciuta, riesce poi a corromperla così profondamente e a farne il sistema demoniaco del suo mondo.

Tornando ora a Ivàn, che cosa può spingerlo a darci una simile immagine del Cristo? Questo, che egli pure si trova in un falso rapporto col mondo.

Lo tormenta una profonda ma negativa compassione della miseria umana. Essa è tutta istintiva,

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non purificata e mossa da un principio etico. E non vi può esser dubbio sulla natura di questa compassione appena si ascolti Ivàn parlare della sofferenza dei bambini, del ragazzo fatto sbranare dai cani sotto gli occhi della madre, della bambina seviziata dai genitori sadici. Mi si perdoni se parlo chiaro, ma la "leggenda" affonda le sue radia proprio qui. Leggiamo ad esempio la descrizione dei Turchi che accarezzano il bimbo in braccio alla mamma per indurlo a sorridere e a questo punto gli sfracellano la testolina con un colpo di pistola. Egli si affretta poi ad aggiungere che i Turchi "amano molto i dolci". Compassione, dunque, istintiva e per di più morbosa. Di qui anche la fremente attrazione affascinata con cui guarda alle sofferenze del mondo, il tormento cui non sa rinunciare, a immergersi sempre di nuovo.

Sentiamo poi Ivàn dichiarare che questo mondo è assurdo. Egli riconosce bensì che Dio è ed ha creato il mondo, ma non riconosce l'opera di Dio perché ad essa non si può applicare il metro della ragione, della giustiza, del cuore. Alle sue origini è l'assurdo, lo spirito "anti-euclideo". Un ritomo al razionalismo, dunque, un invito all'ordine borghese? Vedremo subito che si tratta di tutt'altro. Quello che Ivàn decisamente rifiuta è di appellarsi da questo disordine all'eternità, al mistero della superiore sapienza di Dio e del Suo amore. Egli vuole che giustizia sia subito qui, sulla terra. E temendo che le schiere dei risorti in comunione d'amore e gli osanna dei cori beati gli impediscano la protesta, la eleva ora, una volta per sempre:

"restituisce il biglietto d'ingresso", il che significa non riconoscere la realtà come mistero di Dio,

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rifiutarsi anche di accettarla così com'essa è, ossia nell'ubbidienza e nella pazienza.

Ma questa sofferenza, che non dovrebbe essere, l'elemento "antieuclideo", sono oggetto di così appassionato studio da parte di Ivàn che subito ci è chiaro che egli li ricerca proprio per se stessi. Se con tanto impeto egli respinge questo mondo è proprio perché nella sua sensibilità malata egli ama il male, a motivo del quale egli ripudia la creazione... E poiché egli ama il mondo così, non ostante la sua protesta amara non può staccarlo da sé, ma deve in certo qual modo restargli fedele, quantunque in una forma illegittima, poiché esso è male, ossia "nella rivolta ".

Il Grande Inquisitore è Ivàn stesso in quanto si rifiuta di riconoscere questo mondo e vuoi strapparlo dalle mani di Dio per dargli un ordine diverso e migliore... È ancora Ivàn che ama questo stesso mondo con tutto lo spasimo dei suoi nervi malati e non lo vorrebbe diverso da quello che è perché solo così esso gli può dare ciò che egli cerca;

che perciò vuoi mantenerlo nel suo stato attuale per potere protestare e godere tuttavia di esso anche nella protesta.

Ivàn ripudia la creazione di Dio perché l'ama di un amore perverso... Ma a guardar bene la respinge come opera di Dio per staccarla dal suo creatore e sentirla così tutta sua nella ribellione, nel fascino singolare di un possesso usurpato. Forse che Satana gli appare per caso? È forse soltanto casuale la non ben definibile ma profonda e trista amicizia che lo lega ad Elisa Chochlakòv, la fanciulla strana. e perversa nella cui vita è già apparso l'elemento diabolico?

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Ma che c'entra, si dirà, tutto questo con la figura del Cristo della leggenda? C'entra, e moltissimo, perché questo Cristo da ragione a Ivàn. Egli legittima qui la sua rivolta perché egli stesso non conosce la vera ubbidienza alla realtà del mondo e al Padre che questo mondo ha creato... D'altra parte, a questo stesso mondo che l'istinto perverso di Ivàn segretamente vorrebbe immutato, questo Cristo col suo « cristianesimo » così radicale può dir ben poco, estraneo com'egli è a tutto ciò che vi si compie nell'obbedienza quotidiana e assente, dunque, anche dalla « Chiesa », anzi in opposizione ad essa. Egli rende impossibile la trasformazione del mondo reale in senso cristiano e lo abbandona così all'usurpazione — all'usurpazione di Ivàn.

Anche il Cristo della leggenda è una giustificazione che Ivàn da di se stesso; nello stesso tempo rappresenta un tentativo nascosto di neutralizzare il cristianesimo, assumendolo nella sua "purezza" assoluta, staccato dal dato reale.

Occorre tuttavia aggiungere un'osservazione. Questo mondo che Ivàn ripudia è anche il mondo in cui vive suo padre, ed è fatto in modo che questi possa trovarvi protezione e considerazione, disporre a suo piacere del denaro ed avere Grùscegka per sé. Ora il Cristo di Ivàn che ignora il Padre nei cieli, poiché egli stesso non ha alcun riferimento col mondo reale, è anche la suprema idealizzazione della volontà parricida di Ivàn2.

Pensiamo a due parole terribili: quella che Ivàn

2 Queste righe sono state scritte prima ch'io avessi preso conoscenza del saggio di S. freud: Dosfojevskij e il parricidio nel primo abbozzo dei Fratelli Karamàmv e mi fossi posto la domanda se sia lento interpretare un testo in questo senso.

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grida nella sala, nel momento culminate del processo: "Chi non desidera la morte di suo padre?", la altra che singolarmente la previene, sulle labbra della piccola Lisa: "Ascoltate, vostro fratello ora è processato per avere ucciso il padre, e tutti hanno piacere che egli l'abbia fatto".

Ivàn Karamàzov

Chi è l'uomo singolare, del cui mondo ulteriore questo poema è l'espressione insieme perturbante e rivelatrice?

Ivàn è il figlio primogenito del vecchio usuraio Fjòdor Karamàzov e della sua seconda moglie Sò-fja Ivànovna.

Occorrerebbe parlare più diffusamente di quanto non sia possibile qui di questi genitori e della eredità che essi hanno trasmessa al figlio. Ci limiteremo ai dati essenziali: il padre, che vive da principio come un parassita nelle case dei ricchi, per soffocare il senso di umiliazione che lo rode intimamente fa il buffone con una frenesia che rasenta talvolta il deHrio. Col passar degli anni diventa un uomo irrimediabilmente abbietto; arraffa denaro senza scrupoli, manifesta una sensualità bestiale, che s'appaga di tutto ciò che comunque si chiami donna e cui non mancano d'altra parte aspetti di una ripugnante raffinatezza. Ha tuttavia dell'ingegno e dice cose talvolta anche profonde, come sovente accade che certe grandi verità siano messe da Dostojevskij in bocca a personaggi che contrastano stranamente con le loro parole. La bassezza dell'uomo si rivela poi in tutta la sua mostruosità quand'egli "per scherzo",

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per far colpo sui commensali ubriachi, abusa nel sonno di Lisavèta Smerdjàsaja, la povera demente. Essa da poi alla luce il quarto dei "fratelli", il sinistro Smerdjàkov, che in seguito scatenerà la catastrofe.

Ancora più intollerabile nella sua intenzionalità raffinata è il modo in cui egli provoca nella seconda moglie Sòrja — della schiera delle "soavi" e "silenziose" figure femminili di Dostojevskij — le crisi isteriche causate da una disonorata vita coniugale e ne gode. Di questi genitori è dunque figlio Ivàn.

Di lui è scritto:

Del maggiore, di Ivàn dirò appena che si fece un adolescente cupo e chiuso in sé, tutt'altro che timido, ma come penetrato, fin dai dieci anni, della consapevolezza... che il padre loro era uno così e così, di cui c'era da vergognarsi anche a parlarne. Questo ragazzo cominciò assai presto, quasi fin dall'infanzia (a quanto si diceva, almeno), a manifestare certe inconsuete e spiccate attitudini allo studio.

Quando entra nell'università non fa neppure il tentativo di mettersi in corrispondenza col padre per ottenerne l'aiuto,

forse per orgoglio, per disprezzo verso di luì, ma fors'anche per un freddo e assennato ragionamento, il quale gli suggeriva che dal babbo non avrebbe mai ricevuto un appoggio di qualche cotno. Comunque fosse, il giovane non si perdette punto e si procurò del lavoro, prima con lezioni da due grivny l'una, poi correndo per le redazioni dei giornali e fornendo articoletti di dieci righe sui fatti di cronaca, firmati « II teste oculare ». Dicono che questi articoletti fossero sempre scrìtti in modo così curioso ed arguto che presto ebbero voga.

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Ma quello che segue ci interessa in modo particolare:

Ivàn Fjòdorovic pubblicò improvvisamente in un grande giornale uno strano articolo, che richiamò l'attenzione anche dei non specialisti, e, quel che più conta, su un argomento che, in apparenza, gli era affatto sconosciuto, dato che egli aveva terminato i corsi di storia naturale. L'articolo era stato scritto sulla questione, allora dappertutto dibattuta, dei tribunali ecclesiastici. Esaminando alcune opinioni già enunziate su tale questione, egli esprimeva anche le proprie vedute personali. L'importante erano il tono e l'inattesa originalità della conclusione. Fatto sta che molti ecclesiastici credettero fermamente che l'autore fosse dei loro. A un tratto, insieme con quelli, non solo i laici, ma perfino gli atei, si diedero, dal canto loro, ad applaudire. Alla fin fine, alcune persone perspicaci conclusero che tutto l'articolo non era che una burla e una derisione sfrontata. (I Fratelli Karamàwv, pp. 16-18).

Nel colloquio col fratello di cui abbiamo già parlato è messa a nudo quanto v'è di più delicato nella sua anima.

— Si direbbe che tu mi ami, Aljòsa.

— Ti amo, Ivàn. Il fratello Dmìtrij dice di tè: Ivàn è una tomba. Io dico: Ivàn è un enigma. Anche adesso tu' sei per me un enigma, ma in tè ho già cominciato a capire qualcosa, e soltanto da questa mattina!

— Che cosa vuoi dire? — rise Ivàn.

— Ma non ti arrabbierai? — rise anche Aljòsa.

— Ebbene?

— Che anche tu sei un giovanotto come tutti gli altri giovani di ventitré anni, altrettanto fresco e giovanile, un. bravo ragazzo, uno sbarbatello, insomma! Non sei mica troppo offeso?

No, Ivàn non è offeso, al contrario. E ora racconta animandosi tutto come egli creda nella vita, negli uomini ch'egli ha imparato ad amare, nell'or-

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dine delle cose... Come tutto lo commuove, come gli sono care "le foglioline attaccaticce che si schiudono a primavera... caro il cielo azzurro". Egli ama i grandi destini e le alte opere dell'uomo. Vuoi andare in Europa:

So bene che partirò soltanto alla volta dì un cimitero, ma del più caro fra i cimiteri, sicuro! Dei cari morti riposano là, ogni pietra posta su di essi parla di una vita lontana così ardente, di una così appassionata fede nella propria impresa, nella propria verità, nella propria lotta e nel proprio sapere, che io, lo so fin d'ora, cadrò a terra, bacerò quelle pietre e vi piangerò sopra.

Questa è la vita la cui linfa sgorga ricca, profonda e fervida e si protende verso l'esistenza tumultuosa e le sue forme mutevoli:

Qui non c'entra l'intelligenza, ne la logica, qui tu ami con le viscere, col ventre, ami le tue prime forze giovanili... Comprendi tu qualche cosa, Aljòsa, nel mio garbuglio, o no?

— Comprendo troppo bene, Ivàtt: si vuoi vivere con le viscere e col ventre: tu l'hai detto magnificamente, ed io sono felicissimo che tu abbia tanta voglia di vivere, — esclamò Aljòsa. — Io penso che tutti debbano amar la vita avanti ogni cosa al mondo.

— Amar la vita più che il senso della vita?

— Proprio così, amarla più della logica, come tu dia, proprio più della logica, e allora soltanto ne afferrerai anche il senso. Ecco quello che da tempo mi passa per il capo. (I Fratelli Karamàzov, pp. 253-4).

Sono sentimenti pieni di forza promettente, ma forse anche un po' troppo forti... Vi è però dell'altro. C'è, appena dissimulato, il presentimento che questa fiducia potrebbe essere delusa. Questa vita non è perfettamente sicura di se stessa. Ivàn sente

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che le manca l'unità interiore che solo il cuore può dare, energia e potenza creatrice. Forze isolate possono liberarsi e governare da sole: così la forza elementare della terra, la brama dei sensi e delle passioni e il suo opposto, la fredda ragione che si fa tiranna proprio quando "la carne" si emancipa. Quando una si libera, si libera anche l'altra come i volti della trinità infernale del Satana di Matthias Griinewald. Questa volontà di vita sente minata la fiducia nella forza che dovrebbe darle unità e sostegno e si dispone a sussistere sotto forme isolate:

C'è al mondo una disperazione capace di vincere in me questa furiosa e forse indiscreta brama di vivere? e ho concluso che, a quanto pare, non c'è, torno a dire, prima che io arrivi ai trent'anni, e che poi io stesso non ne vorrò più sapere, così mi pare... In parte è una caratteristica dei Karamàzov, questa brama di vita, è vero; non ostante tutto, c'è senza dubbio anche in tè, ma perché mai sarebbe vile? (J fratelli Karamàzov, p. 253).

La forza primitiva dei Karamàzov, sottraendosi all'interiorità e all'influenza del cuore, diventa una cieca "forza elementare", forza terrestre che si scatena nell'uomo. E poiché l'uomo è persona, quello che nell'istinto dell'animale, nell'irruenza degli elementi ci appare in un certo senso "puro", o piuttosto estraneo al bene ed al male, diventa in lui malvagio.

Diventa "vile"... La parola è rivelatrice. Certamente Ivàn respinge questa definizione ma essa ritorna, dopo il racconto della leggenda. Dopo che Ivàn ancora una volta ha parlato della delusione che già s'insinua nel suo cuore, Aljòsa gli chiede:

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Come vivrai tu? ... È mai possibile, con un tale inferno nel cuore e nella testa?

— C'è una forza che resiste a tutto! — disse Ivàn con un freddo sogghigno.

— Che forza?

— Quella dei Karamàzov... la forza dell'abiezione dei Karamàzov. (I Fratelli Karamàwv, pp. 289-90).

Ma donde viene quest'abiezione? Che la "forza della terra" una volta scatenata acquisti un malvagio potere di distruzione è comprensibile. Ma come diventerebbe abietta? Come può affondare nella bassezza? Si potrebbe osservare a questo proposito che nell'uomo, il quale è persona la vitalità si corrompe appena il cuore non sia più unito allo spirito. La sensualità isolata, accanto alla spiritualità, all'intellettualismo isolato, è abietta. Satana è spirito in rivolta, e per questo appunto spirito impuro, che genera l'impurità dovunque si trovi ad agire sull'uomo. Ma nel caso di Ivàn c'è in più qualco-s'altro e qui veniamo al secondo funesto aspetto di questa sete di vita. In lui v'è qualcosa che lo at-tossica: l'insano rapporto di Ivàn col dolore che è nel mondo. Ne abbiamo già parlato. Egli vuoi eliminare un disordine che è causa di sofferenza ma egli stesso è nello stesso tempo voluttuosamente crudele. Le sofferenze altrui lo tormentano e tuttavia questo tormento egli lo cerca e ne gode. La sua compassione è perversa fin nelle origini e di qui proviene anche 1'" abiezione" di Ivàn.

Ora questa confina col male assoluto, col regno di Satana, là dove il morboso unito al malvagio sono raffinatamente goduti ed esaltati in uno spirito di ribellione. E qui è anche il punto d'incontro di Ivàn con Elisa Chochlakòv.

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Vorrei pregare il lettore di aver pazienza. Siamo di fronte a un caso complesso e occorre studiarlo in tutti i suoi aspetti per coglierlo poi nell'insieme.

Tormentato come la personalità è anche l'amore di Ivàn. In segreto esso va, silenzioso e profondo, alla bella, fiera ed appassionata Katjerìna Ivànovna. Se ella lo ricambiasse, potrebbe forse guarire le lacerazioni della sua anima, sollevare la "forza della terra" al piano dello spirito, ricongiungere lo spirito col sangue liberando il potere di irradiazione del cuore. Ma ella, che in realtà ama Ivàn, crede invece di amare Dmìtrij, il fratello maggiore, o piuttosto vuoi persuaderne se stessa. Qualche anno prima suo padre, un ufficiale superiore, era stato sul punto di essere disonorato per cattiva amministrazione dei fondi del reggimento. Ella si era recata allora da Dmìtrij, ufficiale nello stesso reggimento, e gli aveva chiesto un prestito. L'atto, anche per il modo in cui era stato compiuto, aveva voluto significare di più di una semplice preghiera. Dmìtrij si era condotto da gentiluomo ma il ricordo dell'accaduto era rimasto insopportabile all'orgoglio di Katjerìna, che- aveva cercato un sollievo nella persuasione di amare Dmìtrij. In realtà ella non lo ama e non ne è neppure riamata. Ma la costrizione dell'orgóglio ferito — che poi esploderà al processo nella folle deposizione e provocherà la catastrofe — è abbastanza forte per sbarrarle la via che può con-durla a Ivàn.

Ivàn odia perciò il fratello. E vi è qualcosa del cupo odio di Caino per il luminoso Abele nel modo in cui Ivàn, chiuso nel suo tormento implacabile, odia Dmìtrij, una delle poche figure schiettamente

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eroiche di Dostojevskij, uomo scosso dalle tempeste ma pronto anche a ubbidire a un impulso

generoso.

Ivàn ama Katjerìna; ma anche Grùscegka non gli è indifferente. Questo sentimento non appare chiaramente ma la scena tra le due donne in cui l'odio, prima dissimulato con sottile astuzia, finalmente esplode, non sarebbe comprensibile se tra di loro ci fosse soltanto Dmìtrij.

E ancora Ivàn è singolarmente legato a Lisa Chochlakòv. Da questa figura di fanciulla già quasi donna emana un fascino cattivo. Malata negli istinti, viziata da una madre troppo debole, Lisa, se esteriormente appare preservata dal male, nell'intimo è già corrotta e non dalle cattive letture soltanto... Ella ama Aljòsa, sogna di esser salvata dal caos spaventoso che la minaccia da ciò che in lui è puro e santo, ma nello stesso tempo vuole questo caos;

"trova bello" ciò che fa arrossire e disonora, offrendo così un singolare riscontro alla figura di Stavròghin nei Demoni. "Trovar bella la distruzione, la malattia, l'impurità significa scivolare verso la sfera del demonismo. I suoi sogni lo rivelano, ella stessa se ne accorge e si rifugia da Aljòsa in cerca di aiuto — nello stesso tempo scrive però una lettera a Ivàn di cui intuisce l'affinità con la propria natura. Ella ama il "cherubino" ma non sa rinunciare alla parte peggiore di sé ed è così profondamente corrotta da servirsi di Aljòsa per far recapitare la lettera a Ivàn. Questi poi sa tutto e sebbene disprezzi Lisa se la tiene in qualche modo amica.

Cuore pieno di contraddizioni, dunque, questo di Ivàn.

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Ivàn odia suo padre. Peggio ancora, ne ha schifo. Ma anche questo sentimento non è semplicemente la ripulsione di Dmìtrij che teme, nel vedere la figura ripugnante del vecchio, di perdere la testa e di colpire. Di Ivàn si racconta anzi come, giunto nella casa paterna, egli vivesse per alcuni mesi in buona armonia col padre. Questi a sua volta intuisce l'odio di cui è oggetto. Quand'è ubriaco, dice che lo sguardo di Ivàn è "diffidente e cattivo" e tuttavia c'è tra i due come il legame di una segreta corrispondenza.

L'ambiguità del sentimento di Ivàn si tradisce anche nei rapporti che egli coltiva con Smerdjàkov. Nel mondo del romanzo questa è una figura rive-latrice di grande rilievo, una specie di prodotto del-l'"abiezione" che fermenta nella famiglia Karamàzov. È un essere di cui talvolta si dubita se sia un uomo o non piuttosto un anfibio o un'airuna. Una creatura priva di bontà e di gioia. Tutto in lui è viscido e scontroso, obliquo e sruggente. È serio, ma non si capisce bene che cosa prenda veramente sul serio; assennato, ma con una logica così sconcertante, dissennata che mette freddo. Tuttavia anch'egli sogna di evadere e di rifarsi una vita e l'occasione gli viene offerta dal delitto perché i tremila rubli che egli vuoi rubare gli daranno la possibilità di farsi all'estero una esistenza nuova — cupo parallelo di Ivàn che vuoi fare la stessa cosa con i tremila rubli avuti in eredità. Questo è forse l'unico lato umano di questa figura; pensiamo al modo singolarmente attento e inquieto in cui egli guarda Ivàn, dopo avergli lasciato intrawedere per la prima volta i suoi piani:

Tutto il suo viso esprimeva un'attenzione e un'aspettativa 144

estrema, ma ormai timida e servile, come a dire: « Non mi dirai altro? non aggiungerai nulla? », ecco dò che si leggeva nel suo sguardo fisso e come confitto in Ivàn Fjòdorovic. (Z Fratelli Karamàzov, p. 301).

e alla disperata terribile tristezza dell'ultimo colloquio prima del suicidio.

Non è strano che Ivàn provi simpatia anche per quest'uomo? Che egli parli sovente con lui e permetta al "lacchè", lui così altezzoso, le più strane libertà? Sembra quasi che l'aristocratico per elezione senta qui il fascino del demoniaco nel suo aspetto più ripugnante — come talvolta accade che creature di singolare bellezza vengano asservite a esseri brutti e deformi.

Ivàn non riesce dunque a imbrigliare le forze divergenti-che lo governano.. Vede nell'esistenza delle fratture che gli son causa di tormento ma non sa colmarle; gli manca per questo un cuore vicino al suo, il potere irradiante, la virtù trasformatrice dell'amore. Perciò egli assume questa frattura come principio dell'esistenza.

L'assume là dov'egli è portato dal conflitto più profondo della sua vita. Ivàn è prigioniero di un orgoglio immenso, retaggio di uno spirito nudo, solitario e distante. Nella sfera dello spirito questo orgoglio è l'equivalente della "forza scatenata della terra" nel mondo della passione: è t'orza libera che agisce da sola. Nello stesso tempo lo rode però un sentimento bruciante di inferiorità3. Vive così in

3 Un'indagine attenta potrebbe dimostrare come in genere uno stato d'animo oscillante fra un sentimento di inferiorità e la presunzione, il servilismo e la rivolta, la prepotenza ti-

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un disaccordo insopportabile con se stesso. Vorrebbe sentirsi superiore agli altri, ma c'è nella sua natura — ed egli lo sa —- anche qualcosa del "lacchè". Smerdjàkov l'ha indovinato e sotto questo aspetto di fronte a lui Ivàn è impotente. Ora tutto si riduce per lui alla questione: riuscirà l'orgoglio a vincere il sentiménto di inferiorità e a farlo tacere? 4.

A partire di qui egli pone la frattura dell'essere come definitiva. Ora, anche una persona di orientamento diverso non ignorerà le antinomie dell'esistenza, ma cercherà di trovare nel proprio intimo la forza equilibratrice che gli permetta di superare il disordine, la sofferenza, il male, il peccato e spererà nella vittoria in virtù del potere liberatore e salutare della grazia. Incontrerà in qualche modo un principio fermo al di là delle contraddizioni. Così sarà per le "donne credenti" e per le due Sònje, nella loro eroica umiltà inconsapevole; Macario, il pellegrino, e lo stàrets raggiungeranno l'armonia per la forza unificatrice e irradiante di un cuore redento;

Aljòsa vi perverrà più tardi per la virtù angelica ch'è in lui. Ma Ivàn non vuole. Egli non ammette che la frattura possa esser sanata un giorno dall'amore di Dio. Egli esige che sia fatta giustizia già qui, sulla terra; e poiché ciò non può essere — egli lo sa e proprio per questo lo esige — ritorce contro Dio questa ingiustizia del mondo sbagliato. L'accusa, anzi, va più lontano: Dio non avrebbe nemmeno potuto creare un mondo perfetto. La frattura è già in lui... Perciò il mondo reca il mar-

rannica e la affabilità bonaria sia una chiave importante per capire certi personaggi di Dostojevskij. 4 Ancora il problema di Raskòlnikov.

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chio dell'imperfezione. Affermare questo significa però voler umiliare Dio, dichiarare la sua impotenza, accusarlo di debolezza, di ingiustizia e forse qualcosa di più terribile ancora.

Questa dunque è ribellione. Non ateismo, ma attacco aperto. Dio in fondo non è negato — sebbene appaia molto dubbio (vedi il colloquio col diavolo5) che Ivàn creda in Lui — ma è, qui, il nemico. In questo modo Ivàn proietta il suo inferiore dissidio nell'assoluto. Quel sentimento di inferiorità dovrebbe esser vinto con l'umiltà che libera il cuore e apre la via all'amore; la rivolta sceglie la via peggiore perché cerca di compensare quel complesso di inferiorità con una titanica rivolta contro Dio.

Nell'importante incontro presso lo stàrets, Mjù-sov riferisce che Ivàn ha sostenuto la tesi che

se si distruggerà nel genere umano la fede nella propria immortalità, senz'altto s'inaridirà in. lui non soltanto l'amore ma ogni forza viva capace di perpetuare la vita nel mondo. Non basta: allora non ci sarebbe più nulla di immorale, tutto sarebbe lecito.

5 Sarebbe far violen2a a Dostojevskij volerlo inserire nello schema della teologia dialettica e della sua dottrina del paradosso. Per questo il suo pensiero è troppo poco germanico. Poiché questo almeno dovrebbe esser chiaro, e cioè che il pensiero di Kierkegaard e dei suoi discepoli non è « specificamente cristiano », ma « specificamente nordico ». Asserire che Ivàn, parlando nel dubbio e nella rivolta, rileva che egli sa chi è • Dio, ossia che nulla di lui direttamente si può sapere, significa ignorare le idee religiose del russo Dostojevskij il quale rimane nella tradizione dell'idea di trasfigurazione. Nella figura di Ivàn non si tratta tanto della ricerca di un rapporto paradossale con Dio, quanto di un erigerai dell'uomo contro Dio. All'origine di tutto questo non stareb-. be allora Kierkegaard, ma Nietzsche.

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Al che lo stàrets domanda:

« Sareste voi davvero convinto che l'inaridirsi negli uomini della fede nell'immortalità dell'anima loro debba avere tali conseguenze? ».

Ivàn risponde:

« Sì, ho affermato questo. Non c'è virtù se non c'è immortalità ».

E lo stàrets:

« Beato voi, se così credete, oppure ben disgraziato! » — « Perché disgraziato? » sorrise Ivàn Fjòdorovic. — « Perché, con tutta probabilità, voi stesso non credete nell'immortalità della vostra anima, e nemmeno in dò che avete scritto intorno alla Chiesa e alla questione ecclesiastica ». (I Fratelli Karamàzov, pp. 76-7).

Anche se Ivàn, dunque, crede in qualche modo in Dio, sembra volergli strappare la prerogativa della Sua divinità. Questa consiste nel fatto che Egli, come validità e potenza assoluta ed essenziale, può impegnare l'uomo moralmente, che Egli anche moralmente è "il Signore" perché il bene non è qualcosa di superiore a Dio, ma Dio stesso è il bene. Ivàn con la sua rivolta non arriva al punto di pretendere di poter egli stesso stabilire una distinzione tra il bene e il male; tuttavia egli si arroga il diritto, come essere d'eccezione, di sorvolare sulla distinzione valida per la maggior parte degli uomini e di fare, ovvero permettere il male.

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Ivàn e Smerdjàkov

Abbiamo già parlato della strana relazione che corre tra Ivàn e il fratellastro Smerdjàkov. Il loro legame, al di là di quel lato non facilmente definibile, ha anche un carattere nettamente determinato. Se infatti Smerdjàkov nutre un freddo odio verso l'uomo alla cui infamia egli deve la sua trista esistenza, nel sentimento che Ivàn prova verso suo padre si mescolano l'odio e un disprezzo pieno di disgusto. Qui è il loro punto d'incontro. Ma Smerdjàkov è più forte; egli ha la forza oscura di un incubo.

L'odio di Ivàn per suo padre è terribile. Un giorno che Dmìtrij, pazzo di gelosia, ha battuto il vecchio, Ivàn è intervenuto ed ha allontanato il fratello:

« Diavolo, se non l'avessi strappato via, l'avrebbe bell'è ammazzato. Ci vuoi molto per Esopo? » bisbigliò Ivàn Fjodorovic ad Aljòsa.

« Dio ce ne scampi! » esclamò Aljòsa.

« E perché Dio ce ne scampi » continuò a bisbigliare Ivàn, con la faccia contratta dall'ira. « Un rettile divorerà l'altro, è la loro sorte comune». (I fratelli Karamàwv, p. 157).

Ivàn desidera che il padre sia tolto di mezzo e che il delitto sia compiuto dal fratello che egli pure odia. Folle desiderio, tuttavia ancora concepibile in un cuore schiavo della passione. Ma questa malvagità dal cuore è passata nello spirito, egli l'ha innalzata a principio del suo agire:

— Fratello, — gli dice Aljòsa — permetti ancora una domanda: è mai possibile che ogni uomo abbia il diritto

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di decidere considerando gli altri uomini, chi di essi sia

degno di vivere e chi non lo sia più?

— Cosa c'entra qui il decidere in base a meriti?... Ma quanto al diritto, chi non ha il diritto di desiderar??

— Non la morte di un altro, però!

— E se fosse anche la morte? A che scopo mentire a sé stesso, quando tutti gli uomini vivono così, e forse non possono vivere altrimenti?. (I Fratelli Kammàzov, p. 160).

Arriviamo ora allo strano, quasi inconcepibile episodio in cui Ivàn e Smerdjàkov vengono a trovarsi per la prima volta di fronte.

Ivàn ha rivelato ad Aljòsa, nel colloquio di cui s'è già detto, i suoi pensieri segreti e i suoi piani per l'avvenire. Vuoi andare in Europa, "mettersi, sempre solitario come in passato, per un nuovo cammino completamente ignoto, con molte speranze, ma senza saper quali". Ora s'avvia verso casa. Un'angoscia lo assale, non soltanto quella "dell'ignoto", ma qualcosa di diverso: un'angoscia "fino alla nausea".

Ciò che soprattutto rendeva quell'ansietà sgradita e irritante era il suo carattere in certo modo fortuito e tutto esteriore: egli lo sentiva. C'era in qualche luogo un essere o .un soggetto che gli dava fastidio... Ivàn Fjòdorovic, di pessimo umore e irritatissimo, giunse infine alla casa paterna e tutt'a un tratto, a una quindicina di passi dal portone, gettatavi un'occhiata, indovinò di colpo che cosa tanto lo avesse tormentato e turbato.

Seduto sulla panca, presso il portone, il servo Smerdjàkov prendeva il fresco della sera, e Ivàn Fjòdorovic, fin dal primo sguardo comprese che anche il suo pensiero era occupato dal servo Smerdjàkov, e che era precisamente quell'uomo ciò che la sua anima non poteva sopportare. (J Fratelli Karamàwv, pp. 292-3).

Smerdjàkov "gli era rimasto nell'anima"... In un 150

primo tempo Ivàn si era interessato di lui. « Gli aveva dato l'abitudine di discorrere con lui, pur meravigliandosi sempre di una certa incoerenza o, per dir meglio, di una certa irrequietezza del suo spirito e non riuscendo a capire che cosa mai potesse tormentare in modo così continuo e insistente "quel contemplativo" ». Poi Smerdjàkov aveva cominciato a venirgli in uggia ed egli si era messo ad odiarlo... I dissensi in famiglia si erano aggravati e anche Smerdjàkov ne aveva parlato con lui.

Ma sebbene Smerdjàkov fosse sempre molto agitato quando ne discorreva, non si poteva tuttavia m nessun modo raccapezzare che cosa, per suo conto, volesse. C'era anche di che stupirsi della illogicità e della confusione di certi suoi desideri, che involontariamente venivano a galla, ma che però erano sempre poco chiari. Smerdjàkov non faceva che interrogare, rivolgeva certe domande tortuose, evidentemente premeditate, ma senza spiegarne il perché.

In questa atmosfera di crescente ostilità di Ivàn verso il fratello ha luogo l'incontro:

Con un senso di fastidio e di irritazione, voleva ora passare in silenzio per il portello, senza guardate Smerdjàkov; ma Smerdjàkov si alzò dalla panca e da questo solo suo gesto Ivàn Fjòdorovic intuì in un attimo che quello desiderava di avere con lui un colloquio a quattr'occhi. Ivàn Fjòdorovic lo guardò e si fermò, ma appunto il fatto di essersi fermato così improvvisamente, invece di passar oltre, come soltanto un minuto prima aveva voluto fare,

10 esasperò fino a sconvolgerlo. Con ira e disgusto osservava la faccia smunta da skopèts di Smerdjàkov, coi capelli pettinati sulle tempio e con un piccolo ciuffetto sfuggente.

11 suo occhio sinistro, lievemente socchiuso, ammiccava e sorrideva, come per dire: "Perché tiri via? non andrai oltre; vedi bene che noi due, persone intelligenti, abbiamo qualcosa da dirci". Ivàn Fjòdorovic fremette.

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"Indietro, mascalzone, che ho da fare io con tè, imbecille?" stava già per sruggirgli di bocca, ma, con suo sommo stupore, gli uscì di bocca tutt'altra cosa:

— Dorme il babbo o si è svegliato? — disse con una voce sommessa e rassegnata, che riuscì a lui stesso inattesa, e a un tratto, pure nel modo più inatteso, sedette sulla panca. Per un istante ebbe quasi paura, come in seguito si ricordò. Smerdjàkov gli stava di fronte, con le braccia dietro il dorso, e lo guardava con sicurezza, quasi con severità.

— Riposa ancora, — pronunziò senza fretta. ("È lui che per primo si è messo a parlare, non io!") — Mi meraviglio di voi, signore, — soggiunse, dopo un po' di silenzio, abbassando gli occhi con una certa affettazione, mentre metteva avanti il piede destro e giocava con la punta della scarpa di vernice. (I Fratelli Karamàzov, pp. 293-95).

Comincia così la lotta fra i due fratelli. Ivàn odia Smerdjàkov ma nello stesso tempo non riesce a staccarsi da lui. L'altro lo sa e si comporta con una familiarità impudente. Ivàn è furioso, tuttavia parla e agisce non, come dovrebbe, per l'impulso dell'ira, ma come da un centro del subcosciente in comunicazione segreta con Smerdjàkov. È come se Smerdjàkov lo tenesse, di lì, soggiogato; d'altronde gli fa capire chiaramente che cosa li leghi l'uno all'altro: è l'accordo nell'odio verso il padre. Il punto di contatto sembra essere anzi ancor più profondo:

entrambi nel segreto del loro -animo si sono posti al di fuori della legge di Dio, Smerdjàkov in un modo indenifibile che ha dell'airunico e del satanico, Ivàn con la ribellione aperta. Rabbrividendo ascoltiamo Smerdjàkov esporre con una freddezza quasi inumana, dove freme tuttavia una strana eccitazione — quale profondità di intuizione psicologica! — il suo piano a Ivàn: egli ha la fiducia del vecchio e ne conosce le abitudini; sa che questi

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spera in una visita di Grùscegka e che Dmìtrij è quasi pazzo di gelosia contro il padre. Conosce i particolari con cui avrà luogo la visita attesa, ha provveduto a che Dmìtrij ne sia informato, in modo da eccitare la sua gelosia, e anche a tarlo entrare nel cortile chiuso sicché per forza dovrà imbattersi nel padre. Quanto a lui, egli simulerà un attacco di epilessia per scomparire come testimonio e a Ivàn suggerisce di recarsi in quei giorni critici a Cermàsnja, una località dei dintorni. Ivàn si sente preso in una complicità orrenda:

II volto d'Ivàn Fjòdorovic ebbe come una smorfia ed un tremito. Egli arrossì a un tratto.

— Perché dunque, dopo tutto ciò, — egli interruppe improvvisamente Smetdjàkov, — mi consigli di partire per Cermqsnja? Che hai voluto dire con questo? Se io partirò qui succederà qualche cosa. — Ivàn Fjòdorovic respirava affannosamente.

— Per l'appunto, — proferì Smerdjàkov sottovoce e con ponderazione, fissando intanto Ivàn Fjòdorovic.

— Come, per l'appunto? — ripete Ivàn Fjòdorovic, frenandosi a stento e con un balenìo minaccioso negli occhi.

— Ho parlato per un riguardo verso di voi. Se fossi

10 al vostro posto, pianterei qui tutto... perché restar vicino a una faccenda simile? (I Fratelli Karamàzov, p. 300).

Ivàn si alza, vuole

subito infilare il portello, ma si fermò di colpo e si volse verso Smerdjàkov. E accadde un fatto strano: Ivàn Fjòdorovic si morse ripetutamente il labbro, come in un convulso, strinse i pugni e... un attimo più tardi si sarebbe certamente gettato su Smerdjàkov. Costui però se ne avvide nel medesimo istante, sussultò e indietreggiò con tutta la persona. Ma Smerdjàkov la passò liscia e Ivàn Fjòdorovic si voltò in silenzio e come perplesso verso

11 portello.

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— Io parto domani per Mosca, se vuoi saperlo, domattina presto... ed ecco tutto! — diss'egli a un tratto, rabbioso, staccando le parole e a voce alta, per domandarsi poi egli stesso meravigliato che bisogno avesse avuto di dir dò a Smerdjàkov. (I Fratelli Karamàzov, p. 301).

Egli è dunque intieramente soggiogato. Viene poi la scena profondamente rivelatrice, in cui egli, a notte alta, quasi non più padrone di se stesso, si abbandona agli impulsi che lo governano.

Ma noi non staremo a riferire tutto il corso dei suoi pensieri, e se anche ci provassimo a riferirlo in parte, ciò sarebbe molto difficile, perché non erano pensieri i suoi, ma qualcosa di molto vago e, soprattutto, di tumultuoso. Egli stesso sentiva di aver perduto il suo equilibrio. Era tormentato anche da vari desideri, strani e quasi subitanei:

così, per esempio, dopo la mezzanotte gli venne una voglia insistente e intollerabile di scender giù, aprire la porta, di entrare nel padiglione e picchiare Smerdjàkov; ma, se glie ne avessero domandato il perché, non avrebbe assolutamente saputo indicare un motivo preciso, salvo, forse questo, che quel servo gli era divenuto odioso come il peg-gior offensore6 che potesse esserci al mondo. D'altra parte, quella notte la sua anima fu invasa più di una volta da una certa quale inesplicabile ed umiliante timidità, che pareva toglierli improvvisamente — egli lo sentiva, — anche le forze fisiche7. Il capo gli doleva e gli turbinava.

6 Ciò che « offende » è che Smerdjàkov lo creda capace di commettere un delitto e che Ivàn stesso gli dia il diritto di pensarlo. L'offende inoltre l'affinità che egli sente fra sé e il servo — per quanto di servile vi è nella sua natura — e il fatto che Smerdjàkov se ne renda conto.

7 Egli ha paura dell'azione che egli « attende », ossia ordina o, per lo meno, permette. Naturale moto della coscienza;

ma egli, come sappiamo, vuoi essere « Napoleone », « Grande Inquisitore ». Se vi riuscisse avrebbe la desiderata messa in atto dal suo io, lo slancio in cui si farebbe superuomo. Questi però non dovrebbe conoscere la paura. Perciò la pau-

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Un sentimento di odio gli attanagliava il cuore, come se si accingesse a vendicarsi di qualcuno... Quando poi rievocava, molto tempo dopo, quella notte, Ivàn Fjòdorovic ricordava con particolare disgusto che si alzava improvvisamente dal canapè, apriva piano la porta, come tremando all'idea che lo vedessero, usciva sulla scala e ascoltava come là in basso si movesse e passeggiasse Fjòdor Pàviovic, ascoltava a lungo, per forse cinque minuti, con una certa strana curiosità, trattenendo il respiro e col batticuore; ma perché facesse tutto ciò, perché stesse in ascolto, lo ignorava certamente anche lui. Per tutta la vita poi chiamò « ignobile » quella sua azione e in fondo a se stesso, nei recessi dell'anima, la considerò sempre come l'azione più vile di tutta la sua esistenza8. In quei momenti non provava alcun odio per lo stesso Fjòdor Pàviovic, ma soltanto una tortissima curiosità di sapere com'egli passeggiasse là da basso, che cosa facesse in camera sua9; indovinava e supponeva che dovesse guardar giù dalle finestre buie e a un tratto fermarsi di colpo in mezzo alla camera, aspettando, per sentire se non bussasse qualcuno. Ivàn Fjòdorovic uscì sulla scala, per dedicarsi a tale operazione, un paio di volte. (I Fratelli Karamàwv, pp. 302-3).

E ora il destino vuole che il vecchio insista perché Ivàn vada a Cermàsnja a sbrigarvi degli affari. Stupito e irritato per questa sgradevole coincidenza, Ivàn rimane fermo nella sua decisione di disinteressarsi di tutto e di andare a Mosca. Segue ora una scena quasi irreale:

Tutti i domestici erano venuti a salutarlo: Smerdjàkov, Màrfa e Gregòrij. Ivàn Fjòdorovic regalò dieci rubli a cia-

ra è la prova che egli troppo presume di sé ed è soltanto un « moralista » volgare, e questo è « umiliante ».

8 Egli attende l'assassino.

9 In realtà questa fredda obiettività è peggiore dell'odio. Per essa l'uomo si pone al di fuori di ogni sensibilità. Entra in una sfera non più umana. È forse questa obiettività impassibile che più avvicina Ivàn al superuomo, al Grande Inquisitore.

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senno. Quando si era seduto nel tarantàs, Smerdjàkov si precipitò per aggiustare il tappeto.

— Come vedi... vado a Cermàsnja... — parve a un tratto sruggire a Ivàn Fjòdorovic, di nuovo come il giorno prima, tanto queste parole gli uscirono di bocca da sé, e con un certo risettino nervoso per giunta. Egli se ne ricordò poi a lungo.

— È dunque vero quanto si dice, che fa piacere parlare con un uomo intelligente, — rispose tranquillo Smerdjàkov, gettando a Ivàn Fjòdorovic uno sguardo penetrante.

Ivàn dunque parte e durante il viaggio passa da momenti di profonda disperazione a momenti di grande benessere... Poi, dopo il primo cambio di cavalli:

Perché fa piacere parlare con un uomo intelligente? che cosa voleva dire con ciò?, queste domande gli assalirono a un tratto lo spirito. E perché gli ho detto che andavo a Cermàsnja?

Il viaggio prosegue. Ma improvvisamente egli cambia idea:

Alle sette di sera Ivàn Fjòdorovic salì sul treno e volò verso Mosca. « Via tutto il passato, il vecchio mondo è finito per sempre, e che io non ne senta mai più parlare! Verso un nuovo mondo, verso nuovi paesi, e senza guardare indietro ».

Ma egli non può mentire a se stesso.

All'entusiasmo succedette improvvisamente nell'animo suo un tal buio e gli strinse il cuore una tale tristezza, come non aveva ancora mai provato in tutta la sua vita. Meditò l'intera notte- il treno volava e solamente all'alba, arrivando ormai a Mosca, egli parve riaversi di colpo.

— Io sono una canaglia! — mormorò fra sé. (I Fratelli Karamàwv, pp. 307-8).

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Ed ha ragione. Dire a Smerdjàkpv: vado a Cer-màsnja, era come dirgli: Agisci. Ed egli nel suo cuore lo sapeva.

Egli ha agito veramente da "Grande Inquisitore", da superuomo.

Ma che miserabile superuomo! Il suo agire è meschino, impotente e contraddittorio come quello di Raskòlnikov. Egli scivola nel delitto.

"Macché Napoleone! solamente un pidocchio!" aveva detto Raskòlnikov.

Il colloquio col diavolo

L'insorgere di Ivàn contro Dio e il Suo mondo, la volontà di elevarsi all'amoralismo del superuomo, al di là del bene e del male, soffocando il complesso di inferiorità; i rapporti con l'elemento demoniaco in Lisa Chochlakòv e nel fratellastro Smerdjàkov — tutto ciò acquista la potenza di una visione nel capitolo intitolato: II diavolo. L'incubo di Ivàn Fjòdoro-vic.

Esso è preceduto dal terzo e ultimo colloquio con Smerdjàkov, dove vediamo questi abbandonare ogni speranza di uscire dalla sua miseria. Scende su di lui terribile una fredda disperazione. Ivàn si mostra deciso a dire il giorno dopo in tribunale la verità e cioè che l'assassino è Smerdjàkov, e toma a casa sollevato. Qui vien colto da un profondo malessere; con la febbre si sviluppa un male che non è soltanto fisico ma dello spirito, del cuore.

Sedutosi di nuovo, prese a guardarsi tratto tratto in giro, come per esaminare qualche cosa. Così fece parecchie

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volte. Infine il suo sguardo si fissò sopra un punto. Ivàn sorrise, ma una fiamma di collera gli salì al volto. Rimase a lungo immobile, sostenendosi il capo con le mani e continuando a sbirciare verso lo stesso punto, sul canapè che stava lungo la parete di fronte. C'era là qualcosa che visibilmente lo irritava, lo inquietava, lo faceva soffrire.

A un trattò apparve là, seduto, un tale... Era un signore, o per dir meglio, una specie di gentleman russo, non più giovane, « qui frisait la cinquantaine », come dicono i Francesi, con un po' di brina nei capelli scuri, tuttora ab-bastan2a lunghi e folti, e nella barbetta tagliata a punta. Indossava una certa giacchetta di color cannella, fatta evidentemente da un ottimo sarto, ma già logora, vecchia forse di due anni e del tutto passata di moda... Evidentemente aveva conosciuto il mondo e la buona società... ma... si era trasformato in una specie di parassita di qualità superiore, vagabondante dall'uno all'altro dei buoni conoscenti di un tempo, ricevuto per la sua indole facile e socievole. (J Fratelli Karamàwv, pp. 681-82 e 682-83).

L'ospite è affabile, accondiscendente, insinuante — sebbene con una cert'aria di superiorità e un'ironia che talvolta trapassa in aspra irrisione. È persuasivo, ma con una sfumatura di cinismo che finisce per rimettere tutto in questione. Risveglia dei dubbi, poi li fa tacere. Parla di Dio e dell'aldilà col tono di un romantico scettico ma anche in maniera da lasciar supporre in sé un desiderio di credere. Poi, appena •una parvenza di fede sembra prender consistenza, un'osservazione buttata là con cinismo riporta le cose al punto di prima.

Egli si presenta come "un certo tale", ma nello stesso tempo fa in modo che non sia sicuro se questo "certo tale" esista. Egli sembra soffrire di quest'incertezza e aspirare alla realtà concreta dell'esistenza terrena.

Io sono povero, ma... non dirò di essere molto onesto, ma... in società si ammette generalmente come un assioma che

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io sono un. angelo caduto. In fede mia non posso immaginarmi come mai abbia potuto una volta essere un angelo. Se anche lo fui, è passato tanto tempo che non faccio peccato a dimenticarmene. Oggidì non tengo che alla mia riputazione di uomo per bene e vivo come capita cercando di riuscir gradito. Gli uomini li amo sinceramente; oh, sono stato molto calunniato! Qui, quando di tempo in tempo mi trasferisco tra voi, la mia vita scorre con un'apparenza di realtà, che mi va più di ogni cosa... Il fantastico, vedi, fa soffrire anche me al pari di tè, e perdo amo la vostra realtà terrestre. Qui, da voi, tutto è determinato, tutto è formula e geometria; da noi invece non ci sono che equazioni indeterminate! Qui. passeggio e sogno. Mi piace sognare. Inoltre sulla terra divento superstizioso, non ridere, ti prego: è proprio quello che mi piace, diventare superstizioso. Qui, acquisto le vostre abitudini: ho preso gusto a frequentare il bagno pubblico, tè lo puoi figurare? e a fare il bagno a vapore coi mercanti e coi preti. Il mio sogno è d'incarnarmi, ma definitivamente, irrevocabilmente, in qualche grossa mercantessa del peso di sette pudy e di credere a tutto quello che crede lei. Il mìo ideale è andare in chiesa ed accendervi un cero di buon cuore, afte di Dio, è così. Le mie sofferenze allora sarebbero finite. (I Fratelli Kammàzov, p. 686).

Tutto questo esprime con profondità la condizione dello spirito caduto che si è allontanato da Dio e precipita così nel nulla senza poterlo raggiungere mai;

che, pur spogliandosi di ogni realtà, non potrà mai estinguersi del tutto; che è scisso dal proprio io di una volta e tuttavia ancora identico a se stesso; disperato, nostalgico e insieme invincibilmente scettico.

Egli accenna a Dio e lascia intendere che donarsi a Lui "cantando osanna" significherebbe la redenzione.

Tornerebbe egli allora a Dio, e, liberato dalla negazione, riacquisterebbe realtà e beatitudine. Subito però egli si chiude in se stesso con la negazione intima facendo di essa — sia pure in forma ironica —

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addirittura un principio dell'esistenza, sopprimendo perciò ogni distinzione tra bene e male, disonorando la creazione, mettendo Dio in una luce sospetta:

Io ho da natura un cuore buono e gioviale... Da tempo immemorabile un decreto che non ho mai potuto capire mi ha affidato la missione di « negare », e nondimento io sono sinceramente buono e inetto alla negazione. « No, bisogna-che tu neghi, senza negazione non ci sarebbe critica », e che sarebbe mai una rivista senza la « pagina del critico »? Senza critica, sarebbe tutto un « osanna ». Ma per la vita l'« osanna » non basta, bisogna che esso passi per il cro-giuolo del dubbio, e via di questo tono. In tutto ciò, del resto, io non m'immischio, non è opera mia e non ne rispondo. Mi hanno scelto come capro espiatorio, mi hanno obbligato a fare il critico, e la vita ha avuto principio. Noi la comprendiamo questa commedia: io, per esemplo, aspiro puramente e semplicemente a sopprimermi. No, mi si dice, vivi, perché senza di tè nulla esisterebbe. Se tutto sulla terra fosse conforme a ragione, nulla mai sarebbe accaduto. Senza di tè non ci sarebbero avvenimenti; invece bisogna che ce ne siano. Ed eccomi occupato, a contraggenio, a suscitare avvenimenti, e ad operare cose irragionevoli su ordinazione. Gli uomini, con tutta la loro indiscutibile intelligenza, prendono questa commedia per qualcosa di serio. In ciò sta la loro tragedia. Ebbene, soffrono, certo, ma... in cambio vivono, vivono una vita reale e non fantastica; il dolore infatti è vita. Senza dolore, che piacere ci sarebbe mai nella vita? Tutto diventerebbe un indeterminabile Tè Deum: santo sì, ma noioso. Ebbene, e io? Io sono come un fantasma che ha perduto la nozione delle cose, e ho anche finito per dimenticare il mio nome. Tu ridi... no, non ridi, sei di nuovo arrabbiato. Tu ti arrabbi sempre, non vorresti che dello spirito, e io torno a ripeterti che darei tutta questa vita sideralè, tutti i miei gradi e onori, solo per incarnarmi nell'anima di una mercantessa del peso di sette pudy e per accendere dei ceri a Dio. <I Fratelli Karamàwv, p. 690).

E di nuovo:

Mefistofele, comparso a Faust, dichiara di volere il male,

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e non fa che il bene. Padronissimo, ma io sono tutto l'opposto. Io sono forse in tutta la natura l'unico che ami la verità e desideri sinceramente il bene. Io ero presente quando il Verbo morto sulla croce ascendeva al ciclo, portando in seno l'anima del ladrone crocifisso alla sua destra, io udii le grida di gioia dei cherubini che cantavano e acclamavano « osanna! » e il tonante tripudio dei serafini, che faceva tremare il cielo e tutto l'universo. Ebbene, ti giuro per quanto c'è di sacro che anch'io volevo unirmi al coro e gridare con tutti gli altri: « osanna! ». Già questo grido mi sfuggiva, già mi erompeva dal petto... io ho pure, tu lo sai, una grande sensibilità e impressionabilità artistica. Ma il buon senso — la facoltà più disgraziata della mia natura — mi trattenne anche allora nei giusti limiti, e io lasciai passare quell'attimo! Infatti, che cosa avverrebbe, pensai in quell'istante, se anch'io cantassi « osanna! »? Subito tutto si spegnerebbe nel mondo e non accadrebbe più nulla- Ecco dunque che, unicamente per dovere d'ufficio e per la mia posizione sociale, fui costretto a reprimere in me un buon impulso e a rimanere nell'onta. Altri10 si arroga tutto l'onore del bene e a me non resta che l'infamia. Ma io non invidio l'onore di vivere alle spalle altrui, io non sono ambizioso... Io so bene che qui c'è un segreto, ma a nessun costo me lo si vuoi rivelare, perché io, dopo aver capito di che cosa si tratti, potrei mettermi a urlare « osanna », e allora sparirebbe subito il termine negativo indispensabile e nel mondo intero regnerebbe la ragione, ma sarebbe anche la fine di tutto, compresi i giornali e le riviste; allora chi vi si abbonerebbe ancora? (J Fratelli Ka-ramàzov, p. 696).

Ivàn è in uno stato di eccitazione terribile.

« Sono io, io stesso che parlo, non tu! Però non so se l'ultima volta dormissi o se ti abbia veduto da sveglio. Ora inzuppo di acqua fredda un asciugamano e me lo applico sulla testa, e forse tu svanirai ».

Incomincia un'aspra lotta. Ivàn vuole aver ragione 10 Allude a Dio.

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del sinistro ospite mettendo ordine nelle proprie idee:

« Tu sei una menzogna, sei la mia malattia, un fantasma... Sei un'incarnazione di me stesso, però solo di una parte di me... dei miei pensieri e sentimenti, solo dei più vili e più sciocchi. Da questo lato tu potresti perfino riuscirmi interessante, se avessi del tempo da perdere con tè ». (I Fratelli Karamàzov, pp. 684 e 685).

Il diavolo, a sua volta, produce un argomento dopo l'altro per dimostrare che Ivàn crede in lui. D'altra parte, col lasciare apparire la propria realtà come incerta, come una "realtà X", viene egli stesso a mettere in dubbio quello che suggerisce a Ivàn:

« Ti dico... delle cose originali come a tè non erano ancora mai venute in mente, senz'anatro ripetere i tuoi pensieri e, nondimeno non sono che il tuo incubo e nulla più » (I fratelli Karamàzov, p. 687).

— Dalla foga con la quale tu ad neghi mi convinco che tu però credi in me.

— Niente affatto! Nemmeno per un centesimo!

— Ma per un millesimo, sì! Le dosi omeopatiche sono forse le più efficaci. Confessa che credi, almeno per un decimillesimo...

~-— Nemmeno per sogno! — grida Ivàn, rabbioso. — Del resto, io vorrei credere in tè! — aggiunse con un tono strano.

— Eh, eh! questa è una confessione! Ma io sono buono e ti aiuterò anche adesso. Ascolta: sono io che ho colto in fallo tè, e non tu me! A bella posta ti ho raccontato l'aneddoto che avevi già dimenticato, perché tu cessassi definitivamente di credere in me.11

— Mentisci! Scopo della tua apparizione è quello di convincermi della tua esistenza.

— Precisamente. Ma le esitazioni, l'inquietudine, la lotta della fede col dubbio sono alle volte, per un uomo scru-

n E farlo così cadere definitivamente in suo potere.

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poloso come tè, un tormento tale che è meglio impiccarsi. Appunto perché so che tu credi in me un pochettino, ho voluto gettarti definitivamente in braccio all'incredulità, raccontandoti quell'aneddoto. Io ti faccio oscillare alternativamente tra la fede e l'incredulità, e in questo ho i miei scopi. È un nuovo metodo: quando cesserai del tutto di credere in me, ti metterai subito ad assicurarmi che io non sono un sogno, ma che esisto in realtà, io ti conosco, ed è allora che raggiungerò il mio intento. E il mio intento è nobile. Io non getterò in tè che un minuscolo granello di fede,12 ma ne nascerà una quercia, e una quercia tale che tu, standone all'ombra, sentirai il desiderio di andare fra « i padri del deserto e le donne senza peccato », perché è questo, nell'intimo, il tuo vivo desiderio: mangerai cavallette e andrai a far penitenza nel deserto.

— Allora, furfante, è per la salute dell'anima mia che ti affanni?

— Bisogna pure fare qualche volta una buona azione! Ma tu vai sulle furie, a quanto vedo! (J Fratelli Karamà-zov, pp. 693-94).

E tutto si perde poi in un caos ove si mescolano il sano e il malato, il vero e il falso, l'orrido e il malvagio.

La verità, dunque, è questa: per bocca dell'ospite il vero Ivàn parla a se stesso.

Ecco lo spirito titanico, avvezzo agli spazi siderali e a misurare il tempo per bilioni d'anni, che sogna nello stesso tempo d'incarnarsi nell'esistenza borghese della grossa mercantessa dal peso di sette pudy e nella sua fede supertiziosa... Ecco il superuomo,

12 « Fede » di provenienza oscura! Pseudo-fede che nasconde con la sua veemenza l'ulteriore scetticismo. Ascetismo senza amore, astinenza senza purità di cuore, mistica e mistero senza serietà e discernimento. Mondo ingannevole, perché composto apparentemente dagli stessi elementi costitutivi della vita cristiana.

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scettico ed empio, che pone il male come fattore necessario delle vicende cosmiche e con tragico cinismo insinua la propria disperazione nella struttura dell'essere, unica possibilità, per lui, di esistere. E in questo singolare satanismo idealistico ecco rivelarsi, ineliminabile, una mentalità da lacchè". L'ospite infatti è un parassita. Il vecchio Fjòdor, che sopravvive in Ivàn, fa sentire la sua presenza; c'è un punto dove tutto da un suono falso, frivolo e arrogante e "le ingiurie e i calci" sono all'ordine del giorno. Ivàn lo sa. E se Satana e il satanismo sono già per l'uomo il disonore più infamante, il fatto che Ivàn senta fare appello al lacchè ch'è in lui vi aggiunge una nota di personale amarezza. Proprio questo lo rende furioso... C'è in lui un profondo anelito alla redenzione che però non riesce a determinarsi e a trasformarsi in realtà e volontà sincera. All'ultimo momento lo spirito di rivolta s'inframmette e tutto prende una falsa strada. C'è ancora l'aspirazione al-l'"eterno alleluia", ossia alla liberazione da tutto il male e da tutta la malvagità nel grande abbandono al mistero di Dio, e insieme il rifiuto di questo sentimento, il raffreddamento, l'indurimento; la constatazione sdegnata del male nel mondo e insieme un mor-

13 Una domanda in margine: può la tendenza al superuomo manifestarsi in chi non abbia già avvertito in sé il pericolo di un dissolversi della personalità? Qualsiasi teorico o assertore pratico della teoria del superuomo — sia che si ponga al di là del bene e del male, o proclami la divinizzazione dell'uomo o altro ancora — non è forse tormentato da un complesso d'inferiorità? Una personalità forte e tranquilla ha mai conosciuto questa volontà titanica? Hybris e debolezza, offuscamento dei limiti e indeterminatezza della personalità non sono forse lo stesso fenomeno? A una personalità chiara e forte è data anche l'umiltà esistenziale che non è altro che verità, verità appresa col cuore.

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boso segreto desiderio che esso rimanga immutato affinchè non venga meno il piacere della ribellione... C'è qui una disposizione a credere che non diventerà mai vera fede.. una incredulità che non dirà mai un no definitivo... un'aspirazione alla vita dei "padri del deserto e delle donne senza peccato" desiderata in segreto e "persino intensamente" e, nello stesso tempo, l'impudente oscenità della scena del confessionale...

Qui appare chiara la confusione impotente, totale, che regna nello spirito di Ivàn. "Ivàn è una sfinge" - "Ivàn è una tomba".

È dunque necessario riflettere prima di interpretare la "leggenda", nata dalla mente di quest'uomo, come espressione di un cristianesimo genuino da contrapporre a una Roma anticristiana.

La tremenda alternativa di Ivàn è questa: egli lotta con tutte le sue forze per togliere ogni realtà all'orrenda visione, poiché tutto ciò che ha rapporto con Satana è di per sé insostenibile e la difesa qui è un atto istintivo. Perciò egli fa di tutto per convincersi che l'ospite è lui stesso, Ivàn, una sua allucinazione. Tutto allora si dissolverà... Ma appena l'ospite dice: "Confessa che credi, almeno per un decimillesimo", Ivàn che dapprima ha risposto con uno scatto d'ira: "Nemmeno per sogno", poi aggiunge: "Del resto io vorrei credere in tè!". Qui c'è l'ardente desiderio di una fede, ma soprattutto questo pensiero: se l'ospite è veramente soltanto una mia allucinazione, vuoi dire che tutto l'orrore di quella visione viene da me; sono io allora che relativizzo il bene e il male, che mi chiudo nella mia disperazione con la mia volontà cattiva, satanico sono io stesso.

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Proprio qui viene a proposito la parola benedetta di Aljòsa, a cui abbiamo già accennato: "Non sei tu che hai ucciso il babbo, non sei tu!" E poi:

"È Dio che mi ha suggerito di dirti questo, anche se tu, a partire da questo momento, dovessi odiarmi per sempre". E l'odio nasce davvero: "Aleksjèj Fjòdorovic... da questo istante io la rompo con voi e, credo, per sempre". (I Fratelli Karamàzov, pp. 647-48).

Ne abbiamo già parlato. Perché quest'odio? Cosa gli ha detto, dunque Aljòsa? Non sei tu che l'hai voluto, con satanica autonomia. Non sei tu che, in lega col Maligno, fosti la causa prima del delitto. Il che significa: tu non sei il Grande Inquisitore che ostinandosi nella disperazione e nella rivolta strappa il mondo dalla mano di Dio per disporvi del bene e del male. Se tu lo fossi, saresti veramente uno spirito satanico. Ma non lo sei. Non sei un superuomo. Sei soltanto un comune mortale che il diavolo ha indotto al peccato. Questa ammissione, disarmando ogni volontà titanica, apre la via al pentimento, ma precisamente contro di essa Ivàn s'indurisce. Alla salute si perviene rinunciando a se^stessi là dove questa rinuncia e più difficile, nell'umiltà che è verità. A questo però non consente l'orgoglio disperato di chi, conscio della propria inferiorità, cerca di nasconderla. Meglio, allora, perire!

Aljòsa tuttavia ritoma dopo la visione recando la notizia che Smerdjàkov si è impiccato. Ivàn, reso quasi pazzo dall'incubo della notte, cerca rifugio presso di lui.

Aljòsa intuisce perfettamente ciò che significano spiritualmente quelle allucinazioni. Esse possono spingere il fratello all'estrema disperazione e alla

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morte. L'ospite l'aveva fatto capire, infatti, e anche Ivàn sente il pericolo."

No, io non m'impiccherò.

È l'immagine terribilmente suggestiva di Smer-djàkov:

Sai tu, Aljòia, che non potrò mai togliermi la vita? È per viltà, forse? Io non sono un vile. È per avidità di vivere! Perché sapevo che Smerdjàkov si sarebbe impiccato? Sì, me l'aveva detto lui...

Egli non l'aveva detto, ma Ivàn ha intuito la conseguenza, quella che poi ha tentato anche lui. Ed ecco riaffiorare la tremenda alternativa:

— Io amo il tuo viso, Aljòsa. Lo sapevi che amo il tuo viso? Ma lui sono io, Aljòsa, io stesso. Tutto ciò che in me c'è di basso, di vile e di spregevole! Sì, io sono un •« romantico », lui l'ha notato... Del resto, mi ha detto molte cose vere sul mio conto. Io non me le sarei mai dette. Sai, Aljòsa, sai, — soggiunse Ivàn con gran serietà e come confidenzialmente, — io vorrei proprio che egli fosse veramente lui e non me!

— Ti ha stancato, — disse Aljòsa, guardando il fratello con compassione.

— M'irritava! E, sai, molto abilmente. « La coscienza! Che cosa è la coscien2a? Sono io che me la invento. Perché mai mi torturo? Per abitudine. Per una abitudine universale del genere umano da settemila anni. Liberiamocene e saremo degli dèi ».14 È lui, è lui che lo diceva!

E subito la parola soccorrevole:

— E non tu, non tu? — non si trattenne dall'esclamare Aljòsa guardando il fratello con occhi luminosi. — Allora

14 Qui si rivela la vera intenzione.

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lascialo, scaccialo e dimenticalo. ( J Fratelli Karamàzov, pp. 701-2).

Il nervo più segreto è messo a nudo: l'orribile intreccio di orgoglio e di senso di inferiorità:

— Sì, ma è cattivo. Si faceva beffe di me. Era insolente, Aljòsa, — disse Ivàn, fremendo ancora per l'offesa. — Ma mi calunniava in molte cose. Mi mentiva sul viso. « Oh, tu stai per compiere un'a2Ìone virtuosa, dichiarerai che hai ucciso tuo padre, che il domestico l'ha ucciso per tua istigazione... ».

— Sei tu che lo dici, e non lui! — esclamò amaramente Aljòsa — e parli così nel delirio, ti torturi!

— No, lui sa quello che dice. È per orgoglio, diceva, che vuoi alzarti a dichiarare: « Sono io che ho ucciso e che avete da fremere di orrore? Non siete sinceri. Il vostro giudizio io lo disprezzo ». Questo mi diceva, e poi ancora:

« Sai, tu vuoi che ti si lodi, che si dica: un delinquente, un assassino, ma che magnanimità! ha voluto salvare il fratello e ha confessato! »...

« Andrai perché non osi non andare. E perché non osi? indovinalo un po' è un enigma! ». Poi si è alzato ed è uscito. Appena sei giunto tu. Mi ha dato del vile, Aljòsa! Le mot de l'énigme è che sono un vile! « Non sono le aquile tue pari quelle che si librano sopra la terra! ».15

Tutto ritoma a galla. Un odio selvaggio:

— « Ci vai per esser lodato », è una bestiale menzogna! Anche tu, Aljòsa, mi disprezzi. Adesso tornerò a odiarti! E odio anche il mostro. Non voglio salvarlo, marasca in un ergastolo! Ha cantato un inno! Oh, domani andrò, mi pianterò davanti a tutti e sputerò loro sulla faccia. (J Fratelli Karamàzov, pp. 702-3).

Affiorano i motivi del "Grande Inquisitore" e della conversazione nella trattoria: l'elemento non-

15 Di nuovo la vera intenzione.

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euclideo del mondo... la sua intcriore riprovazione... la natura incerta del rapporto di Dio col mondo... la "necessità" indiscutibile del male nel mondo... l'aspirazione alla santità degli eremiti e delle vergini... l'alleluia finale respinto... la disperazione di un'anima che non crede nella redenzione e si tormenta sapendo di aver perduto.

Il senso della leggenda

Forse risulta ora più chiaro il significato della leggenda del Grande Inquisitore. In apparenza essa è un attacco a « Roma » condotto in nome di un autentico cristianesimo, dello spirito di libertà e d'amore. Il suo vero significato in realtà è un altro e profondamente rivelatore.

Essa mette a nudo l'esistenza di Ivàn e — intrecciata alla sua — quella di suo padre e dei suoi fratelli. Ma i "fratelli Karamàzov", Dmìtrij, Ivàn, Aljòsa e Smerdjàkov con Fjòdor, loro padre, e le loro madri, Adelaida Ivànovna, Sònja Ivànovna e Lizavèta Smerdjàsciaja — quali personaggi! — chi sono essi altro se non la grande famiglia umana? In ognuna di quelle figure è l'uomo con la sua grandezza e la sua miseria, i suoi lati luminosi e quelli oscuri, i lati oscuri soprattutto. Ciò che succede a costoro, succede in verità a tutti. E il processo che occupa quasi metà del libro è il processo in cui accusato e accusatore, difensore testimonio e giudice è sempre l'uomo, col risultato che si ottiene quando "giudicano" gli uomini: un errore giudiziario, conseguenza di una distrazione. Perché sarebbe bastato esaminare la ferita della vittima per stabilire subito

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se Dmìtrij potesse averla uccisa col caldo della pistola. Invece si disserta per centinaia di pagine di etica e di psicologia.

Il "Grande Inquisitore" getta ima luce rivela-trice su Ivàn e i suoi — sull'uomo e la t'amiglia

umana.

La leggenda e il contesto del problema

II lettore potrà ora giudicare, dopo aver seguito la linea alquanto tortuosa del nostro ragionamento, se la nostra tesi sia più o meno esatta.

A nostro avviso il significato polemico della leggenda non rappresenta ciò che essa ha di più originale. Certamente vi è qui anche un attacco della Chiesa orientale a Roma. Che poi esso sia condotto da un miscredente, il cui intervento in favore della sua Chiesa — nell'articolo che sappiamo — è stato sentito come uno scherno non avrebbe, stando a Dostojevskij, il valore di una obiezione seria; piuttosto l'attacco a Roma e al cristianesimo, visto così in una luce incerta, verrebbe quasi ad esprimere l'insufficienza di ogni giudizio umano. Ma tutto il romanzo ci dice che quest'interpretazione troppo ovvia, quasi banale, non può essere la vera perché nel romanzo la Chiesa non ha parte alcuna. La leggenda viene invece a inserirsi nella sua trama fondamentale appena si ponga attenzione alle varie situazioni umane che abbiano messe in luce nella loro relazione reciproca.

E che la leggenda sia in funzione di esse è dimostrato dal fatto che Aljòsa, l'unico ascoltatore, non ne raccoglie quasi il senso polemico, ma reagisce

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invece con veemenza e angoscia alla confessione di Ivàn.

Sarà ora il momento di domandarci come s'inserisce tutto questo nella linea seguita dalla nostra analisi nei capitoli precedenti.

Abbiamo preso le mosse da un punto apparentemente eccentrico, dal significato della Leggenda del Grande Inquisitore e abbiamo condotto la nostra ricerca in una forma quasi polemica. Ma uno sguardo retrospettivo basterà a persuaderci del profondo nesso esistente tra questo capitolo del romanzo e il problema che c'interessa. Quella disposizione fondamentale dell'animo che abbiamo fin qui trovata nei personaggi del romanzo, dalla gente del popolo fino agli uomini spirituali, Aljòsa compreso, sebbene subordinata ad una esistenza d'eccezione, in Ivàn è scomparsa. Egli l'ha rinnegata per isolarsi con la sua ragione individuale e con la sua volontà soggettiva. Ha perso così ogni contatto col popolo ed è finito in potere di un essere mostruoso: Smer-djàkov. Ha perso anche ogni contatto con la terra feconda; per questo la natura, di cui egli pur sente la potenza, gli si è trasformata da un lato in un sistema astronomico, dall'altro nella demoniaca "forza della terra". I legami dell'esistenza hanno perduto per lui ogni carattere di necessità ed ogni significazione e per questo può nascere nella sua mente l'idea del rifiuto di questo mondo.

Sul suo atteggiamento religioso influiscono- poi una lunga tradizione e un complesso di fattori sociologici, culturali e psichici, sebbene egli lotti per sottrarsi a questi influssi. Così egli è ormai incapace di attuare, come fa il popolo, l'immediatezza del rapporto con Dio ma d'altra parte si rifiuta di

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crearne uno nuovo su un piano diverso dell'esistenza con la buona volontà, il lavoro, l'abnegazione e il sacrificio. Nondimeno, la sua negazione non sa esser decisa: non è abbastanza superficiale per passare semplicemente all'apostasia come Rakìtin, e non è nemmeno abbastanza chiara e profonda da arrivare al fervore di Kirìllov16. Aggiungiamo la personalità complessa e tormentata di un giovane che non ha mai conosciuto il candore dell'infanzia e non ha ancora raggiunto la maturità dell'uomo e capiremo meglio la sua strana contraddizione di credere in Dio e di "non accettare la sua creazione", ossia la sua "rivolta".

La rappresentazione di questo clima spirituale è di una singolare intensità e potenza. Le tensioni e le contraddizioni della vita concreta, esasperate fino alla morbosità, trovano la loro espressione in problemi filosofici e religiosi e questi a loro volta sono vissuti e sofferti nella vita. Così nella figura di Ivàn affiorano vari aspetti di una crisi del sentimento e del pensiero religioso che travaglia tutto il secolo decimonono e dalla quale solo la nostra epoca sembra giunta a trarre le ultime conseguenze.

Ci sarebbero a questo proposito parecchie cose da'dire, ad esempio sul rapporto che lega la figura di Ivàn al pensiero e al sentimento romantico, all'immoralismo e all'estetismo fin de siede, al mondo intellettuale e sentimentale del primo Kierke-gaard e, soprattutto, di Nietzsche. Ma vorrei qui rinunciare a parlarne per meglio illuminare questi aspetti nel capitolo seguente dove incontreremo due figure disegnate con tratti più semplici e vigorosi: Kirìllov e Stavròghin.

16 Su Kirìllov si veda il capitolo seguente. 172

CAPITOLO SESTO

GLI ATEI

Osservazioni preliminari

Nel corso del nostro lavoro abbiamo più volte ricordato come, secondo Dostojevskij, la vera sventura per l'individuo stia nel perdere il contatto col popolo, con la terra. La sofferenza, il peccato, il delitto possono essere nuovamente vinti per virtù di quel contatto; solo quando quei legami si spezzano accade la cosa più terribile: l'uomo cessa di comunicare con le sorgenti della vita; l'uomo si allontana da Diol.

Questo processo Dostojevskij si era proposto di descrivere in grandi cicli di romanzi. Sappiamo dal suo epistolario e dagli scritti postumi che prima del '70 egli aveva concepito il piano di un romanzo che doveva intitolarsi Ateismo. Da questo piano derivò quello ancora più ampio di un altro romanzo: La vita di un grande peccatore2. Nessuno dei

1 Una fede che sopravviva a questa rovina, sorretta solo dalla grazia e dalla semplice forza della persona dopo il dis-solversi di ogni sostegno e legame organico — quella fede che è il compito dell'epoca moderna e di quella che la segue — non sembra esser stata intuita da. Dostojevskij. In questo egli resta un romantico.

2 Si veda Der unbekannte Dostojevskij, Munchen, 1926, pp. 49 s.

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due fu scritto, ma la figura del protagonista e i motivi dell'azione del secondo furono suddivisi ed esauriti in alcune opere singole: I Demoni, L'Adolescente, I fratelli Karamàzov.

Di questi romanzi il primo in particolare descrive quel processo di disgregazione e di rovina. I due Vjerchovènskij sono appunto due "sradicati", soprattutto il figlio e i suoi compiici. Di Sàtov abbiamo già parlato.

Ma al centro del romanzo è Stavròghin, di tutte le figure dostojevskiane certamente la più angosciosa e terribile, immagine così compiuta e potente di quell'inferiore sradicamento da assurgere al valore di un tipo.

Viene poi l'ingegnere Kirìllov, personaggio non del tutto riducibile a quella formula. La sua negazione si pone già su un piano di umanità universale. Così, spiritualmente egli è vicino, seppure per effetto di contrasto, ad Aljòsa Karamàzov.

Tenteremo ora un'analisi di questi due personaggi. Insieme con Ivàn Karamàzov essi ci daranno una visione completa delle forze del male, della distruzione e della malattia che fermentano nel mondo di Dostojevskij — visione che a dire il vero potrebbe essere integrata da figure che incarnano l'egoismo, la bassezza, la decadenza, la ripugnante meschinità, come quelle di Totskij e Lebedev nel-V Idiota, di Goldjakin nel Sosia, del protagonista delle Memorie del Sottosuolo e altre ancora. Inoltre in questi due personaggi affiorano conflitti e problemi che, oltre a essere i più importanti dell'epoca moderna, determinano il piano di alcune decisioni impegnative per il periodo che segue ad essa. Occorre infatti tener conto dell'aiuto che la

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conoscenza di una vita in disgregazione ci può dare per capire la vita sana perché le forze e gli elementi formali che in questa non hanno particolare rilievo, trovandosi tra di loro in un normale rapporto di equilibrio e di misura, in quella appaiono con una evidenza più netta, certo più funesta.

Kirillov

Aleksjèj Nìljic Kirillov è ingegnere civile. Ha-vissuto per un certo tempo in America ed è "appena arrivato dopo un'assenza di quattro anni". Il cronista lo descrive come

un uomo ancor giovane, dì circa ventisette anni, vestito con decoro, un bruno ben fatto e asdutto, con un viso pallido, di colorito leggermente terreo e con occhi neri senza splendore. Egli pareva alquanto pensieroso e distratto, par-' lava a scatti e in modo non troppo grammaticato, trasponeva curiosamente le parole e s'imbrogliava se gli accadeva di dover fare una frase un po' lunga. (J Demoni, voi. I, p. 131).

Egli mantiene un riserbo distratto, irritato, ma talvolta ne esce improvvisamente con violente affermazioni di carattere filosofico o anche con espressioni di calda cordialità umana.

Kirillov è buono, perciò può talvolta scoppiare "a ridere del riso più gaio e sereno" e allora il suo viso assume "un'aria del tutto infantile, che mi parve gli andasse molto bene". (Z Demoni, voi. I, p. 137).

Ama i bambini ed essi gli vogliono bene. Un giorno Stavròghin entra all'improvviso nella sua

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stanza e vi trova il bimbo della padrona di casa che ha appena finito di piangere:

Sotto gli occhi aveva ancora delle lacrime; ma in quel momento tendeva le manine, batteva le palme e rideva forte, come ridono i bambini piccoli, con dei singulti. Davanti a lui Kirìllov gettava sul pavimento una gran palla rossa di gomma; la palla rimbalzando fino al soffitto, ricadeva, il bambino gridava: « pa, pa! »... Infine la « pa » rotolò sotto l'armadio... Kirìllov si stese bocconi sul pavimento e si allungo, cercando di raggiungere con la mano la « pa » sotto l'armadio. (I Demoni, voi. II, pp. 39-40).

Kirìllov. è sensibile alle sofferenze degli altri. Si accorge se qualcuno è in bisogno e, quando può, è pronto a venirgli in aiuto.

L'animo di quest'uomo è delicato ma vi è in lui anche una impressionante forza di concentrazione del pensiero. All'arrivo del narratore egli gli offre il tè:

— A me piace il tè, — diss'egli, — la notte; cammino molto e bevo, fino all'alba...

— Voi vi coricate all'alba?

- — Sempre, da molto tempo. Io mangio poco; bevo sempre tè. (I Demoni, voi. I, p. 161).

La sua immagine s'imprime nella mente del lettore mentr'egli cammina così su e giù per la stanza, noncurante del momento presente, assorto e come affascinato dai propri pensieri.

Qualche volta alza sull'interlocutore « improvvisamente i suoi neri occhi lampeggianti ». Quando il discorso diventa frivolo parla con irritazione, poi di nuovo "tranquillo e con calore".

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Nota caratteristica molto importante: Kirìllov è completamente privo di umorismo.

— Io non amo ingiurare e non rido mai, — disse « malinconico » e « con un sorriso ».

— Sì, voi non passate allegramente le vostre notti bevendo il tè...

— Credete? — egli sorrise con una certa meraviglia, — e perché? No, io... io non so, — si turbò tutt'a un tratto, — non so come succeda agli altri, e sento che non posso essere come tutti. Ognuno pensa a una cosa e subito dopo a un'altra. Io non posso pensare a null'altro, io penso per tutta la mia vita a una cosa sola. (I Demoni, voi. I, p. 166).

E ancora nella terribile conversazione che precede la sua morte:

— Voi sapete pure che queste non sono che parole.

— In tutta la mia vita ho voluto che non fossero soltanto parole. E per questo ho vissuto, perché l'ho sempre voluto. E anche adesso, ogni giorno, io voglio che non siano parole. (I Demoni, voi. Ili, pp. 228-29).

La vita di Kirìllov si concentra tutta all'interno e su di un unico oggetto che è tuttavia il problema fondamentale e il supremo tormento dell'esistenza umana. Un pensiero, frutto di una lunga e tormentosa ricerca, occupa il suo spirito. Ma non è un pensiero soltanto, non è soltanto un'immagine, bensì una potenza che assorbe ogni energia e impegna in un punto solo tutta la vita ulteriore, così prepotente che l'uomo cessa di esser padrone di sé e ne resta soggiogato. È qualcosa di simile a quello che Dostojevskij chiama "idea"; più che un pensiero, una potenza, più che un istinto, una rivelazione chiara, più che una teoria, un attivo impegno e

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un'innervazione del volere e dell'agire. Non qualcosa che si possiede, ma qualcosa da cui si è posseduti. La parola "idea" esprime qualche cosa di religioso. Talvolta essa si attua nella fede, come per Aljòsa Karamàzov; talvolta è una pseudomor-fosi della fede come per Ippolito a.eQ.'Idiofa. Non è il prodotto di un lavoro intellettuale ma frutto di intuizione, talvolta di un'esperienza vissuta simile all'estasi. L'idea può essere una forza che muove a compiere atti sublimi come nel caso di Aljòsa, ma può anche rappresentare il surrogato ibrido di una vita divenuta insopportabile — e questo è il caso di Ippolito — o anche una forza demoniaca ossessiva come in Kirìllov.

Quanto sia pericoloso questo stato appare dalla conversazione che ha luogo tra Kirìllov e Sàtov:

Ci sono dei secondi, essi non vengono che a cinque o sei per volta, in cui sentite tutt'a un tratto la presenza dell'eterna armonia, da voi compiutamente raggiunta. Non è qualcosa di terrestre; non dico che sia una cosa celeste, ma dico che l'uomo, nella sua forma terrestre, non la può sopportare. Se durasse più di cinque secondi, l'anima non resisterebbe e dovrebbe sparire. In quei cinque secondi io vivo una vita e per essi darei tutta la mia vita, perché ne vale la pena. [I Demoni, voi. Ili, pp. 192-93).

Non soltanto una concentrazione del pensiero ma come una integrazione estatica dell'esistenza, certo pagata a prezzo della malattia che lo consuma.

In altri momenti ancora appare chiaramente il pericolo, ad esempio nel colloquio con Stavròghin:

— Vecchi luoghi comuni filosofici, sempre gli stessi fin dal principio dei secoli — ha osservato Stavròghin deluso.

— Sempre gli stessi! Sempre gli stessi dal principio dei secoli e non ce ne saranno mai altri! — replicò Kirìllov

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con lo sguardo scintillante, come se quell'idea fosse quasi una vittoria.

— A quanto pare, voi siete molto felice, Kirìllov! . — Sì, molto felice, — rispose questi, come se desse la più comune delle risposte.

— Ma ancora così recentemente eravate afflitto, ce l'avevate con Lipùtin?

— Hm... adesso non gridò più. Allora non sapevo ancora di essere felice. Avete mai visto una foglia, una foglia d'albero? . •

— Ne ho viste.

— Io ne ho veduta poco tempo fa una gialla, con un po' di verde, marcita agli orli. Il vento la portava. Quando avevo dieci anni, d'inverno chiudevo a bella posta gli occhi e mi figuravo una foglia verde, lucente, con piccole venature, e il sole che splendeva. Aprivo agli occhi e non credevo alla realtà, perché il sogno era troppo bello, e li chiudevo di nuovo.

— Cos'è, un'allegoria?

— N-no... perché? Non è un'allegoria; una semplice foglia, solo una foglia. La foglia è bella. Tutto è bello.

— Tutto?

— Tutto. L'uomo è infelice perché non sa essere felice, soltanto per questo. Tutto sta qui, tutto! Chi lo capirà sarà subito felice, nello stesso momento...

— E quando avete appreso di essere tanto feHce?

— La scorsa settimana, martedì; no, mercoledì, perché era già mercoledì, nella notte.

— Ma in che occasione?

— Non ricordo; così, camminavo per la stanza... Non importa. Fermai l'orologio, erano le due e trentacinque.

— Come simbolo per indicare che il tempo deve fermarsi?

Kirìllov rimase silenzioso. (I Demoni, voi. II, pp. 46-47).

Qui è raffigurata simbolicamente nell'atto di fermare l'orologio l'apparizione dell'" idea" a un'ora, anzi a un minuto preciso. Dall'insieme appare anche chiaro dove miri questa esperienza: al raggiungimento cioè di un punto al di là del bene e del male. Ma il risultato non è che l'euforia mortale di

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un'indifferenza pseudomistica. Quando Kirìllov parla della foglia sentiamo in lui una profonda sensibilità;

l'Eros estatico si esprime in quelle parole. Ma qui la beatitudine è lo spegnersi della sua nostalgica pienezza in un "nirvana". E certe espressioni involontarie — le più rivelatrici — il ripetersi di certe frasi come: "Ma questo è indifferente", "Ciò non ha importanza", "Questo non importa", sembrano confermare in noi quest'impressione.

Cosa c'è, dunque, in quest'uomo? Al termine di una conversazione col cronista egli conclude inaspettatamente con sorprendente espansività: "Dio mi ha tormentato tutta la vita". È una confessione che viene dal cuore, sfuggita in un momento di abbandono confidenziale:

Stamane tenevate un contegno così a modo e voi... del resto ciò è indifferente... voi rassomigliate molto a mio fratello, molto, straordinariamente, — diss'egli arrossendo;

— sono sette anni che è morto: era più vecchio, molto, molto più vecchio. (I Demoni, voi. I, pp. 166-67).

In queste parole c'è un po' la chiave del segreto di Kirìllov e noi per capirlo partiremo anzitutto da quella sua vivezza delicata e profonda, da quella amorosa e dolente sensibilità che abbiamo sentito palpitare nelle parole sulla foglia.

Egli ama la vita. Ne ha un desiderio ardente. Ma forse egli sente la realtà religiosa con una intensità che gli preclude ogni accesso alla vita. Sentire Dio in questo modo — a nervi scoperti staremmo per dire — come fa Kirìllov, e nello stesso tempo vivere, non sembra una cosa possibile.

Ma c'è di più: in quest'uomo l'esperienza religiosa è tormentata e profonda. Egli sembra rifare

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sino in fondo tutta la dolorosa e secolare esperienza dei valori religiosi. Chi dice valore dice significato; l'esperienza dei valori innalza, arricchisce, perfeziona. Ma nella vita non c'è soltanto l'aspirazione a elevarsi, a perfezionarsi; c'è anche un impulso -— e Dostojevskij ne sapeva qualcosa — a tormentare gli altri e se stessi. Per questo istinto tutto risulta strumento, sia le cose che le persone, dunque anche i valori; quelli religiosi, anzitutto, perché toccano la vita nel suo lato più sensibile. Nel corso dei secoli gli uomini non hanno tatto che tormentarsi vicendevolmente con i valori religiosi e hanno martirizzato se stessi oltre ogni limite; hanno sentito questo tormento in tutti gli aspetti dell'esistenza, l'hanno portato fin nelle intime pieghe dell'anima, l'hanno assimilato nel sangue. Non viene poi il momento in cui — parlando secondo natura — la misura della sopportazione è colma? Kirìllov sembra trovarsi a questo punto.

Aggiungiamo ancora che in quest'uomo c'è come un bimbo che pianga cercando l'affetto di una madre; c'è la nostalgia struggente di una patria, di una patria in Dio; l'aspirazione a posare il capo nel grembo di Dio per aver finalmente pace. Ma nella sua natura qualche cosa si solleva a impedirglielo:

un sentimento che viene dalla sua personalità stessa, dalla sua coscienza. Forse il lettore conosce il lavorìo devastatore dello scrupolo, il tormento che una coscienza divenuta ipersensibile s'infligge infierendo contro la propria vita, in obbedienza, starei per dire, a una "legge" secondo la quale solo dò che è difficile e doloroso, solo ciò che annienta deve essere.

Questo scrupolo si è insediato nella coscienza di

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Kirìllov; esso proviene dalla stessa struttura della sua persona. Questa, come in tutti i personaggi di Dostojevskji, è fragile, incerta di se stessa, vile ai propri occhi. Questo scavare inquieto entro se stessi che si risolve per Ivàn nel titanismo del suo Grande Inquisitore, si traduce in Kirìllov nel divieto di sentirsi figlio di Dio. Esso gli impone un atteggiamento di autonomia, un "contegno". Quanto più forte è il bisogno di avvicinarsi a Dio, tanto più imperioso è l'ordine di tirarsi indietro.

Tormento indicibile di un amore che si condanna alla negazione, fino alle conseguenze più amare. E ciò che gli rende così faticoso il parlare e gli fa disporre le parole in modo strano e apparir smorto il suo viso è proprio questa costrizione che lo obbliga a tener le distanze e si esprime al momento della morte nell'irrigidimento spasmodico della marionetta.

L'oppressione più grave che da questa sofferenza è l'angoscia.

Kirìllov cerca "le ragioni per cui gli uomini non osano uccidersi" (I Demoni, voi. I, p. 162; spiegheremo più avanti il significato di questa idea del suicidio). Il cronista osserva che di suicidi ne avvengono abbastanza. Ma Kirìllov risponde: "Pochissimi"; pochi in proporzione al numero che dovrebbe essere; di quelli, poi, fatti per il vero scopo, pressoché nessuno.

— Due pregiudizi trattengono gli uomini, due cose;

due sole: l'una assai piccola, l'altra assai grande. Ma anche quella piccola è pure molto grande.

— E qual è la piccola?

— Il dolore...

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— Ci sono due categorie: quelli che si uccidono per un grosso dispiacere, o per rabbia, o per pazzia, o per qualche motivo simile... Essi al dolore pensano poco, e lo tarmo di colpo. Quelli invece che si uccidono ragionatamente ci pensano molto.

Ma ce n'è forse di quelli che lo fanno ragionatamente?

— Moltissimi.1 Se non ci fossero i pregiudizi, sarebbero i più, moltissimi, tutti...

— Ma non ci sono forse dei mezzi per morire senza dolore?

— Immaginatevi, — ed egli si fermò davanti a me, — immaginatevi una pietra di questa grandezza, come una grossa casa; essa è sospesa e voi ci siete sotto; se vi cadrà addosso sulla testa, vi farà male?

— Una pietra grande come una montagna, di milioni di pùdy? Naturalmente, non proverò nessun dolore.

— Ma mettetevi sotto per davvero e, finché essa resterà sospesa, avrete una gran paura che vi faccia male.

— Ebbene, e la seconda ragione, quella grande?

— L'altro mondo!

— Cioè il castigo?

— Questo non importa. L'altro mondo; l'altro mondo semplicemente.

L'uomo sa dunque di doversi uccidere — diremo subito perché — e in un certo senso lo vuole. Quello che lo trattiene è la paura del dolore e la paura dell'ai di là. Ma, si osserva, ciò di cui l'uomo ha paura in fondo non esiste. Se la pietra cade non farà male, il che significa che l'uomo, se volesse, potrebbe uccidersi senza provare dolore. Di conseguenza non è la sofferenza della morte che egli in fondo teme, ma qualcos'altro, la morte, la fine per se stessa. E non il "castigo" dell'altro mondo — che corrisponderebbe al dolore per la caduta della

3 Poco avanti ha detto: « Pochissimi » — ora: « Moltissimi ». Queste risposte non sono che le reazioni di un uomo tormentato dallo spirito di contraddizione.

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pietra — è causa di quest'angoscia, ma "l'altro mondo; l'altro mondo semplicemente", altro rispetto a questo ma altrettanto inesistente quanto il dolore per la caduta della pietra. Dunque ciò di cui l'uomo ha paura è un nulla.

Qual è dunque l'origine di quest'angoscia? Il cronista osserva:

— L'uomo teme la morte perché ama la vita, e così ha voluto la natura.

— Questo è vile e qui è tutto l'inganno! — e i suoi occhi scintillarono. — La vita è dolore, la vita è terrore, e l'uomo è infelice. Oggi tutto è dolore e terrore. Oggi l'uomo ama la vita perché ama il dolore e il terrore. E così l'hanno fatto. La vita gli si presenta oggi come dolore e terrore. (I Demoni, voi. I, pp. 164-5).

Non si tratta dunque di un contenuto, di un oggetto, ma di una condizione dell'esistenza stessa: "La vita (in se stessa) è dolore; la vita (in se stessa) è terrore, e l'uomo è infelice". Dolore e angoscia non sono stati d'animo condizionati da una realtà che scompariranno con ciò che ne fu la causa, ma rivelazioni di uno stato dell'esistenza e scompariranno con l'estinguersi di questa.

. L'esistenza assume dunque forma di dolore e di angoscia e "oggi l'uomo ama la vita perché ama il dolore e il terrore". Questo "perché" è decisivo:

all'origine non c'è l'amore della vita, ma l'amore del dolore. Tutta la miseria umana proviene da un pervertimento della vita affettiva: l'amore del dolore, un'inversione, dunque, del primo volere, una deviazione all'origine stessa dell'atto dell'esistenza.

Queste riflessioni sono poi trasferite da Kirìllov, che s'interessa della questione sociale, sul terreno della sociologia: "E così hanno fatto". "Hanno"

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— chi? Gli uomini, la vita, così come si è consolidata e si esprime in tradizioni, istituti, ordini di valori, e viene incontro al singolo nella massa degli uomini mediocri e senza nome, che è quindi invincibile.

Il vero garante dei valori attuali, colui che a sua volta ne è garantito, quintessenza perciò e suprema espressione di ciò che temporaneamente è valido è Dio, o, più esattamente, "il Dio di oggi". Kirìllov però ha detto di non credere in Dio e perciò il cronista domanda:

— Allora quel Dio esiste, secondo voi?

— Non esiste, ma è.

frase che troviamo spiegata dalle parole che seguono:

— Nella pietra non c'è sofferenza, ma nella paura della pietra c'è una sofferenza. Dio è il dolore che accompagna la paura della morte.

Dio, dunque, non ha esistenza propria, "non esiste" ma "è" come "è" un'illusione che per se stessa è inconsistente poiché sparisce quando ne vien meno la causa e tuttavia può produrre un effetto psicologico tortissimo. "Dio", ciò che s'intende quando si parla oggi di Dio, non esiste ma è solo l'effetto psicologico dell'angoscia di quel "nulla". È il contenuto doloroso dell'angoscia concretizzato fino a darci la sensazione di una presenza. È il dolore dell'esistenza ipostatizzato. Dio stesso è nulla, è il dolore divenuto potenza universale che nasce dall'angoscia di ciò che non è. Dio è un fan-

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tasma4 prodotto da un tormento senza oggetto. Ma come angoscia e dolore sono all'origine di tutto, o, più precisamente, la volontà del dolore, il desiderio dell'angoscia, che sono, come si è visto, la prima ragione del perché qualche cosa esiste, così anche anche quel non-essere che porta il nome di Dio è voluto dall'uomo affinchè lo tormenti, così come il superstizioso, nell'agonia del terrore, genera il fantasma che gli da il voluttuoso tormento del brivido.

In principio sta dunque l'amore del dolore e dell'angoscia — un amore rovinoso per ogni significato, e non soltanto terribile ma anche ignominioso, e la volontà di esistere in modo opposto a ogni dignità e purezza5, dunque una perversione dello stesso atteggiamento esistenziale6.

4 Abbiamo visto più sopra che Dio era per Kirìllov causa di tormento. Il rapporto con Dio era dunque sentito come un fatto tormentoso. Qui si fa un passo avanti. L'angoscia è sentita come luogo psicologico « ove » Dio è. Più esattamente: questa angoscia stessa è sentita come un Numi-nosum. Il sentimento religioso, come elementare abbandono del finito a Dio, ha qui per forma l'angoscia. Dio è ciò che da angoscia, tormento, e, insieme, ciò che seduce e attira.

5 Ogni interpretazione « psicologica » avrebbe valore secondario, darebbe soltanto l'aspetto fenomenico di questa realtà. Ogni indagine sulla Libido e sulla volontà di affermazione, come pure sul meccanismo della loro rimozione e delle loro manifestazioni patologiche, sarebbe sempre alla superficie. Si tratta qui invece di una vera e propria inversione dell'atteggiamento essenziale, della natura e della dirczione dell'atto esistenziale. Secondo Kirìllov « Dio » è il prodotto di questa inversione e la suggella.

6 Si confronti fin d'ora quanto siano venuti esponendo col concetto nietzschiano della « grande salute ». Esso significa la guarigione da quell'originario pervertimento del volere e tende alla eliminazione totale di quella sofferenza,

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In Kirìllov, però, dato il modo suo particolare di costruire e formulare il proprio pensiero, questo stato di cose si esprime attraverso uno sfumarsi di ciò che lo angoscia, ch'egli pone tra il sì e il no, l'essere e il non-essere, nell'indeterminato. Esso non ha più un suo onesto volto chiaro ed aperto; non esiste e tuttavia "è". Si riduce a esser nulla, ma un nulla dotato di un potere terribile, quello di generare l'angoscia dopo aver ricevuto dall'angoscia stessa questo potere7.

Questa situa2Ìone dovrebbe essere sanata. L'uomo dovrebbe trasferire il suo rapporto con Dio da un piano di immediatezza naturalistica al piano cristiano. Ciò che lo trattiene col suo incantesimo è il Dio-natura, che per Sàtov è l'anima del popolo, a-mata fino al sacrificio supremo, e da Màrja Lebjàd-kina è orgiasticamente esaltato come la "Gran Madre" e la dionisiaca potenza elementare del sole. Questa divinità è sentita da Kirìllov in un modo più spirituale e appunto per questo come insostenibile. Il non-essere che lo tormenta, il Dio-popolo di Sàtov, la Madre-Terra e il Sole di Màrja Lebjàd-kina sono la stessa cosa. Sàtov e Màrja sprofondano

ma in un modo che dal punto di vista cristiano sarebbe addirittura fatale. L'uomo infatti si troverebbe « guarito da Dio » e in perfetto accordo con se stesso, ma fuori dal raggio della salvezza. La sua. felicità starebbe in questo, che « Dio non tormenta più », essendosi staccato, dissolto, essendo svanito. Dal punto di vita cristiano è la completa soddisfazione raggiunta nello stato di riprovazione, con la tecnica dell'ignorarlo pienamente.

7 I processi psichici qui descritti fanno parte della storia patologica dei rapporti col divino fuori dell'ambito delle redenzione. Il loro stadio finale sarebbe quello indicato dalle parole di Mietasene nello Zarathustra: « Dio è morto ».

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in un abisso di estasi e di terrore insieme, Kirìllov cerca invece di aprirsi un varco ma senza capire che la salvezza è possibile solo sulla via della reden-2Ìone, sulla via che conduce a Cristo. Perciò la sua "sortita" si esaurisce nella sfera donde anela a evadere e il suo risultato è di portare a compimento ciò di cui avrebbe voluto liberarsi. L'esperienza dell'essere e di Dio che negli altri due si risolve in una esaltazione dionisiaca della divinità, in Kiril-lov assume una forma negativa8.

. Questo stato di non-redenzione potrebbe essere superato solo con un ritorno a Cristo, un Cristo di cui la Chiesa dovrebbe preservare la figura da suggestive quanto ingannevoli deformazioni. Nell'abbandono a Cristo, nella partecipazione — nella fede e nell'amore — a tutto il suo essere, — anticipo qui dei concetti che spiegheremo meglio più avanti — la nuda finitezza sentita e vissuta sotto forma di tormento e di angoscia, verrebbe riscattata e sollevata sul piano della grazia, accolta nell'esistenza dell'amore, ossia dell'Uomo-Dio e nella partecipazione alla sua vita. Così, nel progressivo compiersi della rinascita, nel formarsi della nuova creazione, l'angoscia si dileguerebbe.

L'uomo però dovrebbe essere pronto a rinunciare alla pura natura, o meglio a ciò che si pone come "natura" ed è invece qualcosa di ancora "non ben determinato". Dovrebbe essere pronto ad ac-

8 E il nirvana di Buddha? Non c'è forse la stessa polarità fra il Dio-Tutto dei brahmani e il « nulla » dei buddhisti? L'astrazione dal tempo e la calma sottratta a tutti i contrasti predicate da Buddha non sono forse il sintomo di una volontà di mantenersi nella non-redenzione come l'abbandono brahmanico, sul quale il carattere orgiastico di certi culti politeisti getta, forse, una luce rivelatrice?

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cettare Colui che è "dei deli". Allora l'angoscia, nata dall'inganno e generatrice di inganno, si con-vertirebbe in verità, ossia in umiltà e pentimento, e la grande aspirazione, il superamento del finito, si attuerebbe nell'amore.

Ma in Kirìllov la stessa figura di Cristo si tinge di menzogna:

— Chi insegnerà che tutti sono buoni, farà finire il mondo.

— Chi lo insegnava fu crocifisso.

— Egli verrà e il suo nome sarà Uomo-Dio.

— Dio-uomo?

— No, Uomo-Dio, c'è una differenza. (I Demoni, voi. II, p. 48).

Questo Cristo che insegna "che tutti sono buoni" è irreale come quello di Ivàn. Quello vero non ha mai insegnato questo ma ha detto: "voi, che siete malvagi". Il Cristo di Kirìllov si perde nell'indeterminato: "Egli verrà e il suo nome sarà uomo-Dio". Ma questo non è che l'uomo nuovo che ha da venire. Uomo, Cristo e Dioniso — l'uomo bisognoso di redenzione, il Redentore e l'elemento demoniaco della natura diventano qui la stessa cosa. Ciò significa però annullare ogni carattere distintivo, respingere la redenzione; l'uomo e la natura si chiudono in se stessi e, avendo proclamato la propria autosufficienza, credono di possedere essi stessi come Prometeo forza creatrice. Dal punto di vista cristiano, questo significa il trionfo della finitezza pura 9.

9 La figura dell'uomo-dio occupa nell'esperienza e nel pensiero di Kirìllov lo stesso posto del superuomo in quello di Nietzsche. Anche in quest'ultimo l'uomo. Cristo e Dioniso

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Dalla vita di Kirìllov il Redentore è assente. Egli ha acceso, è vero, la piccola lampada e alla domanda fredda e perentoria di Stavròghin risponde "balbettando" e si giustifica d'averlo fatto per compiacere la vecchierella. Stavròghin intuisce in lui ancora un rapporto positivo col Cristo, o per meglio dire, la possibilità di questo rapporto: "Ma voi non pregate ancora?" E più avanti: "Scommetto che quando verrò qui un'altra volta, voi crederete già anche in Dio". Ma Kirìllov respinge quest'ipotesi. Egli ha deciso.

In che senso?

Il tentativo di aprirsi un varco è compiuto proprio là dov'è il nodo della questione: il modo come vengono concepiti e sperimentati il finito e l'assoluto che ne è separato e tuttavia-l'opprime.

Ciò che da angoscia è la morte, l'altro mondo, Dio. Morte, altro mondo, Dio, sperimentati contemporaneamente sul limitare dell'esistenza, là dove questa rappresenta se stessa come esistenza finita, confinante con l'assoluto.

Questo limite è sentito e voluto fin da principio come finitezza pura e precisamente con un desiderio d'abbandono al quale si oppone però, come un'ulteriore protesta: l'imperativo di bastare a se-stessi, di essere autonomi. Non tanto l'inerzia e l'egoismo della natura si oppongono, dunque, all'abbandono a questo "tu" divino, riconosciuto come sola verità e l'unico che possa volere il dominio sull'anima; il cuore, anzi, lo desidera, ma la protesta sorge dallo spirito, dalla coscienza, là dove

sono fusi implicitamente nello Zarathustra, e, dichiaratamente, nelle lettere della pazzia.

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nasce la consapevolezza di una dignità e di una vocazione, e proprio perché quella vicinanza divina che invita alla dedizione è sentita come un tormento, un'angoscia, una indegnità. Non si tratta dunque di semplice pigrizia spirituale o di ripugnanza al sacrificio ma di una protesta ragionata e consapevole provocata da una crisi della struttura dell'esistenza e rivolta contro una falsa immediatezza religiosa che ora diviene intollerabile. Qui l'uomo dotato di un senso religioso molto vivo cessa di sentirsi creatura naturalmente subordinata a Dio, a Lui legata nell'unità dell'amore e della grazia, e si conosce come essere "finito"; definisce criticamente i propri limiti rispetto ali'" assoluto", di cui sente la minaccia, ed è pronto anzi ad affrontarlo in una lotta esistenziale. Egli non sente più Dio davanti e tutt'intomo a sé e in sé, formante con sé una cosa sola, ma lo sente contrapposto a sé come "colui che è l'assoluto" e forse come "ciò che è assoluto". La coscienza conosce qui la propria esistenza come "nuda finitezza" isolata e Dio come il "puro assoluto" isolato e ne avverte la potenza come una minaccia alla emancipazione del finito. Poiché l'abbandono confidente è ardentemente desiderato ma non concesso, il suo oggetto, con tutta la sua immensa forza di attrazione, si trasforma in un principio ostile che minaccia di inghiottire l'uomo. Poiché amarlo è vietato, esso si muta in qualcosa di mostruoso. Poiché infine un rapporto personale è inattuabile, esso diventa un essere senza volto, senza sostanza, qualcosa che "non esiste" ma "è"; uno spettro, un "nulla" che ha il potere di generare orrore e angoscia e, per usare un'espressione di Martin Heidegger, "nientifica".

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L'atto liberatore verrà dalla decisione di trarre da questa situazione le ultime conseguenze, riconoscendo che l'esistenza è puramente finita, che nulla al-l'infuori del finito esiste, e vivendo secondo questa convinzione. Nello stesso momento il senso di una vicinanza di Dio dovrà necessariamente sparire, Dio cesserà di "esser lì", l'angoscia e il tormento cesseranno.

Ora l'uomo si sostituisce a ciò che un tempo era chiamato "Dio" e in cui era riposto il senso dell'esistenza. "Chi vincerà il dolore e il terrore, quello sarà Dio. E quell'altro Dio non ci sarà più". Ma l'uomo che apparirà allora sarà un altro essere:

"L'uomo-dio".

Ma cosa ci darà la garanzia che il riconoscimento del puro finito sia veramente tradotto in atto esistenziale? Kirìllov non ha mai voluto "che fossero soltanto parole"; come dimostrerà che quel riconoscimento non è stato soltanto verbale? E non solo davanti agli uomini o davanti alla propria coscienza ma davanti all'essere stesso affinchè esso sia metafisicamente efficiente?

. — Chiunque vuole la suprema libertà deve osare uccidersi. Chi osa uccidersi ha scoperto il segreto dell'inganno. Al di là non c'è libertà; tutto è qui e al di là non c'è nulla. Ma nessuno ancora l'ha fatto nemmeno una volta.

— Di suicidi ce ne furono milioni.

— Ma mai per questo, sempre con la paura e non a questo scopo. Non per uccidere la paura. Chi si ucciderà

•solo per uccidere la paura, quello diverrà subito un Dio.

— Non ne avrà il tempo forse, — osservai.

— Questo non importa, — egli rispose dolcemente con

-una tranquilla fiere2za, quasi con disprezzo. (J Demoni, voi. I, pp. 165-66).

E nel grande colloquio con Vierchovènskij:

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« Se Dio non c'è, io sono un dio »... « Se Dio esiste, tutta la volontà è Sua e al di fuori della Sua volontà io non posso far nulla. Se non esiste, tutta la volontà è mia e io ho l'obbligo di affermare il mio libero arbitrio.

— Il libero arbitrio? E perché avete l'obbligo?

— Perché tutta la volontà è diventata mia. Possibile che su tutto il pianeta non ci sia nessuno che, facendola finita con Dio e credendo nel libero arbitrio, ardisca affermare questo libero arbitrio in tutta la sua pienezza?... Io' ho l'obbligo di uccidermi perché il punto supremo del mio libero arbitrio è uccidere me stesso ». (I Demoni, voi. Ili, p. 231).

L'esistenza, come essa è attualmente, presuppone Dio. Così come l'uomo è ora, egli può esistere solo se Dio è per necessità di natura. "Nel suo presente stato fisico, per quanto io ci abbia pensato su, l'uomo non può in nessun modo fare a meno del vecchio Dio". Sentir questo quando il periodo del semplice spontaneo abbandono è superato e sopraggiunge la coscienza critica della propria finitezza, è appunto la causa del tormento. Pertanto:

— Dio è necessario e perdo deve essere.

— E benissimo.

— Ma io so che Egli non esiste e non può esistere.

— Questo è più giusto.

— Possibile che tu non Comprenda che un uomo con due idee simili non può continuare a vivere?... Possibile che tu non comprenda che ci si può uccidere soltanto per questo? Non capisci come possa esistere un uomo simile, uno solo tra i vostri mille milioni d'uomini, uno solo che non vuoi più saperne della vita e non la sopporta più? (I Demoni, voi. Ili, p. 229).

E di nuovo:

— Non capisco come finora l'ateo abbia potuto sapere 193

che non c'è Dio e non uccidersi immediatamente. Riconoscere che non c'è Dio, e non riconoscere in pari tempo che tu stesso sei diventato un dio, è un'assurdità, a meno di uccidersi senza fallo... Per tré anni ho cercato l'attributo della mìa divinità e l'ho trovato: l'attributo della mia divinità è il Libero Arbitrio! È ciò con cui posso, sul punto capitale, mostrare la mia ribellione e la mia nuova terribile libertà. (I Demoni, voi. Ili, pp. 233-34).

Se l'uomo vorrà dimostrare di saper accettare il finito puro e semplice, dovrà assumerlo in ciò che esso ha di più gravoso. Egli dovrà fare la cosa più difficile per chi aneli al dono totale di sé: diventare indipendente, autonomo, sovrano, e diventarlo in un modo che possa corrispondere alla sovranità di di Dio come dominio sulla vita e sulla morte, preparandosi a disporre non della vita altrui, ma della propria vita e farlo liberamente, con la coscienza che 1'" autorità" qui non c'entra e che "nessun pentimento è necessario".

Se l'uomo riuscirà a superare la prova spaventosa — l'ambiguità delle espressioni dice chiaramente che qui si tratta dell'inconcepibile intreccio di annientamento e nascita, morte e generazione, orrore e trionfo, atti individuali e vicende del genere umano e cosmiche — quello che poi verrà è annunciato da frasi come :"Sarà la fine"; "Non ci sarà più niente"; "Nessuno vorrà più vivere"...

Ma anche:

Chi si ucciderà solo per uccidere la paura, quello diverrà subito un Dio;

oppure — e qui si rivela tutta l'energia metafisica di questa concezione:

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Ci sarà una trasformazione fisica della terra e dell'uomo. L'uomo sarà Dio e si trasformerà tìsicamente. Anche il mondo si trasformerà, e si trasformeranno le azioni e i pensieri e tutti i sentimenti.

Con più energia ancora:

Soltanto questo salverà tutti gli altri uomini e li trasformerà tìsicamente fin dalla prossima generazione. (I Demoni, voi. Ili, p. 234).

Diverse formulazioni cercano di illuminare sotto aspetti diversi l'oggetto del nostro esame e cioè questa esistenza nuova generata dalla morte della precedente. Essa è pura Enitezza bastante a se stessa ma trasformata per essersi arrogata gli attributi di Dio ed esser divenuta essa stessa "Dio". Non nel significato monista dell'Uno-Tutto infinito, poiché il finito come tale è determinato. Ma essa acquista un carattere nuovo, numinoso, inconcepibile per la nostra vita e il nostro pensiero odierni. Questo è in un certo senso anticipato dalla risposta di Kirìllov alla domanda:

— Ma voi non pregate ancora?

— Io prego sempre. Vedete questo ragno che si arrampica sul muro, io lo guardo e gli sono riconoscente perché si arrampica.

Il finito subisce così una trasformazione sostanziale:

Appena saprò di esser Dio, lo sarò.

C'è libertà, ma è una "libertà terribile". C'è la gioia, ma è una "gioia terribile" e

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il più terribile si è che tutto è così. chiaro e che si prova una gioia così grande. (J Demoni, voi. Ili, p. 193).

Il nuovo pensiero si esprime anche sotto altra forma nei due concetti antitetici di "eternità" e "tempo":

— La vita esiste, ma la morte non esiste affatto-

— Vi siete messo a credere nella vita eterna futura?

— No, io non credo m una vita eterna futura, ma in una eterna quaggiù. Ci sono dei momenti, voi arrivate a certi momenti in cui il tempo tutt'a un tratto si ferma e diventa eternità.

— Voi sperate di arrivare a un momento simile?

— Sì.

— Ai nostri tempi è un po' difficile, — rispose, pure senz'ironia alcuna, Nikolàj Vsjevolòdovic, lentamente e come se meditasse. Nell'Apocalisse un angelo giura che non ci sarà più il tempo.

— Lo so. Là è verissimo, è chiaro e preciso. Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più, perché non ce ne sarà più bisogno. È un pensiero molto giusto.

— E dove lo ficcheranno?

— Non lo ficcheranno in nessun posto. Il tempo non è un oggetto ma un'idea. Si estinguerà nella mente. (J 'Demoni, voi. II, pp. 45-6).

'Qui appare chiarissimo il carattere peculiare del finito trasformato, divenuto numinoso: "Non una vita etema futura, ma una eterna quaggiù". Il "tempo" stesso diventerà "etemo".

Ed ecco una formulazione diversa nella contrapposizione di "bene" e "male"; dice Stavròghin:

— A quanto pare, voi siete molto felice, Kirìllov.

— Si, molto felice,

risponde questi. Stavròghin gli fa osservare che 196

egli era recentemente molto afflitto. Al che Kirìllov risponde:

Allora non sapevo ancora di essere felice.

Questa felicità nasce dunque dalla pura e semplice esperienza dell'esistenza, e può d'altronde schiudersi al presentarsi di un solo frammento dell'essere, come nel caso della foglia spinta dal vento:

— Un'allegoria? — domanda Stavròghin, — N-no... perché? Non è un'allegoria; una semplice foglia, solo una foglia. La foglia è bella. Tutto è bello.

E di fronte al dubbio di Stavròghin:

— Tutto?

— Tutto, — conferma; — l'uomo è infelice perché non sa di essere felice, soltanto per questo. Tutto sta qui, tutto! Chi lo capirà sarà subito felice, nello stesso momento.

E ancora:

— Tutto è bene, tutto. Chiunque sa che tutto è bene, è felice... Ecco tutta l'idea, tutta quanta, non ce n'è altra! (J Demoni, voi. II, p. 47).

Il fatto che tutto sia "bene" appare nel sorgere di una coscienza nuova. Questa nuova coscienza nasce insieme alla nuova finitezza. Il suo contenuto, le sue affermazioni non possono essere comprese e giustificate dal punto di vista dell'essere attuale ma appaiono con la nuova esistenza; essa non è altro che l'autocomprensione della nuova esistenza. In questa nuova coscienza la finitezza trasformata intuisce se stessa; essa vede se stessa al di là della tensione

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che in precedenza la torturava, al di là del bene e del male.

Infine quest'esistenza nuova si manifesta come uno stato di estasi che l'interlocutore avvicina ai minuti che precedono un attacco epilettico:

Aspettate, vi capitano, Sàtov, dei momenti di eterna armonia? ... Ci sono dei secondi, essi non vengono che a cinque o sei per volta, in cui sentite tutt'a un tratto la presenza dell'eterna armonia, da voi compiutamente raggiunta. Non è qualcosa di terrestre; non dico che sia una cosa celeste, ma dico che l'uomo, nella sua forma terrestre, non la può - sopportare. Bisogna trasformarsi tisicamente o morire. È un sentimento chiaro e incontestabile. Come se a •un tratto sentiste tutta la natura e diceste; « Sì, questo è vero, questo è bello ». Non è... non è intenerimento, ma soltanto una gioia. Voi non perdonate nulla, perché non c'è più nulla da perdonare. Non è nemmeno che amiate, oh è una cosa più alta dell'amore! Il più terribile si è che tutto è così chiaro e che si prova una gioia così grande. Se durasse più di cinque secondi, l'anima non resisterebbe e dovrebbe sparire. In quei cinque secondi io vivo una vita e per essi darei tutta la mia vita, perché ne vale la pena. Per resistere dieci secondi, bisogna trasformarsi tisicamente. (I Demoni, voi. Ili, pp. 192-93).

Sono parole che esprimono e comunicano con grande forza e chiarezza il senso di un trascendi-mento ontico, di un divenire nuovo lc.

— Io comincerò, e finirò e aprirò la porta. E salverò gli altri. Soltanto questo salverà tutti gli altri e li trasformerà tisicamente sin dalla prossima generazione.

10 Si confronti a questo proposito la tesi e tutta la vicenda inferiore di Così parlò Zarathustra, purché s'intenda il libro — nel senso voluto da Nietzsche — come mistero e dottrina del divenire.

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Più tardi sarà possibile arrivare alla conoscenza liberatrice senza uccidersi:

— Se lo riconosci, sei un rè, e non ti ucciderai più, ma •vivrai nella pienezza della gloria. Ma uno, il primo, deve assolutamente uccidersi, altrimenti che mai comincerà e darà la prova? Sarò io che assolutamente mi ucciderò per cominciare e per dar la prova. Io non sono ancora un Dio che per forza e sono infelice, perché obbligato ad affermare il mio libero arbitrio. (I Demoni, voi. Ili,, p. 234).

Egualmente non è sicuro se tutti debbano uccidere o se l'atto liberatore di un solo basterà a dare agli altri la coscienza nuova e a porli al di là del bene e del male, se ogni vita dovrà cessare " o se comincerà una nuova esistenza. Le affermazioni di Kirìllov possono giustificare qualsiasi interpre-tazione. Qui il suo pensiero si fa nebuloso, devia nel fantastico — a meno che questa nebulosità non voglia esprimere la natura essenzialmente indeterminata del divenire, o, meglio, lo stato che precede la determinazione, la potenzialità in movimento.

Comunque sia, si tratta di un atto religioso. Esso darà una nuova divisione alla storia, così come fin'ora è stata divisa in ante et post Cbristum natum:

11 A questo sembra alludere la strana osservazione di Kirìllov quando Sàtov gli racconta che sua moglie sta per partorire: « Mi spiace tanto di non saper partorire... cioè, non di non saper partorire, ma di non sapere come far partorire... o piuttosto... No, io non so dirlo ». Questo può voler dire soltanto: vorrei riuscire a far capire agli uomini che non ha senso continuare a generare, affinchè vi rinuncino. Così anche a p. 193 (voi. Ili): « Io credo che l'uomo debba cessar di generare. A che i figli, a che l'evoluzione, se la meta è raggiunta? Nel Vangelo è detto che, dopo la resurrezione, gli nomini non genereranno più, ma saranno come gli angeli di Dio. È un'indicazione ».

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— Chi vince il dolore e la paura, quello diventerà lui stesso Dio. Allora una vita nuova, un uomo nuovo, tutto nuovo... Allora la storia sarà divisa in due parti: dal gorilla alla distruzione di Dio, e dalla distruzione di Dio a...

— Al gorilla?...

— ... Alla trasformazione fisica della terra e dell'uomo. (J Demoni, voi. I, p. 165).

È interessante vedere come a questo punto si delinei il riferimento di Kirìllov a Cristo. Per spiegare il signiEcato del suo atto egli si richiama a Lui:

Egli l'ha detto.

E con un entusiasmo febbrile indicò l'immagine del Salvatore, davanti a cui ardeva una lampada. Pjotr Stjepànovic andò sulle furie.

— Credete dunque ancora sempre in Lui e avete acceso la lampada; sarebbe mai « per ogni buon fine »?

L'altro taceva.

Sapete, secondo me, voi credete più forse ancora di un pop.

In chi? In Lui? Ascolta, — e Kirìllov si fermò guardando davanti a sé con uno sguardo immobile ed esaltato. — Ascolta una grande idea: ci fu sulla terra un giorno che nel mezzo della terra stavano tré croci. Uno di quelli che erano sulla croce credeva al punto che disse all'altro: « Tu sarai oggi con me nel paradiso ». Il giorno finì, tutt'e due morirono e se n'andarono, ma non trovarono ne paradiso, ne resurrezione. Non si avverò quel ch'era stato detto. Ascolta: Quell'uomo era il più sublime di tutta la terra. Egli costituiva per essa la ragione di vivere. L'intiero pianeta con tutto ciò che c'è sopra, senza quell'uomo, non è che follia... Se le leggi della natura non hanno risparmiato neppur Quello, se non hanno risparmiato neanche il proprio miracolo, ma hanno obbligato anche Lui a vivere in mezzo alla menzogna e a morire per la menzogna, vuoi dire che tutto il pianeta non è che menzogna e poggia sulla menzogna e su una stupida beffa. Vuoi dire che le stesse leggi del pianeta sono una menzogna e un vaudeville diabolico. Perché vivere dunque, rispondi, se tu sei un uomo? (J Demoni, voi. Ili, pp. 232-33).

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C'è qui la coscienza di una profonda unione col Cristo. L'argomento "Egli l'ha detto" ha importanza decisiva. Ma la "grande idea" è questa: Egli, la ragione di vivere di questa nostra terra, non l'ha potuta riscattare perché era rimasto nei limiti di questo ordine dell'esistenza. La natura, la fhysìs attuale, l'esistenza attuale erano più forti di lui. Un altro perciò deve venire e fare il passo giusto, svelando l'inganno e sollevando l'esistenza attuale dai suoi cardini. Questi sarà Kirìllov.

Il pensiero divaga ormai nella mente sconvolta. Non solo, ma si copre di ignobiltà.

Già il fatto che Kirìllov sia implicato nelle macchinazioni della banda di Pjotr Vjerchovènskij e sia in contatto con lui getta sulla sua figura una luce sinistra. Che egli poi subisca la regia di questo essere mostruoso al punto di lasciarsi condurre da lui alla morte non è soltanto terribile ma anche vergognoso. Dal punto di vista di Dostojevskij, tuttavia, questo non basterebbe a giustificare la nostra perplessità, essendo noto che le verità più luminose risplendono nei suoi libri dai fondi più torbidi. Ma pur ammettendo questa dialettica, è ben diverso che un Fjòdor Karamàzov, un Marme-làdov, un Lèbedev, dicano cose profonde e Kirìllov sacrifichi a un Vjerchovènskij l'atto supremo della sua vita, nel quale, come sappiamo, dovrebbe compiersi la catastrofe religiosa dell'esistenza con la scomparsa degli antichi valori e il costituirsi di un nuovo senso della vita. Questo atto significa nello stesso tempo — non occorre analizzare troppo per accorgersene — un profondo abbandono erotico. Si tratta di Dio e del più intimo dono di sé, su cui il pudore dovrebbe stendere un velo. Invece tutto

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è così di un'urtante impudicizia 12. Sacrificare a tanta bassezza un segreto intimo e doloroso fa. l'effetto di una vera prostituzione. Forse Kirìllov, da parte sua, risponderebbe che tutto è indifferente. Ma ciò che è abbietto non dovrebbe lasciare indifferenti.

E tutto si conclude poi in un finale odioso, grottesco e insieme terribile.

Kirìllov sente che la sua ora è venuta. Pjotr Vjerchovènskij, che intende servirsi di lui per coprire le proprie sporche trame, non lascia la presa. Egli vuole che Kirìllov dichiari per iscritto, dato che la cosa non può essergli che indifferente, di aver ucciso Sàtov. Dapprima Kirìllov si rifiuta, poi all'improvviso, in modo affatto inatteso e come se fosse ispirato, grida:

— Dettami, firmerò tutto. Firmerò anche che ho ucciso Sàtov. Dettami finché questo mi diverte. Io non temo l'opinione degli schiavi arroganti! Vedrai anche tu che ogni mistero sarà chiarito! E tu sarai schiacciato... Io credo!

Pjotr Stjepànovic, cogliendo a volo il - momento e trepidando per la riuscita, si slanciò e in un batter d'occhio gli porse il calamaio e la carta e si mise a dettargli.

« Io, Aleksjèj Kirìllov, dichiaro... ».

Alt! non voglio! A chi dichiaro?

—Kirìllov tremava come se avesse la febbre. Quella dichiarazione e non so che idea venutagli subitamente al riguardo parevano averlo a un tratto assorbito tutto quanto, come una via d'uscita verso cui si fosse impetuosamente slanciato, sia pure per un solo istante, il suo spirito tormentato.

— A chi dichiaro? Voglio sapere a chi.

— A nessuno, a tutti, al primo che leggerà. A che precisare? Al mondo intiero.

12 Per il nostro modo di sentire i personaggi di Dostojev-skij perdono troppo sovente ogni ritegno. Anche questo è probabilmente in rapporto con la fragile struttura della loro personalità.

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— Al mondo intiero? Bravo! E senza esprimere pentimento. Non voglio pentirmi; e non voglio rivolgermi alle autorità!

— Ma no, non occorre, al diavolo le autorità! Ma scrivete dunque, se dite sul serio... — gridò nervosamente Pjòtr Stjepànovic.

— Aspetta! Io voglio fard su, in alto, un muso con la lingua fuori.

— Eh, sciocchezzé! — si stizzì Pjòtr Stjepànovic, — anche senza disegno si può esprimere ciò soltanto col tono.

— Col tono? Va bene. Sì, col tono, col tono. Dettami col tono!

« Io, Aleksjèj Kirìllov, — dettò Pjòtr Stjepànovic con voce ferma e imperiosa, chino sopra la spalla di Kirìllov e seguendo ogni lettera che questi tracciava con mano tremante per l'agitazione, — io, Kirìllov, dichiaro che oggi... » (J Demoni, voi. Ili, pp. 235-36).

Kirìllov finisce di scrivere tutto, ma Vjerchovèn-skij s'accorge che non ha ancora firmato:

— Perché sbarrate gli occhi, firmate!

— Io voglio insultarli... — mormorò Kirìllov, però prese la penna e firmò. — Io voglio insultarli...

— Firmate: Vive la république, e basta.

— Bravo! — urlò quasi Kirìllov dall'entusiasmo. — Vive la république démocratique sociale et universelle ou la morti... No, no non così. Liberto, égalité, fraternité ou la mort. Ecco, così va meglio, così va meglio, — disse scrivendo con voluttà quelle parole sotto la propria firma.

— Basta, basta, — ripeteva Pjòtr Stjepànovic.

— Aspetta, aspetta ancora un momento... Sai, firmerò ancora una volta in francese: "de Kirìlloff, gentilhomme russe et citoyen du monde'. Ah, ah, ah! — scrosciò in una risata. — No, no, no, aspetta, ho trovato la migliore di tutte, eureka: gentilhomme séminariste russe et citoyen du monde civilisé! Ecco quel che è meglio di ogni... — ed egli balzò su dal divano, afferrò con rapida mossa la rivoltella sulla finestra, corse nell'altra stanza e chiuse con cura la porta dietro di sé. (I Demoni, voi. Ili, p. 237).

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Poi tutto è silenzio.

Segue ora una scena terrificante: Vjerchovènskij afferra la maniglia della porta che mette nella stanza attigua, sta in ascolto, apre:

Qualcosa si mise ad urlare e si slanciò verso di lui. Con tutte le sue forze egli sbattè l'uscio e ci si appoggio nuovamente, ma tutto era già tornato nella calma: di nuovo un silenzio di morte (pp. 238-29).

"Qualcosa", questo neutro!

Vj'erchuvènskij è lì immobile e si domanda se Kirìllov si ucciderà... "L'infamia è ch'egli in Dio ci crede più di un pop..."'. Infine si fa coraggio e entra nelk stanza.

Contro la parete opposta alle finestre, a destra dell'uscio, c'era un armadio. A destra di questo, nell'angolo formato dall'armadio e dal muro, stava in piedi Kirìllov, e stava in una positura paurosamente strana: immobile, rigido, con le braccia tese lungo i fianchi, la testa sollevata e la nuca appoggiata con forza al muro, proprio nell'angolo, pareva che volesse farsi piccino e nascondersi. Secondo ogni apparenza, egli si nascondeva, ma non si riusciva a crederlo. Pjotr Stjepànovic si trovava un po' di sbieco rispetto all'angolo e non poteva osservare che le parti rilevate della figura. Egli non si risolveva ancora a fare un passo verso sinistra per esaminare tutta la persona di Kirìllov e risolvere l'enigma. Il cuore prese a battergli forte... E all'improvviso s'impadronì di lui una vera frenesia: egli balzò di dov'era, gettò un grido e, pestando coi piedi, si slandò verso il punto terribile.

Ma quando fu vicinissimo si fermò di nuovo come inchiodato, ancor più compreso di orrore. Lo colpì soprattutto il fatto che, non ostante il suo grido e il suo balzo furioso, la figura non si era mossa, non aveva bucicato in nessuna sua parte: come impietrita o fatta di cera. Il pallore del suo volto aveva del soprannaturale, gli occhi neri

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erano del tutto immobili e guardavano verso un punto dello spazio. Pjotr Stjepànovic gli passò la candela sul viso di su in giù in su, illuminandolo da tutti i lati ed esaminandolo. A un tratto notò che Kirìllov, benché guardasse chi sa dove dinanzi a sé, lo vedeva però con la coda dell'occhio e fors'anche l'osservava. Gli venne allora l'idea di avvicinare la fiamma al viso di « quel mascalzone » e di scottarlo per vedere che cosa avrebbe fatto. Improvvisamente ebbe l'impressione che il mento di Kirìllov si muovesse e che un sorriso di scherno gli corresse sulle labbra, quasi l'altro avesse indovinato il suo pensiero. Egli si mise a tremare e, dimenticandosi, afferrò Kirìllov con forza per una spalla.

Allora successe qualcosa di tanto fantastico e rapido che Pjotr Stjepànovic non riuscì poi mai a mettere un po' d'ordine nei suoi ricordi. Appena egli ebbe toccato Kirìllov, questi inchinò bruscamente il capo, facendogli con una capata saltar via la candela di mano; il candeliere ruzzolò tintinnando sul pavimento e la candela si spense. Nel medesimo istante egli sentì un terribile dolore al mignolo della sua mano sinistra. Si mise a gridare e più tardi si sovvenne soltanto di avere fuori di sé picchiato per tré volte con la rivoltella a tutta forza sulla testa di Kirìllov, che era attaccato a lui e gli aveva morsicato il dito. Infine liberò il dito e corse a precipizio fuori della casa, cercando la strada nell'oscurità. Dalla stanza lo inseguirono delle terribili grida:

— Subito, subito, subito, subito!... (I Demoni, voi. Ili, pp. 239-242).

La scena non ha bisogno di commento: nell'orrore dell'angoscia suprema si rivela d'un tratto un'altra vita, ma non certo quella dell'uomo nuovo, redento, bensì quella raccapricciante dell'uomo meccanico, della marionetta: e davanti a noi c'è solo un automa che abbassa la testa e morde.

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Il finito e il nulla

Tutto questo mondo di pensieri e di impressioni da noi testé descritto, potrebbe esser giudicato e messo da parte come follia religiosa. Ma se già ogni malattia ha un suo significato, vi sono poi alcune manifestazioni patologiche in cui esso va molto al di là dell'individuo in cui si manifestano. A questo proposito c'illumina il parallelismo che corre tra la figura di Kirìllov e il mondo delle rappresentazioni dello Zarathustra di Nietzsche.

Esso è così profondo e completo fin nelle più segrete intenzioni dei due scrittori che il personaggio dostojevskiano viene a costituire come un vero e proprio commento e una esemplificazione figurata della filosofìa o meglio del messaggio di salvezza di Zarathustra. L'idea fondamentale, non che "Dio" non esista ma che debba esser soppresso affinchè l'uomo possa vivere, è comune a entrambi. In entrambi troviamo l'autoliberazione dall'angoscia e dal risentimento nell'affermazione del finito e della pura immanenza, la lotta contro una volontà segreta di tormento, la consapevolezza della potenzialità dell'uomo e della possibilità, in-sita nella sua natura, di trasformarsi in un nuovo essere, la definizione di questo essere come qualche cosa di tisicamente superiore trasformato ontica-mente, per cui l'uomo verrebbe ad assumere gli attributi di Dio; finalmente, il pensiero che questo passo debba condurre, attraverso l'orrore della distruzione, ad una libertà e ad una gioia terribili per l'uomo d'oggi... tutto questo, derivante dalla certezza inferiore che l'ora del finito sia venuta, non solo in un senso immenso, religioso, ma anche in

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un senso assolutamente reale e immanente al mondo. In tutti e due i casi, poi, non si tratta di accostamenti causali o di sentimenti incontrollati ma di una situazione esistenziale nettamente definibile che si traduce in un atteggiamento senza equivoci e può esprimersi in una costruzione concettuale ben determinata.

Per tutto il secolo decimonono si svolge l'attività creativa di tré uomini che esteriormente sono rimasti estranei l'uno all'altro — solo uno di essi ha conosciuto, ma parzialmente, l'opera di uno degli altri due — ma rivelano un'affinità profonda nella struttura del pensiero e nella sensibilità. Sono i tré grandi "romantici" Soren Aabye Kierkegaard, Fjòdor Michailovic Dostojevskij e Friedrich Wilhelm Nietzsche. Nell'opera di questi tré scrittori l'uomo moderno — ossia l'uomo quale ci appare a partire dal quindicesimo secolo — trae le ultime conseguenze dalla sua posizione. L'epoca moderna è messa in liquidazione e nello stesso tempo sono anticipati aspetti del tempo nuovo che ancora non ha nome.

A conclusione del passato e ad introdurre l'epoca nuova sta l'affermazione del finito come valore assoluto.

Per il medioevo — come già prima per l'antichità — il mondo era finito, ma lo era secondo una figura e questa figura era perfetta: la sfera. Il mondo era creato da Dio e Dio lo avvolgeva e penetrava di sé. Tutto nel mondo era finito ma recava l'impronta dell'assoluto poiché era simbolo di Dio, rappresentazione concreta, nel tempo, di una realtà e di un significato eterni. Partecipava così dell'eterno e già per questo era più che mera

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finitezza. Tutto in questo mondo era ordinato "assolutamente", ossia simbolicamente, secondo la forma della sfera col suo centro e il suo raggio e tutto era disposto in gerarchle, quelle delle sfere, della piramide, ecc. Ma l'uomo era somma, centro, colmine del creato, sacerdote della creazione di fronte a Dio".

A partire dall'età moderna, il mondo comincia ad estendersi, diventa illimitato e l'esperienza im-- mediata, ingenua, è impotente a comprenderlo. Vien meno così il senso della presenza vigilante di Dio intorno a ogni cosa, la certezza di essere in Lui come in un gran mare di bontà e di potenza. Centro e raggio della sfera vanno perduti e così pure l'ordine e il luogo gerarchico. Le cose perdono a loro volta il loro carattere simbolico, il loro accento d'eternità.

Se il mondo, dunque, diventa illimitato, le cose invece diventano puramente finite; questi due fatti sono in relazione e portano alle stesse conseguenze.

La consapevolezza che il mondo sia senza limiti crea le prime condizioni psicologiche per il suo distacco da Dio. Alla prima impressione Dio appare depotenziato. Per l'esperienza immediata, egli viene a perdere di fronte al mondo valore di realtà, imponenza e forza di significazione. In compenso questo mondo, apparentemente finito, apparentemente assoluto, comincia a sentirsi autosumciente. Ma poiché al sentimento, educato nel rapporto col divino, l'autosufficienza non sembra da principio possibile che per l'"Assoluto", ecco inserirsi un ele-

13 Nella sua forma più pura, perché vista da uno spirito •che sta già sul limitare di due epoche, questa immagine dell'ordine del creato appare in Dante.

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mento intermedio: la "falsa infinità" della continuità, indefinita, unita alla "falsa assolutezza" del matematicamente necessario nella scienza e nella logica. Qui la coscienza nascente dell'autonomia dell'esistenza terrena trova insieme un sostegno e un rivestimento protettivo.

Contemporaneamente si sviluppa però una sensazione particolare, staremmo per dire qualificata, del finito: la sensazione d'essere meramente finito. In conseguenza del depotenziamento di Dio l'uomo sente che il senso del suo esistere non gli viene più direttamente da Lui. Abbandonato all'indefinito insieme a tutte le cose, egli avverte con un senso di terrore — e nei frammenti di Pascal possiamo ripetere quest'esperienza — il suo essere finito minacciato da ogni parte; l'avverte con terrore ma, insieme, come uno stimolo a difendersi e si irrigidisce e prende saldamente posizione nella sua realtà finita.

Incomincia con l'arrogarsi gli attributi di Dio, ponendo anzitutto se stesso come "assoluto". Come si pone infatti il soggetto nella filosofia moderna? Non altrimenti, in fondo, che identificando l'assolutezza relativa della validità ideale insita in ogni essere e in ogni atto dello spirito con l'indipendenza nell'essere e l'altezza suprema del, valore di Dio, pensando cioè il soggetto finito secondo la misura dell'essere divino. Viene così a costituirsi l'autonomia categoriale a cui tosto s'aggiunge quella del contenuto: uno dopo l'altro i piani dell'esistenza umana si costituiscono in valore autonomo. Il concetto moderno di cultura ne attua la sintesi e assieme l'eredità del regno di Dio, incarnandosi magari anche nello Stato.

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Nello stesso tempo si afferma la coscienza della pura finitezza. Dapprima essa viene conosciuta come stato di abbandono, di contingenza, di precarietà. Ma poi l'uomo scopre proprio nel fatto ch'egli è un essere finito una nuova intensità e preziosità dell'esistenza e una nuova base etica: la moderna "responsabilità". Così il finito si affida a se stesso, diventa autonomo. Esso è cresciuto sotto la protezione di quell'" assolutezza" logica, etica, culturale. II passo decisivo si compie appena essa diventi superflua, appena il finito non abbia più bisogno di legittimarsi mediante quella pseudo-assolutezza, e osi sentire e affermare praticamente questa nuova verità: il finito come tale basta; l'assoluto non esiste. Ora non si tratta più soltanto di trasferire il Dio vivente nel puro assoluto, facendone un'astrazione, e di affermare di fronte a questa il valore del finito, e nemmeno di porre il carattere assoluto del finito. Questi non erano che gradi preliminari. Una cosa ora è dichiarata e anzitutto sentita: solo il finito è. Ciò che un tempo era chiamato "assoluto" non è in realtà che un attributo del finito. Ciò che un tempo era chiamato "Dio" è una dignità, un atteggiamento, una particolare condizione di vita che si propongono come fine allo stesso finito.

Il passo decisivo compiuto in questo senso consiste in ultima analisi nella scelta di una finitezza radicale ed esclusiva, scelta che noi potremmo definire come "finitismo titanico". A misura che questo passo si compie, il finito stesso diventa "divino" o, più esattamente, "profanamente sacro". Siamo qui su un piano che trascende il significato della contrapposizione moderna "Dio e mondo".

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Ci troviamo così sul limitare di un'epoca nuova e il presentimento di questo evento nell'opera di quei tré uomini, ne costituisce il lato profondamente inquietante.

Il "paradosso assoluto" di Kierkegaard e la dot-' trina dell'uomo e dell'esistenza di Nietzsche hanno origine dalla stessa esperienza esistenziale. Kierkegaard riesce a superarla cristianamente, sebbene ci dia talvolta l'impressione di servirsi di Belzebù per scacciare Satana. Infatti, a parte la sua intenzione cristiana, in che cosa si distingue ancora sostanzialmente il suo concetto del "Dio del tutto differente" dal "nulla" di Nietzsche e di Kirìllov? Un pensiero orientato diversamente non potrebbe, raccogliendo l'eredità di Kierkegaard, trame una filosofia della finitezza disperata?

La medesima situazione di fondo si ripete sostanzialmente per Nietzsche, con la differenza che questi afferma dove Kierkegaard nega, e viceversa. Questa ambivalenza rivela l'unità dialettica della posizione.

E ancora una volta la stessa situazione esistenziale appare in diversi personaggi di Dostojevskij, soprattutto nei Demoni. Kirìllov ne è la manifestazione più potente. Nella sua iperpensibilità ed esaltazione patologica si rivela ciò che questa situazione ha di terribile. Oltre a una profonda esperienza di Dio, vissuta su un piano di naturalità immediata come entro un cerchio magico e dunque senza riscatto cristiano, c'è qui un'esperienza dell'esistenza già pervenuta al punto in cui il finito sembra prossimo ad emanciparsi totalmente. Perciò quella immediatezza religiosa si traduce in tormento. Occorrerebbe trasformarla in senso cristiano, conver-

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tire l'immediatezza naturalistica nella concezione cristiana di un Dio personale, l'indipendenza del finito, prossima ad affermarsi, nella schietta maturità responsabile cristiana, il falso rapporto tra finito ed eterno in quello genuino indicato nel mistero cristiano dell'incarnazione e della grazia. Invece qui tutto ciò che è cristiano è respinto, il finito entra in rivolta, il rapporto religioso naturale è avvelenato e si allea, per liberarsi, all'esaltazione del finito: "Dio" deve scomparire e il finito esser dichiarato unica realtà, nella speranza che l'angoscia esistenziale si plachi e si risvegli l'umanità vera, degna di questo nome. In verità ciò che si annuncia è il finito nudo e spoglio, senza valore simbolico, senza luogo nello spazio, non più avvolto nella sollecitudine vigilante di Dio; intorno ad esso si distende invece il nulla che "nientifica".

La teoria e la pratica medico-pedagogica della psicoanalisi freudiana e soprattutto il bolscevismo come potenza storico-politica, dimostrano che qui non si tratta più soltanto di filosofìa pura. Ma noi ci domandiamo quali abissi di angoscia si spalancheranno se l'uomo non riuscirà a proteggersi in una insensibilità ancor più terribile dal punto di vista cristiano. In questo caso l'uomo diverrebbe a tal punto padrone dei meccanismi dell'esistenza da potersi liberare dall'angoscia come mediante un'" operazione chirurgica". Questo potrebbe avvenire per via pedagogica e medica, mediante "condizionamento" dell'individuo e della specie, per via biologica, politica e culturale, con misure psicologiche o interventi chirurgici. Avremmo così l'uomo pienamente emancipato, finalmente tranquillo nella sua finitezza pura. Ma dal punto di vista cri-

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stiano nessun tormento della creatura angosciata potrebbe eguagliare l'orrore di questo stato.

Questo evento non si può identificare semplicemente con la colpa e l'apostasia. La colpa e la apostasia stanno nel fraintendimento volontario e nell'abuso di una trasformazione storica della situazione esistenziale dell'uomo, di per sé ancora "indifferente" e anteriore alla decisione morale. Colpa è, solo quando si da un giudizio cieco ed errato su questa nuova situazione e quando l'egoismo, lo orgoglio, la sete di dominio e la viltà si servono di questi rivolgimenti storici, di questi spostamenti di valori e di esigenze per giustificarsi.

La possibilità che quanto abbiamo descritto si verifichi mette la coscienza cristiana davanti a responsabilità e doveri gravissimi: responsabilità di discernimento e di giudizio, dovere d'intervenire per un'opera di salvezza e di ricostruzione. Vi abbiamo già accennato e non è questo il luogo di insistervi.

Stavròghin

È stato osservato che i grandi romanzi di Dosto-jevskij sono diversamente costruiti. Due di essi:

Delitto e Castigo che descrive il periodo decisivo nello sviluppo di un giovane e I Fratelli Karamàzov frammento della storia di una famiglia, sono costruiti, potremmo dire, linearmente. Difficile sarebbe in questo caso parlare di genere epico data l'interiorità e il carattere riflesso della vicenda;

manca troppo inoltre uno sviluppo progressivo

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degli avvenimenti e soprattutto uno sfondo storico mosso e rilevato. Abbiamo tuttavia sempre una vicenda con un inizio e un seguito sicché è possibile rappresentarsi la forma di questi romanzi sotto l'immagine della linea, sebbene alquanto si-nuosa e attraversata in più punti da fasci di linee minori.

Altro è per Vidiota, i Demoni e V Adolescente. Per la forma deQ.'Idiota si è usata l'immagine del vortice in cui tutto s'infrange. I Demoni ci danno l'impressione di una intera provincia dell'esistenza umana assalita da un processo di distruzione. Nello Adolescente infine, un nodo aggrovigliato poco alla volta si spiana; da tenebre piene di fermenti si passa successivamente a una luce chiarifica-trice. Qui si potrebbe parlare di processi che si svolgono su una superficie o meglio in uno spazio.

A questi diversi modi di composizione corrispondono delle differenze nella struttura intima dei personaggi principali. Anche questo è già stato osservato. Alcuni agiscono personalmente, urtano contro un avversario e lottano con lui; altri, invece, formano il centro d'attrazione intorno a cui gravita l'azione di personaggi minori. Sono figure di questo secondo tipo che determinano in alcuni romanzi la struttura che abbiamo definita ricorrendo all'immagine di un tessuto, o di una superficie o di uno spazio: il principe Myskin ìie[V Idiota, Stavròghin nei Demoni, Vèrsilov nelF'Adolescente.

Questi uomini in senso stretto non agiscono di propria iniziativa, determinano piuttosto l'agire altrui. Essi non vanno a cercare nessuno, ma esercitano su tutti una profonda attrazione. Sembrano non chiedere nulla per sé e tuttavia portano negli

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altri un grave turbamento e il destino di questi ultimi si compie sempre in rapporto a loro. Gli uomini si notano, s'interessano di loro, cercano la loro amicizia, vorrebbero conquistarli, ne sono toccati, scossi, annientati — senza che essi, in fondo, l'abbiano voluto.

All'interno di questa somiglanza tipica sussistono però profonde differenze nel modo come si esercita questa influenza, da parte, esempio, di Stavrò-ghin o del principe Myskin. Di quest'ultimo parleremo nel capitolo seguente; in lui si manifesta una realtà superiore e il rapporto che lo lega agli altri uomini è direttamente determinato dal fatto religioso. Anche in Stavròghin opera una forza religiosa, ma di natura affatto diversa. Alla fine del-Vìdiota il vortice ha inghiottito tutto e le rive sono cosparse di rottami. Ma un fatto si è compiuto di immenso significato, una chiarificazione è avvenuta e nell'aria c'è un'indefinibile ma sicura speranza. Invece alla fine dei Demoni non rimane che un mondo devastato pieno di brutture, uno squallore desolato. La ragione di tutto questo è nella figura di Stavròghin.

Il caso neIT'Adolescente è ancora diverso. Vèrsi-lov è un personaggio ambiguo, mezzo scettico mezzo credente, liberale e aristocratico a un tempo. È un carattere instabile, una natura profondamente contraddittoria, come se in lui agissero due persone distinte, che creino due diversi destini. Prevale tuttavia una forza benefica e ristabilisce l'unità minacciata. La sorte, inoltre, gli è favorevole circondandolo di persone che gli vengono in aiuto:

suo figlio, l'Adolescente, e soprattutto la sua compagna. La forza calma e raccolta di Sònja riesce a

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guarire un'anima in pericolo di disgregarsi. Ella crea proprio l'atmosfera nella quale Vèrsilov ritrova la salute. Ma ciò è possibile perché in lui stesso è la predisposizione favorevole; la conclusione delle sue vicende non è che l'estrinsecazione delle energie operanti nel suo intimo.

Chi è dunque l'uomo intorno a cui si agita il mondo dei Demoni? Che cosa c'è in lui perché questo mondo possa essere come sappiamo e finire come finisce?

Sembra infatti che il destino dei personaggi del romanzo sia fatalmente legato al loro incontro con Stavròghin.

Sua madre, Varvàra Petròvna Stavròghina, è una donna inquieta, ambiziosa, legata a Stjepàn Vjer-chovènskij da un'amicizia singolare, che non vive per il suo "principe". Non lo capisce, lo teme;

ma lo idolatra e, alla fine, rimane atrocemente delusa.

La sua figlia adottiva, Darja Paviova Sàtova, sorella di Sàtov, spiritualmente affine alle due Sònje, ama Stavròghin. Gli ha dato tutto e spera di salvarlo col suo sacrificio. Ma è più debole di Sònja, madre dell'Adolescente, non è che una dolce infermiera che si sacrifica senza essere troppo sicura di stessa. Stavròghin invece è di ben altra potenza nel male che non sia Vèrsilov. Perciò ella fallisce e a un certo punto scompare.

Lizavèta Nikolàjevna Tuscina è una di quelle figure di donne appassionate, orgogliose ma interior-mente dolorosamente scisse, sorella spirituale della Katjerìna Nikolàjevna dell''Adolescente e della Katje-rìna Ivànovna dei Karamàzov.

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Anch'elio, che pure si sente al sicuro vicino al fedele ed onesto Mavrikij Nikolàjevic Dròsdov, ama perdutamente Stavròghin. Nella sua disperazione finisce col darsi a lui e si accorge così della sua insormontabile freddezza. Tutto crolla allora intorno a lei e il fabbro che durante l'incendio provocato per far scomparire il cadavere di Màrja Lebjàdkina, moglie segreta di Stavròghin, l'abbatte senza sapere quello che fa, non è in fondo che lo strumento di un destino misericordioso.

Quanto a Màrja Lebjàdkina, la povera demente, nel cui corpo deforme palpita l'anima di una principessa romantica e quella di un fanciullo spaurito e di una visionaria, che nella sua fantasia ha fatto di Stavròghin un eroe luminoso, alla fine deve pure accorgersi ch'egli è una falsa grandezza. Di lei che sin da principio è vittima di un inganno diremo ancora perché Stavròghin l'abbia sposata.

L'ultima donna di cui Stavròghin ha distrutto la vita è la sposa di Sàtov, Maria Ignàtjevna Sàtova. Stavròghin l'ha sedotta e poi subito abbandonata. Ora ella ritorna aspettando un bimbo. In pagine commosse, di una patetica bellezza, è narrato com'el-la dia alla luce la sua creatura, come Sàtov, il sognatore esaltato, ritrovi assistendola, poche ore prima di essere ucciso dai sicari della banda, la via della vera realtà che è pienezza d'amore.

Vengono poi gli uomini: di Kirìllov si è già detto. Stavròghin ha esercitato 'su di lui un'influenza decisiva ed egli lo ama. "Non dimenticate cosa siete stato per me!" gli dice una volta. Ma il seme deposto da Stavròghin da frutti terribili.

Altrettanto evidente è la devastazione prodotta nello spirito di Sàtov, lo stesso a cui Stavròghin

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ha sedotto la sorella e preso la moglie. Stavròghin che personalmente non crede in niente — ne in Dio e nemmeno "nel popolo russo" — ha alimentato in lui, per il puro gusto dell'esperimento, l'esaltazione dell'idea di popolo, dove "popolo" e "dio" vengono fusi in una sola unità pagana e demoniaca. Ma, appena Sàtov lo invita alla resa dei conti, egli declina ogni responsabilità e abbandona il disgraziato a se stesso.

Viene poi il personaggio più "diabolico", Pjotr Vjerchovènskij, figlio di Stjepàn, sradicato senza scrupoli e di un tale cinismo nella sua bassezza che è difficile trovare nell'opera di Dostojevskij chi gli assomigli. Pure anche quest'uomo ha una corda segreta che vibra: è la fede bizzarra nel "regno" fantastico di un re-messia — da attuarsi con i mezzi più scellerati — il cui zarevic ancora sconosciuto dovrà essere Stavròghin...

Intorno a lui i satelliti: il capitano Lebjàdkio che egli disonora e di cui provoca la morte; Fèdka, il forzato, che è spinto da lui a uccidere; Lipùtin, Ljàmsin e tutti gli altri....

A questi uomini sovrasta Stavròghin con la sua potenza misteriosa. Chi è dunque costui?

Cominciamo dallo strano esempio del V capitolo (voi. I) intitolato: II serpente onnisciente. Nikolàj Vsjevolòdovic Stavròghin torna dopo una lunga assenza alla casa paterna. Qui si è raccolta ad attenderlo intorno a sua madre una strana compagnia:

c'è Lizavèta, in preda a una profonda emozione, poi, di ritorno dalla Svizzera dov'è stata con Stavròghin, Darja, dietro a cui sta — sempre tenuta in ombra — la vicenda di quelle giornate miste-

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riose; la terza donna, infine, è Màrja Lebjàdkina che dopo la messa si è presentata alla madre di Stavròghin e le ha fatto capire, con discorsi in apparenza sconnessi ma in realtà perfettamente giunti a segno, di essere la moglie di Stavròghin. L'atmosfera è satura di eccitazione tanto aggrovigliata, com'è possibile soltanto nei romanzi di Dostojevskij — bisognerà pur decidersi a tradurre tutto quanto in termini europei — ed a questo punto entra Stavròghin.

Come già quattro anni addietro, quando lo avevo veduto per la prima volta, io rimasi allora colpito fai dal primo sguardo che gli diedi. Io non l'avevo dimenticato per nulla; ma pare che ci siano delle fisionomie che sempre, ogni qualvolta vi compaiono dinanzi, portano con sé qualcosa di nuovo, che non avevate ancora notato in loro, benché le aveste già incontrate cento volte. All'apparenza, egli era sempre quello di quattr'anni prima: altrettanto elegante, altrettanto grave, era entrato con la stessa gravita di allora, era perfino quasi altrettanto giovane. Il suo leggero sorriso era convenzionalmente carezzevole come allora e come allora soddisfatto, il suo sguardo altrettanto severo, pensoso e come distratto. Insomma pareva' che ci fossimo lasciati solo il giorno avanti. Ma una cosa m'impressiono:

una volta il suo viso, benché egli fosse considerato come una bellezza, era in realtà « simile a una maschera », come si esprimevano alcune male lingue femminili della nostra società. Adesso invece, adesso, non so perché, egli mi apparve fin dal primo sguardo come una bellezza assoluta e incontestabile, tanto che in nessun modo si poteva dire che il suo viso rassomigliasse a una maschera. Forse perché si era fatto un tantino più pallido di prima ed era, pare, dimagrito un poco? O forse qualche nuovo pensiero brillava adesso nel suo sguardo? (I Demoni, voi. I, pp. 259-60).

Queste parole alludono a una descrizione anteriore, di cui riportiamo alcuni passi per meglio chiarirle:

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Egli sapeva pronunziarsi anche su argomenti interessantissimi del giorno, e, cosa più di ogni altra apprezzabile, con una notevole assennatezza. Ricorderò come una stranezza che tutti da noi, quasi fin dal primo giorno, lo trovarono un uomo oltremodo assennato. Egli era poco ciarliere, elegante senza ricercatezza, mirabilmente modesto e nello stesso tempo audace e sicuro di sé, come nessuno da noi... M'impressionò pure il suo viso: i suoi capelli erano anche troppo neri, i suoi occhi sereni anche troppo tranquilli e limpidi, il colorito del viso anche troppo delicato e bianco, l'incarnato anche troppo vivo e puro, i denti come perle, le labbra come coralli, — si sarebbe detta una bellezza dipinta, ma nello stesso tempo egli aveva anche qualcosa di ripulsivo. Si diceva che il suo viso ricordasse una maschera; del resto si dicevano molte cose, fra l'altro anche intorno alla sua straordinaria forza fisica. (I Demoni, voi. I, pp. 62-63).

Nikolàj fa per avvicinarsi alla madre, ma questa con l'atteggiamento teatrale che le è proprio — ella è la caricatura di una madama de Staèl o di una principessa Gallitzin — lo costringe a fermarsi.

— Nikolàj Vsjevolòdovic, — ripete, martellando le parole con una voce ferma in cui sonò una sfida minacciosa, — vi prego, dite subito, senza muovervi dal vostro posto, se è vero che questa disgraziata zoppa, — ecco, ecco là, guardatela! — se è vero che è... la vostra moglie legittima!

L'interrogato non batte ciglio; guarda fissamente la madre, infine sorride "con una specie di sorriso indulgente", s'avvicina alla madre senza rispondere e le bacia rispettosamente la mano. Poi fissa con la stessa calma tuttti i presenti, si avanza lentamente verso Màrja Lebjàdkina che,

tutta irrigidita dallo sgomento, si levò per muovergli incontro e giunse le mani davanti a sé, come supplicando; ma nello stesso tempo mi toma alla memoria anche l'estasi

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che aveva quasi sfigurato i suoi lineamenti, — un'estasi quale difficilmente degli esseri umani possono sopportare.

Nikolàj Stavròghin le sta dinanzi in un atteggiamento deferente e la sua voce "carezzevole e melodiosa" dice con "straordinaria tenerezza":

— Voi non potete star qui.

La poveretta, ansando, con un impetuoso sussumo, mormora:

— E posso... adesso inginocchiarmi davanti a voi?

— No, non lo potete assolutamente, — egli disse con un magnifico sorriso, tanto che anche lei sorrise subito gaiamente. Con la stessa voce melodiosa ed esortandola con tenerezza, come fosse un bambino, egli aggiunse grave:

— Pensate che voi siete una fanciulla e che, sebbene io sia per voi l'amico più devoto, sono pur sempre per voi un estraneo; io non vi sono ne marito, ne padre, ne fidanzato. Datemi dunque il vostro braccio e andiamo; io vi accompagnerò fino alla carrozza e, se lo permettete, vi condurrò io stesso a casa vostra.

Ella ascoltò e chinò il capo come soprapensiero.

— Andiamo, — disse sospirando e dandogli il braccio.

Egli la conduce fuori e qui appare tutta la miseria fisica di lei. Ella inciampa e per poco non cade.

Arrossì, si confuse in modo strordinario. Guardando m silenzio a terra, zoppicando fortemente ella si aggrappava a lui, quasi sospesa al suo braccio. Ma egli la prese forte sotto il braccio e premurosamente, con cautela la condusse verso la porta. (I Demoni, voi. I, pp. 261-63).

Il terribile effetto simbolico di quest'episodio è sottolineato dal lungo racconto esplicativo di Pjotr Stjepànovic Vj'erchovènskij. Non sarà inopportuno presentare qui questo personaggio. Ha ventisette

anni.

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La sua testa era allungata verso la nuca e come appiattita ai lati, per cui il suo viso pareva aguzzo. La fronte era alta e stretta, ma i lineamenti minuti, l'occhio acuto, il nasino piccolo e aguzzo, le labbra lunghe e sottili. L'espressione del viso sembrava malaticcia, ma era solo apparenza... La sua pronunzia era mirabilmente chiara; le sue parole cadevano come grossi chicchi uguali, sempre ben scelte e sempre pronte a servirvi. Dapprincipio questo vi piaceva, ma poi vi stuccava, precisamente per quella pronunzia anche troppo chiara, per quel tempestìo di parole sempre pronte. Cominciavate in certo modo a immaginarvi ch'egli dovesse avere in bocca una lingua di forma particolare, eccezionalmente lunga e sottile, rossa oltre ogni dire e con una punta acutissima, suo malgrado sempre in movimento.1 (I Demoni, voi. I, pp. 256-57),

Questo figlio del precettore di Stavròghin riduce tutta la faccenda all'importanza di un "aneddoto". Il giovane principe ha dunque incontrato a Pietro-burgo dove "conduceva allora una vita, per dir così, di derisione — non posso definirla con altra parola", i due Lebjàdkin; al fratello, rovinato dai debiti, ha dato del denaro e si è entusiasmato della sorella al punto che

ella era infine arrivata a considerarlo come una specie di .fidanzato, che non osava « rapirla » unicamente perché aveva molti nemici... Finì che quando Nikolàj Vsjevolodovic dovette allora venir qui, dispose, partendo, per il suo mantenimento e per una pensione annua, mi pare abbastanza notevole, di tremila rubli almeno, se non di più. Insemina supponiamo che tutto ciò fosse da parte sua un capriccio, la fantasia di un uomo precocemente stanco, — e fosse pure, infine, come diceva Kirìllov, la nuova esperienza di

14 Confronta a questo proposito l'animale del sogno di Ippolito aéH'Idiola. Il significato degli animali e dei fantasmi ferini nel mondo di Dostojevskij del resto rappresenta un capitolo a sé. Essi interpretano e rivelano gli uomini ai quali vengono riferiti.

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un uomo troppo sazio allo scopo di sapere fino a che punto si possa ridurre una sciancata pazza. (I Demoni, voi. I, pp. 268-69).

Stavròghin ritorna. Liza è al colmo dell'agitazione; Darja non riesce a star ferma al suo posto. Ed ecco accade qualcosa.

Sàtov, che tutti avevano interamente dimenticato nel suo angolo e che, in apparenza, non sapeva neppur lui perché se ne stesse lì invece di andarsene, si levò a un tratto dalla sedia e si diresse, attraversando tutta la stanza, con passo frettoloso, ma fermo, verso Nikolàj Vsjevolòdovic, mentre lo guardava diritto in viso. Questi già da lontano notò il suo avvicinarsi e sogghignò leggermente; ma quando l'altro gli fu vicino, cessò di sogghignare.

Allorché Sàtov si fermò in silenzio dinanzi a lui senza staccare gli occhi, tutti a un tratto se ne avvidero e fecero silenzio, dopo di tutti Pjotr Stjepànovic; Liza e la mamma si fermarono in mezzo alla stanza. Passarono così circa cinque secondi; l'espressione di arrogante stupore si mutò sul viso di Nikolàj Vsjevolòdovic in collera, egli aggrottò a un tratto le sopracciglia...

E a un tratto Sàtov alzò il suo braccio lungo e pesante e a tutta forza lo colpì sulla guancia. Nikolàj Vsjevolòdovic barcollò fortemente.

Sàtov lo aveva colpito in modo speciale, non già come usa generalmente prendere a schiaffi, non con la palma, ma con tutto il pugno, e il suo pugno era grosso, pesante, ossuto, coperto di peli rossicci e di lentiggini. Se il colpo avesse raggiunto il naso, l'avrebbe schiacciato. Ma raggiunse la guancia, investendo l'angolo sinistro del labbro e dei denti di sopra, dai quali spiccò subito sangue.

Echeggiò, mi pare, un grido istantaneo, forse fu Vai-vara Petròvna a gridare, — di questo non ricordo, perché tutto parvero subito irrigidirsi di nuovo. Del resto, tutta la scena non durò più di una diecina di secondi.

Nondimeno in quei dieci secondi accaddero moltissime cose.

Nikolàj Vsjevolòdovic era di quelle nature che non conoscono la paura. In duello egli poteva affrontare con san-

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yue freddo il fuoco dell'avversario, mirare a sua volta e uccidere con una calma feroce. Se qualcuno l'avesse percosso su una guancia, mi pare che egli non avrebbe nemmeno sfidato a duello, ma immediatamente ucciso sul posto l'offensore...

E nondimeno avenne quella volta qualcosa di diverso e di prodigioso.

Egli si era appena raddrizzato dopo aver barcollato così ignominiosamente su un fianco, piegandosi quasi in due,

•sotto lo schiaffo ricevuto, e pareva che nella stanza non si fosse ancora spento il rumore ignobile e per così dire umidiccio del pugno sul volto, che egli tosto afferrò Sàtov con le due mani per le spalle; ma subito dopo, quasi nel medesimo istante, ritrasse le due mani e le incrociò dietro il dorso. Egli taceva, guardava Sàtov e impallidiva come un cencio. Ma, fatto strano, il suo sguardo pareva spegnersi. Dopo dieci secondi, lo sguardo dei suoi occhi era freddo e — sono sicuro di non sbagliarmi — tranquillo. Egli era solo terribilmente pallido. Ignoro, s'intende, che accadesse dentro a quell'uomo, io non ne vedevo che l'esterno...

Sàtov fu il primo di loro ad abbassare gli occhi, evidentemente perché fu costretto ad abbassarli. Poi si voltò lentamente e uscì dalla stanza, ma con andatura ben diversa

•da. quella con cui si era avanzato. Egli se n'andava senza rumore, inarcando le spalle con una certa qual particolare goffaggine, a capo chino e come se meditasse fra sé. Mi parve che mormorasse qualcosa. Arrivò fino alla porta con precauzione, senza urtar nulla e senza rovesciar nulla, poi aprì la porta non lasciando che un piccolo passaggio, tanto-che sgusciò per l'apertura quasi di fianco. Mentre sgusciava fuori, il ciuffo di capelli che gli si ergeva .sulla nuca si faceva particolarmente notare. (I Demoni, voi. I. pp. 290-95).

Questo l'episodio.

Per quanto riguarda la verità dei fatti, la povera Màrja Lebjàdkina è effettivamente la moglie di Sta-vròghin. È anche vero però che ella è rimasta vergine. Vero che il matrimonio è avvenuto per una '"sodomia" esteriore e intcriore. Sàtov però sa di questo matrimonio, e, mentre la donna s'illude an-

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cora, sa che cosa esso significhi. In questo episodio esplode la sua indigna2Ìone esasperata. Il duro colpo che egli vibra a Stavròghin dovrebbe, come la azione sconvolgente di una bomba, mettere a nudo questa vergogna o annientare il colpevole. Invece viene ricevuto da qualcosa di ancora più forte e, Sàtov deve chinare la testa, vinto.

Seguiamo da questo punto il filo della nostra indagine .

Nikolàj è cresciuto senza padre.

Il ragazzo sapeva che sua madre lo amava molto, ma è dubbio ch'egli l'amasse altrettanto. Ella parlava poco con lui, di rado lo limitava in qualcosa, ma egli avvertiva su di con un senso di disagio lo sguardo di lei, che lo seguiva fissamente. (I Demoni, voi. I, p. 58).

La sua educazione ed istruzione sono affidati alla troppo debole guida di Stjepàn Vjerchovènskij che in questo tempo gode ancora la piena fiducia di Varvàra Petròvna. È un'educazione sentimentale, soprattutto insincera come la persona che la impartisce.

Il ragazzo è da principio "infermiccio e pallido, stranamente quieto e pensieroso"; in seguito si distingue "per una forza fisica straordinaria". A sedici anni va al liceo, poi entra in un reggimento della guardia a cavallo.

La madre lo fornisce abbondantemente di denaro. Egli ha un gran successo in società.

Ma assai presto cominciarono a giungere a Varvàra Petròvna delle voci abbastanza strane: pareva che il giovane si fosse messo tutt'a un tratto a far pazzamente baldoria. Non che giocasse o bevesse molto; si parlava soltanto di una sua selvaggia sfrenatezza, di persone schiacciate dai suoi cavalli, di

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un contegno bestiale tenuto con una dama della buona società, con la quale era stato in relazione, ma che poi aveva offesa pubblicamente. C'era anzi in questa faccenda una specie di ostentata bassezza. Aggiungevano inoltre ch'era uno spadaccino, che attaccava briga e offendeva per il piacere di offendere... Si ricevette ben presto la fatale notizia che il principe Harry aveva avuto quasi allo stesso tempo due duelli, in cui tutta la colpa era sua, aveva ucciso d'un colpo uno dei suoi avversari e mutilato l'altro e, in seguito a tali fatti, era stato deferito al tribunale. La faccenda era terminata con la sua retrocessione a soldato, con la perdita dei diritti e l'invio in un reggimento di fanteria di linea, e anche questo per un particolare riguardo.

Questa degradazione non dura a lungo; egli si distingue ed è promosso "ben presto" ufficiale. Ma poi da improvvisamente le dimissioni e non fa più saper niente di sé. Va a Pietroburgo.

Si arrivò a scoprire ch'egli viveva fra certa strana gente, avendo stretti rapporti con la feccia della popolazione di Pietroburgo, con certi straccioni d'impiegati, militari in ritiro che chiedevano decorosamente la carità, ubriaconi; che visitava le loro sudice famiglie, passava i giorni e le notti in angiporti oscuri e Dio sa in quali chiassoli, che si era lasciato andare, era ruzzolato giù, e che tutto ciò doveva piacergli.

Finalmente, dietro le insistenti preghiere della madre, ritorna.

Egli fa una grande impressione sulla società femminile della città. Questa si divide in due campi.

Nell'uno lo adoravano, nell'altro lo odiavano a morte; ma pazze di lui erano le une e le altre.

La mamma è fiera di suo figlio, ma nello stesso tempo inquieta.

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Egli passò da noi mezz'anno circa, di una vita fiacca, tranquilla, abbastanza cupa; andava in società e osservava inappuntabilmente tutta la nostra etichetta provinciale. Del governatore era parente,, per parte di padre, e nella sua casa fu accolto come un prossimo congiunto. Ma passarono alcuni mesi e la belva mostrò a un tratto i suoi artigli. (I Demoni, voi. I, p. 63).

La stessa frase ricorre un poco più avanti e anche noi vogliamo marcare la sottolineatura riportandola. La mamma è molto fiera del suo figliolo,

tuttavia ella lo temeva in modo evidente e in sua presenza aveva l'aria di una schiava. Si vedeva ch'ella temeva qualcosa di vago, di misterioso, che lei stessa non avrebbe potuto precisare, e molte volte osservava Nicolas di sfuggita e fissamente, riflettendo e scrutando... ed ecco che la belva a un tratto mise fuori gli artigli. (I Demoni, voi. I, p. 64).

Avviene talvolta che per rendere l'espressione di un volto o l'aspetto di un uomo si debba ricorrere a qualcosa di non umano perché nella persona ci sembra di veder agire un meccanismo, la marionetta, o addirittura l'animale, un dato animale. È questo un fenomeno di cui è facile intuire, ma non altrettanto facile spiegare il significato. Nell'uomo, infatti, c'è anche un meccanismo, risultante dalla struttura ossea e dalla funzione delle membra, ma esso è inserito in un tutto vivente e perciò non si fa notare. Appena esso desti invece la nostra attenzione, come nell'impressione di cui s'è detto sopra, si produce come una scissione: ai nostri occhi appare qualche cosa di "inanimato", che tuttavia "vive". L'ambito del meccanismo puro è' esterno all'uomo, tuttavia gli è prossimo e da lui può essere non solo avvertito ma anche sentito come una possibilità, ma naturalmente come possibilità di distruzione.

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Questa si concreta in una minaccia non appena il meccanismo traspare dal comportamento di un uomo. Accade allora un fatto profondamente inquietante: qualcosa che "non ha vita" si pasce di vitalità umana ed acquista una vita apparente. Come se lo "spirito" e la materia si fossero congiunti, senza l'intervento del sangue e del cuore. Non abbiamo in questo caso un "corpo" unito a un'anima, ma un "fisico" semplicemente materiale, dalla cui irreale vitalità può trasparire la grazia o la veemenza, ma che nello stesso momento può anche convenirsi in qualche cosa di orrido, di spettrale, di demoniaco.

Accade un fenomeno analogo quando osservando un uomo ci vien fatto di pensare a un determinato animale. Come il meccanismo, infatti, così anche l'animale è nell'uomo — lo si voglia intendere secondo la teoria dell'evoluzione o secondo la classificazione sistematica. L'animale è vita fatta di istinti e di impulsi che si esplica nell'unità impersonale della specie. L'uomo non può partecipare a questa esistenza ma l'avverte come una sfera limitrofa alla sua e una possibilità il cui concretarsi significa a sua volta minaccia e distruzione dell'esistenza personale. Quando nell'uomo affiora l'animale, egli corre pericolo di soccombere all'istinto, alle forze subpersonali della terra e della specie.

Quando dunque nell'uomo appaiono le caratteristiche del meccanismo o dell'animale ci troviamo di fronte a una minaccia di involuzione, a un pericolo demoniaco. Possiamo ancora annotare in margine, come un sintomo importante, a proposito della madre di Stavròghin, che qualcosa nella forma della sua testa ricorda vagamente quella di un ca-

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vallo... Il significato di questa rassomiglianza d colpisce sgradevolmente perché ci fa pensare lungo quali correnti sotterranee si sviluppi l'esistenza umana.

La belva mette fuori i suoi artigli e s'avventa. — Ma questa belva è un uomo! Chi gli è vicino ha ben ragione di aver paura.

Tutt'a un tratto, di punto in bianco, il nostro principe fece a diverse persone due o tré inconcepibili villanie, la cui caratteristica stava per l'appunto in ciò, che queste villanie erano assolutamente inaudite, senza termine di paragone possibile... e fatte il diavolo sa perché, senza motivo alcuno. Uno degli anziani più rispettabili del nostro circolo, Pjotr Pàviovic Gagànov, uomo maturo e anche benemerito, aveva preso l'innocente abitudine di aggiungere con foga ad ogni parola: « No, me non mi meneranno per il naso! » E sia pure! Ma una volta al circolo, avendo egli, in un momento di eccitazione, pronunziato quest'aforisma davanti a un gruppo di frequentatori del circolo che gli si era adunato intorno (e tutti uomini che non erano gli ultimi venuti) Nikolàj Vsjevolòdovic, che stava solo in disparte e a cui nessuno si rivolgeva, si avvicinò all'improvviso a Pjotr Pàviovic, con due dita lo afferrò inopinatamente e con forza per il naso e riuscì a trascinarselo dietro nella sala per due o tré passi. Animosità verso il signor Gagànov egli non poteva averne nessuna. Si poteva pensare che fosse una semplice monelleria, ben inteso, imperdonabile;

però si raccontò più tardi che, nell'istante dell'operazione, egli era quasi assorto, « come se fosse uscito di senno », ma ci si ricordò di questo e si fece tale riflessione solo molto tempo dopo. Sulle prime tutti non conservarono memoria del secondo momento, quand'egli certamente già vedeva le cose nel loro vero aspetto e non solo non era turbato, ma al contrario sorrideva con malignità e gaiezza, « senza il minimo pentimento ». Si levò un terribile baccano- egli fu attorniato. Nikolàj Vsievolòdovic si girava e. guardava intorno, senza rispondere a nessuno e osservando con curiosità quelli che gettavano delle esclamazioni. Infi-

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ne parve a un tratto farsi di nuovo pensieroso, — così almeno si raccontava, — aggrottò le ciglia, si avvicinò con passo fermo all'offeso Pjotr Pàviovic e mormorò precipitosamente, con visibile stizza:

— Voi, certo, mi scuserete... Davvero non so come mi sia a un tratto venuta la voglia... una sciocchezza...

Questo modo noncurante di chiedere scusa equivaleva a un nuovo affronto. Si alzarono grida ancor maggiori. Nikolàj Vsjevolòlovic si strinse nelle spalle e uscì {I Demoni, voi. I, pp. 64-66).

La società è indignata. La mamma profondamente impressionata. Ella confessò più tardi a Stjepàn Trofìmovic di avere preveduto tutto ciò da molto tempo, e ogni giorno durante quei sei mesi, e anzi di aver preveduto proprio "qualche cosa del genere", confessione notevole da parte di una madre. "Ci siamo!" ella pensò trasalendo.

Domanda al figlio ragione della sua condotta.

Nicolas, sempre così affabile e rispettoso con la madre, l'ascoltò per un certo tempo con gli occhi bassi, ma assai seriamente; a un tratto si alzò, non rispose nemmeno una parola, le baciò la mano e uscì. Ma quello stesso giorno, alla sera, scoppiò, come a farlo apposta, un altro scandalo, sia pure molto meno grave e più comune del primo, ma che nondimeno, grazie agli umori generali, accrebbe di molto le proteste in città. (I Demoni, voi. I, p. 68).

Si tratta della moglie di Lipùtin che egli bacia all'improvviso davanti a tutti.

Ma il peggio avviene quando Sua Eccellenza il Governatore, uomo ben disposto verso la famiglia di Stavròghin, gli fa un rabbuffo a causa di tutte queste storie.

Ivàn Osipovic si mise a parlare alla lontana, quasi sottovoce, ma confondendosi un poco. Nicolas lo guardava

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molto ostilmente, niente affatto con l'affabilità di un congiunto, era pallido, sedeva con gli occhi bassi e ascoltava con le sopracciglia aggrottate, come se reprimesse un forte dolore.

— Voi avete un cuore buono e nobile, Nicolas, — disse fra l'altro il vecchietto, — siete un uomo coltissimo, avete frequentato le più alte sfere, e anche qui vi siete finora comportato in modo esemplare, e avete con ciò tranquillizzato il cuore della mamma vostra che è caro a noi tutti... Ed ecco che tutto torna adesso a presentarsi sotto una luce così enigmatica e sinistra per tutti... Dite, che cosa vi spinge ad azioni così sfrenate, fuori dì. ogni regola e misura? Che cosa possono significare delle uscite di questo genere, che hanno del delirio?

Nicolas ascoltava con dispetto e impazienza. A un tratto parve balenare nel suo sguardo un che di furbo e di beffardo.

— Ve lo dirò magari che cosa mi spinge, — disse torvo e, guardandosi intorno, si chinò all'orecchio di Ivàn Osi-povic... Ed ecco che accadde a un tratto qualcosa di affatto Inaudito, ma, d'altra parte, anche troppo chiaro in un certo senso. Il vecchietto sentì all'improvviso che 'Nicolas, invece di sussurrargli qualche interessante segreto, aveva afferrato coi denti e stretto abbastanza forte il lembo superiore del suo orecchio.

Nicolas, che scherzi son questi? — gemette macchinalmente con voce alterata...

[I presenti] non sapevano se dovessero gettarsi in suo soccorso, com'era stato convenuto, oppure attendere ancora! Nicolas forse se ne avvide e strinse più forte l'orecchio.

Nicolas, Nicolas! — gemette di nuovo la vittima, — via, basta scherzare...

Ancora un secondo e il poveretto sarebbe certo morto di spavento; ma il mostro gli fece grazia e abbandonò l'orecchio. Quella mortale paura era durata un buon minuto, e il vecchio ebbe poi una specie di attacco. Ma di a mezz'ora Nicolas era arrestato e condotto, per il momento, al corpo di guardia e là chiuso in uno stanzino speciale con apposita sentinella alla porta. [I Demoni, voi. I, pp. 72-73).

In prigione è colto da un attacco di pazzia fu-231

riosa e per qualche mese è malato. Una volta guarito è calmissimo e si scusa con tutti.

Lipùtin, in verità, gli fa capire di non averlo mai creduto malato di mente, ma al contrario "l'uomo più intelligente e più sensato del mondo, ma feci finta di credere che non foste sano di mente...". Stavròghin, seccato, lo contraddice: "Possibile che mi credeste veramente capace di gettarmi sulla gente, pur avendo la testa del tutto a posto? Perché mai avrei fatto questo?".

Certamente Stavròghin è malato, ma questa malattia ha un significato e precisamente un perverso significato. Abbiamo qui un uomo che perfettamente impassibile, quasi assente, infligge un affronto a un altro uomo. Come un semplice spettatore sta a vedere quello che succede. È la fredda cattiveria di un esperimento — di uno "studio", dice Kirìllov —; egli vuoi vedere come l'altro si comporta dopo l'affrontp che lo disonora.

Stavròghin si mette in viaggio; visita l'Europa, l'Egitto, la Palestina; prende parte a una spedizione in Islanda; frequenta anche durante un inverno una università tedesca. Alla madre scrive solo raramente.

Poi ritorna e precisamente nel momento in cui si svolge la scena sopra descritta.

Stavròghin è robusto. -Sovente si parla della sua forza fisica. La vediamo nel suo incontro col criminale Fèdka. Grande è pure la forza del suo volere. Si pensi all'incidente con Sàtov e al duello con Ga-gànov. Ma questa forza è concentrata in se stessa, non è quindi effetto di muscoli vigorosi e di una volontà di ferro, ma proviene piuttosto da una sua

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inferiore, calma e misteriosa potenza. Forza della. passione dunque. Ma si può in questo caso parlare di

passione?

Stavròghin è pigro; più volte è detto di lui che agiva "con fiacchezza, con indolenza, e perfino con noia" (J Demoni, voi. I, p. 293). C'è l'indolenza dell'animale da preda che però, quando è il momento, s'avventa ed è capace di sforzi possenti. C'è l'indolenza del soldato, che in tempo di pace fa il perdigiorno, ma in guerra è instancabile, e c'è l'indolenza giovanile del futuro eroe o del genio. L'indolenza di Stavròghin è diversa. Nel grande colloquio con Sàtov, questi lo chiamerà "bei signorino, ozioso e bighellone". Il giovane Vjerchovènskij parla della sua vita oziosa a Pietroburgo, causa, a sentir lui, di molti guai. Gli vien consigliato di. guadagnarsi il pane col lavoro delle sue braccia; nel colloquio con Tichon egli stesso manifesta questo-proposito, e l'arcivescovo vi scorge una speranza di salvezza per lui.

Stavròghin sente dunque che la sua indolenza. ha radici molto profonde. Essa è data precisamente dal fatto ch'egli non sa trovare un senso alcuno-nel fare alcunché. Non esistono per lui occasioni di agire. Questa indolenza è l'oziosità del dandy, la noia del romantico — ma diventate estremamente potenti e pericolose. Non avendo bisogno di lavorare poiché egli è un "gran signore", non essendoci guerre o altre situazioni di necessità, egli. non fa niente.

Questo però ha per la sua forza conseguenze funeste. Essa diventa senza oggetto, senza direziono. Le manca un significato che l'azione le potrebbe dare. Smisuratamente cresciuta, diventa torpida e

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ottusa, si cristallizza, e se di quando in quando esplode è segno di irritazione, di disperazione. Forza senza oggetto, impotente, che avvelena se stessa.

Caratteristiche analoghe presenta la terribile freddezza di quest'uomo.

È una freddezza concentrata, immensa. Ci sono, è vero, passioni fredde come v'è il bruciore del ghiaccio. Ma qui non troviamo mai il calore di un'emozione, un'effusione intcriore, uno slancio del cuore. Quello che spinge Lizavèta a morire è l'es-sersi data quella notte con tutto il suo ardore e non avere trovato che l'inalterabile, impassibile freddezza di Stavròghin, rimasto indifferente fin nelle intime fibre. Tutto sprofondò così per lei nella vergogna e nell'orrore.

Egli si rende conto della sua freddezza con una lucidità terribile e si dispera della sua indifferenza, ma non fa nulla per scuoterla.

Le persone che l'avvicinano credono di trovare in lui delle ricchezze misteriose; interpretano la sua indolenza come l'immobilità del drago che cova a guardia di tesori nascosti, come il profondo silenzio che precede la rivelazione di qualcosa d'immenso.

E qualcosa di simile affiora una volta davvero. Non è aspirazione alla scienza o alla cultura ma qualcosa di più profondo: una nostalgia infinita, un sogno di bellezza15. Lo racconta egli stesso nella "confessione". Egli vede

un cantuccio dell'Arcipelago greco: onde azzurre accarezzanti isole e scogli, una riva tutta in fiore, un magico

15 È lo stesso sogno di Vèrsilov nell''Adolescente. Lo ritroviamo, svolto più ampiamente, nel Sogno di un uomo ridicolo.

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panorama in lontananza, il sole che tramonta ed invita;

una cosa impossibile a descrivere. Qui l'umanità europea si ricorda di aver avuto la sua culla, qui si svolsero le prime scene della mitologia, qui fu il suo paradiso terrestre... Qui vissero degli uomini bellissimi. Essi si alzavano e si addormentavano felici e innocenti, i boschetti erano pieni delle loro liete canzoni, la grande esuberanza delle loro forze intatte si spandeva in amore e in candida gioia. Il sole inondava coi suoi raggi queste isole e questo mare, beandosi alla vista dei suoi bellissimi .figli. Sogno prodigioso, illusione sublime! Il sogno più incredibile tra quanti mai siano stati, ma a cui l'intera umanità ha dato durante tutta la sua esistenza ogni sua forza, per cui ha sacrificato ogni cosa, per cui sono moni sulla croce o furono immolati i suoi profeti, senza di cui i popoli non vorrebbero vivere e non possono nemmeno morire. Tutte queste sensazioni mi parve di riviverle in quel sogno; io non so che cosa precisamente avessi sognato, ma gli scogli e il mare e i raggi obliqui del sole al tramonto, mi pareva ancora di vederli quando mi svegliai e aprii gli occhi, per la prima volta nella mia vita letteralmente bagnati di lacrime. Una sensazione di felicità ancora sconosciuta mi attraversò tutto il cuore sino a farmi soffrire. (I Demoni, voi. Ili, pp. 351-52).

Un desiderio grande di redenzione, luce, bellezza e amore traspare in questo sogno, di qualsiasi natura, d'altronde, ne siano le radici psicologiche. Per la prima volta Stavròghin piange, e che lagrime... Proprio questo sogno però è simbolicamente legato all'immagine del piccolo ragno rosso sulla foglia di geranio e a quella della piccola Matrjòsa — la bambina che, insieme a Màrja Lebjàdkina, testimonia di ciò che vi è di più abbominevole nella vita di Stavròghin.

La prima impressione si va confermando in modo sempre più preciso: nell'intimo di questo uomo c'è il vuoto.

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Egli possiede un'intelligenza acuta, una immensa forza fisica e una volontà immane, ma il suo cuore è deserto.

La vita in lui sembra raggelata. Egli non riesce a provare alcun sentimento di gioia o di dolore, ma solo le loro tristi degenerazioni: il piacere fisico e il tormento del proprio stato visto con una lucidità disperata. Non c'è vera vita in lui, poiché è il cuore che ci fa veramente "vivere", non lo spirito e non la physis. Solo per il cuore ha vita umana lo spirito, vita umana la materia. Solo per il cuore lo spirito diventa "anima" e la materia "corpo". Allora soltanto nasce una vita umana con le sue gioie e i suoi dolori, i suoi compiti e le sue battaglie, miserabile e grande a un tempo. Ma Stavròghin non ha cuore; perciò il suo spirito è freddo e vuoto e il suo corpo s'intossica nella pigrizia e nella sensualità "bestiale".

Perciò egli non può incontrare intimamente nessuno e nessuno incontra veramente lui. Poiché solo il cuore crea l'intimità, la vera vicinanza tra due esseri. Solo il cuore sa accogliere e dare una patria. L'intimità è l'atto, la sfera del cuore. Ma Stavròghin è distante. Egli non sa trovare la via che conduce al prossimo. Può essergli materialmente vicino, ma sempre, quando si tratta in senso puro e semplice di intimità — o di non intimità — è infinitamente lontano.

Infinitamente lontano anche da se stesso, poiché ulteriore a sé l'uomo può esserlo soltanto col cuore, non con lo spirito. Essere ulteriore a sé con lo spirito non è in potere dell'uomo. Ora, se il cuore non vive, l'uomo rimane estraneo a se stesso.

Stavròghin non si possiede, così come non può donarsi e nemmeno ricevere alcun dono, alcuna dedizione d'altri.

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Egli è un centro d'attrazione per tutti, ma nessuno può avvicinarsi a lui. Intorno a lui sono distanze essenziali. Nessuno può accostarsi, entrare, dimorare nella sua intimità. Egli è sempre "al di fuori". È chiuso, ma non ha nulla da custodire. È inaccessibile. Non può far ricco nessuno ne appartenere ad alcuno. Non può ricevere nulla; non vi è posto in lui per i doni di un altro. Egli non può arricchirsi di ciò che solo fa ricchi: dell'amore che è dono di sé. Stavròghin è povero e nudo come un blocco di ghiaccio.

Quest'uomo non conosce neppure la paura. Della intrepidità, come segno di esenzione da ciò che abitualmente paralizza e sgomenta l'uomo abbiamo già parlato a proposito di Aljòsa. Questi non teme nulla perché il suo vero io è come sollevato in una sfera superiore. Stavròghin non può aver paura perché nel suo intimo la vita gli si è raggelata.

Nikolàj Stavròghin era di quelle nature che non conoscono la paura. In duello egli poteva affrontare con sangue freddo il fuoco dell'avversario, mirare a sua volta e uccidere con una calma feroce. Se qualcuno l'avesse percosso su una guancia, mi pare che egli non avrebbe nemmeno sfidato a duello, ma immediatamente ucciso sul posto l'offensore.

E il passo seguente sottolinea questo giudizio:

Mi pare anzi ch'egli non avesse neppur mai conosciuto quegli impeti acceccanti di collera nei quali diventa impossibile ragionare. Malgrado l'ira smisurata che alle volte s'impadroniva di lui, egli poteva tuttavia conservar sempre il pieno dominio di sé e capire, in conseguenza, che per un omicidio non commesso in duello lo avrebbero di sicuro mandato ai lavori forzati. (I Demoni, voi. I, pp. 291-92).

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Stavròghin non è soltanto il personaggio intorno a cui gravita tutto il mondo del romanzo, egli riassume in un certo senso anche le caratteristiche delle figure che lo circondano. Le diverse personalità del romanzo sono esplicazioni di ciò che in Stavròghin si concentra ed è semplicemente contenuto, oppure esse gli sono complementari: a tal figlio corrisponde tale madre; a tale discepolo, tale maestro. Soprattutto sono tré i personaggi più rilevati del romanzo che ci danno la chiave della sua anima: Pjotr Vjerchovèn-skij e il suo mondo, Kirìllov e Sàtov.

Tutte le energie disgregatrici latenti in Stavròghin, lo scetticismo riguardo alla vita della società, l'istinto sovvertitore, la voluttà degli esperimenti sociali, tutto questo viene alla luce in Vjerchovènskij e nei suoi accoliti, ma avvilito da una povertà di idee e da una volgare ribalderia che sembrano estranee a Stavròghin; tuttavia non si può fare a meno di riconoscere negli impulsi distruttori di costoro la rivelazione di ciò che fermenta in lui... Sàtov nel loro ultimo colloquio decisivo gli rammenta che è stato lui, Stavròghin, a mettere nel socialista d'un tempo il seme della idea di un popolo-dio. Effettivamente Stavròghin, colla sua aspirazione all'infinità della natura, alla grande unità e alla trasformazione magica dell'esistenza, col suo desiderio di attingere alle radici della terra e del popolo è anche lui un romantico. Tutto questo è. già in lui, ma appare poi chiaramente in Sàtov, con la differenza che questi prende pienamente sul serio le dottrine del maestro, al quale invece esse sono indifferenti come qual non altra cosa... E ancora vive in Stavròghin la rivolta prometeica e romantica di un Kirìllov, il tormento deU'esperien2a religiosa immedia-

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ta e il rifiuto di dominarla scegliendo la via cristiana.

Tutto questo esiste in lui, ma contemporaneamente. Ogni singola figura del romanzo — sarebbero da ricordare anche Fèdka e Lipùtin e altri ancora — incarna l'uno o l'altro aspetto particolare e diventa così un'individualità dal profilo nettamente disegnato. In Stavròghin, invece, questi aspetti diversi sembrano raccolti in una unità senza volto, che poi genera negli altri personaggi volti diversi. Ma mentre questi entrano per ciò stesso in azione e incarnano ciascuno un destino particolare, Stavròghin rimane immobile in una gelida indifferenza e ottusa inerzia che è la peggior contraffazione di quella schietta semplicità dove la calma è generatrice feconda di movimento e di vita e l'unità racchiude in sé una ricchezza di figure e valori.

Una certa vivacità acquistano i suoi rapporti con gli uomini dove si tratta di quelli che chiameremo gli esperimenti di Stavròghin. Kirìllov gli osserva:

Voi avete scelto appositamente l'ultima delle creature... sapendo per giunta che si struggeva per voi di un mo ridicolo amore, e a bella posta vi siete inesso tutt'a un tratto a mistificarla unicainenle per vedere che cosa ne. sarebbe venuto fuori! (I Demoni, voi. I, p. 269).

Stavròghin non si lascia mai prendere dalla vita. In un senso molto sconfortante, non ne viene mai nemmeno scalfito. Non si impegna, non si lega. Egli può influire sul destino degli altri ma nessuno può influire sul suo. E sebbene ne soffra terribilmente non cerca l'unica soluzione possibile. Le persone che lo avvicinano ne restano soggiogate ed egli è spinto da una forza demoniaca a esercitare in ogni modo la

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•sua influenza, a infondere un'idea, a scatenare un movimento. Non per una curiosità intellettuale, per osservare ad esempio, di che stoffa sono questo o quell'individuo; il motivo non è intellettuale, così come in realtà egli stesso non è affatto assetato di conoscenza. Opera invece in lui un vero istinto: il piacere di afferrare qualcosa di vivo, di dominarlo, di tormentarlo, di distruggerlo. Sa che è un'iniquità ma lo fa ugualmente. Questo istinto però è freddo e perciò da l'impressione di una pura curiosità.

Tale è il suo contegno verso Màrja Lebjàdkina e

•verso la piccola Matrjòsa — in questo caso però c'è "un secondo motivo di cui parleremo subito. Chiarissimo esso è poi di fronte ai tré uomini di cui abbiamo già parlato.

Egli deve aver dato a Vjerchovènskij motivo di credere di essere dei suoi. Tutto ci dice che egli gli Ma suggerito la tecnica dell'azione rivoluzionaria. È lui che ha immaginato i criteri psicologici, tattici e organizzativi per vedere come sarebbe andata a finire...

Più oscura è la vicenda di Kirìllov, ma Sàtov vi

•accenna:

Voi avete fortificato in lui la menzogna e la negazione

•c'avete condotto il suo spirito fino alla frenesia... Andate, guardate adesso, è opera vostra. (I Demoni, voi. II, p. 62).

Il caso di Sàtov, invece, è chiarissimo. La sua esasperazione è appunto dovuta al fatto che fu Stavrò-ghin a suggerirgli l'idea dalla quale il panslavismo romantico trae l'ultima conseguenza:

Questa frase è vostra per intero e non mia. È vostra propria, e non soltanto la conclusione del nostro colloquio. Un « nostro » colloquio non ci fu punto: c'era un maestro, che pronunziava delle parole possenti e c'era un

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discepolo risuscitato da morte. Io ero quel discepolo e voi il maestro.

Ma Stavròghin non pensa affatto dì restar fedele alla propria idea. Della lettera che Sàtov gli ha scritto dall'America al tempo in cui "il seme rimase e crebbe" egli ha letto solo "tré pagine, le prime due e l'ultima" e dato "una rapida scorsa alle altre". Anzi, mentre Sàtov gli ricorda tutto questo, egli ha l'aria d'averlo dimenticato. Non è più cosa che lo riguardi.

Tuttavia non fu soltanto un esperimento gratuito:

Io non schervazo con voi nemmeno allora; cercando di persuadervi, mi davo pensiero forse più ancora di me stesso che di voi, — disse enigmaticamente Stavròghin.

Egli vorrebbe credere. Ma da sé non vi riesce; per questo infonde questa crederla negli altri sperando di arrivare a convincere se stesso per questa via. Ma che "fede" è mai questa? Una debolezza, una fiacchezza nel ricercare la verità che si traduce in assolutismo prepotente. Un'affermazione che grida perché è troppo debole per parlare. Se dovesse dire pacatamente la sua parola, la voce le mancherebbe. Scetticismo romantico e disperato che amora nella brutta parola che Sàtov gli rammenta:

Non mi dicevate voi che, se vi avessero dimostrato matematicamente che la verità è fuori di Cristo, avreste preferito rimanere con Cristo piuttosto che con la verità? (I Demoni, voi. II, pp. 62-64).

Impotenza insopportabile!... Fosse almeno fedele a se stesso. Prendesse, almeno una volta, una decisione e portasse poi il giogo imposto. Ma alla frase "enigmatica" di Stavròghin, Sàtov replica:

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Non scherzavate! In America io vissi, tré mesi disteso sulla paglia, al fianco di un... disgraziato e seppi da lui che, nello stesso tempo che piantavate nel mio cuore Dio e la Patria, nello stesso tempo, e forse in quegli stessi giorni, avevate avvelenato il cuore di questo disgraziato, di questo maniaco, di Kirìllov... (I Demoni, voi. II, p. 62).

A quale disperata conclusione porti poi l'esperimento di Stavròghin si rivela dalla domanda che questi formula dapprima sotto forma di scherzo, poi, in seguito alla protesta di Sàtov, "con altre parole":

Nikolài Vsjevolòdovìc lo guardò severamente:

— Volevo soltanto sapere: voi stesso credete in Dio o no?

— Io credo nella Russia, io credo nella sua ortodossia... Io credo nel corpo di Cristo... Io credo che il nuovo avvento si compirà in Russia... Io credo... — si mise a balbettare Sàtov esaltato.

— Ma in Dio? In Dio?

— Io... io crederò in Dio.

Non un muscolo vibrò sul viso di Stavròghin. Sàtov lo fissava con uno sguardo di fuoco, provocante, come se col suo sguardo volesse incenerirlo.

— Ma io non vi ho mica detto di non credere affatto! — gridò infine. — vi dichiaro soltanto che io sono un libro miserabile e noioso, e nulla di più per il momento, per il momento... Ma perisca il mio nome! Si tratta di voi e non di me!... Io sono un uomo senza talento e non posso dare che il mio sangue, null'altro, come ogni uomo senza talento. Vada dunque alla malora anche il mio sangue! Io parlo di voi, io vi ho atteso qui per due anni... Per voi è mezz'ora che danzo nudo... Voi, voi solo avreste potuto sollevare questa bandiera!... (I Demoni, voi. II, pp. 69-70).

Stavròghin vede che l'esperimento non è riuscito. Sàtov non crede. La sua non è che un'ideologia fanatica e impotente. Tuttavia presto Sàtov crederà davvero, quando ritroverà sua moglie, abbandonata da Stavrò-

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ghin e in attesa di un figlio di lui — allora, davanti al miracolo della nascita, gli si aprirà il cuore. Allora, d'un tratto, troverà la vera fede, un minuto prima di morire.

Più aggressivo, più inquietante si fa il contegno di Stavroghin nelle due singolari circostanze di cui si è già parlato. Quando si mette a trascinare per il naso, senza alcun motivo, l'innocuo Gagànov, solo perché si sente provocato da quel suo comico intercalare, o quando morde all'orecchio la vecchia Eccellenza siamo seriamente in presenza di un caso patologico; subito dopo infatti egli viene colto da un accesso di pazzia furiosa. Tuttavia il fatto non è senza significato. Lipùtin lo sente quando afferma che Stavroghin era perfettamente in sé. E questi sente a sua volta che il proprio "delirio" ha carattere ambiguo. La prima volta fa assegnamento sul fatto che lo si creda malato di mente, ma un'altra volta dice all'arcivescovo Tichon che questa opinione lo danneggia. Egli sente dunque il dovere di essere moralmente responsabile, mentre la prima interpretazione lo libera da ogni responsabilità e lo abbandona alla schiavitù dell'impulso.

Qui 1"'esperimento" diventa pericoloso dal punto di vista sociale. Nell'uomo si scatena la belva, l'istinto asociale, tenuto in freno dall'ordine, l'attacco a questo ordine.

La presenza di Stavroghin ci fa sentire la sua forza concentrata - una "potenza sconfinata", dice Sàtov, quella che egli invoca quando afferma che soltanto Stavroghin potrebbe "sollevare la bandiera", quella a cui allude Vjerchovènskij quando fa di Stavroghin lo zarevic segreto, il messia della sua escatologia selvaggia. Nello stesso tempo però sen-

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tiamo che nell'intimo di quest'uomo qualche cosa rimane mortalmente inerte.

Egli esiste ma non vive la propria- esistenza;

pensa, ma non vive il proprio pensiero. Degli uomini vengono a lui ed egli esercita su di loro una profonda influenza, ma questo rapporto gli rimane estraneo. C'è vita in lui, ma egli non riesce a farla sua. Stavròghin non può vivere.

Questo stato di morte Ulteriore è così avanzato che nemmeno il pericolo agisce da stimolante. Nel riferire l'episodio dello schiaffo il cronista racconta come il decabrista L...n cercasse il pericolo per inebriarsene e continua:

Ma da allora tuttavia sono passati molti armi, e la natura nervosa, tormentata e complessa degli uomini del nostro tempo non ammette neppur più il bisogno di quelle sensazioni immediate e totali che erano allora così ricercate da certi signori del buon tempo antico nella loro attività irrequieta. Nikolàj Vsjevolòdovic avrebbe forse trattato dall'alto in basso, l'avrebbe chiamato magari millantatore e fanfarone, — è vero che non si sarebbe espresso così ad alta voce. Egli avrebbe anche ucciso l'avversario in duello, avrebbe cacciato l'orso, purché fosse stato necessario, e si sarebbe difeso contro un brigante nella foresta con la stessa fortuna e la stessa intrepidità di L-n, ma però senza alcuna senzazione di piacere, unicamente per una sgradita necessità, con fiacchezza, con indolenza, e perfino con noia. (I Demoni, voi. I, p. 193).

Così egli ricorre allo stimolante più abbomine-vole, l'unico che gli resti: commettere l'infamia per se stessa. Coprirsi di ignominia davanti agli uomini e davanti a se stesso lo eccita — su questo punto non ci è lasciato alcun dubbio — fino alla voluttà fisica.

Un giorno, lo racconta egli stesso nella sua "Confessione", ruba a un impiegatuccio tutto lo stipendio

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"per distraisi dal sogno che non gli dava tregua o soltanto per ridere". Si accorge che l'altro ha dei sospetti sul suo conto, ma prova piacere a vederlo sovente e "a incontrare il suo sguardo nel corridoio". Poi, "la cosa mi venne a noia".

Seguitando, egli riferisce la storia infame della piccola Matrjòsa. Con perfetta calma, non ostante l'eccitazione spasmodica, egli suscita il sospetto che la bambina l'abbia derubato per assistere alla punizione che la madre le infligge; in seguito, senza far nulla di speciale, soltanto con lo sguardo, con l'atteggiamento e con qualche carezza, egli le mette il fuoco nelle vene con raffinatezza atroce, suscita in lei il sentimento della dedizione totale, poi quello del brutale abbandono, sicché, disperata, la bimba si uccide. Pagine terribili, in cui vediamo la creatura innocente passare attraverso tutto il disonore di cui può macchiarsi la vita di una donna fino a veder distrutta in sé non solo la dignità ma anche il senso di ciò che è sacro poiché la bimba si rimprovera di "aver ucciso Dio".

Finalmente il matrimonio con la zoppa Màrja Lebjàdkina "che faceva qualche servizio nei nostri cantucci e che a quel tempo non era ancora una pazza, ma semplicemente un'idiota entusiasta, innamorata in segreto di me".

Tutte creature inermi torturate da lui. Sadismo, dunque, per chiamare la cosa col suo nome. Ma ciò che esso ha di particolare è lo psicologismo raffinato della scelleratezza, quello che nelle Memorie del Sottosuolo Dostojevsidj chiama "aracneo", solo che qui si tratta di una cosa piuttosto meschina, mentre in Stavròghin esso assume ben altre dimensioni. In più c'è la consapevolezza acuta dell'infamia; Stavròghin stesso dice:

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Ogni qualvolta nella mia vita mi sono trovato in una situa2Ìone estremamente vergognosa, umiliante, ignobile, ma, soprattutto, ridicola, essa ha suscitato in me, con una collera smisurata, anche una voluttà incredibile. Lo stesso avveniva nei momenti in cui commettevo dei delitti e nei momenti in cui la mia vita era in pericolo.

Se avessi rubato qualcosa, mi sarei sentito, nel commettere il furto, inebriato dalla consapevolezza della profondità della mia infamia. Non che amassi l'infamia (su questo punto la mia ragione rimaneva intatta), ma mi piaceva l'ebbrezza derivante dalla tormentosa coscienza della mia ignobiltà. Così, pure, ogni qualvolta, in piedi sul terreno, attendevo lo sparo dell'avversario, provavo la stessa senzazione di onta e di furore, e una volta la provai foltissima. Confesso che sovente la cercavo io stesso, perché era per me la più forte tra tutte quelle del medesimo genere. Quando ho ricevuto uno schiaffo (e nella mia vita ne ho ricevuti due), è stata la stessa cosa, nonostante la mia terribile collera. Ma, se si riesce in quel momento a dominare la collera, il godimento supera tutto ciò che si può immaginare. Di questo non ho mai parlato a nessuno nemmeno velatamente, e l'ho sempre tenuto nascosto come una vergogna e un disonore. Ma quando una volta, in una taverna di Pietroburgo, fui picchiato gravemente e trascinato per i capelli, non provai quella sensazione, ma soltanto una collera incredibile, benché non fossi ubriaco, e mi azzuffai semplicemente. Ma se mi avesse afferrato per i capelli e piegato giù quel visconte francese che all'estero mi aveva colpito su una guancia e al quale fracassai in duello la mascella inferiore, ne avrei provato un'ebbrezza e forse non avrei sentito la collera. Così mi parve allora.

Tutto questo perché ognuno sappia che quel sentimento non mi dominò mai per intero, ma conservai sempre la piena coscienza di me (e anzi è sulla coscienza che tutto si basava). Ed esso mi possedeva bensì fino alla follìa e, per dir così, fino all'ossessione, mai però fino all'oblio di me stesso. Mentre arrivavo nell'intimo al calor bianco, potevo in pari tempo superarlo e perfino arrestarlo nel suo punto culminante; ma ero io stesso a non volerlo arrestare. Io sono convinto che, nonostante la sensualità bestiale di cui sono dotato e che ho sempre provocata, avrei potuto passare tutta la mia vita come un monaco.

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Sono sempre padrone di me, quando lo voglio. Si sappia dunque che io non intendo invocare ne l'ambiente, ne le malattie per esimermi da responsabilità per i miei delitti. (I Demoni, voi. Ili, pp. 335-36).

Parlando della bambina egli ripete sovente che "il cuore [gli] batteva" e a proposito di Màrja Lebjàdkina dice: "L'idea del matrimonio di Sta-vròghin con un essere così infimo vellicava i miei nervi. Nulla si poteva immaginare di più mostruoso". Qui sta la spiegazione di quello che avviene in lui dopo lo schiaffo di Sàtov: è la voluttà dell'onta; la facoltà di mantenere allo stato più intenso quella sensazione inebriante e di dominarla nello stesso tempo perfettamente: l'"innata sensualità bestiale" congiunta a una capacità di astinenza assoluta, l'istinto cieco che vuole solo il piacere e il potere di mantenersi sempre padrone di se stesso... Il cronista ne da l'interpretazione etica quando dice che la malvagità in lui era "fredda, tranquilla e, se così posso esprimermi, ragionevole, per conseguenza la più rivoltante e terribile che ci possa essere".

Che cosa da un significato alla passione? Che cosa legittima l'assenso all'istinto, nell'uomo che è un essere spirituale e personale? Il fine naturale, la funzione legata alla specie e alla società umana, da soli non bastano. La giustificazione vitale non può venire che dal cuore. Il cuore lega nell'uomo lo spirito alla materia, la persona all'istinto e a questo legame da un significato. Solo il cuore può farlo in virtù dell'amore. Se questo viene a mancare, tutto si avvilisce e si degrada. Se poi lo spirito è per giùnta consapevole e raffinato, se è violento e impotente insieme, il risultato sarà la turpitudine di cui stiamo parlando.

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— È vero — domando Sàtov, — che avete affermato di non vedere differenza di bellezza tra un qualunque atto di sensualità bestiale e qualsivoglia grande impresa, fosse anche quella di sacrificare la vita per l'umanità? È vero che ai due poli avete trovato la stessa bellezza, l'identico godimento?

— Rispondere così è impossibile... non voglio rispondere, — mormorò Stavròghin, che avrebbe potuto benissimo alzarsi e andarsene, ma non si alzava e non se ne andava.

— Anch'io non so perché il male è brutto e perché il bene è bello, ma so perché il sentimento di questa distinzione si cancella e si perde in certi signori, come gli Stavròghin, — persisteva a dire Sàtov, tremando tutto;

— sapete perché vi sposaste allora in modo così vergognoso e vile? Appunto perché qui la vergogna e l'assurdo arrivavano alla genialità! Oh, voi non vi aggirate sull'orlo dell'abisso, ma vi buttate giù arditamente a capofitto. Vi siete sposato per la passione del martirio, per bramosia di rimorsi, per voluttà morale. I vostri nervi hanno avuto uno schianto... La sfida al buon senso era troppo seducente! Stravroghin e la zoppa deforme, povera di spirito e miserabile! E quando mordeste l'orecchio al governatore, non provaste una voluttà? La provaste? La provaste, bei signorino ozioso e bighellone? (Z Demoni, voi. II, pp. 71-72).

L'ultima espressione di questa perversità è l'apparizione del satanico negli stati visionar! e morbosi di-Stavròghin ai quali sovente si allude nel romanzo:

E tutt'a un tratto, nel modo, del resto, più conciso e più brusco, tanto che parecchie cose non si potevano nep-pur capire, raccontò che andava soggetto, specialmente la notte, a un certo genere di allucinazioni, che talvolta sentiva o vedeva accanto a sé un essere malvagio, beffardo e « ragionevole », « con facce diverse e diversi caratteri, ma sempre lo stesso, e io vado sempre sulle furie! ».

Queste confidenze erano stravaganti e confuse e parevano realmente quelle di un pazzo. Ma Nikolàj Vsjevolòdovic parlava inoltre con una sincerità così strana, senza precedenti in lui, con una ingenuità così lontana dalla sua natura, che l'uomo di prima pareva fosse in lui totalmente

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scomparso. Egli non si vergogno punto di lasciar vedere-lo sgomento con cui parlava della sua visione. Ma tutto questo durò un istante e se ne andò con la stessa rapidità con cui era venuto.

— Tutto ciò è assurdo, — disse in fretta e con una steza un po' goffa, riprendendosi. — Andrò da un dottore..-

— E da molto tempo ci andate soggetto?

— Da un anno circa, ma tutte queste son sciocchezse. Io andrò da un dottore. Sono tutte schiocchezze, enormi sciocchezze. Sono io stesso sotto aspetti diversi, e nien-t'altro16. Siccome dianzi ho aggiunto quella... frase, voi credete certamente che io abbia ancora dei dubbi e non sia sicuro che in realtà sono io e non il demonio.

Tichon lo guardava interrogativamente.

— E... voi lo vedete per davvero? — domandò, escludendo così ogni dubbio che si trattasse realmente di un'allucinazione ingannevole e morbosa — vedete in realtà una-figura?

— È strano che insistiate su questo, quando vi ho già detto che la vedo, tornò a irritarsi Stavròghin sempre più a ogni parola, — si capisce che la vedo, la vedo come vedo voi... ma qualche volta, pur vedendola, non sono-sicuro di vederla... e alle volte non so quale sia la realtà:

se io o lui... tutte sciocchezze. Ma voi non potete proprio-supporre che sia realmente il demonio? — aggiunse, mettendosi a ridere e passando in modo troppo brusco al. tono canzonatorio, — eppure sarebbe più in armonia con la vostra professione. .

— È più probabile che sia là malattia, benché...

— Benché cosa? ^

— I demòni esistono senza dubbio, ma il modo di concepirli può essere molto diverso.

— Voi avete adesso abbassato un'altra volta gli occhi,. — riprese Stavròghin irritato e beffardo, — perché avete sentito vergogna per me che io credessi nel demonio, ma, facendo finta di non crederci, io vi rivolgerò astutamente questa domanda: esiste in realtà o non esiste?

16 II fenomeno dello sdoppiamento della personalità che-può arrivare fino a quello del sosia — vedi la figura di Gol-djakin nel Sosia — non è identico all'esperienza satanica ma. qui si combina con essa, come pure nelle visioni di Ivàn Ka-ramàzov.

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Tichon sorrise vagamente.

— Ebbene, sappiate ch'io non mi vergogno affatto e, per compensarvi della mia ruvidezza, vi dirò seriamente e impudentemente: io credo nel demonio, ci credo nel senso canonico, credo nel demonio come persona e non come allegoria, e non ho bisogno di farmi dir nulla da nessuno a questo riguardo, ecco tutto!

E poi la domanda:

Si può credere al diavolo senza credere in Dio? » (I Demoni, voi. Ili, pp. 324-27).

Ma su questo punto non ci dilungheremo di più perché non si tratta che di un grado preliminare alle visioni di Ivàn Karamàzovn.

Studiando la figura di Kirìllov abbiamo accennato alla relazione esistente fra i concetti del finito, del nulla e dell'angoscia e abbiamo creduto di vedere il momento decisivo dell'evoluzione dell'epoca moderna nel fatto che il carattere finito dell'esistenza è assunto come assoluto e incondizionato. Abbiamo visto ancora come per la coscienza cristiana si tratti di decidere se considerare o no il finito sotto un aspetto nuovo, come un compito e un dovere di cui si è responsabili davanti a Dio. Una volta il finito era concepito ingenuamente e riferito direttamente a Dio. L'epoca moderna o, più esattamente, i tempi che seguiranno l'"epoca moderna" sembrano chiamati a decidere se introdurre il finito, ormai maturo e responsabile, nel rapporto divino oppure emanciparlo da questo rapporto, dichiarandone l'autarchia, l'autonomia. Ma in questo caso

17 Si veda il capitolo V di questo libro. 250

esso apparirà nudo e spoglio e intomo ad esso il nulla "identificherà". L'esistenza cadrà allora in potere dell'angoscia.

A me sembra che nel fenomeno Stavròghin si presenti qualche cosa di simile. Soltanto qui non l'essere vivente, ma l'atto vitale stesso viene appreso come finito e precisamente all'interno, nella sua intensità, nella sua intimità. Il limite del finito risalta qui nello stesso modo come, vivendo, ci accorgiamo d'esser vivi, come la vita, dunque, prende coscienza di sé e, nel compiere i suoi atti, assimila a sé i suoi oggetti. Il limite appare qui nella vitalità stessa della vita. All'uomo non rimane altro su cui contare che la propria intensità vitale ed egli si fa consapevole del suo limite, sia in senso attivo, come potere che egli esercita sulla realtà, sia esistenzialmente, come unità di atto e di soggetto, di atto e contenuto dell'atto, di soggetto e di oggetto, di realizzazione del soggetto e appropriazione dell'oggetto, di essere se stesso e di avere. Nel caso di Kirìllov egli sente aprirsi sotto il proprio essere l'abisso del nulla, qui invece avverte nella propria forza l'impotenza, l'assurdità del proprio agire, la noia in tutto ciò che fa, la morte che insidia la vita... Anche qui c'è il nulla, ma si è insediato nella vita stessa. E anche questo nulla nientifica. Dall'intimo sale, come dice Pascal, la noia, la sazietà, il disgusto, l'aridità, l'assurdità, il veleno. Non dal nulla esteriore, ma dal nulla interiore . sale e si espande l'angoscia.

Qui si chiarisce anche il fenomeno del vuoto Ulteriore. Non so se esso sia sempre esistito, se sia semplicemente una manifestazione di decadenza, segno di una civiltà in declino o proprio soltanto

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dell'epoca moderna. Comunque esso è particolar-mente sentito al giorno d'oggi. In Stavròghin appare con un'eviden2a impressionante. La esistenza di quest'uomo è vuota. Non ch'egli non possieda nulla o che nulla avvenga nella sua vita; qui il vuoto è nel divenire stesso di questa vita: esso si spalanca nel suo cuore.

Esiste in una natura simile qualche possibilità di bene? La domanda non è pedantesca ma deve contribuire a trovare un significato a quest'esistenza. Un uomo siffatto può arrivare alla luce del bene? In altri termini: la sua struttura ha un senso positivo? Può significare un compito la cui soluzione impegni l'esistenza umana nel suo complesso?

Un fatto richiama anzitutto la nostra attenzione: Stavròghin sembra incapace di mentire. Quando Sàtov lo invita al rendiconto delle sue azioni, non risponde evasivamente ma con sincerità, quantunque, parlando di se stesso, sia "soprapensiero" e senza vera partecipazione, e non riviva ma piuttosto contempli i fatti narrati, mettendosi, per così dire, al di fuori delle sue parole. Nella "Confessione" c'è addirittura una volontà violenta di rivelare tutto, ma proprio questa violenza è sospetta, e inoltre dobbiamo chiederci quanto le tendenze che abbiamo analizzate siano determinanti di questa sincerità.

Ciò nonostante, la presenza di Stavròghin genera l'inganno. Fino a che punto arrivi l'impostura appare dalle fantasie della povera Màrja Lebjàdkina;

ingannati però sono tutti. Egli ne è responsabile in quanto permette che ciò avvenga e anche lo favorisce, sia col silenzio, sia sottolineando il fatto. Ma, a parte questo, l'inganno è nella natura stessa

252

di Stavròghin. Sappiamo che nel suo intimo egli è sempre totalmente indifferente; ma poiché egli possiede una forza immensa di suggestione e un tatto psicologico profondamente differenziato, il suo interlocutore è sempre indotto a prenderlo sul serio e ad agire sul serio; egli sente in questo incontro la presenza di un destino e suppone la stessa cosa in Stavròghin, che nel suo intimo è rimasto invece distaccato e lontano. Così da ogni incontro nasce l'inganno. Stavròghin è "commediante" nato. Ma forse egli potrebbe obiettare che nessuno ha il diritto di proibirgli di vivere secondo la sua natura e chiedere: che colpa ne ha, lui, se gli uomini lo credono diverso? Quando essi cadono nella rete non agisce in loro sempre una segreta volontà di subire l'inganno, una fragilità ulteriore, un desiderio di annientamento ?

Stavròghin anela però a uscire da quella confusione. Al principio del romanzo, là .dove si parla della educazione funesta impartita al ragazzo dal sentimentale Stjepàn Vjerchovènskij, è anche detto che egli era pieno di aspirazioni ideali e qui c'è certamente del vero. Nei colloqui con Sàtov e con Kirìllov non c'è soltanto il desiderio di distruggere o la ricerca di un pretesto per passare il tempo, ma anche un bisogno di chiarezza. Ciò che lo lega alla dolce e soave Dasa Sàtova è la speranza di trovare qualcosa che riesca a trarnelo fuori. Forse a questo proposito sono da ricordare anche i suoi singolari pensieri sulT'Apocalisse.

Durante la visita a Tichon, benché si difenda dalla "psicologia" e tema che si legga nel suo cuore, sebbene taccia dell'ironia e sia sempre pronto a dar prova di cinismo, pur egli cerca l'uomo più forte

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di lui, capace di "smuovere le montagne" — questo è, ad onta del tono cinico, il senso velato della domanda a Tichon —; l'uomo la cui fede sia abbastanza forte da vincere la minaccia della dannazione e salvarlo da se stesso.

In questo desiderio freme a dire il vero anche la ribellione:

— Credete in Dio? — domandò bruscamente Nikolàj Vsjevolòdovic.

— Ci credo.

— Ebbene, è detto che, se si crede e si ordina a una montagna di muoversi, essa si muove... perdonate, del resto, le sciocchezze che vi dico. Tuttavia sono curioso di sapere: la smuovereste la montagna o no? (I Demoni, voi. Ili, p. 326).

Poi, improvvisamente:

— Basta, — interruppe Stavròghin. —- Sapete, io vi amo molto.

— E io voi, — rispose Tichon sottovoce. Stavròghin tacque e ricadde nella fantasticheria di poco prima. Era come un accesso che lo prendeva già per la terza volta. E anche a Tichon egli aveva detto « vi amo » quasi come fosse in preda a un accesso, per lo meno era stata anche per lui una sorpresa.

Il suo contegno verso l'arcivescovo fa paura; anche questi ne prova spavento:

— Non adiratevi, — sussurrò Tichon, toccandolo leg-germente con un dito nel gomito e come preso da timidezza.

Quello trasalì e aggrottò, iroso, le sopracciglia.

— Perché avete proprio supposto che io dovessi andare in collera? — chiese irritato. (I Demoni, voi. Ili, pp. 328-29).

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Quest'uomo è torturato, roso dal rimorso. Esso si concentra sulla figura della piccola Matrjòsa; sovente l'immagine della bimba gli appare quale egli l'aveva vista nella sua estrema dispera2Ìone:

Provavo, non so perché, un vero piacere a non rivolgere la parola a Matrjòsa, ma a farla languire.

Io aspettai un'ora intiera e a un tratto sbucò lei stessa di dietro al paravento. Io sentii i suoi due piedi picchiare sul pavimento quando saltò giù dal letto, poi dei passi abbastanza rapidi, e la vidi comparire sulla soglia della mia camera. Stava là in piedi e mi guardava in silenzio.

10 ero così vile che il cuore mi palpitò di gioia perché ero stato di carattere e avevo atteso che lei mi fosse venuta incontro per la prima. In quei giorni, in cui, dopo di allora, non l'aveva più veduta da vicino nemmeno una volta, era veramente dimagrata moltissimo. Il suo viso si era fatto smunto e la testa di sicuro le ardeva.

I suoi occhi si erano dilatati e mi guardavano immobili con una curiosità ottusa, come sul principio mi parve. Io stavo seduto, la guardavo e non mi muovevo. E a un tratto sentii nuovamente dell'odio. Ma mi accorsi ben presto che non aveva affatto paura di me, ma invece, forse

11 delirio. Ma non aveva neppure il delirio. Improvvisamente si mise a crollare il capo, come fanno le persone ingenue e alla buona quando vogliono fare dei grandi rimproveri, e a un tratto alzò contro di me il suo piccolo pugno e cominciò a minacciarmi dal suo posto. Nel primo istante quel gesto mi sembrò ridicolo, ma poi non potei più resistere. Sul suo viso c'era tanta disperazione che sulla faccia di una bambina non se ne poteva sopportare la vista. Ella continuava a minacciarmi col suo piccolo pugno e a scuotere il capo con aria di rimprovero. Io mi alzai e mi avvicinai a lei spaventato, cominciai a parlarle cautamente, a bassa voce e in tono carezzevole, ma vidi che non capiva. (I 'Demoni, voi. Ili, pp. 343-44).

La bambina esce dalla stanza e sale nel solaio;

egli però, sapendo quello che sta per accadere, aspetta che tutto sia finito, mentre il cuore gli "bat-

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•teva sino a fargli male"; poi, s'accosta allo sgabuz-

•zino, e vede che la bambina si è impiccata. L'immagine ritorna continuamente:

Io vidi davanti a me (oh, non allo stato dì veglia! fosse almeno stata una visione reale!)," io vidi Matrjòsa

•dimagrita e con gli occhi febbricitanti, esattamente com'era

•quando stava in piedi sulla mia soglia crollando il capo e col minuscolo pugno levato contro di me. E nulla mai mi era apparso di così angoscioso! La disperazione pietosa

•di un essere indifeso la cui ragione era ancora imperfettamente sviluppata e che mi minacciava (di che? che mai poteva farmi, mio Dio?), ma non accusava senza dubbio

•che se stesso! Non avevo ancora mai provato nulla di simile.

Restai fino a notte senza muovermi, perduta ogni nozione del tempo. Se questo si chiami rimorso di coscienza

•o pentimento non so, ne lo potrei dire neppur oggi. Ma mi riesce insopportabile quella sola immagine, e precisamente sulla mia soglia, col suo piccolo pugno alzato e minaccioso, quel solo aspetto di lei, quel solo momento,

•quel solo crollar di capo. Ecco appunto ciò che non posso più sopportare, perché dopo di allora la visione mi apparve quasi ogni giorno. Non si presenta da sé, ma io

•stesso la evoco e non posso non evocarla, benché essa m'impedisca di vivere. Oh, se avessi una volta potuto

•vederla in realtà, fosse pure in -un'allucinazione!

..Perché mai tra i ricordi della mia vita non uno suscita in me nulla di simile? Eppure di ricordi forse ancora molto peggiori agli occhi degli uomini ne ho molti! Tutt'al più essi suscitano in me dell'odio, anche questo però è pro-

•vocato dalla mia attuale situazione, mentre prima avevo il sangue freddo di dimenticarli e di allontanarli da me.

Di poi ho errato quasi tutto quest'anno e ho cercato di occuparmi. So che anche adesso potrei, se lo volessi, scacciare Matrjòsa. Sono assolutamente padrone della mia volontà come in passato. Ma tutto sta qui, che non l'ho mai voluto fare, non lo voglio e non lo vorrò. E così

18 In questo caso avrebbe potuto obicttivarla, ragionare

•con lei.

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continuerà fino a che sarò pazzo. (I Demoni, voi. Ili, pp. 352-53).

È pentimento? È autodistruzione? O la volontà di mantener desta l'eccitazione che gli da quest'infamia?

Egli si reca dall'arcivescovo per parlargli della penitenza che si è imposta: render nota, dappertutto, la sua "Confessione". Ma Tichon non gli crede:

— Quest'idea è una grande idea e il pensiero cristiano non può esprimersi in modo più pieno. Più in là di un atto così sorprendente come quello che avete meditato, il pentimento non può andare, purché...

— Purché?

— Purché sia un vero pentimento e un pensiero veramente cristiano.

— Io ho scritto con sincerità.

— Pare che facciate apposta a farvi passare per un uomo più grossolano di quel che il vostro cuore desidererebbe... — si faceva sempre più ardito Tichon.

Evidentemente il « documento » gli aveva fatto profonda impressione...

— Questo documento scaturisce direttamente dal bisogno di un cuore mortalmente ulcerato, ho capito bene?

— egli proferì con tono insistente e con insolito calore.

— Sì, è il pentimento, il bisogno naturale di pentimento che vi ha sopraffatto, e voi vi siete messo per un grande cammino, un cammino inaudito. Ma pare che già anticipatamente odiate e disprezzate tutti coloro che leggeranno ciò che qui è scritto e li sfidiate a una lotta. Poiché non vi vergognate di confessare un delitto, perché vi vergognate del vostro pentimento?

— Mi vergogno?

— Vi vergognate e avete paura.

— Ho paura?

— Una paura mortale. Che mi guardino — voi dite- — bene, ma voi adesso come guarderete gli altri? Certi punti della vostra narrazione sono scritti in uno stile sforzato;

avete l'aria di compiacervi della vostra psicologia e vi

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aggrappate a ogni minuzia, pur di stupire il lettore con una insensibilità che in voi non esiste. Che è questo, se non la sfida orgogliosa del colpevole ai suoi giudici?

— Ma dov'è la sfida? Io mi sono astenuto da qualsiasi giudizio intorno alla mia persona.

Tichon tacque. Anzi il rossore coprì le sue pallide guance... — Non vi nasconderò nulla: sono rimasto atterrito vedendo una grande forza oziosa, spesa deliberatamente nel commettere infamie. (I Demoni, voi. Ili, pp. 355-57).

Tichon non crede a questo pentimento. La confessione è piena di vanità: la vanità dell'" immoralista" di fronte al "borghese". Nello stesso tempo essa è piena di risentimento verso chi l'ascolta;

piena di paura e di un'insopportabile senso d'umiliazione. La confessione veramente pentita richiede che la persona alla quale essa è fatta e che in fin dei conti rappresenta Dio, sia riconosciuta come testimonio e giudice e che si accetti di umiliarsi davanti a lei. Qui ciò non avviene e perciò l'avvilimento si converte in odio, e dove c'è l'odio non c'è posto per il pentimento. Il pentimento in questa confessione freme d'orgoglio. Non sa compiere la rinuncia indispensabile, la rinuncia ad affermare se stesso. È terribilmente sforzato, violento sino all'eccesso, e non produce quel lieve ma decisivo moto del cuore in cui esso si apre e si libera. È dunque intimamente insincero:

Anche nella forma stessa di questo grande atto di contrizione c'è qualcosa di ridicolo. Oh, non credete di non vincere! — esclamò, quasi con entusiasmo.

Il delitto di Stavròghin è "vergognoso, infame, all'infuori di ogni orrore, per così dire, troppo inelegante". Gli manca quello che può rare veramente

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impressione: ' il carattere tipico. Per parlare con Kierkegaard: il puro "spirito del delitto" vi appare, ma questo pentimento non riesce a toccarlo:

"Non siete preparato, non siete temprato; siete come sradicato dal suolo, non avete la fede".

Stavròghin si accorge che quest'uomo ha toccato veramente il punto essenziale:

— Ascoltate, padre Tichon: io mi voglio perdonare da me, ecco il mio scopo principale, ecco ogni mio scopo! — disse a un tratto Stavròghin con un cupo entusiasmo negli occhi. — Io so che soltanto allora sparirà la visione. Ed ecco perché cerco una sofferenza infinita, perché io stesso la cerco. Non spaventatemi, dunque, se no perirò nel mio furore. (I Demoni, voi. Ili, p. 361).

Tichon a sua volta sente che il suo interlocutore è scosso e si trova a una svolta decisiva. Si tratta di giuocare il tutto per il tutto:

— Se credete di potervi perdonare da voi, — il che vuoi dire, se voi potete affermare, davanti alla vostra stessa coscienza, di essere veramente pentito, senza cioè altro motivo secondario o sottinteso che invalidi ogni cosa, e di sciogliervi, con la volontà più sincera, da quei vostri orribili legami, — e di poter raggiungere tale perdono in questo mondo mercé la sofferenza, se vi proponete con fede un simile scopo, voi credete già in tutto!... Come mai avete detto che non credete in Dio?

Stavròghin non risponde e Tichon incalza:

— Dio vi perdonerà la vostra miscredenza, perché onorate lo Spirito Santo, pur senza conoscerlo.

Lo "Spirito Santo", la limpidità intcriore di chi si apre alla verità e alla volontà buona: ma già

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il piatto nero della bilancia si abbassa, e il cuore si chiude:

— A proposito. Cristo, perdonerà? — domandò Stavrò-ghin con un sorriso sforzato e cambiando rapidamente il suo tono, e nella domanda si sentì un leggero accento d'ironia- È detto nel Libro: « Se darete scandalo a uno solo di questi piccoli », ricordate. Secondo il Vangelo non c'è maggior delitto... Voi avete semplicemente una gran voglia che non avvenga uno scandalo e mi tendete un tranello, buon padre Tichon, — biascicò Stavròghin con noncuranza e dispetto18, facendo l'atto di alzarsi — più brevemente, vorreste che io diventassi un uomo posato, che prendessi moglie e finissi la mia vita membro del circolo locale, visitando ogni domenica il vostro monastero. Bella penitenza! Non è vero? Ma del resto, come conoscitore del cuore umano, avete forse il presentimento che sarà senza dubbio così e che si tratta solo di sermoneggiarmi ora a dovere per osservare le convenienze, poiché io stesso non aspetto altro, newero?

Egli sorrise sforzatamente. (I Demoni, voi. Ili, pp. 361-62).

Tichon fa un ultimo sforzo per indurlo a impegnarsi sul serio e lo consiglia di andare da un asceta "di tanta sapienza cristiana che ne io, ne voi lo possiamo comprendere". Stavròghin dovrebbe far l'obbedienza sotto la sua dirczione e purificarsi nel pentimento e nel sacrificio. Stavròghin ascolta "serio", poi, improvvisamente:

— Lasciatemi stare, padre Tichon, — lo interruppe sdegnoso Stavròghin e si alzò dalla sedia...

— Che avete? — egli gridò tutt'a un tratto, considerando Tichon quasi con spavento. Questi gli stava dinanzi con le mani giunte e un tremito convulso che pareva

w rivolta!

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Com'è più grave qui il « dispettò » della più selvaggia

ta!

provocato da un vero terrore gli percorse istantaneamente il viso.

— Che avete? che avete? — ripeteva Stavròghin, slanciandosi verso di lui per sostenerlo. Gli era parso che stesse per cadere.

L'arcivescovo legge in Stavròghin il nuovo addensarsi della minaccia: la ripresa del ritmo pauroso per cui il tormento della coscienza ammoni-trice sta per essere sopraffatto da una nuova infamia.

— Calmatevi! — lo supplicava Stavròghin, veramente allarmato per lui. — Forse lo differirò ancora... Avete ragione...

— No, non sarà dopo la pubblicazione, ma prima, un giorno, un'ora forse prima del grande passo, vi getterete in un nuovo delitto come in una via d'uscita e lo commetterete unicamente per evitare la pubblicazione di questi fogli.

Terribile conferma che questo "pentimento" non è sincero, non viene dal cuore, e non è veramente cristiano ma resta viziato di "esibizionismo" e di "romanticismo", è autotortura e godimento insieme.

Stavròghin capisce che l'occhio penetrante dell'arcivescovo ha scorto qualche cosa che forse a lui stesso finora è sruggito: egli "tremò di collera e quasi di sgomento".

— Maledetto psicologo! — gridò improvvisamente, furioso, e, senza voltarsi indietro, uscì dalla cella. (I Demoni, voi. Ili, pp. 363-64).

Nei piani di Pjotr Vjerchovènskij c'è già quello di uccidere la povera Màrja Lebjàdkina. Nell'incontro avvenuto sul ponte, Stavròghin ha dato il denaro al criminale incaricato dell'assassinio; o meglio, gliel'ha gettato nel fango della strada; non è

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dunque stato un incarico vero e proprio ma piuttosto un lasciar correre, un incoraggiamento dato e smentito nello stesso tempo, avvenuto ma non riconosciuto. Rimane esso dunque a mezz'aria ma Fèdka non può interpretarlo se non come un invito ad agire.

Se Stavròghin è tale uomo — riproponiamo la questione di cui si è perso il filo nell'incrociarsi delle risposte contrastanti — se questa è la sua natura, dobbiamo considerarlo sin da principio perduto? Questa freddezza, questa assenza di vita, questo vuoto ulteriore significano forse una predestinazione alla condanna?

Se qui si tratta, come siamo convinti, di una "struttura" tipica, sia di un uomo che di una situazione, allora un senso c'è e c'è una via che conduce alla salvezza.

Alla "vacuità" è dato il compito di subire la finitezza dell'essere, di sentirne tutta l'impotenza, il non-valore, l'assurdità. Ad essa è imposto di perdere l'illusione di poter contemplare, senza venir meno, il volto svelato dell'esistenza.

'Essa è condannata a non ricever sollievo dalla pienezza del cuore, a non sentirsi irrorare dalle linfe salienti della vita, a non esser sostenuta da nulla di naturale e di spontaneo. Nulla che provenga di là potrà aiutarla a trovare la fedeltà e la fede.

Il prossimo non le è dato immediatamente; essa deve sempre nuovamente ricercarlo nella fedeltà. Dio non le è dato immediatamente; intomo ad essa non sono che cose inanimate e spazi deserti. Perciò essa deve realizzare la nuda fede, ossia accogliere il Verbo predicato e unirsi a lui con un proposito di fedeltà continuamente rinnovato. De-

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ve perseverare, sorretta soltanto — cosa ben difficile a dirsi — da un quid impalpabile, da una fiducia quasi ingiustificabile, dalla presenza, appena avvertita. Dovrà perseverare e servire così di anno in anno. E finalmente la verità, la bontà, la semplicità d'un significato appariranno e saranno scarne e acerbe, ma molto pure. E questa sarà la garanzia che il vuoto sta per colmarsi, che una realtà e una significanza si manifesteranno, al di là di tutto ciò che potremmo chiamare vitalità o psicologia o con qualsiasi altro nome.

Ma se ciò non avviene la vacuità si trasforma nel nulla. È questo l'inizio della caduta. Allora è l'impotenza brutale, lo "strider di denti", l'assurdo spaventoso.

Se poi l'uomo è anche intellettualmente agguerrito, l'obliterazione sarà completa. In questo caso la conoscenza psicologica è così vasta, così universale l'esperienza delle possibili interpretazioni della vita, così sperimentata la raffinatezza che nessun argomento riesce più a convincere. Nulla vale a scuotere quell'indifferenza perché tutto è già saputo, e di tutto ciò che potrebbe esser detto è pronta un'interpretazione diversa. Dio, è vero, ha tutte le vie aperte, ma umanamente parlando un'anima siffatta sembra inespugnabile. In questa esistenza non si può far breccia.

Chiusa però su... niente. "Dietro" non c'è niente, tranne un'angoscia fredda e contratta, senza vie d'uscita.

Certamente la via della conversione rimane aperta fino all'ultimo respiro, ma nel piano del romanzo la visita all'arcivescovo è sentita come la decisione definitiva, di cui tutto ciò che avviene in se-

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guito, fino al suicidio di Stavròghin, non è che la conseguenza.

Studiando la figura di Kirìllov abbiamo accennato alla relazione che passa tra le diverse posizioni del problema esistenziale in Dostojevskij, Kierkegaard e Nietzsche. In particolare abbiamo indicato una precisa corrispondenza fra la figura di Kirìllov e quella di Zarathustra. A proposito di Stavròghin, si potrebbe ora rilevare che esiste un'analoga e altrettanto precisa corrispondenza tra il personaggio di Dostojevskij e certi orientamenti del pensiero di Kierkegaard. Già alcuni tratti nella figura di Kirìllov, ma poi e soprattutto la psicologia e la teologia di quella di Stavròghin sono come la vera incarnazione del più cupo libro di Kierkegaard: II concetto dell'angoscia20. I diversi gradi di angoscia, il processo di obliterazione progressiva, il nulla e il demoniaco risaltano in Stavròghin con una evidenza esemplare. Ma qui non è possibile entrare più a fondo nell'argomento.

Questo è dunque il personaggio intorno a cui gravita il mondo dei Demoni.

Davanti a noi è lo spettacolo di una distruzione senza fine, di una devastazione e di una rovina totale. Forze malvage, orrende, paurose sono all'opera: i demoni. Tuttavia essi non fanno che esplicare ciò che si concentra in un solo. Egli è il maestro. Ma ciò intorno a cui questo mondo si svolge, il centro d'innervazione della sua attività distruttrice è in ultima analisi il nulla,, il vuoto disperato, richiuso su se stesso. Questo è ciò che atterrisce.

L'immagine dell'inferno di Dante sorge davanti

20 11 concetto dell'angoscia e la malattia mortale, sono ti. da C. fabro, Firenze 1953.

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alla mente spontanea. In ogni punto del gigantesco imbuto s'agitano furiosi i diavoli, ma essi a loro volta non sono che gli emissari, le esplicazioni di colui che sta al centro: Lucifero. Questi non si muove, è congelato. Altrettanto è di Stavròghin.

Egli è il più miserabile degli uomini. Si può provare per lui una compassione immensa, nien-t'altro. Ma anche Satana non è certo un titano. Ciò che la nostra epoca — l'epoca del satanismo e dell'inversione dei valori — ha scritto sulla "grandezza del male" non è che letteratura. Satana è l'ingannato per eccellenza, colui che inganna se stesso. È. povero e nudo e non ha proprio niente di grandioso. È il miserabile simius Dei.

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CAPITOLO SETTIMO

UN SIMBOLO DI CRISTO

Chiunque consideri il mondo spirituale di Do-stojevski] dovrà alla fine domandarsi anche quale sia il significato della sua opera religiosa più profonda, il romanzo L'Idiota. Cercherò di dare una risposta e nel farlo prenderò le mosse, forse più di quanto si è soliti, dalla mia personale esperienza di questo libro. Le pagine che seguono diranno in che modo ho cercato di orientarmi. Esse hanno perciò il valore di una semplice ipotesi.

Non si può ritornare agl'Idiota senza sentire la profonda intensità religiosa di questo mondo, paragonabile soltanto a quella che pervade le 'creazioni di Rembrandt. Si avverte, formidabile e penetrante, la presenza di Dio, senza che per altro si parli molto di Lui. Ma Egli è lì presente, vi si leva e domina.

Tutto questo è chiaro ed è chiaro anche che la presenza di Dio si avverte soprattutto nella persona del principe Myskin. La sentiamo al suo contatto, entrando nella sua atmosfera. Ma questo fatto prende l'aspetto di un enigma appena lo si scruti più a fondo. Questo uomo, nel quale si manifesta in tal modo la realtà divina, in che rapporto si trova con Dio, con se stesso, con gli altri uomini? Qui siamo in presenza di un mistero e si sarebbe tentati

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di metterlo da' parte, riducendo tutto alla solita formula, che tuttavia supera la nostra intelligenza, che Myskin è un cristiano di natura speciale, che in lui si manifesta una particolare somiglianzà con Cristo, e richiamandosi alla frase paolina: "Io vivo, ma non io, bensì Cristo vive in me"... Tuttavia, per quanto apparentemente ovvia, questa interpre-tazione è insufficiente. Potrebbe anzi mettere sulla falsa strada. Il principe è un uomo come tutti gli altri. Il vero contenuto della sua esistenza è religioso; è, in fondo, il Cristo, per quanto poco di Cristo si parli e per quanto di rado i pensieri di Myskin o i moti del suo cuore vadano espressamente a Lui. Tuttavia non credo che l'intenzione di Dostojevskij sia stata semplicemente di farci il ritratto di un cristiano, sia pure di un cristiano eccezionale, e questo sembra provato dal fatto che noi sentiamo continuamente la presenza di Cristo, senza che le parole o i pensieri espressi si riferiscano esplicitamente a Lui.

La grandezza di Dostojevskij come creatore di tipi umani è tale che solo lentamente riusciamo a misurarla. Essa appare sempre più incommensurabile a misura che le figure dei suoi personaggi s'illuminano nel loro insieme e nei tratti particolari. È come se a questo scrittore si schiudesse il grembo della realtà e una figura dopo l'altra ne uscisse. Ma più misterioso è forse in lui il potere di evocare nel corso di un vicenda umana figure che sono al di qua, o trascendono o esulano addirittura dall'umano; non però personaggi irreali, disegnati coll'estro di molti romantici, ma uomini veri, solidamente costruiti, determinati nella loro realtà individuale; creature che vivono, agiscono, hanno un

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proprio destino — dalle quali tuttavia si leva l'immagine di un'esistenza che non è più, essa stessa,

•umana 1.

Ecco per esempio Kirìllov affermare che Dio non ha mai cessato di torturarlo; egli sente il dovere di por fine a questa tortura rivendicando per sé il massimo attributo di Dio, la sovranità del volere, e in che modo? Nel modo più terribile: uccidendosi. Ma nell'attimo in cui sta per porre in atto la sua intenzione ecco i suoi movimenti alterarsi: davanti a noi si muove una marionetta. Una forma particolare di esistenza, quella meccanica, che traduce l'uomo in un'astrazione inanimata, appare nel momento della decisione suprema. È un uomo, Kirìllov, ma nella sua figura, nelle sue movenze appare l'immagine della marionetta.

Se poi ci volgiamo a Smerdjàkov, il quarto dei fratelli Karamàzov, per osservarlo più da vicino, vien fatto di chiederci se egli sia veramente un uomo. Che lo sia, in un certo senso, è fuori dubbio:

egli ragiona e parla, si veste, mangia e beve come tutti noi, ha la sua vanità, i suoi segreti e il suo lato sincero. Ma osserviamo certi particolari carat-teristici, straordinariamente impressionanti, la natura ad esempio e la ragione della sua vanità, che esclude ogni riferimento ad altre persone, le sue strane impressioni, i suoi gusti, le sue ripugnanze o la sua logica singolare, o anche la maniera indiretta di osservare e capire senza farsi accorgerò, e ancora la strana, fredda serietà con cui reagisce al-

1 A questo punto si affaccia però il quesito se, in ultima analisi, l'uomo sia « soltanto uomo ». Qui appare l'insufficienza di un umanesimo che voglia restare sempre umanesimo « puro ». « L'homme dopasse infiniment l'homme », ha detto Pascal. Pensées, ed. Brunschvicg, n. 434.

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l'elemento morale o religioso... Dopo aver considerato tutto questo mi parve d'un tratto d'averne trovato la spiegazione: questo essere è un airuna, una mandragola, qualcosa d'intermedio fra la pianta e la mucillagine; un uomo in carne e ossa, senza dubbio, ma nel quale si rivela distintamente quell'altra natura. Non solo per imitazione o "personificazione", ma per emanazione diretta dai tratti, dalle movenze, dal linguaggio...

Qualcosa di simile mi accade, in un senso s'intende ben diverso, per il minore dei quattro fratelli, Aljòsa Karamàzov. La mia attenzione fu destata dal rapporto singolare di questo personaggio con la verità, dal suo modo di dire la verità, non solo per l'intensità ma per l'accento particolare che egli mette nel farlo. Proprio in questo mi pareva consistere il carattere peculiare onde Aljòsa si distacca dal comune degli uomini. Il vecchio Fjòdor lo chiama "il suo angelo", Dmìtrij, il fratello maggiore, "cherubino"; Ivàn, che poi entrerà in contraddizione con Aljòsa proprio sulla linea della divina folgorante verità, fa suo quell'appellativo. Tutto ciò mi ha fatto scorgere anche questa volta l'immagine di una esistenza non umana, quella dell'angelo. E precisamente del cherubino, il cui atto essenziale è conoscenza. Altri esempi del genere mancano. Queste figure sembrano indicarci la via per giungere a scoprire il vero significato àeìì'Idiota.

La personalità del principe Myskin

Per non aver dubbi sulla autentica umanità del principe Myskin, faremo anzitutto un ritratto del personaggio.

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Lo incontriamo subito al principio del romanzo, una mattina fredda e nebbiosa, in una vettura ferroviaria mentre ritorna in Russia dalla Svizzera. Un modesto involto è tutto il suo avere. Del suo aspetto esteriore è detto:

II possessore del mantello col cappuccio era un giovanotto sui ventisei o ventisette anni... di statura poco più che mezzana, con capelli assai biondi e folti, guance infossate e una rada barbetta a punta, chiarissima. I suoi occhi erano grandi, celesti e fissi; c'era nel loro sguardo un che di dolce, ma anche di pesante, colmo di quella strana espressione da cui certuni sanno al primo tratto indovinare in una persona il mal caduco. Il viso del giovane, del resto, era simpatico, fine ed asciutto, ma smorto, anzi in quel momento illividito dal freddo 2.

Della sua voce è detto che era "sommessa e conciliativa" e Rogòzin, il cupo diffidente, gli dirà più tardi: "Credo alla tua voce quando mi sei vicino".

Più volte si sottolineano le sue maniere perfette e la squisita cortesia. Ciononostante manca di disinvoltura in società e sovente è persino imbarazzato e maldestro. Tuttavia le circostanze non lo soppraffanno mai ed egli conserva di fronte ad esse una chiara indipendenza di giudizio. E questo non con uno sforzo particolare, ma naturalmente.

Al principio del racconto, lo troviamo vestito con semplicità, anzi poveramente. Poi egli riceve una grossa eredità e si veste con molta eleganza, ma un po', si aggiunge, come chi si affidi a un sarto troppo premuroso senza aver gusti propri. In fondo, sia la povertà, prima, che l'eleganza del suo vestire, poi, gli sono indifferenti... Pare anzi che

2 L'Idiota, tr. di A. Poliedro, Torino, Einaudi, 1941, p. 4. 271

•gli manchi il senso del possesso. In principio è povero, ma non se ne rende conto, tant'è vero che ride anche lui delle allusioni indelicate dei compagni di viaggio, Rogòzin e Lèbedev, al suo fagot-tino. Riconosce apertamente la sua povertà, si rallegra quando Rogòzin gli promette di aiutarlo, accetta poco dopo senza esitare un prestito di pochi rubli e non gli passa per la mente di abbassarsi facendolo. D'altro lato, la prospettiva di ereditare una grossa sostanza non sembra fargli alcuna impressione. Ne parla solo più tardi e unicamente in relazione a un fatto che l'interessa da un punto

•di vista umano. Egli dona senza contare e riconosce anche le pretese più impudenti. "Sei proprio una santa innocenza", esclama un giorno la generalessa Epàncin, la sua singolare e materna amica. '"Tutti ti ingannano, tu lo sai, e ti fidi ugualmente". Qualsiasi valore umano è per lui infinitamente più importante del denaro; che finisce per non contare più nulla. Il generale, che sa badare così bene ai propri interessi, sarà costretto a definirlo "un nomo perduto".

Nel carattere del principe spicca tra tutte le altre qualità una nobiltà innata. Tuttavia egli non da affatto l'impressione di essere una persona fuori del mondo, anzi, ha il senso della realtà e quando parla è assolutamente degno di tede. Se Aglaja ne fa un Don Chisciotte, è per tutt'altri motivi: è l'insufficienza virile del principe di cui ella vuole vendicarsi, sia pur per proprio tormento.

Myskin è coraggioso. Non temerario, come Sta-

•vròghin, ma intrepido. Lo rivelano due episodi in cui egli interviene in difesa di due donne: la prima volta in casa di Gavrila Ardaliònic, quando prende

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le parti della sorella; la seconda, sulla passeggiata pubblica della stazione balneare, a proposito di Nastàsja Filippovna. In entrambi i casi egli è solo e tutt'e due le volte la cosa finisce male per lui. Ma alla prossima occasione egli lo farebbe ancora. Questa intrepidità è più che l'impavidità di un cuore di ghiaccio:

Vigliacco è chi ha paura e scappa; ma chi ha paura e non scappa non è un vigliacco,

dice egli stesso sorridendo, dopo aver riflettuto. {L'Idiota, p. 366).

Di fronte alla società che è sempre spieiata, egli prende le parti di ciò che è nobile e delicato, di cui il mondo scettico sorride. Questa intrepidità ha carattere metafisico, ed è segno di una missione ma anche di una grande sofferenza.

Egli pure un senso molto affinato dell'onore:

Forse mi sono espresso in modo assai buffo ed ero buffo io stesso, ma mi è sempre parso... di capire in che consista l'onore. (L'Idiota, pp. 175-76).

L'onore, cioè, nella forma più alta, come un impegno verso tutto ciò che è nobile, disinteressato, minacciato.

Egli si fida di tutti e la gente finisce per crederlo un chiacchierone. Ma è l'ingenuità di uno spirito eletto che non può concepire la necessità di essere guardinghi. E che della sua fiducia si abusi sovente e in modo indegno non è per lui un motivo di non concederla di nuovo alla prossima occasione. Essa ha forza creativa.

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Benché egli non "giudichi" mai — come Aljòsa, ma per un atteggiamento diverso dell'animo che è quello di una misteriosa e pensosa umiltà — pure nello stesso tempo ha un senso molto vivo dei valori autentici e dei gradi di differenziazione dell'umano.

Ma soprattutto egli sta in un rapporto molto intimo con la perfezione. I valori d'essa rappresentano un pericolo, sono valori-limite. Essi determinano infatti il suo destino e la sua rovina. Così il suo incontro con Natàsja Filippovna, un essere che per natura vive sotto la categoria della compiutezza totale. Nella esistenza di questa donna tutti i valori appaiono portati a un grado estremo di tensione. Se fosse cresciuta circondata di bontà, rispettata e libera, sarebbe diventata una donna dagli slanci eroici, un'amante dal cuore grande e generoso. Totskij, invece, ne ha distrutto la vita e così, poiché la sua esistenza è determinata dalla legge della pienezza compiuta, la sua rovina è totale. Anche Myskin è ordinato per natura alla compiutezza totale. In questa donna, che vive con lui sotto la stessa legge, bellissima, ma della bellezza delle vicine al tramonto, egli incontra perciò il suo destino: l'amore nato da una compassione che uccide.

Il principe è un sottile psicologo. "Ora osservo molto i visi", dice egli stesso (L'Idiota, p. 77). Egli s'interessa vivamente di tutto ciò che può e-splicare un significato. Caratteristica, a questo proposito, la sua disposizione per la grafologia, più esattamente, per la scrittura antica, di cui interpreta con finezza le sfumature stilistiche (L'Idiota, pp. 55-6). Sa leggere nel cuore di un uomo con un intuito che confina con la divinazione. Questo po-

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tere gli viene dal fatto che al suo sguardo non fa velo alcuna cupidigia ne alcuna ostilità; esso è sempre perfettamente limpido e aperto. Egli non è mai prevenuto verso il prossimo e questi può apparirgli com'è veramente.

Più ancora: gli può apparire nella sua vera natura, mostrargli il lato che di solito rimane nascosto. Per Myskin ogni persona, anche la più umile, rappresenta qualcosa. In ciascuno egli sa trovare dignità e buon volere. Va incontro a tutti fiducioso, senza intenti pedagogia, con grande naturalezza. Vede certamente anche i difetti, le meschinità, le furfanterie del prossimo, ma le accetta con obiettività pacata, molto realisticamente, e la persona sente ad un tratto il sollievo di poter apparire ai suoi occhi nella sua vera natura, senza più bisogno di guardarsi dalla presunzione o dall'ipocrisia d'un giudizio morale, che qui non esiste. D'altra parte non le vien neppure in mente di recitare una commedia o di mettersi in posa perché sa benissimo di non potergli nascondere nulla. Questo fa bene; da l'impressione di esser liberi e veri. Tuttavia in questa obiettività è fatto appello — senza alcun pathos ma con un calmo e certo sublime realismo —a ciò che ciascun uomo è davanti a Dio e lo si aiuta a, riconoscere la propria posizione spirituale, a ritrovare l'unità inferiore del proprio io.

Questo conferisce all'infinita capacità di compassione del principe il suo carattere peculiare. Egli è disposto ad aiutare il prossimo fino all'oblio totale di sé. La sua partecipazione alla vita e alla miseria altrui è così intensa ch'egli ne resta sopraffatto. Questo potrebbe esser segno di passività, uno smarrirsi della configurazione propria nella potenza del-

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l'altrui dolore, anzi quasi un abbandonarsi e. assorbirsi elementare e caotico nel "tu" dietro a cui 'vediamo sorgere un "tu universale", panico. Tanto più quando si aggiunga l'elemento patologico che non mancheremo tra poco di mettere in rilievo. Effettivamente la compassione di Myskin sfiora spesso anche il limite oltre il quale la persona minaccia di dissolversi e di cadere fuori del piano del cristianesimo. Ma lo preserva da questo pericolo la calma aderenza alla realtà. Qui alla sua compassione è dato compiere cose veramente grandi; qui anzi essa si tramuta nella sostanza da cui P "altro" può sorgere e manifestarsi.

Comprensione, disinteresse personale, bontà, sollecitudine, simpatia come sentimento attivo — a queste qualità un'altra si aggiunge che nel carattere di una persona difficilmente coesiste con quelle:

la veracità. La sua presenza in questo personaggio fino a determinarne i moti più segreti da alla compassione di Myskin la sua qualità personale e metafisica.

Quest'uomo però non è verace per il solo fatto di non saper mentire; egli afferma la verità, appena l'abbia riconosciuta, sempre e dovunque, indifferente alle conseguenze che ne derivano. Effettivamente da questa sincerità nascono sovente dei guai molto gravi, ma la verità vuole essere detta ed egli le obbedisce, incondizionatamente.

Myskin è l'ultimo rampollo di un'antichissima casata principesca, legata fin dai tempi più remoti alla storia della Russia. Ma anche di fatto e inte-riormente vi sono in lui tutti i segni dell'estremo momento del declino.

Da un semplice punto di vista biologico si po-

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trebbe parlare di degenerazione. Myskin, sin dalla infanzia, ha sofferto di epilessia. Gli accessi si sono intensificati fino a ridurlo poco per volta alla demenza totale. Dalle sue stesse parole veniamo a sapere che poi egli è stato in Isvizzera dove ha attraversato un periodo difficile, finché tutt'a un tratto le tenebre che l'avvolgevano si sono diradate ed egli ha ritrovato il contatto con la natura e con gli uomini. In seguito, la compagnia dei ragazzi del luogo e di Màrja, la malata — indimenticabile il racconto della sua amicizia con i ragazzi e con la giovane votata alla morte, che tutti evitano! — rinvigorisce la sua salute e il suo animo. Quando poi fa ritorno in Russia per entrare in possesso di una eredità, non è ancora veramente guarito ma in via di progressivo miglioramento. I pochi mesi che se- , guono, durante i quali si svolge l'azione del romanzo, portano però delle emozioni terribili; le crisi ricominciano e con l'ultima catastrofe irrompono definitivamente le tenebre. Nell'epilogo ritroviamo il principe, incosciente e ormai inguaribile, nella casa di salute svizzera donde era partito per tornare in Russia... Un'esistenza minata, dunque, dal punto di vista biologico. Questo fatto è messo crudelmente in luce dal contegno di una giovane donna, Aglaja, che il principe ama, questa volta per sé, per la propria felicità. Ella pure lo ama, con femminile dedizione di tutto il suo essere, ed è poi terribile per il principe quando ella si rende conto, nel suo istinto infallibile, di non poterlo considerare un uomo normale e dapprima vede in lui, inconsapevolmente, un Don Chisciotte, poi lo mette apertamente in ridicolo chiamandolo "il cavaliere povero" e sconfessando così il proprio amore.

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Il principe non è nemmeno armato per sostenere le lotte dell'esistenza quotidiana, gli attriti tra persona e persona, perché le qualità che abbiamo descritte non facilitano certamente la riuscita e l'ascesa. Eppure, ad onta di tutto questo, se consideriamo il lato universalmente umano e non quello fisiologico o economico, non possiamo parlare di degenerazione. Nella malattia di Myskin non c'è traccia di quella cupezza che tanto spesso invade la mente e il cuore di chi soffre gravemente di epilessia. La sua natura è limpida, aperta, generosa. E negli stessi accessi del male egli è rapito come in una estasi alle vette supreme dell'esistenza. Con Ro-gòzin egli parla diffusamente di questi brevi istanti radiosi, traboccanti di vita intensa, di luminosa pienezza. È il morbus sacer, gravido di senso numi-noso, avvolto da misteriose vibrazioni... "Malata", nel vero senso della parola, non ci sembra di poter dire questa esistenza. Uno degli assiomi di una genuina dottrina dei valori vuole che quanto più elevato è il grado di un valore, tanto più debole sia la sua affermazione nel mondo della realtà immediata. L'esistenza di Myskin sembra la dimostrazione pratica di questo assioma: nel suo caso valori'di grado elevatissimo s'incarnano in un'esistenza incapace di affermarsi in questo mondo.

Significato della figura del •principe

Da quanto abbiamo detto sin qui la personalità del principe Myskin esce già più chiaramente delineata. Possiamo ora prendere in esame le situazioni che ci interessano particolarmente: l'immagine dell'uomo ne risalterà con più ricco rilievo.

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Nell'interpretare i momenti successivi di questa esistenza in relazione a un mio particolare punto di vista devo pregare il lettore di seguirmi con pazienza sinché io abbia terminato la mia esposizione. I singoli tratti di essa si integrano reciprocamente. Nessuno, preso per sé, rivela tutto il suo significato e solo nel loro insieme essi parlano con chiarezza. Quando l'esposizione sarà completa, la critica avrà il diritto d'intervenire.

La vita del principe Myskin nei suoi avvenimenti successivi e in quelli ai quali essa è legata, dagli inizi sino alla catastrofe, si presenta come un'autentica esistenza umana; sebbene straordinaria e tale da scuoterei profondamente, essa è pur sempre la vita di un uomo. Ma se cerchiamo di penetrare nell'intimo di questa esistenza, procedendo di episodio in episodio, di avvenimento in avvenimento, avvertiamo subito che tutto — certe corrispondenze inferiori, l'atmosfera, e così pure molti particolari — sembra indicare qualcosa che trascende l'umano. Tutto ha un significato proprio, eppure al di là di questo tutto allude nello stesso tempo a una realtà diversa e più alta.

Quest'uomo esce dall'epilessia, da una notte inaccessibile a chi viva nel sano clima del giorno. E presto vi farà ritorno. Intorno a questa esistenza, simile a una piccola macchia di luce, si distendono tenebre impenetrabili. Da queste egli viene, attraversa la breve zona luminosa e scompare di nuovo nell'inafferrabile... Se sono bene informato, chi ha cercato di spiegare l'epilessia ha visto rivelarsi in essa un'aspirazione inconscia di evadere dal limite dell'esistenza iniziata con la nascita, dal presente, dalla storicità per raggiungere il mistero anteriore alla nascita stessa.

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A questo bisogna aggiungere che Myskin durante la sua malattia ha vissuto con i bambini. Potrebbe trattarsi soltanto di un idillio gentile, nella cui benefica atmosfera la costituzione gravemente scossa del principe ritrova la salute. Ma è qualcosa di più e di diverso. Myskin vive davvero con i bambini, torna fanciullo tra i fanciulli e partecipa alla loro esistenza dall'interno, restando nella loro cerchia. Egli prende i bambini sul serio, non li tratta "da bambini". Per lui il fanciullo è un essere completo e sotto diversi aspetti più profondo dell'adulto:

Al fanciullo tutto si può dire, tutto; mi ha sempre colpito il pensiero di quanto poco i grandi conoscano i fanciulli, quanto poco anche i padri e le madri conoscano i propri figli. Ai fanciulli non si deve nasconder nulla col pretesto che son piccoli e che è troppo presto perché essi sappiano. Che triste e malaugurata idea! E come i ragazzi stessi si avvedono che i padri li considerano troppo piccoli e incapaci di capire, mentre essi capiscono tutto! I grandi non sanno che un fanciullo, anche in un caso difficile, può dare un consiglio di molta importanza. O Dio! quando vi guarda quel grazioso uccellino, con aspetto fiducioso e felice, voi avete pur vergogna d'ingannarlo! (L'Idiota, p. 70).

- Chi conosce bene Dostojevskij ricorderà che nei suoi libri uomini saggi e pii hanno una singolare affinità col fanciullo: così, per non parlare che dei fratelli Karamàzov, lo stàrets Zòsima, padre Anfim, il suo compagno, e Aljòsa, la cui immagine è inseparabile da quella della schiera dei ragazzi. Per questi uomini il fanciullo è un mistero sacro: è la creatura ancora vicina a Dio, in cui sopravvive un po' del Paradiso terrestre. Così, in questo paese di fanciulli donde Myskin è venuto troveremo già un significato più profondo.

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Ascoltiamolo ora tare il racconto della sua partenza:

Seduto in treno, pensavo: « Ora vado verso gli uomini;

non so nulla, forse, ma è cominciata una nuova vita. M£ sono proposto di fare il mio dovere con onestà e fermezza. Fra gli uomini proverò forse uggia e fastidio. Come prima cosa, mi sono prefisso di essere cortese e franco con tutti ».

Qui notiamo qualcosa di singolare. Anzitutto:

"Ora vado verso gli uomini". Poi, due o tré righe più avanti: "Fra gli uomini proverò forse uggia e fastidio". Non par di ascoltare qualcuno che venga da un mondo "di là" dagli uomini? Da un paese che è dei fanciulli, al di là del terrestre affannarsi degli adulti? Non si direbbe che chi parla così viene dal cielo? E ora va "verso gli uomini", entra nella storia, sente il compito di esser vero, di "fare la verità" ed è pronto a compierla nella fedeltà, sapendo di esser solo e di avere davanti a sé una strada difficile. E anch'egli sarà creduto "un fanciullo", ossia uno fatto secondo la logica del cielo e perciò troppo ingenuo, impari alla vita sulla terra.

Certo, nel simbolo dell'epilessia si può anche vedere un tentativo di evadere dall'esistenza autonoma dell'adulto, dalla responsabilità storica, per rifugiarsi in una forma di esistenza pre-personale — così come nella partecipazione alla vita dell'infanzia si può scorgere un segno di infantilismo. E infatti, anche nell'interpretazione che il principe stesso da di questo suo particolare stato d'animo, l'idea del "fanciullo" si associa con un passaggio molto significativo a quella dell'" idiota", di uno stato di demenza e di impotenza in cui il principe era allora realmente venuto a trovarsi a causa della malattia:

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Può darsi che anche qui mi si prenda per un bambino, e sia! Anche idiota mi credono tutti, non so perché, e in realtà un tempo fui tanto malato, che allora ero proprio simile a un idiota; ma ora che idiota potrei essere, quando capisco anch'io che mi ritengono un idiota? Io entro e penso: « Ecco, mi ritengono un idiota, e io invece sono intelligente, e loro nemmeno lo sospettano... ». (L'Idiota, p. 78).

Non è ritratta qui l'immagine di un uomo che sa di essere venuto d'"altrove", di vivere interiormente secondo la misura più alta, di essere, dunque, creatura celeste e insieme è conscio di dar motivo "agli uomini "di sospettare di ciò che vive in lui, motivo, dunque, di "scandalo"?

In tal modo quest'uomo fa il suo ingresso nel mondo ed il mondo non tarda ad accorgersi di lui.

Nella stanza del generale egli vede il ritratto di Nastàsja Filippovna e il suo viso lo colpisce.

« Un viso meraviglioso! — rispose il principe — e son persuaso che il suo destino non è di quelli comuni. Un volto gaio, eppure essa ha sofferto tremendamente, non è vero? Lo dicono gli occhi e questi due ossicini, questi due punti sotto gli occhi, dove cominciano le guance. È un viso- orgoglioso, orgogliosissimo; ma chi sa se è buona? Ah, se fosse buona! Tutto sarebbe salvo! » (L'Idiota, p. 37).

Parole gravide di destino...

Qualche ora dopo egli si avvicina di nuovo al ritratto:

Si accostò a una finestra, dove c'era più luce, e si mise a osservare il ritratto di Nastàsja Filippovna.

Pareva volesse risolvere un enigma che era celato in quel viso e che già dianzi lo aveva colpito. Quell'impressione non lo aveva quasi più lasciato, e ora si affrettava

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come a verificare nuovamente qualche punto. Quel viso non comune per bellezza, e per altro ancora, lo colpì più fortemente di prima. C'era in esso un orgoglio senza limiti e un disprezzo che era quasi odio, e nello stesso tempo un certo che di fiducioso, di meravigliosamente ingenuo:

tale contrasto suscitava perfino, in chi guardava quei lineamenti, un senso di pietà. Quasi insopportabile era quella bellezza abbagliante, quella bellezza del volto pallido, delle guance quasi infossate e degli occhi ardenti:

strana bellezza! Il principe la fissò per un minuto, poi di colpo si riscosse, si guardò intorno, avvicinò in fretta il ritratto alle labbra e lo baciò. Quando, di lì a un minuto, entrò nel salotto, il suo viso era perfettamente tranquillo. (L'Idiota, p. 83).

All'osservazione sprezzante della generalessa che vede in Nastàsja una declassata:

Sì, è bella... molto bella, anzi. Io l'ho veduta due volte, ma solo da lontano. Sicché a voi piace questo genere di bellezza?

egli risponde con un certo sforzo:

— Sì...questo...

— Proprio questo, volete dire?

— Proprio questo.

— Perché?

— In questo viso... c'è molta sofferenza — proferì il principe quasi involontariamente, quasi parlando a se stesso, anziché rispondere alla domanda. (L'Idiota, p. 84).

Più tardi, in casa Ardalionic, il principe, per non assistere a una scena molto penosa, esce dalla stanza e si trova a passare davanti alla porta d'ingresso. Qualcuno suona il campanello, egli apre. Entra Nastàsja Filippovna ed il principe, da lei scambiato per un servitore, nella sua confusione non sa come comportarsi e va ad annunciarla. In seguito, nel

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corso della conversazione, Nastàsja domanda al prin-,cipe perché l'abbia lasciata nell'equivoco.

— Mi sono meravigliato, vedendovi così all'improvviso...

— E come avete fatto a riconoscermi? Dove mi avete veduta prima? Ma davvero, mi sembra di averlo già veduto in qualche posto! E, permettete una domanda, perché poco fa siete rimasto come impietrito? Che c'è in me di pietrificante?

— Su via, su! — continuava Ferdyscènko facendo lazzi: — ma su, dunque! O Signore Iddio, quante cose risponderei io a una simile domanda! Ma via... Sei dunque un allocco, principe!

— Ma anch'io, al vostro posto, potrei dire molte cose,

— e il principe, volgendosi a Ferdyscènko, si mise a ridere. — Poco fa il vostro ritratto mi ha fatto una grande impressione, — seguitò, parlando a Nastàsja Filippovna,

— poi ho discorso di voi con le Epàncin... e già stamane presto, ancor prima di giungere a Piettoburgo, in ferrovia, mi aveva parlato molto di voi Parfèn Rogòzin... Nel preciso momento in cui vi aprivo la porta, pensavo a voi, ed eccovi arrivare.

— Ma come dunque mi avete riconosciuta?

— Dal ritratto e...

— E poi?

— E poi perché v'immaginavo precisamente così... Anche a me pare di avervi già veduta in qualche posto. .:— Ma dove, dove?

— Mi pare di aver già veduto altrove i vostri occhi... ma non è possibile! Ho detto così per dire... Non ero mai stato qui. Forse in sogno...

— Ah principe! — esclamò Ferdyscènko. — II mio se non è vero lo ritiro. Del resto... del resto, lui tutto questo lo dice per innocenza! — soggiunse con rimpianto.

Il principe aveva pronunciato le sue poche frasi con voce turbata, interrompendosi e respirando affannosamente. Tutto in lui esprimeva una commozione straordinaria. (L'Idiota, pp. 109-110).

li breve episodio è denso di una intera trama di 284

significati. Myskin è colpito dalla bellezza di questa donna. Egli sa che la bellezza è una qualità metafisica. Durante la conversazione già citata in casa delle Epàncin il discorso cade sulla figlia minore, Aglaja. La generalessa chiede al principe se egli non ha notato la fanciulla.

— Oh, si, si fa notare. Voi, Aglaja Ivànovna, siete una bellezza straordinaria. Siete così bella, che si ha paura a guardarvi.

— E nient'altro? E le caratteristiche? — insistè la generalessa. ,

— La bellezza è difficile giudicarla; io non ci sono ancora preparato. La bellezza è un enigma. (L'Idiota, p.80).

La bellezza è il modo in cui l'essere appare e parla al cuore con un volto e una voce. Per essa l'essere acquista il potere di destare l'amore e toccando il cuore e il sangue tocca anche lo spirito. Per questo essa è tanto forte. La bellezza domina ovunque incontrastata e conturbante. Ma da che è apparso il peccato, essa ha anche un potere di seduzione che esercita trionfalmente come per un facile giucco perché l'immagine dell'essere bello tocca direttamente il nostro intimo e lo infiamma... Sembra anche che essa sia come dispensata dal dover decidere tra il bene e il male; indifferente e misteriosamente irresponsabile, immeritata e immerita-bile ed in nessun rapporto ne col contenuto concreto, ne col valore dell'essere. In fondo la bellezza dovrebbe esser riservata solo a ciò che è valido, buono e vero, e in un certo senso è proprio così — ma innegabile e inquietante è anche l'altro aspetto della bellezza, secondo il quale non è affatto così, ed essa può risplendere anche nel male, nel disor-

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dine, nell'indifferenza e anzi persino nella stupidità. Che cosa è dunque l'uomo se è possibile una figura come quella di Myrrha Glawicz nel Martin Salander di Gottfried Keller? 3 Qui la bellezza appare come una qualità, come una potenza che nes-sun'idea, nessun merito giustifica, che è semplicemente. In questo consiste la sua sovranità assoluta, ma in questo anche, nell'essere caduto, la sua profonda ambiguità. Ne parla una volta Dmìtrij Kara-màzov:

La bellezza è una cosa tremenda e spaventosa! Tremenda, perché indefinibile, e non sì può definire, perché Dio non ha posto che enigmi. Qui le sponde si congiungono, qui tutte le contraddizioni convivono. Io, fratello, ho ben poca istruzione, ma ho pensato molto a queste cose. Troppi sono i misteri! Troppi enigmi opprimono l'uomo sulla terra... La bellezza! Io non posso soffrire che un uomo, magari di cuore elevatissimo e di alto intelletto, cominci con l'ideale della Madonna e finisca con quello di Sodoma. Ma più terribile ancora è il caso di chi, avendo già nell'animo l'ideale di Sodoma, non ripudia l'ideale della Madonna, e il suo cuore ne arde, ne arde per davvero... No, vasto, troppo vasto anzi, è l'uomo: io lo restringerei. Ci si raccapezza il diavolo, ecco! Quello che alla mente appare come una vergogna è tutta bellezza per il cuore. È forse in Sodoma la bellezza?... È orribile che la bellezza sia una cosa non solo tremenda ma anche misteriosa. Qui il diavolo lotta con Dio e campo della battaglia sono i cuori degli uomini. (I Fratelli Karamàzov, pp. 121-22).

Così parla il violento Dmìtrij. Ma noi pensiamo anche a Macario il pellegrino, e allo stàrets Zòsi-

3 Gottfried Keller (1819-1890), di Zurigo, lirico, romanziere, novelliere; Der grùne Heinrich è romanzo autobiografico, Martin Salander (1886) è il suo secondo romanzo, in cui polemizza contro le storture e degenerazioni della società contemporanea (N. d. t.).

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ma; alla "bellezza intcriore" che è nelle loro anime e nel mondo, come essi lo vedono. Nel loro pensiero la bellezza esprime uno stato di perfezione, un che di celeste e di sacro che appare quando in un cuore che ama la creazione si trova unita con Dio, esprime la trasfigurazione di ogni cosa per virtù dell'amore. Nei discorsi dello stàrets il "bello" non appare soltanto come il più alto concetto riassuntivo di tutti i valori, ma anche come una realtà che comprende la santa verità e il bene 'che "il popolo ha sete di ricevere". Tanti sono i volti della bellezza!... E di nuovo il suo mistero ha nel principe Mysidn una voce diversa, che sembra venire da un tempo anteriore al peccato e tuttavia conosce il peccato. Potremmo forse meglio chiamarla una voce del regno dell'Apocalisse, che canta la bellezza escatologica del mondo riscattato, ma in cui trema ancora un ricordo del passato, della "prima" esistenza, con la sua sofferenza e il suo male...

Subito, al suo ingresso "nella vita",, la bellezza gli viene incontro nella persona di Nastàsja Filip-ppvna e in lei anche il suo destino.

Abbiamo già accennato come sia difficile definire la personalità di Nastàsja. Solo verso la fine ci si rende conto della sua vera natura. Ella esiste sotto la categoria della compiutezza e perfezione. Un giorno il principe le dice: "In voi tutto è perfetto". Detto da lui e quando si pensi alla situazione di Nastàsja, non può essere un puro complimento. Non può nemmeno riferirsi a ciò che in lei è solo esteriore, ma solo a qualche cosa di più profondo. E in un momento di amara disperazione ella raccoglie la frase:

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Forse, per quanto sia una svergognata, ho io pure il •mio orgoglio. Poco fa mi hai chiamato una perfezione:

bella perfezione che, per il solo vanto di calpestare un milione e il tìtolo di principessa, se ne va a finire in una doaca! (L'Idiota, p. 177).

E tuttavia, anche questo avviene per questa legge che la governa. Fin dall'origine e per natura — per una naturale grandezza ch'è in lei — tutto in questa donna è orientale verso la perfezione. Ella non può fare a meno di arrivare in ogni cosa fino alle ultime conseguenze. Quello che ella è, vuoi

•esserlo intieramente è con grandezza e vivere con grandezza e sino in fondo ciò che entra nella sua

•vita. Ella deve attuare intieramente la propria personalità e la forma del proprio destino. Per quanto io sappia, è un caso unico in Dostojevskij e qui sta l'originalità di Nastàsja. Sotto questo aspetto, ella è degna di stare accanto a Myskin che è, lui pure, "unico". Ma appunto per questo le sono già sin

•da principio tracciate le vie che ella può scegliere:

•o una vita piena di grandi cose, seppure pagata a prezzo di profonde sofferenze, oppure, ed è più verosimile in questo mondo non certo orientale verso la perfezione, la rinuncia; oppure ancora, lo sfacelo. Un uomo come Totskij l'ha rovinata. Ella lo odia, ma in fondo il suo odio non va affatto a quel freddo egoista. Non passerà molto tempo ed ella lo disprezzerà solamente, rivolgendo il suo odio — e qui incide la categoria della perfezione — solo contro se stessa. Così ella vive in uno stato di profonda disperazione. Ora, il tipo della sua bellezza rivela nello stesso tempo quel rapporto con la perfezione e questa disperazione.

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Così questa donna tocca il principe Myskin proprio là dove la sua sensibilità si unisce alla sua forza più intima: il suo potere di intensa partecipazione alla vita di un altro essere e alla sua sofferenza. Nasce così un eros di somma profondità, un amore fatto in realtà solo di sofferenza e di un significato tutto metafisico o più propriamente religioso: l'amore di compassione.

Non una compassione nel significato comune, ma la forma originale ed etema dell'eroe. L'amore che nasce davanti alla bellezza che corre alla sua rovina, davanti alla disperazione di un essere che era destinato a esser perfetto. Sotto la prima impressione del ritratto egli dice: "In questo viso... c'è molta sofferenza". E subito segue a questo pensiero una preoccupazione: "È un viso orgoglioso, orgogliosissimo" — sempre la categoria della perfezione — "ma chi sa se è buona? Ah, se fosse buona! Tutto sarebbe salvo!" Consapevolezza dunque di una minaccia incombente di rovina, certezza sollecita di una salvezza possibile purché questa bellezza celi anche della bontà.

In Aglaja, invece, Myskin va incontro alla bellezza in un altro modo, con un personale desiderio di felicità. Ma — qui è il dramma doloroso — questo desiderio, da lui stesso sentito come impossibile, non osa quasi manifestarsi e finisce per essere infranto dalle forze congiunte della sua missione e della realtà...

Forse non occorre dire di più e basta una semplice riflessione per convincersi che nel rapporto in cui Myskin si trova con Nastàsja è racchiuso un altro simbolo. Questa compassione per una creatura che, creata per esser perfetta, si è poi perduta, com-

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passione non voluta per decisione morale ma irrompente dal cuore così impetuosa da determinare per l'amore che essa suscita il destino di Myskin, è simbolo del Redentore.

Ma c'è altro da aggiungere.

Ricordiamo il primo incontro avvenuto tra Na-stàsja e Myskin in una riunione di gente e come, ascoltando le parole di Ferdyscènko e le risposte di Myskin, queste persone ci sono apparse per così dire divise in due piani nettamente distinti: più vicino a noi la realtà empirica; dietro a questa, presente eppure come perduto in una lontananza essenziale, quel reame dove Myskin e Nastàsja "si sono già veduti".

Reame eterno, dove ha avuto luogo un incontro "etemo"4. Al momento dell'incontro attuale, storico, si rivela qualche cosa di eterno. I due non si ricordano soltanto di un fatto già avvenuto nel tempo, ma intuiscono la partecipazione ad un'esistenza che è senza tempo ma in cui è racchiuso il senso di tutto ciò ch'è temporale. Nell'incontro temporale affiora l'essenza di ciò ch'è proprio all'al-.tra sfera.

Nastàsja ha "già veduto" il principe, ma non sa dove. Non sa di vedere in lui la somiglianzà col Cristo e che tutto quello che in lei anela alla redenzione riconosce in eterno in lui il Salvatore:

"in eterno", non come misura di tempo e di durata, ma come qualità dell'esistenza ricevuta da Dio. Non sa che nell'attimo in cui lo scorge nel tempo, ne ha una consapevolezza "eterna". Ma anche Myskin

4 Può qui apparir chiaro che cosa significhi l'Idea platonica e non solo questo.

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porta in sé il senso di un incontro etemo. Egli ha visto Nastàsja nel tempo, un momento fa, ma in questo istante si ridesta nella sua coscienza temporale quel momento "eterno" ed egli la scopre nel-l'"eternità" della propria missione.

Egli è soltanto un uomo, ma da tutto il suo essere traspare l'immagine di un'esistenza che è più di quella di un uomo: l'esistenza del Redentore.

Del disinteresse e della forza di compassione del principe abbiamo già parlato. Vediamone ora un esempio. In casa Ardaijonic è scoppiata una lite violenta fra Gavrila e sua sorella Barbara.

A Ganja si annebbiò la vista e, perduto il dominio di sé, con tutta la sua forza, egli akò il braccio sulla sorella. Il colpo le sarebbe sceso inevitabilmente sul viso. Ma d'un subito un'altra mano fermò in aria il braccio di Ganja.

Tra lui e la sorella stava il principe.

— Smettetela, basta! — disse recisamente, ma tremando tutto anche lui, come per una scossa troppo violenta.

— Ma mi attraverserai in eterno la strada, eh? —5 urlò Ganja, lasciato il braccio di Varja, e con la mano tornata libera, al colmo della furia, diede uno schiaffo al principe con quanto impeto aveva...

Il principe impallidì. Fissò Ganja negli occhi con uno sguardo strano e pieno di rimprovero; le sue labbra tremanti facevano sforai per dire qualcosa, e le storceva uno strano sorriso, del tutto fuor di luogo.

— Ebbene, a me sia pure... ma a lei... non permetterò!... — disse infine, piano, ma a un tratto non resse più, lasciò Ganja e, copertosi il viso con le mani, se n'andò in un angolo, si mise col viso verso il muro e con voce rotta proferì:

— Oh, come vi vergognerete della vostra azione! Ganja infatti era come annientato. Kolja corse ad abbracciare e baciare il principe; alle sue spalle si strinsero

5 Tra i due è già apparso un profondo contrasto d'idee. Più esattamente, Gavrila s'è già urtato in Myskin.

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Rogòzin, Varja, Ptitsyn, Mina Aleksandrovna, tutti, perfino il vecchio Ardaliòn Aleksàndrovic.

— Non è nulla, non è nulla! — mormorava il principe, volgendosi da tutte le parti, sempre con quel sorriso fuor di luogo.

— E si pentirà! — gridò Rogòzin. — Ti vergognerai Gan'ka, di avere offeso una simile... pecorella! — egli non seppe trovare un'altra parola. — Principe, anima mia, lasciali stare; sputaci su, andiamo! Vedrai come sa voler bene Rogòzin! (L'Idiota, pp. 121-122).

Per un sentimento naturale di cavalleria, il principe ha preso le parti della ragazza e ha ricevuto uno schiaffo in presenza di tutti. Secondo la logica del sentimento, la tensione del suo animo dovrebbe sfogarsi in uno scatto d'ira verso l'offensore. Invece l'affronto fa affiorare una regione molto più profonda del suo essere. Anzitutto un sentimento d'umiltà: "Ebbene, a me sia pure". — Ma poi egli sente tutta la terribile situazione dell'uomo che l'ha offeso e, dimentico ormai di se stesso, s'immedesima nell'infelicità del suo offensore... Qui non è certo il caso di parlare di vittoria su se stesso. Non ce n'è stato neppure il tempo. E nemmeno si rivela qui una forza di autocontrollo acquisita con lunga disciplina. Qui parla l'intimo essere del principe e proprio nella sorpresa esso si tradisce. Tuttavia non si tratta, è bene ricordarlo, della mancanza di amor proprio di un essere debole e malato, poiché il principe ha dato prova della più cavalieresca fermezza. Qui si schiude piuttosto, sotto l'urto della sorpresa, qualcosa di molto profondo e Rogòzin ne da la spiegazione: "Ti vergognerai, Gan'ka, di avere offeso una simile... pecorella! (egli non seppe trovare unaltra parola)". Rogòzin non conosce la portata delle sue parole. In esse affiora l'im-

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magine dell'agnello, "che toglie i peccati del mondo".

Ma è necessario ritornare sull'episodio.

Il principe impallidì. Fissò Ganja negli occhi con uno sguardo strano e pieno di rimprovero; .le sue labbra tremanti facevano sforzi per dire qualcosa, e le storceva uno strano sorriso, del tutto fuor di luogo.

Questo sorriso fuor di luogo!... Il sorriso "enigmatico" che presto ritroveremo.. Vorrei inserire qui una mia esperienza personale. Per molto tempo il Vangelo di san Giovanni mi è rimasto inaccessibile perché non riuscivo a spiegarmi in che modo vi si esprimesse il pensiero di Gesù. Leggevo le domande rivolte a Cristo e non capivo il nesso fra queste e la risposta. Mi urtavo sempre in un "poiché" che mi pareva non spiegasse nulla. Ma un giorno mi accadde di leggere L'Idiota e incontrai la figura del principe Myskin. Mi parve allora di scorgere nel suo atteggiamento qualche cosa che ricordasse il Cristo giovanneo e d'un tratto mi fu chiara l'importanza del "piano" per la strutttura di una situazione e il suo retto intendimento. Mi parve di capire che, a formare una situazione, concorrono rapporti tra cose e avvenimenti ordinati su piani diversi, i quali si differenziano a seconda dell'importanza e dell'accessibilità delle sfere dell'essere e della persona, in cui quei rapporti hanno luogo. I piani di una situazione possono avere perciò "giacitura" diversa, e alcuni trovarsi molto in avanti, altri invece, dietro di essi e via di seguito fino ai più lontani e ai più profondi. Tanto più facilmente potranno capirsi due uomini che s'in-

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centrano, quanto più vicini saranno i piani sui quali essi esistono e dai quali si parlano. Se ora qualcuno intervenisse in una situazione da un piano situato molto profondamente "all'interno", o molto lontano "all'estemo", i suoi "perché" e "a qual fine" corrisponderebbero tanto poco a quelli degli altri uomini da fare apparire il suo contegno facilmente strano o irragionevole. Se poi qualcuno si trovasse, nell'essenza del suo pensiero e della sua coscienza, veramente su un piano assoluto, nell'eternità, nella volontà di Dio, molto probabilmente farebbe l'impressione di un essere incomprensibile. Ma poiché nello stesso tempo si sarebbe costretti a ricono-scersi in presenza di qualcosa di grande che potremmo chiamare purezza, nobiltà, forza, santità ecc. avverrà che quel senso di stupore e di incomprensione, se il cuore non si apre all'umiltà e all'amore, si trasformi in irritazione, in ribellione, in odio. E sarà allora lo scandalo, fenomeno biblico, elementare. Ora, proprio sotto questo aspetto ci appare il Signore nel Vangelo di san Giovanni.

La stessa impressione si prova, mi sembra, davanti alla figura del principe Myskin. Egli vive di momento in momento nella situazione, ma non vi si smarrisce. Parla ma la sua voce viene da un piano molto più lontano e più profondo di quelli ove vivono gli altri. Agisce, ma i suoi atti seguono una via che semplicemente incrocia, non scorre entro la situazione. E così egli non può esser capito da quelli che vivono nei piani più esterni. Egli è uno straniero in mezzo a loro e quel sorriso lo dice.

Il sorriso, una cosa tanto semplice, è però uno dei più intensi mezzi d'espressione. Tutto il problema dell'uomo si potrebbe riassumere nella do-

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manda che cosa voglia dire sorridere... Qui il sorriso rivela l'esperienza di un uomo che da un piano di eternità ch'è il suo viene sbalzato nella meschina realtà di un questo ambiente, dalla sfera sublime ove è valido soltanto il volere divino passa a un piccolo mondo governato dall'incertezza e dalla confusione e dalla pura intelligibilità alla stolta presunzione di questa gente medicete, e con tutto questo non riesce a capire se stesso ma sa soltanto che così deve essere.

Che cos'è lo "scandalo" nel significato che il Nuovo Testamento da alla parola? Esso non consiste certamente nel fatto che la pura plenitudine del Vero e del Bene sia apparsa nel mondo agli uomini e questi nel loro pervertimento, nella loro insofferenza e nel loro accecamento le abbiano chiuso il loro cuore. Le cose nella realtà non sono così semplici. Certamente la verità divina e l'eterno amore sono apparsi viventi con Cristo, ma "in figura di servo", ossia come parola e azione umana. Di fronte ad essi perciò non si risveglia soltanto una ribellione all'esigenza divina, già latente nell'uomo, e nemmeno solamente l'irritazione contro l'essere personale che pretende d'incarnare quella verità e quell'amore. C'è di più. L'apparente oscuramento della luce divina nella concezione terrena e l'imprigionamento della significanza, dell'intelligibilità divina, libera ed infinita, nei limiti temporali e spaziali della realtà storica, fanno sentire l'urgenza di preservare il logos di Dio nella sua libertà ed assolutezza. Questo bisogno si unisce a quella ribellione e questa si sente per ciò stesso legittimata. Lo scandalo è appunto il rifiuto, opposto per seri motivi, di riconoscere il messaggio divino, il ri-

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fiuto del valore sommo fatto nel nome di valori autentici, ma certo inferiori.

Questa situazione di scandalo affiora a più riprese in tutto il romanzo. Intorno al principe è un continuo raccogliersi di persone che si sentono attirate da lui. Vicino a lui esse provano un senso di benessere, si sentono capite ed incoraggiate verso ciò che hanno in sé di migliore. Una compassione che non vien mai meno, una fiducia che non si sente mai delusa, una sollecitudine sempre viva le accoglie. Essi avvertono una presenza misteriosa che le scuote nell'animo, eppure... ad ogni istante sale loro alle labbra una parola: "idiota". Non è una cosa strana? Molte persone sono riunite e Myskin si trova subito senza volerlo al centro della loro attenzione. Tutti lo ascoltano, tutti son costretti a riconoscere che in ciò che egli dice è un profondo significato, sebbene egli stesso non dia mai molto peso alle sue parole6; la conversazione continua ma tosto l'irritazione latente nei suoi ascoltatori esplode ed egli viene naturalmente a trovarsi dalla parte del torto. Tutti sono convinti che egli abbia torto, e in un certo senso lo è anche lui,, per lo meno accetta con molta semplicità che la cosa sia vista così, appunto perché è inevitabile. ' Come se il male che si nasconde dappertutto fosse costretto in sua presenza a scoprirsi, e in lui "si manifestasse il cuore degli uomini".

E come tutta la sua esistenza giustifica lo scandalo! Ciò che egli fa, è infatti veramente "folle". Tutti sono delusi di lui. A nessuno egli sa dare un

6 Egli sa tuttavia di vedere più giusto degli altri, sa che gli uomini farebbero bene a seguirlo. Interrogato dalla generalessa su questo punto, lo ammette con franchezza.

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vero aiuto. Egli stesso vede crollare tutto intorno a. sé e dopo pochi mesi rientra nella notte, là donde era venuto. È già stato osservato che la forma dì questo romanzo suggerisce l'immagine del vortice. Non la linea, non la trama che si distende con armoniosa regolarità, ma il gorgo che dopo aver ghermito la preda la volge in un giro vorticoso, la stritola e l'inghiotte. Tuttavia è la forma che conviene a questa vita. È l'immagine dell'esplosione elementare con la quale il mondo reagisce a questa esistenza: lo scandalo al suo parossismo.

Ogni pagina del Nuovo Testamento ci dice come lo scandalo sia legato all'esistenza di Cristo. Quando gli inviati di Giovanni vanno da Lui a domandargli: "Sei tu dunque Colui che deve venire o ne dobbiamo aspettare un altro?", Egli risponde: "Andate a riferire a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono e la buona novella è annunciata ai poveri. E beato colui che non si sarà scandalizzato in me". Alla domanda rivoltagli, Egli risponde dunque con la parola messianica del profeta che ora si è compiuta nei fatti e nei segni. Ma subito aggiunge:

"Beato colui che non si sarà scandalizzato in me". Questi è dunque grande e degno di lode, perché il pericolo di scandalizzarci in Cristo ci è dato ineluttabile e urgente nella esistenza stessa di Lui ed è difficile non soccombervi. Nella persona stessa di Cristo, nel fatto ch'Egli è uomo si offrono le "obiezioni" alla sua divinità. Proprio il segno più grande dell'amore di Dio, l'aver assunto la "forma di servo", sembra escludere la presenza essenziale e personale dell'Amore di Dio nel Galileo: "Non è

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questi il figliuolo del falegname?". Perciò la sua vita rappresenta una continua provocazione di questo scandalo, finché Egli vien punito, con ricorso a tutto l'apparato dell'ordine e del diritto, per aver preteso di esser ciò che Egli è. Tante sono le ragioni che militano contro di Lui, ch'Egli può esser rivelato solo "ai piccoli e ai bambini privi di ragione" che nulla sanno di "ragioni" e "ai pubblicani e alle peccatrici" i quali, per la condanna che pesa su di loro da parte dei saggi e dei provveduti, dei conformisti sociali e dei benpensanti, sono dispensati dal pronunciare per conto proprio un verdetto di condanna.

L'episodio che chiude la prima parte del romanzo mostra come dall'esistenza di Myskin siano esclusi tutti quei princìpi in cui ha fede il mondo.

Dopo aver lasciato Totskij, Nastàsja ha vissuto per alcuni anni lontana dalla società. Ora si trova a dover prendere una decisione: o sposare Gavrila Ardalionic e restare così alla mercé del generale Epàncin, o seguire Rogòzin. Ma questo vorrebbe dire gettarsi in un baratro. Myskin capisce il dramma -di. questa donna e chiede la sua mano, dicendole nello stesso tempo di essere in attesa di una grossa eredità che lo farà ricco:

— Nastàsja Filippovna, — disse il principe piano e quasi con un senso di pietà, — poco fa vi ho detto che il vostro consenso lo riterrei un onore e che siete voi a fare un onore a me e non io a voi. A queste parole avete sorriso, e anche qui intorno ho sentito ridere. Forse mi sono espresso in modo assai buffo ed ero buffo io stesso, ma mi è sempre parso... di capire in che consista l'onore e son sicuro di aver detto il vero.

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L'emozione suscitata da queste parole è enorme. Sentiamo aprirsi in mezzo ai presenti una solitudine nella quale i due si stanno di fronte: Myskin . e Nastàsja si guardano. Ciascuno legge nel cuore dell'altro. Essi non sono più lì, ma infinitamente lontani da tutti e la volgarità degli astanti lo fa risaltare con un'evidenza quasi intollerabile:

— Voi siete orgogliosa, Nastàsja Filippovna, ma forse siete già infelice a tal punto da credervi veramente colpevole. Bisogna avere molte cure per voi, Nastàsja Filippovna. E io le avrò. Dianzi, vedendo il vostro ritratto mi è sembrato di riconoscere un viso noto. Mi è subito parso che voi mi aveste già chiamato... Io... io tutta la vita avrò stima di voi, Nastà-sia Filippovna, — concluse a un tratto il principe come tornato subitaneamente in sé, arrossendo e riflettendo davanti a che sorta di gente dicesse tutto ciò. (L'Idiota, p. 176).

Tutti sentono quello che c'è di insolito in Myskin:

egli sa ciò che gli altri non sanno, ha potere sopra le anime e gli uomini nella sua vicinanza si trasformano. Ma Nastàsja, che lo sa molto più degli altri, dice una cosa assai significativa — la dice nel momento in cui, misurando nella sua disperata sofferenza chi egli sia, lo lascia perché non crede di avere il diritto di appartenergli: "Addio, principe, per la prima volta ho veduto un uomo".

Tutta l'impressione che fa la natura singolare di Myskin si riassume in questo, che egli è "un uomo". La cosa più straordinaria che si dica di lui è di essere ciò che tutti si credono: un uomo. E noi pensiamo a Colui che essendo il figlio di Dio si è detto "Figliuolo dell'uomo". Tanto miserabile è la condizione dell'uomo e così divinamente grande ciò che si voleva fare di lui, che possiamo dire:

solo Dio riesce ad attuare la pura umanità. Essere ve-

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ramente uomo non è cosa naturale, non è un punto di partenza ovviamente dato. Con le sole forze umane è cosa inattuabile. L'"uomo umano" è un'ideologia. Il vero uomo non ci può venire che da Dio. "Figlio di Dio" e "Figlio dell'uomo" sono i due modi in cui si esprime nel Nuovo Testamento la esistenza del Redentore.

Di tutti i personaggi del romanzo fa degno riscontro a Myskin, per quanto sappiamo fin'ora, soltanto Nastàsja Filippovna, forse la più profonda raffigurazione poetica della magna peccatrix del Nuovo Testamento. Ma ce n'è un altro; è l'uomo che ama Nastàsja di un amore tale che si direbbe che la natura stessa ami in lui: la terra nella sua ottusità, e l'abisso ardente del vulcano e la tempesta negli spazi. Quest'uomo che incontriamo nelle prime pagine del romanzo in viaggio verso Pietroburgo in compagnia di Myskin e sebbene si prenda giucco del principe è subito toccato dalla singolare natura di questi, quasi si sentisse legato a lui non da un rapporto qualsiasi ma da una vera e propria affinità segreta, si chiama Parfèn Semjonovic Ro-gòzin.

È un uomo strano, terribile e commovente insieme. Non credo che ne! mondo di Dostoj'evskij vi sia chi gli somigli. Pare un essere ancora legato alla terra, come le statue incompiute di Michelangelo, i cui corpi sembrano lottare per svincolarsi dalle pietre e ne rimangono tuttavia prigionieri.

Rogòzin è intelligente ma la sua mente è come legata. Dice egli stesso : "io non ho imparato niente". Si presenta come un "contadino sudicio" con le unghie mal curate e gli stivalacci infangati, un enorme brillante al sudicio dito della mano destra

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e una spilla da cravatta impossibile. Ma egli ha la stoffa di quelli che vivono su un piano assoluto. Viene da una famiglia segnata nel carattere da una cupa malinconia. Suo padre, un membro della setta degli skops, abitava una casa massiccia e tetra ch'è tutta un succedersi di stanze e corridoi. Della sua dolce sposa ha fatto una schiava e' noi la incontriamo ormai vecchia e non più interamente in possesso delle sue facoltà mentali, ma come cinta da un'aureola di santità nel momento in cui Parfèn le conduce il suo amico. Il vecchio è stato un commerciante abile e uno spieiato usuario e ha ammassato enormi ricchezze. A Parfèn, il figliuolo, Nastàsja dirà che il padre rivive in lui e che anche su di lui pesa la minaccia di soccombere all'oscura potenza del denaro. Questo è vero, ma lo stesso uomo è anche capace di sprecare centinaia di migliala di rubli per soddisfare la sua passione. Quando Nastàsja getta nel fuoco il pacco dei biglietti di banca, esulta: "Ecco, da vera regina... Così facciamo noi!"

Tutto in lui è legato, asservito alle forze della terra. Ma l'amore potrebbe liberarlo ed egli sarebbe allora capace di qualsiasi ardimento e di tutte le bontà. E l'amore viene. Lo colpisce come la folgore al primo incontro con Nastàsja Filippovna e non lo lascia più; simile a un terremoto che sconvolge un paese e lo trasforma per sempre. È un amore che vuole tutto, senza. riserve. Schiavo anch'esso delle forze della terra, intollerante e brutale. All'inizio del romanzo, mentre Myskin contempla il ritratto di Nastàsja, Gavrila chiede a bruciapelo:

"E Rogòzin, la sposerebbe?" Myskin, risponde:

""Quanto a sposarla, credo che la potrebbe sposare anche domani; la sposerebbe, ma dopo una

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settimana sarebbe capace di scannarla". Rogòzin ama Nastàsja di un amore che è tutto una tortura. Questa passione è così unica., incondizionata ed esclusiva da non poter sopportare la propria violenza e doversi volgere necessariamente contro se stessa. Essa deve trasformarsi in tortura per l'essere che ne è l'oggetto poiché non gli lascia nulla, ne personalità, ne vita inferiore, ne libertà, ne pace. Nessun essere umano potrebbe sopportare una passione simile, tanto meno una Nastàsja Filippovna. E poiché dovrà per forza ribellarsi, essa l'annienterà..

Inoltre Rogòzin sente di essere "soltanto un contadino". Sente qualcosa in sé che lo lega alla terra, forse persino una "bassezza", che si esprime nel sorriso sfrontato, sicché guardandolo si resta colpiti dal contrasto tra la parte inferiore del viso e la fronte nobilmente modellata. Perciò egli in cuor suo non crede affatto che Nastàsja lo possa amare e questo fa sì che fin dal primo istante si aggiunga il tormento della gelosia. Una gelosia mai placata, muta e terribile come il suo amore.

Nell'amore di Rogòzin c'è una minaccia di morte. Umanamente parlando, è fatale che questo amore porti là morte alla donna che ne è l'oggetto. E anche per Rogòzin sarà la morte.

Quest'uomo ha capito l'anima di Myskin. I legami si stringono fin dal primo incontro. E quando il principe interviene in difesa della sorella di Gavrila e riceve lo schiaffo, Rogòzin pronuncia la parola rivelatri-ce: "Ti vergognerai, Gan'ka, di aver offeso una simile... pecorella! — (egli non seppe trovare un'altra parola). — Principe, anima mia, lasciali stare; sputaci su, andiamo! Vedrai come sa voler bene Rogòzin!". Egli ha conosciuto Myskin esistenzialmente e gli ap-

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partiene. Ma come un essere sotterraneo può appartenere a una creatura di luce. Sono grandi tutt'è due, ma uno sta nella terra, l'altro nella luce. Ed egli è costretto a vedere come Nastàsja ami il suo amico, con tutto ciò che vi è in lei di più profondo, com'ella disperi di poter esser sua e perciò corra da lui, Rogòzin, come un disperato senza scampo cerca la morte. Ma che anche Nastàsja lo ami, questo davvero non può fargli piacere.

Anche tra quest'uomo e Myskin vi sono rispondenze profonde. Nastàsja è l'essere umano non riscattato, che vive sotto la categoria della perfezione. E poiché è donna, dev'essere bella, di quella bellezza che suscita l'amore doloroso di compassione. In Rogòzin che è uomo la stessa condizione si rivela come una forza possente, capace di qualunque atto di coraggio e di bontà, ma chiusa, prigioniera, vincolata alla terra, tale che il suo amore non può che significare la morte dell'essere amato.

Non credo vi siano parole di più cupa e bruciante passione di quelle che esprimono ciò che sta accadendo tra Nastàsja e Rogòzin nel racconto che questi ne fa all'amico nella sua tetra dimora.

Rogòzin ha capito Myskin e lo ama. Ma verso di lui porta anche la gelosia e un senso terribile d'umiliazione. Non soltanto perché Nastàsja lo ama ma perché egli è nella luce, mentre lui, Rogòzin, è nelle tenebre.

Ciò che si addensa in queste tenebre appare poi nel simbolo del coltello. È un coltello da giardiniere che Rogòzin ha comprato "per caso" e messo in un volume di storia della Russia che Nastàsja gli ha consigliato di leggere — nell'unico momento in cui l'ha trattato con stima e amicizia ed egli potè sentirsi "un uomo"... — il coltello che il principe, per un oscuro

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presagio, del subconscio, cerca nelle vetrine dei negozi... col quale 'Rogòzin attende il principe dopo che questi, nonostante la sua promessa, è andato a trovare Nastàsja... .il coltello, infine, di cui si servirà per uccidere Nastàsja quando la tensione sarà giunta al punto da non lasciargli scorgere altra via uscita.

Qui s'inserisce anche la misteriosa tentazione e la

•colpa di Myskin.

Tutto il romanzo è percorso da una cupa eco di morte. Subito in principio, nell'anticamera del generale, Myskin parla dell'esecuzione di un condannato e del modo come questi vive gli ultimi istanti prima della fine. Ne riparla poi più tardi, quando è ricevuto dalla generalessa e dalle sue tré figlio. Si è detto che questo racconto non ha nulla a che fare col romanzo; Dostojevskij l'avrebbe inserito per narrare quello

•che egli stesso aveva provato nei terribili istanti che precedono l'esecuzione. Ma non si tratta di questo. L'immagine della morte doveva piuttosto sorgere accanto alla figura del principe appena questa avesse cominciato a prendere un certo rilievo. Myskin si trova a un limite; davanti a lui è la morte. Diremo più avanti che cosa significhi questa morte.

' Un'esistenza come questa di Myskin è soggetta a molte tentazioni. La più forte è quella di oltrepassare quello stesso limite, di cedere all'attrazione dell'abisso. Quale fu realmente la tentazione di Gesù quando Satana lo condusse sui fastigi del tempio e gli gridò di gettarsi in basso? Non fu, certo, di compiere un miracolo vistoso! Satana è più sottile e più sottile era la sua intenzione. Questa tentazione solo "uno spirito altissimo, poteva provarla; alla sua origine era l'attrazione dell'abisso, e su di essa l'allusione

•alla protezione degli angeli non cercava che di

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stendere un velo. L'immagine di questa tentazione ritorna, singolarmente dissimulata, quando Myskin, col sentimento di cedere a una potenza oscura, prima incoscientemente, poi sempre più consapevolmente, si mette a cercare il coltello e in seguito va a trovare Nastàsja, sebbene abbia promesso di non farlo... In fondo egli non cerca affatto Nastàsja, ma quello che inevitabilmente lo attende, se andrà da lei: il coltello di Rogòzin. Ma la tentazione è dissimulata, è dissimulata ancora dietro la pietà ch'egli prova per Nastàsja.

Myskin soccombe e si rende colpevole. Per questo avviene il fatto terribile che Rogòzin, col quale egli ha "scambiato la croce", alza contro di lui il coltello. Una colpa velata, piuttosto una mancanza di vigilanza e di fermezza — là però dove essa non sarebbe mai dovuta accadere, nel cuore stesso della sua missione. Il fatto però che Myskin "cada", che egli fallisca proprio là dove Cristo rimane vigile e assolutamente inattaccabile, sarebbe un'idea troppo personale, un'ipotesi costruita per partito preso, interpretarlo come un segno della pietà religiosa di Dostojev-skij? Il quale, conoscendo i limiti «imposti dal rispetto dovuto a Dio, nel narrare simbolicamente quella storia santissima come storia d'un uomo, la racconta a questo punto come una sconfitta e non come una vittoria, affinchè tutto l'onore rimanga a Dio?

Resta ora da interpretare la prova più dura di questa esistenza.

Myskin è andato a trovare il suo amico e questi gli ha parlato del tormento che avvelena il suo amore per Nastàsja. Sentiamo tutto il peso di questa sofferenza nell'ultima domanda di Rogòzin:

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— Che pensi di tutto questo. Lev Nikolajevic?

— E che ne pensi tu stesso? — domandò a sua volta il principe, guardando tristemente Rogòzin.

— Ma io penso forse? — sfuggì detto a quello. Voleva soggiungere altro, ma tacque, preso da un'angoscia senza scampo (L'Idiota, p. 219).

Il racconto prosegue... Appare la fosca immagine del padre di Rogòzin, incarnazione delle peggiori inclinazioni del figlio, e noi sentiamo che a questi non sarà dato farsi strada fino alla luce. Egli conduce il principe dalla vecchia madre, ormai debole di mente, ma tutta piena della presenza del divino. Le ha già condotto Nastàsja e questa si è lasciata benedire da lei. Ora le porta il suo amico, quasi volesse preservarlo da una oscura minaccia. Finalmente, attraverso stanze e corridoi, si dirigono verso l'uscita. Passano davanti a un quadro, la deposizione dalla croce di Hans Holbein, ove s'esprime in tratti tanto intollerabili l'orrore della crocifissione e ciò ch'è più sacro appare calpestato e avvilito da una furia annien-tatrice. Si svolge qui un dialogo singolare:

— Sai, Lev Nikolajevic, da un pezzo lo volevo domandare: credi in Dio sì o no? — riprese a dire Rogòzin, fatti alcuni passi.

— Che strano modo di far domande e... di guardarmi! — osservò involontariamente il principe.

— Mi piace guardare quel quadro, — mormorò, dopo un po' di silenzio, Rogòzin, come se avesse già dimenticato la sua domanda.

— Quel quadro! — esclamò il principe, colpito da un pensiero subitaneo: — quel quadro! Ma quel quadro a più d'uno potrebbe far perdere la fede!

— Si perde anche quella, — confermò in modo inaspettato Rogòzin. Erano intanto arrivati alla porta d'uscita.

— Come? — e il principe si fermò di botto. — Che dici? Io ho quasi scherzato, e tu lo dici così seriamente! E perché mi hai domandato se credo in Dio?

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— Così, per niente. Già prima tè lo volevo domandare... (L'Idiota, pp. 225-26).

Passo, questo, di difficile interpretazione e che

lascia un'impressione quasi indefinibile. "Già prima" Rogòzin voleva chiedere all'amico se questi crede in Dio... Non è forse strano chiedere a un uomo in cui si manifesta ed agisce una formidabile presenza religiosa, se egli crede in Dio? E non è ancora inconcepibile il modo in cui Myskin reagisce alla domanda? Egli in fondo non da una risposta, ma si limita a dire cose profonde sul "sentimento religioso" e a raccontare due storie singolari, dalle quali si può dedurre che il fenomeno religioso nella sua essenza sta al di là di qualunque dottrina teorica e persino al di là dell'azione morale. Che vuoi dire questo? Vorrei solo spiegare quello che mi par di vedere nell'atteggiamento più intimo del principe.

In questa esistenza è presente Dio. Egli è sentito nell'atmosfera che l'avvolge e negli atti che la manifestano. Questo è sicuro. Ma se "credere in Dio" ha lo stesso significato che noi intendiamo dicendo di noi stessi che crediamo in Dio — allora non sembra che Myskin creda "in Dio". "Credere" può infatti soltanto chi in qualche modo stia "di fronte" a Dio, non chi nel suo stesso esistere procede da Lui. Ora qui sembra proprio verificarsi in un certo senso qualcosa di simile. Analizzando l'atteggiamento di Myskin, noi ci accorgiamo che egli non sembra stare di fronte a Dio ma venire invece da Lui e, più che parlare di Dio, sembra irraggiarlo. Per Myskin il problema di Dio non consiste, si direbbe, nel modo come a Lui si pervenga o come in Lui ci si conservi, ma come si possa, venendo da Dio, sopportare fino all'ultimo il fatto di entrare e di muoversi in un mondo di tene-

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bre e di peccaminoso indurimento, assai diverso da Dio.

Supponiamo ora che qualcuno avesse chiesto al Cristo del Vangelo di san Giovanni: Credi tu in Dio? Noi crediamo che a questa domanda Egli avrebbe guardato l'interrogante con stupore, quasi come per chiedergli che senso essa possa avere. Credere in Dio, lui, Figlio di Dio?... Ora, a me sembra di vedere nella vicenda di Myskin in certo qual modo la raffigurazione simbolica di questo fatto unico, un tentativo di rappresentare l'evento dell'esistenza teandrica. Non direttamente; il racconto diretto è ormai fissato una volta per tutte nelle parole di coloro che "erano presenti fin dal principio"; ma in forma simbolica, traduzione in linguaggio puramente umano di quel mistero divino, ispirata all'atteggiamento di un uomo che certamente solo in tanto ne partecipa, in quanto può dire, come ogni cristiano, essere Cristo la parte più vera di lui; al quale tuttavia è stato dato, come ragione ultima della sua esistenza, di ravvivare tra gli uomini il ricordo di Cristo, di raccontare il Signore con la sua persona e la sua vita, con la sua forza e la sua miseria, con la fedeltà alla sua missione e persino col suo fallimento.

Con questo non intendiamo assolutamente dire che una cosa del genere sia veramente possibile. Qui si tratta soltanto di possibilità poetica, del significato di una figurazione artistica, come è apparso evidente a noi.

Rispondendo ora al quesito, come interpretare la figura del principe Myskin, diremo che in lui si manifesta il Cristo.

Questo non significa in alcun modo che, secondo

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Dostojevskij, il Cristo potrebbe esistere una seconda volta. In nessun caso si tratta qui di una "distruzione di Cristo" 7. In senso assoluto, e dunque anche per Dostojevskij credente, Cristo, e Lui soltanto, è l'Uomo-Dio. Uno solo lo è, una volta sola e per sempre. Mai potrà un uomo che non deliri o bestemmi, sognare di attribuire a sé quest'esistenza. Mi preme dirlo, altrimenti tutta l'interpretazione non regge o peggio si riduce a una banalità. Myskin non è ne l'Uomo-Dio ne un secondo Cristo. Egli è soltanto un uomo, che risponde al nome di Lev Nikolàjevic Myskin e nella sua vita, come in quella di chiunque altro, noi troviamo gioia e sofferenza, ricchezza e povertà, amicizia e solitudine. Ma dietro alla sua esistenza umana appare l'immagine di un'altra esistenza che non è umana: quella dell'Uomo-Dio.

Si è già detto come nell'arte di Dostojevskij attraverso una semplice vita d'uomo appaia talvolta una forma di esistenza che trascende l'umano. Ora qui Dostojevskij sembra essersi accinto al compito immenso — e non potrei dire con certezza fino a che punto ne fosse consapevole — non di narrrare la vita di Cristo direttamente e in se stessa, o raccontando come un uomo abbia cercato di riviverla nella fede e nell'imitazione, ma di far apparire l'immagine dell'Uomo-Dio nella trasparenza di una personalità umana. Può la vita dell'Uomo-Dio, come ci è nota dai Vangeli e in particolare dal Vangelo di san Giovanni, essere tradotta in una vita d'uomo ed esservi raccontata senza che quest'uomo cada nel ridicolo o il Figlio di Dio venga spogliato della sua divinità? Se

7 Nel senso deU'« umanizzazione » di Gesù (il « Gesù della storia » contrapposto al « Cristo della fede ») operata dal protestantesimo liberale (N. d. f.).

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la nostra interpretazione non è errata, a Dostojevskij è stato concesso di risolvere questo problema.

Psicologicamente la figura di Myskin forse è irreale. Forse -un uomo come lui non può neppure esistere 8. Eppure è un personaggio significativo in ogni suo atteggiamento. Lo ascoltiamo, lo osserviamo, lo seguiamo e d'un tratto scopriamo l'unità inferiore ed entro questa ogni aspetto particolare s'illumina; dietro quest'esistenza d'uomo si profila l'immagine di Cristo.

' Davanti alla nostra interpretazione qualcuno — e forse anche noi stessi — potrebbe ora esser preso da un senso di perplessità e domandarsi se i tratti ai quali abbiamo attribuito una determinata funzione simbolica non debbano essere invece interpretati in un senso affatto diverso.

Abbiamo già osservato ad esempio che l'epilessia potrebbe significare non solo un rapporto con una realtà sovratemporale, ma anche l'evasione dall'autonomia e dalla responsabilità della persona, e la partecipazione alla vita dell'infanzia non tanto la comunione con un mondo di sacra innocenza, quanto uno stato di minorità infantile... Una partecipazione così dolorosa alle sofferenze altrui può essere semplicemente il sintomo di una sensibilità malata. Alla compassione di Myskin si può rimproverare di non trasformarsi mai in azione energica e soccorrevole. E se lo volessimo giustificare, dicendo che quest'uomo sente troppo profondamente l'impotenza umana

8 Questa « impossibilità », mi è stato detto, è tale soltanto per l'anima occidentale, non per l'anima orientale. Non essendo in grado di giudicare, bisogna che mi attenga a ciò che io posso vedere.

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per risolverei a fare ancora qualcosa e perciò non gli resta altro che accettare il peso che gli è imposto e portarlo sino alla fine, sarebbe poi difficile controbattere la seconda obiezione, che tale compassione non è in fondo che un segno di passività, poiché la vera forza costringe l'esistenza a impegnarsi e un'azione autentica porta sempre con sé tutto il peso d'essa. Ugualmente davanti a un atteggiamento di pura comprensione, dove tutto è preso ugualmente sul serio e si rifugge da un giudizio discriminante, sarebbe pur lecito osservare che in questo modo si rinuncia a introdurre in un mondo ove regnano l'incertezza e la confusione la distinzione chiarificatrice tra il bene e il male, da cui pure ha inizio qualsiasi attività costruttiva e generatrice di intcriore libertà. Che Mysidn, sia con i suoi discorsi che con le sue azioni, dia l'impressione di esser come fuori dalla realtà, po-trebb'essere anche difetto di chiarezza intcriore che rende la parola e l'atteggiamento incerti e confusi... Inoltre ciascuno è perfettamente libero di chiedersi se la sensazione conturbante di "aver già visto la persona" che s'incontra per la prima volta, non dipenda da una facile impressionabilità della fantasia, come accade a temperamenti molto suggestionabili, quando sentano esprimere un pensiero o raccontare un tatto, di credere d'averli già saputi in anticipo. Quanto al ricorso allo "scandalo", si tratta anche qui di un'arma a doppio taglio e non è facile rispondere all'obiezione che con questo argomento tutto si può dimostrare. Porre lo schema dello scandalo come base per la soluzione di alcuni problemi dell'esistenza è cosa assai pericolosa perché minaccia di annullare ogni possibilità di giudizio obiettivo introducendo nel pensiero il quia absurdum. In talune sottili zone mar-

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ginali dell'esistenza e dove esista una vera attitudine discriminante degli spiriti, vigile ed operante, la cosa ha un senso, ma negli altri casi essa rende impossibile qualsiasi giudizio.

Questo ed altro si potrebbe dire e a buon diritto. La figura del principe Myskin è realmente di una scoraggiarne ambiguità. Ne consegue che V ultima rafia dell'interpretazione è l'impressione complessiva che il lettore ne riceve, purché sia sufficientemente forte e durevole per resistere al risorgere continuo di certe obiezioni. Ma se si accetta l'interpretazione che abbiamo data senza cadere in contraddizione con se stessi, il simbolismo di Myskin si arricchisce di un nuovo tratto decisivo.

Il carattere e il contegno di Myskin sono così enigmatici da rendere possibili gli apprezzamenti più contradditori. Si potrebbe pensare che il romanzo stesso suggerisca in qualche modo l'interpretazione esatta, sia mediante il rilievo che la figura del principe va •via via acquistando nel corso del suo sviluppo e nel delinearsi del suo destino, sia facendo trasparire dalle sue azioni la sua intima natura o mostrando l'ascendente ch'egli esercita sugli altri, insomma con tutti quegli-aspetti che determinano un'atmosfera e hanno senso simbolico, di cui l'arte si vale per suggerire un significato senza esprimerlo direttamente. Ma l'intenzione del libro è proprio di non farlo. La figura del principe non è mai veramente spiegata, ne di lui si da mai un giudizio definitivo. L'ascendente della sua personalità non appare mai chiaramente, ne in un momento decisivo ne in genere. Il suo destino non ha un carattere determinante e, quel che più conta, non è mai considerato da un punto di vista generale e giudicato obiettivamente. Tutto questo non perché

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la sua vita tra gli uomini sia stata troppo breve, ma. perché l'ambiguità gli è essenziale per natura. Noi lo incontriamo, per dirla con Kierkegaard, sempre nella "simultaneità". Nessun personaggio del romanzo può contemplarlo con distacco, nemmeno il lettore:

che sappia penetrare realmente nell'intimità del suo-mondo.

Così l'appello religioso che sale da questa figura. perpetuamente ondeggiante ed ambigua può esser raccolto non sotto la forma di una certezza oggettiva,. ma solo sotto quella di una decisione arrischiata. Un giorno la spiegazione si avrà, si saprà se Myskin era. veramente chiamato a un'esistenza simbolica o se era soltanto un decadente. Ma questo avverrà quando egli sarà morto da un pezzo, quando le reazioni provocate da lui si saranno calmate e il giucco delle cause e degli effetti si sarà spiegato; quando gli altri personaggi di questa storia avranno avuto tempo di veder chiaro in lui e in se stessi in rapporto a lui perché allora il loro atteggiamento verso Myskin, sia di pentimento che di avversione ostinata, sarà diventato-definitivo. Il romanzo però si svolge dal principio alla fine prima di questa chiarificazione. In esso Myskin. ci appare solo nell'atteggiamento di chi non è stato ancora interpretato e di contraddizione, e chi legge si trova con lui sempre nel rapporto di "simultaneità"' di cui s'è detto. Ma chi viva questo rapporto e non si lasci indurre a considerare la figura di Myskin come semplice oggetto di giudizio estetico, chi si abbandoni a quel non so che d'inquietante che da essa emana, avrà d'un tratto la rivelazione di quello che doveva essere lo stato d'animo dei contemporanei di Cristo nel tempo che precedette la sua morte, la sua resurrezione e la testimonianza dello Spirito Santo,

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quando credere era infinitamente difficile, ma se il popolo, ne avesse trovata la forza, quella fede sarebbe stata tanto possente da attuare la profezia d'Isaia ed aprire la via all'avvento pieno e manifesto del regno di Dio.

Per arrivare a una interpretazione definitiva della fiigura di Myskin sembra realmente necessaria una specie di scelta. Se non ci si vuoi fermare alla oggetti-vità di una labile parvenza psicologica o estetica e alla semplice constatazione dell'ambiguità di questa figura, ma penetrare più profondamente nel suo senso vero, occorre davanti ad essa decidersi in favore o contro il suo significato simbolico, anche a rischio di prendere un grosso abbaglio e di rendersi ridicoli. Poiché sarebbe davvero ridicolo e mortificante davanti al foro di una critica obiettiva, sia filologica che psicologica o religiosa, esser convinti di sentimentalismo per aver visto in un decadente o in uno psicopatico il simbolismo esistenziale di Cristo.

Con questo mi sembra però di aver anche messo in evidenza quello che c'è di originale in questo libro. Non si può di fronte ad esso conservare un atteggiamento di obiettività estetica. E non solo come avviene per qualsiasi opera schiettamente religiosa che rivela il suo vero significato solo quando sia entrata a far parte della nostra esistenza, ma in un senso affatto particolare: il suo significato vero non si può determinare obiettivamente, ma appare solo nell'atto stesso in cui lo facciamo nostro — e qui c'è effettivamente il rischio, come sempre nella decisione religiosa, di scegliere l'assurdo.

A questo punto appare anche chiaro cosa si debba intendere per "simbolo".

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Ogni avvenimento nella vita di quest'uomo, come pure la sua vita stessa ha anzitutto un senso proprio. Se si vuole, si può anche fare a meno di cercare dietro il dato immediato una seconda significazione e considerare semplicemente questa vita singolare in se stessa, tragica com'è e in ultima analisi misteriosa. Ma se prendiamo di fronte ad essa l'atteggiamento di cui s'è detto, ci sentiremo rinviati da ogni punto di questa esistenza a un piano che le sta alle spalle;

non intenzionalmente, sì da avvertire la duplicità di un significato proprio e di uno sottinteso, della cosa espressa e del mezzo d'espressione; ciò che qui è avvenuto è invece una vera e propria traduzione. L'immagine dell'esistenza di Cristo è qui tradotta nell'esistenza di quest'uomo, il che forse è possibile solo se, da un punto di vista puramente umano, rimanga una "impossibilità"; non un'impossibilità pura e semplice, come conseguenza di una psicologia errata, di un eccesso di fantasia o di una idealizzazione da super-uomini, ma di un'impossibilità dotata di significato. Proprio essa sarebbe allora il simbolo decisivo. L'apparizione di una impossibilità umana suggellerebbe la validità di questo simbolo di Cristo. Ciò che in Cristo oltrepassa i limiti dell'umanità, questo mistero impenetrabile che invita ad adorare, sarebbe qui tradotto in impossibilità umana, che in tal caso sarebbe davvero un'eloquente impossibilità.

Non insistiamo. In ogni caso non appare mai un simbolismo diretto. L'epilessia, il mondo dell'infanzia, ad esempio, presi per se stessi, non hanno alcun riferimento col regno celeste del Vangelo di san Giovanni; ma appena siano contemplati nel complesso della vicenda e in rapporto alla figura del principe, ricordano in qualche modo la sfera della vici-

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nanza inaccessibile di Dio, donde è venuto il Redentore. Non liricamente o idealmente, per una trasfigurazione compiuta dalla fantasia, ma in concreto, tradotti nell'esistenza di quest'uomo determinato.

Se questo, dunque, è possibile, nuove e più profonde prospettive si aprono alla comprensione del problema dell'uomo. Questi non sarebbe più un essere definito e chiuso, e invece di autosufficienza umana si dovrebbe parlare di un potenziale altissimo che, aperto a incalcolabili possibilità, è posto nella mano di Dio.

Siamo giunti ormai alla catastrofe. Myskin si è recato a trovare l'amico nella sua tetra casa. Dopo un breve scambio di parole, avvenuto in un'atmosfera d'incubo, Rogòzin conduce il principe nella stanza attigua e gli mostra, distesa su un letto, Nastàsja Filip-povna che egli ha uccisa. Un'oscurità orrenda, un'oppressione infinita grava su questa scena. Rogòzin prepara una specie di giaciglio e quando "in qualche modo il giaciglio fu fatto, egli si avvicinò al principe, con fervida tenerezza lo prese sotto braccio, lo sollevò e lo guidò verso il giaciglio... adagiò il principe sul cuscino di sinistra, il migliore, coricandosi alla sua destra". Ed ora è come se la terra si aprisse a inghiottirlo... Myskin sente le tenebre, donde un giorno era uscito, richiudersi sopra il suo capo. Nelle parole che egli dice ora sentiamo compiersi il progressivo, fatale annientamento.

Quando Rogòzin si fu calmato (e si calmò di colpo), il principe si chinò piano verso di luì, gli sedette accanto e, col cuore che batteva forte, respirando affannosamente, si mise a osservarlo. Rogòèin non voltava il capo dalla sua parte

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e pareva essersi dimenticato addirittura di lui. Il principe

guardava e aspettava; il tempo scorreva, comincio ad albeggiare. Rogòzin tratto tratto si metteva improvvisamente, bruscamente, a borbottare forte delle parole sconnesse- si metteva a gridare, a ridere: allora il principe tendeva verso di lui la sua mano tremante e gli toccava dolcemente la testa, i capelli, glieli carezzava, gli carezzava le guance... più di questo non poteva fare! Egli stesso ricominciò a tremare e di nuovo si sentì mancar le gambe di colpo.

Una sensazione affatto nuova gli tormentava il cuore con un'angoscia affatto infinita. Intanto si era fatto giorno. Alla fine egli si abbandonò sul cuscino come se non avesse più forze, disperato, e premette il suo viso contro il pallido viso immobile di Rogòzin: le lacrime scorrevano dai suoi occhi sulle guance di Rogòzin, ma forse allora egli non sentiva più quelle sue lacri-

• me e non ne aveva più alcuna coscienza...

Comunque, quando dopo molte ore, si aprì la porta ed entrò gente, l'assassino fu trovato privo di sensi e in preda alla febbre... Il principe, immobile, gli era seduto accanto sul giaciglio e, a ogni grido o accesso di delirio del malato, si affrettava a passargli dolcemente la mano tremante sui capelli e sulle guance, come per carezzarlo e calmarlo. Ma non capiva più nulla di quanto gli si domandava e non riconosceva le persone che erano entrate e gli stavano intorno. E se lo stesso Schneider fosse arrivato ora dalla Svizzera per visitare il suo antico discepolo e paziente, anch'egli, ricordandosi dello stato in cui si trovava qualche volta il principe nel primo anno di cura, in Svizzera, avrebbe fatto con la mano un gesto di scorag-giamento e avrebbe detto, come allora: « Idiota! » (L'Idiota, pp. 634-35).

Nietzsche una volta ha detto: "Hai mai visto dormire il tuo amico? Non hai trasalito nel vedere il suo viso? " Questo vuoi dire che nel sonno, quando si rilasciano le forze dell'inibizione cosciente, si libera la verità intcriore abitualmente repressa. Può accadere allora di vedere d'un tratto chi sia veramente quegli che credevamo di conoscere. Questa liberazione della verità intcriore per la sospensione del controllo che la ragione vigile esercita sulla vita istintiva può,

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dati certi presupposti, andare molto più lontano quando si tratti di un alienato. Se un uomo si avvicinasse a un pazzo che provasse verso di lui repulsione o odio, questi indietreggerebbe dando segni evidenti di terrore. Ora questo Rogòzin, accanto a cui giace Myskin, ha ucciso Nastàsja, ha alzato il coltello contro il suo amico, ha distrutto la vita del principe. Troveremmo grande, grande in senso cristiano, se Myskin, cosciente e padrone della propria volontà, vincesse l'odio o lo spavento in presenza di quest'uomo terribile; troveremmo però naturale che egli provasse questi sentimenti. Ma se ci fosse traccia di essi nell'anima del principe, se vi t'osse solo un'ombra di repulsione o di spavento nel suo cuore e, diciamolo ancora una volta, nel suo subcosciente, questi sentimenti, ora che col venir meno della ragione ogni controllo consapevole è cessato, dovrebbero prorompere con una violenza elementare. In presenza dell'assassino dovremmo vederlo indietreggiare con un grido d'orrore. Ma noi leggiamo — e bisogna prestar fede a queste parole perché sono profondamente veritiere — che Myskin, nella sua follia sragionante, accosta il suo viso al viso immobile di Rogòzin e tutte le volte che l'assassino grida gli carezza con mano tremante i capelli e le guance per calmarlo.

Questi gesti non sono più un linguaggio soltanto umano. Non vediamo ' qui un uomo; davanti a noi sono le mani, il volto, il cuore di un uomo, ma ciò che da essi traspare è l'immagine del Redentore. L'immagine di quell'Amore dimentico di sé fin nel suo fondo più sincero, che nessuna ragione può più cogliere e nessun volere penetrare. L'immagine del Signore che muore dicendo: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che si fanno".

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E così in questa rovina si annuncia una grande vittoria spirituale. Mai, credo, fu dato ad uno scrittore di farci sentire nella gesta vittoriosa di un uomo tanta forza di intcriore superamento quanta ne ha saputa suscitare Dostojevskij da questo sfacelo. La forza divina e l'amore trionfante si manifestano qui nell'ora del più sconsolato abbandono.

Qualcuno a questo punto obietterà che nessuno è riscattato. Lo è forse Nastàsja? Oppure Rogòzin, Aglaja e tutti gli altri? Ma la perfezione del simbolo sta appunto in questo, che nulla esso "mima" di dò che è divino. Noi non vediamo nessuna "conversione", nessun ripiegamento ulteriore. Tuttavia qualcosa appare che è più di tutto questo. Chi apre il suo cuore per accogliere questo libro sente l'infinita forza di redenzione di Dio operante non solo al di là, ma entro e attraverso quello che in esso ci è accessibile. Lo stacelo di Myskin contiene una promessa per Rogòzin e Nastàsja, per questi due esseri per i quali, stando alla psicologia e all'esperienza comune, non c'è posto in questo mondo. Qui la Redenzione avviene proprio da una prigionia senza uscita, a conferma che "ciò che è impossibile agli uomini è posibile a Dio" 9.

^ Le. 18, 27.

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CONCLUSIONE

Al lettore che ci ha seguiti fin qui nella nostra analisi del mondo religioso di Dostojevskij, dobbiamo ancora qualche spiegazione sulla via che abbiamo scelta.

Forse egli ha già pronta l'obiezione che la nostra interpretazione è stata sì chiarificatrice, ma in quanto ha razionalizzato la realtà originaria.

Questo pericolo esiste effettivamente. Appena l'analisi, al di là di una semplice comprensione, tenda e si leghi all'interesse per il problema filosofico e teologico, è indotta a trasformare il carattere di unicità e il vivente divenire della figura concreta in una costruzione concettuale. Tanto maggiore è poi il pericolo, quanto più sottile è il metodo di cui si serve quest'analisi. Da parte di un Pascal, ad esempio, proprio per quella sua intuizione profonda della singolarità del vivente che egli cerca di cogliere con una sottilissima tecnica concettuale, sarebbe da temere un razionalismo molto più radicale che non da un Hume e da un Berkeley, che fanno del vivente un complesso di processi meccanici. A costoro, infatti, esso sfuggirebbe con facilità, continuando a esistere indisturbato accanto a quelle loro grossolane costruzioni, mentre Pascal, con l'agilità deYl'esprii de finesse, saprebbe penetrare fin nelle sue pieghe più nascoste e assediarlo con un metodo, dalla cui azione strin-

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gente esso ben difficilmente riuscirebbe a preservare la propria inviolabilità.

Ai giorni nostri dappertutto il razionalismo perde prestigio. Nel dominio spirituale si affermano sempre più apertamente l'irrazionalità e l'intuizione. Occorre pertanto maggior finezza nel distinguere. Ciò che minaccia l'integrità della conoscenza del vivente 'non è la volontà di applicare a questo tutta la chiarezza del concetto, ma solo un certo presupposto sulla base nel quale ciò avviene. Qualsiasi conoscenza che pretenda a un valore scientifico o che voglia legittimarsi di fronte alla scienza è razionale; ma ciò che ne determina il carattere è la soluzione del quesito — anteriormente ad ogni sforzo individuale del pensiero — se la realtà e la conoscenza di essa possano risolversi interamente nel razionale. Solo una filosofia che attribuisca il carattere di vera conoscenza esclusivamente alla conoscenza razionale e dica reale solo ciò che può essere colto dalla ragione minaccia le fondamenta stesse e la dignità della vita, com'è apparso chiaro verso la fine del secolo scorso. Di fronte a questa posizione spirituale, il senso della nostra situazione conoscitiva odierna sembra consistere in un netto accentuarsi del carattere di tensione intcriore della realtà e dell'atto che la coglie. In ognuno dei suoi aspetti l'essere è saturo di razionalità. Ciascuno dei suoi ambiti, dal meccanico fino al personale, sia nella struttura che nella specie, nel suo evolversi come nel suo stadio terminale, può essere appreso dalla ragione. Ma nessuno di questi ambiti, e nessun loro aspetto particolare, può risolversi intieramente nel razionale poiché, dal personale al meccanico nell'insieme come in ciascuna parte, l'essere contiene anche un elemento alogico, che non va inteso come una

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deficienza rispetto al razionale ma come il suo opposto polo in senso essenziale1. Occorre dunque una volontà di razionalità universale che non escluda l'irrazionale ne gli attribuisca, riluttante, un compito secondario e ambiguo ma si riconosca a priori rapportata all'elemento alogico, che altrimenti sarà inevitabile il risveglio di un irrazionalismo altrettanto radicale nel trasferire l'essenziale dell'atto conoscitivo nell'intuizione e in una visione di immagini e nel proclamare la ragione nemica della vita.

Questa razionalità sente dappertutto la viva contrapposizione dell'elemento alogico dell'esistenza, accessibile soltanto all'intuizione. Tuttavia potrà proseguire la sua opera chiarificatrice con fiducia proprio perché nella esistenza, cui si applica con sollecitudine, rimarrà sempre un elemento insolubile. Questa insolubilità è proprio ciò che essa ama.

Si tratta dunque di una volontà di razionalità che è ben lontana dall'identificarsi col "razionalismo" 2;

ma questo non si manifesta in un affievolirsi dell'energia conoscitiva o nella rinunzia a determinati oggetti o ad alcuni loro aspetti particolari. Nulla esiste da cui questa volontà di conoscenza potrebbe sentirsi esclusa. Ma i suoi atti sono accompagnati da una

1 A questo proposito mi sia concesso di rinviare il lettore ai miei Versucheeiner philosophie des Lebendig-Konkre-ten pubblicati nel 1925 sotto il titolo Der Gegensatz. Nonostante le sue deficienze, l'impostazione fondamentale mi sembra ancora esatta. Si veda anche quanto riguarda il concetto dell'elemento alogico nell'essere; l'intuizione, nel senso sostenibile seriamente, come sua forma di conoscenza subordinata e il suo rapporto con la conoscenza logica. (Cfr. tr. it. di G. Sonunavilla in R. guardini, Scritti filosofici, 2 voli.. Collana « Filosofi contemporanei », Milano, 1966).

2 Questo era pure, con presupposti diversi, il carattere del pensiero medioevale.

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coscienza avvertita del polo opposto: l'elemento alogico e là funzione conoscitiva che gli è ordinata. La purezza e l'evidenza di realtà che troviamo nell'inter-pretazione che Pascal da dell'esistenza sono dovute proprio al fatto che in lui la conoscenza razionale non rifugge da alcuna sottigliezza per impossessarsi del concreto, mentre d'altra parte deve riconoscere la natura razionalmente insolubile del vivente. Perciò la chiarezza dei suoi concetti si arricchisce di una particolare risonanza di profondità, e viceversa il senso dell'insolubilità del'esistente e il ricorso all'intuizione non si esprimono in un rifiuto della netteté de vue e della logica delVesprit de finesse, ma nell'ac-cettazione di questa logica.

Il richiamo a Pascal non ha il significato sottinteso di un confronto; esso doveva soltanto servire a spiegare il nostro pensiero e invitare il lettore, forse troppo incline a separare pensiero e visione, concetto e vita, chiarezza e profondità, acutezza critica e forza creatrice, a riflettere che esiste un pensiero strettamente affine alla visione, una profondità che risalta solo nella chiarezza, una compattezza del concreto che si afferma nella struttura della logica. Per dirlo in forma polemica: uno spirito che non è avversario della vita, ma che esso stesso è vita e di ordine eleva-tissimo, atto a edificare una logique de la finesse, che non distrugga la fragile libertà dell'esistenza viva e una logique du coeur, che al cuore, organo della comprensione dell'uomo e dei valori che in lui splendono, nulla tolga del suo calore.

In questo senso vanno intese le analisi che abbiamo qui tentate.

Pure mi rendo conto di quanto sia problematico un 324

simile tentativo. Lo sarebbe nei riguardi di qualsiasi grande creatore; lo è in misura ancor più grande quando si tratta di Dostojevskij. C'è una grande poesia che configura l'esistenza come un cosmo trasparente, in cui la pienezza della vita è contenuta in un ordine unitario — la Divina Commedia di Dante ne è l'ultima e più luminosa espressione — e c'è una poesia che scopre gli abissi della creazione, il grembo dell'esistenza nell'atto stesso di schiudersi. Anche qui c'è un "ordine" che però non è concluso, ma dappertutto in continua trasformazione; le figure non escono dalla loro ambiguità e l'unità del tutto sopravanza le forze del nostro sguardo. Ogni personaggio perpetuamente si trasforma e diviene, pur conservando la sua intima coerenza; ogni immagine ha vita propria e pure si fonde con la vita del tutto. Di questo tipo è l'opera di Dostojevskij. Come deve apparire dunque di esito incerto un tentativo come il nostro!

E anche tra gli scrittori veramente « creatori » Dostojevskij occupa un posto speciale. Nelle sue opere personaggi ed avvenimenti non sono soltanto di una originalità assoluta, presi, come quelli di Shakespeare, nel dinamismo del divenire; in essi c'è qualcos'altro che potremmo chiamare il "caos". Ma non soltanto come sostrato originario di ogni creazione, riserva di immagini future, grembo oscuro dal quale emergono le figure, fiume sotterraneo che scorre sotto le forme concrete dell'esistenza. Tutto questo non escluderebbe la perfetta chiarezza della creazione artistica. In Dostojevskij invece è il caos stesso l'elemento che tutto pervade. Non s'intende però esprimere con questa parola un giudizio negativo. Liberi da ogni pregiudizio formalistico, la usiamo soltanto nel senso che

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le compete nell'esistenza cristiana, dove non solo la forma ma anche il suo opposto — diciamo "opposto" [Gegensatz), non contraddizione (Widerspruch), — sono riscattati. Respingiamo così nettamente l'antico errore, più fatale all'Occidente di quanto a prima vista non sembri, di identificare la "forma" con l'"es-senza", col "valore", con la "realtà", e tutte le conseguenze che ne derivano, a cui fa riscontro l'altra identificazione errata che fa il "caos" o meglio la "pienezza" (per usare il termine della mia teoria dell'opposto) equivalente a "non essere", "non-valore", "apparenza", "oscurità". Questo errore — che non fu soltanto teorico ma significò anche una determinazione vitale, un atteggiamento, una "politica" — ha avuto per l'Occidente conseguenze incalcolabili e provocato d'altra parte l'insorgere contratto delle varie forme di irrazionalismo, di polarizzazione romantica e dei sospetti antispiritualistici. Il pensiero moderno occidentale non ha più ritrovato la necessaria posizione di equilibrio e, passando da un estremo all'altro, ha eluso i problemi fondamentali del pensiero e dell'azione. Per questa ragione e non ostante gli sforzi fatti per conciliarle, cultura e vita sono rimasti due domini divisi e reciprocamente ostili e non esiste ancora una vera Europa.

Ma torniamo a Dostojevskij. Nelle sue opere il momento di pienezza dell'esistenza, il non-definito, l'elemento fluido sfuggente a ogni forma, l'improvviso e l'imprevedibile è affluito nei personaggi stessi e li pervade. È nei loro volti, nei loro gesti, nei loro sentimenti e pensieri, nella loro volontà e nel loro destino.

Di qui la scoraggiante ambiguità di queste figure. Appena si crede d'aver capito che cosa significhi un tratto particolare nel carattere di un personaggio o una

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determinata azione nel complesso della sua vita, subito ci si accorge che la spiegazione potrebbe anche essere diversa. Si pensa di aver capito una figura e tosto si è costretti a riconoscere che esiste un rapporto dialettico tra questa ed altre figure, nel quale ciascuna è via via diversamente determinata dalle altre. Se poi si cerca, per fissare la dialettica di quei rapporti, di seguire l'azione nella sua linea unitaria di sviluppo, si deve constatare che l'azione stessa è ambigua e si sottrae a una determinazione precisa. In queste condizioni l'esito del nostro tentativo doveva apparire più che mai incerto.

Se ciononostante mi sembra di poterlo giustificare è per l'intenzione che ha guidato quest'indagine. Essa non mirava ad un'interpretazione del pensiero di Do-stojevskij su linee filologiche o secondo princìpi della scienza dello spirito, ma a stabilire la possibilità di un incontro con questo scrittore. Si è trattato dunque di un dialogo fra lui e me sui problemi essenziali dell'esistenza umana — salva reverentia e nel senso che appunto il dialogo è uno dei modi in cui si esplica la vita dello spirito.

Esporre i risultati di un incontro, di un colloquio, su argomenti di capitale importanza per tutti era l'intenzione di questo libro. Esso ha voluto dare così un contributo all'edificazione di un'Europa umana e spirituale e di conseguenza alla conoscenza dello spirito e del cuore umano.

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Finito di stampare nel mese di aprile 1968 nella Tipografia Editoriale « Aldo Manuzio » S. Martino B. A. (Verona)

 

Premessa ....... pag. 7

CAPITOLO PRIMO •

II popolo e la sua ascesa verso il sacro . » 13 II popolo . . . . . . » 13

Le donne credenti . . . . » 21

Paganesimo ...... » 27

CAPITOLO SECONDO

Le silenziose e la grande acccttazione . » 33 Sònja Andrèjevna ..... » 34 Sònja Semjònovna . . . . » 45

CAPITOLO TERZO

Gli uomini spirituali ..... » 61 II popolo e gli uomini spirituali . » 61 Macario, il pellegrino .... » 63 Lo stàrets Zòsima e suo fratello

Markèl ...... » 74

CAPITOLO QUARTO

II cherubino ....... » 93

Aijosa Karamàzov . . . . . » 93

La verità e l'angelo . . . . » 100

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CAPITOLO QUINTO

I ribelli ........ » 117

La leggenda del Grande Inquisitore

e il suo poeta . . . . » 117

La leggenda ...... » ' 119

II piano dell'interpretazione . . » 123 II cristianesimo della leggenda . . » 127 Ivàn Karamàzov . . . . . » 136

Ivàn e Smerdj'àkov .... » 149

II colloquio col diavolo . . . » 157 II senso della leggenda . . . » 169 La leggenda e il contesto del problema ...... » 170

CAPITOLO SESTO

Gli atei ........ » 173

Osservazioni preliminari ... » 173 Kirillov ....... » 175

II finito e il nulla ...... 206

Stavròghin . . ... . » 213

CAPITOLO SETTIMO

Un sirribolo di Cristo . . . . . » 267 La personalità del principe Myskin . » 270 Significato della figura del principe . » 278

Conclusione ....... » 321

 

 

 

 

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