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OPERE DI ROMANO GUARDINI
EDIZIONE ITALIANA A CURA DEL « CENTRO DI STUDI FILOSOFICI
DI GALLARATE »
ROMANO GUARDINI
IL MONDO RELIGIOSO DI DOSTOJEVSKIJ
MORCELLIANA
Titolo originale dell'opera:
Religiose Gestalien in Dostojewskijs 'W'frk (E)
by Kosel Verlag - Mùnchen
Traduzione di maria luisa Rossi
© by Morcelliana - Brescia, 1951-1968 Tipografia
editoriale « Aldo Manuzio » - S. Martino B.A. (VE.)
PREMESSA
L'ELEMENTO RELIGIOSO NEL MONDO DI DOSTOJEVSKIJ
I sette capitoli di questo libro trattano dell'esistenza
religiosa e dei suoi problemi come essi ci appaiono nei grandi romanzi di
Dostojevski): Delitto e Castigo,
L'Idiota, I Demoni, L'Adolescente e I Fratelli Ka-ramàzov. Vorrei
farli precedere da una breve premessa.
Chi si dispone a parlare degli aspetti religiosi
dell'opera di Dostojevski) si accorge presto che l'argomento comprende
tutto intiero il mondo di questo scrittore. Non vi è infatti nessuna
figura di un certo rilievo, nessun avvenimento di una certa importanza per
la vicenda narrata che. non siano, immediatamente o mediatamente, pieni di
significato religioso. In ultima analisi i personaggi di Dostoevski) sono
determinati da motivi e da potenze religiose; le loro decisioni più
profonde vengono di là. Ma c'è di più: il suo mondo in quanto tale, il
sistema delle sue realtà e dei suoi valori e tutta la sua atmosfera sono
in fondo di natura religiosa... Cosa significhi voler abbracciare questo
mondo mi fu chiaro quando nell'estate del 1930 invano tentai di esaurire
in due lezioni un argomento così vasto. Il mondo dei cinque grandi
romanzi, tanto più se si citano sia pur oc-sionalmente le opere minori,
è di una vastità che opprime. figure, destini, sìmboli appaiono e
scompaiono
ai nostri occhi... E se anche dopo qualche tempo ci si
accorge del continuo ricorrere di determinati motivi nella figurazione dei
personaggi e nel giucco dei rapporti e delle situazioni e delle stesse
idee fondamentali nell'interpretazione del mondo e dell'esistenza umana,
nell'opera di questo scrittore, paragonabile a una selva rigogliosa che si
estende a perdita d'occhio, questi elementi coordinatori non hanno che il
valore di semplici punti di riferimento.
Vorrei dunque spiegare come ho cercato di orien-tarmi in
questo mondo; forse così risulterà più chiaro il nesso che lega i
singoli capitoli di questo libro.
Occorreva anzi tutto domandarsi quale idea si facesse
Dostojevskij dell'uomo. Qui apparve subito chiaro che i nostri concetti
psicologici abituali: intelletto, intuizione, fantasia, volontà, azione,
creazione, sentimento e passione vanno usati in un senso molto più
elastico e generale perché qui queste facoltà non esistono allo stato
puro ma in ciascuna ài esse sono date insieme anche le altre. La
soluzione del nostro problema riusciva così più facile se l'osservazione
non si rivolgeva agli atti individuali dell'uomo ma ai diversi piani del
suo essere totale: la vita sensibile e intellettuale, il cuore e l'anima,
il sogno e il simbolo, lo spirito e lo "pneuma".
Interessanti rivelazioni porto poi. il quesito come
fosse costruita la persona nei romanzi di Dostojevskij, tanto più alla
luce del confronto con la struttura a noi ben nota della persona
addentale. Quali sono i rapporti tra persona e persona e i legami che
uniscono il singolo alle comunità, alla società. Si viene a constatare
con stupore che il sistema di questi rapporti è estremamente largo,
complesso, instabile ed elastico
a un tempo, il che permette di penetrare più intimamente
nella compagine interna dei romanzi e di rendersi conto dei problemi che
riguardano la struttura e la vulnerabilità della persona in genere.
S'inseriva qui la questione dei diversi domini della vita
e della cultura e del loro reciproco rapporto; risultò tra l'altro che
nel mondo di Dostojevskij i veri elementi di difesa e di sostegno
dell'esistenza quotidiana, a cominciare dal lavoro, sembrano ignorati.
Cosi questi uomini appaiono in modo particolare esposti al destino e alle
potenze religiose.
Si trattava ancora di mettere in luce le realtà
fondamentali di cui si compone l'esistenza e dunque domandarsi che cosa
significhino nel mondo di Dostojevskij la natura, l'universo, la terra, il
sole, gli alberi, e le piante, la campagna, gli animali. Che cos'è per
lui il popolo? Che cosa sono la madre, il bambino, il ragazzo e la
fanciulla? Come vede Dostojevskij l'adulto e il vecchio? Conosce la
personalità matura e com'è costruita? Che significato hanno il dolore e
il male e le loro forme diverse: la malattia, la povertà, la ubriachezza,
la psicopatia, il declassamelo sociale, la demenza, la pazzia? Che cos'è
il male, ovvero che cosa sono il peccato, il delitto, la corruzione, la
bassezza, la viltà, fino al male come potenza, fino al satanico? E non
bisogna trascurare anche certi stati di allucinazione e di confusione.
Di qui l'indagine si volgeva ai più semplici e nello
stesso tempo più significativi fenomeni dell'esistenza:
la vita, l'essere, il tempo, l'eternità; a quelli del
limitare dell'esistenza: la morte, la fugacità, il nulla; agli stati di
crisi: noia, stanchezza, disgusto, angoscia, disperazione, apatia,
smarrimento...
Infine era la volta dei valori che trovano riconosci-
mento nel mondo di Dostojevskij, a cominciare dai più
nobili: l'onore, la distinzione, la sincerità, l'innocenza e la libertà,
l'amore, l'umiltà e la gioia, a cui fanno corona la luce, il bene, la
bellezza, l'unità, la tranquillità.
A questo punto veniva a porsi la vera questione
dell'elemento religioso. Essa conduceva al tentativo di una fenomenologia
degli atti e delle forme religiose di esistenza, esemplificata nel tessuto
complessivo dell'« esistere dipendente » (rùckverbundenen Dase-ins).
Bastava approfondire un poco l'indagine per accorgersi che
tutti i diversi aspetti di questo mondo erano saturi di valore religioso,
quanto maggiore era la loro vicinanza alle realtà elementari. Così il
sole, la terra, l'albero, l'animale; forme di esistenza come la gioia, la
malattia, il dolore; concetti come la vita e l'essere e persino fenomeni
del limite come la morte, la fugacità, il nulla, si rivelavano, appena
raggiunto un determinato punto, di natura essenzialmente religiosa.
La sovrabbondanza delle figure, l'affollarsi dei problemi
finivano per stancare e confondere lo sguardo. Sentii la necessità di un
filo conduttore che desse ordine e unità a un argomento così vasto e mi
parve di trovarlo nel rapporto in cui i personaggi di Dosto-jevskij si
trovano con la terra, col popolo e con le potenze fondamentali
dell'esistenza.
Ho preso le mosse da alcune figure silenziose la cui
esistenza si assorbe tutta entro quel rapporto, per passare poi a quelle
in cui esso diventa cosciente, si differenzia e, in certune, si esaspera,
e giungere infine ai personaggi in cui la coscienza di questo legame si fa
"cultura" senza perdere però nulla della propria sostanza.
Seguono questa via i primi quattro capitoli del libro che partono dal
popolo e da alcune sue figure ca-
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ratteristiche per condurre alle due Sònje, agli
homi-nes religiosi e, •finalmente, ai Aljòsa Karamàzov..
Alla stessa linea sono però riferite anche quelle figure
in cui quel rapporto fondamentale appare compromesso o allentato,
deformato o sovvertito e alcuni suoi aspetti particolari spinti
all'estremo o dottrinariamente iperbolizzati. Già nel primo capitolo
vedremo ciò che diciamo "popolo" e "natura"
trasformarsi, per via di esagerazioni e di deformazioni, in qualcosa di
patologico e di pagano. Il quinto capitolo studia la rivolta a Dio e alla
legge morale e insieme il fenomeno del demonismo come essi appaiono nella
figura di Ivàn Karamàzov e nella "Leggenda del Grande
Inquisitore". Il sesto cerca di spiegare attraverso due personaggi
dei Demoni in cosa consista, secondo Dosfojevskif, l'ateismo. in
Kirìllov esso ci appare come negazione aggressiva congiunta alla volontà
di affermarsi come superuomo; in Stavròghin è atteggiamento negativo,
accompagnato dal fenomeno del vuoto intcriore. Nelle figure di questi due
capitoli affiorano anche alcuni aspetti del problema religioso del nostro
tempo che la nostra indagine, spero, contribuirà a mettere in luce per
qualche aspetto.
Restavano escluse da questo schema, sema però essergii
del tutto estranee, due figure, due personaggi dell'Idiota., la cui vera
realtà è da ricercarsi altrove:
sono esse Nasfàsja Filippovna che per essenza si trova
sotto la categoria della perfezione, e accanto a lei, nello stesso
romanzo, il principe Myskin, la cui essenza è determinata dal suo
singolare rapporto con la persona del Cristo. Di essi si occupa l'ultimo
capitolo.
Questa ricapitolazione era necessaria per non fare
apparire irragionevole l'aver tenuto nei limiti di questo
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libro questo saggio sull'esistenza religiosa in.
Dostojevskij. Essa voleva dare V assicurazione che questi fochi capitoli
si appoggiano su un sistema di coordinate sufficientemente esteso.
Quanto al metodo dell'indagine, è stata mia cura di
lasciare il più che fosse possibile la parola a Dosto-jevskij, citando
dai suoi testi tutto ciò che potesse dar risalto alla voce e ai gesti dei
personaggi e chiarire l'intreccio e il seguito degli avvenimenti. Le
citazioni si sono fatte di conseguenza numerose e in parte lunghe. Ma non
c'era altra via; la mia modesta esperienza non permettendomi di sperare
che il lettore intervenisse nel lavoro di interpretazione col testo alla
mano su una semplice indicazione di pagina.
Se mi sono tenuto possibilmente vicino al testo,
attingendovi tutto quanto mi potesse esser utile, non ho esitato d'altra
parte a rinunciare, salvo mi occorresse a titolo di informazione, a tutta
l'abbondante letteratura su Dostojevskij. Di ciò che è stato scritto su
Do-stojevskij — e senza dubbio si tratta in parte di lavori molto
importanti — ho letto molto poco e anche da questo poco mi sono
mantenuto indipendente. Dove me ne sono giovato l'ho detto. Poiché mi
sentivo in contatto sufficientemente intimo con l'opera di questo
scrittore, mi è parso di avere il diritto di tale autonomia. Non avendo
d'altra parte la pretesa d'aver esaurito l'argomento non ho sentito
neppure il dovere di discutere i punti di vista degli -altri critici di
Dostojevskij.
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CAPITOLO PRIMO
IL POPOLO E LA SUA ASCESA VERSO IL SACRO
II popolo
"Popolo" è la parola che per Dostojevskij
significa il compendio di ciò che nell'uomo è genuino, profondo,
sostanziale. Il popolo è sfera dell'umanità schietta e primitiva,
profondamente radicata nelle sue tradizioni, vigorosa ed augusta. Ma è
popolo anche l'uomo indifeso, perseguitato dal destino, sfruttato dagli
abili e dai furbi, oppresso dai prepotenti. Proprio per questa ragione
esso è però, più di tutte le forme dell'umano, vicino alle cose eterne,
cinto dalla protezione dell'amore divino. La parola "popolo" ha
in Dostojevskij, come in tutti i grandi romantici, un suono solenne e
nostalgico che commuove e conforta.
Il popolo vive in intima unione con gli elementi
primordiali dell'esistenza. È cresciuto con la terra, sulla terra
cammina, lavora, da essa trae le sue possibilità di vita. Inserito nel
grande ordine della natura, nel ritmo alterno della luce e della
vegetazione, sente, forse senza saperlo esprimere, la vivente unità
dell'universo.
Per quanto miserabile e peccatore, il popolo rappresenta
l'umanità autentica ed è sano e forte nonostante il suo avvilimento
perché è inserito nella stessa strut-
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tura fondamentale dell'esistenza, mentre l'uomo colto,
1'" occidentalista", che ha voluto emanciparsi, ha perso ogni
naturale appoggio, e vive in un clima artificioso e malato.
L'uomo del popolo vive invece nel gran circolo del sangue,
e come parte di una famiglia, di un gruppo, dell'umanità, è percorso
dalla corrente della vita collettiva. Egli è preso dal complesso degli
avvenimenti nei quali si compie il destino e non ha alcuna possibilità di
sottrarvisi, ma non sente, del resto, il bisogno di farlo. Così la sua
vita è tutta colmata dalle realtà fondamentali dell'esistenza, dalle
cose di tutti i giorni, da gioie e dolori semplici ma ricchi di ciò che
è essenziale.
Il popolo è ancora l'uomo immediato, in cui l'unità non
si è spezzata. Non riflette; accetta l'esistenza come gli è data. Non
pensa e non sente in modo astratto, ma per immagini e avvenimenti. Non
segue una dottrina, parte dalla situazione concreta, lo hic et nunc.
In lui l'istinto è ancora infallibile, perciò sa orientarsi e
distinguere. Le forze dell'intuizione sono ancora intatte. Conosce il
linguaggio simbolico delle cose e in forma di visione può essergli ancora
rivelato il senso dell'universo. È saggio e veggente; gli sono maestre le
tacite potenze creative.
Così il popolo, e l'uomo del popolo, vive l'integra
realtà dell'esistenza. Questo però fa sì ch'egli le sia completamente
abbandonato e ne debba sopportare tutto il peso. Tuttavia egli non si
domanda se questo peso sia giusto. La vita c'è, con tutta la sua
gravezza, e l'uomo semplice non conosce ancora i vari modi, le tecniche
per sottrarvisi. La sopporta semplicemente ed in questo è grande.
Il popolo è abbandonato, tribolato, oppresso. Sarà
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anche astuto, ma non cesserà per questo di essere
prigioniero della vita. C'è anche molto male nel popolo:
accanto ad un'allegria infantile e ad una bontà
delicatissima, ci sono passioni che si scatenano fulminee e possono
crescere sino ad un insensato furore. Cattiveria e violenza imprevedibile,
furore bestiale, crudeltà spieiata, ubriachezza, insensibilità,
corruzione, tutte le potenze del male operano in lui e tuttavia, anzi
persino in questo, il popolo è "buono come un fanciullo".
In fondo Dostojevskij, come tutti i romantici, ne fa un
essere mitico. Il popolo di cui egli parla sono gli uomini che vediamo
tutti i giorni, ma dietro ad essi si entra, in un'altra sfera, in un
ambito originario ed essenziale e gli uomini reali sono "popolo"
nella misura in cui si rivelano la presenza di questa altra sfera.
Questo popolo è vicino a Dio.
Come abbiamo accennato nell'introduzione, nel mondo di
Dostoevskij i fenomeni elementari della vita acquistano un senso
religioso; così, ad esempio, la terra e il sole, gli animali e le piante,
la maternità, l'infanzia, il dolore e la morte. Essi sono, anzi, saturi
di valore religioso. Oltre a significare quello che sono, significano
anche "un'altra cosa". Sono vie per cui il creato s'immerge in
questo "altro", s'avvicina a Dio... Il popolo deve essere
perciò singolarmente aperto e ricettivo al senso della vicinanza del
divino. Dio gli è vicino, perché esso è aperto a queste realtà
elementari, perché vive l'esistenza nella sua integrità e ad essa si
abbandona nello stesso tempo totalmente.
In altre parole più precise: per questo modo di sentire,
Dio non ha staccato da sé il mondo, sua creatura. In Occidente il
sentimento religioso sembra dominato
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dalla credenza che Dio, dopo aver creato il mondo e averlo
compiuto in ogni sua parte, l'abbia posto nella solitudine delle cose
concluse e perfette, sicché il rapporto religioso si è come stabilito a
distanza. Creati per così dire nel distacco, l'uomo e il mondo sembrano
trovarsi nel finito soli e tendere a Dio di là dalla distanza che da Lui
li separa. Anche se Dio viene concepito come immanente al mondo — e anzi
ad onta di tutte le correnti monistiche — questa immanenza sembra
tuttavia sentita come se da lontano Dio si riaccostasse alla sua opera —
che Egli avrebbe ontologicamente distaccata da sé — per penetrarla e
colmarla di sé. Il mondo di Dostojevskrj, invece, non si sente posto dal
Creatore nel distacco delle opere compiute, non pare affatto sentirsi
autonomo ma riposare, invece, con particolare immediatezza, nella mano di
Dio. Questo mondo ci appare continuamente in divenire, tutto vi è fluido,
e Dio sembra operarvi una misteriosa vicenda che l'uomo, se è unito a Lui
nella fede, sempre in qualche modo avverte1.
Il popolo, però, che non ha ancora abbandonato la
semplicità della condizione umana primitiva e, legato alla terra, di essa
si nutre e ad essa insieme si affida totalmente, sente di essere al centro
di questo campo di forze dell'azione divina, sente questa dappertutto
operante e ne intuisce il mistero, l'inquietante presenza. I suoi enigmi
gli rimangono impenetrabili e tuttavia di quando in quando gli giunge
l'onda esuberante del fiume vivo, il bagliore di campo della fiamma,
l'il-luminazione del significato.
Tutto questo però non va inteso in senso naturali-
1 Cfr.
il Capitolo terzo.
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stico e nemmeno pantelstico. L'uomo di Dostojevskij non
adora la natura e non identifica il mondo con Dio. Nella vivente unità
del creato un intervento decisivo fa di questa esistenza un'esistenza
cristiana. Quell'opera misteriosa che Dio svolge nella natura è
caratterizzata dalla redenzione, è un'azione in vista di una nuova
creazione. Dio si manifesta bensì nella natura e nella vita, ma nel segno
di Cristo, e mediante Cristo invita l'uomo a uscire dal puro e semplice
complesso dei legami naturali per entrare nel Suo regno. Se ciò non
avviene e l'uomo non si stacca dal semplice piano naturale, non sarà più
una creatura di Dio, ma un esse-,rè pagano.
Dostojevskij ha detto la sua opinione su questo punto nel
modo in cui è solito affrontare le grandi questioni, ricorrendo cioè
all'opposizione dialettica dei personaggi. Questi vengono così a
integrarsi a vicenda ma insieme a sottoporsi reciprocamente a una critica.
Nei romanzi incontriamo molte figure in cui parla l'anima del popolo così
come Dostoevskij l'ha sentita. Ma nella posizione di alcuni altri si
rivela un pericolo latente:
essi fanno del mondo di Dio e del popolo di Dio qualcosa
di assai diverso, in cui si tradisce insieme un elemento patologico e una
perversione. Penso a Sà-tov, nei Demoni, il fanatico dell'idea di
popolo, per il quale Dio diventa "un attributo della personalità del
popolo"; a Màrj a Lebjàdkina, nella cui coscienza la Madre di Dio e
la terra si fondono nella pagana Magna Mater e a cui il sole,
simbolo di Dio, parla con l'infinita malinconia di Dioniso2.
Ma nella falsa spontaneità immediata di questo
naturalismo c'è come una "frattura", da cui si giunge
2 Cfr.
più avanti, pp. 28-29.
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alla realtà del Dio cristiano. È il Cristo, che il
popolo, che crede in lui, Sente presente nella natura, nella esistenza
quotidiana e in ciò che vi accade. "Anche gli animali hanno
Cristo", dice lo stàrets Zòsima al giovane contadino e
"gli uccellini lo lodano". E tutto dò che accade manifesta al
credente la volontà di Dio, di Cristo. Così l'esistenza, pur conservando
tutta la sua realtà terrestre, è posta sotto la maestà del volere di
Dio che da essa parla all'uomo, sotto la potenza della protezione sicura
della sua Provvidenza.
Quest'azione trasformatrice appare soprattutto nel dolore.
Il popolo di Dostojevskij soffre terribilmente. Tutta la sua esistenza è
segnata dal dolore. Ma esso è accettato e sofferto come espressione della
volontà di Dio e, anche se talvolta qualcuno mormora o si ribella, questo
non toglie nulla al significato decisivo di quel-l'accettazione. In tal
modo si compie una continua trasformazione del mondo, da realtà puramente
naturale, in creazione che ha un linguaggio cristiano.
"Terra", "natura", "popolo"
non sono perciò realtà naturali, ma realtà riscattate ed hanno una
stretta affinità con quella che san Paolo chiama la nuova creazione, che
nelle Lettere agli Efesini e ai Colossesi si fonde col
concetto della Chiesa, Corpo mistico di Cristo.
Così il popolo vive in una disposizione intcriore che gli
permette di accogliere direttamente anche la parola della rivelazione.
Dice lo stàrets Zòsima:
II prete apra davanti a loro questo libro e si metta a
leggerlo senza parole difficile e senza ostentazione, senza darsi delle
arie di superiorità, ma con dolcezza e commozione, rallegrandosi lui
stesso di leggerlo e di essere da essi ascoltato e compreso, sentendo
anche lui amore per queste parole, non fermandosi se non di rado a
spiegare qualche parola
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oscura per gli umili; e non abbia timore, essi capiranno
tutto, tutto comprenderà un cuore ortodosso.3
La parola della Scrittura è parola rivelata. Ma quando
per la disposizione di fede di cui si è parlato son riconosciuti
nell'intera esisteva l'azione continua e il messaggio ininterrotto del Dio
vivente, la Parola cade in un terreno atto ad accoglierla ed è capita
anche se l'intelligenza speculativa non riesce a penetrarne tutto il
significato. Così il popolo, benché ignorante, è il primo a udire la
parola di Dio.
"Senza la parola di Dio il popolo perisce perché la
sua anima ha sete della parola e anela ad accoglierne tutta la
bellezza". In questa frase appare chiaramente l'affinità profonda
che esiste tra la creazione e la rivelazione, affinità che il peccato ha
potuto offuscare ma non sopprimere. "La bellezza": ricordiamo a
questo proposito che il vocabolo greco charis significa anche
"leggiadria" e "amabilità" e che nella coscienza
cristiana la condizione definitiva dell'umanità e del mondo perfetti
sarà la glorificazione e la piena ed eterna bellezza dell'Apocalisse.
Questo modo cristiano di sentire ha radici profonde nello strato antico.
L'idea di una frattura tra la parola rivelata e la realtà del mondo gli
è estranea, come lo è sempre stata per l'Oriente, per il quale
"nuova creazione" e "beata immortalità" erano i
termini che servivano a designare il frutto della redenzione.
Così profondi sono questi rapporti tra Dio e la sua
creatura che il popolo stesso diventa un mistero divino al quale bisogna
credere. Chi perde il contatto col popolo lo perde anche col Dio vivente
— un'idea, que-
3 I
Fratelli Karamàzov, tr. di A. Poliedro, Milano, Frassi-neffi, 1950,
p. 322.
19
sta, che sa di romanticismo e può quindi apparire
sospetta, ma il cui vero significato si spiega per il legame che in
Dostojevskij esiste tra il "popolo di Dio" e la "nuova
creazione". "Chi non crede a Dio, non crede nemmeno a un popolo
di Dio. Ma chi crede a un popolo di Dio intuirà anche il sacro mistero di
Dio, anche se fino allora non ha creduto in lui". A chi saprà
penetrare nel segreto dell'esisteva umile e credente del popolo, nella
quale si rinnova continuamente il mistero dell'azione creatrice e
redentrice di Dio, saranno aperti gli occhi davanti al mistero stesso di
Dio.
Si è parlato più sopra di romanticismo e Dosto-evskij,
infatti, fu senza dubbio uno dei più grandi romantici. Ma il suo popolo
non è una figurazione romantica in senso superficiale. A parte il fatto
che vi Si manifestino alcuni aspetti essenziali della concezione cristiana
del mondo, questo popolo non è per nulla idealizzato, ma visto in una
luce molto realistica — ove non si intenda per realismo una realtà nuda
e spoglia, della quale Dostojevskij direbbe ch'essa è povertà e aridità
del poeta. Il popolo è visto da lui in tutta la sua sozzura, nei suoi
vizi, nella sua depravazione e ignoranza; torpido, avido, dedito
soprattutto in modo ripugnante al bere. Tuttavia è "popolo di
Dio".
La sua esistenza non è giudicata santa per se stessa —
ove Dostojevskij sembra incline a crederlo, lì egli soggiace al suo
panslavismo metafisico — ma essa in ogni suo aspetto è aperta alla
santità; immediatamente di là dai suoi confini c'è Dio. Può accadere
allora da un momento all'altro che l'individuo più corrotto, standosene
mezzo ubriaco in una taverna, si metta a parlare di Dio e del senso
dell'esistenza con tanta profondità che non si può fare a meno di
ascoltarlo, poiché egli è degno di fede... Ora questo può solo acca-
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dere se tutta l'esistenza, per quella disposizione di cui
s'è detto, confina immediatamente con Dio.
Le donne credenti
Sullo sfondo dei romanzi di Dostojevskij vive ed agisce il
popolo, folla più o meno anonima. Da ogni parte vediamo i suoi sguardi
fissi su di noi, dappertutto sentiamo battere il suo cuore. Da questa
folla spiccano tuttavia con maggior rilievo alcune figure singole
delineate con tratti individuali; eppure totalmente inserite nel tessuto
collettivo. Le troviamo in tutti i romanzi: ora è un servo, ora un
contadino, oppure un piccolo borghese, un soldato; passanti che entrano un
momento, dicono qualche parola e scompaiono tra la folla; clienti di
un'osteria, operai, venditori al mercato, arrivati e decaduti, gente savia
e stolta... Parti-colarmente interessanti ci sembrano alcune figure,
appena rilevate dalla folla anonima, al principio dei fratelli
Karamàzov. Siamo al terzo capitolo del primo libro intitolato
"Le donne credenti", quando il popolo va a trovare il suo grande
amico, lo stàrets Zòsima.
Viene fatta avanzare un'ossessa, una certa Klikusa che
"ogni tanto va fuori di sé, guaisce e abbaia come un cane". Un
caso abbastanza comune. Dostojevskij dice che si tratta di
una terribile malattia femminile, attestante, soprattutto,
pare, da noi in Russia, la dura sorte delle nostre donne di campagna, una
malattia che deriva dalle fatiche sfibranti troppo vicine a parti
laboriosi, irregolari, privi di ogni assistenza medica; e inoltre dalla
disperazione, dalle percosse, ecc., che certe nature femminili non possono
sopportare. (I Fratelli Karamàzov, p. 52).
21
"Disperazione": un eccesso di fatica, di
sofferenza, d'oppressione; e nessun amore che soccorra e illumini, nessuna
possibilità di difendersi, di trovare una via di uscita come saprebbe
fare con la sua ingegnosità e la sua capacità d'invenzione la
personalità che la civiltà abbia resa libera. Qui la creatura è schiava
del suo dolore. Ma per bocca dell'uomo fatto maturo e libero e dalla sua
saggezza nutrita d'amore Dio parla e consola.
Nessuna illusione tuttavia. Sebbene l'inferma in presenza
dello stàrets si calmi e la morsa si allenti, una volta tornata
nel suo mondo tutto sarà ancora come prima. Da un punto di vista umano il
suo destino è senza via d'uscita. Ma Dio è lì presente. Qui non si fa
appello ne alla giustizia, ne alla dignità umana. L'uomo resta legato
alla sua sorte e non se ne libera inte-riormente nemmeno col giudicarla
immeritata. Se poi tutto rimane come prima e recarsi dal sant'uomo procura
soltanto un sollievo effimero, la bontà di Dio non è per questo messa in
dubbio. L'uomo continua ad esistere nel suo immutato soffrire senza via
d'uscita e rimane unito con Dio di cui gli riesce incomprensibile la
volontà senza che la sua fede ne venga turbata.
Incombe qui qualcosa di oscuro e di terribile; tuttavia
nel profondo una voce consola e sulla creatura scende una promessa come
sul seme sepolto nella terra.
Dopo aver parlato all'ossessa lo stàrets si
rivolge a un'altra donna:
— Eccone una che viene da lontano! — diss'egli
indicando una donna non ancora vecchia, ma assai magra e smunta, la quale,
più che abbronzata, era come tutta annerita in viso. Essa stava in
ginocchio e guardava lo stàrets
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con gli occhi fissi. C'era nel suo sguardo una specie di
esaltazione.
Da lontano, bàtjuska, da lontano, trecento verste
da qui. Da lontano, padre da lontano, — cantilenò la donna, dondolando
la testa da una parte all'altra e appoggiando una guancia alla palma della
mano. Parlava come se si lamentasse. C'è nel popolo un dolore
silenzioso e paziente:
esso si ritrae in sé e tace. Ma c'è pure un dolore
lacerante: esso erompe una volta in lagrime e si sfoga, da quell'istante,
in lamentazioni. Specialmente nelle donne. Ma non è più leggero del
dolore silenzioso. I lamenti non acquetano che corrodendo e lacerando
ancora di più il cuore. Un simile dolore non vuoi neanche
conforto, si pasce del sentimento della propria inestinguibilità. I
lamenti non sono che un bisogno d'irritare senza posa la ferita.
— Siete della città? — proseguì lo stàrets,
osservandola curiosamente.
— Della città, padre, della città; veniamo dalla
campagna, ma siamo gente di città, viviamo in città. Sono venuta, padre,
per vederti. Abbiamo sentito parlar di tè, bàtjuska, abbiamo
sentito. Ho sotterrato un figliolino piccoletto, poi sono andata a pregar
Dio. In tré monasteri sono stata, e mi hanno detto: « Va, Nastàsjuska,
anche laggiù », cioè qui da voi, golùbcik, da voi. Son venuta,
ieri sono stata alla messa notturna, e oggi eccomi da voi.
— Perché piangi?
— Piango il mio figliolino, bàtjuska; quasi tré
anni aveva, ancora due mesi soltanto e avrebbe avuto tré anni. È per il
piccino che mi tormento padre, per il piccino. Era l'ultimo figliolino
rimasto, quattro ne avevamo, io e Nikìtuska; ma in casa nostra i bambini
non vivono, benamato, non vivono. I tré primi, li ho sotterrati, e non li
ho pianti troppo, ma quest'ultimo l'ho sotterrato e non lo posso
dimenticare. Ecco, mi par che sia qui, davanti a me:
non si allontana. Mi ha disseccato l'anima. Guardo i suoi
pannolini, la camiciola e le scarpettine, e singhiozzo. (I Fratelli
Karamaz.ov, pp. 52-3).
Ecco un'altra creatura prigioniera di un dolore da cui ne
la ragione, ne la volontà, ne la cultura l'aiuteranno a uscire. Ed è
mirabile vedere come lo stàrets sappia capirne l'esistenza.
23
Da principio egli cerca di consolarla ricordandole che il
bambino è nella gloria di Dio. La donna non dubita, ma il sentimento è
troppo inesorabilmente acerbo:
quel conforto è vano. Lo stàrets si accorge di
essere in presenza di qualcosa di invincibile, contro cui è inutile
lottare:
Questa è l'antica « Rachele che piange i suoi figli e
non può consolarsi, perché essi non sono più », e tale è la sorte a
voi, madri, assegnata sopra la terra. E tu non consolarti, non occorre che
tu ti consoli, non consolarti e piangi; ma ogni volta che piangi,
ricordati senza fallo che il tuo figlioletto è uno degli angioli di Dio,
e di là ti guarda e ti vede, e gioisce delle tue lacrime, e le indica al
Signore Iddio. E ancora a lungo durerà questo tuo sublime pianto materno,
ma ti si convertirà alla fine in gioia tranquilla, e le amare tue lacrime
non saranno più che lacrime di silenziosa tenerezza e di purificazione
del cuore, la quale salva i peccati. (I Fratelli Karamàzov, p. 55).
Nulla è mutato della situazione, perché nulla si può
mutare. Ma questa realtà immutabile sarà offerta a Dio, tutta, in un
abbandono completo, totale, alla Sua volontà. A partire da questo
momento, allora, essa apparirà trasformata. Questo avverrà dall'intimo
del cuore, toccato dalla grazia e offerto a Dio in -dono d'amore. La
trasformazione di un'esistenza insopportabile per la virtù d'amore d'un
cuore pieno di Dio sarà dunque il miracolo che il popolo credente avrà
saputo operare.
Va' da tuo marito, madre, va' oggi stesso. — Andrò,
caro, seguirò la tua parola. Tu mi hai rimescolato il cuore. (I
Fratelli Karamàzov, p. 55).
Poi, dopo la vecchierella che in ansia per il suo figliolo
vorrebbe ricorrere a pratiche superstiziose per
24
averne notizie, è la volta della più cupa di tutte
queste figure:
Ma lo starets aveva già notato nella folla i due
occhi ardenti e fissi su di lui di una contadina macilenta, dall'aria di
tisica, sebbene ancora giovane. Essa lo guardava in silenzio, i suoi occhi
gli rivolgevano una preghiera, ma pareva che temesse di avvicinarsi.
— Tu che hai, mia cara?
— Assolvi l'anima mia, buon padre, — diss'ella con
voce sommessa e lenta, poi si mise in ginocchio e si prostro ai suoi
piedi. — Ho peccato, padre mio, e ho paura del mio peccato.
Lo starets si sedette sull'ultimo scalino, la
donna gli si avvicinò, restando in ginocchio.
— Son vedova, da tré anni. — cominciò con un
bisbiglio, quasi tremando. — Era una vita dura con mio marito; lui era
vecchio, mi aveva caricata di botte. Era in letto, malato; io pensavo,
guardandolo: e se guarisce e si alza di nuovo, che sarà allora? E mi
venne allora questo pensiero...
— Aspetta, — disse lo starets e accostò
l'orecchio proprio alle sue labbra. La donna continuò con un bisbiglio
sommesso, tanto che non si potè quasi afferrar nulla. Terminò presto.
— Sono tré anni? — domando lo starets.
— Tré anni. Dapprima non ci pensavo, ma adesso mi sono
ammalata e l'angoscia non mi lascia più. (I Fratelli Karamàzov,
p. 56).
Ancora un dolore senza vie d'uscita. Una miseria che la
disperazione ha reso colpevole. Solo nel pensiero, ma in questo pensiero
tutto si concentra e diventa malinconia, disperazione. E di nuovo lo starets
vede con chiarezza come stanno le cose e come sia inutile tentare di
dissolvere la compagine serrata di un'esistenza chiusa in se stessa e come
murata nel proprio destino. Qualsiasi ragionamento, qualsiasi conforto o
consiglio urterebbe contro questo muro e ricadrebbe inerte. Perciò egli
parte da questa esistenza e indica
25
nel pentimento la via per cui essa potrà essere
trasformata nella sottomissione a Dio:
« Non temer nulla, non temer mai, e non angosciarti.
Purché il pentimento non s'indebolisca in tè, e poi Dio perdonerà
tutto. Del resto, non c'è, e non ci può essere, su tutta la terra un
peccato che Dio non perdoni a chi si pente sinceramente. Ne l'uomo può
commettere un peccato così grande che esaurisca l'infinito amore di Dio.
Può forse esserci un peccato che sorpassi il divino amore? Non pensare
che al pentimento, senza posa, e scaccia ogni paura. Credi che Dio ti ama
come tu non ne hai nemmeno idea, e ti ama anche col tuo peccato e nel tuo
peccato. Per uno solo che si pente c'è più gioia in cielo che per dieci
giusti, è stato detto da tempo. Va' dunque e non temere. Non affliggerti
per la gente, non andare in collera per le offese. Al defunto perdona in
cuor tuo ogni affronto che ti abbia fatto, riconciliati con lui
sinceramente. Se ti penti, vuoi dire che ami. Ma, se ami, sei già di
Dio... Con l'amore tutto si riscatta, tutto si salva. Se io, peccatore al
pari di tè, mi sono intenerito e ho avuto pietà di tè, tanto più ne
avrà Dio. .L'amore è un tale inestimabile tesoro, che con esso puoi
comprare il mondo intero e riscattare non solo i tuoi peccati, ma anche
gli altrui. Va' e non temere ».
Egli fece tré volte il segno della croce su di lei, si
tolse una piccola immagine e gliela mise al collo. (I Fratelli
Karamàzov, pp. 56-57).
C'è nell'esistenza di questo popolo una grandezza che
rende pensosi. Vera grandezza, non semplicemente una cupa rassegnazione,
che altrimenti esso non potrebbe esser condotto da un pastore d'anime, sia
pure infinitamente saggio e infiammato d'amore, per le vie straordinarie
della rinuncia ad ogni illusione, del-l'accettazione di un destino avverso
compiuta senza gesti eroici, con umile aderenza alla realtà. Chi intuisce
che cosa sia la santità, ossia un'esistenza vissuta incondizionatamente e
con grandezza nella fede, s'accorge che qui ne esistono i presupposti.
26
Ma la semplicità con cui questo popolo affronta e vince
la dura e opaca realtà quotidiana partendo dalle più alte intuizioni
religiose, la prontezza nel capire e nel seguire la via indicata si
spiegano solo con quella generale disposizione dell'animo che abbiamo
descritta. L'esistenza del popolo è direttamente legata alla terra e al
destino. Direttamente, ma non in mero senso naturalistico, pagano; e
nemmeno come lo penserebbe l'idealismo, quasi si trattasse solo del grado
preparatorio di un'esistenza umana completa, di una prima forma di
coscienza che solo attraverso la riflessione diventerebbe pura
spiritualità. Questi sono schemi dell'Occidente e Dostojevskij ha lottato
proprio perché non venissero applicati al suo popolo e ha combattuto,
così facendo, per tutto l'uomo. In quella immediatezza si apre piuttosto
continuamente una "frattura" che, dalla semplice adesione alla
natura e da una forma di pietà pagana, conduce a un profondo rapporto
spiri-tuale-pneumatico con Dio, attraverso l'unione col Cristo e
l'accettazione dell'esistenza come volontà di Dio.
'Paganesimo
Abbiamo già accennato come lo stesso Dostoevskij abbia
passato al vaglio della critica il suo concetto della posizione religiosa
del popolo. Ciò è avvenuto in due personaggi dei Demoni, il
romanzo che più di ogni altra sua opera rivela la minaccia sempre
incombente delle forze della distruzione.
Troviamo qui un personaggio singolare: Màrja Le-bjàdkina,
"la zoppa" degli appunti di Dostojevskij che recenti
pubblicazioni hanno reso accessibili. È la crea-
27
tura deforme e inferma di mente a cui Stavròghin si
unisce sperando di trovare nella mostruosità di questo legame
quell'eccitamento dei sensi che ormai gli è negato.
Questo personaggio è disegnato con un intuito psicologico
incredibile. Màrja Lebjàdkina ha la mente turbata, sovente del tutto
sconvolta. Ma ogni tanto dice cose profonde, addirittura profetiche.
Sembra non accorgersi di quello che avviene intorno a lei e invece rivela
sovente uno spirito d'osservazione straordinariamente acuto. È un povero
essere disgraziato ma non conosce la paura. Vittima di un fratello
depravato che la tormenta, vive tuttavia come le principesse delle fiabe,
libera da ogni senso di minaccia e di paura.
Anche in lei infatti la vita trae alimento dalle forze
elementari di cui s'è parlato e soprattutto da una intima, profonda
comunione con la natura. Questo legame è essenzialmente religioso, ma la
"frattura" di cui si è parlato, la trasformazione di quel
rapporto nella sottomissione fidente alla volontà personale di Dio,
sembra non essere qui avvenuto.
C'è'in Màrja Lebjàdkina qualcosa che ricorda i
personaggi stregati. delle fiabe, un'allegria che rattrista e può
repentinamente mutarsi in malinconia profonda. Si pensa agli uomini cui un
"genio delle acque" ha sconvolto la mente o che hanno avuto
rapporto con i "trolli" e sono diventati un po' strani... Nel
suo spirito le realtà religiose vivono una vita naturalistica, pagana,
mitica come nelle antiche leggende.
Un giorno che Satov è andato a trovarla e s'intrattiene
con lei, ella si abbandona alle sue fantasticherie e gli racconta del
tempo in cui era stata in convento:
A quel tempo una romita che faceva penitenza fra noi
28
per aver predetto l'avvenire mi sussurrò, uscendo dalla
chiesa: — La Madre di Dio, che è secondo tè? — È la Gran Madre, le
risposi, la speranza del genere umano. — Sì, disse, la Madre di Dio è
la gran madre, la terra umida, e in lei è racchiusa una gran gioia per
l'uomo. E ogni affanno terreno e ogni lacrima terrena è per noi una
gioia;
e quando avrai abbeverato la terra sotto di tè con le tue
lacrime per una profondità di mezzo arsin, allora gioirai subito
di ogni cosa. E non avrai più assolutamente nessun dolore, dice, tale è
la profezia. — Questa parola mi s'impresse allora nel cuore. Cominciai
da quel tempo, prosternandomi nella preghiera, a baciare ogni volta la
terra; la bacio e piango. E ti dirò, Sàtuska, che in queste lacrime non
c'è nulla di cattivo; e se anche tu non avessi nessun dolore, le tue
lacrime scorrerebbero ugualmente solo per la gioia. Le lacrime scorrono da
sé, è così. Me ne andavo alle volte sulla riva del lago; da una parte
il nostro monastero, dall'altra la nostra montagna aguzza, che si chiama
appunto Monte Acuto. Io salgo su questa montagna, volto la faccia verso
oriente, cado a terra, piango, piango, e non ricordo più da quanto tempo
io pianga, allora io non ricordo più nulla e non so più nulla. Poi mi
alzo, mi volgo indietro, e il sole tramonta, è così grande, magnifico,
glorioso, -ami tu guardare il sole, Sàtuska? E' bello e triste. Mi volgo
di nuovo indietro verso oriente e un'ombra, l'ombra della nostra montagna,
fugge lontano sul lago, come una freccia, sottile, lunga lunga, e si
stende per una versta più in là, fino all'isola che c'è nel
lago, e quell'isola di pietra la taglia per metà e, appena l'ha tagliata,
il sole tramonta subito definitivamente e tutto si spegne a un tratto. E
allora comincio a sentirmi tutta triste, allora la memoria mi torna
all'improvviso e ho paura dell'oscurità, Sàtuska4.
Si direbbe una vecchia ballata, piena d'incanto... Ma Dio
non è più qui il Dio vivente, il cui volto ci appare in tutte le cose,
la cui voce ci parla in ogni segno, in ogni destino, Dio che trasforma e
santifica la realtà quando andiamo a Lui, Lo invochiamo e
4 I
Demoni, tc. di A. Poliedro, Torino, Slavia, 1929, voi. I, pò. 207-8.
29
ubbidiamo alla Sua parola. La terra qui non è simbolo
della profondità feconda e insieme della sacra inviolabilità dell'ordine
divino, come ad esempio nelle parole che Sònja dice a Raskòlnikov dopo
aver indovinato la sua colpa:
... i suoi occhi, fino allora pieni di lagrime,
subitamente lampeggiarono. — Alzati! (Lo afferrò per una spalla; egli
si sollevò guardandola quasi stupefatto). Va' subito, all'istante, a
metterti sul crocicchio, inchinati, bada dapprima la terra che hai
profanata, e poi inchinati a tutto il mondo, rivolto ai quattro punti
cardinali, e dì a tutti, a voce alta:
« Ho ucciso! » Allora Iddio ti manderà di nuovo la
vita...5.
In Màrja Lebjàdkina c'è ben altro: c'è l'abisso di una
natura non riscattata, una malinconia che attira nelle profondità.
Con la prodigiosa sicurezza dell'artista che crea tipi
umani che s'affermano da soli con una propria atmosfera e una propria
linea, Dostojevskij pone accanto a Màrja Lebjàdkina Sàtov, l'unico
compagno che per una segreta affinità sappia comprenderla. Bruciano
entrambi dello stesso fuoco, ma ciò che per la donna si chiama
"natura", per Sàtov ha un altro nome: si 'chiama
"popolo".
Il romanzo non sviluppa soltanto il lato demoniaco
dell'uomo sciolto da ogni vincolo, della civiltà che ha rinnegato le
proprie origini, ma ci mostra anche il demone opposto: la natura
divinizzata e il popolo innalzato a idolo. Stavròghin, l'incredulo,
l'egoista, ha acceso della mente malata di Sàtov la fede nella divinità
del popolo.
5 Delitto
e Castigo, tr. di A. Poliedro, Torino, Slavia, 1930, voi. II, pp.
173-4.
30
Sàtov ne trae tutte le conseguen2e:
Non un popolo... si è finora fondato sui princìpi
della scienza e della ragione, non si è mai avuto un simile esempio,
salvo forse per un momento, e per istoltezza. Il socialismo già nella sua
essenza dev'essere ateìsmo, poiché ha precisamente proclamato, fin dalle
sue prime parole, di essere un ordinamento ateo e di volersi fondare
esclusivamente sui princìpi della scienza e della ragione. La ragione e
la scienza hanno sempre, adesso e fin dal principio dei secoli, adempito
nella vita dei popoli soltanto una funzione secondaria e ausiliaria; e
l'adempiranno sino alla fine dei secoli. I popoli si formano e si muovono
per un'altra forza imperiosa e dominatrice, ma la cui origine è
sconosciuta e inesplicabile. Questa forza è il desiderio inestinguibile
di giungere a una fine e nello stesso tempo la negazione di questa fine.
È una forza che senza posa e infaticabilmente afferma la propria
esistenza e nega la morte. Lo spirito della vita, come dice la Scrittura,
« i fiumi di acqua viva », del cui esaurimento ci minaccia l'Apocalisse.
Il principio estetico, come dicono i filosofi, il principio morale, come
gli stessi lo identificano. « La ricerca di Dio », come la chiamo io
più semplicemente. Il fine di ogni movimento popolare, in ogni popolo e
in ogni periodo della sua esistenza, è unicamente la ricerca di Dio, del
suo Dio, del suo proprio Dio, e la fede in lui come unico vero. Dio è la
personalità sintetica di tutto il popolo, dalla sua origine sino alla sua
fine. Non è ancora mai accaduto che tutti i popoli o molti di essi
avessero in comune lo stesso Dio, ma ciascuno ha sempre avuto il proprio.
È un segno di decadenza dei popoli quando cominciano ad avere degli dèi
comuni, gli dèi muoiono e muore la fede in loro, insieme con gli stessi
popoli.
Abbasso Dio ad attributo del popolo?... Al contrario,
innalzo il popolo a Dio... Il popolo è il corpo di Dio. Ogni popolo è
popolo solamente fino a quando ha il suo dio particolare e ripudia senza
alcun compromesso tutti gli altri dèi del mondo, finché crede che col
suo dio vincerà e scaccerà dal mondo tutti gli altri dèi. Così tutti
han creduto fin dal principio dei secoli, tutti i grandi popoli almeno,
tutti quelli che si sono in qualche modo segnalati, che sono stati alla
testa dell'umanità... Se un gran
31
popolo non ha fede che la verità sia in lui solo (proprio
in lui solo ed esclusivamente in lui), se non ha fede di essere il solo
capace e chiamato a risuscitare a salvar tutti 'con la propria verità,
diventa immediatamente un materiale etnografico e non è più un gran
popolo... Ma la verità è una sola e, per conseguenza, anche un unico
popolo può possedere il vero Dio, anche se gli altri popoli abbiano i
loro grandi dèi particolari. L'unico popolo « portatore di Dio » è il
popolo russo. (I Demoni, voi. II, pp. 65-66 e 67-68).
Ragionamenti mostruosi — e si direbbero pensati oggi-
Qui non è più il popolo di cui si parlava dianzi. Si
rivela qui piuttosto l'elemento demoniaco potenzialmente presente in
quella concezione del popolo. E la forza religiosa che qui è chiamata
"Dio" non è più il Dio vivente, Creatore e Signore, di cui si
è parlato, Cristo redentore che ci da la forza di vincere noi stessi, ma
qualche cosa che indurrà un giorno a porre il popolo e —- date altre
premesse — lo Stato come assoluto.
Una pagina più avanti ne troviamo la conferma, in parole
di inaudita veemenza:
Nikolàj Vsjevolòdovii lo guardò severamente: —
Volevo soltanto sapere: voi stesso credete in Dio o no?
— Io credo nella Russia, io credo nella sua
ortodossia... Io credo nel corpo di Cristo... Io credo che il nuovo
avvento si compirà in Russia... Io credo... — si mise a balbettare
Sàtov, esaltato.
— Ma in Dio, in Dio?
— Io... io crederò in Dio.
Non un muscolo vibrò sul viso di Stavròghin. Sàtov lo
fissava con uno sguardo di fuoco, provocante, come se col suo sguardo
volesse incenerirlo. (J Demoni, voi. II, pp. 69-70).
32
CAPITOLO SECONDO
LE SILENZIOSE E LA GRANDE ACCETTAZIONE
Comunità di popolo e individuo
Nel capitolo precedente abbiamo parlato dell'esistenza
religiosa del popolo e spiegato come Dio vi sia sentito presente nella Sua
viva realtà. Come si è visto, per Dostojevskij il "popolo" è
l'uomo che vive la vita nei suoi aspetti più semplici e veri perché è
inserito nel suo vivo ed organico tessuto; Dio gli appare come Colui che
tutto crea, governa e muove e che s'incontra nell'umile esistenza
quotidiana.
Dio non è sentito però come "natura", semplice
matrice di questa esistenza, radice del mondo. Sul piano che dal puro
ordine naturale conduce a Dio appare a un certo punto una frattura: in
ciò che è e accade è veduto il Cristo, in ogni avvenimento è
riconosciuta la volontà di Dio ed in questo spirito di volontaria
sottomissione è vissuto il dolore, sostrato permanente della nostra vita.
In tal modo viene superato quello stato di immediatezza naturalistica che
chiamiamo paganesimo — concezione pagana della natura o del popolo.
Accettando con semplicità l'esistenza dalla mano di Dio, la volontà
personale si trasforma in volontà divina e così, senza che la creatura
cessi di esser unicamente creatura e Dio veramente Dio, si attua la loro
unità vivente.
33
Questo rapporto e l'immagine che esso suggerisce di una
maestà divina, semplice, intima e misteriosa, presuppone che l'uomo resti
fedele all'esistenza che gli è data e non assuma un atteggiamento
artificioso di riflessione e di critica. Abbiamo già visto così alcune
figure prender rilievo per una loro più spiccata individualità, senza
per questo differenziarsi dalla massa anonima.
Vi sono ora in Dostojevskij altri personaggi che vivono
con la stessa semplicità e immediatezza delle "donne credenti"
l'esistenza quotidiana, ma in condizioni sociali e culturali più
differenziate, figure perciò più mosse e con una personalità più
rilevata. Salva restando la sostanziale semplicità del loro atteggiamento
di fronte alla vita, vediamo questo assumere aspetti più vari e rivelare
una sensibilità più delicata e più ricca, È il caso che si verifica
quando un tipo semplice, pur non avendo ancora perso il suo carattere
univoco, si è già troppo differenziato per poterlo conservare ancora per
molto tempo. Momento, dunque, di grandi possibilità espressive,
interessantissimo: ancora un passo e il tipo, in questa generazione o
nella seguente, avrà perduto la sua semplicità.
. Sono figure di questo genere Sònja, la compagna di
Vèrsilov, nell'Adolescente e un'altra Sònja, l'amica di Rodion
Raskòlnikov, in Delitto e Castigo.
Sònja Andrèjevna
Sònia Andrèjevna è moglie di Macario Dogoiruki, il
"pellegrino", e madre di Arcadie Makarovic, 1"'A-dólescente".
Essa vive però col suo antico padrone, Andrèj Petrovic Vèrsilov che è
il padre di Arcadie.
34
La sua condizione umana è determinata dalla sua posizione
tra questi due uomini.
Macario è un uomo singolare — parleremo di lui
ancora a lungo nel capitolo seguente. Da come ce lo descrive Vèrsilov è
un uomo alto e di bell'aspetto, serio, di nobile carattere,'assorto in una
sua intensa vita intcriore che coll'andar del tempo si andrà facendo
sempre più profonda. È servo della gleba, ma tutti lo sentono superiore
alla sua condizione e se più tardi Vèrsilov, il suo padrone, finirà col
trattarlo quasi da pari a pari, vi sarà indotto appunto dalla sua
nobiltà innata. Egli ha sposato Sònja, ma all'epoca del matrimonio era
già vecchio, molto più vecchio della sposa che aveva tenuta in braccio
bambina, quando ancora "non si reggeva sulle gambette".
Padrone della tenuta è Vèrsilov •— una varietà del
tipo dostoevskjano del "grande peccatore", cui fanno riscontro
Stavròghin nei Demoni e Ivàn, e sotto un certo aspetto anche
Aljòsa, nei Fratelli Karamàzov — un personaggio in cui
l'elemento geniale si mescola col patologico, aperto ai sentimenti più
nobili e nello stesso tempo minacciato dalle forze del male, da tutto ciò
che è insano e persino demoniaco, una di quelle nature sempre sospese
sopra un abisso, nelle quali i problemi più gravi del nostro tempo si
pongono non soltanto all'intelligenza ma anzitutto nell'essere.
Nel suo tono tra ironico e annoiato che però sovente cela
l'impeto di una commozione improvvisa e talvolta persino uno smarrimento
doloroso, Vèrsilov racconta a suo figlio, l'Adolescente, come egli andò
un giorno alla fattoria e la giovane sposa si diede a lui:
Giuro che attualmente sono estremamente pentito e che ora,
in questo istante, per la millesima volta, vanamente rimpiango quel che
accadde vent'anni fa. Inoltre^
35
Iddio sa che tutto questo avenne del tutto
involontariamente... e, in seguito, per quanto fu nelle mie forze, tutto
si svolse nel modo più umano; almeno secondo quel ch'io allora stimavano
umano '.
Questa storia è narrata con un singolare realismo che
starei per dire fantastico. Vèrsilov non vuoi più lasciare la donna ma
nemmeno abusare come padrone della sua autorità perché, a parte i suoi
princìpi liberali, intuisce la nobiltà del carattere di Macario.
Confessa perciò a quest'ultimo l'accaduto e cerca di indurlo a un
compromesso, a dire il vero non molto onorevole:
Gli offrii allora tremila rubli... Gli assicurai sulla mia
parola che, se avesse accettato le mie condizioni, cioè tremila rubli, la
libertà (a lui e alla moglie beninteso), ed un viaggio anche in capo al
mondo (ma senza la moglie beninteso) lo dicesse senz'altro e
immediatamente gli avrei dato la libertà. Avrei fatto tornare a lui la
moglie, li avrei ricompensati ambedue con tremila rubli... Il giorno dopo
acconsentì al viaggio..., senza una parola, s'intende... ma senza
dimenticare uno solo dei compensi da me offerti. (L'Adolescente,
pp. 211-213).
Macario ha dunque accettato la nuova situazione; o meglio,
ha dichiarato di rendersene conto e di non opporsi, visto che opporsi
sarebbe inutile. Questo con tutta sincerità. Con la stessa sincerità
perdona a sua moglie quello che è stato e sarà ancora, senza cessare per
questo di volerle bene, ma anche senza rinunciare ai suoi diritti e trovar
giusto quello che è ingiusto. Si fa poi pellegrino e noi lo incontreremo
ancora, quando sarà cresciuto all'altezza di una grande fi-
1
L'Adolescente, tt. di E.
Amendola Kuhn e F. Tosti, Torino, FrassineUi, 1943, p. 209.
36
gura religiosa, quale impareremo ancora a conoscerlo.
Manterrà tuttavia regolari rapporti con gli altri due e con l'andar del
tempo farà di loro i suoi "figli spirituali", cogliendo in tal
modo l'occasione che l'età gli offre per uscire da una situazione
impossibile.
Li ama entrambi, eppure non dimentica quello che è
accaduto. Non ne parla mai, ma il sentimento dell'ingiustizia subita
rimane immutato. A sua volta Vèr-silov è pienamente consapevole del
torto che gli ha fatto e gli continua a fare, ma non rinuncia alla donna.
E finalmente Sònja diventa per lui strumento di salvezza.
Tutto questo racconto è molto strano e mette in rilievo
la profonda differenza che separa la struttura della personalità
orientale dall'occidentale.
Tra questi due uomini Sònja Andrèjevna si trova in una
situazione assai difficile; pure ella è diversa da come noi, forse, la
pensiamo.
Suo figlio ne fa un ritratto molto penetrante:
II suo viso era, talvolta, straordinariamente attraente.
Aveva fattezze semplici, ma per nulla volgari, era un po' pallida e
anemica. Le sue guance erano molto magre, perfino emaciate e sulla faccia
si vedevano molte rughe;
intorno agli occhi, invece non ve n'erano; e gli occhi,
abbastanza grandi e aperti, ardevano sempre di una luce dolce e
tranquilla, che m'aveva attratto verso di lei fin dal primo giorno. Amavo
anche in lei il fatto che nel suo viso non vi era mai alcuna espressione
di tristezza e di avvilimento; la sua espressione anzi sarebbe stata
addirittura lieta, se non fosse stata così spesso preoccupata;
s'impauriva a volte saltando su per delle inezie e senza ragione,
ascoltava talaltra, tutta agitata, la conversazione di qualche
sconosciuto, finché non si fosse persuasa che tutto andava come prima.
Proprio così: secondo lei, tutto andava bene, se era come prima!
L'essenziale per lei era che nulla cambiasse, che
37
non avvenisse nessuna novità, neppure piacevole. Si
sarebbe potuto credere che qualche cosa l'avesse molto spaventata nella
sua infanzia. Oltre i suoi occhi, mi piaceva l'ovale allungato del suo
viso e credo che se gli zigomi fossero stati un tantino meno sporgenti,
non soltanto in gioventù, ma anche adesso avrebbe potuto essere detta una
bella donna. Non aveva più di trentanove anni, ma i suoi capelli color
castano-scuro cominciavano già ad essere qua e là brizzolati. (L'Adolescente,
pp. 163-64).
A sua volta Vèrsilov nel tono leggero che gli è abituale
dice di lei cose assai profonde:
Umiltà, innocuità, remissività e nello stesso tempo
fermezza, forza, vera forza: ecco il carattere di tua madre. Nota ch'è la
migliore di tutte le donne ch'io abbia mai incontrato. E che vi sia in lei
della forza lo attesto io, che ho visto come questa forza l'abbia
sostenuta. Quando si tratta, non dirò già di convinzioni, che in questo
caso non vi possono essere, ma di quella che da tipi come lei vien
chiamata convinzione e che sembra santa per loro, queste donne son pronte
ad affrontare anche il martirio-Diro a questo proposito, fra parentesi,
che non so perché ma ho il sospetto che ella non abbia mai creduto alla
umanità dei miei sentimenti e perciò abbia sempre tremato dinanzi a me;
ma, pur tremando, non si lasciò tuttavia piegare a nessuna educa2Ìone.
Simile gente è capace, non so come, di una tale resistenza che noi non
arriviamo neppure a comprendere e in genere sa meglio di noi sbrigare i
propri affari. È capace di continuare a vivere a modo suo nelle
situazioni più innaturali, rimanendo coerente a se stessa in situazioni
del tutto aliene alla propria indole. Noi non sappiamo agire così.
— Chi è questa gente di cui parlate? Non vi capisco!
— Il popolo, amico mio; parlo del popolo. Da molto tempo
ormai ha dimostrato questa sua grande forza vitale, moralmente e
politicamente. Ma, per tornare al nostro problema, dirò che tua madre non
sempre tace; dice talvolta qualcosa, ma lo dice in un modo tale che tu
subito t'accorgi d'aver perduto il tuo tempo a parlare, pur essendoti per
cinque anni dedicato a prepararla gradatamente. Inoltre le sue risposte
sono sempre inattese. Nota ancora ch'io non
38
la reputo affatto una donna stupida: anzi, in questo suo
modo d'agire vi è una certa intelligenza che a volte è perfino
straordinaria. (L'Adolescente, pp. 207-208).
È una figura che non si dimentica, di cui sentiamo tutta
la forza profonda, la silenziosa perseveranza.
Sònja sa di aver fatto male. Avrebbe trovato
natura-lissimo che suo marito le chiedesse conto della sua condotta e la
trattasse duramente. D'altra parte sembra — come dobbiamo dire? —
ch'ella non ritratti la sua a-zione ma la lasci stare com'è... Quando
Macario la lascia libera, o meglio, dichiara di non voler far nulla per
rivendicare i suoi diritti, ella non prova in fondo alcuna gioia; sente
che ciò non conferma in alcun modo un eventuale diritto della passione,
ma accetta l'offerta... Quando poi vive con Vèrsilov sa di essere sempre
in colpa perché il suo matrimonio non può esser sciolto. Tuttavia non
cambia vita, senza che si possa parlare per questo di un'infatuazione
passionale, di leggerezza, di ostinazione, o, peggio ancora, di cinismo.
Ella ama Vèrsilov di un amore costante, immutabile. Sa anche che per lui
questo amore è la salvezza, sebbene egli la tratti con la volubilità
capricciosa di un malato. Ma ella sa anche che questo non attenua la loro
colpa. Il perdono di Macario, dato per il passato e per l'avvenire, la
libertà ch'egli le ha concesso di vivere con Vèrsilov, hanno reso
possibile tutto questo, ma ella non si sente in alcun modo giustificata.
Soltanto, Macario acquista ai suoi occhi una grandezza sacra e misteriosa
e la sua colpa resta, se è lecito dire una cosa simile, in qualche modo
santificata — un concetto, questo, che la nostra coscienza occidentale,
ove si sia conservata intatta, non si sente di appro-
39
vare e che, applicato da noi, condurrebbe probabilmente
presto all'ipocrisia; ma qui esso sembra il solo atto ad esprimere lo
stato d'animo di Sònja.
Un giorno, poco prima della morte di Macario, Sònja,
ormai invecchiata — i figli di lei e Vèrsilov, Lisa e l'Adolescente,
sono già grandi — si è seduta vicino al figliolo infermo e ha
ragionato con lui del corso singolare della sua vita. Il racconto prosegue
poi così:
Pronunziò queste parole svelta svelta, arrossendo, e poi
volle andarsene subito, perché anche lei non amava mostrare i suoi
sentimenti, e in questo mi somigliava, e poi, naturalmente non voleva
mettersi a parlare con ine di Macario Ivànovic; bastava quel che ci
potevamo dire con lo sguardo. Ma questa volta fui proprio io, che odiavo
ogni esibizione di sentimenti, ad afferrarle con forza la mano:
la guardavo con dolcezza negli occhi, sorridendo
quietamente e teneramente, e coll'altra mano accarezzavo il suo caro viso,
le sue guance infuocate. Ella si chinò e premette la fronte contro la
mia.
Ebbene, che Cristo sia con tè, — disse all'improvviso,
raggiante. — Guarisci... Tè ne rimeriterò. Poveretto, (Macario) è
molto, molto ammalato. È Iddio che dispone della vita... Ah, che cosa ho
detto, no, non può essere!...
Se n'andò. Aveva sempre stimato per tutta la sua vita, con
venerazione e tremore, il suo legittimo marito, il pellegrino Macario
Ivànovic che le aveva perdonato generosamente una volta per sempre. [L'Adolescente,
pp. 57-77).
Non è facile voler spiegare questa figura senza toccare
ciò che invece non va nemmeno sfiorato.
Forse ella è così: la sua forza non sta nel prendere
un'iniziativa, ma è tutta nel ricevere. E questo avviene con tanta
semplicità, con tale oblio di sé, che la sua figura assurge a una tacita
grandezza.
Ella subisce la vita, ma con fermezza, come in un profondo
consenso e senza lasciarsi dominare o diso-
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rientare dagli eventi. Quando un avvenimento decisivo si
è compiuto, nulla vale più a cancellarlo dalla sua coscienza ed esso vi
acquista una realtà sempre più viva e vissuta. Così, per questa sua
limpida forza, tutta l'esistenza si concentra in pochi momenti essenziali
connessi a quell'avvenimento.
Per il suo modo di sentire, destino, colpa, necessità . e
sacrificio sembrano stranamente formare una cosa sola. Sebbene non sembri
disposta a tornare indietro, ella riconosce il suo peccato e lo condanna
sinceramente... Non sa come avrebbe potuto agire in modo diverso ma non
consentirebbe mai a cercare una giustificazione al suo agire. Sa che esso,
ancor oggi, è colpevole, ma non pensa nemmeno un istante di cambiar vita.
E se di qualsiasi altra donna potremmo dire che cerca di illudersi, che
giudica superficialmente il suo torto o che la sua condanna non è
sincera, nel caso di Sònja non possiamo far altro che crederle.
. È una creatura singolare. La coscienza di esser
colpevole è in lei sempre ugualmente viva e dolorosa, eppure non fa nulla
per mutare il suo stato. Potrebbe forse, pensa Sònja, esser diverso?
Tutta la vita offre con le sue vicende un sviluppo inestricabile ed ella
l'accetta senza cercare di spiegarsela.
Ma nel suo intimo il contegno di Macario solleva
tutto, e dunque anche lei, su un piano religioso.
Forse — dico così perché sono argomenti che danno una
responsabilità non lieve — forse le cose stanno in questo modo: Sònja
sa di essere colpevole ma sente su di sé la mano di Dio. Oppure è
profondamente pia, ma questa pietà non le fa evitare il peccato. Del
resto queste considerazioni, come altre del genere, lasciano
insoddisfatti. Non toccano il segno, probabil-
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mente perché tutta la vicenda è giudicata da un punto di
vista troppo occidentale. La pietà di Sònja, forse, sta nel suo doloroso
immobilizzarsi in un destino che secondo lei non poteva essere diverso, in
una colpa che, ella sa, non avrebbe dovuto commettere ma che non vede come
avrebbe potuto evitare.
Rimane ferma in un atteggiamento di silenziosa e dolente
perseveranza, che è solo possibile perché ella sente in qualche modo la
presenza di Dio in ogni cosa.
Tutto in fondo è incomprensibile. Ma ella non chiede di
capire. Nulla deve essere spiegato: non il destino, non la colpa, non
l'amore, non il consenso. E nemmeno — anche se non è detto — la
presenza di Dio in ogni cosa. Nulla di "nuovo" deve aggiungersi.
Soffrire sino in fondo il mistero di questa vita sembra essere la sua
sorte particolare.
Anche qui Dio è Colui che ci viene incontro
nell'esistenza quotidiana. Questa esistenza è incomprensibile e perciò
Dio è anzitutto mistero. Mai si chiede se Dio sia; Egli è. Mai si chiede
se sia santo, se aborrisca la colpa con avversione infinita; Egli la
aborrisce. Mai si chiede se Egli sia l'amore, un amore che tutto
comprende; Egli è amore. Mai è chiesto se ciò • che accade venga da
Lui, se Egli sia presente in ogni cosa; è così. E tutto questo è
incomprensibile.
La donna, Sònja, porta il peso di questo mistero e
intanto si aprono in lei profondità alle quali non sapremmo che nome dare
perché manca forse a definirle la categoria corrispondente. La filosofia
morale d'Occidente sembra rifiutarsi di fornire qui un concetto positivo,
nel timore — e non ascoltare l'avvertimento sarebbe per noi fatale! —
che si possa cancellare
42
la linea che divide il giusto dall'ingiusto, il bene dal
male. Neppure il nostro pensiero religioso occidentale sembra poter dare a
questa esistenza un valore positivo senza incontrare difficoltà. Ma se
sapremo coglierne la profonda nota originale, sentiremo chiaramente di
trovarci in presenza di qualche cosa di grande moralmente e anche dal
punto di vista cristiano.
Tutto in lei esprime questo mistero doloroso di una colpa
che pure in qualche modo è santificata. Esso ci appare ancora una volta
in un ricordo dell'Adolescente, un giorno che la mamma è andata a
trovarlo in collegio ov'egli ha trascorso la sua infanzia solitària. Ella
ha parlato con lui e col direttore dell'istituto e ora si volge per
andare:
Obbediente scesi le scale dietro la mamma; uscimmo dal
portone: io sapevo che tutti mi guardavano dalla finestra. Mamma si voltò
verso la chiesa e per tré volte si fece il segno della croce con un
inchino profondo; le sue labbra tremavano, la campana suonava forte e
solenne dal campanile; a un tratto non potè più frenarsi, mi pose le
mani sul capo e incominciò a piangere.
— Mammina, basta... è una vergogna... ci, vedono
dalla finestra...
Ella si raddrizzò in fretta.
— Oh, Signore... che Iddio sia con tè, che gli angeli
celesti ti proteggano, la Santa Vergine, il Santo Nicola... Oh Signore, oh
Signore! — ripeteva svelta svelta, facendosi sempre il segno della
croce; — cuoricino mio, mio caro! Aspetta, colombino...
In fretta si frugò in tasca e ne tirò fuori il
fazzoletto turchino a quadretti; un angolo era legato fortemente con un
nodo, ed essa si mise a scioglierlo... ma era duro.
— Ebbene, fa lo stesso, prendi anche il fazzoletto, è
pulito, ti può servire, ci son dentro quattro monetine da venti copechi;
potranno servirti; perdona, cuoricino, non
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ho di più in questo momento... perdona, colombino mio. *
Presi il fa2zoletto; volevo osservare che il signor
Tou-chard ed Antonina Vasilievna ci davano un ottimo vitto e che non
avevamo bisogno di nulla, ma mi trattenni.
Ancora una volta mi fece il segno della croce, ancora una
volta recitò sottovoce una preghiera e ad un tratto mi fece un inchino
come aveva fatto prima ai Touchard; un inchino profondo, lento, lungo: non
lo dimenticherò mai. Trasalii senza sapere perché. Che cosa aveva voluto
significare questo inchino? confessava forse la sua colpa dinanzi a me?
Soltanto molto più tardi tale spiegazione mi venne in mente. Ma allora
provai una vergogna immensa, perché « di lassù mi guardavano e Lambert,
forse m'avrebbe picchiato » (L'Adolescente, pp. 558-39).
Se chiedessimo a Sònja: « È bene quello che fai? »
risponderebbe: « No ».
E ancora: « L'aiuto che dai a Vèrsilov ti giustifica? »
risponderebbe: « Oh, no! ».
« Non sarebbe meglio che tè ne andassi? ». « No! ».
« Ma cosa vuoi dire tutto questo? ». « Dio lo sa ». « E che
cosa farai adesso? ». « Rimango ».
E noi dobbiamo crederle. Credere che possa darsi
un'esperienza simile, vissuta e sofferta nella sua contradditorietà
dolorosa: ma senza ricavarne un principio, una teoria.
Questa è la storia di Sònja. Ella però rifiuterebbe
istintivamente anche solo di pensarla come l'abbiamo narrata noi. Ella la
vive ma non ammetterebbe mai una giustificazione anche solo teorica,
poiché questo farebbe sprofondare tutto nell'abisso. Per la propria
salvezza, esigerebbe che fosse mantenuto un chiaro giudizio di condanna.
Poiché ella può vivere solo a patto che questo giudizio non sia
infirmato. Appena il suo fare e patire fossero accolti in una teoria che
li spiegasse e li giustificasse, verrebbe infirmata la di-
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stinzione stessa tra ciò che è bene e ciò che è male.
Comincerebbe allora quella mistificazione diabolica a cui soggiace Rodion
Raskòlnikov e dalla quale Ivàn Karamàzov trarrà la sua filosofia della
rivolta.
Sònja Semjònovna
Nel romanzo "Delitto e Castigo tocca a
un'altra Sònja sostenere il peso delle cose incomprensibili.
Ella è la figlia di primo letto di un ex funzionario, il
consigliere titolare Semiòn Marmelàdov. Questi si è risposato "per
compassione" con una povera vedova, Katjerìna Ivànovna, ed anche da
questo matrimonio sono venuti dei figli. Poi l'uomo ha cominciato a bere,
si è rovinato, e il romanzo ha inizio con l'incontro, avvenuto in
un'osteria, fra l'inquieto ed errabondo Raskòlnikov e Marmelàdov. Questi
fa il racconto delle sue miserie: la famiglia si trova ridotta non solo in
povertà ma nell'indigenza assoluta e un giorno Katjerìna Ivànovna ormai
consunta dalla tisi ha rinfacciato alla figliastra di non essere di alcun
aiuto, di non fare quello che tante altre fanno, sicché questa è uscita
in silenzio ed è andata a vendersi. Per la denuncia di alcune vicine
malevole, Sònja ha poi dovuto farsi iscrivere nella lista delle
prostitute e ora la famiglia vive del suo disonore.
Dopo il suo delitto Raskòlnikov capita per caso in questa
famiglia. Egli sente che la fanciulla si trova in una situazione analoga
alla sua, esclusa dalla cerchia delle persone rispettabili. Mentre in ogni
altro luogo egli è costretto a tacere, qui può parlare. Si confida con
lei ed infine, dopo aver lottato a lungo con se stesso, segue il consiglio
di Sònja e va a costituirsi.
45
Viene così condannato; ella lo segue in Siberia e lo
aiuta col suo amore a rinascere a una vita nuova.
Sònja è la più soave tra le figure femminili di
Do-stojevskij. Ben si può dire ch'ella rappresenti per lui l'infanzia
cara a Dio e sia espressione del mistero del Regno di Dio che va ai
fanciulli e agli umili, non ai grandi e ai sapienti, e accoglie i
pubblicani e le peccatrici mentre la gente rispettabile e "per
bene" •lo rifiuterà. Così ella è "creatura di Dio" in
un senso tutto particolare, in quanto cioè su di lei sta insondabile il
mistero della divina Provvidenza. In questo mondo ella è indifesa, eppure
è avvolta nella sollecita protezione del Padre.
Sònja ci appare la prima volta quando si reca da
Raskòlnikov per invitarlo all'ufficio funebre di suo padre:
In questo momento l'uscio si aprì piano e nella stanza,
guardandosi timidamente attorno, entrò una fanciulla. Tutti si volsero
verso di lei con meraviglia e curiosità. Raskòlnikov di primo acchito
non la riconobbe. Era Sònja Semjò-novna Marmelàdova... Era una ragazza
modestamente e quasi poveramente vestita, dall'aspetto ancora molto
giovanile che quasi sembrava una bambina, modesta e garbata di modi, con
un viso sereno, ma come un po' spaurito. Aveva indosso un vestitino da
casa semplicissimo, in capo un vecchio cappello non più di moda... Avendo
inaspettatamente trovato una stanza piena di gente, più che rimanere
impacciata, si smarrì del tutto, s'intimidì come un bimbo, e fece anche
la mossa per ritirarsi.
E più avanti:
Durante la conversazione Raskòlnikov l'aveva attentamente
considerata. Ella aveva un visetto magrolino, molto
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pallido, abbastanza irregolare, un po' aguzzo, con un
piccolo naso e un mento aguzzi. Non la si poteva neppur dire bellina, ma
in compenso i suoi occhi celesti erano così limpidi e, quando essi si
animavano, l'espressione del viso diventava così buona e semplice, che
involontariamente ci si sentiva attirati. Il suo volto, come tutta la sua
figura, aveva poi anche una speciale caratteristica: non ostante i suoi
diciott'anni, ella sembrava quasi ancora una fanciulletta, sembrava di
gran lunga più giovane che non fosse, quasi una vera bambina, e tale
caratteristica si manifestava a volte, in modo persino un po' buffo, in
certe sue mosse. (Delitto e Castigo, voi. I, pp. 283 e 285-6).
Ma soprattutto quando Raskòlnikov, che ella ormai ama con
tutta l'anima, le lascia indovinare il suo delitto, appare in lei e ci
commuove il candore infantile.
... La guardava e a un tratto gli sembrò di vedere nel
suo viso quello di Lizavèta, quando egli le si avvicinava con l'accetta e
lei indietreggiava verso la parete, con un ' braccio teso in avanti, con
uno spavento tutto infantile sul volto, proprio come i bimbi, quando
cominciano d'un tratto ad aver paura di qualche cosa, e guardano fissi con
inquietudine l'oggetto che li spaventa, indietreggiano e, tendendo innanzi
la manina, si preparano a piangere. Quasi la stessa cosa accadeva ora a
Sònja: ugualmente inerte, ugualmente sbigottita, lo guardò un po' di
tempo, e d'un tratto, allungando innanzi il braccio sinistro, lievemente,
appena appena gli appoggiò le dita sul petto e prese a sollevarsi adagio
dal letto, arretrando sempre di più, mentre il suo sguardo si faceva
sempre più immobile. L'orrore di lei si comunicò d'improvviso anche a
lui: proprio lo stesso sgomento comparve anche sul suo volto, proprio allo
stesso modo cominciò egli pure a guardarla, e quasi perfino con lo stesso
sorriso infantile. (Delitto e Castigo, voi. II, p. 163).
Una volta Raskòlnikov, in un'ora di felice abbandono,
pensando a Sònja sente la sua immagine sorgergli
47
spontaneamente dal cuore e l'associa a quella Lizavèta a
cui Sònja era unita da un'amicizia singolare. "Lizavèta, Sònja,
care, silenziose creature. Voi non vi difendete, ve ne andate... dolce,
cara Sònja". Forse in queste parole è la chiave di quest'anima
così semplice eppur misteriosa. Sònja non si difende; accetta. "Non
chiedere nulla, non rifiutare nulla", così è stata definita una
volta la suprema santità del cuore. Qualcosa di simile ci sembra di
scorgere qui, pur nel paradosso di una situazione terribile. Sònja
accetta la rovina immeritata in cui l'ubriachezza del padre ha gettato la
famiglia. Non cerca di difendersi, neppure ribellandosi inferiormente o,
almeno, esprimendo un giudizio. Trova, naturale che la matrigna le
rinfacci la loro miseria. E quando Raskòlnikov si esprime poco
favorevolmente nei riguardi della donna, ne prende le parti:
Mi batteva! Che avete mai detto? O Dio! mi batteva! E
anche se mi avesse battuta, che ci sarebbe! Via, che ci sarebbe? Voi non
sapete nulla, nulla... (Delitto e Castigo, voi. II, p. 52).
Sònja non si difende, ma non è debole. Quando •occorre,
questa personcina rivela una forza indomabile. Nella chiarezza della sua
coscienza singolarmente diritta tien testa all'uomo che pure ella ama
quando egli tenta di giustificarsi con la teoria del superuomo. Esige da
lui la verità inferiore e l'espiazione della colpa. Ma lo segue poi in
Siberia e condivide i suoi sentimenti. Là, dove il sacrificio spontaneo
sembra essere la sua naturale atmosfera, ella s'incarica con la stessa
spontaneità ed energia dell'assistenza ai condannati, sicché
"mammina Sònja" diventa in breve tempo un personaggio
importante. Le lettere in cui ella
48
manda notizie ai parenti di Raskòlnikov esprimono in
maniera assai caratteristica la forza serena che emana di tanta
abnegazione:
Sònja... ogni mese regolarmente scriveva a Pietroburgo...
e regolarmente ogni mese riceveva di là una risposta. Le lettere di
Sònja parvero dapprima a Dùnja e a Razumichin — sorella e cognato di
Raskòlnikov — un po' aride e poco esaurienti; ma finirono tutt'e due
per riconoscere che meglio non si poteva scrivere, perché da quelle
lettere ri- • sultava pur sempre l'immagine più completa e più precisa
della sorte del loro infelice fratello. Le lettere di Sònja eran piene di
una realtà quotidiana, di una descrizione quanto mai semplice e chiara di
tutto l'insieme della vita di Raskòlnikov nel reclusorio. Non vi si
esponevano ne le speranze personali di lei, ne le sue congetture
sull'avvenire e nemmeno ella vi descriveva i propri sentimenti. Anziché
dei tentativi di spiegare lo stato morale di lui e in genere tutta la sua
vita intcriore, vi erano solo dei fatti, cioè parole da lui dette,
notizie precise sullo stato della sua salute, desideri espressi nel tale
colloquio, cose che le aveva chieste, o di cui l'aveva incaricata,
eccetera. Tutte queste notizie venivan date nel modo più
particolareggiato. L'immagine dello sventurato fratello finì per venir
fuori da sé e disegnarsi precisa e limpida; ne ci potevano essere errori,
perché tutti quelli eran fatti genuini. (Delitto e Castigo, voi.
II, pp. 312-13).
C'è qui un chiara e coraggiosa aderenza alla realtà. E
ci troviamo così davanti al paradosso di un atteggiamento inerme che in
ultima analisi è un segno di forza, e proprio solo di chi si sente nelle
più profonde radici dell'essere perfettamente sicuro. Ci sembra di vedere
attuato qui qualcosa di simile a ciò che esprime la parola di san Paolo:
"Non resistete al male, ma vincete il male col bene", o anche la
parola del Signore: "Se uno ti percuote sulla guancia sinistra,
offrigli anche la destra".
C'è qui la forza di una libertà inconsapevole, un
49
Ulteriore raccoglimento verso un centro sicuro, sebbene
non di sé cosciente.
Un giorno il discorso cade sulla spaventosa miseria che
regna nella casa di Sònja:
Sònja disse dò in uno stato di disperazione, agitandosi
e soffrendo, mentre si torceva le mani. Le sue pallide guance si accesero
di nuovo, nei suoi occhi si espresse lo spasimo. Si vedeva che era tutta
rimescolata, che aveva una gran voglia di dire qualcosa, di parlare, di
prender le parti di Katjerìna Ivànovna. Una specie di pietà
insaziabile, se così d si può esprimere, si dipinse all'improvviso
in tutti i suoi lineamenti. {Delitto e Castigo, voi. II, p. 51).
"Compassione insaziabile": l'altruismo che la
disarma e le fa accettare un destino qualsiasi senza giudicare, senza
condannare; che le da anche la genialità del cuore, ond'ella vive, come
se fosse sua, la sorte altrui, ma senza pretenziosità, senza
inframmettenze e vanità alcuna. La sua è pura, fervida partecipazione.
In questo fervore generoso la figura e il destino del suo
prossimo emergono chiaramente e acquistano l'ambito dove esprimersi nella
propria verità. Così, ad esempio, quando ella prende le parti della sua
disgraziata matrigna:
È così infelice; ah, com'è infelice! Ed è malata...
Perdo cerca giustizia... È pura... Crede che in tutto vi debba essere
giustizia e lo esige. E se anche la tormentate non farà niente di male.
Lei stessa non si accorge che è impossibile che tra uomini vi sia
giustizia, e si irrita... È come un bambino, come un bambino, è giusta,
giusta.
Una donna, forse è bene ricordarlo, parla così di
un'altra donna che l'ha spinta a disonorarsi. Questa compassione
chiaroveggente assurge a vera
50
grandezza
nell'ora in cui Raskòlnikov le confessa il suo delitto.
Come inconscia di sé ella balzò su, e, torcendosi le
mani, andò fino al mezzo della stanza; ma rapidamente tornò a sedersi
accanto a lui, quasi toccandogli la spalla con la propria. D'improvviso,
come trafitta, sussultò, mandò un grido e, senza saperne neppure lei il
perché, si buttò dinanzi a lui in ginocchio.
— Che avete fatto, che avete fatto di voi! — proferì
disperatamente e, balzata in piedi, gli si gettò al collo, • Io
abbracciò e lo strinse forte forte con le mani.
Raskòlnikov indietreggiò e la guardò con un triste
sorriso;
— Come sei strana, Sònja, mi abbracci e mi baci dopo
che ti ho detto di questo. Non hai coscienza di quello che fai.
— No, no, non c'è ora ai mondo uno più infelice di tè!
— esclamò come un'esaltata, senza aver udito la sua osservazione e d'un
tratto si mise a piangere dirottamente, come in un attacco isterico.
Un sentimento che egli da tempo più non conosceva affluì
in un'ondata nella sua anima e di colpo la raddolcì. Egli non vi fece
resistenza: due lagrime sgorgarono dai suoi occhi e rimasero sospese
alle ciglia. (Delitto e Castigo, voi. II, p. 164).
Sarebbe naturale che si sentisse delusa: Raskòlnikov si
è fatto amare senza dire con sincerità a quale destino quest'amore
l'avrebbe legata e ora le parla senza affetto, come se piuttosto volesse
vendicarsi del proprio affanno tormentandola. Sarebbe anche naturale che
provasse sdegno o paura. Niente di tutto questo, invece. Ella ha nel cuore
solo il destino di lui, lo vede in una luce che non inganna. Il suo
destino vero, quello della sua anima. E quando, più tardi, egli cerca con
dei sofismi di ricavare una teoria del suo delitto, non si lascia per
nulla confondere:
51
— Oh! tacete, tacete! — grido Sònja, giungendo le
mani. — Vi siete allontanato da Dio, e Dio vi ha colpito, vi ha
abbandonato al demonio!...
— A proposito, Sònja, quando io stavo coricato al buio
e mi venivano tutti quei pensieri, era il demonio che mi tentava? Eh?
— Tacete! Non ridete, bestemmiatore, nulla, nulla voi
comprendete. O Signore! Nulla, nulla egli • comprenderà! (Delitto e
Castigo, voi. II, pp. 171-2).
Anche la sua vita non è senza colpa. A questa colpa ha
ceduto per amore di altri. Certo, non avrebbe dovuto farlo. Ma l'aveva
creduto un dovere. E perciò, nonostante tutto, è pura e la sua purezza
sta nel subire soffrendo ciò che ella aborrisce.
— Vorrei vedere che questo non fosse un orrore! Che non
fosse un orrore il vivere, come fai, in questo fango per cui senti
tant'odio, e nello stesso tempo sapendo anche tu (basta solo aprir gli
occhi) che con questo non aiuti nessuno e non salvi nessuno da niente! Ma
dimmi dunque, una buona volta, — proferì, quasi con esaltazione, —
come mai una simile vergogna e tanta bassezza possono trovar posto in tè
accanto ad altri opposti e sacri sentimenti? Sarebbe più giusto, vedi,
mille volte più giusto e più ragionevole gettarsi a capofitto nell'acqua
e finirla di colpo! . — E di loro che sarebbe? — domandò debolmente
Sònja dopo avergli dato un sguardo pieno di sofferenza, ma nello stesso
tempo come se non si meravigliasse per nulla del suo consiglio.
Raskòlnikov la guardò stranamente.
Egli lesse tutto in quel solo suo sguardo. Ella stessa
dunque aveva già avuto quel pensiero. Forse molte volte e seriamente
aveva pensato, nella sua disperazione, come finirla di colpo, tanto
seriamente che ora quasi non si era sorpresa del suo consiglio... Che
cosa, che cosa aveva potuto fino a quel giorno arrestare la sua decisione
di farla finita di colpo? E allora soltanto comprese pienamente che cosa
significassero per lei quei poveri, piccoli orfanelli e quella pietosa,
semipazza, Katjerìna Ivànovna con la sua tisi e il suo picchiar
la testa nel muro.
Ma nondimeno gli era chiaro, d'altra parte, che Sònja,
52
col suo carattere e con l'istruzione che pure aveva
ricevuta, in nessun caso poteva restarsene così. Tuttavia esisteva per
lui un quesito: come mai aveva potuto, anche già troppo a lungo, rimanere
in quello stato senza impazzire, se non aveva la forza di buttarsi
nell'acqua?... Che cosa mai la sorreggeva? Non già la depravazione? Tutta
quella. sozzura evidentemente l'aveva toccata solo in modo meccanico; di
vera depravazione nel suo cuore non n'era penetrata ancora nemmeno una
goccia: egli lo vedeva; ella stava dinanzi ai suoi occhi... (Delitto e
Castigo, voi. II, pp. 57-58).
Una prima risposta l'ha già data egli stesso. Ma poi
indovina:
Passarono forse cinque minuti. Egli camminava sempre in su
e in giù, tacendo e senza guardarla. Infine le si avvicinò; gli
scintillarono gli occhi. La prese per le spalle con le due mani e la
guardò diritto nel viso lacrimoso. Il suo sguardo era arido, infiammato,
penetrante, le labbra ' gli tremavano. A un trattò si chinò tutto
rapidamente e, prosternatosi a terra, le baciò il piede. Sònjecka si
scostò barcollando da lui, come da un pazzo. E in realtà egli aveva
proprio l'aria di un pazzo.
— Che fate, che fate? Davanti a me! — ella mormorò
impallidendo, e il cuore le si strinse dolorosamente. Egli si alzò
subito.
— Non a tè mi sono inchinato, ma a tutta la sofferenza
umana, — proferì in un certo modo bizzarro e si allontanò verso la
finestra. — Ascolta, — aggiunse, tornando verso di lei dopo un minuto,
— poco fa ho detto a un mio offensore che egli non valeva il tuo solo
dito mignolo... e che oggi ho fatto onore a mia sorella mettendola a
sedere accanto a tè!
— Ah, che gli avete mai detto! E davanti a lei! —
gridò spaventata Sònja, — sedere in mia compagnia! Un onore! Ma io...
non ho onore... Ah, perché avete detto questo?
— Non per il tuo disonore e il tuo peccato ho detto
questo di tè, bensì per le tue gran sofferenze. Ma che tu sia una
peccatrice, è proprio vero — soggiunse quasi ispirato, — e per questo
soprattutto sei peccatrice, che inutil-
53
mente hai
ucciso e venduto tè stessa. (Delitto e Castigo, voi. II, pp.
56-57).
Vi è un elemento decisivo, che più avanti è messo
ancora in evidenza: "Immaginatevi, Sònja,... di sapere che...
Katjerìna Ivànovna e anche i bambini sarebbero periti ugualmente e anche
voi, per giunta (siccome voi non vi contate per nulla, così dico per
giunta)." In questo caso l'avrebbe fatto ugualmente. Ciò che in
lei vive è puro dono di sé e non considera il valore della posta messa
in giucco ma dona semplicemente, dona tutto anche quando il sacrificio
sembra inutile. Qui si esprime un atteggiamento di assoluto disinteresse e
proprio in questo oblio di sé sta in un senso prorondo la salvezza di
Sònja.
Nel grande dialogo, caro- a Dostojevskij, Raskòl-nikov,
con la sua cattiveria abituale, ha fatto sentire a Sònia profondamente
tutta la sua miseria.
Egli poi continua:
— Tu dunque, Sònja, preghi molto Dio? — le domandò.
Sònja taceva, egli stava in piedi accanto a lei e
aspettava la risposta.
— Che sarei mai senza Dio? — sussurrò ella rapida,
con energia, alzando su di lui i suoi occhi tutt'a un tratto scintillanti,
e gli serrò forte la mano nella propria...
— E Dio che cosa fa per tè? — domandò [egli],
continuando l'interrogatorio.
Sònja tacque a lungo come se non potesse rispondere. Il
suo debole petto palpitava dall'agitazione.
— Tacete! Non fatemi domande! Voi non siete degno!..
gridò ad un tratto guardandolo severamente e con collera...
— Tutto fa! — ella sussurrò rapidamente, abbassando di
nuovo gli occhi...
Con una nuova e strana, quasi morbosa sensazione egli
considerava quel pallido, magro e irregolare volto ango-
54
loso, quei miti occhi azzurri che potevano scintillare di
tanto fuoco, di un così austero ed energico sentimento. quel piccolo
corpo ancora tremante di sdegno e di collera e tutto ciò gli pareva più
strano, quasi impossìbile. (Delitto e Castigo, voi. II, pp.
59-60).
Questa fanciulla vive, pur in mezzo a tanta corruzione,
una profonda vita cristiana. Che significa la strana risposta: "Che
sarei mai senza Dio?" e l'altra, ancora più sorprendente:
"Tutto fa per me?" Cos'è questo "tutto" e cosa è
Sònja « per opera di Dio? ».
Forse l'unica risposta possibile è questa: Egli le è
vicino nella Sua realtà vivente. La vita di Sònja è terribile. Tutto vi
è terribile ed incomprensibile. "Ma perché non ti ho conosciuto
prima! Perché non sei venuto prima?" grida a Raskòlnikov, dopo aver
capito l'orrenda verità. Ora, questo "perché" pesa su tutta la
sua vita. Ella lo sente e tuttavia sa che "Dio fa tutto" per
lei. Applicare il metro della ragione o della giustizia qui non conduce a
niente. Ma Dio si manifesta a questa creatura nella sua vivente realtà.
Egli è Lui, ossia quel "tutto". Ed ella sta nel Suo cospetto.
Come non sentire un profondo rispetto quando una creatura può dire di sé
"Ciò che io sono, lo sono per volontà di Dio"? Poter dire
questo è un segno di autentica esistenza religiosa. È tutta l'intimità
dell'adozione divina in un'esistenza per il mondo irrimediabilmente
perduta. E infatti si dimostrerà che "ciò che presso gli uomini è
impossibile, è possibile presso Dio".
Perciò Raskòlnikov ha ragione di pensare che secondo
Sònja un miracolo di Dio potrebbe accadere in qualunque momento. Sònja
lo crede davvero, senza vedere per questo l'esistenza come in una 5aba.
55
Poiché ella è là dove vivono coloro che Cristo ha detto
beati.
Segue poi l'episodio indimenticabile del Nuovo Testamento.
Sul cassettone giaceva un libro. Ogni volta nell'andar su
e giù egli l'aveva notato, ma ora lo prese e lo guardò. Era il Nuovo
Testamento nella traduzione russa. Era un vecchio libro, usato, con
legatura in cuoio.
— Questo di dove viene? — le gridò dal fondo della
stanza. Ella era sempre ritta allo stesso posto, a tré passi dalla
tavola.
— Me l'hanno portato, — rispose, come di malavoglia e
senza guardarlo.
— Chi l'ha portato?
— Lizavèta l'ha portato, l'avevo pregata.
— Lizavèta! Strano! egli pensò. Tutto in Sònja
diventava per lui più strano e prodigioso di minuto in minuto. Egli
portò il libro verso la candela e si mise a sfogliarlo. (Delitto e
Castigo, voi. II, p. 60).
Ora egli vuole che Sònja gli legga la storia del povero
Lazzaro, il morto già in stato di putrefazione nel quale Cristo ha
mostrato il suo potere sopra la morte, il suo potere di donare una vita
nuova, poiché Egli è "la resurrezione e la vita". Ma ella si
schermisce.
— Leggi! Voglio così — egli insistè, — leggevi
pure a Lizavèta.
Sònja aprì il libro e cercò il punto. Le mani le
tremavano, la voce le mancava. Due volte cominciò, senza riuscire mai a
spiccare la prima parola.
— « Or v'era un certo Lazzaro, di Betania,
infermo...'» — pronunziò alla fine con uno sforzo, ma d'un tratto,
alla terza parola la sua voce vibrò e si ruppe, come una corda troppo
tesa. Le si mozzò il respiro e le si serrò il petto.
Raskòlnikov capiva fino a un certo punto perché Sònja
non si risolvesse a leggere, e quanto più lo capiva, tanto
56
più rude e irritata pareva tarsi la sua insistenza
perché leggesse. Capiva troppo bene quanto le fosse penoso in quel
momento scoprire e svelare tutto il suo intimo. Aveva capito che questi
sentimenti costituivano in realtà il vero segreto di lei, e forse
già da tempo remoto, forse dalla fanciullezza, quand'era ancora in
famiglia, accanto al padre disgraziato e alla matrigna impazzita dai
dispiaceri, fra bambini affamati, le grida furiose e i rimproveri... Ma
nello stesso tempo egli sapeva ora, e sapeva con certezza, che, pur
essendo angosciata e avendo, nel mettersi a leggere, una gran paura
chissà di che cosa, ella aveva insieme, non ostante tutta l'angoscia e
tutti i timori, una voglia tormentosa di leggere, e precisamente a lui,
perché egli udisse, e proprio allora, — « qualunque cosa dovesse poi
accadere! »... Egli lesse ciò nei suoi occhi, lo capì dalla sua
esaltata commozione... Ella si fece forza, represse nella gola lo spasimo
che le aveva troncato la voce sul principio del versetto e seguitò la
lettura del capitolo undicesimo del Vangelo di S. Giovanni. Lesse così
fino al 19° versetto:
« E molti de' Giudei eran venuti a Marta e Maria per
consolarle del loro fratello. Marta adunque, come udì che Gesù veniva,
gli andò incontro: ma Maria sedeva in casa. E Marta a Gesù: Signore, se
tu fossi stato qui, il mio fratello non sarebbe morto. Ma pure io so
ancora al presente che tutto ciò che chiederai a Dio egli tei darà ».
A questo punto si fermò di nuovo, presentendo vergognosa
che la sua voce avrebbe tremato e si sarebbe interrotta un'altra volta...
« Gesù le disse: II tuo fratello risusciterà. Marta gli
disse: Io so ch'egli risusciterà nella risurrezione, nell'ultimo giorno.
Gesù le disse: lo son la resurrezione e la vita, chiunque vive e
crede in me, benché sia morto, vivrà. E chiunque vive e crede in me non
morrà giammai in eterno. Credi tu questo? Ella gli disse: (e come se
tirasse il respiro con dolore, Sònja lesse staccando le sillabe e con
forza, quasi confessasse qualcuno ad alta voce): Sì, Signore:
io credo che tu sei il Cristo, il Figlio! di Dìo, che
aveva da venire al mondo ». .
Ella stava per fermarsi, per alzare rapidamente gli occhi
su di lui, ma presto si vinse e continuò a leggere. Ra-skòlnikov
stava seduto e ascoltava immobile, senza voltarsi, coi gomiti sulla tavola
e guardando in disparte. Arrivarono al 32° versetto.
57
« Maria adunque, quando fu venuta lì ove era Gesù,
vedutolo, gli si gettò ai piedi, dicendogli: Signore, se tu fossi stato
qui, il mio fratello non sarebbe morto. Gesù adunque, come vide ch'ella,
ed i Giudei ch'erano venuti con lei, piangevano, fremè nello spirito e si
conturbò. E disse: Ove l'avete voi posto? Essi gli dissero: Signore,
vieni e vedi. E Gesù lacrimò. Là onde i Giudei dicevano:
Ecco come l'amava. Ma alcuni di loro dissero: Non poteva
costui, che aperse gli occhi al cieco, fare ancora che costui non morisse?
».
Raskòlnikov si era voltato verso di lei e la guardava
commosso... Lei tremava già tutta in preda a vera, autentica febbre...
Ella si avvicinava alla narrazione del grandissimo e inaudito miracolo, e
un senso di grandiosa solennità l'aveva afferrata. La sua voce si era
fatta sonora come metallo; solennità e gioia suonavano in quella e la
rendevano più forte. Le righe si confondevano dinanzi a lei, perché la
vista si oscurava, ma ella sapeva a memoria quel che leggeva. All'ultimo
versetto: « non poteva costui, che aperse gli occhi al cieco... », ella,
abbassata la voce, seppe rendere con passione e calore il dubbio, il
rimprovero e il biasimo degli increduli, ciechi Giudei che un momento
dopo, come colpiti dal fulmine, sarebbero caduti a terra singhiozzando e
avrebbero cominciato a credere... «E anche lui, anche lui
è accecato e incredulo, anche lui ora udrà, anche lui comincerà a
credere, sì, sì! adesso, subito», fantasticava e tremava di gioiosa
aspettazione.
« Là onde Gesù, fremendo di nuovo in se stesso, venne
al monumento. Or quello era una grotta, e v'era una pietra posta disopra.
E Gesù disse: Togliete via la pietra. Ma Marta, la sorella del morto,
disse: Signore, egli pute già; perciocché egli è morto già da quattro
giorni ».
Ella accentuò con energia la parola: quattro.
« Gesù le disse: non t'ho io detto che, se tu credi, tu
vedrai la gloria di Dio? Essi adunque tolsero via la pietra dal luogo ove
il morto giaceva. E Gesù, levati in alto gli occhi, disse: O Padre, io ti
ringrazio che tu m'hai esaudito. Or bene sapevo io che tu sempre
m'esaudisci, ma io ho detto ciò per la moltitudine qui presente:
acciocché credano che tu m'hai mandato. E detto quello, gridò con gran
voce: Lazzaro vieni fuori. E il morto uscì... »
(Con voce alta e ispirata, tremando e rabbrividendo, come
se coi suoi occhi lo vedesse, seguitò):
58
« ... avendo le mani ed i piedi fasciati, e la faccia
involta in un asciugatoio. Gesù disse loro: scioglietelo e lasciatelo
andare.
« Là onde molti de' Giudei ch'erano venuti a Maria,
vedute tutte le cose che Gesù aveva fatte, credettero in\ lui ».
Più oltre ella non lesse, ne potè leggere: chiuse il
libro e si alzò rapidamente dalla sedia.
— Continua a parlare della risurrezione di Lazzaro, —
sussurrò a scatti, severamente, e rimase immobile, voltata da una parte,
senza aver l'animo e come vergognandosi di levar gli occhi su di lui. Il
suo tremito febbrile durava ancora. Il mozzicone di candela già da un
pezzo si andava spegnendo nel candeliere storto, illuminando di luce
scialba in quella misera stanza l'assassino e la peccatrice, stranamente
uniti nella lettura del libro eterno. (Delitto e Castigo, voi. II,
pp. 61-64).
Qui ci si rivela il vero segreto di Sònja.
Ella è là dove, secondo la parola di Cristo, si trovano
gli umili e i reietti, i pubblicani e i peccatori. Tra lei e il Cristo
c'è un'intesa; essi hanno un segreto in comune.
Questo le conferisce autorità, di questo ella vive. Di
qui le viene quella chiarezza intcriore che le vieta di lasciarsi sedurre
dai sofismi di Raskòlnikov, quantunque ella lo ami.
Ma ciò che si è detto dell'altra Sònja vale anche per
lei. Ella non cerca di giustificare la sua esistenza. La vive,
semplicemente; la subisce. Non ne ricava una teoria, nemmeno ai fini di
comprenderla. La accetta, invece, nel suo incomprensibile intreccio
perché crede di dover fare così. Tutto diventerebbe falso, ingannevole,
demoniaco, se ella cercasse di giustificarsi; ella stessa ne perirebbe.
Un giorno che Raskòlnikov vorrebbe discutere Con lei la
sua teoria del superuomo e il diritto che alcuni avrebbero di vivere,
altri no, ella gli risponde:
59
"Ma io non posso mica conoscere la Divina
Provvidenza... E perché domandate quello che non si può domandare?
Perché queste domande vuote?"
Son parole dette in una circostanza particolare, ma
rivelano il rispetto di Sònja per il mistero delle cose sante.
Ne la ragione, ne la coscienza morale possono aiutarci a
chiarire la posizione di Sònja e chi credesse di averla capita farebbe
bene a non fidarsi troppo. Che forse egli ha in qualche modo offuscato la
linea intangibile di distinzione tra il bene ed il male.
Sònja stessa non capirebbe. La sua pace interiore,
cristiana sta nel non giustificarsi in alcun modo — qui anche solo voler
capire significherebbe voler cercare una giustificazione — e nel
continuare a vivere così, convinta della sua colpa; in attesa di un segno
e pronta alla penitenza, con una fiducia che ella stessa non oserebbe
esprimere apertamente.
60
CAPITOLO TERZO
GLI UOMINI SPIRITUALI
II popolo e gli uomini spirituali
Siamo partiti dalla posizione religiosa del popolo.
Abbiamo visto l'oscura folla anonima esprimere alcune figure singole, le
"donne credenti", nei Fratelli Karamàzov. Due personaggi
dei Demoni, Sàtov e Màrja Lebjàdkina, hanno poi rivelato in
quell'atteggiamento la presenza di forze distruttive latenti e la loro
personalità ci è così apparsa con caratteri più spiccati. Siamo giunti
infine alle due Sònje, la madre dell'Adolescente e l'amica di
Raskòlnikov, esse pure ancora "popolo", ma figure già molto
nettamente individualizzate. Abbiamo spiegato la loro esistenza partendo
da quel loro consenso totale alla vita nel quale ci è parso vedere il
carattere peculiare del sentimento religioso del popolo, qui però in una
situazione quanto mai scabrosa e difficile, e ci siamo trovati così in
presenza di un fatto che una coscienza occidentale chiara e diritta non
può risol-versi di accettare: nello smarrimento di una situazione
umanamente confusa e moralmente equivoca, una fede ingenua e fiduciosa e
un sincero spirito di dedizione hanno trovato un sostegno in qualche cosa
che, in un senso razionalmente non più definibile, è più profondo della
semplice distinzione che
61
la coscienza morale opera tra il bene e il male, sebbene
non porti affatto a cancellarla minimamente. E quanto profonda sia anche
in queste due anime la certezza nella trasformazione redentrice della
esistenza ad opera di una sofferenza accettata nella fede dicono le parole
con le quali si chiude il dialogo tra Sònja e Raskòlnikov:
"Prenderai su di tè la tua sofferenza e troverai così la
redenzione... Poi verrai da me e io tè la metterò al collo (la crocetta
donata da Sònja a Raskòlnikov), poi pregheremo e andremo via
insieme".
Ci avviciniamo ora a un altro gruppo di figure le quali
hanno a fondamento comune ancora la stessa realtà di cui abbiamo parlato:
la vita, vissuta nella viva unione con le grandi forze dell'esistenza.
Qui, anzi, quest'unione si purifica ulteriormente e si trasfigura
giungendo a vera consapevolezza. Sono gli "uomini spirituali":
il pellegrino Macario Dogol-ruki nell''Adolescente, l'arcivescovo
Tichon nei Demoni, lo stàrets Zòsima nei Fratelli
Karamàzov, dietro a cui sorge la figura del fratello Markèl, morto
avanti tempo, e, finalmente, il discepolo dello stàrets, Aleksjèj
Karamàzov, soprannominato Aljòsa.
Di Aljòsa che è una figura a parte parleremo nel
capitolo seguente, mentre Tichon può essere considerato, nonostante
alcune caratteristiche personali, come una prefigurazione dello stàrets.
Avremo perciò da occuparci di quest'ultimo, in cui rivive il giovane
fratello Markèl, e di Macario, il pellegrino.
Li abbiamo chiamati uomini spirituali, homines
religiosi nel vero senso del termine. Anche nella vita degli altri
personaggi di Dostojevskij prevale il fatto religioso, ma questo non si
traduce in precisi atti
62
spirituali, opera piuttosto nel complesso dell'esistenza e
l'orienta verso Dio. Le donne credenti, dopo essersi avvicinate con
l'aiuto dello stàrets al mistero divino tornano alla loro vita
quotidiana. Sònja Andrèjevna resta la compagna di Vèrsilov e più
tardi, mortole il marito, ne diverrà la moglie. L'altra Sònja si
consacra tutta al suo amico e in seguito si unirà con lui. Questi uomini,
invece, esprimono direttamente il momento religioso. In loro, esso appare
in se stesso e domina su tutto il resto.
Ma poiché essi riconoscono a tutta l'esistenza un valore
positivo, diventano con ciò stesso gli interpreti del senso religioso che
è negli altri.
Macario, il pellegrino
Del pellegrino Macario abbiamo già parlato a proposito di
Sònja, sua moglie. Ci è descritto come un vegliardo di bell'aspetto e di
nobile carattere, geloso del proprio onore e pieno di dignità. In
gioventù era chiamato "il tenebroso", forse a significare che
egli, servo della gleba, era superiore come uomo alla sua condizione
sociale e reagiva a questa situazione falsa assumendo un atteggiamento
volu-tamente accentuato.
Macario è già anziano quando Sònja gli è data in
moglie. Poiché le vuoi molto bene, il colpo che riceve quando viene a
sapere ciò che è avvenuto fra lei e Vèrsilov, il padrone, è terribile.
Quando quest'ultimo gli confessa tutto e gli fa capire di
non esser disposto a lasciare Sònja, egli rimane padrone di sé. Non
s'abbandona a scenate.
65
Riconosce un destino al quale ne umanamente ne socialmente
potrebbe opporsi e si rassegna. Si trae per così dire in disparte e
lascia Sònja libera, senza tuttavia approvare il tatto compiuto. Nel
racconto che Vèrsilov fa all'Adolescente è detto:
Gli offrii allora tremila rubli e ricordo che taceva
sempre, mentre io continuavo a parlare... Gli assicurai sulla mia parola
che, se avesse accettato le mie condizioni, cioè tremila rubli, la
libertà (a lui e alla moglie beninteso)... lo
•dicesse senz'altro e immediatamente gli avrei dato la
libertà. Avrei fatto tornare a lui la moglie — più tardi, intende dire
Vèrsilov — li avrei ricompensati con tremila rubli... Macario capiva
benissimo che avrei fatto quel che dicevo, eppure continuò a tacere e
soltanto quando lo volli abbracciare per la terza volta, si scansò, fece
un gesto vago con la mano e s'andò con una tale disinvoltura che,
t'assicuro, ne rimasi stupito. Mi vidi allora di sfuggita nello specchio e
non me ne dimenticherò mai più. In genere
•quando questi tipi non parlano è peggio; era un
carattere cupo e confesso che non soltanto non mi fidavo di lui,
•quando l'avevo chiamato nel mio studio, ma ne avevo una
paura terribile: esistono tra quella gente caratteri, ve ne sono anzi
moltissimi, che racchiudono in sé, per così dire, la personificazione di
quel ch'è fuori del solito ordine e questo fa più paura delle
percosse... Ecco perché avevo tirato fuori anzitutto i tremila rubli; fu
un atto istintivo, m» per fortuna m'ero ingannato: Macario Ivànovic era
un tipo del tutto diverso... Il giorno dopo acconsentì al viaggio...,
senza una parola, s'intende... ma senza dimenticare uno solo dei compensi
da me offerti.
— Prese il denaro?
— Altro che!... Non disponevo subito di tremila rubli, ma
riuscii a trovarne settecento e glieli consegnai per le prime necessità.
Ebbene: egli volle da me gli altri duemila trecento rubli sotto forma di
una cambiale avallata, per
•sicurezza, da un commerciante. Dopo due anni reclamò
legalmente il pagamento di quella cambiale con i relativi interessi, il
che mi fece addirittura sbalordire, tanto più che girava allora a
raccogliere fondi per la costruzione di
•un tempio. Da allora sono ventitré anni che gira il
mon-
64
do come un pellegrino. Non capisco perché un pellegrino
abbia bisogno di tanto denaro personale... Il denaro... il denaro è una
cosa a tal punto mondana. Io, beninteso, glielo avevo allora offerto
sinceramente e, a dir la verità, nel primo impeto di ardore, ma poi, dopo
tanto tempo, avrei potuto anche pentirmi... e speravo che avrebbe avuto
qualche riguardo per me... o almeno per noi, me e lei, e che
avrebbe almeno atteso qualche tempo. Invece non volle attendete per
niente. (L'Adolescente, pp. 211-213).
Tutto questo è molto caratteristico. Ad onta
dell'affronto atroce, nonostante il suo profondo dolore Macario accetta la
somma offerta, fa metter tutto per iscritto e a tempo debito reclama non
solo il denaro promesso ma anche gli interessi. È contadino e conosce la
vita. Di Vèrsilov non si fida, soprattutto nei riguardi di Sònja e i
fatti gli daranno ragione... Queste apparenti contraddizioni si conciliano
nella sua grande anima perché, al di là di tutte le distinzioni, essa ha
un suo centro segreto, profondo e impenetrabile alla nostra intelligenza,
dal quale, senza infirmare le distinzioni valide nel mondo empirico, tutto
può abbracciare, tutto capire, tutto sopportare, tutto penetrare d'amore.
Così Macario, nei lunghi anni che seguiranno
quell'avvenimento, non modificherà il suo giudizio. Anche il dolore non
si placa. L'offesa continua a bruciare e il desiderio di colei che pure è
sua moglie è sempre vivo. Ma non ne parla. Lascia le cose come sono e
sopporta tutto, con grande dignità, senza trarre profitto dalla
situazione. E dimostrando sempre una gentilezza e un rispetto immutati,
mantiene limpida la sua posizione. Di tanto in tanto va a trovare i suoi
"figliuoli", verso i quali è .sempre ugualmente affabile. Ogni
anno scrive la stessa lettera serena e riguardosa.
65
— Sì, amico mio, e ti confesso che dapprima queste
visite mi davano una terribile apprensione- in questi venti anni venne sei
o sette volte e in principio, se capitavo in casa, non mi lasciavo vedere.
Non capivo allora che significato avessero queste visite, ne perché
venisse da noi. Ma più tardi, grazie ad alcune riflessioni, compresi come
non fosse affatto stupido da parte sua. Infine, per puro caso, mi venne in
mente di vederlo più da vicino, uscii dalla mia stanza per osservarlo e
ti assicuro che egli mi fece un'impressione più che originale. La sua
terza o quarta visita cadde appunto nell'epoca, in cui avevo assunto il
posto di giudice istnittorc e in cui, naturalmente, m'ero messo, con tutte
le mie forze, a studiare la Russia. Appresi da lui moltissime cose nuove.
Trovai inoltre in lui proprio quello che mai mi sarei aspettato di
trovare: una certa benevolenza, un carattere equilibrato e, cosa ancor
più straordinaria, una certa allegria. Neanche la minima allusione a quel
fatto (tu comprendi, vero?) ed un'arte sopraffina nel dire le cose con
calma e magnificamente... E difficilmente parlava di religione, a meno che
un altro portasse il discorso su quel tema; sapeva anche divertentissime
storie sui conventi e la vita monacale, per chi si fosse interessato
dell'argomento. E c'era in lui quel rispetto modesto, indispensabile alla
vera eguaglianza, e senza cui, a mio parere, non si può raggiungere la
perfezione. Anzi la mancanza di qualsiasi superbia permette di raggiungere
la più alta dignità: quella d'un uomo che stima se stesso in qualsiasi
situazione si trovi. (L'Adolescente, pp. 214-15).
Il fatto, nella sua sostanza, rimane immutato nel suo
cuore. Tuttavia egli accoglie a poco a poco Sònja, Vèrsilov ed i loro
figli sotto la sua protezione paterna. Diventano i suoi figli ed
egli li ama di un amore che si libera tutto nella fede. Di un amore,
vorrei dire, che ricorda l'amore del Padre celeste nel Nuovo Testamento,
caldo, profondo, forte e generoso. E quantunque il bene resti sempre bene
e il male male, quantunque l'onore sia sempre l'onore e l'offesa bruci,
questo amore lo solleva sopra queste contraddizioni ed egli può
contemplarle tutte dal-
66
l'alto, un po' come il Padre che è nei cicli, di cui si
dice nel Vangelo che "fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e
piovere sui giusti e sugli ingiusti".
Abbiamo già detto come Macario dopo quell'avvenimento sia
sempre in pellegrinaggio. Con questa parola non s'intende un
pellegrinaggio occasionale ma una forma ascetica di vita. Ne parlano anche
altri autori russi, per esempio Nikolàj Leskov nel Viaggiatore
incantato e un anonimo nella Vita del pellegrino russo.
Staccato interiormente da tutto, Macario va di paese in paese vivendo in
uno spirito di rinuncia, rivolto solo a Colui che egli custodisce.
in sé: Cristo.
Dio gli ha imposto quella sofferenza; egli l'accetta e la
vive nell'imita2Ìone di Cristo. Così si compie in lui una profonda
trasformazione. Il suo carattere si purifica, egli raggiunge la perfetta
umiltà e il disinteresse assoluto. Diventa affabile, allegro, aperto.
Quello che c'era in lui di buono viene in luce; appare la figura nascosta
che solo di Dio vive. Il carattere individuale non va perduto, acquista
anzi una pienezza e una chiarezza originali. Così Macario diventa una
grande e pura espressione dell'anima del popolo.
Ecco come l'Adolescente ci descrive il suo aspetto:
Un vecchio completamente canuto, dalla lunga barba
bianchissima, era seduto nella camera, ed evidentemente vi si trovava da
un pezzo. Non sedeva sul letto, ma sullo sga-belletto di mamma,
appoggiandosi al letto con la schiena. D'altronde, si teneva così
diritto, che sembrava non avesse bisogno di alcun sostegno, benché fosse
evidentemente malato. ... Aveva il viso allungato, i capelli foltissimi,
ma non molto lunghi; dimostrava all'apparenza una settantina d'anni.
Accanto a lui, sul tavolino, giacevano tré o quattro libri e un paio
d'occhiali d'argento... Indovinai immediatamente
67
chi fosse; soltanto non potevo capire come fosse rimasto
per tutti quei giorni accanto a me, così quieto che fino a quel momento
non l'avevo sentito.
Vedendomi non si mosse, ma mi diede uno sguardo intenso e
silenzioso; anch'io lo guardavo, ma, mentre nei miei occhi c'era uno
stupore sbalordito, nei suoi non c'era invece la minima meraviglia. Anzi,
dopo avermi ben scrutato dalla testa ai piedi, in quei cinque o sei
secondi di silenzio, egli a un tratto sorrise ed ebbe perfino un breve
riso sommesso che, pur cessando quasi subito, gli lasciò una traccia
luminosa e ilare sul viso e soprattutto negli occhi, ch'erano molto
profondi e grandi ed irradiavano una luce particolare; aveva le palpebre
abbassate e gonfie dalla vecchiaia e intorno gli occhi innumerevoli
piccole rughe. Ma fu il suo viso soprattutto a colpirmi. (L'Adolescente,
pp. 562-63).
La stessa luminosità è nel suo spirito.
Anzitutto m'attirava in lui la straordinaria purezza e
l'assenza assoluta d'amor proprio che rivelava un cuore quasi scevro di
peccati. Aveva « l'allegria » del cuore, e perciò « la virtù ». La
parola « allegria » l'amava molto e la usava spesso. È vero che a
tratti si sentiva in lui una strana estasi anormale, un intenerimento
morboso: ma questo dipendeva in parte, suppongo, dal fatto che la febbre
non l'abbandonava quasi mai e non turbava il suo « stato di grazia » '.
C'erano in lui dei contrasti; accanto a una ingenuità, straordinaria, che
a volte non s'accorgeva neanche dell'ironia (il che spesso mi faceva
stizzire), c'era in lui anche una certa fine furberia, anzitutto nella
polemica. Egli amava la polemica, ma vi si comportava in modo tutto suo e
originale. (L'Adolescente, pp. 608-9).
Fino a che punto giungano quella luminosità e allegria
appare in un breve episodio che si svolge nella camera del malato:
* Questa « estasi » è naturalmente tutt'altro che «
morbosa ». Non dimentichiamo che il racconto è fatto da un «
adolescente ».
68
A un tratto scoppiò in una gran risata. Tatiana Pav-lovna,
non so proprio perché, accusò il dottore d'essere ateo:
— Voi tutti dottorucci siete atei!
— Macario Ivànovic! — gridò il dottore fingendo,
assai stupidamente, d'essere offeso e d'appellarsi a lui: — sono io
un ateo?
— Tu un ateo? No, tu non sei un ateo, — rispose il
vecchio con voce pacata, guardandolo fisso. — No, che Iddio sia lodato!
— e scosse la testa: — Tu sei un uomo allegro.
— E chi è allegro non può essere ateo? — osservò
il dottore con ironia.
— Anche questa è un'idea — disse Vèrsilov, senza
ridere affatto. (L'Adolescente, pp. 594-95).
Quest'uomo è assolutamente disinteressato,
definitivamente staccato da sé. Un episodio che troviamo a p. 598, parte
terza del romanzo, ci colpisce. Il vecchio è seduto su di uno sgabello e
il sole gli ferisce la vista. Sònja tenta inutilmente di spostare lo
sgabello. Egli non se ne accorge. Lisa, la figlia di Sònja e di
Vèrsilov, gli ordina sgarbatamente di alzarsi:
II vecchio le diede uno sguardo rapido, comprese e subito
volle alzarsi, ma invano; si alzò per due palmi, poi di nuovo ricadde a
sedere.
— Non riesco, uccellino mio, — disse a Lisa con tono
lamentoso e guardandola come se si volesse scusare.
— Cianciar per delle ore vi riesce, ma per muovervi non
avete la forza? ... Prendete la vostra gruccia, l'avete accanto, e
alzatevi! — di nuovo l'apostrofò Lisa.
— Ah, è vero, — disse il vecchio affrettandosi ad
afferrare la gruccia...
— Bisogna sollevarlo! — disse Vèrsilov, alzandosi;
anche il dottore e Tatiana Paviovna si mossero, ma non ebbero il tempo
d'avvicinarsi, che Macario Ivànovic, appoggiandosi con tutte le sue forze
sulla gruccia, si alzò di colpo e con aria gioiosa di trionfo stette
ritto guardandosi intomo:
69
— Ecco che mi sono alzato! — esclamò con orgoglio,
sorridendo gioiosamente. — Grazie, mia cara, d'avermi insegnato come
fare; mentre io credevo che le gambe non mi volessero più ubbidire...
Ma non rimase ritto a lungo; aveva appena finito di
parlare che la gruccia, su cui s'appoggiava con tutto il peso del corpo,
scivolò, non si sa come, sul tappeto; e poiché le gambe veramente non lo
sorreggevano, stramazzò disteso. Fu uno spettacolo terrificante. Tutti
cacciarono un grido e si precipitarono ad alzarlo, ma, grazie a Dio, non
s'era fatto male... L'alzarono e lo misero a sedere sul letto. Era
pallidissimo, non per lo spavento, ma per la scossa avuta. (Il dottore
aveva riscontrato in lui, oltre agli altri mali, anche una malattia di
cuore). Mamma era fuori di sé dallo spavento. E a un tratto Macario
Ivànovic, ancora pallido e tremante, appena tornato in sé, si rivolse a
Lisa e con voce fioca, quasi tenera, le disse:
— Come vedi, mia cara, le gambe non mi reggono
davvero!
Non so descrivere quel che provai in quell'attimo. Non
c'era nelle parole del povero vecchio ne lamento ne rimprovero; si vedeva
anzi ch'egli non aveva neanche notato il tono iroso delle parole di Lisa,
accogliendole come un giusto rimprovero.
Anche questo disinteresse non è debolezza. Egli non fa di
necessità virtù. Ha un cuore ardente e ama la vita:
È strano come l'anima rimanga attaccata alla vita, si
ostini e sia lieta d'esser al mondo; pare che, se si dovesse ricominciare
a vivere da principio, si sarebbe contentissimi. (L'Adolescente, p.
567).
Questa è vera vittoria su se stessi, vera trasformazione.
Macario vive tutto assorto in Dio. Prega molto:
"Gesù Cristo, nostro Dio e Signore, abbi pietà di noi", sono
le prime parole che l'"Ado-
70
lescente" ode da lui nel "profondo
silenzio" della camera del malato. La sua vita si compie tutta nella
preghiera e questa è profonda e generosa. Un giorno, parlando del
suicidio, dice:
II suicidio è il peggiore dei peccati... ma il giudice in
questo caso è Dio soltanto perché egli soltanto conosce ogni limite e
ogni misura. Noi abbiamo invece il dovere di pregare per questi peccatori.
Ogni volta che sentirai parlare di un suicida, prima di addormentarti
prega per lui con fervore, manda magari soltanto un sospiro per lui a Dio;
anche se non l'hai conosciuto affatto, tanto più gli
gioverà la tua preghiera.
E come può giovargli la mia preghiera, s'egli è già
condannato?
— E come lo sai tu? Molti son quelli che non credono e
confondono con le loro parole la gente ignorante; tu però non dar loro
ascolto, poiché essi stessi non sanno ove vadano. La preghiera innalzata
da un vivo per un condannato viene ascoltata. Quando dunque hai finito di
dir le tue preghiere prima del sonno, aggiungi: « Abbi pietà, Gesù
Cristo, di tutti coloro per cui nessuno prega ». (L'Adolescente,
p. 612).
Macario racconta antiche leggende della tradizione
popolare — risalgono probabilmente alle Vite dei Santi Padri dei
primi tempi cristiani:
Tutto ciò, — dice l'Adolescente, — rappresentava per
me un mondo ignoto. Eppure confesso che non si poteva sentire Maria
Egiziaca senza lacrime e non già per la sola commozione, ma per una
specie di strana estasi; vi si rivelava qualcosa di straordinario e di
ardente, come la steppa di sabbia arsa abitata dai leoni dove la santa
cercava rifugio. (L'Adolescente, pp. 609-10).
Ma ci colpisce soprattutto il modo come egli sente la vita
delle cose, la vita dell'universo. Parlando con l'Adolescente dice:
- Ti.
Un vecchio... dev'essere pronto a morire in qualsiasi
momento e morire in piena coscienza, beato e pio, sazio dei suoi
giorni, respirando per l'ultima volta pieno di gioia, andandosene
come una spiga nel suo covone dopo aver compiuto il suo mistero.
— Voi dite sempre « mistero »; che cosa
significa « aver compiuto il suo mistero? » — chiesi...
— Che cosa è il mistero? Tutto è mistero, amico, in
tutto c'è il segreto di Dio. In ogni albero, in ogni piccola erba c'è
sempre lo stesso mistero. Se un uccellino canta o miriadi di stelle
brillano nel cielo, è sempre lo stesso mistero.
L'Adolescente obietta che la scienza ha eliminato il
mistero. Macario ammette la scienza, ma la fa rientrare nella sua
concezione religiosa del mondo e di qui ne mostra il limite. Il sapere si
dissolve nel dubbio se non è sostenuto in ultima analisi dalla fede. Su
questa e sulla preghiera si fonda tutta la esistenza umana. E la scienza
è una forza singola in questo tutto in cui è compresa, così come la
natura non sussiste separata per conto proprio, ma soltanto in Dio.
Segue poi il passo indicibilmente bello in cui egli
racconta alcuni episodi della sua vita di pellegrino e mette in luce il
significato profondo di questa esistenza.
— Passammo la notte all'aperto e mi svegliai il mattino
di buon'ora, quando ancor tutti dormivano e il sole non era ancora sorto
di dietro il bosco. Alzai il capo, mio caro, girai lo sguardo intorno e
sospirai! Dovunque vidi bellezze ineffabili! Tutto era calmo, l'aria era
leggera: l'erbetta cresceva — cresci pure, erbetta di Dio; —
l'uccellino cantava — canta, uccellino di Dio —; un bambinello faceva
sentir la sua. vocina fra le braccia di una donna, —-che Iddio sia con
tè, piccolo essere umano, cresci per la gioia, bimbo mio! Fu come se
allora, per la prima volta nella mia vita sentissi tutto questo in me...
Mi sdraiai di
72
nuovo e m'addormentai di un sonno dolcissimo. Si sta bene
al mondo, caro mio! Ecco, se mi sentissi un po' meglio, in primavera, mi
metterei di nuovo in cammino. E in fondo è meglio che tutto questo sia un
mistero- è terribile e meraviglioso pel nostro cuore: « Tutto è in tè.
Signore, ed io stesso sono in tè e tu accoglimi! » Non mormorare,
giovanotto! È tanto più bello se è un mistero! — ripetè intenerito. (L'Adolescente,
p. 573).
Nel primo capitolo, dedicato al popolo, abbiamo anche
parlato della natura e detto come essa sia sentita dal popolo. Abbiamo
spiegato come Dio parli all'uomo dalla natura perché questa non è
qualcosa di conchiuso, di contrapposto a Dio, in modo che Egli vi sia
appreso come infinitamente lontano e segreto. Essa riposa al contrario
nella Sua mano ed Egli in essa vive. Si manifesta dappertutto nelle sue
forme, dappertutto vi compie la Sua opera misteriosa...; e questo non è
panteismo perché Dio è veramente il creatore ed essa la Sua Creatura.
Questa immediatezza, poi, ha perso ogni carattere puramente naturale e si
è trasformata in senso personale, religioso, cristiano nell'acccttazione
della volontà di Dio e della sofferenza che essa impone. Questo pensiero
nostro è espresso con grande semplicità dalle parole del pellegrino.
Qui sentiamo il mistero dell'amore di Dio per il mondo.
Sentiamo che il mondo significa qualche cosa per Lui. Sentiamo il mistero
del cuore di Dio e il mondo vicino a questo cuore. Il mistero di una
unità che non confonde ma conserva nette le distinzioni, soprattutto
quella per eccellenza tra creatura e Dio, e tuttavia ciò che ha distinto
raccoglie in una suprema inesprimibile unità.
Solo da questo punto possiamo capire l'esistenza 75
di Macario: l'interiore singolare distacco dalle cose, che
lo solleva sulle contraddizioni inconciliabili della esistenza, la forza
di paterna comprensione, che non giustifica il male e tuttavia sa
sopportarlo, la generosità di un cuore che ha imparato a soffrire e
soffre tuttora una pena bruciante, che è stato offeso e non può cessare
di accusare il torto patito e tuttavia non respinge gli uomini dai quali
gli sono venute sofferenze, offese e ingiustizie, ma queste e quelli
accoglie per fonderli tutti in una inesprimibile unità. C'è qui una
suprema grandezza spirituale che vince tutte le contraddizioni. Macario è
il popolo stesso assunto nella luminosità di una grande figura.
Lo stàrets Zòsima
e suo fratello Markèl
Come Macario, il pellegrino, lo stàrets è già
vecchio quando facciamo la sua conoscenza. Lo vediamo negli ultimi giorni
della sua vita, nella luce "dei raggi obliqui del sole al
tramonto", simbolo frequente in Dostojevskij di una suprema vicinanza
metafisica. Visto con gli occhi della fede, il vegliardo non è soltanto
il saggio che ha trovato la sua pace ma l'uomo inferiore, rinato a nuova
vita e a contatto con l'Eterno. L'Eterno irrompe nella sua vita temporale
e la morte significa la liberazione della forma intcriore che si è
maturata in lui e il suo ingresso nella vita eterna. Così la saggezza del
vecchio non è soltanto esperienza terrena e inferiore purificazione, ma
un sapere che viene da quel contatto con l'Eterno.
Il vecchio stàrets è avvolto da questa luce calda
e
74
arcana di tramonto. Tutta la sua vita si concentra ed è
presente nei giorni che precedono la sua morte. Toma alla sua memoria la
giovinezza lontana e getta una luce rivelatrice sugli avvenimenti
successivi ora che una lunga vita ha manifestato ciò che essa conteneva
in germe... Ecco Markèl, il fratello morto tanti anni prima in giovane
età. Zòsima allora non aveva compreso ma solo vagamente intuito la
profondità di quell'anima. Pure l'aveva accolta in sé come un seme vivo
ed esso ha dato poi i suoi frutti. Il giovinetto è lì, nello stesso
tempo vicino e lontano, e questa lontananza del passato diventa la
trasfigurazione dell'eternità. Egli fa cenno dal cielo, quasi beato
psicagogo e messaggero dell'EroJ celeste. Ma nell'attimo in cui il vecchio
muore e da un'esistenza conclusa nella santità si scioglie l'eterno,
troviamo già pronta un'altra giovinezza, Aljòsa, il discepolo
prediletto, che egli manda nel mondo a continuarvi la sua missione... Si
pensa al fedone e alla pienezza dionisiaca che prorompe nel momento
in cui Socrate muore: sovrabbondanza di vita che culmina nel momento della
morte, evocata dalla potenza di un amore che fonde il passato e l'avvenire
nel presente dell'irrompente eternità.
Il vegliardo che sulle soglie dell'eternità vede ora
compiersi l'opera della sua vita sente ridestarsi la infanzia, ora tutta
piena di significato.
' Padri e maestri, scusate le mie lacrime, che tutta la
mia fanciullezza mi sembra ora che risusciti dinanzi a me, e io. respiro
adesso come respiravo allora col mio petto infantile di otto anni, e
provo, come allora, stupore e turbamento e gioia.
75
Queste parole hanno una relazione profonda con la figura
del povero Giobbe che ha conosciuto la vita in tutto dò che essa ha
"di grande, di misterioso, di inconcepibile", là dove
s'incontrano "la fugace apparenza terrena e l'eterna verità".
Dio risolleva Giobbe, gli restituisce la ricchez2a,
passano di nuovo molti anni, ecco che egli ha già altri figli e li ama. O
Signore! ma come poteva amare questi nuovi figli, ci si domanda, dopo aver
perduto quegli altri? Ricordandoli, per cari che gli fossero i nuovi,
poteva forse essere pienamente felice, come una volta? Ma certo, certo:
il vecchio dolore, per un grande mistero della vita umana,
si trasforma a poco a poco in tenera gioia tranquilla; al fervido sangue
giovanile succede la mite serena vecchiezza: io benedico il quotidiano
levar del sole, e il mio cuore gli innalza come prima un canto, ma già ne
preferisco il tramonto, i lunghi raggi obliqui, e con essi i dolci,
pacati, commossi ricordi, le care immagini di una lunga vita benedetta, e
sopra ogni cosa la divina verità che commuove, pacifica e tutto perdona!
La mia vita è al termine, lo so e lo sento, ma sento pure in ognuno di
questi giorni ri-mastimi come la vita terrena già si riattacchi a una
nuova, infinita e ignota ma prossima vita, il cui presentimento fa
trepidare l'anima mia di entusiasmo. (I Fratelli Karamàzov, pp.
320-21).
"È molto significativo che le notizie sulla
"Vita dello stàrets Zòsima, morto in Dio, compilata secondo
le sue proprie parole da Aleksjè] Fjòdorovic Kara-màzov" comincino
col racconto che ha per titolo:
"Sul giovane fratello dello stàrets
Zòsima".
Si chiamava Markèl ed è morto giovanissimo. In principio
non voleva nemmeno sentir nominare Dio;
scherniva la religione, non tollerava che la sua vecchia
balia accendesse la lampada davanti all'icona e se lo faceva ugualmente,
lui la spegneva. Ma era poi avvenuta in lui una profonda trasformazione e
Mar-
76
kèl era diventato quegli che ora vive nella memoria del
vegliardo.
Vennero delle chiare, serene, fragranti giornate: la
Pasqua era tardi. Mi ricordo che tossiva tutta la notte, dormiva male e al
mattino, dopo essersi vestito, provava sempre a sedersi in una poltrona. E
così lo rammento: seduto, calmo, dolce e sorridente, malato, ma con un
volto allegro, gioioso. (I Fratelli Karamàzov, p. 317).
La vita divina, l'amore di Dio urgono in lui irresistibili
e nelle brevi settimane dell'ultima malattia egli appare trasfigurato.
Egli si trasforma.
Qui è presagito il mistero, che ha il suo fondamento
nella resurrezione del Signore e deve compiersi in ogni credente,
dell'assunzione del corpo e della anima nel divino, della loro
trasformazione non in uno "spirito" soltanto ma in una umanità
celeste. Esso si esprime in un pensiero ripetuto sovente:
II Paradiso è già qui! "Paradiso" però
significa uno stato in cui il mondo e Dio non sono due realtà separate ma
il mondo è solo in quanto esiste in Dio e il desiderio divino d'amore si
compie in quanto Dio può aprirsi nella creatura che si è data a Lui.
"Paradiso" è l'unità celeste.
" Mamma, non piangere, diletta, diceva, io vivrò
ancora a lungo, mi divertirò ancora molto con voi, e la vita è così
allegra, così gioconda " — " Ah, mìo caro! che allegria può
essere la tua, quando la notte ardi di febbre e tossisci, che quasi ti si
lacera il petto? " — " Mamma, 'le rispondeva, non piangere, la
vita è un Paradiso, e noi tutti siamo in Paradiso, e non vogliamo
saperlo; ma se volessimo saperlo, domani stesso il mondo intero sarebbe un
Paradiso " (I Fratelli Karamàzov, p. 317).
La "vita", somma di esistenza immediata, ardore
77
del sangue, forza Ulteriore dell'anima, potenza
intellettuale dello spirito, respiro dell'uomo concreto, noi qui la
sentiamo non spiritualizzata o idealizzata, ma trasformata e trasferita su
un piano diverso, quello del "Paradiso", realtà essenzialmente
religiosa, non etica, sebbene includa anche il momento etico. E il momento
estetico vi è presente non come tale, ma come bellezza santa, grazia, charis,
frutto del dono religioso di sé, compiuto con purezza.
Non è un gioco della fantasia ma un sentimento
profondamente serio che trova la sua conferma nell'amore. Markèl dice
ai domestici:
" Miei cari, perché mi servite? Merito io forse di
essere servito? Se Dio mi facesse la grazia e mi lasciasse in vita, io
stesso mi metterei a servirvi, perché tutti devono servirsi l'un l'altro
". La mamma, ascoltando, scoteva il capo: " Mio caro, è la
malattia che ti fa parlare così ". — " Mamma, gioia mia,
diceva, non possono non esserci padroni e servitori, ma vorrei anch'io
essere il servo dei miei servi, come essi sono i miei. Ti dirò ancora,
mammina, che ognuno di noi è colpevole di fronte a tutti e io più di
tutti ". La mamma allora sorrise perfino, piangeva e sorrideva:
" Ma come puoi tu mai, gli diceva, essere più di tutti colpevole di
fronte a tutti? Ci sono degli assassini, dei-briganti, ma quali peccati
hai tu avuto il tempo di commettere per accusarti più di tutti? "
— " Mammina, sangue mio, diceva (a quel tempo si era messo a dire
delle parole così affettuose, così inattese), sangue mio dolce e caro,
sappi che in verità ognuno è colpevole dinanzi a tutti per tutti e per
tutto. Io non so come spiegarlo, ma sento fino allo spasimo che è così.
E come facevamo a vivere adirandoci e senza saper nulla di questo? " (I
Fratelli Kara-màzov, pp. 317-18).
Sentiamo la potenza di questa inferiore trasformazione.
Essa si compie in pochi giorni. Appare un centro nuovo di vita
spiritiuale, dono di Dio, e tra-
78
sforma in uno slancio di intenso fervore tutta la
esistenza.
E anche tutto il mondo si trasforma. Il "mondo"
non è infatti qualcosa di finito, di statico, ma diviene nella misura in
cui si trasforma l'uomo e come l'uomo gli permette — o gli impone — di
divenire. Lo diciamo in un senso profondamente reale, non idealistico.
Quando l'uomo commise il primo peccato, le tenebre scesero sul mondo ed
esso si trovò prigioniero dell'errore. Ma quando l'uomo riacquista la
libertà in Dio ed entra nel "Paradiso", comincia a essere
paradiso anche intorno a lui. Ciò che si racconta di san Francesco non è
"leggenda" ma verità. O, se vogliamo, leggenda, ma come ingenua
e spontanea espressione di una superiore realtà spirituale di natura
divina che si manifesta quando l'amore e la fede di un cuore sanno
ridestarla.
Le finestre della sua .camera davano sul giardino, e il
nostro giardino era ombroso, pieno di vecchi alberi, e sugli alberi erano
spuntati i germogli primaverili, erano arrivati i primi uccellini e
schiamazzavano e cantavano sulle sue finestre. E tutt'a un tratto, mentre
li guardava con delizia, si mise a domandar perdono anche a loro: "
Uccellini del buon Dio, allegri uccellini, perdonatemi anche voi, perché
anche verso di voi ho peccato ". Questo nessuno di noi allora lo
poteva capire, ma lui piangeva di gioia: " Sì, diceva, c'era tanta
gioia di Dio intorno a me: gli uccellini, gli alberi, i prati, i deli, e
io solo ho vissuto nell'onta, io solo ho disonorato ogni cosa, e non mi
sono accorto affatto di tanta bellezza e di tanta gloria ". —
" Tu ti carichi di troppi peccati! " piangeva a volte la
mammina. " Mammina, gioia mia, è di allegrezza e non di dolore che
piango; sono io stesso che voglio essere colpevole verso di loro, ma non
tè lo posso spiegare, perché non so come amarli. Ma anche colpevole di
fronte a tutti, se tutti mi perdonano, questo è il Paradiso! Non sono ora
forse in Paradiso? " (J Fratelli Karamàzov, p. 318).
79
Ed eccoci ora in presenza di un misterioso evento di
generazione spirituale: una vita Ulteriore personale è trasfusa nella
vita di un altro. Trasfusione non ideale o psicologica, ma vera e reale.
Non un monistico fluire nella vita universa ma un'unità fondata su un
principio che trascende tutte le distinzioni e tuttavia non le abolisce.
Ricordo che una volta entrai solo nella sua camera, mentre
non c'era nessuno. Era una limpida sera, il sole tramontava e illuminava
con un raggio obliquo tutta la stanza. Vedendomi, mi fece un cenno, io mi
accostai, egli mi prese per le spalle, con le mani, mi guardò in viso con
tenerezza, con amore: non disse nulla, mi guardò soltanto così per un
minuto: « Su via, disse, adesso va' a giocare, vivi per me! ». Io allora
uscii e andai a giocare. Molte volte poi nella vita ricordai fra le
lacrime come egli mi avesse ordinato di vivere per lui. (I Fratelli
Karamàzov, pp. 318-19).
Si è compiuto qui un mistero di divina generazione. Il
fanciullo ha accolto in sé qualche cosa della vita del morente e
questo poi ha dato i suoi frutti e ora fiorisce nel vegliardo in quella
pienezza dispiegata che al giovinetto morto precocemente era stata negata.
' E a sua volta lo stàrets trasmette ad Aljòsa la
sua ricchezza segreta. Sentiamo il calore del suo affetto nelle parole che
lo salutano al suo arrivo:
Scorto Aljòsa, che entrando si era turbato e fermato
sulla soglia, lo stàrets gli sorrise gioiosamente e gli tese la
mano:
— Buon giorno, caro, buon giorno, eccoti qui anche tu.
Lo sapevo che saresti venuto.
Aljòsa gli si accostò e s'inchinò fino a terra. (I fratelli
Karamàwv, p. 312).
80
Lo stàrets poi lo manderà nel mondo mostrandogli
qui il suo destino. E così esso dovrà compirsi.
Sotto il segno dell'immagine fraterna tornano allo stàrets
i ricordi della propria vita.
Egli è figlio di un modesto gentiluomo e le immagini
della madre e dei familiari risplendono di luce lieta. A otto anni fa la
sua prima esperienza religiosa:
durante la messa, il lunedì della settimana santa, gli
appare in una improvvisa illuminazione il significato di "libro
santo". Questa misteriosa unità dell'oggetto concreto, volume,
fogli, segni, del loro significato, della rivelazione, questo tutto,
questa santa unità che ora è lì aperta davanti a lui e di cui si fa
lettura ad alta voce in chiesa... Da questo momento la sua vita inferiore
è dominata dai racconti del Libro dei libri.
Frequenta poi per alcuni anni la scuola dei cadetti di
Pietroburgo e si lascia prendere da quel caratte-ristico spirito militare
composto di senso del dovere e dell'onore, di coraggio, di durezza e di
brutalità. Terminata la sua preparazione si da a una vita sfrenata, tanto
più che il denaro non gli manca. Presto è preso di simpatia per una
fanciulla di buona famiglia, ma viene a sapere che è già fidanzata da
molto tempo. Ferito nel suo orgoglio, non si da pace finché non ha
provocato il rivale. La sera prima del duello torna a casa mezzo ubriaco e
di pessimo umore e senza alcuna ragione precuote il suo attendente sul
viso. Si desta alle prime luci del giorno e si rende conto della bassezza
della sua azione. La vergogna opera in lui un cambiamento totale; domanda
perdono all'attendente. Ora il duello gli appare in tutta la sua
assurdità. Egli lascia che l'awer-
81
sariò spari il primo colpo, poi butta via la pistola.
All'indignazione generale risponde con la pubblica confessione della sua
nuova esperienza e dichiara di volersi fare monaco.
Comincia ora una lunga vita di preghiera, di rinuncia e di
penitenza. Egli va di paese in paese oppure vive nel raccoglimento del
chiostro. Col passare del tempo appare evidente ch'egli è profondamente
avanzato nella vita spirituale. I confratelli si rivolgono a lui perché
li guidi sulla via della perfezione. Da ogni parte giungono persone che
chiedono ammaestramento, consiglio, aiuto. Diventa stàrets, del
numero di coloro che custodiscono e tramandano la sapienza e la forza
divina, come abbiamo conosciuto nel primo capitolo accanto alle
"donne credenti".
È molto significativo il modo come avviene la prima
crisi, la sera avanti il duello:
Tornato la sera a casa, furioso e sconvolto, mi adirai col
mio attendente Afanàsij e lo colpii due volte sul viso con estrema
violenza, tanto che lo feci sanguinare. Egli era al mio servizio da poco
tempo e già mi era accaduto di Eercuoterlo, mai però con così crudele
bestialità. Lo credete, miei cari? quarant'anni sono passati da quel
tempo e io me ne ricordo ancor oggi con vergogna e dolore. Mi coricai,
dormii un tré erette e mi alzai che già si faceva giorno. Mi levai su a
un tratto, non volendo più dormire, mi avvicinai alla finestra, l'aprii,
— essa dava su di un giardino, — sorgeva il sole, era un tempo caldo e
magnifico, gli uccelli si erano messi a gorgheggiare. " Che cos'è,
pensai, questo senso d'infamia e di bassezza che ho nell'anima? Sarebbe
forse perché vado a versare del sangue? No, pensai, non deve esser
questo. Sarebbe forse perché temo la morte, perché temo di essere
ucciso? No, nient'affatto, non è neppur questo... ". E indovinai
tutt'a un tratto di che si trattava: era perché la sera prima avevo
percosso Afanàsij! Tutta la scena mi si ripresentò di colpo, come
82
se si ripetesse: egli mi stava davanti e io lo colpivo sul
viso col braccio disteso, mentre lui teneva le braccia lungo i calzoni e
il capo diritto, con gli occhi spalancati, come sull'attenti, sussultava a
ogni colpo e non osava nemmeno alzare le mani per pararsi: un uomo era in
quelle condizioni e un altro uomo lo percoteva! Che delitto! Fu come se un
ago mi trafiggesse l'anima. Io stavo là come un demente e il sole
splendeva, le foglioline gioivano e luccicavano, mentre gli uccellini
lodavano Dio... Mi coprii il viso con le due palme, mi buttai sul letto e
scoppiai In singhiozzi. Mi ricordai allora di mio fratello Markèl e delle
sue parole ai domestici prima di morire: " Miei cari, perché mi
servite? perché mi amate? e sono io degno di essere servito? ".
" Sì, ne sono io degno? mi balzò in mente all'improvviso. Infatti,
come posso esser degno che un altro uomo fatto come me a immagine e
somiglianzà di Dio, mi debba servire? " E così questa domanda mi
penetrò allora nell'intelletto per la prima volta in vita mia.
Il passato rivive e parla nel ricordo del fratello morto:
« Mammina, sangue mio, ognuno in verità è colpevole per
tutti di fronte a tutti, ma gli uomini non lo sanno;
se lo sapessero, sarebbero subito in paradiso! ». «
Signore, è mai possibile che non sia vero?, pensai piangendo, io forse
sono realmente più colpevole di tutti, e anche peggiore di tuta sulla
terra! ». E la verità mi apparve tutta di colpo, in tutta la sua luce.
(J Fratelli Karamàzov, pp. 327-28).
Rivive in lui il fratello. Ciò che è stato concepito
nello spirito si desta a vita. La benda cade dagli occhi. Egli vede le
cose come sono. Vede sé e Dio proprio nel rapporto che implica un
profondo problema umano e cristiano, particolarmente sentito in Oriente:
il rapporto fra padrone e servitore, fra chi comanda e chi obbedisce, con
le sue manifestazioni opposte di arroganza e umiltà, di sottomissione e
ri-
83
volta. La breccia attraverso l'egoismo è operata nel
punto di maggior resistenza: nel rapporto che la società stabilisce fra
persona e persona. Egli vede il prossimo e se stesso, al di là di ogni
differenza sociale, così come tutti e due sono realmente. Ma non nella
nuda realtà della natura, o dal punto di vista di uno stoicismo
filosofico, bensì in Dio. Le parole del fratello morto gli tornano alla
mente:
"Perché mi servite? perché mi amate? e sono degno
di essere servito?" E subito egli continua il pensiero e lo conclude;
"Infatti, come posso essere degno che un altro uomo, fatto come me, a
immagine e somiglianzà di Dio, mi debba servire? E così questa domanda
mi penetrò allora nell'intelletto per la prima volta in vita mia".
È il rovesciamento di tutti i rapporti puramente umani che si è compiuto
alla luce improvvisa di questa verità: l'uomo è fatto a immagine di Dio.
Ogni uomo, dunque, è immagine di Dio, ogni uomo ha davanti a Dio questa
dignità sacra, indipendentemente dalla sua condizione sociale. Il
pensiero si sviluppa; sono sempre le parole del fratello: "Mammina,
sangue mio, ognuno è colpevole a tutti per tutti, ma gli uomini non lo
sanno; se lo sapessero, sarebbe subito il Paradiso". Nasce così
l'idea, che poi avrà tanta importanza nella coscienza dello stàrets,
della solidarietà di tutti nella colpa comune, riconosciuta nella propria
— tuttavia sempre colpa davanti a Dio e riconosciuta in Dio.
Viene poi il duello e di nuovo par dì riascoltare
l'ammonimento fraterno:
«Signori, esdamai tutt'a un tratto dal fondo' del cuore,
guardate in giro i doni di Dio: il cielo sereno, l'aria pura, l'erbetta
tenera, gli uccellini, la, natura bella e innocente,
84
e noi, soltanto noi, gente empia e sciocca, non
comprendiamo che la vita è un Paradiso, giacché basterebbe che volessimo
capirlo, ed esso subito spunterebbe in tutta la sua bellezza, e noi ci
abbracceremmo piangendo... ». E volevo ancora continuare, ma non potei,
mi mancò perfino il respiro, tanta dolcezza e giovinezza era in me, e nel
cuore una felicità quale non avevo mai provata in tutta la mia vita. (J Fratelli
Karamàzov, pp. 129-30).
Cessa l'incantesimo che deformava le cose. Ora è chiaro
che ciascuna ha in sé la possibilità di essere Paradiso, che in ciascuna
Dio può manifestarsi, nel sole e nella terra, nella pianta e
nell'animale, purché l'uomo si lasci invadere, nella fede e nel totale
oblio di sé, dall'amore di Dio.
Nella persona del soldato, disprezzato prima, riappare il
popolo, quella realtà dalla quale lo stàrets stesso proviene e a
cui, dopo essersene allontanato, ritorna ora consapevole.
Il legame del popolo con Dio giunge in questo uomo alla
sua pienezza. Egli solleva l'esistenza del popolo alla sfera dell'eroismo
cristiano. E non solo, come Macario, per il semplice fatto di essere e di
vivere com'egli è e vive, ma anche perché la conoscenza e la dottrina
hanno fatto di lui uno spirito libero. Egli diventa così l'interprete e
il depositario delle realtà e dei valori racchiusi nella coscienza
cristiana degli umili, coscienza che si è formata attraverso
l'accettazione dell'esistenza e di tutto ciò che vi accade come volontà
di Dio.
Nel capitolo che ha per titolo Dalle conversazioni e
dai sermoni dello stàrets Zòsima si profila un'immagine del popolo
contemplata con grande amore. Ideologia romantica, si dirà; tuttavia
quell'immagine
85
è vera e bella. Quello che prima si è potuto dire del
popolo è attinto per lo più a queste conversazioni. Esse svolgono con
fede ardente una nobile concezione etica dei rapporti umani, importante
soprattutto per la questione scabrosa delle differenze sociali:
« Tu sei distinto, tu ricco, tu intelligente e pieno di
talento, e sia, che Dio ti benedica! Io ti rispetto, ma so che anch'io
sono un uomo. Rispettandoti senza invidiarti, io mostro dinanzi a tè la
mia dignità umana» (...) Accadrà infatti che anche il più corrotto dei
nostri ricchi finirà per vergognarsi della sua ricchezza dinanzi al
povero, e il povero, vedendo la sua umiltà, comprenderà e cederà
davanti a lui, ricambiando con gioia e con affetto la sua nobile vergogna.
Credetelo, finirà così... In questo mondo non si può fare a meno dei
servi, ma agisci in maniera che il tuo servo si senta in casa tua più
libero di spirito che se non fosse servo. (I Fratelli Karamàtov,
pp. 347 e 349).
Ma non basta per attuare questo l'aiuto della sola ragione
umana o un desiderio naturale di giustizia. Solo la fede può renderlo
possibile.
« Pensano di assestarsi secondo giustizia, ma, avendo
respinto Cristo, finiranno per inondare il mondo di sangue, perché il
sangue chiama il sangue, e chi ha tratto la spada perirà di spada. E, se
non ci fosse la promessa di Cristo, si sterminerebbero sulla terra l'un
l'altro fino agli ultimi due uomini. E anche questi ultimi due, nel loro
orgoglio, non saprebbero dominarsi, per cui l'ultimo sopprimerebbe il
penultimo e poi anche se stesso » (I Fratelli Karamàwv, p. 349).
La vera forza è l'amore umile che prende vita da Dio.
« Certi pensieri, specialmente alla vista del peccato
umano, ti rendono perplesso, e tu ti domandi: " Devo ricorrere alla
forza o all'umile amore? ". Decidi sempre: ricorrerò
86
all'umile amore. Se prenderai una volta per tutte questa
decisione, potrai soggiogare il mondo intiero. L'amore umile è una forza
formidabile, la più grande di tutte, come non ce n'è un'altra. Ogni
giorno, ogni ora, ogni minuto osservati e sorvegliati, perché il tuo
aspetto sia dignitoso. Ecco, tu sei passato accanto a un piccolo bambino,
sei passato stizzito, pronunziando una brutta parola, con l'anima piena di
collera; tu non l'hai forse neanche notato, ma il bambino ti ha veduto e
la tua immagine, laida e cattiva, è forse rimasta nel suo cuore indifeso.
Tu non lo sai nemmeno, ma può darsi che con ciò tu abbia già gettato in
lui un mal seme, che forse crescerà, e questo perché non ti sei dominato
dinanzi al bambino, perché non hai coltivato in tè l'amore vigile,
attivo. Fratelli, l'amore è un maestro, ma bisogna saperlo acquistare,
perché si acquista difficilmente, si paga a caro prezzo, con un lavoro
continuato per lungo tempo, non dovendosi amare solo un istante,
accidentalmente ma sino alla fine. Accidentalmente chiunque può amare,
anche un malvagio ».. (I Fratelli Karamàzov, p. 351).
Questo amore si fonda sulla rinuncia per principio
all'esclusivismo dell'esistenza individuale, a quella mentalità
"occidentale" per cui l'uomo dice: "Tu, non io... io, non
tu". Qui non è così. Il "tu" e l'"io" sono
diversi ma nel "tu" c'è anche l'"io". Di questo
appare un'unità dietro le distinzioni empiri-che, che non è frutto di
confusione ma è fondata in Dio. Questo atteggiamento si manifesta
particolar-mente in un senso profondo della solidarietà nel peccato:
Non dite: « Forse è il peccato, forse l'empietà, forse
il cattivo ambiente, mentre noi siamo soli e deboli; l'ambiente cattivo ci
guasterà e non lascierà che l'opera buona si compia ». Figli miei, non
lasciatevi così abbattere! Non c'è che un mezzo di salvezza: rendersi
responsabile di ogni peccato umano. È proprio così, amico mio: infatti,
appena ti sarai sinceramente reso responsabile per tutti e per tutto,
vedrai subito che è così per davvero e che
87
anche tu sei colpevole per tutti e per tutto. Rigettando
invece la tua pigrizia e la tua impotenza sugli uomini, finirai per
contaminarti di orgoglio satanico e per mormorare contro Dio ».
Se poi la realtà dei fatti sembra dar torto a questo
atteggiamento, esso dovrà essere mantenuto con la fede.
« Se poi si allontanerà insensibile al tuo perdono e
schernendoti, non lasciarti fuorviare nemmeno da questo:
vuoi dire che l'ora sua non è ancora venuta, ma verrà a
suo tempo; e, se non verrà non importa: se non lui, un altro
per lui comprenderà e soffrirà, e si accuserà e si condannerà da sé,
e la verità sarà adempita. Credi a questo, credi fermamente,
perché è in questo che sta tutta la speranza e la fede dei santi ». (I
Fratelli Karamàzov, pp. 351-52 e 353).
Anzi, l'unione delle creature che, riscattate dall'amore,
in questo amore riconoscono veramente se stesse, va oltre l'uomo; vediamo
riaffiorare così nello stàrets, vissuti e approfonditi nel corso
di una lunga esperienza, momenti della vita Ulteriore del fratèllo
Markèl:
« II mio giovane fratello domandava perdono agli uccelli:
pare un non senso, ma è giusto, perché tutto,;
come l'oceano, scorre e comunica, tu tocchi in un punto e
si ripercuote all'altro estremo del mondo. Sarà follia domandar perdono
agli uccelli, ma gli uccelli, e i bambini, e ogni animale intorno a tè si
sentirebbero meglio se tu stesso fossi più nobile di quel che ora sei,
non fosse che un tantino. Tutto, vi dico, è come l'oceano. Pregheresti
allora anche gli uccellini, struggendoti in un amore totale, come in una
specie di estasi, e li pregheresti perché anch'essi ti rimettessero i i
tuoi peccati. Abbi cara quest'estasi, per quanto insensata possa parere
agli uomini» (I Fratelli Karamàzov, p. 351).
88
L'atto religioso si estende persino alla natura inanimata:
« Conosci la misura, conosci i termini, apprendili.
Rimanendo in solitudine, prega. Ti sia caro prosternarti sulla terra e
baciarla. Baciala e amala incessantemente, insaziabilmente, ama tutti, ama
ogni cosa, cerca tale estasi e tale esaltazione. Bagna la terra con le
lacrime della tua gioia e ama cedeste tue lacrime. Non vergognarti di
questa esaltazione, abbila cara, perché è un dono di Dio, un gran dono e
non è dato a molti, ma solo agli eletti » (I Fratelli Karamàwv,
p. 354).
Anch'egli ricorda un episodio della sua vita di
pellegrino,, una scena in cui rivive il "Paradiso" di Markèl:
« Venne a sedersi con noi un giovanotto di belle
sembianze, un contadino sui diciott'anni all'aspetto, che aveva fretta di
arrivare il giorno dopo il suo posto per tirare con l'alzaia una barca
mercantile. E io lo vedo che guarda dinanzi a sé con gli occhi commossi e
limpidi. È una notte chiara, tranquilla e calda di luglio; il fiume è
largo e se ne leva un vapore che rinfresca, qualche pesciolino guizza
leggero, gli uccellini si sono chetati, tutto è calmo e sublime, ogni
cosa prega Dio. Noi due soli non dormivamo, io e quel giovanet-to, e
discorremmo della bellezza di questo mondo divino e del suo grande
mistero. Ogni erbetta, ogni scarabeo, la formica, l'ape dorata, tutti
conoscono in modo meraviglioso la propria via, pur non avendo
l'intelligenza, attestano il divino mistero e lo compiono essi stessi di
continuo: io vidi che il cuore del caro giovane si era infiammato. Egli mi
confidò che amava la foresta e i suoi uccelletti: era uccellatore e
comprendeva ogni loro verso, sapeva attirare ognuno di essi:
Io, diceva, non conosco nulla di meglio della vita della
foresta; tutto, del resto, è buono ". — " Davvero, gli
risposi, tutto è buono e magnifico, perché tutto è verità. Guarda, gli
dissi, il cavallo, nobile animale che sta accanto all'uomo, o il bue, che
lo nutre e lavora per lui, curvo e pensoso; guarda le loro sembianze:
quanta mitezza, quanta devozione per l'uomo, che spesso li percuote senza
pietà, che mansuetudine, che fiducia, e che bellezza nelle loro linee!
Commuove perfino
89
il saperli senza alcun peccato, perché tutto è perfetto,
tutto è innocente, all'infuori dell'uomo, e Cristo è con essi ancora
prima che con noi ". — " Ma è possibile, domanda il giovane,
che Cristo sia anche con essi? ". — "E come può essere
altrimenti?, gli dico io, il Verbo è infatti per tutti, ogni creatura,
ogni essere, ogni fogliolina aspira al Verbo, canta la gloria di . Dio,
piange inconsapevolmente rivolgendosi a Cristo, e così fa per il mistero
della propria esistenza senza peccato " ». (J Fratelli
Karamàzov, p. 324).
Troviamo qui quella relazione di fede e di amore con Dio e
le sue creature di cui parla l'apostolo Paolo nella lettera ai Colossesi,
là dov'è detto che "in Cristo è stato creato tutto quello ch'è in
cielo e sulla terra, le cose visibili e quelle invisibili... \ Tutto è
stato creato da lui e per lui. Ed egli è avanti ogni cosa e tutto
sussiste in lui". Così anche nell'epistola agli Efesini:
"Tutto in Cristo dev'esser posto come sotto un capo, quello che sta
in cielo e quello che sta sulla terra".
Rivive la speranza nell'"uomo nuovo" e nella
"nuova creazione", nel "nuovo cielo" e nella
"nuova terra", la speranza in quel mistero di sovrabbondante
unità, pienezza d'amore, libertà e bellezza che ispira il pensiero di
san Paolo e le grandi visioni dell''Apocalisse, che fin da ora
germoglia e cresce, ancora in segreto ma già trasparente nell'uomo
santificato e un giorno sarà manifesto nella pienezza dei tempi.
Che la figura dello stàrets non sia idealizzata,
che quest'uomo, di una spiritualità così alta, sia tuttavia
profondamente reale risulta dalla descrizione del suo aspetto:
90
Fin dal primo istante lo stàrets non gli2
piacque. In realtà, il viso dello stàrets aveva qualcosa che non
sarebbe piaciuto anche a molti altri, all'infuori di Mjùsov. Era un
piccolo omino curvo dalle gambe assai deboli, di soli sessantacin-que anni
che per la malattia però sembrava ben più vecchio, di una decina d'anni
almeno. Tutto il suo viso, piuttosto magro, era disseminato di rughettine
minute, e ne aveva molte specialmente attorno agli occhi. Gli occhi poi
erano piccini, chiari, mobili e brillanti, simili quasi a due punti
luminosi. I capelli, brizzolati, non gli si erano conservati che sulle
tem-. pie; la barbetta era minuscola e rada, a punta, e le labbra, che
spesso sorridevano, erano sottili come due fettuccine. Il naso non era
lungo, ma aguzzo come il becco di un uccello.
« Secondo ogni apparenza, — passò per la mente di
Mjùsov, — un'animuccia maligna e meschinamente altezzosa » (J Fratelli
Karamàwv, pp. 43-4).
Ma il popolo sa che cosa si nasconde sotto questa piccola
figura. E i monaci che lo venerano gli affidano senza esitare la dirczione
delle loro anime.
Così si può ben dire che "nel corso della sua vita
egli abbia accolto nella sua anima tanti segreti degli uomini da leggere
ora nei loro volti come in un libro".
Anzi questa chiaroveggenza diventa in certi momenti dono
profetico, come nel famoso episodio della cella al principio del romanzo:
Ma tutta quella, scena, giunta ormai al colmo dello
scandalo, finì nel modo più inatteso. A un tratto lo stàrets si
alzò. Allèssa, che dalla paura provata per lui e per gli altri era quasi
smarrito, ebbe tuttavia il tempo di sostenerlo per un braccio. Lo slàrets
fece un passo verso Dmitrij Fjòdo-rovic e, giuntogli vicinissimo, si
abbandonò dinanzi a lui in ginocchio. Aljòsa credeva già che fosse
caduto per lo sfinimento, ma non era così. Inginocchiatesi, lo stàrets
si prosternò a Dmitrij Fiòdorovic con un perfetto, preciso e
2 A Mjùsov, il liberale « occidentalista ».
91
consapevole inchino, e sfiorò anche la terra con la
fronte. Aljòsa ne fu così stupefatto che non fece nemmeno in tempo a
sorreggerlo mentre si rìabava. Un pallido sorriso gli illuminava appena
le labbra.
— Perdonate! Perdonate tutti! — diss'egli, volgendosi
da tutte le parti a salutare i suoi ospiti.
Dmitrij Fjòdorovic rimase alcuni istanti come
trasecolato:
prosternarsi a lui, che voleva dir ciò? Infine gettò un
grido: « Oh Dio! » e, copertosi il viso con le mani, si slanciò fuori
della stanza. Dietro di lui si precipitarono in folla tutti gli altri
visitatori, senza neppure accomiatarsi, tanto erano turbati, ne salutare
il padrone di casa. (I Fratelli Karamàzov, p. 82).
Egli stesso però, richiestone da Aljòsa, spiega cosa
l'ha spinto ad 'agire così:
Ieri provai un'impressione terribile... come se il suo
sguardo esprimesse tutto il suo destino. Egli ebbe un certo guardo... che
per un istante fremetti nel mio cuore al pensiero di ciò che quell'uomo
si prepara. Una volta o due nella mia vita vidi in altri la stessa
espressione del viso... un'espressione che pareva rispecchiare tutto il
destino di quegli uomini, e questo destino, ahimè! si è compiuto. Ti ho
mandato da lui, Aleksjèj, perché pensavo che il tuo volto fraterno gli
avrebbe fatto del bene. Ma tutto viene da Dio, e anche tutti i nostri
destini. « Se il chicco di grano, caduto in terra, non morirà, rimarrà
solo; ma, se morirà, darà molto frutto ». (J Fratelli Karamàzov,
p. 313).
92
CAPITOLO QUARTO,
IL CHERUBINO
Nei capitoli precedenti abbiamo parlato della linea ideale
che dal popolo, attraverso le donne credenti e le due Sònje, conduce al
pellegrino Macario, allo stàrets e a suo fratello Markèl che in
lui sopravvive.
Abbiamo visto la posizione iniziale svilupparsi pur
restando sostanzialmente identica. Davanti a noi era sempre l'uomo vivente
in intima unione con le forze profonde della vita, anche se questa unione
via via si manifestava in una forma sempre più personale e cosciente.
Sullo stesso piano si trova anche Aljòsa Kara-màzov, di
cui ci occuperemo ora; esso è per lui il solido punto d'appoggio dal
quale poi salirà tuttavia a ben maggiori altezze.
Aljòsa Karamàzov
Aljòsa è il vezzeggiativo di Aleksjèj Fjòdorovic
Karamàzov e il fatto che tutti, anche chi lo conosce appena, e fin dal
primo momento, lo chiamino così deve avere un significato particolare
perché la sua natura non è tale da suggerire l'idea di un diminutivo. Il
nome "Aljòsa" non è dunque un semplice vezzeggiativo, ma
accenna a una ragione più pro-
93
fonda. Tutti sanno che questo giovane non è come gli
altri: viene da altrove, è come uno straniero;
pure tutti nello stesso tempo lo sentono singolarmente
vicino fraterno e confidente:
Tutti — sta scritto di lui — amavano
quell'adolescente, ovunque si presentasse, e questo fin dal primi suoi
anni... Il dono di destare una speciale simpatia egli l'aveva in se, per
così dire, dalla natura stessa, senza artifici e immediato. La stessa
cosa gli accadeva anche a scuola, e tuttavia pareva che egli fosse proprio
di quei fanciulli che suscitano la diffidenza dei compagni, talora lo
scherno e forse anche l'odio. (I Fratelli Karamàzov, p. 21).
Egli è il discepolo prediletto dello stàrets, al
quale si è votato interamente dal giorno in cui, come ubbidendo a un
ordine imperioso, ha interrotto all'improvviso gli studi ed è tornato a
casa per entrare in convento. Lo ha scelto per maestro, pronto, verso di
lui, ad una perfetta sincerità e obbedienza per raggiungere un giorno,
con l'aiuto del suo esempio, la saggezza e la perfezione spirituale. Egli
si è tutto penetrato della figura del maestro raccogliendo così
l'eredità misteriosa lasciata in un tempo lontano dal giovinetto Markèl,
assunto alla gloria dei deli ma. sempre tuttora spiritualmente
presente.
Ma Aljòsa non è soltanto il discepolo dello stàrets,
anche se prendiamo questa parola nel suo significato più alto. Egli
possiede una qualità che manca allo stàrets: la grandezza. Lo stàrets
è un uomo profondo, saggio, di una grande purezza ed interiorità e
meravigliosamente vivo. Si può ben dire di lui ch'egli possiede la
proprietà rara di essere in sé completo. Non parlo della completezza che
è dono di natura e, come in Nastàsja Filìppovna, gravida di destino, ma
di quella acquisita, che, quando appare
94
dopo una lunga preparazione, solleva tutto l'essere su un
piano diverso. La "compiutezza", infatti, è più del termine
ultimo di un determinato sviluppo; essa non è soltanto il grado più alto
a cui può giungere la personalità ma quello a lei assegnato, valido e
definitivo.
Così ad essa si perviene non solo per gradi successivi ma
con un salto qualitativo. Meraviglioso è il tipo di perfezione raggiunto
dallo stàrets, ma a confronto di Aljòsa appare evidente che il
maestro non possiede ciò che invece il discepolo ha per dono di natura:
la grandezza. E precisamente una grandezza particolare che impareremo a
conoscere più avanti. Con questo non è ancora detto che Aljòsa
raggiungerà la perfezione. Una grandezza compiuta, di tutte le rarità è
certo la più rara. Ma chi possiede la grandezza è sempre un po' in
vantaggio in confronto agli altri. Anche se rimane frammento, il frammento
ne reca impresso il sigillo.
Il carattere di Aljòsa è già descritto con finezza e
penetrazione nelle prime pagine dei fratelli Kara-màzov.
Non è quel che si dice un ragazzo d'ingegno. La sua
intelligenza non supera la media. Ma ha "un cuore caldo,
nostalgico" e sa amare profondamente. Fatto singolare, però, non
c'è uomo al quale l'amore potrebbe legarlo in modo definitivo. Nemmeno,
in fondo, il suo maestro, al quale si è pur intieramente dato.
È tranquillo, taciturno e si apparta volentieri a
meditare. E "raramente è spensierato o anche solo allegro";
tuttavia "chiunque lo guardasse capiva che non era ne cupo ne
imbronciato, ma sereno e cordiale".
95
Risplende e s'irraggia da lui una luce di letÌ2Ìa. E del
suo amore è detto che tutto può sopportare tranne l'incertezza e
l'inazione. Non gli basta di ardere silenzioso, ma anela alla chiarezza
dell'azione.
Dostojevskij mette particolarmente in rilievo alcune sue
qualità veramente singolari:
Fra i coetanei non voleva mai mettersi in mostra. È forse
per questo che non aveva mai paura di alcuno; i ragazzi però capirono
tosto che egli non s'inorgogliva per nulla della sua intrepidità, ma
sembrava non accorgersi nemmeno di essere ardito e impavido. (I fratelli
Kara-màzov, p. 21).
L'intrepidità in Dostojevskij è un segno di elezione. Ha
però forme diverse. Oltre Aljòsa solo Stavròghin, ch'io sappia, e fino
a un certo punto anche la povera Màrja Lebjàdkina non conoscevano
veramente la paura. Il principe Myskin, invece, reagisce alla paura con un
coraggio assoluto. Non conoscer la paura significa esser sottratti
all'influsso delle cose temibili. L'estrema freddezza di Stavròghin lo
rende invulnerabile alla paura; ci ricorda il ghiaccio in cui sono immersi
i più tristi dannati dell'Inferno di Dante. In Aljòsa, invece,
c'è tanta fermezza, limpidezza e calore che' la paura non ha su di lui
alcun potere.
A questa sua intrepidità si collega un altro aspetto del
suo carattere:
Non serbava mai memoria delle offese, accadeva che, un'ora
dopo l'offesa, già desse risposta all'offensore o si mettesse lui stesso
a parlargli con aspetto così confidente e limpido, come se nulla ci fosse
stato fra loro. E non che allora avesse l'aria di avere per caso
dimenticato o di proposito perdonato l'offesa; non la considerava invece,
semplicemente, come un'offesa, e questo gli cattivava e con-
96
quistava pienamente l'animo dei fanciulli. (I Fratelli
Kara-màzov, p. 22).
Un'altra caratteristica singolare, dunque: la mancanza di
amor proprio. Non però frutto di una vittoria su se stesso, come nello stàrets,
ma qualità originale come nel principe Myskin. Anch'essa costituisce una
categoria metafisica o, più esattamente, religiosa: in quest'uomo vi è
posto per il "Tu", vi è lo spazio in cui può affermarsi con
piena libertà l'esistenza del prossimo.
Perciò Aljòsa non giudica mai. Si limita ad ascoltare e
a distinguere il giusto dall'ingiusto; non approva quando approvare non è
possibile ma non condanna. E quando non sa che cosa fare di meglio si
allontana in silenzio. Per questo suo padre, il vecchio usuraio libertino,
dice di volergli bene:
Sento bene che tu sei sulla terra l'unico che non mi abbia
condannato, caro ragazzo mio; questo io lo sento, sai, non posso mica non
sentirlo.
Tuttavia: è l'essere stesso di Aljòsa che
"giudica". Per essere più esatti: vi è una chiarezza in lui
che porta la distinzione tra il bene ed il male su un piano di
consapevolezza, sicché in presenza sua questa differenza s'impone.
"Tu sei la mia coscienza", gli dice Grùscegka. Tale egli è
veramente, e non solo per lei. E lo è perché non giudica, perché vi è
in lui l'assenza di ogni presunzione. Nella sua semplicità parla la
verità stessa.
Dostoevskij parla con insistenza particolare della sua
castità:
C'era in lui un solo tratto che in tutte le classi del 97
ginnasio, cominciando dalla più bassa fino alle più
alte,
eccitasse nei compagni un desiderio continuo di farsi
giucco di lui, non per derisione malvagia, ma perché la cosa li
divertiva. Questo suo tratto era una selvaggia, esaltata pudicizia e
castità. Egli non poteva sentire certe parole e certe conversazioni sulle
donne... Vedendo che « Aljòsa Karamà-zov », quando si mettevano a
parlar di « questo », si tappava rapidamente gli orecchi con le dita,
gli altri qualche volta a bella posta gli facevano ressa attorno, e,
levandogli a forza le mani dal capo, gli gridavano in entrambi gli orecchi
delle oscenità, mentre egli si dibatteva, si gettava per terra, si
copriva la faccia, e tutto ciò senza dir loro una sola parola, senza
ingiuriarli, sopportando in silenzio l'affronto. Da ultimo però lo
avevano lasciato in pace e non lo punzecchiavano più chiamandolo «
ragazzuccia »; lo guardavano anzi, da questo lato, con compatimento. (I Fratelli
Karamàzov, p. 22).
Questa castità viene dallo spirito; più esattamente,
dallo "pneuma". La sua anima, consacrata alle realtà più
sante, non sopporta l'impurità.
Forse egli sente nella irritabilità dei suoi sensi il
pericolo insito di una caduta grave. Che Aljòsa sia in pericolo lo
avvertiamo infatti da certi fenomeni patologici. Egli rimane intimamente
legato alla madre morta, vittima della disonorante bassezza del marito. Da
lei egli ha ricevuto le prime, forse decisive impressioni religiose e
insieme anche una particolare emotività. Un giorno che il padre con
ripugnante spavalderia racconta come usasse maltrattare la moglie finché
ella fosse presa da un attacco del suo male, Aljòsa, rivivendo
all'improvviso l'angoscia materna, è colto dalla stessa crisi nervosa.
E finalmente un ultimo tratto singolare:
Un altro suo tratto, assai caratteristico anzi, era quello
di non darsi mai pensiero a spese di chi vivesse... Ma questa singolarità
del carattere di Aleksjèi non la si poteva,
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a quanto pare, condannare molto severamente, perché
chiunque l'avesse solo un tantino conosciuto si sarebbe subito convinto,
venendogli un dubbio al riguardo, che Ale-ksjèj era proprio uno di quei
giovani che somigliano agli « innocenti » e che, se gli fosse
improvvisamente capitato fra le mani anche tutto un capitale, non avrebbe
esitato a darlo via alla prima richiesta per un'opera buona o magari a
consegnarlo ad un abile imbroglione che gliel'avesse domandato. In
generale, poi, pareva che egli non conoscesse affatto il valore del
denaro, parlando, s'intende in senso non letterale. Quando gli si dava un
po' di spiccioli, ch'egli però non chiedeva mai, o non sapeva che fame
per intere settimane, o non sapeva conservarli e in un momento gli
sparivano di mano. Piotr Alexàndrovic Mjùsov, persona che, quanto a
quattrini e a onestà borghese, era meticolosissima, avendo più tardi
osservato Aleksjèi, pronunziò una volta su di lui il seguente aforisma:
« Ecco forse l'unico uomo al mondo che, lasciato a un tratto solo e senza
denari sulla piazza di una atta sconosciuta d'un milione di abitanti, non
si perderà mai e non morrà ne di fame, ne di freddo, perché subito gli
si darà da mangiare, subito gli si darà un posto; e, se non glielo si
desse, lui stesso lo troverebbe da sé in un momento; e ciò non gli
costerebbe sforzo od umiliazione di sorta, ne sarebbe un peso per chi gli
desse il posto, ma, anzi, piuttosto un piacere » (I Fratelli
Karamàzov, pp. 22-3).
Sentiamo nelle parole del "cronista" — il
personaggio comprensivo, un po' mediocre, a cui Dostojev-skij ricorre
talvolta per ottenere come un'atmosfera psicologica neutra — il
significato profondo sottinteso. Siamo di nuovo in presenza di una
qualità metafisica, propriamente parlando, cristiana: l'esortazione a non
preoccuparci del domani. Anch'essa non acquisita ma profondamente
connaturata. È la serenità perfetta di chi si sente solo impegnato da
una realtà superiore; congenita, in più, ad una così luminosa forza di
convinzione che subito si è disposti ad aiutarlo. Una specie di
solidarietà si stabilisce
99
tra lui ed il primo venuto poiché quest'ultimo si accorge
che egli vive solo nella sollecitudine delle cose supreme.
La verità e l'angelo
Dobbiamo ora penetrare più profondamente nell'intimo di
questa figura veramente straordinaria.
Fjòdor Karamàzov, il padre, dice un giorno all'altro
figlio Ivàn;
— Che hai da guardarmi? Che occhi mi fai? I tuoi occhi
mi guardano e dicono: « grinta di ubriaco! » Nei tuoi
occhi c'è la diffidenza, c'è il disprezzo nei tuoi occhi... Tu sei
venuto con secondi fini. Ecco Aljòsa che mi guarda, ma i suoi occhi
splendono. Aljòsa non mi disprezza. Aleksjèj, non amare Ivàn. (I
Fratelli Karamàzov, p. 152).
Il suo astenersi dal giudicare qui è legato alla
semplicità e alla trasparenza del suo essere: alla verità.
Ritroveremo la sincerità di Aljòsa forse soltanto nel
principe Myskin. Essa ci colpisce soprattutto nel dialogo che ha luogo tra
Aljòsa e il compagno Rakìtin, il "seminarista dall'animo volgare.
Il discorso cade sul gesto sorprendente dello stàrets che si è
prosternato davanti a Dmìtrij, fratello di Aljòsa1, e
Rakìtin ironicamente osserva:
Gli innocenti fan sempre così: fanno il segno della croce
sulla taverna e lanciano pietre contro il tempio. Così fa anche il tuo
vecchio: il giusto lo caccia fuori col bastone e all'assassino s'inchina
fino a terra.
— Che delitto? a quale assassino? Chi cosa dici mai?
1 Vedi sopra alla fine del terzo capitolo, pp.
91-92.
100
— E Aljòsa restò come inchiodato- si fermò anche
Rakìtin.
— A quale? Come se tu non lo sapessi! Scommetto che tu
stesso ci avevi già pensato. A proposito, è curiosa: ascolta, Aljòsa,
tu dia sempre la verità, pur tenendo sempre il piede in due staffe: ci
hai pensato o non ci hai pensato? Rispondi.
— Ci ho pensato, — rispose Aljòsa sottovoce. Perfino
Rakìtin si turbò. (J Fratelli Karamàzov, pp. 86-87).
Questa sincerità è così inaudita che persino un
Rakìtin rimane confuso.
Più significativo ancora appare questo spirito di verità
nella conversazione che ha luogo tra Aljòsa, Katjerìna Ivànovna e
Ivàn, fratello di Aljòsa. Nel suo intimo Katjerìna ama Ivàn Karamàzov
ma ella vuoi persuadere se stessa che è Dmìtrij l'uomo di cui è
innamorata perché non saprebbe altrimenti liberarsi dall'intollerabile
senso di umiliazione che la tortura dal giorno in cui si è offerta a
Dmìtrij per salvare suo padre. Ella e Ivàn si nascondono i propri
sentimenti e la conversazione si trascina così tormentosa per tutti
finché Aljòsa, colto da un'eccitazione improvvisa, — "pareva
soffocasse" — rimprovera alla donna di recitare una commedia:
— Di che parlate? non comprendo...
— Non lo so neppur io... È stato in me come un lampo
improvviso... So che non faccio bene a dirlo, ma tuttavia dirò tutto, —
continuò Aljòsa con la stessa voce rotta e tremante, — ho visto come
in un lampo che mio fratello Dmìttji voi forse non l'amate affatto... fin
dal principio... E anche Dmìtrij forse non vi ama punto... fin dal
principio... ma vi stima soltanto... Non so davvero come adesso io osi dir
tutto questo, ma bisogna bene che qualcuno dica la verità... perché la
verità nessuno qui la vuoi dire...
— Che verità? — gridò Katjerìna Ivànovna, qualcosa
d'isterico risonò nella sua voce.
— Eccola: — balbettò Aljòsa, come se si lanciasse in
101
un abisso, — fate subito venire qui Dmìtrij, lo
troverò io, che venga qui a prendere la vostra mano e poi prenda quella
di mio fratello Ivàn, e unisca le vostre due mani. Voi tormentate Ivàn
soltanto perché lo amate... e lo tormentate perché il vostro amore per
Dmìtrij è uno strazio... un inganno... perché avete voluto persuadervi
che sia così...
— Voi... voi... siete un piccolo mentecatto, ecco chi
siete! — gli rispose bruscamente Katjerìna Ivànovna, pallida ormai m
volto e con le labbra contratte dalla collera. Ivàn Fjòdorovic e un
tratto fece una risata e si alzò. Aveva fra le mani il cappello. (I Fratelli
Karamàzov, pp. 210-11).
Aljòsa sta con la verità in un rapporto tutto speciale.
C'è in lui una forza di verità che non soltanto non mente ma afferma
apertamente quello che è precisamente in un modo che trasforma il
semplice fatto di dire il vero in un atto religioso, in una
"illuminazione" che opera in lui. Ed ecco che un particolare
apparentemente secondario s'illumina all'improvviso di un significato
inatteso: Aljòsa è chiamato continuamente "angelo".
Il vecchio Karamàzov lo chiama "il mio angelo"
e l'eccentrica Kochlàkov dice ch'egli "si è comportato come un
angelo". Potrebbero essere dei semplici modi di dire, esagerazioni;
ma anche Dmìtrij, fratello di Aljòsa, dice la stessa cosa.
Quando Aljòsa, dopo la morte del maestro, ha la sua prima
crisi profonda e in questo turbamento dello spirito e della fede, che
nello stesso tempo è rivolta dei sensi, "si risveglia la natura dei
Karamà-zov", Rakìtin si accorge subito di che si tratta. Nella sua
bassezza egli gode della caduta di un nobile spirito e getta olio sul
fuoco:
— Sai, — dice a un certo punto — il tuo viso si è
completamente alterato. Non c'è più nulla della tua famosa
102
dolcezza di prima. Ti sei adirato con qualcuno, che? Ti
hanno offeso?
— Lasciami, — disse a un tratto Aljòsa, continuando a
non guardarlo e facendo con la mano un gesto di stanchezza.
— Oh, come sei! Ti metti a strillare proprio come tutti
gli altri mortali. Tu, un angelo! Su via, Aljòsa, mi hai meravigliato, lo
sai? tè lo dico sinceramente. (I Fratelli Karamàzov, p. 373).
Queste parole rimettono l'impressione che Aljòsa
evidentemente fa su tutti... E possiamo aggiungere un passo singolare che
troviamo a questo punto nell'abbozzo del romanzo:
Non so proprio cosa mi succede e come io possa osare, ma
devo dire tutta la verità. Quale? Ebbene, questa — come gettandosi nel
vuoto. — Chiamate Dmìtrij, affinchè unisca le vostre mani — perché
voi amate soltanto lui e non fate che torturarlo.
Parole che vengono come dal centro profondo della visione
di Dostojevskij e ci dicono molto di più di altre sue osservazioni
marginali come egli abbia sentito l'anima di Aljòsa.
Ma la definizione più profonda è di Dmìtrij — e Ivàn
la fa sua — quand'egli chiama Aljòsa "cherubino".
È dono singolare di Dostojevskij saper tradurre in
evidenza e concretezza umana l'essere non umano, in modo che tuttavia
l'immagine del sovrumano appaia nella persona che davanti ai nostri occhi
vive e si muove, perfettamente reale. Così appare l'airuna2 in
Smerdjàkov (nei fratelli Karamazov), la mario-
2
Figura della mitologia germanica, corrispondente a un dipresso alla
mandragola (N. d. T.).
103
netta nel sogno di Raskòlnikov e ancora la marionetta in
Kirìllov (nei Demoni); il demone in Stavròghin e in Piotr
Vjerchovènskij, grande il primo, il secondo spregevole. Ma si direbbe
anche che Dostojevskij sia riuscito ad esprimere la natura angelica in una
figura umana e precisamente in quella di Aljòsa Karamàzov.
La grandezza di Aljòsa di cui si è parlato prima non è
soltanto una qualità umana; ivi si esprime anche qualcosa di sovrumano,
la natura angelica. A questo proposito bisogna osservare che solo a
partire della fine del Medioevo e soprattutto nell'epoca moderna l'angelo
vive nel sentimento dei più come una figura un po' .sentimentale, mezzo
femminile. Nell'Antico e nel Nuovo Testamento, invece, come pure nella
coscienza cristiana primitiva e dei primi tempi del Medioevo l'angelo è
un essere di straordinaria e quasi tremenda natura. Chi lo incontra rimane
atterrito e sempre il colloquio ha inizio con l'esortazione: "Non
temere", il che significa insieme che è data la forza per
sostenerlo... Proprio la figura di questo essere sovrumano traspare da
tutto il contegno di Aljòsa, più precisamente dal suo atteggiamento
verso la verità.
Ed è una figura d'angelo particolare, in cui la verità
è atto dell'esistere, che vive la santa verità: cioè il
cherubino.
Così in certi momenti dire la verità significa per
Aljòsa parlare come un messo di Dio. La verità prorompe allora da lui
quasi come in un'estasi. Egli sente di doverla dire, di essere illuminato
e incaricato di parlare.
Abbiamo già accennato a uno di questi episodi: la'
conversazione con Katjerìna Ivànonvna. Ma ancora
104
più memorabile è il colloquio tempestoso ch'egli ha con
Ivàn. Parlano del fratello Dmìtri], accusato di parricidio, e Aljòsa
dice:
...Non è lui che ha ucciso nostro padre, non è lui! Ivàn
Fjòdorovic si fermo di colpo.
— Allora chi è l'assassino, secondo voi? — domandò
con evidente freddezza, e nel tono della sua domanda risonò perfino un
accento di arroganza.
— Lo sai anche tu, — disse Aljòsa con voce sommessa e
penetrante.
— Chi? Alludi a quella favola del pazzo, dell'idiota epilettico?
A Smerdjàkov? Aljòsa improvvisamente si sentì tremare tutto.
— Lo sai anche tu chi è, — si lasciò
sfuggire, non potendone più. Egli ansava.
— Ma chi è, chi è? — gridò Ivàn già furioso.
Tutta la sua riservatezza era sparita in un momento.
— Io so una cosa sola, — continuò Aljòsa,
sussurrando, — non sei tu che hai ucciso il babbo.
— Non sei tu che hai ucciso il babbo, non sei tu!
— domandò Ivàn trasecolato.
— Non sei tu che hai ucciso il babbo, non sei tu! —
ripetè Aljòsa con, fermezza.
Seguì mezzo minuto di silenzio. ,
— Lo so bene che non sono io, deliri? — proferì
Ivàn, con un pallido e tortuoso sorriso. Pareva che il suo sguardo
si fosse conficcato in Aljòsa. Si trovavano di nuovo presso un
lampione.
— No, Ivàn, tu stesso ti sei detto parecchie volte che
l'assassino sei tu.
— Quando l'ho detto?... Io ero a Mosca... Quando l'ho
detto? — balbettò Ivàn completamente smarrito.
— Tè lo sei detto molte volte, quando rimanevi solo. in
questi due terribili mesi, — continuò Aljòsa, calmo e sicuro. Ma
parlava ormai come fuori di sé, come obbedendo a una volontà non sua, a
un irresistibile ordine superiore. — Ti accusavi e confessavi a tè
stesso che nessuno, all'infuori di tè, era assassino. Ma tu non l'hai
ucciso, t'inganni, non sei tu l'assassino, mi senti, non sei tu! Dio mi ha
mandato a dirtelo.
Tacquero tutt'e due. Questo silenzio si protrasse per
105
un intero lungo minuto. Erano fermi e si guardavano a
vicenda negli occhi...
— Fratello, — riprese Aljòsa con voce tremante, —
ti ho detto questo, perché so che tu crederai alla mia parola. Io tè
l'ho detta, questa parola, per tutta la vita: non sei tu! Senti,
per tutta la vita. Ed è Dio che mi ha suggerito di dirti questo, anche se
tu, a partire da questo momento, dovessi odiarmi per sempre... Ma Ivàn
Fjòdorovic evidentemente era già tornato del tutto in sé.
— Aleksjèj Fjòdorovic, — disse con un freddo
sorriso, dando per la prima volta del "voi" a suo fratello —
io non posso soffrire i profeti e gli epilettici, e soprattutto gli
inviati di Dio, voi lo sapete troppo bene. Da questo istante io la rompo
con voi e, credo, per sempre. Vi prego di lasciarmi immediatamente, a
questo crocicchio. Del resto, ecco il vicolo che mena a casa vostra.
Soprattutto, guardatevi bene dal venire da me oggi! Sentite? (I Fratelli
Karamàzov, pp. 647-48).
Questo dialogo ha bisogno di un breve commento. Esso
avviene la vigilia del processo che dovrà stabilire se Dmìtrij
Karamàzov sia o no colpevole della morte di suo padre. In realtà egli è
innocente e Aljòsa ne è persuaso. Egli è però altrettanto convinto
della colpevolezza del quarto dei fratelli Karamàzov, il sinistro
Smerdjàkov, che sotto certi aspetti non sembra nemmeno un essere umano.
Ivàn si ostina invece a credere che Dmìtrij abbia ucciso. Egli odia il
fratello, sia per il contrasto delle loro nature, sia e soprattutto
perché Katjerìna Ivànovna, che egli ama e che nel segreto del suo cuore
sa di appartenergli, vuoi convincere se stessa di amare invece Dmìtrij.
Nel colloquio memorabile in cui i fratelli "imparano a
cono-scersi", Ivàn ha aperto il suo cuore ad Aljòsa. Egli crede in
Dio, ha detto, ma non accetta il mondo da Lui creato perché vi regna
l'ingiustizia. Nella Leggenda del Grande Inquisitore ha poi raffigurato un
uomo che per correggere questo mondo sbagliato si
106
arroga il diritto di disporre del bene e del male e per
alleggerire gli uomini dal peso di ogni colpa tutte le assume su di sé3.
In seguito, perdurando la crisi, "lui". Satana, ha cominciato ad
apparirgli in certi strani momenti di esaltazione morbosa. Si è
presentato allora alla sua coscienza il problema del significato del male
nel mondo, sotto un aspetto ora serio ora di scherno, e lo ha avvolto tra
la coscienza e il delirio in un tessuto infernale di verità e di
menzogna. Tutto poi ha finito per confondersi nella sua mente ed ora Ivàn
si trova a questo punto: odia e disprezza suo padre e ne desidera la
morte. Nell'evolversi della situazione egli sente nascere un pericolo per
la vita del padre e nel suo smarrimento attende che esso si concreti, anzi
lo spera. In fondo a questi pensieri criminosi c'è però anche una
ragione più "elevata". Roso da un complesso di inferiorità,
Ivàn aspira nella sua coscienza tormentata ad un'esistenza di eccezione.
Questa consisterebbe nel porsi, come il Grande Inquisitore, al di sopra
del bene e del male e nell'ar-rogarsi il diritto di fare il male e,
dunque, anche di permetterlo. Smerdjàkov l'ha indovinato. Anche egli odia
l'uomo che gli ha dato la vita con un atto mostruoso, che l'ha privato
degli stessi diritti dei fratelli costringendolo a fare il cuoco, e ora lo
maltratta e schernisce come un servo. Egli si sente d'accordo con Ivàn,
crede di aver ricevuto da lui l'incarico di agire e interpreta in questo
senso, con pieno diritto, la partenza di Ivàn la vigilia della notte
fatale. È chiaro ora il senso del passo citato. Durante quelle visioni
febbrili, nella luce smorta in cui verità e inganno si confondono, il
pensiero di
3 Cfr.
il capitolo seguente.
107
Ivàn è sempre fisso sulla stessa domanda: È Satana
quello che io vedo o sono io allucinato? Se è vera la prima ipotesi è
l'orrore della vicinanza satanica contro la quale tutto in noi insorge
istintivamente... Ma se è vera la seconda, allora tutto ciò che la
visione rivela di malvagio e di terribile viene dal cuore stesso di Ivàn.
In questa tremenda alternativa risuona la voce di Aljòsa: "Non tu
hai ucciso il babbo!" Nella sua ' chiaroveggenza egli ha letto nel
cuore di Ivàn e le sue parole vogliono dire: "L'origine del delitto
non è in tè; non è in un atto della tua volontà sovrana. Tu non sei il
Grande Inquisitore, il bestemmiatore di Dio, che si è arrogato il diritto
di decidere del bene e del male ed ha permesso agli altri il delitto. Tu
non sei ciò che saresti in questo caso: Satana stesso. L'idea
dell'assassinio non l'hai concepita tu, quell'atto non l'hai voluto tu. È
stato Satana. Satana esiste. Ma non è tè, e perciò tu non sei lui. Tu
sei soltanto un uomo che egli ha tentato. Non sei, come credi, un essere
superiore, ma soltanto un povero uomo sedotto da Satana. Se tu fossi il
Grande Inquisitore, se fossi Satana, chiuso e indurito nel male, saresti
perduto e costretto a disperare. Ma sei soltanto sedotto, sei soltanto un
uomo ed hai aperta la via della salvezza perché puoi pentirti".
Straordinaria penetrazione psicologica! Aljòsa parla
"ormai fuor di sé, come obbedendo a una volontà non sua, a un
irresistibile ordine superiore":
Non sei tu l'assassino, mi senti, non sei tu! Dio mi ha
mandato a dirtelo.
E poi ancora:
Io tè l'ho detta questa parola, per tutta la vita: non
sei tu! Senti, per tutta la vita. Ed è Dio che mi ha sug-
108
gerito di dirti questo, anche se fu, a partire da questo
momento, dovessi odiarmi per sempre.
Odiare, perché? Perché non piuttosto ringraziarlo ed
amarlo? La risposta di Ivàn mostra con quanta precisione Aljòsa abbia
colto nel segno:
Aleksjèj Fjòdorovic, — disse con un freddo sorriso,
dando per la prima volta del « voi » a suo fratello, — io non posso
soffrire i profeti e gli epilettici, e soprattutto gli inviati di Dio, voi
lo sapete troppo bene. Da questo istante io la rompo con voi e, credo, per
sempre.
La parola di questo inviato, di questo
"cherubino", è proprio parola di Dio, verità che salva
purché si compia una conversione, cessi ogni resistenza a Dio e
l'orgoglio sia piegato. A cosa deve rinunciare Ivàn, se non all'orgoglio
del superuomo? Egli potrà salvarsi solo se vorrà essere un uomo come
tutti gli altri, rinunciando a porsi al di sopra del bene e del male e
sottomettendosi a questa distinzione in spirito di ubbidienza al volere
divino. Ma appena la parola di salute tocca questo punto dolente della
coscienza, questa insorge e lo stesso avviene qui. Si ostinerà, Ivàn per
arrendersi? Il romanzo non risponde a questo quesito ma la grave malattia
di Ivàn sembra indicare come probabile la prima ipotesi.
Da quanto si è detto sinora risalta con forte rilievo la
misione di verità di Aljòsa, l'immagine, dunque, del cherubino.
Nello stesso senso interpretiamo anche la grande visione
ch'egli ha dopo la morte dello stàrets.
Vinto dal dolore Aljòsa si è adormentato accanto alla
bara e ora sogna che lo stàrets entra nella stanza e gli parla.
Egli si sente chiamato alla promessa delle
109
"nozze eterne" di cui parla il vangelo delle
nozze di Cana che ora i sacerdoti leggono ad alta voce:
Sì, a lui, a lui si è avvicinato il vecchietto scarno,
con fitte rughe sul volto, gioioso e sorridente... Com'è possibile? È
dunque anche lui al festino, anche lui invitato alle nozze di Cana di
Galilea...
— Tu pure, caro, sei invitato e convitato, — risuona
su di lui una voce calma. — Perché ti sei nascosto qui, che non ti si
vede?... Vieni anche tu con noi.
È la sua voce, la voce dello stàrets Zòsima...
Lo stàrets ha dato la mano ad Aljòsa, questi si è alzato di
ginocchioni.
— Rallegriamoci, — continua il vecchietto scarno, —
beviamo il vino, nuovo, il vino della nuova e grande gioia;
vedi quanti ospiti? Ecco il fidanzato e la fidanzata, ecco
il sapiente Mastro di Tavola, che assaggia il vino nuovo... Vedi tu
il Sole nostro, lo vedi?
— Ho paura... Non oso guardare... — mormorò Aljòsa.
— Non aver paura di Lui. Egli è terribile per la Sua
maestà, ci sgomenta con la Sua altezza. Ma infinitamente misericordioso,
per amore si è fatto simile a noi e gioisce con noi, converte l'acqua in
vino perché non sia interrotta la gioia degli ospiti, ne attende di
nuovi, ne chiama sempre di nuovi, e già da secoli e secoli. Ecco che
portano anche il vino nuovo, vedi, portano i vasi...
Qualcosa ardeva nel cuore di Aljòsa, qualcosa l'aveva
colmato fino al dolore, lacrime di estasi gli erompevano dall'anima...
Egli distese le braccia, gettò un grido e si svegliò...
Di nuovo la bara, la finestra aperta e la quieta, solenne,
ritmica lettura del Vangelo. Ma Aljòsa ormai non ascoltava più quello
che si leggeva. Cosa strana, si era addormentato in ginocchio, e ora stava
in piedi, e tutt'a un tratto, come svellendosi dal suolo, si avvicinò con
tré passi rapidi e fermi fino a toccare la bara... Solo un momento prima
aveva sentito la sua voce, e quella voce gli risuonava ancora negli
orecchi. Egli stava ancora in ascolto, attendeva altri suoni... ma a un
tratto, voltatesi bruscamente, uscì dalla cella.
Non si fermò nemmeno sulla scaletta, ma scese abbasso
rapidamente. La sua anima piena di estasi aveva sete di libertà, di
spazio, d'immensità. Sopra di lui si aprì vasta,
110
a perdita d'occhio, la volta celeste, piena di placide
stelle scintillanti. Dallo zenit all'orizzonte si sdoppiava, ancora
indistinta, la Via Lattea. Una notte fresca e calma fino all'immobilità
avviluppava la terra. Le torri bianhce e le cupole dorate della cattedrale
brillavano sopra un cielo di zaffiro. I magnifici fiori autunnali delle
aiuole attorno alla casa si erano addormentati, in attesa del mattino. Il
silenzio della terra pareva fondersi con quello del cielo, il mistero
terrestre si congiungeva a quello stellare... Aijosa stava in piedi e
guardava, e a un tratto, come falciato, si prosternò sulla terra.
Non sapeva perché l'abbracciasse, non si dava ragione del
suo desiderio irresistibile di baciarla, di badarla tutta, ma la badava
piangendo, singhiozzando e bagnandola delle sue lacrime, e giurava, nella
sua esaltazione, di amarla in eterno. « Bagna la terra con le lacrime
della tua gioia e ama queste tue lacrime... », gli risonò nell'anima.
Per che cosa piangeva? Oh, egli piangeva nella sua estasi anche per quelle
stelle che gli mandavano la loro luce dall'abisso, e « non si vergognava
della sua esaltazione ». Si sarebbe detto che i fili di tutti quegli
innumerevoli mondi di Dio SÌ fossero congiunti insieme nella sua anima e
che essa fremesse tutta « al contatto degli altri mondi ». Avrebbe
voluto perdonar tutto a tutti e domandare perdono, oh! non per sé, ma per
tutti e per tutto, « per me lo domanderanno altri », tornò a risonare
nell'anima sua. Ma ad ogni istante sentiva in modo più chiaro e quasi
tangibile che qualcosa di saldo e d'incrollabile come quella volta celeste
gli scendeva nell'animo. Un'Idea pareva insignorirsi del suo spirito, e
ormai per tutta la vita e per l'eternità. Era caduto a terra debole
adolescente, ma si alzò lottatore temprato per tutta la vita, e subito lo
sentì e ne ebbe coscienza, in quello stesso momento della sua estasi. (I Fratelli
Karamàzov, pp. 394-96).
Questo "sentimento incrollabile come la volta del
cielo" è qualcosa che appartiene alla categoria della verità.
Questa realtà solidamente fondata e indistruttibile che s'inarca come una
volta e tutto abbraccia, questa eternità astrale, questa presenza di
un'evidenza assoluta è "la verità".
Ili
Dio è qui Colui che si manifesta nell'eletto con la
potenza della verità. Della verità che non solo è eterna e
incrollabile, luminosa e ardente, ma significa anche amore e rinuncia,
onde chi l'ha in sé non appare come un essere terribile e consumante, ma
è chiamato familiarmente "Al]òsa", "Aljòska",
vigile coscienza degli altri uomini, eppure amato da tutti.
Alla verità egli si è dunque consacrato ed il suo
maestro lo manda ad annunciarla nel mondo:
— Tu sei più necessario laggiù. Là non c'è pace.
Servirai e ti renderai utile. Se si levano i demoni, recita una preghiera.
E sappi, figliuolo (lo stàrets amava chiamarlo così), che d'ora
innanzi il tuo posto non è più qui. Ricordatene, ragazzo. Non appena Dio
si sarà degnato di chiamarmi a sé, lascia il monastero. Lascialo del
tutto.
Aljòsa ebbe un sussulto.
— Che hai? Il tuo posto per ora è qui. Ti benedico per
una grande obbedienza da compiere nel mondo. Avrai da pellegrinare a
lungo. E dovrai prender moglie, dovrai. Bisognerà che tu sopporti ogni
cosa, finché non tornerai. E ci sarà molto da fare . Ma non dubito di
tè, ed è per ciò che ti mando. Cristo è con tè. Custodiscilo ed egli
ti custodirà. Conoscerai un gran dolore e nel tuo dolore sarai felice.
Eccoti il mio testamento: nel dolore cerca la felicità. Lavora, lavora
senza posa. Ricorda fin da oggi questa mia parola, giacché, se anche
discorrerò ancora con tè, non solo i miei giorni, ma anche le mie ore
sono contate. (J Fratelli Karamàzov, pp. 84-85).
Questa è di tutte le missioni la più difficile, la più
insidiata.
La natura angelica presuppone difatti la possibilità di
una caduta, poiché solo chi sta in alto può "cadere". Ora qui
si tratta veramente di un'altezza e quest'altezza per giunta è sacra.
Anche Pintrepidità di cui si è parlato, il disinteresse,
la castità, la serenità di Aljòsa hanno la loro
112
origine qui. Esse sono espressione di una singolare
elevatezza e insieme della possibilità di una caduta precipitosa. Aljòsa
è un essere che non solo può declinare, ma anche cadere, precipitare.
Vi alludono alcuni passi molto significativi. Un giorno il
vecchio ubriaco Fjòdor chiede a suo figlio Ivàn:
— Dio c'è o non c'è? Ma sul serio! Adesso ho bisogno
di parlare sul serio.
— No, Dio non c'è.
— Aljòsa, c'è Dio?
— Dio c'è.
— Ivàn, e l'immortalità esiste? un'immortalità
qualunque, anche piccola, minuscola?
— Neanche l'immortalità.
— Di nessun genere?
— Di nessun genere.
— Vale a dire, un perfettissimo zero, il nulla. Ma ci
sarà forse qualche coserellina? Non sarebbe mai il nulla!
— Un perfettissimo zero.
— Aljòsa, esiste l'immortalità?
— Esiste.
— Dio e l'immortalità?
— E Dio e l'immortalità... (I Fratelli Karamàzov,
p. 150).
Così questa volta. Ma poco tempo dopo, in un'ora di
profondo sconforto, parlando con la piccola Lise, quella singolare
creatura, mezzo malata e mezzo corrotta, che si direbbe perfino della
natura degli elfi, Aljòsa dice:
— I miei fratelli si perdono, mio padre anche. E perdono
altri con sé. È la « forza dei Karamàzov », come si espresse l'altro
giorno padre Paìsio: una forza terrena, frenetica e bruta... Non so
nemmeno se al di sopra di questa forza aleggi lo spirito di Dio. So appena
che sono anch'io un Karamàzov... Sono un monaco, io, un monaco?
113
Sono un monaco. Lise? Avete detto un momento fa che io
sono un monaco?
— Sì, l'ho detto.
— E io, forse, non credo neanche in Dio!
— Voi non credete, che cosa dite? — proferì Lise con
voce sommessa e cauta. Ma Aljòsa non rispose. C'era in quelle sue parole
così improvvise qualcosa di troppo misterioso e di troppo soggettivo,
qualcosa forse che per lui stesso non era chiaro, ma che senza dubbio già
lo tormentava.
— Ed ecco, oltre a tutto il resto, che il mio amico se
ne va, il più grande fra gli uomini abbandona la terra. (I Fratelli
Karamàzov, p. 243).
Il senso di queste parole è chiaro. Aljòsa prevede la
tentazione, non quella di dubitare teoricamente di Dio ma di ribellarsi a
Lui.
E la tentazione viene davvero, potentemente descritta:
quando il miracolo che Aljòsa nella sua fede ancora imperfetta aveva
atteso per la glorificazione del maestro non si compie, e a lui,
profondamente depresso nello spirito e insieme esaurito nel corpo,
Rakìtin si avvicina nella veste del tentatore. Allora Aljòsa si mette
all'improvviso a parlare usando le espressioni di suo fratello Ivàn, il
"ribelle": pensa con i suoi pensieri, si trasforma in viso e
Dostojevskij usa a suo proposito dei termini che abitualmente quando si
tratta di lui non ricorrono:
— Così ora eccoti in collera e in rivolta contro il tuo
Dio: non ti hanno promosso? non ti han dato la medaglia per la festa? Eh,
voi!
Aljòsa guardò Rakìtin a lungo e con gli occhi
socchiusi, nei quali passò un lampo... ma non di stizza contro
Rakìtin.
— Io non mi rivolto contro il mio Dio, ma « non accetto
il Suo mondo », — disse a un tratto Aljòsa con un sorriso forzato4.
4 Vedi a questo proposito il capitolo seguente, pp.
117-172.
114
— Come, non accetti il mondo? — e Rakìtin riflette un
istante sulla sua risposta. — Che scempiaggine è questa? Aljòsa non
rispose.
— Su, lasciamo le bazzecole, veniamo al fatto: hai
mangiato oggi?
— Non ricordo... mi pare di sì.
— Tu hai bisogno di ristoro, a giudicare dalla tua
faccia. Fa pena guardarti. Stanotte, già, non hai dormito, ho sentito che
là avevate una riunione. E poi tutto questo trambusto... Avrai certamente
assaggiato soltanto un po' di pane benedetto. Io ho in tasca un
salsicciotto, l'ho preso poc'anzi a ogni buon fine in città, nel venir
qui, ma tu, già, non ne vorrai...
— Dammene.
— Eh, eh! Come sei diventato! È dunque una rivolta in
pieno, sono le barricate! Su via, fratello, non è cosa da pigliare alla
leggera. Vieni da me. Berrei anch'io volentieri della vodka, sono
stanco morto. Per la vodka Corse non ti decidi... o ne berrai?
— Dammi anche la vodka.
— Oh, oh! A meraviglia, fratello! — E Rakìtin lo
guardò trasecolato. — Comunque sia, vodka o salsicciotto, questa
è una occasione coi fiocchi e non si può lasciarla scappare, andiamo!
Aljòsa si alzò da terra in silenzio e seguì Rakìtin.
(I Fratelli Karamàzov, pp. 372-73).
Qui l'"angelo" sta veramente davanti a un
abisso... Ma si riprende. In casa di Grùscegka egli ritrova la via
segreta dell'amore e della verità. Eppure proprio in questo momento
avviene qualche cosa che somiglia davvero a una caduta: Aljòsa dimentica
la consegna del maestro di soccorrere Dmtrij nell'estremo pericolo:
— Se ti vedesse tuo fratello Vanicka, sì che
rimarrebbe stupito! A proposito, tuo fratello Ivàn Fjòdorovic è partito
stamane per Mosca, lo sai?
— Lo so, — disse Aljòsa con indifferenza, e subito
gli balenò alla mente l'iramagme del fratello Dmìtrrj, ma gli
115
balenò appena e, benché egli si ricordasse di un certo
affare urgente che ormai non si poteva più differire di un solo momento,
di un certo dovere, di un obbligo imperioso, anche questo ricordo non gli
fece nessuna impressione, non arrivò al suo cuore, e dileguò in quel
medesimo istante dalla sua memoria. Ma Aljòsa se ne rammentò poi per
lungo tempo. (I Fratelli Karamàzov, p. 373).
L'immagine del fratello affiora e scompare. Aljòsa non lo
salva. La via del delitto è libera. Sopraggiunge la catastrofe.
116
CAPITOLO QUINTO
I RIBELLI
La leggenda del Grande Inquisitore e il suo poeta Premessa
L'ultimo e maggior romanzo di Dostojevskij, I Fratelli
Karamàzov contiene la "Leggenda del Grande Inquisitore". Al
primo momento essa non sembra necessariamente legata col resto. Ma è
posta a un punto così importante del racconto che già questo fatto
ammonisce a esser prudenti nell'esprimere un giudizio. Tanto più se
badiamo alla particolare composizione delle opere di Dostojevskij. Quello
che ci colpisce nella vita Ulteriore dei suoi personaggi è il modo in cui
appare costruita la loro personalità. La personalità occidentale tende a
comporre in un chiaro equilibrio i propri singoli e ben caratterizzati
aspetti, coordinandoli l'uno all'altro, il che le permette di concentrare
la vita in un punto solo e determina il carattere, d'attività morale e
storico, del nostro esistere. Gli uomini di Dostojevskij, invece, hanno
una struttura diversa. Vorremmo paragonare l'unità della loro persona a
quella di un complesso geografico, ad un paese ove ci siano pianure e
montagne, fiumi e mari. Questa unità sembra risultare piuttosto da una
coesistenza di elementi diversi, che natural-
117
mente può diventare unità solo in quanto sia dominata da
qualcosa che funga da legame, a una atmosfera, da un tono, da un fluido. I
vari elementi particolari di essa sembrano compenetrarsi a vicenda.
Debbono quindi esser tali da rendere possibile questa compenetrazione,
ossia fluidi, aperti. Vien fatto di pensare alla differenza che osserviamo
nella pittura occidentale fra il modo di comporre di Rembrandt e quello,
ad esempio, dei maestri italiani del Rinascimento: in Rembrandt il centro
non si trova in alcun luogo perché è dappertutto, diffuso come la sua
luce. Così a formare un personaggio dostojevskiano possono concorrere
pensieri, tendenze e forze psichiche che certo infrangerebbero la
struttura dell'uomo occidentale. Ora la forma dei romanzi di Dostojevskij
sembra corrispondere alla struttura dei suoi personaggi. Molte prolissità
e incoerenze sono sicuramente dovute al suo modo affrettato, quasi
affannoso, di comporre, ma questo non ha fatto che accentuare una tendenza
già insita in lui. L'unità delle sue opere non è quella di un romanzo
francese e nemmeno di un romanzo tedesco.
Nel rispondere perciò al quesito se una parte, un
episodio, di un suo romanzo siano veramente essenziali all'economia
dell'opera occorre procedere con molto maggior cautela che non per
qualsiasi altro scrittore — ragione di più per considerare con
particolare attenzione la "Leggenda del Grande Inquisitore".
Vi è in realtà tra la leggenda e tutto il resto
dell'opera un legame molto stretto e l'abitudine di considerarla come
qualcosa di conchiuso in sé porta a fraintendere il significato, oltre
che l'intenzione
118
di chi l'ha scritta, e a distruggere l'unità poetica del
romanzo. Acquista essa allora il carattere penoso di un libello
demagogico. In realtà la figura del "Grande Inquisitore" può
esser capita soltanto in rapporto a tutto il libro del quale essa è
parte.
La leggenda
Ivàn, il primogenito di Ivàn Fjòdor Paviovic
Karamàzov e della sua seconda moglie toma a casa dall'università e vi
incontra il fratello minore Aljòsa. In mezzo al disordine materiale e
morale che regna nella casa paterna nasce tra i due fratelli una simpatia
profonda. S'incontrano un giorno in una trattoria, la conversazione
diventa tosto uno scambio d'opinioni e di idee e Ivàn espone al fratello
la sua concezione anarchica e pessimista del mondo. Aljòsa obietta che vi
è Uno in cui si risolve tutta l'assurdità della vita: Cristo. Ivàn
risponde col racconto di un "poema" intitolato "II Grande
Inquisitore".
L'incontro ha termine con un breve dialogo in cui si
preannuciano spiacevoli avvenimenti.
Il sunto della leggenda è questo:
Cristo è vissuto ed ha predicato il suo verbo, ma dopo la
morte le cose sulla terra si sono messe su una cattiva strada. Sono sorte
false dottrine, i vizi sono entrati nel mondo e gli uomini si sono fatti
reciprocamente tutto il male possibile. "Nella sua misericordia"
Cristo decide allora di tornare, almeno per breve tempo, tra il popolo,
tra il suo popolo "dolorante e sofferente", immerso nel pec-
119
cato, ma che Lo ama come un fanciullo". E decide di
andare « in Spagna, a Siviglia, al tempo della terribile inquisizione,
quando ogni giorno ardevano al cielo i roghi per la gloria di Dio ».
Cristo si reca dunque laggiù e tutti Lo riconoscono.
Egli passa in mezzo a loro silenzioso, con un dolce
sorriso d'infinita compassione. Il sole dell'amore arde nel Suo cuore, i
raggi della Luce, del Sapere e della Forza si sprigionano dai Suoi occhi
e, mondando gli uomini, ne fanno tremare i cuori in una rispondenza
d'amore. Egli tende loro le braccia, li benedice e dal contatto di Lui, e
perfino dalle Sue vesti, emana una forza salutare.
Dappertutto si risveglia la fede ed egli compie grandi
miracoli. Ed ecco, nel momento in cui uno di questi miracoli avviene,
passa •-
accanto alla cattedrale, sulla piazza, il cardinale grande
inquisitore in persona. È un vecchio quasi novantenne, alto e diritto,
dal viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei quali, come una scintilla
di fuoco, splende ancora una luce... Aggrotta le sue folte sopracciglia
bianche e il suo sguardo brilla di una luce sinistra. Egli allunga un dito
e ordina alle sue guardie di afferrarlo. E tanta è la sua forza e a tal
punto il popolo è docile e sottomesso e pavidamente ubbidiente, che la
folla subito si apre davanti alle guardie e queste, in mezzo al silenzio
di tomba che si è tatto di colpo, mettono le mani su Lui e lo conducono
via.
Cristo è dunque in carcere. Si fa notte. Ed ecco giunge
il Grande Inquisitore ed ha con lui uno strano colloquio:
« Sei Tu, sei Tu? » — Ma non ricevendo risposta,
aggiunge rapidamente: — «Non rispondere, tari. E che
120
potresti dire? So troppo bene quel che puoi dire: Del
resto, non hai il diritto di aggiunger nulla a quello che Tu già dicesti
una volta. Perché sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a
disturbarci, lo sai anche Tu. Ma sai che cosa succederà domani?... Domani
stesso io Ti condannerò e Ti farò ardere sul rogo, come il peggiore
degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi si
slancerà domani, a un mio cenno, ad attizzare il Tuo rogo, lo sai? Sì,
forse Tu lo sai », aggiunse profondamente pensoso, senza staccare per un
attimo lo sguardo dal suo Prigioniero. (I Fratelli Karamàwv, pp.
175-76).
Ma Cristo non dice nulla. È lì semplicemente. Guarda il
cardinale e questi parla ininterrottamente.
Il sunto del lungo e febbrile discorso in poche parole è
questo:
Cristo è venuto per dare agli uomini la piena libertà e
la responsabilità assoluta delle loro azioni, ad annunciare ed esigere
una vita di santità, opera dello spirito e dell'amore. Ed è stato
compreso. Degli uomini sono andati nel deserto ed hanno tutto sacriEcato
per essere inclusi "nella schiera degli eletti". Ma poco alla
volta ci si è accorti che questo può toccare in sorte solo a pochissimi.
La maggior parte non può sostenere il peso di tanta responsabilità e
libertà, vivere nella spiritualità pura. E si è cercato un compromesso.
Si è escluso dal cristianesimo tutto ciò che è superiore alle forze dei
più e lo si è adattato alle loro possibilità e ai loro desideri. Al
posto della libertà hanno dunque messo l'"autorità", al posto
dello spirito il "miracolo", al posto della verità il
"mistero", ossia la magia. Ora il popolo vive contento. Il
messaggio di Cristo è andato perduto. Il popolo si è trasformato
irrimediabilmente in massa. Ma in compenso ha il pane, i piaceri dei
sensi, la sicurezza e si sente felice.
121
Chi ha fatto questo?
Uomini che dapprima hanno cercato di percorrere la via
della elezione, la via "dei solitari e delle vergini immacolate"
— la risposta alla domanda, che cosa sarebbe stato degli altri, era
probabilmente lasciata alla misericordia divina — ma che poi un giorno
si sono turbati e non hanno più potuto sopportare un mondo fatto com'era
fatto il loro, un'esistenza cristiana troppo esigente per i più,
che finiscono col disperare, e dove i pochi, nonostante i loro sforzi,
forse falliscono ugualmente; dove la sofferenza non diminuisce, anzi non
ha più fine. C'è qualcosa che non va, hanno pensato, e sono giunti così
alla convinzione che "l'opera di Cristo debba essere corretta".
Essi hanno riconosciuto che gli uomini vanno trattati come
massa e non possono aspirare se non a una felicità mediocre. Ma in questo
caso bisognava escludere dal cristianesimo quello che propriamente è di
Cristo e commettere così il peccato più orribile. Quegli uomini hanno
assunto la responsabilità di questo delitto e si sono consacrati a Satana
per assicurare ai molti la loro parte di felicità. Nel fa? questo essi si
sono però anche resi conto del loro immenso potere. Si sono levati contro
Dio. Si sono eretti giudici di Cristo. Hanno preso personalmente in mano
la salute degli uomini. Ora sono i padroni del mondo. Rappresenta questo
nuovo ordine d'idee la Chiesa romana, in particolare la sua gerarchla,
soprattutto però l'espressione più cosciente del suo spirito: l'ordine
dei Gesuiti.
La Chiesa ha messo mano su Cristo. Ora egli non può
rivolgersi liberamente agli uomini. Egli deve restare con ciò che è più
suo nei limiti e nelle
122
forme che la gerarchla gli impone. La sua parola è ora
fissata, inquadrata, elaborata. Ma per questo appunto egli appartiene ora
al passato. Nello stesso istante in cui volesse manifestarsi
spontaneamente agli uomini nella sua realtà presente, in atto, egli
distruggerebbe l'ordine stabilito. Metterebbe a repentaglio la salute
degli uomini, alla quale la gerarchla ha provveduto una volta per sempre.
Sarebbe l'eretico per eccellenza. Ora, poiché egli torna davvero, non
chiamato, di propria iniziativa, è naturale che il Grande Inquisitore gli
annunci per il giorno seguente la morte degli eretici. Il poema finisce
poi così:
L'Inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta 'per qualche
tempo che il suo Prigioniero gli risponda. Il suo silenzio gli pesa. Ha
visto che il Prigioniero l'ha sempre ascoltato, fissandolo negli occhi col
Suo sguardo calmo e penetrante e non volendo evidentemente obiettar nulla.
Il vecchio vorrebbe che dicesse qualcosa, sia pure di amaro, di terribile.
Ma egli tutt'a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bada
sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio
sussulta. Gli angoli delle labbra hanno avuto un fremito; egli va verso la
porta, la spalanca e Gli dice: « Vattene e non venir più... non venire
mai più... mai più! ». E Lo lascia andare per le vie oscure della
città. Il Prigioniero si allontana.
— E il vecchio?
— Il bacio gli arde nel cuore, ma il vecchio persiste
nella sua idea.
Il piano dell ' interpretazi o ne
Che cosa significa questa leggenda? La prima
interpretazione plausibile è quella accolta dalla maggior parte dei
commentatori: Dosto-
125
jevskij difenderebbe qui la causa di Cristo contro il suo
peggiore avversario, e quest'avversario non sarebbe semplicemente
l'incredulità, ma Vecclesiali-smo, ossia la trasformazione del
vivo rapporto tra l'uomo e Dio in un sistema di garanzie di salvezza, di
formule e di pratiche. Qui l'essenza del cristianesimo, la grazia,
verrebbe sostituita da una tecnica di dominio sulle persone e sulle anime,
dietro la quale si nasconderebbe, ancor più terribile, la volontà
demoniaca di por le mani su Dio stesso. Tutto questo sarebbe opera ed
espressione della Chiesa cattolica: a questa si contrapporrebbe la
religione della libertà, dello spirito, dell'amore, della viva pienezza
cristiana del cuore.
A chi ama la Chiesa anche le deche e ingiuste deformazioni
dell'autore del poema non impediranno di riconoscere anche troppo
precisamente quanta parte di dolorosa verità possa esservi in queste
accuse. Soltanto, queste cose sono già state rilevate da altri, meglio di
quanto non avvenga nei Fratelli Karamàzov l. Ci
sentiremmo perciò molto delusi, se la "leggenda" rappresentasse
soltanto una prosecuzione dell'antica lotta tra Roma e Bisanzio. Diciamo
1
"Anzitutto dal grande amico di Dostojevskij, Vladimir Solov'ev, col
quale egli verso la fine della vita — Solov'ev era ancora giovanissimo
— visse sei mesi nel famoso convento di Optina Pustin, vicino a Mosca,
per studiarvi il monachesimo russo. Frutto di questi studi fu la figura
dello stàrets nei Karamàzov. Aliòsa è probabilmente il
giovane Solov'ev medesimo. Questi si convertì poi al cattolicesimo senza
perdere per questo lo spirito di penetrazione e la ricchezza di pensiero
proprio al cristianesimo orientale. Potè dunque fare anch'egli la sua
critica del cattolicesimo dal punto di vista dell'Oriente e la fece con
ben altra competenza di Dostojevskij. Vedi a questo proposito il volume Manarchia
Sancii Petri e La Russie et l'Église universelle.
124
Roma e Bisanzio perché — e questo va detto subito —
sarebbe già partito preso indicare negli avversati di questa lotta
"la Chiesa orientale" e "Roma". Semmai diciamo
onestamente "Bisanzio" e "Roma", e chi conosce un po'
del passato sa anche come terribilmente la "storia" pesi su
questi due nomi.
Tuttavia noi abbiamo un'opinione troppo alta di
Dostojevskij per credere che questo straordinario psicologo abbia potuto
offrirci, anche se fosse stata la sua intenzione, nient'altro che un brano
polemico. Se poi l'avesse voluto, ci appelleremmo dal polemista al
creatore, persuasi che sotto il contrasto delle idee si celino strati più
profondi dell'essere e agiscano forze più profonde dell'istinto,
dell'anima e del sentimento religioso. E rivendicheremmo il diritto di
interpretare Dostojevskij non ostante Dostojevskij. Poiché le creazioni
di un grande scrittore non gli ubbidiscono, ma seguono le proprie leggi e
sono più profonde di lui.
Liberandoci dunque dalla visione convenzionale ed
esaminando più attentamente la "leggenda" nel suo rapporto col
romanzo ci accorgeremo presto che la critica di "Roma" non può
costituire il tratto essenziale nella figura del Grande Inquisitore e che
interpretare la leggenda in questo senso non è un buon servizio reso a
Dostojevskij. La critica è stata infatti non solo il suo lato più debole
ma anche quello meno nobile. Egli ha avuto tré awersari, forse quattro:
il socialismo, la civiltà razionalista e idealista d'Occidente, la Chiesa
Cattolica e ... i Tedeschi. Ma dobbiamo subito rettificare: non
"avversali" bensì "nemici": poiché nessuno di essi
egli ha affrontato in campo aperto. Egli non ha com-
125
battuto contro di essi ma ha preferito denigrarli. Forse
che il socialismo si identifica col torbido e corrotto mondo dei Demoni?
E la ragione e la tecnica dell'Occidente si riducono semplicemente a un
materialismo diabolico come egli ama farcele apparire in tutta la sua
opera, pur che si pensi per esempio alle Memorie del sottosuolo?
Quanto alla Chiesa cattolica, nemmeno un nemico acconsentirebbe a
riconoscerla nella caricatura sacrilega del Grande Inquisitore. Finalmente
il Tedesco di Dostojevskij è una così sgradevole figura di uomo pedante
e limitato, privo di doti, freddo, volgare e ridicolo e questi tratti
appaiono così insistentemente e sono disegnati con tanta voluta e precisa
raffinatezza che par di toccare col dito una invicibile avversione quasi
fisica... Dostojevskij non era abbastanza forte per avere degli avversar!
e perciò li ha resi spregevoli. Un'analisi attenta potrebbe mettere a
nudo alcune radici di questo odio. Essa condurrebbe nel vero intimo di
Dostojevskij, oppresso da tante inversioni e rimozioni.
Il "Grande Inquisitore" è certamente un attacco
a Roma; vi troviamo pensieri e sentimenti che Dostojevskij manifesta anche
in altre sue opere quando si parla di cattolicesimo o quando appare la
figura di un cristiano cattolico. Solo, il significato della leggenda è
altrove e si rivela soltanto quando si consideri l'economia complessiva
del romanzo.
In realtà la leggenda è in relazione alla visione che
Ivàn ha del diavolo e ai suoi discorsi sul mondo e su Dio. Vista in
questo insieme e proprio in quanto Ivàn se ne va per giustificarsi, essa
è la rivelazione della sua anima e della sua particolare esperienza
religiosa.
126
Il cristianesimo della leggenda
Di fronte alla figura del Signore nella leggenda — il
lettore permetta che io inizi la mia analisi con un'impressione personale
— mi sono sentito pervadere da principio da un grande, intimo fervore
cristiano. Poi questo sentimento cominciò a sembrarmi dubbio: dove mi
portava esso realmente? Decisi così di accogliere l'obiezione che sentivo
sorgere in me e di porre la domanda apparentemente paradossale: di fronte
a questo Cristo non ha ragione in ultima analisi il Grande Inquisitore?
Questo Cristo non è in fondo un "eretico"? E mentre cercavo di
rendermi ragione di un'impressione che andava facendosi sempre più
precisa e insistente mi fu chiaro ad un tratto che in questa figura
l'elemento cristiano è staccato dai piani e dagli ordini ai quali è per
essenza riferito.
In questa figura di Cristo il fatto cristiano è sentito
come un'esigenza di responsabilità totale e, insieme, come qualcosa di
assolutamente fuor del comune. Questo cristianesimo non ha rapporti con la
zona intermedia ove pur vive l'uomo e si svolge la sua esistenza
quotidiana. Non che si voglia fare certo — lungi 'di voi —
un'apologià della mediocrità. Come potremmo amare Dostojevskij e
dimenticare che l'esistenza umana partecipa delle altezze e delle
profondità e che perciò la sua regione intermedia ne è, nello stesso
tempo, determinata e minacciata? Ma altezza e profondità pura sono
va-lori-limite, e vita non può esservi senza quella sfera mediana dove
tuttavia si è continuamente sollecitati a decidersi per l'una o per
l'altra. Una vita priva di questa zona intermedia diventa irreale poi-
127
che qui è il luogo dell'attuazione pratica, qui il
campo e l'officina dell'esistenza. Quelle decisioni alle quali siamo
sollecitati debbono tradursi qui in realtà effettiva, al fine di
mostrarsi valide.
Essa è dunque la sfera dell'attuazione in senso stretto
dove ha il suo fondamento tutto ciò che noi chiamiamo possibilità,
misura, disciplina, ordine, salute, stabilità, tradizione — valori
decisivi, che possono sembrare propri di una concezione severa e talvolta
angusta della vita ma pure sono il fondamento della serietà
dell'esistenza, di tutto dò che intendiamo per "carattere".
Forse l'obiezione più forte che si possa muovere al quadro che
Do-stojevskij ci da dell'esistenza umana è che vi manca appunto quella
zona di mezzo. Per accorgersene basta osservare come i personaggi dei suoi
romanzi tutto facciano tranne una sola cosa: lavorare. Il
"lavoro" per noi significa in questo caso tutta l'esistenza
quotidiana con le sue tribolazioni, la sua responsabilità e la sua
dignità.
Questa sfera di mezzo comprende anche la realtà storica,
come luogo dove non solo si affrontano rischi e sofferenze ma si pongono
anche le basi di un'esistenza umana durevole. Qui le idee si con-vertono
in forze, gli impulsi in istituzioni, le convinzioni in ordinamenti e
leggi. Qui la responsabilità è guida alle azioni, se ne accettano le
conseguenze e la realtà è virilmente affrontata.
Così questo ambito costituisce anche un aspetto
fondamentale del fatto cristiano come realtà storica: la Chiesa. Essa è
per natura Chiesa di tutti, non solo degli eletti, Chiesa dell'esistenza
quotidiana, non soltanto delle ore eroiche. Anch'essa, come l'uomo, è
ordinata, a partire da una zona
128
mediana, sia all'altezza che alla profondità, ed è
perciò espressione non soltanto di due ambiti limite ma anche ed
essenzialmente delle possibilità medie dell'elemento cristiano.
Il cristianesimo della leggenda, invece, non ha alcun
rapporto con questa sfera mediana, e questo lo rende irreale.
Nello stesso tempo e per la stessa ragione s'introduce qui
una forma di ribellione molto sottile che consiste nell'ammettere solo un
cristianesimo "puro". Identificare, infatti, il
"fatto" cristiano con l'ideale cristiano, respingere le
gradazioni, le approssimazioni, il "meglio", significa in fondo
ribellarsi a Dio, che è il Dio dell'amore e dell'umiltà, ossia, in
questo caso, della realtà.
Di qui possiamo spingere lo sguardo più in fondo. Basta
aprirsi un poco allo stesso spirito e alla figura di Cristo come egli
appare e parla a noi nel Nuovo Testamento per accorgersi com'egli sia
ordinato a un determinato piano: quello della creazione. In quanto opera
di Dio essa è detta buona;
egli la giudica e la condanna soltanto nel suo peccato,
come corruzione della realtà originaria. E l'invito alla penitenza è
precisamente esortazione a trasformare il mondo reale. La creazione rimane
il piano di riferimento della rivelazione — come non può essere
diversamente se è vero che il mondo è stato creato dal Logos e
proprio questo Logos si è fatto uomo per riscattarlo.
Il mondo non può certamente esser considerato
esclusivamente per se stesso. Esso ha un valore solo in quanto Dio l'ha
creato per i propri fini e perciò esso si trova veramente compiuto
solo nella
129
Sua grazia. Ma in questo senso esso è davvero qualcosa e
qualcosa che ha un significato. Neppure dopo il peccato il mondo ha
cessato di essere creatura di Dio. Non è divenuto il nulla, un non-senso,
e nemmeno il "peccato" in se stesso. Così parla non la società
cristiana, ma solo una tormentata coscienza nordica. Ma secondo una
concezione cristiana dei valori, la creazione è sì
"giudicata", ma non respinta. Essa non è il nulla e nemmeno
semplicemente il male, col quale ciò che viene da Dio non potrebbe esser
posto che in un rapporto paradossale. Sebbene corrotto, il mondo rimane
opera Sua, causa e fine della redenzione. Tutti i valori cristiani debbono
esser compresi in rapporto alla creazione. Essi ci esortano alla vita
della "nuova creatura", ma presuppongono come punto di partenza
la vecchia creazione, così come l'origine divina di questa è il piano di
riferimento mai abbandonato della nuova.
Perciò l'ubbidienza di Cristo al Padre non è tanto di
chi si lascia sacrificare per un mondo scivolato nell'assurdo ma piuttosto
l'ubbidienza glorificante dei Verbo incarnato che ha assunto nel corpo e
nell'anima il vecchio mondo del Padre e lo inserisce nella nuova
creazione.
Il Cristo del Grande Inquisitore, invece, non ha questo
rapporto col mondo. Non sta in alcun rapporto essenziale al Padre
Creatore. Non può farci credere di essere il Verbo in cui il mondo è
stato creato e la cui incarnazione dovrà ora rigenerarlo trasformandolo.
Questo Cristo non sta col mondo reale in quel santo rapporto d'amore che
lo purifica e lo rinnova; la sua è soltanto compassione che invita a
uscire dal mondo.
130
È un Cristo distaccato. Un Cristo che esiste solo per
sé. Egli non viene al mondo dal Padre e non va dal mondo al Padre. Non
ama il mondo così com'esso è fatto e non lo riconduce veramente "a
casa". Non è inviato e non è redentore. Non è mediatore fra il
vero Padre celeste e il vero uomo. Quale sia il suo vero posto in realtà
non si vede. Egli ci scuote, ma per lasciarci nell'incertezza della sua
provenienza e della sua mèta. Il turbamento che suscita in noi ci rende
perplessi e toglie in ultimo ogni speranza.
Abbiamo forse esagerato? Si legga allora il Nuovo
Testamento e poi il "poema" e ci si affidi all'impressione che
lascia in noi quella figura, si cerchi di entrare nel campo della
sua irradiazione...
Ma poi: a chi dobbiamo del resto questo poema su Cristo? a
un uomo che personalmente non crede affatto nel Redentore e prescrive come
norma all'umile credente il prodotto intellettualistico della sua
incredulità. A uno che forse non crede neppure in Dio, o meglio, come
dice egli stesso, crede in Dio ma "non accetta la Sua creazione"
— situazione oscura e tormentosa, intessuta di contraddizioni,
conseguenza di una negazione più dissolvente della semplice negazione di
Dio. A un uomo, finalmente, a cui Satana può apparire e mostrarsi
perfettamente d'accordo con lui.
La leggenda non è certo il grido appassionato e sincero
di un uomo che aneli al cristianesimo puro e nemmeno l'espressione teorica
di tale cristianesimo, ma è la risposta di Ivàn ad Aljòsa, il quale
alla filosofia anarchico-pessimistica del fratello aveva contrapposto la
figura del Redentore. L'intenzione pale-
131
se di Ivàn è di giustificare la propria concezione del
mondo a se stesso.
Qual è dunque la "correzione" che il Grande
In-quisitore vuole introdurre nel messaggio del Cristo del poema? Questa:
egli fa valere l'uomo della realtà, con i suoi limiti e le sue debolezze,
l'uomo della mediocrità insomma. Ma tutto questo è posto poi come
assoluto e in tal caso profondamente falsato. In luogo del giusto mezzo
cristiano, ne vediamo la caricatura insieme banale e diabolica e al
termine di questo processo appare la maschera terrificante dell'uomo della
massa. Questa è certamente opera anticristiana, satanica. Ma Satana non
può falsare nulla che non sia, almeno in origine, vero, in questo caso
proprio l'elemento che manca al cristianesimo della leggenda. Esso è
irreale e irreale è l'uomo a cui si rivolge. Il Grande Inquisitore,
dunque, ristabilisce il diseredato nei suoi diritti. Riconosce che l'uomo
è quello che è e gli da un segno d'amore affermando che l'esigenza
cristiana deve partire da quello che l'uomo è, non da ciò che dovrebbe
essere. Egli ha pazienza. Conosce il significato dell'ubbidienza, il
valore costruttivo dei fattori dell'ordine e della realtà. E solo perché
sa intervenire con tanta efficacia in aiuto di un'umanità misconosciuta,
riesce poi a corromperla così profondamente e a farne il sistema
demoniaco del suo mondo.
Tornando ora a Ivàn, che cosa può spingerlo a darci una
simile immagine del Cristo? Questo, che egli pure si trova in un falso
rapporto col mondo.
Lo tormenta una profonda ma negativa compassione della
miseria umana. Essa è tutta istintiva,
132
non purificata e mossa da un principio etico. E non vi
può esser dubbio sulla natura di questa compassione appena si ascolti
Ivàn parlare della sofferenza dei bambini, del ragazzo fatto sbranare dai
cani sotto gli occhi della madre, della bambina seviziata dai genitori
sadici. Mi si perdoni se parlo chiaro, ma la "leggenda" affonda
le sue radia proprio qui. Leggiamo ad esempio la descrizione dei Turchi
che accarezzano il bimbo in braccio alla mamma per indurlo a sorridere e a
questo punto gli sfracellano la testolina con un colpo di pistola. Egli si
affretta poi ad aggiungere che i Turchi "amano molto i dolci".
Compassione, dunque, istintiva e per di più morbosa. Di qui anche la
fremente attrazione affascinata con cui guarda alle sofferenze del mondo,
il tormento cui non sa rinunciare, a immergersi sempre di nuovo.
Sentiamo poi Ivàn dichiarare che questo mondo è assurdo.
Egli riconosce bensì che Dio è ed ha creato il mondo, ma non riconosce
l'opera di Dio perché ad essa non si può applicare il metro della
ragione, della giustiza, del cuore. Alle sue origini è l'assurdo, lo
spirito "anti-euclideo". Un ritomo al razionalismo, dunque, un
invito all'ordine borghese? Vedremo subito che si tratta di tutt'altro.
Quello che Ivàn decisamente rifiuta è di appellarsi da questo disordine
all'eternità, al mistero della superiore sapienza di Dio e del Suo amore.
Egli vuole che giustizia sia subito qui, sulla terra. E temendo che le
schiere dei risorti in comunione d'amore e gli osanna dei cori beati gli
impediscano la protesta, la eleva ora, una volta per sempre:
"restituisce il biglietto d'ingresso", il che
significa non riconoscere la realtà come mistero di Dio,
133
rifiutarsi anche di accettarla così com'essa è, ossia
nell'ubbidienza e nella pazienza.
Ma questa sofferenza, che non dovrebbe essere, l'elemento
"antieuclideo", sono oggetto di così appassionato studio da
parte di Ivàn che subito ci è chiaro che egli li ricerca proprio per se
stessi. Se con tanto impeto egli respinge questo mondo è proprio perché
nella sua sensibilità malata egli ama il male, a motivo del quale egli
ripudia la creazione... E poiché egli ama il mondo così, non ostante la
sua protesta amara non può staccarlo da sé, ma deve in certo qual modo
restargli fedele, quantunque in una forma illegittima, poiché esso è
male, ossia "nella rivolta ".
Il Grande Inquisitore è Ivàn stesso in quanto si rifiuta
di riconoscere questo mondo e vuoi strapparlo dalle mani di Dio per dargli
un ordine diverso e migliore... È ancora Ivàn che ama questo stesso
mondo con tutto lo spasimo dei suoi nervi malati e non lo vorrebbe diverso
da quello che è perché solo così esso gli può dare ciò che egli
cerca;
che perciò vuoi mantenerlo nel suo stato attuale per
potere protestare e godere tuttavia di esso anche nella protesta.
Ivàn ripudia la creazione di Dio perché l'ama di un
amore perverso... Ma a guardar bene la respinge come opera di Dio per
staccarla dal suo creatore e sentirla così tutta sua nella ribellione,
nel fascino singolare di un possesso usurpato. Forse che Satana gli appare
per caso? È forse soltanto casuale la non ben definibile ma profonda e
trista amicizia che lo lega ad Elisa Chochlakòv, la fanciulla strana. e
perversa nella cui vita è già apparso l'elemento diabolico?
134
Ma che c'entra, si dirà, tutto questo con la figura del
Cristo della leggenda? C'entra, e moltissimo, perché questo Cristo da
ragione a Ivàn. Egli legittima qui la sua rivolta perché egli stesso non
conosce la vera ubbidienza alla realtà del mondo e al Padre che questo
mondo ha creato... D'altra parte, a questo stesso mondo che l'istinto
perverso di Ivàn segretamente vorrebbe immutato, questo Cristo col suo «
cristianesimo » così radicale può dir ben poco, estraneo com'egli è a
tutto ciò che vi si compie nell'obbedienza quotidiana e assente, dunque,
anche dalla « Chiesa », anzi in opposizione ad essa. Egli rende
impossibile la trasformazione del mondo reale in senso cristiano e lo
abbandona così all'usurpazione — all'usurpazione di Ivàn.
Anche il Cristo della leggenda è una giustificazione che
Ivàn da di se stesso; nello stesso tempo rappresenta un tentativo
nascosto di neutralizzare il cristianesimo, assumendolo nella sua
"purezza" assoluta, staccato dal dato reale.
Occorre tuttavia aggiungere un'osservazione. Questo mondo
che Ivàn ripudia è anche il mondo in cui vive suo padre, ed è fatto in
modo che questi possa trovarvi protezione e considerazione, disporre a suo
piacere del denaro ed avere Grùscegka per sé. Ora il Cristo di Ivàn che
ignora il Padre nei cieli, poiché egli stesso non ha alcun riferimento
col mondo reale, è anche la suprema idealizzazione della volontà
parricida di Ivàn2.
Pensiamo a due parole terribili: quella che Ivàn
2
Queste righe sono state scritte prima ch'io avessi preso conoscenza del
saggio di S. freud: Dosfojevskij e il parricidio nel primo abbozzo dei
Fratelli Karamàmv e mi fossi posto la domanda se sia lento
interpretare un testo in questo senso.
135
grida nella sala, nel momento culminate del processo:
"Chi non desidera la morte di suo padre?", la altra che
singolarmente la previene, sulle labbra della piccola Lisa:
"Ascoltate, vostro fratello ora è processato per avere ucciso il
padre, e tutti hanno piacere che egli l'abbia fatto".
Ivàn Karamàzov
Chi è l'uomo singolare, del cui mondo ulteriore questo
poema è l'espressione insieme perturbante e rivelatrice?
Ivàn è il figlio primogenito del vecchio usuraio Fjòdor
Karamàzov e della sua seconda moglie Sò-fja Ivànovna.
Occorrerebbe parlare più diffusamente di quanto non sia
possibile qui di questi genitori e della eredità che essi hanno trasmessa
al figlio. Ci limiteremo ai dati essenziali: il padre, che vive da
principio come un parassita nelle case dei ricchi, per soffocare il senso
di umiliazione che lo rode intimamente fa il buffone con una frenesia che
rasenta talvolta il deHrio. Col passar degli anni diventa un uomo
irrimediabilmente abbietto; arraffa denaro senza scrupoli, manifesta una
sensualità bestiale, che s'appaga di tutto ciò che comunque si chiami
donna e cui non mancano d'altra parte aspetti di una ripugnante
raffinatezza. Ha tuttavia dell'ingegno e dice cose talvolta anche
profonde, come sovente accade che certe grandi verità siano messe da
Dostojevskij in bocca a personaggi che contrastano stranamente con le loro
parole. La bassezza dell'uomo si rivela poi in tutta la sua mostruosità
quand'egli "per scherzo",
136
per far colpo sui commensali ubriachi, abusa nel sonno di
Lisavèta Smerdjàsaja, la povera demente. Essa da poi alla luce il quarto
dei "fratelli", il sinistro Smerdjàkov, che in seguito
scatenerà la catastrofe.
Ancora più intollerabile nella sua intenzionalità
raffinata è il modo in cui egli provoca nella seconda moglie Sòrja —
della schiera delle "soavi" e "silenziose" figure
femminili di Dostojevskij — le crisi isteriche causate da una disonorata
vita coniugale e ne gode. Di questi genitori è dunque figlio Ivàn.
Di lui è scritto:
Del maggiore, di Ivàn dirò appena che si fece un
adolescente cupo e chiuso in sé, tutt'altro che timido, ma come
penetrato, fin dai dieci anni, della consapevolezza... che il padre loro
era uno così e così, di cui c'era da vergognarsi anche a parlarne.
Questo ragazzo cominciò assai presto, quasi fin dall'infanzia (a quanto
si diceva, almeno), a manifestare certe inconsuete e spiccate attitudini
allo studio.
Quando entra nell'università non fa neppure il tentativo
di mettersi in corrispondenza col padre per ottenerne l'aiuto,
forse per orgoglio, per disprezzo verso di luì, ma
fors'anche per un freddo e assennato ragionamento, il quale gli suggeriva
che dal babbo non avrebbe mai ricevuto un appoggio di qualche cotno.
Comunque fosse, il giovane non si perdette punto e si procurò del lavoro,
prima con lezioni da due grivny l'una, poi correndo per le
redazioni dei giornali e fornendo articoletti di dieci righe sui fatti di
cronaca, firmati « II teste oculare ». Dicono che questi articoletti
fossero sempre scrìtti in modo così curioso ed arguto che presto ebbero
voga.
137
Ma quello che segue ci interessa in modo particolare:
Ivàn Fjòdorovic pubblicò improvvisamente in un grande
giornale uno strano articolo, che richiamò l'attenzione anche dei non
specialisti, e, quel che più conta, su un argomento che, in apparenza,
gli era affatto sconosciuto, dato che egli aveva terminato i corsi di
storia naturale. L'articolo era stato scritto sulla questione, allora
dappertutto dibattuta, dei tribunali ecclesiastici. Esaminando alcune
opinioni già enunziate su tale questione, egli esprimeva anche le proprie
vedute personali. L'importante erano il tono e l'inattesa originalità
della conclusione. Fatto sta che molti ecclesiastici credettero fermamente
che l'autore fosse dei loro. A un tratto, insieme con quelli, non solo i
laici, ma perfino gli atei, si diedero, dal canto loro, ad applaudire.
Alla fin fine, alcune persone perspicaci conclusero che tutto l'articolo
non era che una burla e una derisione sfrontata. (I Fratelli
Karamàwv, pp. 16-18).
Nel colloquio col fratello di cui abbiamo già parlato è
messa a nudo quanto v'è di più delicato nella sua anima.
— Si direbbe che tu mi ami, Aljòsa.
— Ti amo, Ivàn. Il fratello Dmìtrij dice di tè: Ivàn
è una tomba. Io dico: Ivàn è un enigma. Anche adesso tu' sei per me un
enigma, ma in tè ho già cominciato a capire qualcosa, e soltanto da
questa mattina!
— Che cosa vuoi dire? — rise Ivàn.
— Ma non ti arrabbierai? — rise anche Aljòsa.
— Ebbene?
— Che anche tu sei un giovanotto come tutti gli altri
giovani di ventitré anni, altrettanto fresco e giovanile, un. bravo
ragazzo, uno sbarbatello, insomma! Non sei mica troppo offeso?
No, Ivàn non è offeso, al contrario. E ora racconta
animandosi tutto come egli creda nella vita, negli uomini ch'egli ha
imparato ad amare, nell'or-
138
dine delle cose... Come tutto lo commuove, come gli sono
care "le foglioline attaccaticce che si schiudono a primavera... caro
il cielo azzurro". Egli ama i grandi destini e le alte opere
dell'uomo. Vuoi andare in Europa:
So bene che partirò soltanto alla volta dì un cimitero,
ma del più caro fra i cimiteri, sicuro! Dei cari morti riposano là, ogni
pietra posta su di essi parla di una vita lontana così ardente, di una
così appassionata fede nella propria impresa, nella propria verità,
nella propria lotta e nel proprio sapere, che io, lo so fin d'ora, cadrò
a terra, bacerò quelle pietre e vi piangerò sopra.
Questa è la vita la cui linfa sgorga ricca, profonda e
fervida e si protende verso l'esistenza tumultuosa e le sue forme
mutevoli:
Qui non c'entra l'intelligenza, ne la logica, qui tu ami
con le viscere, col ventre, ami le tue prime forze giovanili... Comprendi
tu qualche cosa, Aljòsa, nel mio garbuglio, o no?
— Comprendo troppo bene, Ivàtt: si vuoi vivere con le
viscere e col ventre: tu l'hai detto magnificamente, ed io sono
felicissimo che tu abbia tanta voglia di vivere, — esclamò Aljòsa. —
Io penso che tutti debbano amar la vita avanti ogni cosa al mondo.
— Amar la vita più che il senso della vita?
— Proprio così, amarla più della logica, come tu dia,
proprio più della logica, e allora soltanto ne afferrerai anche il senso.
Ecco quello che da tempo mi passa per il capo. (I Fratelli Karamàzov,
pp. 253-4).
Sono sentimenti pieni di forza promettente, ma forse anche
un po' troppo forti... Vi è però dell'altro. C'è, appena dissimulato,
il presentimento che questa fiducia potrebbe essere delusa. Questa vita
non è perfettamente sicura di se stessa. Ivàn sente
139
che le manca l'unità interiore che solo il cuore può
dare, energia e potenza creatrice. Forze isolate possono liberarsi e
governare da sole: così la forza elementare della terra, la brama dei
sensi e delle passioni e il suo opposto, la fredda ragione che si fa
tiranna proprio quando "la carne" si emancipa. Quando una si
libera, si libera anche l'altra come i volti della trinità infernale del Satana
di Matthias Griinewald. Questa volontà di vita sente minata la fiducia
nella forza che dovrebbe darle unità e sostegno e si dispone a sussistere
sotto forme isolate:
C'è al mondo una disperazione capace di vincere in me
questa furiosa e forse indiscreta brama di vivere? e ho concluso che, a
quanto pare, non c'è, torno a dire, prima che io arrivi ai trent'anni, e
che poi io stesso non ne vorrò più sapere, così mi pare... In parte è
una caratteristica dei Karamàzov, questa brama di vita, è vero; non
ostante tutto, c'è senza dubbio anche in tè, ma perché mai sarebbe
vile? (J fratelli Karamàzov, p. 253).
La forza primitiva dei Karamàzov, sottraendosi
all'interiorità e all'influenza del cuore, diventa una cieca "forza
elementare", forza terrestre che si scatena nell'uomo. E poiché
l'uomo è persona, quello che nell'istinto dell'animale, nell'irruenza
degli elementi ci appare in un certo senso "puro", o piuttosto
estraneo al bene ed al male, diventa in lui malvagio.
Diventa "vile"... La parola è rivelatrice.
Certamente Ivàn respinge questa definizione ma essa ritorna, dopo il
racconto della leggenda. Dopo che Ivàn ancora una volta ha parlato della
delusione che già s'insinua nel suo cuore, Aljòsa gli chiede:
140
Come vivrai tu? ... È mai possibile, con un tale inferno
nel cuore e nella testa?
— C'è una forza che resiste a tutto! — disse Ivàn
con un freddo sogghigno.
— Che forza?
— Quella dei Karamàzov... la forza dell'abiezione dei
Karamàzov. (I Fratelli Karamàwv, pp. 289-90).
Ma donde viene quest'abiezione? Che la "forza della
terra" una volta scatenata acquisti un malvagio potere di distruzione
è comprensibile. Ma come diventerebbe abietta? Come può affondare nella
bassezza? Si potrebbe osservare a questo proposito che nell'uomo, il quale
è persona la vitalità si corrompe appena il cuore non sia più unito
allo spirito. La sensualità isolata, accanto alla spiritualità,
all'intellettualismo isolato, è abietta. Satana è spirito in rivolta, e
per questo appunto spirito impuro, che genera l'impurità dovunque si
trovi ad agire sull'uomo. Ma nel caso di Ivàn c'è in più qualco-s'altro
e qui veniamo al secondo funesto aspetto di questa sete di vita. In lui
v'è qualcosa che lo at-tossica: l'insano rapporto di Ivàn col dolore che
è nel mondo. Ne abbiamo già parlato. Egli vuoi eliminare un disordine
che è causa di sofferenza ma egli stesso è nello stesso tempo
voluttuosamente crudele. Le sofferenze altrui lo tormentano e tuttavia
questo tormento egli lo cerca e ne gode. La sua compassione è perversa
fin nelle origini e di qui proviene anche 1'" abiezione" di
Ivàn.
Ora questa confina col male assoluto, col regno di Satana,
là dove il morboso unito al malvagio sono raffinatamente goduti ed
esaltati in uno spirito di ribellione. E qui è anche il punto d'incontro
di Ivàn con Elisa Chochlakòv.
141
Vorrei pregare il lettore di aver pazienza. Siamo di
fronte a un caso complesso e occorre studiarlo in tutti i suoi
aspetti per coglierlo poi nell'insieme.
Tormentato come la personalità è anche l'amore di Ivàn.
In segreto esso va, silenzioso e profondo, alla bella, fiera ed
appassionata Katjerìna Ivànovna. Se ella lo ricambiasse, potrebbe forse
guarire le lacerazioni della sua anima, sollevare la "forza della
terra" al piano dello spirito, ricongiungere lo spirito col sangue
liberando il potere di irradiazione del cuore. Ma ella, che in realtà ama
Ivàn, crede invece di amare Dmìtrij, il fratello maggiore, o piuttosto
vuoi persuaderne se stessa. Qualche anno prima suo padre, un ufficiale
superiore, era stato sul punto di essere disonorato per cattiva
amministrazione dei fondi del reggimento. Ella si era recata allora da
Dmìtrij, ufficiale nello stesso reggimento, e gli aveva chiesto un
prestito. L'atto, anche per il modo in cui era stato compiuto, aveva
voluto significare di più di una semplice preghiera. Dmìtrij si era
condotto da gentiluomo ma il ricordo dell'accaduto era rimasto
insopportabile all'orgoglio di Katjerìna, che- aveva cercato un sollievo
nella persuasione di amare Dmìtrij. In realtà ella non lo ama e non ne
è neppure riamata. Ma la costrizione dell'orgóglio ferito — che poi
esploderà al processo nella folle deposizione e provocherà la catastrofe
— è abbastanza forte per sbarrarle la via che può con-durla a Ivàn.
Ivàn odia perciò il fratello. E vi è qualcosa del cupo
odio di Caino per il luminoso Abele nel modo in cui Ivàn, chiuso nel suo
tormento implacabile, odia Dmìtrij, una delle poche figure schiettamente
142
eroiche di Dostojevskij, uomo scosso dalle tempeste ma
pronto anche a ubbidire a un impulso
generoso.
Ivàn ama Katjerìna; ma anche Grùscegka non gli è
indifferente. Questo sentimento non appare chiaramente ma la scena tra le
due donne in cui l'odio, prima dissimulato con sottile astuzia, finalmente
esplode, non sarebbe comprensibile se tra di loro ci fosse
soltanto Dmìtrij.
E ancora Ivàn è singolarmente legato a Lisa Chochlakòv.
Da questa figura di fanciulla già quasi donna emana un fascino cattivo.
Malata negli istinti, viziata da una madre troppo debole, Lisa, se
esteriormente appare preservata dal male, nell'intimo è già corrotta e
non dalle cattive letture soltanto... Ella ama Aljòsa, sogna di esser
salvata dal caos spaventoso che la minaccia da ciò che in lui è puro e
santo, ma nello stesso tempo vuole questo caos;
"trova bello" ciò che fa arrossire e disonora,
offrendo così un singolare riscontro alla figura di Stavròghin nei Demoni.
"Trovar bella la distruzione, la malattia, l'impurità significa
scivolare verso la sfera del demonismo. I suoi sogni lo rivelano, ella
stessa se ne accorge e si rifugia da Aljòsa in cerca di aiuto — nello
stesso tempo scrive però una lettera a Ivàn di cui intuisce l'affinità
con la propria natura. Ella ama il "cherubino" ma non sa
rinunciare alla parte peggiore di sé ed è così profondamente corrotta
da servirsi di Aljòsa per far recapitare la lettera a Ivàn. Questi poi
sa tutto e sebbene disprezzi Lisa se la tiene in qualche modo amica.
Cuore pieno di contraddizioni, dunque, questo di
Ivàn.
143
Ivàn odia suo padre. Peggio ancora, ne ha schifo. Ma
anche questo sentimento non è semplicemente la ripulsione di Dmìtrij che
teme, nel vedere la figura ripugnante del vecchio, di perdere la testa e
di colpire. Di Ivàn si racconta anzi come, giunto nella casa paterna,
egli vivesse per alcuni mesi in buona armonia col padre. Questi a sua
volta intuisce l'odio di cui è oggetto. Quand'è ubriaco, dice che lo
sguardo di Ivàn è "diffidente e cattivo" e tuttavia c'è tra i
due come il legame di una segreta corrispondenza.
L'ambiguità del sentimento di Ivàn si tradisce anche nei
rapporti che egli coltiva con Smerdjàkov. Nel mondo del romanzo questa è
una figura rive-latrice di grande rilievo, una specie di prodotto
del-l'"abiezione" che fermenta nella famiglia Karamàzov. È un
essere di cui talvolta si dubita se sia un uomo o non piuttosto un anfibio
o un'airuna. Una creatura priva di bontà e di gioia. Tutto in lui è
viscido e scontroso, obliquo e sruggente. È serio, ma non si capisce bene
che cosa prenda veramente sul serio; assennato, ma con una logica così
sconcertante, dissennata che mette freddo. Tuttavia anch'egli sogna di
evadere e di rifarsi una vita e l'occasione gli viene offerta dal delitto
perché i tremila rubli che egli vuoi rubare gli daranno la
possibilità di farsi all'estero una esistenza nuova — cupo parallelo di
Ivàn che vuoi fare la stessa cosa con i tremila rubli avuti in eredità.
Questo è forse l'unico lato umano di questa figura; pensiamo al modo
singolarmente attento e inquieto in cui egli guarda Ivàn, dopo avergli
lasciato intrawedere per la prima volta i suoi piani:
Tutto il suo viso esprimeva un'attenzione e un'aspettativa
144
estrema, ma ormai timida e servile, come a dire: « Non mi
dirai altro? non aggiungerai nulla? », ecco dò che si leggeva nel suo
sguardo fisso e come confitto in Ivàn Fjòdorovic. (Z Fratelli
Karamàzov, p. 301).
e alla disperata terribile tristezza dell'ultimo
colloquio prima del suicidio.
Non è strano che Ivàn provi simpatia anche per
quest'uomo? Che egli parli sovente con lui e permetta al
"lacchè", lui così altezzoso, le più strane libertà?
Sembra quasi che l'aristocratico per elezione senta qui il fascino del
demoniaco nel suo aspetto più ripugnante — come talvolta accade che
creature di singolare bellezza vengano asservite a esseri brutti e
deformi.
Ivàn non riesce dunque a imbrigliare le forze
divergenti-che lo governano.. Vede nell'esistenza delle fratture che gli
son causa di tormento ma non sa colmarle; gli manca per questo un cuore
vicino al suo, il potere irradiante, la virtù trasformatrice dell'amore.
Perciò egli assume questa frattura come principio dell'esistenza.
L'assume là dov'egli è portato dal conflitto più
profondo della sua vita. Ivàn è prigioniero di un orgoglio immenso,
retaggio di uno spirito nudo, solitario e distante. Nella sfera dello
spirito questo orgoglio è l'equivalente della "forza scatenata della
terra" nel mondo della passione: è t'orza libera che agisce da sola.
Nello stesso tempo lo rode però un sentimento bruciante di inferiorità3.
Vive così in
3
Un'indagine attenta potrebbe dimostrare come in genere uno stato d'animo
oscillante fra un sentimento di inferiorità e la presunzione, il
servilismo e la rivolta, la prepotenza ti-
145
un disaccordo insopportabile con se stesso. Vorrebbe
sentirsi superiore agli altri, ma c'è nella sua natura — ed egli lo sa
—- anche qualcosa del "lacchè". Smerdjàkov l'ha indovinato e
sotto questo aspetto di fronte a lui Ivàn è impotente. Ora tutto si
riduce per lui alla questione: riuscirà l'orgoglio a vincere il
sentiménto di inferiorità e a farlo tacere? 4.
A partire di qui egli pone la frattura dell'essere come
definitiva. Ora, anche una persona di orientamento diverso non ignorerà
le antinomie dell'esistenza, ma cercherà di trovare nel proprio intimo la
forza equilibratrice che gli permetta di superare il disordine, la
sofferenza, il male, il peccato e spererà nella vittoria in virtù del
potere liberatore e salutare della grazia. Incontrerà in qualche modo un
principio fermo al di là delle contraddizioni. Così sarà per le
"donne credenti" e per le due Sònje, nella loro eroica umiltà
inconsapevole; Macario, il pellegrino, e lo stàrets raggiungeranno
l'armonia per la forza unificatrice e irradiante di un cuore redento;
Aljòsa vi perverrà più tardi per la virtù angelica
ch'è in lui. Ma Ivàn non vuole. Egli non ammette che la frattura possa
esser sanata un giorno dall'amore di Dio. Egli esige che sia fatta
giustizia già qui, sulla terra; e poiché ciò non può essere — egli
lo sa e proprio per questo lo esige — ritorce contro Dio questa
ingiustizia del mondo sbagliato. L'accusa, anzi, va più lontano: Dio non
avrebbe nemmeno potuto creare un mondo perfetto. La frattura è già in
lui... Perciò il mondo reca il mar-
rannica e la affabilità bonaria sia una chiave importante
per capire certi personaggi di Dostojevskij. 4 Ancora il
problema di Raskòlnikov.
146
chio dell'imperfezione. Affermare questo significa però
voler umiliare Dio, dichiarare la sua impotenza, accusarlo di debolezza,
di ingiustizia e forse qualcosa di più terribile ancora.
Questa dunque è ribellione. Non ateismo, ma attacco
aperto. Dio in fondo non è negato — sebbene appaia molto dubbio (vedi
il colloquio col diavolo5) che Ivàn creda in Lui — ma è,
qui, il nemico. In questo modo Ivàn proietta il suo inferiore dissidio
nell'assoluto. Quel sentimento di inferiorità dovrebbe esser vinto con
l'umiltà che libera il cuore e apre la via all'amore; la rivolta sceglie
la via peggiore perché cerca di compensare quel complesso di inferiorità
con una titanica rivolta contro Dio.
Nell'importante incontro presso lo stàrets,
Mjù-sov riferisce che Ivàn ha sostenuto la tesi che
se si distruggerà nel genere umano la fede nella propria
immortalità, senz'altto s'inaridirà in. lui non soltanto l'amore ma ogni
forza viva capace di perpetuare la vita nel mondo. Non basta: allora non
ci sarebbe più nulla di immorale, tutto sarebbe lecito.
5 Sarebbe far violen2a a Dostojevskij volerlo
inserire nello schema della teologia dialettica e della sua dottrina del
paradosso. Per questo il suo pensiero è troppo poco germanico. Poiché
questo almeno dovrebbe esser chiaro, e cioè che il pensiero di
Kierkegaard e dei suoi discepoli non è « specificamente cristiano », ma
« specificamente nordico ». Asserire che Ivàn, parlando nel dubbio e
nella rivolta, rileva che egli sa chi è • Dio, ossia che nulla di lui
direttamente si può sapere, significa ignorare le idee religiose del
russo Dostojevskij il quale rimane nella tradizione dell'idea di
trasfigurazione. Nella figura di Ivàn non si tratta tanto della ricerca
di un rapporto paradossale con Dio, quanto di un erigerai dell'uomo contro
Dio. All'origine di tutto questo non stareb-. be allora Kierkegaard, ma
Nietzsche.
147
Al che lo stàrets domanda:
« Sareste voi davvero convinto che l'inaridirsi negli
uomini della fede nell'immortalità dell'anima loro debba avere tali
conseguenze? ».
Ivàn risponde:
« Sì, ho affermato questo. Non c'è virtù se non c'è
immortalità ».
E lo stàrets:
« Beato voi, se così credete, oppure ben
disgraziato! » — « Perché disgraziato? » sorrise Ivàn Fjòdorovic.
— « Perché, con tutta probabilità, voi stesso non credete
nell'immortalità della vostra anima, e nemmeno in dò che avete scritto
intorno alla Chiesa e alla questione ecclesiastica ». (I Fratelli
Karamàzov, pp. 76-7).
Anche se Ivàn, dunque, crede in qualche modo in Dio,
sembra volergli strappare la prerogativa della Sua divinità. Questa
consiste nel fatto che Egli, come validità e potenza assoluta ed
essenziale, può impegnare l'uomo moralmente, che Egli anche moralmente è
"il Signore" perché il bene non è qualcosa di superiore a Dio,
ma Dio stesso è il bene. Ivàn con la sua rivolta non arriva al punto di
pretendere di poter egli stesso stabilire una distinzione tra il bene e il
male; tuttavia egli si arroga il diritto, come essere d'eccezione, di
sorvolare sulla distinzione valida per la maggior parte degli uomini e di
fare, ovvero permettere il male.
148
Ivàn e Smerdjàkov
Abbiamo già parlato della strana relazione che corre tra
Ivàn e il fratellastro Smerdjàkov. Il loro legame, al di là di quel
lato non facilmente definibile, ha anche un carattere nettamente
determinato. Se infatti Smerdjàkov nutre un freddo odio verso l'uomo alla
cui infamia egli deve la sua trista esistenza, nel sentimento che Ivàn
prova verso suo padre si mescolano l'odio e un disprezzo pieno di
disgusto. Qui è il loro punto d'incontro. Ma Smerdjàkov è più forte;
egli ha la forza oscura di un incubo.
L'odio di Ivàn per suo padre è terribile. Un giorno che
Dmìtrij, pazzo di gelosia, ha battuto il vecchio, Ivàn è intervenuto ed
ha allontanato il fratello:
« Diavolo, se non l'avessi strappato via, l'avrebbe
bell'è ammazzato. Ci vuoi molto per Esopo? » bisbigliò Ivàn Fjodorovic
ad Aljòsa.
« Dio ce ne scampi! » esclamò Aljòsa.
« E perché Dio ce ne scampi » continuò a bisbigliare
Ivàn, con la faccia contratta dall'ira. « Un rettile divorerà l'altro,
è la loro sorte comune». (I fratelli Karamàwv, p. 157).
Ivàn desidera che il padre sia tolto di mezzo e che il
delitto sia compiuto dal fratello che egli pure odia. Folle desiderio,
tuttavia ancora concepibile in un cuore schiavo della passione. Ma questa
malvagità dal cuore è passata nello spirito, egli l'ha innalzata a
principio del suo agire:
— Fratello, — gli dice Aljòsa — permetti ancora una
domanda: è mai possibile che ogni uomo abbia il diritto
149
di decidere considerando gli altri uomini, chi di essi sia
degno di vivere e chi non lo sia più?
— Cosa c'entra qui il decidere in base a meriti?... Ma
quanto al diritto, chi non ha il diritto di desiderar??
— Non la morte di un altro, però!
— E se fosse anche la morte? A che scopo mentire a sé
stesso, quando tutti gli uomini vivono così, e forse non possono vivere
altrimenti?. (I Fratelli Kammàzov, p. 160).
Arriviamo ora allo strano, quasi inconcepibile episodio in
cui Ivàn e Smerdjàkov vengono a trovarsi per la prima volta di fronte.
Ivàn ha rivelato ad Aljòsa, nel colloquio di cui s'è
già detto, i suoi pensieri segreti e i suoi piani per l'avvenire. Vuoi
andare in Europa, "mettersi, sempre solitario come in passato, per un
nuovo cammino completamente ignoto, con molte speranze, ma senza saper
quali". Ora s'avvia verso casa. Un'angoscia lo assale, non soltanto
quella "dell'ignoto", ma qualcosa di diverso: un'angoscia
"fino alla nausea".
Ciò che soprattutto rendeva quell'ansietà sgradita e
irritante era il suo carattere in certo modo fortuito e tutto esteriore:
egli lo sentiva. C'era in qualche luogo un essere o .un soggetto che gli
dava fastidio... Ivàn Fjòdorovic, di pessimo umore e irritatissimo,
giunse infine alla casa paterna e tutt'a un tratto, a una quindicina di
passi dal portone, gettatavi un'occhiata, indovinò di colpo che cosa
tanto lo avesse tormentato e turbato.
Seduto sulla panca, presso il portone, il servo
Smerdjàkov prendeva il fresco della sera, e Ivàn Fjòdorovic, fin dal
primo sguardo comprese che anche il suo pensiero era occupato dal servo
Smerdjàkov, e che era precisamente quell'uomo ciò che la sua anima non
poteva sopportare. (J Fratelli Karamàwv, pp. 292-3).
Smerdjàkov "gli era rimasto nell'anima"... In
un 150
primo tempo Ivàn si era interessato di lui. « Gli aveva
dato l'abitudine di discorrere con lui, pur meravigliandosi sempre di una
certa incoerenza o, per dir meglio, di una certa irrequietezza del suo
spirito e non riuscendo a capire che cosa mai potesse tormentare in modo
così continuo e insistente "quel contemplativo" ». Poi
Smerdjàkov aveva cominciato a venirgli in uggia ed egli si era messo ad
odiarlo... I dissensi in famiglia si erano aggravati e anche Smerdjàkov
ne aveva parlato con lui.
Ma sebbene Smerdjàkov fosse sempre molto agitato quando
ne discorreva, non si poteva tuttavia m nessun modo raccapezzare che cosa,
per suo conto, volesse. C'era anche di che stupirsi della illogicità e
della confusione di certi suoi desideri, che involontariamente venivano a
galla, ma che però erano sempre poco chiari. Smerdjàkov non faceva che
interrogare, rivolgeva certe domande tortuose, evidentemente premeditate,
ma senza spiegarne il perché.
In questa atmosfera di crescente ostilità di Ivàn verso
il fratello ha luogo l'incontro:
Con un senso di fastidio e di irritazione, voleva ora
passare in silenzio per il portello, senza guardate Smerdjàkov; ma
Smerdjàkov si alzò dalla panca e da questo solo suo gesto Ivàn
Fjòdorovic intuì in un attimo che quello desiderava di avere con lui un
colloquio a quattr'occhi. Ivàn Fjòdorovic lo guardò e si fermò, ma
appunto il fatto di essersi fermato così improvvisamente, invece di
passar oltre, come soltanto un minuto prima aveva voluto fare,
10 esasperò fino a sconvolgerlo. Con ira e disgusto
osservava la faccia smunta da skopèts di Smerdjàkov, coi capelli
pettinati sulle tempio e con un piccolo ciuffetto sfuggente.
11 suo occhio sinistro, lievemente socchiuso, ammiccava e
sorrideva, come per dire: "Perché tiri via? non andrai oltre; vedi
bene che noi due, persone intelligenti, abbiamo qualcosa da dirci".
Ivàn Fjòdorovic fremette.
151
"Indietro, mascalzone, che ho da fare io con tè,
imbecille?" stava già per sruggirgli di bocca, ma, con suo sommo
stupore, gli uscì di bocca tutt'altra cosa:
— Dorme il babbo o si è svegliato? — disse con una
voce sommessa e rassegnata, che riuscì a lui stesso inattesa, e a un
tratto, pure nel modo più inatteso, sedette sulla panca. Per un istante
ebbe quasi paura, come in seguito si ricordò. Smerdjàkov gli stava di
fronte, con le braccia dietro il dorso, e lo guardava con sicurezza, quasi
con severità.
— Riposa ancora, — pronunziò senza fretta. ("È
lui che per primo si è messo a parlare, non io!") — Mi meraviglio
di voi, signore, — soggiunse, dopo un po' di silenzio, abbassando gli
occhi con una certa affettazione, mentre metteva avanti il piede destro e
giocava con la punta della scarpa di vernice. (I Fratelli Karamàzov,
pp. 293-95).
Comincia così la lotta fra i due fratelli. Ivàn odia
Smerdjàkov ma nello stesso tempo non riesce a staccarsi da lui. L'altro
lo sa e si comporta con una familiarità impudente. Ivàn è furioso,
tuttavia parla e agisce non, come dovrebbe, per l'impulso dell'ira, ma
come da un centro del subcosciente in comunicazione segreta con
Smerdjàkov. È come se Smerdjàkov lo tenesse, di lì, soggiogato;
d'altronde gli fa capire chiaramente che cosa li leghi l'uno all'altro: è
l'accordo nell'odio verso il padre. Il punto di contatto sembra essere
anzi ancor più profondo:
entrambi nel segreto del loro -animo si sono posti al di
fuori della legge di Dio, Smerdjàkov in un modo indenifibile che ha
dell'airunico e del satanico, Ivàn con la ribellione aperta.
Rabbrividendo ascoltiamo Smerdjàkov esporre con una freddezza quasi
inumana, dove freme tuttavia una strana eccitazione — quale profondità
di intuizione psicologica! — il suo piano a Ivàn: egli ha la fiducia
del vecchio e ne conosce le abitudini; sa che questi
152
spera in una visita di Grùscegka e che Dmìtrij è
quasi pazzo di gelosia contro il padre. Conosce i particolari con cui
avrà luogo la visita attesa, ha provveduto a che Dmìtrij ne sia
informato, in modo da eccitare la sua gelosia, e anche a tarlo entrare nel
cortile chiuso sicché per forza dovrà imbattersi nel padre. Quanto a
lui, egli simulerà un attacco di epilessia per scomparire come testimonio
e a Ivàn suggerisce di recarsi in quei giorni critici a Cermàsnja, una
località dei dintorni. Ivàn si sente preso in una complicità orrenda:
II volto d'Ivàn Fjòdorovic ebbe come una smorfia ed un
tremito. Egli arrossì a un tratto.
— Perché dunque, dopo tutto ciò, — egli interruppe
improvvisamente Smetdjàkov, — mi consigli di partire per Cermqsnja? Che
hai voluto dire con questo? Se io partirò qui succederà qualche cosa.
— Ivàn Fjòdorovic respirava affannosamente.
— Per l'appunto, — proferì Smerdjàkov sottovoce e
con ponderazione, fissando intanto Ivàn Fjòdorovic.
— Come, per l'appunto? — ripete Ivàn Fjòdorovic,
frenandosi a stento e con un balenìo minaccioso negli occhi.
— Ho parlato per un riguardo verso di voi. Se fossi
10 al vostro posto, pianterei qui tutto... perché
restar vicino a una faccenda simile? (I Fratelli Karamàzov, p.
300).
Ivàn si alza, vuole
subito infilare il portello, ma si fermò di colpo e si
volse verso Smerdjàkov. E accadde un fatto strano: Ivàn Fjòdorovic si
morse ripetutamente il labbro, come in un convulso, strinse i pugni e...
un attimo più tardi si sarebbe certamente gettato su Smerdjàkov. Costui
però se ne avvide nel medesimo istante, sussultò e indietreggiò con
tutta la persona. Ma Smerdjàkov la passò liscia e Ivàn Fjòdorovic si
voltò in silenzio e come perplesso verso
11 portello.
153
— Io parto domani per Mosca, se vuoi saperlo, domattina
presto... ed ecco tutto! — diss'egli a un tratto, rabbioso, staccando le
parole e a voce alta, per domandarsi poi egli stesso meravigliato che
bisogno avesse avuto di dir dò a Smerdjàkov. (I Fratelli Karamàzov,
p. 301).
Egli è dunque intieramente soggiogato. Viene poi la scena
profondamente rivelatrice, in cui egli, a notte alta, quasi non
più padrone di se stesso, si abbandona agli impulsi che lo governano.
Ma noi non staremo a riferire tutto il corso dei suoi
pensieri, e se anche ci provassimo a riferirlo in parte, ciò sarebbe
molto difficile, perché non erano pensieri i suoi, ma qualcosa di molto
vago e, soprattutto, di tumultuoso. Egli stesso sentiva di aver perduto il
suo equilibrio. Era tormentato anche da vari desideri, strani e quasi
subitanei:
così, per esempio, dopo la mezzanotte gli venne una
voglia insistente e intollerabile di scender giù, aprire la porta, di
entrare nel padiglione e picchiare Smerdjàkov; ma, se glie ne avessero
domandato il perché, non avrebbe assolutamente saputo indicare un motivo
preciso, salvo, forse questo, che quel servo gli era divenuto odioso come
il peg-gior offensore6 che potesse esserci al mondo. D'altra
parte, quella notte la sua anima fu invasa più di una volta da una certa
quale inesplicabile ed umiliante timidità, che pareva toglierli
improvvisamente — egli lo sentiva, — anche le forze fisiche7.
Il capo gli doleva e gli turbinava.
6 Ciò che « offende » è che Smerdjàkov lo creda
capace di commettere un delitto e che Ivàn stesso gli dia il diritto di
pensarlo. L'offende inoltre l'affinità che egli sente fra sé e il servo
— per quanto di servile vi è nella sua natura — e il fatto che
Smerdjàkov se ne renda conto.
7 Egli ha paura dell'azione che egli « attende »,
ossia ordina o, per lo meno, permette. Naturale moto della coscienza;
ma egli, come sappiamo, vuoi essere « Napoleone », «
Grande Inquisitore ». Se vi riuscisse avrebbe la desiderata messa in atto
dal suo io, lo slancio in cui si farebbe superuomo. Questi però non
dovrebbe conoscere la paura. Perciò la pau-
154
Un sentimento di odio gli attanagliava il cuore, come se
si accingesse a vendicarsi di qualcuno... Quando poi rievocava, molto
tempo dopo, quella notte, Ivàn Fjòdorovic ricordava con particolare
disgusto che si alzava improvvisamente dal canapè, apriva piano la porta,
come tremando all'idea che lo vedessero, usciva sulla scala e ascoltava
come là in basso si movesse e passeggiasse Fjòdor Pàviovic, ascoltava a
lungo, per forse cinque minuti, con una certa strana curiosità,
trattenendo il respiro e col batticuore; ma perché facesse tutto ciò,
perché stesse in ascolto, lo ignorava certamente anche lui. Per tutta la
vita poi chiamò « ignobile » quella sua azione e in fondo a se stesso,
nei recessi dell'anima, la considerò sempre come l'azione più vile di
tutta la sua esistenza8. In quei momenti non provava alcun odio
per lo stesso Fjòdor Pàviovic, ma soltanto una tortissima curiosità di
sapere com'egli passeggiasse là da basso, che cosa facesse in camera sua9;
indovinava e supponeva che dovesse guardar giù dalle finestre buie e a un
tratto fermarsi di colpo in mezzo alla camera, aspettando, per sentire se
non bussasse qualcuno. Ivàn Fjòdorovic uscì sulla scala, per dedicarsi
a tale operazione, un paio di volte. (I Fratelli Karamàwv, pp.
302-3).
E ora il destino vuole che il vecchio insista perché
Ivàn vada a Cermàsnja a sbrigarvi degli affari. Stupito e irritato per
questa sgradevole coincidenza, Ivàn rimane fermo nella sua decisione di
disinteressarsi di tutto e di andare a Mosca. Segue ora una scena quasi
irreale:
Tutti i domestici erano venuti a salutarlo: Smerdjàkov,
Màrfa e Gregòrij. Ivàn Fjòdorovic regalò dieci rubli a cia-
ra è la prova che egli troppo presume di sé ed è
soltanto un « moralista » volgare, e questo è « umiliante ».
8 Egli attende l'assassino.
9 In realtà questa fredda obiettività è peggiore
dell'odio. Per essa l'uomo si pone al di fuori di ogni sensibilità. Entra
in una sfera non più umana. È forse questa obiettività impassibile che
più avvicina Ivàn al superuomo, al Grande Inquisitore.
155
senno. Quando si era seduto nel tarantàs,
Smerdjàkov si precipitò per aggiustare il tappeto.
— Come vedi... vado a Cermàsnja... — parve a un
tratto sruggire a Ivàn Fjòdorovic, di nuovo come il giorno prima, tanto
queste parole gli uscirono di bocca da sé, e con un certo risettino
nervoso per giunta. Egli se ne ricordò poi a lungo.
— È dunque vero quanto si dice, che fa piacere parlare
con un uomo intelligente, — rispose tranquillo Smerdjàkov, gettando a
Ivàn Fjòdorovic uno sguardo penetrante.
Ivàn dunque parte e durante il viaggio passa da momenti
di profonda disperazione a momenti di grande benessere... Poi, dopo il
primo cambio di cavalli:
Perché fa piacere parlare con un uomo intelligente? che
cosa voleva dire con ciò?, queste domande gli assalirono a un tratto lo
spirito. E perché gli ho detto che andavo a Cermàsnja?
Il viaggio prosegue. Ma improvvisamente egli cambia idea:
Alle sette di sera Ivàn Fjòdorovic salì sul treno e
volò verso Mosca. « Via tutto il passato, il vecchio mondo è finito per
sempre, e che io non ne senta mai più parlare! Verso un nuovo mondo,
verso nuovi paesi, e senza guardare indietro ».
Ma egli non può mentire a se stesso.
All'entusiasmo succedette improvvisamente nell'animo suo
un tal buio e gli strinse il cuore una tale tristezza, come non aveva
ancora mai provato in tutta la sua vita. Meditò l'intera notte- il treno
volava e solamente all'alba, arrivando ormai a Mosca, egli parve riaversi
di colpo.
— Io sono una canaglia! — mormorò fra sé. (I
Fratelli Karamàwv, pp. 307-8).
156
Ed ha ragione. Dire a Smerdjàkpv: vado a Cer-màsnja, era
come dirgli: Agisci. Ed egli nel suo cuore lo sapeva.
Egli ha agito veramente da "Grande Inquisitore",
da superuomo.
Ma che miserabile superuomo! Il suo agire è meschino,
impotente e contraddittorio come quello di Raskòlnikov. Egli scivola nel
delitto.
"Macché Napoleone! solamente un pidocchio!"
aveva detto Raskòlnikov.
Il colloquio col diavolo
L'insorgere di Ivàn contro Dio e il Suo mondo, la
volontà di elevarsi all'amoralismo del superuomo, al di là del bene e
del male, soffocando il complesso di inferiorità; i rapporti con
l'elemento demoniaco in Lisa Chochlakòv e nel fratellastro Smerdjàkov
— tutto ciò acquista la potenza di una visione nel capitolo intitolato:
II diavolo. L'incubo di Ivàn Fjòdoro-vic.
Esso è preceduto dal terzo e ultimo colloquio con
Smerdjàkov, dove vediamo questi abbandonare ogni speranza di uscire dalla
sua miseria. Scende su di lui terribile una fredda disperazione. Ivàn si
mostra deciso a dire il giorno dopo in tribunale la verità e cioè che
l'assassino è Smerdjàkov, e toma a casa sollevato. Qui vien colto da un
profondo malessere; con la febbre si sviluppa un male che non è soltanto
fisico ma dello spirito, del cuore.
Sedutosi di nuovo, prese a guardarsi tratto tratto in
giro, come per esaminare qualche cosa. Così fece parecchie
157
volte. Infine il suo sguardo si fissò sopra un punto.
Ivàn sorrise, ma una fiamma di collera gli salì al volto. Rimase a lungo
immobile, sostenendosi il capo con le mani e continuando a sbirciare verso
lo stesso punto, sul canapè che stava lungo la parete di fronte. C'era
là qualcosa che visibilmente lo irritava, lo inquietava, lo faceva
soffrire.
A un trattò apparve là, seduto, un tale... Era un
signore, o per dir meglio, una specie di gentleman russo, non più
giovane, « qui frisait la cinquantaine », come dicono i Francesi, con un
po' di brina nei capelli scuri, tuttora ab-bastan2a lunghi e folti, e
nella barbetta tagliata a punta. Indossava una certa giacchetta di color
cannella, fatta evidentemente da un ottimo sarto, ma già logora, vecchia
forse di due anni e del tutto passata di moda... Evidentemente aveva
conosciuto il mondo e la buona società... ma... si era trasformato in una
specie di parassita di qualità superiore, vagabondante dall'uno all'altro
dei buoni conoscenti di un tempo, ricevuto per la sua indole facile e
socievole. (J Fratelli Karamàwv, pp. 681-82 e 682-83).
L'ospite è affabile, accondiscendente, insinuante —
sebbene con una cert'aria di superiorità e un'ironia che talvolta
trapassa in aspra irrisione. È persuasivo, ma con una sfumatura di
cinismo che finisce per rimettere tutto in questione. Risveglia dei dubbi,
poi li fa tacere. Parla di Dio e dell'aldilà col tono di un romantico
scettico ma anche in maniera da lasciar supporre in sé un desiderio di
credere. Poi, appena •una parvenza di fede sembra prender consistenza,
un'osservazione buttata là con cinismo riporta le cose al punto di prima.
Egli si presenta come "un certo tale", ma nello
stesso tempo fa in modo che non sia sicuro se questo "certo
tale" esista. Egli sembra soffrire di quest'incertezza e aspirare
alla realtà concreta dell'esistenza terrena.
Io sono povero, ma... non dirò di essere molto onesto,
ma... in società si ammette generalmente come un assioma che
158
io sono un. angelo caduto. In fede mia non posso
immaginarmi come mai abbia potuto una volta essere un angelo. Se anche lo
fui, è passato tanto tempo che non faccio peccato a dimenticarmene.
Oggidì non tengo che alla mia riputazione di uomo per bene e vivo come
capita cercando di riuscir gradito. Gli uomini li amo sinceramente; oh,
sono stato molto calunniato! Qui, quando di tempo in tempo mi trasferisco
tra voi, la mia vita scorre con un'apparenza di realtà, che mi va più di
ogni cosa... Il fantastico, vedi, fa soffrire anche me al pari di tè, e
perdo amo la vostra realtà terrestre. Qui, da voi, tutto è determinato,
tutto è formula e geometria; da noi invece non ci sono che equazioni
indeterminate! Qui. passeggio e sogno. Mi piace sognare. Inoltre sulla
terra divento superstizioso, non ridere, ti prego: è proprio quello che
mi piace, diventare superstizioso. Qui, acquisto le vostre abitudini: ho
preso gusto a frequentare il bagno pubblico, tè lo puoi figurare? e a
fare il bagno a vapore coi mercanti e coi preti. Il mio sogno è
d'incarnarmi, ma definitivamente, irrevocabilmente, in qualche grossa
mercantessa del peso di sette pudy e di credere a tutto quello che
crede lei. Il mìo ideale è andare in chiesa ed accendervi un cero di
buon cuore, afte di Dio, è così. Le mie sofferenze allora sarebbero
finite. (I Fratelli Kammàzov, p. 686).
Tutto questo esprime con profondità la condizione dello
spirito caduto che si è allontanato da Dio e precipita così nel nulla
senza poterlo raggiungere mai;
che, pur spogliandosi di ogni realtà, non potrà mai
estinguersi del tutto; che è scisso dal proprio io di una volta e
tuttavia ancora identico a se stesso; disperato, nostalgico e insieme
invincibilmente scettico.
Egli accenna a Dio e lascia intendere che donarsi a Lui
"cantando osanna" significherebbe la redenzione.
Tornerebbe egli allora a Dio, e, liberato dalla negazione,
riacquisterebbe realtà e beatitudine. Subito però egli si chiude in se
stesso con la negazione intima facendo di essa — sia pure in forma
ironica —
159
addirittura un principio dell'esistenza, sopprimendo
perciò ogni distinzione tra bene e male, disonorando la creazione,
mettendo Dio in una luce sospetta:
Io ho da natura un cuore buono e gioviale... Da tempo
immemorabile un decreto che non ho mai potuto capire mi ha affidato la
missione di « negare », e nondimento io sono sinceramente buono e inetto
alla negazione. « No, bisogna-che tu neghi, senza negazione non ci
sarebbe critica », e che sarebbe mai una rivista senza la « pagina del
critico »? Senza critica, sarebbe tutto un « osanna ». Ma per la vita
l'« osanna » non basta, bisogna che esso passi per il cro-giuolo del
dubbio, e via di questo tono. In tutto ciò, del resto, io non
m'immischio, non è opera mia e non ne rispondo. Mi hanno scelto come
capro espiatorio, mi hanno obbligato a fare il critico, e la vita ha avuto
principio. Noi la comprendiamo questa commedia: io, per esemplo, aspiro
puramente e semplicemente a sopprimermi. No, mi si dice, vivi, perché
senza di tè nulla esisterebbe. Se tutto sulla terra fosse conforme a
ragione, nulla mai sarebbe accaduto. Senza di tè non ci sarebbero
avvenimenti; invece bisogna che ce ne siano. Ed eccomi occupato, a
contraggenio, a suscitare avvenimenti, e ad operare cose irragionevoli su
ordinazione. Gli uomini, con tutta la loro indiscutibile intelligenza,
prendono questa commedia per qualcosa di serio. In ciò sta la loro
tragedia. Ebbene, soffrono, certo, ma... in cambio vivono, vivono una vita
reale e non fantastica; il dolore infatti è vita. Senza dolore, che
piacere ci sarebbe mai nella vita? Tutto diventerebbe un indeterminabile Tè
Deum: santo sì, ma noioso. Ebbene, e io? Io sono come un fantasma che
ha perduto la nozione delle cose, e ho anche finito per dimenticare il mio
nome. Tu ridi... no, non ridi, sei di nuovo arrabbiato. Tu ti arrabbi
sempre, non vorresti che dello spirito, e io torno a ripeterti che darei
tutta questa vita sideralè, tutti i miei gradi e onori, solo per
incarnarmi nell'anima di una mercantessa del peso di sette pudy e
per accendere dei ceri a Dio. <I Fratelli Karamàwv, p. 690).
E di nuovo:
Mefistofele, comparso a Faust, dichiara di volere il male,
160
e non fa che il bene. Padronissimo, ma io sono tutto
l'opposto. Io sono forse in tutta la natura l'unico che ami la verità e
desideri sinceramente il bene. Io ero presente quando il Verbo morto sulla
croce ascendeva al ciclo, portando in seno l'anima del ladrone crocifisso
alla sua destra, io udii le grida di gioia dei cherubini che cantavano e
acclamavano « osanna! » e il tonante tripudio dei serafini, che faceva
tremare il cielo e tutto l'universo. Ebbene, ti giuro per quanto c'è di
sacro che anch'io volevo unirmi al coro e gridare con tutti gli altri: «
osanna! ». Già questo grido mi sfuggiva, già mi erompeva dal petto...
io ho pure, tu lo sai, una grande sensibilità e impressionabilità
artistica. Ma il buon senso — la facoltà più disgraziata della mia
natura — mi trattenne anche allora nei giusti limiti, e io lasciai
passare quell'attimo! Infatti, che cosa avverrebbe, pensai in
quell'istante, se anch'io cantassi « osanna! »? Subito tutto si
spegnerebbe nel mondo e non accadrebbe più nulla- Ecco dunque che,
unicamente per dovere d'ufficio e per la mia posizione sociale, fui
costretto a reprimere in me un buon impulso e a rimanere nell'onta. Altri10
si arroga tutto l'onore del bene e a me non resta che l'infamia. Ma io non
invidio l'onore di vivere alle spalle altrui, io non sono ambizioso... Io
so bene che qui c'è un segreto, ma a nessun costo me lo si vuoi rivelare,
perché io, dopo aver capito di che cosa si tratti, potrei mettermi a
urlare « osanna », e allora sparirebbe subito il termine negativo
indispensabile e nel mondo intero regnerebbe la ragione, ma sarebbe anche
la fine di tutto, compresi i giornali e le riviste; allora chi vi si
abbonerebbe ancora? (J Fratelli Ka-ramàzov, p. 696).
Ivàn è in uno stato di eccitazione terribile.
« Sono io, io stesso che parlo, non tu! Però non
so se l'ultima volta dormissi o se ti abbia veduto da sveglio. Ora inzuppo
di acqua fredda un asciugamano e me lo applico sulla testa, e forse tu
svanirai ».
Incomincia un'aspra lotta. Ivàn vuole aver ragione 10
Allude a Dio.
161
del sinistro ospite mettendo ordine nelle proprie idee:
« Tu sei una menzogna, sei la mia malattia, un
fantasma... Sei un'incarnazione di me stesso, però solo di una parte di
me... dei miei pensieri e sentimenti, solo dei più vili e più sciocchi.
Da questo lato tu potresti perfino riuscirmi interessante, se avessi del
tempo da perdere con tè ». (I Fratelli Karamàzov, pp. 684 e
685).
Il diavolo, a sua volta, produce un argomento dopo l'altro
per dimostrare che Ivàn crede in lui. D'altra parte, col lasciare
apparire la propria realtà come incerta, come una "realtà X",
viene egli stesso a mettere in dubbio quello che suggerisce a Ivàn:
« Ti dico... delle cose originali come a tè non erano
ancora mai venute in mente, senz'anatro ripetere i tuoi pensieri e,
nondimeno non sono che il tuo incubo e nulla più » (I fratelli
Karamàzov, p. 687).
— Dalla foga con la quale tu ad neghi mi convinco
che tu però credi in me.
— Niente affatto! Nemmeno per un centesimo!
— Ma per un millesimo, sì! Le dosi omeopatiche sono
forse le più efficaci. Confessa che credi, almeno per un decimillesimo...
~-— Nemmeno per sogno! — grida Ivàn, rabbioso.
— Del resto, io vorrei credere in tè! — aggiunse con un tono strano.
— Eh, eh! questa è una confessione! Ma io sono buono e
ti aiuterò anche adesso. Ascolta: sono io che ho colto in fallo tè, e
non tu me! A bella posta ti ho raccontato l'aneddoto che avevi già
dimenticato, perché tu cessassi definitivamente di credere in me.11
— Mentisci! Scopo della tua apparizione è quello di convincermi
della tua esistenza.
— Precisamente. Ma le esitazioni, l'inquietudine, la
lotta della fede col dubbio sono alle volte, per un uomo scru-
n E farlo così cadere definitivamente in suo
potere.
162
poloso come tè, un tormento tale che è meglio
impiccarsi. Appunto perché so che tu credi in me un pochettino, ho voluto
gettarti definitivamente in braccio all'incredulità, raccontandoti
quell'aneddoto. Io ti faccio oscillare alternativamente tra la fede e
l'incredulità, e in questo ho i miei scopi. È un nuovo metodo: quando
cesserai del tutto di credere in me, ti metterai subito ad assicurarmi che
io non sono un sogno, ma che esisto in realtà, io ti conosco, ed è
allora che raggiungerò il mio intento. E il mio intento è nobile. Io non
getterò in tè che un minuscolo granello di fede,12 ma ne
nascerà una quercia, e una quercia tale che tu, standone all'ombra,
sentirai il desiderio di andare fra « i padri del deserto e le
donne senza peccato », perché è questo, nell'intimo, il tuo vivo
desiderio: mangerai cavallette e andrai a far penitenza nel deserto.
— Allora, furfante, è per la salute dell'anima mia che
ti affanni?
— Bisogna pure fare qualche volta una buona azione! Ma
tu vai sulle furie, a quanto vedo! (J Fratelli Karamà-zov, pp.
693-94).
E tutto si perde poi in un caos ove si mescolano il sano e
il malato, il vero e il falso, l'orrido e il malvagio.
La verità, dunque, è questa: per bocca dell'ospite il
vero Ivàn parla a se stesso.
Ecco lo spirito titanico, avvezzo agli spazi siderali e a
misurare il tempo per bilioni d'anni, che sogna nello stesso tempo
d'incarnarsi nell'esistenza borghese della grossa mercantessa dal peso di
sette pudy e nella sua fede supertiziosa... Ecco il superuomo,
12 «
Fede » di provenienza oscura! Pseudo-fede che nasconde con la sua
veemenza l'ulteriore scetticismo. Ascetismo senza amore, astinenza senza
purità di cuore, mistica e mistero senza serietà e discernimento. Mondo
ingannevole, perché composto apparentemente dagli stessi elementi
costitutivi della vita cristiana.
163
scettico ed empio, che pone il male come fattore
necessario delle vicende cosmiche e con tragico cinismo insinua la propria
disperazione nella struttura dell'essere, unica possibilità, per lui, di
esistere. E in questo singolare satanismo idealistico ecco rivelarsi,
ineliminabile, una mentalità da lacchè". L'ospite infatti è un
parassita. Il vecchio Fjòdor, che sopravvive in Ivàn, fa sentire la sua
presenza; c'è un punto dove tutto da un suono falso, frivolo e arrogante
e "le ingiurie e i calci" sono all'ordine del giorno. Ivàn lo
sa. E se Satana e il satanismo sono già per l'uomo il disonore più
infamante, il fatto che Ivàn senta fare appello al lacchè ch'è in lui
vi aggiunge una nota di personale amarezza. Proprio questo lo rende
furioso... C'è in lui un profondo anelito alla redenzione che però non
riesce a determinarsi e a trasformarsi in realtà e volontà sincera.
All'ultimo momento lo spirito di rivolta s'inframmette e tutto prende una
falsa strada. C'è ancora l'aspirazione al-l'"eterno alleluia",
ossia alla liberazione da tutto il male e da tutta la malvagità nel
grande abbandono al mistero di Dio, e insieme il rifiuto di questo
sentimento, il raffreddamento, l'indurimento; la constatazione sdegnata
del male nel mondo e insieme un mor-
13 Una
domanda in margine: può la tendenza al superuomo manifestarsi in chi non
abbia già avvertito in sé il pericolo di un dissolversi della
personalità? Qualsiasi teorico o assertore pratico della teoria del
superuomo — sia che si ponga al di là del bene e del male, o proclami
la divinizzazione dell'uomo o altro ancora — non è forse tormentato da
un complesso d'inferiorità? Una personalità forte e tranquilla ha mai
conosciuto questa volontà titanica? Hybris e debolezza,
offuscamento dei limiti e indeterminatezza della personalità non sono
forse lo stesso fenomeno? A una personalità chiara e forte è data anche
l'umiltà esistenziale che non è altro che verità, verità appresa col
cuore.
164
boso segreto desiderio che esso rimanga immutato affinchè
non venga meno il piacere della ribellione... C'è qui una disposizione a
credere che non diventerà mai vera fede.. una incredulità che non dirà
mai un no definitivo... un'aspirazione alla vita dei "padri del
deserto e delle donne senza peccato" desiderata in segreto e
"persino intensamente" e, nello stesso tempo, l'impudente
oscenità della scena del confessionale...
Qui appare chiara la confusione impotente, totale, che
regna nello spirito di Ivàn. "Ivàn è una sfinge" -
"Ivàn è una tomba".
È dunque necessario riflettere prima di interpretare la
"leggenda", nata dalla mente di quest'uomo, come espressione di
un cristianesimo genuino da contrapporre a una Roma anticristiana.
La tremenda alternativa di Ivàn è questa: egli lotta con
tutte le sue forze per togliere ogni realtà all'orrenda visione, poiché
tutto ciò che ha rapporto con Satana è di per sé insostenibile e la
difesa qui è un atto istintivo. Perciò egli fa di tutto per convincersi
che l'ospite è lui stesso, Ivàn, una sua allucinazione. Tutto allora si
dissolverà... Ma appena l'ospite dice: "Confessa che credi, almeno
per un decimillesimo", Ivàn che dapprima ha risposto con uno scatto
d'ira: "Nemmeno per sogno", poi aggiunge: "Del resto io
vorrei credere in tè!". Qui c'è l'ardente desiderio di una fede, ma
soprattutto questo pensiero: se l'ospite è veramente soltanto una mia
allucinazione, vuoi dire che tutto l'orrore di quella visione viene da me;
sono io allora che relativizzo il bene e il male, che mi chiudo nella mia
disperazione con la mia volontà cattiva, satanico sono io stesso.
165
Proprio qui viene a proposito la parola benedetta di
Aljòsa, a cui abbiamo già accennato: "Non sei tu che hai ucciso il
babbo, non sei tu!" E poi:
"È Dio che mi ha suggerito di dirti questo, anche se
tu, a partire da questo momento, dovessi odiarmi per sempre". E
l'odio nasce davvero: "Aleksjèj Fjòdorovic... da questo istante io
la rompo con voi e, credo, per sempre". (I Fratelli Karamàzov,
pp. 647-48).
Ne abbiamo già parlato. Perché quest'odio? Cosa gli ha
detto, dunque Aljòsa? Non sei tu che l'hai voluto, con satanica
autonomia. Non sei tu che, in lega col Maligno, fosti la causa prima del
delitto. Il che significa: tu non sei il Grande Inquisitore che
ostinandosi nella disperazione e nella rivolta strappa il mondo dalla mano
di Dio per disporvi del bene e del male. Se tu lo fossi, saresti veramente
uno spirito satanico. Ma non lo sei. Non sei un superuomo. Sei soltanto un
comune mortale che il diavolo ha indotto al peccato. Questa ammissione,
disarmando ogni volontà titanica, apre la via al pentimento, ma
precisamente contro di essa Ivàn s'indurisce. Alla salute si perviene
rinunciando a se^stessi là dove questa rinuncia e più difficile,
nell'umiltà che è verità. A questo però non consente l'orgoglio
disperato di chi, conscio della propria inferiorità, cerca di
nasconderla. Meglio, allora, perire!
Aljòsa tuttavia ritoma dopo la visione recando la
notizia che Smerdjàkov si è impiccato. Ivàn, reso quasi pazzo
dall'incubo della notte, cerca rifugio presso di lui.
Aljòsa intuisce perfettamente ciò che significano
spiritualmente quelle allucinazioni. Esse possono spingere il fratello
all'estrema disperazione e alla
166
morte. L'ospite l'aveva fatto capire, infatti, e anche
Ivàn sente il pericolo."
No, io non m'impiccherò.
È l'immagine terribilmente suggestiva di Smer-djàkov:
Sai tu, Aljòia, che non potrò mai togliermi la vita? È
per viltà, forse? Io non sono un vile. È per avidità di vivere! Perché
sapevo che Smerdjàkov si sarebbe impiccato? Sì, me l'aveva detto lui...
Egli non l'aveva detto, ma Ivàn ha intuito la
conseguenza, quella che poi ha tentato anche lui. Ed ecco riaffiorare la
tremenda alternativa:
— Io amo il tuo viso, Aljòsa. Lo sapevi che amo il tuo
viso? Ma lui sono io, Aljòsa, io stesso. Tutto ciò che in me c'è di
basso, di vile e di spregevole! Sì, io sono un •« romantico », lui
l'ha notato... Del resto, mi ha detto molte cose vere sul mio conto. Io
non me le sarei mai dette. Sai, Aljòsa, sai, — soggiunse Ivàn con gran
serietà e come confidenzialmente, — io vorrei proprio che egli fosse
veramente lui e non me!
— Ti ha stancato, — disse Aljòsa, guardando il
fratello con compassione.
— M'irritava! E, sai, molto abilmente. « La coscienza!
Che cosa è la coscien2a? Sono io che me la invento. Perché mai mi
torturo? Per abitudine. Per una abitudine universale del genere umano da
settemila anni. Liberiamocene e saremo degli dèi ».14 È lui,
è lui che lo diceva!
E subito la parola soccorrevole:
— E non tu, non tu? — non si trattenne dall'esclamare
Aljòsa guardando il fratello con occhi luminosi. — Allora
14 Qui si rivela la vera intenzione.
167
lascialo, scaccialo e dimenticalo. ( J Fratelli
Karamàzov, pp. 701-2).
Il nervo più segreto è messo a nudo: l'orribile
intreccio di orgoglio e di senso di inferiorità:
— Sì, ma è cattivo. Si faceva beffe di me. Era
insolente, Aljòsa, — disse Ivàn, fremendo ancora per l'offesa. — Ma
mi calunniava in molte cose. Mi mentiva sul viso. « Oh, tu stai per
compiere un'a2Ìone virtuosa, dichiarerai che hai ucciso tuo padre, che il
domestico l'ha ucciso per tua istigazione... ».
— Sei tu che lo dici, e non lui! — esclamò amaramente
Aljòsa — e parli così nel delirio, ti torturi!
— No, lui sa quello che dice. È per orgoglio, diceva,
che vuoi alzarti a dichiarare: « Sono io che ho ucciso e che avete da
fremere di orrore? Non siete sinceri. Il vostro giudizio io lo disprezzo
». Questo mi diceva, e poi ancora:
« Sai, tu vuoi che ti si lodi, che si dica: un
delinquente, un assassino, ma che magnanimità! ha voluto salvare il
fratello e ha confessato! »...
« Andrai perché non osi non andare. E perché non osi?
indovinalo un po' è un enigma! ». Poi si è alzato ed è uscito. Appena
sei giunto tu. Mi ha dato del vile, Aljòsa! Le mot de l'énigme è
che sono un vile! « Non sono le aquile tue pari quelle che si
librano sopra la terra! ».15
Tutto ritoma a galla. Un odio selvaggio:
— « Ci vai per esser lodato », è una bestiale
menzogna! Anche tu, Aljòsa, mi disprezzi. Adesso tornerò a odiarti! E
odio anche il mostro. Non voglio salvarlo, marasca in un ergastolo! Ha
cantato un inno! Oh, domani andrò, mi pianterò davanti a tutti e
sputerò loro sulla faccia. (J Fratelli Karamàzov, pp. 702-3).
Affiorano i motivi del "Grande Inquisitore" e
della conversazione nella trattoria: l'elemento non-
15 Di
nuovo la vera intenzione.
168
euclideo del mondo... la sua intcriore
riprovazione... la natura incerta del rapporto di Dio col mondo... la
"necessità" indiscutibile del male nel mondo... l'aspirazione
alla santità degli eremiti e delle vergini... l'alleluia finale
respinto... la disperazione di un'anima che non crede nella redenzione e
si tormenta sapendo di aver perduto.
Il senso della leggenda
Forse risulta ora più chiaro il significato della
leggenda del Grande Inquisitore. In apparenza essa è un attacco a « Roma
» condotto in nome di un autentico cristianesimo, dello spirito di
libertà e d'amore. Il suo vero significato in realtà è un altro e
profondamente rivelatore.
Essa mette a nudo l'esistenza di Ivàn e — intrecciata
alla sua — quella di suo padre e dei suoi fratelli. Ma i "fratelli
Karamàzov", Dmìtrij, Ivàn, Aljòsa e Smerdjàkov con Fjòdor, loro
padre, e le loro madri, Adelaida Ivànovna, Sònja Ivànovna e Lizavèta
Smerdjàsciaja — quali personaggi! — chi sono essi altro se non la
grande famiglia umana? In ognuna di quelle figure è l'uomo con la sua
grandezza e la sua miseria, i suoi lati luminosi e quelli oscuri, i lati
oscuri soprattutto. Ciò che succede a costoro, succede in verità a
tutti. E il processo che occupa quasi metà del libro è il processo in
cui accusato e accusatore, difensore testimonio e giudice è sempre
l'uomo, col risultato che si ottiene quando "giudicano" gli
uomini: un errore giudiziario, conseguenza di una distrazione. Perché
sarebbe bastato esaminare la ferita della vittima per stabilire subito
169
se Dmìtrij potesse averla uccisa col caldo della pistola.
Invece si disserta per centinaia di pagine di etica e di psicologia.
Il "Grande Inquisitore" getta ima luce
rivela-trice su Ivàn e i suoi — sull'uomo e la t'amiglia
umana.
La leggenda e il contesto del problema
II lettore potrà ora giudicare, dopo aver seguito la
linea alquanto tortuosa del nostro ragionamento, se la nostra tesi sia
più o meno esatta.
A nostro avviso il significato polemico della leggenda non
rappresenta ciò che essa ha di più originale. Certamente vi è qui anche
un attacco della Chiesa orientale a Roma. Che poi esso sia condotto da un
miscredente, il cui intervento in favore della sua Chiesa —
nell'articolo che sappiamo — è stato sentito come uno scherno non
avrebbe, stando a Dostojevskij, il valore di una obiezione seria;
piuttosto l'attacco a Roma e al cristianesimo, visto così in una luce
incerta, verrebbe quasi ad esprimere l'insufficienza di ogni giudizio
umano. Ma tutto il romanzo ci dice che quest'interpretazione troppo ovvia,
quasi banale, non può essere la vera perché nel romanzo la Chiesa non ha
parte alcuna. La leggenda viene invece a inserirsi nella sua trama
fondamentale appena si ponga attenzione alle varie situazioni umane che
abbiano messe in luce nella loro relazione reciproca.
E che la leggenda sia in funzione di esse è dimostrato
dal fatto che Aljòsa, l'unico ascoltatore, non ne raccoglie quasi il
senso polemico, ma reagisce
170
invece con veemenza e angoscia alla confessione di Ivàn.
Sarà ora il momento di domandarci come s'inserisce tutto
questo nella linea seguita dalla nostra analisi nei capitoli precedenti.
Abbiamo preso le mosse da un punto apparentemente
eccentrico, dal significato della Leggenda del Grande Inquisitore e
abbiamo condotto la nostra ricerca in una forma quasi polemica. Ma uno
sguardo retrospettivo basterà a persuaderci del profondo nesso esistente
tra questo capitolo del romanzo e il problema che c'interessa. Quella
disposizione fondamentale dell'animo che abbiamo fin qui trovata nei
personaggi del romanzo, dalla gente del popolo fino agli uomini
spirituali, Aljòsa compreso, sebbene subordinata ad una esistenza
d'eccezione, in Ivàn è scomparsa. Egli l'ha rinnegata per isolarsi con
la sua ragione individuale e con la sua volontà soggettiva. Ha perso
così ogni contatto col popolo ed è finito in potere di un essere
mostruoso: Smer-djàkov. Ha perso anche ogni contatto con la terra
feconda; per questo la natura, di cui egli pur sente la potenza, gli si è
trasformata da un lato in un sistema astronomico, dall'altro nella
demoniaca "forza della terra". I legami dell'esistenza hanno
perduto per lui ogni carattere di necessità ed ogni significazione e per
questo può nascere nella sua mente l'idea del rifiuto di questo mondo.
Sul suo atteggiamento religioso influiscono- poi una lunga
tradizione e un complesso di fattori sociologici, culturali e psichici,
sebbene egli lotti per sottrarsi a questi influssi. Così egli è ormai
incapace di attuare, come fa il popolo, l'immediatezza del rapporto con
Dio ma d'altra parte si rifiuta di
171
crearne uno nuovo su un piano diverso dell'esistenza con
la buona volontà, il lavoro, l'abnegazione e il sacrificio.
Nondimeno, la sua negazione non sa esser decisa: non è abbastanza
superficiale per passare semplicemente all'apostasia come Rakìtin, e non
è nemmeno abbastanza chiara e profonda da arrivare al fervore di
Kirìllov16. Aggiungiamo la personalità complessa e tormentata
di un giovane che non ha mai conosciuto il candore dell'infanzia e non ha
ancora raggiunto la maturità dell'uomo e capiremo meglio la sua strana
contraddizione di credere in Dio e di "non accettare la sua
creazione", ossia la sua "rivolta".
La rappresentazione di questo clima spirituale è di una
singolare intensità e potenza. Le tensioni e le contraddizioni della vita
concreta, esasperate fino alla morbosità, trovano la loro espressione in
problemi filosofici e religiosi e questi a loro volta sono vissuti e
sofferti nella vita. Così nella figura di Ivàn affiorano vari aspetti di
una crisi del sentimento e del pensiero religioso che travaglia tutto il
secolo decimonono e dalla quale solo la nostra epoca sembra giunta a
trarre le ultime conseguenze.
Ci sarebbero a questo proposito parecchie cose da'dire, ad
esempio sul rapporto che lega la figura di Ivàn al pensiero e al
sentimento romantico, all'immoralismo e all'estetismo fin de siede,
al mondo intellettuale e sentimentale del primo Kierke-gaard e,
soprattutto, di Nietzsche. Ma vorrei qui rinunciare a parlarne per meglio
illuminare questi aspetti nel capitolo seguente dove incontreremo due
figure disegnate con tratti più semplici e vigorosi: Kirìllov e
Stavròghin.
16 Su Kirìllov si veda il capitolo seguente. 172
CAPITOLO SESTO
GLI ATEI
Osservazioni preliminari
Nel corso del nostro lavoro abbiamo più volte ricordato
come, secondo Dostojevskij, la vera sventura per l'individuo stia nel
perdere il contatto col popolo, con la terra. La sofferenza, il peccato,
il delitto possono essere nuovamente vinti per virtù di quel contatto;
solo quando quei legami si spezzano accade la cosa più terribile: l'uomo
cessa di comunicare con le sorgenti della vita; l'uomo si allontana da Diol.
Questo processo Dostojevskij si era proposto di descrivere
in grandi cicli di romanzi. Sappiamo dal suo epistolario e dagli scritti
postumi che prima del '70 egli aveva concepito il piano di un romanzo che
doveva intitolarsi Ateismo. Da questo piano derivò quello ancora
più ampio di un altro romanzo: La vita di un grande peccatore2.
Nessuno dei
1 Una
fede che sopravviva a questa rovina, sorretta solo dalla grazia e dalla
semplice forza della persona dopo il dis-solversi di ogni sostegno e
legame organico — quella fede che è il compito dell'epoca moderna e di
quella che la segue — non sembra esser stata intuita da. Dostojevskij.
In questo egli resta un romantico.
2 Si veda Der unbekannte Dostojevskij,
Munchen, 1926, pp. 49 s.
173
due fu scritto, ma la figura del protagonista e i motivi
dell'azione del secondo furono suddivisi ed esauriti in alcune opere
singole: I Demoni, L'Adolescente, I fratelli Karamàzov.
Di questi romanzi il primo in particolare descrive quel
processo di disgregazione e di rovina. I due Vjerchovènskij sono appunto
due "sradicati", soprattutto il figlio e i suoi compiici. Di
Sàtov abbiamo già parlato.
Ma al centro del romanzo è Stavròghin, di tutte le
figure dostojevskiane certamente la più angosciosa e terribile, immagine
così compiuta e potente di quell'inferiore sradicamento da assurgere al
valore di un tipo.
Viene poi l'ingegnere Kirìllov, personaggio non del tutto
riducibile a quella formula. La sua negazione si pone già su un piano di
umanità universale. Così, spiritualmente egli è vicino, seppure per
effetto di contrasto, ad Aljòsa Karamàzov.
Tenteremo ora un'analisi di questi due personaggi. Insieme
con Ivàn Karamàzov essi ci daranno una visione completa delle forze del
male, della distruzione e della malattia che fermentano nel mondo di
Dostojevskij — visione che a dire il vero potrebbe essere integrata da
figure che incarnano l'egoismo, la bassezza, la decadenza, la ripugnante
meschinità, come quelle di Totskij e Lebedev nel-V Idiota, di
Goldjakin nel Sosia, del protagonista delle Memorie del
Sottosuolo e altre ancora. Inoltre in questi due personaggi affiorano
conflitti e problemi che, oltre a essere i più importanti dell'epoca
moderna, determinano il piano di alcune decisioni impegnative per il
periodo che segue ad essa. Occorre infatti tener conto dell'aiuto che la
174
conoscenza di una vita in disgregazione ci può dare per
capire la vita sana perché le forze e gli elementi formali che in questa
non hanno particolare rilievo, trovandosi tra di loro in un normale
rapporto di equilibrio e di misura, in quella appaiono con una evidenza
più netta, certo più funesta.
Kirillov
Aleksjèj Nìljic Kirillov è ingegnere civile. Ha-vissuto
per un certo tempo in America ed è "appena arrivato dopo un'assenza
di quattro anni". Il cronista lo descrive come
un uomo ancor giovane, dì circa ventisette anni, vestito
con decoro, un bruno ben fatto e asdutto, con un viso pallido, di colorito
leggermente terreo e con occhi neri senza splendore. Egli pareva alquanto
pensieroso e distratto, par-' lava a scatti e in modo non troppo
grammaticato, trasponeva curiosamente le parole e s'imbrogliava se gli
accadeva di dover fare una frase un po' lunga. (J Demoni, voi. I,
p. 131).
Egli mantiene un riserbo distratto, irritato, ma talvolta
ne esce improvvisamente con violente affermazioni di carattere filosofico
o anche con espressioni di calda cordialità umana.
Kirillov è buono, perciò può talvolta scoppiare "a
ridere del riso più gaio e sereno" e allora il suo viso assume
"un'aria del tutto infantile, che mi parve gli andasse molto
bene". (Z Demoni, voi. I, p. 137).
Ama i bambini ed essi gli vogliono bene. Un giorno
Stavròghin entra all'improvviso nella sua
175
stanza e vi trova il bimbo della padrona di casa che ha
appena finito di piangere:
Sotto gli occhi aveva ancora delle lacrime; ma in quel
momento tendeva le manine, batteva le palme e rideva forte, come ridono i
bambini piccoli, con dei singulti. Davanti a lui Kirìllov gettava sul
pavimento una gran palla rossa di gomma; la palla rimbalzando fino al
soffitto, ricadeva, il bambino gridava: « pa, pa! »... Infine la « pa
» rotolò sotto l'armadio... Kirìllov si stese bocconi sul pavimento e
si allungo, cercando di raggiungere con la mano la « pa » sotto
l'armadio. (I Demoni, voi. II, pp. 39-40).
Kirìllov. è sensibile alle sofferenze degli altri. Si
accorge se qualcuno è in bisogno e, quando può, è pronto a venirgli in
aiuto.
L'animo di quest'uomo è delicato ma vi è in lui anche
una impressionante forza di concentrazione del pensiero. All'arrivo del
narratore egli gli offre il tè:
— A me piace il tè, — diss'egli, — la notte;
cammino molto e bevo, fino all'alba...
— Voi vi coricate all'alba?
- — Sempre, da molto tempo. Io mangio poco; bevo sempre
tè. (I Demoni, voi. I, p. 161).
La sua immagine s'imprime nella mente del lettore
mentr'egli cammina così su e giù per la stanza, noncurante del momento
presente, assorto e come affascinato dai propri pensieri.
Qualche volta alza sull'interlocutore « improvvisamente i
suoi neri occhi lampeggianti ». Quando il discorso diventa frivolo parla
con irritazione, poi di nuovo "tranquillo e con calore".
176
Nota caratteristica molto importante: Kirìllov è
completamente privo di umorismo.
— Io non amo ingiurare e non rido mai, — disse «
malinconico » e « con un sorriso ».
— Sì, voi non passate allegramente le vostre notti
bevendo il tè...
— Credete? — egli sorrise con una certa meraviglia,
— e perché? No, io... io non so, — si turbò tutt'a un tratto, —
non so come succeda agli altri, e sento che non posso essere come tutti.
Ognuno pensa a una cosa e subito dopo a un'altra. Io non posso pensare a
null'altro, io penso per tutta la mia vita a una cosa sola. (I Demoni,
voi. I, p. 166).
E ancora nella terribile conversazione che precede la sua
morte:
— Voi sapete pure che queste non sono che parole.
— In tutta la mia vita ho voluto che non fossero
soltanto parole. E per questo ho vissuto, perché l'ho sempre voluto. E
anche adesso, ogni giorno, io voglio che non siano parole. (I Demoni,
voi. Ili, pp. 228-29).
La vita di Kirìllov si concentra tutta all'interno e su
di un unico oggetto che è tuttavia il problema fondamentale e il supremo
tormento dell'esistenza umana. Un pensiero, frutto di una lunga e
tormentosa ricerca, occupa il suo spirito. Ma non è un pensiero soltanto,
non è soltanto un'immagine, bensì una potenza che assorbe ogni energia e
impegna in un punto solo tutta la vita ulteriore, così prepotente che
l'uomo cessa di esser padrone di sé e ne resta soggiogato. È qualcosa di
simile a quello che Dostojevskij chiama "idea"; più che un
pensiero, una potenza, più che un istinto, una rivelazione chiara, più
che una teoria, un attivo impegno e
177
un'innervazione del volere e dell'agire. Non qualcosa che
si possiede, ma qualcosa da cui si è posseduti. La parola
"idea" esprime qualche cosa di religioso. Talvolta essa si attua
nella fede, come per Aljòsa Karamàzov; talvolta è una pseudomor-fosi
della fede come per Ippolito a.eQ.'Idiofa. Non è il prodotto di un
lavoro intellettuale ma frutto di intuizione, talvolta di un'esperienza
vissuta simile all'estasi. L'idea può essere una forza che muove a
compiere atti sublimi come nel caso di Aljòsa, ma può anche
rappresentare il surrogato ibrido di una vita divenuta insopportabile —
e questo è il caso di Ippolito — o anche una forza demoniaca ossessiva
come in Kirìllov.
Quanto sia pericoloso questo stato appare dalla
conversazione che ha luogo tra Kirìllov e Sàtov:
Ci sono dei secondi, essi non vengono che a cinque o sei
per volta, in cui sentite tutt'a un tratto la presenza dell'eterna
armonia, da voi compiutamente raggiunta. Non è qualcosa di terrestre; non
dico che sia una cosa celeste, ma dico che l'uomo, nella sua forma
terrestre, non la può sopportare. Se durasse più di cinque secondi,
l'anima non resisterebbe e dovrebbe sparire. In quei cinque secondi io
vivo una vita e per essi darei tutta la mia vita, perché ne vale la pena.
[I Demoni, voi. Ili, pp. 192-93).
Non soltanto una concentrazione del pensiero ma come una
integrazione estatica dell'esistenza, certo pagata a prezzo della malattia
che lo consuma.
In altri momenti ancora appare chiaramente il pericolo, ad
esempio nel colloquio con Stavròghin:
— Vecchi luoghi comuni filosofici, sempre gli stessi fin
dal principio dei secoli — ha osservato Stavròghin deluso.
— Sempre gli stessi! Sempre gli stessi dal principio dei
secoli e non ce ne saranno mai altri! — replicò Kirìllov
178
con lo sguardo scintillante, come se quell'idea fosse
quasi una vittoria.
— A quanto pare, voi siete molto felice, Kirìllov! .
— Sì, molto felice, — rispose questi, come se desse la più comune
delle risposte.
— Ma ancora così recentemente eravate afflitto, ce
l'avevate con Lipùtin?
— Hm... adesso non gridò più. Allora non sapevo ancora
di essere felice. Avete mai visto una foglia, una foglia d'albero?
. •
— Ne ho viste.
— Io ne ho veduta poco tempo fa una gialla, con un po'
di verde, marcita agli orli. Il vento la portava. Quando avevo dieci anni,
d'inverno chiudevo a bella posta gli occhi e mi figuravo una foglia verde,
lucente, con piccole venature, e il sole che splendeva. Aprivo agli occhi
e non credevo alla realtà, perché il sogno era troppo bello, e li
chiudevo di nuovo.
— Cos'è, un'allegoria?
— N-no... perché? Non è un'allegoria; una semplice
foglia, solo una foglia. La foglia è bella. Tutto è bello.
— Tutto?
— Tutto. L'uomo è infelice perché non sa essere
felice, soltanto per questo. Tutto sta qui, tutto! Chi lo capirà sarà
subito felice, nello stesso momento...
— E quando avete appreso di essere tanto feHce?
— La scorsa settimana, martedì; no, mercoledì, perché
era già mercoledì, nella notte.
— Ma in che occasione?
— Non ricordo; così, camminavo per la stanza... Non
importa. Fermai l'orologio, erano le due e trentacinque.
— Come simbolo per indicare che il tempo deve
fermarsi?
Kirìllov rimase silenzioso. (I Demoni, voi. II,
pp. 46-47).
Qui è raffigurata simbolicamente nell'atto di fermare
l'orologio l'apparizione dell'" idea" a un'ora, anzi a un minuto
preciso. Dall'insieme appare anche chiaro dove miri questa esperienza: al
raggiungimento cioè di un punto al di là del bene e del male. Ma il
risultato non è che l'euforia mortale di
179
un'indifferenza pseudomistica. Quando Kirìllov parla
della foglia sentiamo in lui una profonda sensibilità;
l'Eros estatico si esprime in quelle parole. Ma qui la
beatitudine è lo spegnersi della sua nostalgica pienezza in un
"nirvana". E certe espressioni involontarie — le più
rivelatrici — il ripetersi di certe frasi come: "Ma questo è
indifferente", "Ciò non ha importanza", "Questo non
importa", sembrano confermare in noi quest'impressione.
Cosa c'è, dunque, in quest'uomo? Al termine di una
conversazione col cronista egli conclude inaspettatamente con sorprendente
espansività: "Dio mi ha tormentato tutta la vita". È una
confessione che viene dal cuore, sfuggita in un momento di abbandono
confidenziale:
Stamane tenevate un contegno così a modo e voi... del
resto ciò è indifferente... voi rassomigliate molto a mio fratello,
molto, straordinariamente, — diss'egli arrossendo;
— sono sette anni che è morto: era più vecchio, molto,
molto più vecchio. (I Demoni, voi. I, pp. 166-67).
In queste parole c'è un po' la chiave del segreto di
Kirìllov e noi per capirlo partiremo anzitutto da quella sua vivezza
delicata e profonda, da quella amorosa e dolente sensibilità che abbiamo
sentito palpitare nelle parole sulla foglia.
Egli ama la vita. Ne ha un desiderio ardente. Ma forse
egli sente la realtà religiosa con una intensità che gli preclude ogni
accesso alla vita. Sentire Dio in questo modo — a nervi scoperti
staremmo per dire — come fa Kirìllov, e nello stesso tempo vivere, non
sembra una cosa possibile.
Ma c'è di più: in quest'uomo l'esperienza religiosa è
tormentata e profonda. Egli sembra rifare
180
sino in fondo tutta la dolorosa e secolare esperienza dei
valori religiosi. Chi dice valore dice significato; l'esperienza dei
valori innalza, arricchisce, perfeziona. Ma nella vita non c'è soltanto
l'aspirazione a elevarsi, a perfezionarsi; c'è anche un impulso -— e
Dostojevskij ne sapeva qualcosa — a tormentare gli altri e se stessi.
Per questo istinto tutto risulta strumento, sia le cose che le persone,
dunque anche i valori; quelli religiosi, anzitutto, perché toccano la
vita nel suo lato più sensibile. Nel corso dei secoli gli uomini non
hanno tatto che tormentarsi vicendevolmente con i valori religiosi e hanno
martirizzato se stessi oltre ogni limite; hanno sentito questo tormento in
tutti gli aspetti dell'esistenza, l'hanno portato fin nelle intime pieghe
dell'anima, l'hanno assimilato nel sangue. Non viene poi il momento in cui
— parlando secondo natura — la misura della sopportazione è colma?
Kirìllov sembra trovarsi a questo punto.
Aggiungiamo ancora che in quest'uomo c'è come un bimbo
che pianga cercando l'affetto di una madre; c'è la nostalgia struggente
di una patria, di una patria in Dio; l'aspirazione a posare il capo nel
grembo di Dio per aver finalmente pace. Ma nella sua natura qualche cosa
si solleva a impedirglielo:
un sentimento che viene dalla sua personalità stessa,
dalla sua coscienza. Forse il lettore conosce il lavorìo devastatore
dello scrupolo, il tormento che una coscienza divenuta ipersensibile
s'infligge infierendo contro la propria vita, in obbedienza, starei per
dire, a una "legge" secondo la quale solo dò che è difficile e
doloroso, solo ciò che annienta deve essere.
Questo scrupolo si è insediato nella coscienza di
181
Kirìllov; esso proviene dalla stessa struttura della sua
persona. Questa, come in tutti i personaggi di Dostojevskji, è fragile,
incerta di se stessa, vile ai propri occhi. Questo scavare inquieto entro
se stessi che si risolve per Ivàn nel titanismo del suo Grande
Inquisitore, si traduce in Kirìllov nel divieto di sentirsi figlio di
Dio. Esso gli impone un atteggiamento di autonomia, un
"contegno". Quanto più forte è il bisogno di avvicinarsi a
Dio, tanto più imperioso è l'ordine di tirarsi indietro.
Tormento indicibile di un amore che si condanna alla
negazione, fino alle conseguenze più amare. E ciò che gli rende così
faticoso il parlare e gli fa disporre le parole in modo strano e apparir
smorto il suo viso è proprio questa costrizione che lo obbliga a tener le
distanze e si esprime al momento della morte nell'irrigidimento spasmodico
della marionetta.
L'oppressione più grave che da questa sofferenza è
l'angoscia.
Kirìllov cerca "le ragioni per cui gli uomini non
osano uccidersi" (I Demoni, voi. I, p. 162; spiegheremo più
avanti il significato di questa idea del suicidio). Il cronista osserva
che di suicidi ne avvengono abbastanza. Ma Kirìllov risponde:
"Pochissimi"; pochi in proporzione al numero che dovrebbe
essere; di quelli, poi, fatti per il vero scopo, pressoché nessuno.
— Due pregiudizi trattengono gli uomini, due cose;
due sole: l'una assai piccola, l'altra assai grande. Ma
anche quella piccola è pure molto grande.
— E qual è la piccola?
— Il dolore...
182
— Ci sono due categorie: quelli che si uccidono per un
grosso dispiacere, o per rabbia, o per pazzia, o per qualche motivo
simile... Essi al dolore pensano poco, e lo tarmo di colpo. Quelli invece
che si uccidono ragionatamente ci pensano molto.
Ma ce n'è forse di quelli che lo fanno ragionatamente?
— Moltissimi.1 Se non ci fossero i
pregiudizi, sarebbero i più, moltissimi, tutti...
— Ma non ci sono forse dei mezzi per morire senza
dolore?
— Immaginatevi, — ed egli si fermò davanti a me, —
immaginatevi una pietra di questa grandezza, come una grossa casa; essa è
sospesa e voi ci siete sotto; se vi cadrà addosso sulla testa, vi farà
male?
— Una pietra grande come una montagna, di milioni
di pùdy? Naturalmente, non proverò nessun dolore.
— Ma mettetevi sotto per davvero e, finché essa
resterà sospesa, avrete una gran paura che vi faccia male.
— Ebbene, e la seconda ragione, quella grande?
— L'altro mondo!
— Cioè il castigo?
— Questo non importa. L'altro mondo; l'altro mondo
semplicemente.
L'uomo sa dunque di doversi uccidere — diremo subito
perché — e in un certo senso lo vuole. Quello che lo trattiene è la
paura del dolore e la paura dell'ai di là. Ma, si osserva, ciò di cui
l'uomo ha paura in fondo non esiste. Se la pietra cade non farà male, il
che significa che l'uomo, se volesse, potrebbe uccidersi senza provare
dolore. Di conseguenza non è la sofferenza della morte che egli in fondo
teme, ma qualcos'altro, la morte, la fine per se stessa. E non il
"castigo" dell'altro mondo — che corrisponderebbe al dolore
per la caduta della
3 Poco
avanti ha detto: « Pochissimi » — ora: « Moltissimi ». Queste
risposte non sono che le reazioni di un uomo tormentato dallo spirito di
contraddizione.
183
pietra — è causa di quest'angoscia, ma "l'altro
mondo; l'altro mondo semplicemente", altro rispetto a questo ma
altrettanto inesistente quanto il dolore per la caduta della pietra.
Dunque ciò di cui l'uomo ha paura è un nulla.
Qual è dunque l'origine di quest'angoscia? Il cronista
osserva:
— L'uomo teme la morte perché ama la vita, e così ha
voluto la natura.
— Questo è vile e qui è tutto l'inganno! — e i suoi
occhi scintillarono. — La vita è dolore, la vita è terrore, e l'uomo
è infelice. Oggi tutto è dolore e terrore. Oggi l'uomo ama la vita
perché ama il dolore e il terrore. E così l'hanno fatto. La vita gli si
presenta oggi come dolore e terrore. (I Demoni, voi. I, pp. 164-5).
Non si tratta dunque di un contenuto, di un oggetto, ma di
una condizione dell'esistenza stessa: "La vita (in se stessa) è
dolore; la vita (in se stessa) è terrore, e l'uomo è infelice".
Dolore e angoscia non sono stati d'animo condizionati da una realtà che
scompariranno con ciò che ne fu la causa, ma rivelazioni di uno stato
dell'esistenza e scompariranno con l'estinguersi di questa.
. L'esistenza assume dunque forma di dolore e di angoscia
e "oggi l'uomo ama la vita perché ama il dolore e il terrore".
Questo "perché" è decisivo:
all'origine non c'è l'amore della vita, ma l'amore del
dolore. Tutta la miseria umana proviene da un pervertimento della vita
affettiva: l'amore del dolore, un'inversione, dunque, del primo volere,
una deviazione all'origine stessa dell'atto dell'esistenza.
Queste riflessioni sono poi trasferite da Kirìllov, che
s'interessa della questione sociale, sul terreno della sociologia: "E
così hanno fatto". "Hanno"
184
— chi? Gli uomini, la vita, così come si è consolidata
e si esprime in tradizioni, istituti, ordini di valori, e viene incontro
al singolo nella massa degli uomini mediocri e senza nome, che è quindi
invincibile.
Il vero garante dei valori attuali, colui che a sua volta
ne è garantito, quintessenza perciò e suprema espressione di ciò che
temporaneamente è valido è Dio, o, più esattamente, "il Dio di
oggi". Kirìllov però ha detto di non credere in Dio e perciò il
cronista domanda:
— Allora quel Dio esiste, secondo voi?
— Non esiste, ma è.
frase che troviamo spiegata dalle parole che seguono:
— Nella pietra non c'è sofferenza, ma nella paura della
pietra c'è una sofferenza. Dio è il dolore che accompagna la paura della
morte.
Dio, dunque, non ha esistenza propria, "non
esiste" ma "è" come "è" un'illusione che per se
stessa è inconsistente poiché sparisce quando ne vien meno la causa e
tuttavia può produrre un effetto psicologico tortissimo. "Dio",
ciò che s'intende quando si parla oggi di Dio, non esiste ma è solo
l'effetto psicologico dell'angoscia di quel "nulla". È il
contenuto doloroso dell'angoscia concretizzato fino a darci la sensazione
di una presenza. È il dolore dell'esistenza ipostatizzato. Dio stesso è
nulla, è il dolore divenuto potenza universale che nasce dall'angoscia di
ciò che non è. Dio è un fan-
185
tasma4 prodotto da un tormento senza oggetto.
Ma come angoscia e dolore sono all'origine di tutto, o, più precisamente,
la volontà del dolore, il desiderio dell'angoscia, che sono, come si è
visto, la prima ragione del perché qualche cosa esiste, così anche anche
quel non-essere che porta il nome di Dio è voluto dall'uomo affinchè lo
tormenti, così come il superstizioso, nell'agonia del terrore, genera il
fantasma che gli da il voluttuoso tormento del brivido.
In principio sta dunque l'amore del dolore e dell'angoscia
— un amore rovinoso per ogni significato, e non soltanto terribile ma
anche ignominioso, e la volontà di esistere in modo opposto a ogni
dignità e purezza5, dunque una perversione dello stesso
atteggiamento esistenziale6.
4
Abbiamo visto più sopra che Dio era per Kirìllov causa di tormento. Il
rapporto con Dio era dunque sentito come un fatto tormentoso. Qui si fa un
passo avanti. L'angoscia è sentita come luogo psicologico « ove » Dio
è. Più esattamente: questa angoscia stessa è sentita come un Numi-nosum.
Il sentimento religioso, come elementare abbandono del finito a Dio, ha
qui per forma l'angoscia. Dio è ciò che da angoscia, tormento, e,
insieme, ciò che seduce e attira.
5 Ogni interpretazione « psicologica » avrebbe
valore secondario, darebbe soltanto l'aspetto fenomenico di questa
realtà. Ogni indagine sulla Libido e sulla volontà di
affermazione, come pure sul meccanismo della loro rimozione e delle loro
manifestazioni patologiche, sarebbe sempre alla superficie. Si tratta qui
invece di una vera e propria inversione dell'atteggiamento essenziale,
della natura e della dirczione dell'atto esistenziale. Secondo Kirìllov
« Dio » è il prodotto di questa inversione e la suggella.
6 Si confronti fin d'ora quanto siano venuti
esponendo col concetto nietzschiano della « grande salute ». Esso
significa la guarigione da quell'originario pervertimento del volere e
tende alla eliminazione totale di quella sofferenza,
186
In Kirìllov, però, dato il modo suo particolare di
costruire e formulare il proprio pensiero, questo stato di cose si esprime
attraverso uno sfumarsi di ciò che lo angoscia, ch'egli pone tra il sì e
il no, l'essere e il non-essere, nell'indeterminato. Esso non ha più un
suo onesto volto chiaro ed aperto; non esiste e tuttavia "è".
Si riduce a esser nulla, ma un nulla dotato di un potere terribile, quello
di generare l'angoscia dopo aver ricevuto dall'angoscia stessa questo
potere7.
Questa situa2Ìone dovrebbe essere sanata. L'uomo dovrebbe
trasferire il suo rapporto con Dio da un piano di immediatezza
naturalistica al piano cristiano. Ciò che lo trattiene col suo
incantesimo è il Dio-natura, che per Sàtov è l'anima del popolo, a-mata
fino al sacrificio supremo, e da Màrja Lebjàd-kina è orgiasticamente
esaltato come la "Gran Madre" e la dionisiaca potenza elementare
del sole. Questa divinità è sentita da Kirìllov in un modo più
spirituale e appunto per questo come insostenibile. Il non-essere che lo
tormenta, il Dio-popolo di Sàtov, la Madre-Terra e il Sole di Màrja
Lebjàd-kina sono la stessa cosa. Sàtov e Màrja sprofondano
ma in un modo che dal punto di vista cristiano sarebbe
addirittura fatale. L'uomo infatti si troverebbe « guarito da Dio » e in
perfetto accordo con se stesso, ma fuori dal raggio della salvezza. La
sua. felicità starebbe in questo, che « Dio non tormenta più »,
essendosi staccato, dissolto, essendo svanito. Dal punto di vita cristiano
è la completa soddisfazione raggiunta nello stato di riprovazione, con la
tecnica dell'ignorarlo pienamente.
7 I processi psichici qui descritti fanno parte
della storia patologica dei rapporti col divino fuori dell'ambito delle
redenzione. Il loro stadio finale sarebbe quello indicato dalle parole di
Mietasene nello Zarathustra: « Dio è morto ».
187
in un abisso di estasi e di terrore insieme, Kirìllov
cerca invece di aprirsi un varco ma senza capire che la salvezza è
possibile solo sulla via della reden-2Ìone, sulla via che conduce a
Cristo. Perciò la sua "sortita" si esaurisce nella sfera donde
anela a evadere e il suo risultato è di portare a compimento ciò di cui
avrebbe voluto liberarsi. L'esperienza dell'essere e di Dio che negli
altri due si risolve in una esaltazione dionisiaca della divinità, in
Kiril-lov assume una forma negativa8.
. Questo stato di non-redenzione potrebbe essere superato
solo con un ritorno a Cristo, un Cristo di cui la Chiesa dovrebbe
preservare la figura da suggestive quanto ingannevoli deformazioni.
Nell'abbandono a Cristo, nella partecipazione — nella fede e nell'amore
— a tutto il suo essere, — anticipo qui dei concetti che spiegheremo
meglio più avanti — la nuda finitezza sentita e vissuta sotto forma di
tormento e di angoscia, verrebbe riscattata e sollevata sul piano della
grazia, accolta nell'esistenza dell'amore, ossia dell'Uomo-Dio e nella
partecipazione alla sua vita. Così, nel progressivo compiersi della
rinascita, nel formarsi della nuova creazione, l'angoscia si dileguerebbe.
L'uomo però dovrebbe essere pronto a rinunciare alla pura
natura, o meglio a ciò che si pone come "natura" ed è invece
qualcosa di ancora "non ben determinato". Dovrebbe essere pronto
ad ac-
8 E il
nirvana di Buddha? Non c'è forse la stessa polarità fra il Dio-Tutto dei
brahmani e il « nulla » dei buddhisti? L'astrazione dal tempo e la calma
sottratta a tutti i contrasti predicate da Buddha non sono forse il
sintomo di una volontà di mantenersi nella non-redenzione come
l'abbandono brahmanico, sul quale il carattere orgiastico di certi culti
politeisti getta, forse, una luce rivelatrice?
188
cettare Colui che è "dei deli". Allora
l'angoscia, nata dall'inganno e generatrice di inganno, si con-vertirebbe
in verità, ossia in umiltà e pentimento, e la grande aspirazione, il
superamento del finito, si attuerebbe nell'amore.
Ma in Kirìllov la stessa figura di Cristo si tinge di
menzogna:
— Chi insegnerà che tutti sono buoni, farà finire il
mondo.
— Chi lo insegnava fu crocifisso.
— Egli verrà e il suo nome sarà Uomo-Dio.
— Dio-uomo?
— No, Uomo-Dio, c'è una differenza. (I Demoni,
voi. II, p. 48).
Questo Cristo che insegna "che tutti sono buoni"
è irreale come quello di Ivàn. Quello vero non ha mai insegnato questo
ma ha detto: "voi, che siete malvagi". Il Cristo di Kirìllov si
perde nell'indeterminato: "Egli verrà e il suo nome sarà
uomo-Dio". Ma questo non è che l'uomo nuovo che ha da venire. Uomo,
Cristo e Dioniso — l'uomo bisognoso di redenzione, il Redentore e
l'elemento demoniaco della natura diventano qui la stessa cosa. Ciò
significa però annullare ogni carattere distintivo, respingere la
redenzione; l'uomo e la natura si chiudono in se stessi e, avendo
proclamato la propria autosufficienza, credono di possedere essi stessi
come Prometeo forza creatrice. Dal punto di vista cristiano, questo
significa il trionfo della finitezza pura 9.
9 La
figura dell'uomo-dio occupa nell'esperienza e nel pensiero di Kirìllov lo
stesso posto del superuomo in quello di Nietzsche. Anche in quest'ultimo
l'uomo. Cristo e Dioniso
189
Dalla vita di Kirìllov il Redentore è assente. Egli ha
acceso, è vero, la piccola lampada e alla domanda fredda e perentoria di
Stavròghin risponde "balbettando" e si giustifica d'averlo
fatto per compiacere la vecchierella. Stavròghin intuisce in lui ancora
un rapporto positivo col Cristo, o per meglio dire, la possibilità di
questo rapporto: "Ma voi non pregate ancora?" E più avanti:
"Scommetto che quando verrò qui un'altra volta, voi crederete già
anche in Dio". Ma Kirìllov respinge quest'ipotesi. Egli ha deciso.
In che senso?
Il tentativo di aprirsi un varco è compiuto proprio là
dov'è il nodo della questione: il modo come vengono concepiti e
sperimentati il finito e l'assoluto che ne è separato e
tuttavia-l'opprime.
Ciò che da angoscia è la morte, l'altro mondo, Dio.
Morte, altro mondo, Dio, sperimentati contemporaneamente sul limitare
dell'esistenza, là dove questa rappresenta se stessa come esistenza
finita, confinante con l'assoluto.
Questo limite è sentito e voluto fin da principio come
finitezza pura e precisamente con un desiderio d'abbandono al quale si
oppone però, come un'ulteriore protesta: l'imperativo di bastare a
se-stessi, di essere autonomi. Non tanto l'inerzia e l'egoismo della
natura si oppongono, dunque, all'abbandono a questo "tu" divino,
riconosciuto come sola verità e l'unico che possa volere il dominio
sull'anima; il cuore, anzi, lo desidera, ma la protesta sorge dallo
spirito, dalla coscienza, là dove
sono fusi implicitamente nello Zarathustra, e,
dichiaratamente, nelle lettere della pazzia.
190
nasce la consapevolezza di una dignità e di una
vocazione, e proprio perché quella vicinanza divina che invita alla
dedizione è sentita come un tormento, un'angoscia, una indegnità. Non si
tratta dunque di semplice pigrizia spirituale o di ripugnanza al
sacrificio ma di una protesta ragionata e consapevole provocata da una
crisi della struttura dell'esistenza e rivolta contro una falsa
immediatezza religiosa che ora diviene intollerabile. Qui l'uomo dotato di
un senso religioso molto vivo cessa di sentirsi creatura naturalmente
subordinata a Dio, a Lui legata nell'unità dell'amore e della grazia, e
si conosce come essere "finito"; definisce criticamente i propri
limiti rispetto ali'" assoluto", di cui sente la minaccia, ed è
pronto anzi ad affrontarlo in una lotta esistenziale. Egli non sente più
Dio davanti e tutt'intomo a sé e in sé, formante con sé una cosa sola,
ma lo sente contrapposto a sé come "colui che è
l'assoluto" e forse come "ciò che è assoluto". La
coscienza conosce qui la propria esistenza come "nuda finitezza"
isolata e Dio come il "puro assoluto" isolato e ne avverte la
potenza come una minaccia alla emancipazione del finito. Poiché
l'abbandono confidente è ardentemente desiderato ma non concesso, il suo
oggetto, con tutta la sua immensa forza di attrazione, si trasforma in un
principio ostile che minaccia di inghiottire l'uomo. Poiché amarlo è
vietato, esso si muta in qualcosa di mostruoso. Poiché infine un rapporto
personale è inattuabile, esso diventa un essere senza volto, senza
sostanza, qualcosa che "non esiste" ma "è"; uno
spettro, un "nulla" che ha il potere di generare orrore e
angoscia e, per usare un'espressione di Martin Heidegger,
"nientifica".
191
L'atto liberatore verrà dalla decisione di trarre da
questa situazione le ultime conseguenze, riconoscendo che l'esistenza è
puramente finita, che nulla al-l'infuori del finito esiste, e vivendo
secondo questa convinzione. Nello stesso momento il senso di una vicinanza
di Dio dovrà necessariamente sparire, Dio cesserà di "esser
lì", l'angoscia e il tormento cesseranno.
Ora l'uomo si sostituisce a ciò che un tempo era chiamato
"Dio" e in cui era riposto il senso dell'esistenza. "Chi
vincerà il dolore e il terrore, quello sarà Dio. E quell'altro
Dio non ci sarà più". Ma l'uomo che apparirà allora sarà un altro
essere:
"L'uomo-dio".
Ma cosa ci darà la garanzia che il riconoscimento del
puro finito sia veramente tradotto in atto esistenziale? Kirìllov non ha
mai voluto "che fossero soltanto parole"; come dimostrerà che
quel riconoscimento non è stato soltanto verbale? E non solo davanti agli
uomini o davanti alla propria coscienza ma davanti all'essere stesso
affinchè esso sia metafisicamente efficiente?
. — Chiunque vuole la suprema libertà deve osare
uccidersi. Chi osa uccidersi ha scoperto il segreto dell'inganno. Al di
là non c'è libertà; tutto è qui e al di là non c'è nulla. Ma nessuno
ancora l'ha fatto nemmeno una volta.
— Di suicidi ce ne furono milioni.
— Ma mai per questo, sempre con la paura e non a questo
scopo. Non per uccidere la paura. Chi si ucciderà
•solo per uccidere la paura, quello diverrà subito
un Dio.
— Non ne avrà il tempo forse, — osservai.
— Questo non importa, — egli rispose dolcemente con
-una tranquilla fiere2za, quasi con disprezzo. (J Demoni,
voi. I, pp. 165-66).
E nel grande colloquio con Vierchovènskij:
192
« Se Dio non c'è, io sono un dio »... « Se Dio esiste,
tutta la volontà è Sua e al di fuori della Sua volontà io non posso far
nulla. Se non esiste, tutta la volontà è mia e io ho l'obbligo di
affermare il mio libero arbitrio.
— Il libero arbitrio? E perché avete l'obbligo?
— Perché tutta la volontà è diventata mia. Possibile
che su tutto il pianeta non ci sia nessuno che, facendola finita con Dio e
credendo nel libero arbitrio, ardisca affermare questo libero arbitrio in
tutta la sua pienezza?... Io' ho l'obbligo di uccidermi perché il punto
supremo del mio libero arbitrio è uccidere me stesso ». (I Demoni,
voi. Ili, p. 231).
L'esistenza, come essa è attualmente, presuppone Dio.
Così come l'uomo è ora, egli può esistere solo se Dio è per necessità
di natura. "Nel suo presente stato fisico, per quanto io ci abbia
pensato su, l'uomo non può in nessun modo fare a meno del vecchio
Dio". Sentir questo quando il periodo del semplice spontaneo
abbandono è superato e sopraggiunge la coscienza critica della propria
finitezza, è appunto la causa del tormento. Pertanto:
— Dio è necessario e perdo deve essere.
— E benissimo.
— Ma io so che Egli non esiste e non può esistere.
— Questo è più giusto.
— Possibile che tu non Comprenda che un uomo con due
idee simili non può continuare a vivere?... Possibile che tu non
comprenda che ci si può uccidere soltanto per questo? Non capisci come
possa esistere un uomo simile, uno solo tra i vostri mille milioni
d'uomini, uno solo che non vuoi più saperne della vita e non la sopporta
più? (I Demoni, voi. Ili, p. 229).
E di nuovo:
— Non capisco come finora l'ateo abbia potuto sapere 193
che non c'è Dio e non uccidersi immediatamente.
Riconoscere che non c'è Dio, e non riconoscere in pari tempo che tu
stesso sei diventato un dio, è un'assurdità, a meno di uccidersi senza
fallo... Per tré anni ho cercato l'attributo della mìa divinità e l'ho
trovato: l'attributo della mia divinità è il Libero Arbitrio! È ciò
con cui posso, sul punto capitale, mostrare la mia ribellione e la mia
nuova terribile libertà. (I Demoni, voi. Ili, pp. 233-34).
Se l'uomo vorrà dimostrare di saper accettare il finito
puro e semplice, dovrà assumerlo in ciò che esso ha di più gravoso.
Egli dovrà fare la cosa più difficile per chi aneli al dono totale di
sé: diventare indipendente, autonomo, sovrano, e diventarlo in un modo
che possa corrispondere alla sovranità di di Dio come dominio sulla vita
e sulla morte, preparandosi a disporre non della vita altrui, ma della
propria vita e farlo liberamente, con la coscienza che 1'"
autorità" qui non c'entra e che "nessun pentimento è
necessario".
Se l'uomo riuscirà a superare la prova spaventosa —
l'ambiguità delle espressioni dice chiaramente che qui si tratta
dell'inconcepibile intreccio di annientamento e nascita, morte e
generazione, orrore e trionfo, atti individuali e vicende del genere umano
e cosmiche — quello che poi verrà è annunciato da frasi come
:"Sarà la fine"; "Non ci sarà più niente";
"Nessuno vorrà più vivere"...
Ma anche:
Chi si ucciderà solo per uccidere la paura, quello
diverrà subito un Dio;
oppure — e qui si rivela tutta l'energia metafisica di
questa concezione:
194
Ci sarà una trasformazione fisica della terra e
dell'uomo. L'uomo sarà Dio e si trasformerà tìsicamente. Anche il mondo
si trasformerà, e si trasformeranno le azioni e i pensieri e tutti i
sentimenti.
Con più energia ancora:
Soltanto questo salverà tutti gli altri uomini e li
trasformerà tìsicamente fin dalla prossima generazione. (I Demoni,
voi. Ili, p. 234).
Diverse formulazioni cercano di illuminare sotto aspetti
diversi l'oggetto del nostro esame e cioè questa esistenza nuova generata
dalla morte della precedente. Essa è pura Enitezza bastante a se stessa
ma trasformata per essersi arrogata gli attributi di Dio ed esser divenuta
essa stessa "Dio". Non nel significato monista dell'Uno-Tutto
infinito, poiché il finito come tale è determinato. Ma essa acquista un
carattere nuovo, numinoso, inconcepibile per la nostra vita e il nostro
pensiero odierni. Questo è in un certo senso anticipato dalla risposta di
Kirìllov alla domanda:
— Ma voi non pregate ancora?
— Io prego sempre. Vedete questo ragno che si arrampica
sul muro, io lo guardo e gli sono riconoscente perché si arrampica.
Il finito subisce così una trasformazione sostanziale:
Appena saprò di esser Dio, lo sarò.
C'è libertà, ma è una "libertà terribile".
C'è la gioia, ma è una "gioia terribile" e
195
il più terribile si è che tutto è così. chiaro e che
si prova una gioia così grande. (J Demoni, voi. Ili, p. 193).
Il nuovo pensiero si esprime anche sotto altra forma nei
due concetti antitetici di "eternità" e "tempo":
— La vita esiste, ma la morte non esiste affatto-
— Vi siete messo a credere nella vita eterna futura?
— No, io non credo m una vita eterna futura, ma in una
eterna quaggiù. Ci sono dei momenti, voi arrivate a certi momenti in cui
il tempo tutt'a un tratto si ferma e diventa eternità.
— Voi sperate di arrivare a un momento simile?
— Sì.
— Ai nostri tempi è un po' difficile, — rispose, pure
senz'ironia alcuna, Nikolàj Vsjevolòdovic, lentamente e come se
meditasse. Nell'Apocalisse un angelo giura che non ci sarà più il tempo.
— Lo so. Là è verissimo, è chiaro e preciso. Quando
ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più,
perché non ce ne sarà più bisogno. È un pensiero molto giusto.
— E dove lo ficcheranno?
— Non lo ficcheranno in nessun posto. Il tempo non è un
oggetto ma un'idea. Si estinguerà nella mente. (J 'Demoni, voi.
II, pp. 45-6).
'Qui appare chiarissimo il carattere peculiare del finito
trasformato, divenuto numinoso: "Non una vita etema futura, ma una
eterna quaggiù". Il "tempo" stesso diventerà
"etemo".
Ed ecco una formulazione diversa nella contrapposizione di
"bene" e "male"; dice Stavròghin:
— A quanto pare, voi siete molto felice, Kirìllov.
— Si, molto felice,
risponde questi. Stavròghin gli fa osservare che 196
egli era recentemente molto afflitto. Al che Kirìllov
risponde:
Allora non sapevo ancora di essere felice.
Questa felicità nasce dunque dalla pura e semplice
esperienza dell'esistenza, e può d'altronde schiudersi al presentarsi di
un solo frammento dell'essere, come nel caso della foglia spinta dal
vento:
— Un'allegoria? — domanda Stavròghin, — N-no...
perché? Non è un'allegoria; una semplice foglia, solo una foglia. La
foglia è bella. Tutto è bello.
E di fronte al dubbio di Stavròghin:
— Tutto?
— Tutto, — conferma; — l'uomo è infelice perché
non sa di essere felice, soltanto per questo. Tutto sta qui, tutto! Chi lo
capirà sarà subito felice, nello stesso momento.
E ancora:
— Tutto è bene, tutto. Chiunque sa che tutto è bene,
è felice... Ecco tutta l'idea, tutta quanta, non ce n'è altra! (J Demoni,
voi. II, p. 47).
Il fatto che tutto sia "bene" appare nel sorgere
di una coscienza nuova. Questa nuova coscienza nasce insieme alla nuova
finitezza. Il suo contenuto, le sue affermazioni non possono essere
comprese e giustificate dal punto di vista dell'essere attuale ma appaiono
con la nuova esistenza; essa non è altro che l'autocomprensione della
nuova esistenza. In questa nuova coscienza la finitezza trasformata
intuisce se stessa; essa vede se stessa al di là della tensione
197
che in precedenza la torturava, al di là del bene e del
male.
Infine quest'esistenza nuova si manifesta come uno stato
di estasi che l'interlocutore avvicina ai minuti che precedono un attacco
epilettico:
Aspettate, vi capitano, Sàtov, dei momenti di eterna
armonia? ... Ci sono dei secondi, essi non vengono che a cinque o sei per
volta, in cui sentite tutt'a un tratto la presenza dell'eterna armonia, da
voi compiutamente raggiunta. Non è qualcosa di terrestre; non dico che
sia una cosa celeste, ma dico che l'uomo, nella sua forma terrestre, non
la può - sopportare. Bisogna trasformarsi tisicamente o morire. È un
sentimento chiaro e incontestabile. Come se a •un tratto sentiste tutta
la natura e diceste; « Sì, questo è vero, questo è bello ». Non è...
non è intenerimento, ma soltanto una gioia. Voi non perdonate nulla,
perché non c'è più nulla da perdonare. Non è nemmeno che amiate, oh è
una cosa più alta dell'amore! Il più terribile si è che tutto è così
chiaro e che si prova una gioia così grande. Se durasse più di cinque
secondi, l'anima non resisterebbe e dovrebbe sparire. In quei cinque
secondi io vivo una vita e per essi darei tutta la mia vita, perché ne
vale la pena. Per resistere dieci secondi, bisogna trasformarsi
tisicamente. (I Demoni, voi. Ili, pp. 192-93).
Sono parole che esprimono e comunicano con grande forza e
chiarezza il senso di un trascendi-mento ontico, di un divenire nuovo lc.
— Io comincerò, e finirò e aprirò la porta. E
salverò gli altri. Soltanto questo salverà tutti gli altri e li
trasformerà tisicamente sin dalla prossima generazione.
10 Si confronti a questo proposito la tesi e tutta
la vicenda inferiore di Così parlò Zarathustra, purché s'intenda
il libro — nel senso voluto da Nietzsche — come mistero e dottrina del
divenire.
198
Più tardi sarà possibile arrivare alla conoscenza
liberatrice senza uccidersi:
— Se lo riconosci, sei un rè, e non ti ucciderai più,
ma •vivrai nella pienezza della gloria. Ma uno, il primo, deve
assolutamente uccidersi, altrimenti che mai comincerà e darà la prova?
Sarò io che assolutamente mi ucciderò per cominciare e per dar la prova.
Io non sono ancora un Dio che per forza e sono infelice, perché obbligato
ad affermare il mio libero arbitrio. (I Demoni, voi. Ili,, p. 234).
Egualmente non è sicuro se tutti debbano uccidere o se
l'atto liberatore di un solo basterà a dare agli altri la coscienza nuova
e a porli al di là del bene e del male, se ogni vita dovrà cessare
" o se comincerà una nuova esistenza. Le affermazioni di Kirìllov
possono giustificare qualsiasi interpre-tazione. Qui il suo pensiero si fa
nebuloso, devia nel fantastico — a meno che questa nebulosità non
voglia esprimere la natura essenzialmente indeterminata del divenire, o,
meglio, lo stato che precede la determinazione, la potenzialità in
movimento.
Comunque sia, si tratta di un atto religioso. Esso darà
una nuova divisione alla storia, così come fin'ora è stata divisa in ante
et post Cbristum natum:
11 A
questo sembra alludere la strana osservazione di Kirìllov quando Sàtov
gli racconta che sua moglie sta per partorire: « Mi spiace tanto di non
saper partorire... cioè, non di non saper partorire, ma di non sapere
come far partorire... o piuttosto... No, io non so dirlo ». Questo può
voler dire soltanto: vorrei riuscire a far capire agli uomini che non ha
senso continuare a generare, affinchè vi rinuncino. Così anche a p. 193
(voi. Ili): « Io credo che l'uomo debba cessar di generare. A che i
figli, a che l'evoluzione, se la meta è raggiunta? Nel Vangelo è detto
che, dopo la resurrezione, gli nomini non genereranno più, ma saranno
come gli angeli di Dio. È un'indicazione ».
199
— Chi vince il dolore e la paura, quello diventerà lui
stesso Dio. Allora una vita nuova, un uomo nuovo, tutto nuovo... Allora la
storia sarà divisa in due parti: dal gorilla alla distruzione di Dio, e
dalla distruzione di Dio a...
— Al gorilla?...
— ... Alla trasformazione fisica della terra e
dell'uomo. (J Demoni, voi. I, p. 165).
È interessante vedere come a questo punto si delinei il
riferimento di Kirìllov a Cristo. Per spiegare il signiEcato del suo atto
egli si richiama a Lui:
— Egli l'ha detto.
E con un entusiasmo febbrile indicò l'immagine del
Salvatore, davanti a cui ardeva una lampada. Pjotr Stjepànovic andò
sulle furie.
— Credete dunque ancora sempre in Lui e avete acceso la
lampada; sarebbe mai « per ogni buon fine »?
L'altro taceva.
Sapete, secondo me, voi credete più forse ancora di un pop.
— In chi? In Lui? Ascolta, — e Kirìllov si fermò
guardando davanti a sé con uno sguardo immobile ed esaltato. — Ascolta
una grande idea: ci fu sulla terra un giorno che nel mezzo della terra
stavano tré croci. Uno di quelli che erano sulla croce credeva al punto
che disse all'altro: « Tu sarai oggi con me nel paradiso ». Il giorno
finì, tutt'e due morirono e se n'andarono, ma non trovarono ne paradiso,
ne resurrezione. Non si avverò quel ch'era stato detto. Ascolta:
Quell'uomo era il più sublime di tutta la terra. Egli costituiva per essa
la ragione di vivere. L'intiero pianeta con tutto ciò che c'è sopra,
senza quell'uomo, non è che follia... Se le leggi della natura non hanno
risparmiato neppur Quello, se non hanno risparmiato neanche il
proprio miracolo, ma hanno obbligato anche Lui a vivere in mezzo alla
menzogna e a morire per la menzogna, vuoi dire che tutto il pianeta non è
che menzogna e poggia sulla menzogna e su una stupida beffa. Vuoi dire che
le stesse leggi del pianeta sono una menzogna e un vaudeville diabolico.
Perché vivere dunque, rispondi, se tu sei un uomo? (J Demoni, voi.
Ili, pp. 232-33).
200
C'è qui
la coscienza di una profonda unione col Cristo. L'argomento "Egli
l'ha detto" ha importanza decisiva. Ma la "grande idea" è
questa: Egli, la ragione di vivere di questa nostra terra, non l'ha potuta
riscattare perché era rimasto nei limiti di questo ordine dell'esistenza.
La natura, la fhysìs attuale, l'esistenza attuale erano più forti
di lui. Un altro perciò deve venire e fare il passo giusto, svelando
l'inganno e sollevando l'esistenza attuale dai suoi cardini. Questi sarà
Kirìllov.
Il pensiero divaga ormai nella mente sconvolta. Non solo,
ma si copre di ignobiltà.
Già il fatto che Kirìllov sia implicato nelle
macchinazioni della banda di Pjotr Vjerchovènskij e sia in contatto con
lui getta sulla sua figura una luce sinistra. Che egli poi subisca la
regia di questo essere mostruoso al punto di lasciarsi condurre da lui
alla morte non è soltanto terribile ma anche vergognoso. Dal punto di
vista di Dostojevskij, tuttavia, questo non basterebbe a giustificare la
nostra perplessità, essendo noto che le verità più luminose risplendono
nei suoi libri dai fondi più torbidi. Ma pur ammettendo questa
dialettica, è ben diverso che un Fjòdor Karamàzov, un Marme-làdov, un
Lèbedev, dicano cose profonde e Kirìllov sacrifichi a un Vjerchovènskij
l'atto supremo della sua vita, nel quale, come sappiamo, dovrebbe
compiersi la catastrofe religiosa dell'esistenza con la scomparsa degli
antichi valori e il costituirsi di un nuovo senso della vita. Questo atto
significa nello stesso tempo — non occorre analizzare troppo per
accorgersene — un profondo abbandono erotico. Si tratta di Dio e del
più intimo dono di sé, su cui il pudore dovrebbe stendere un velo.
Invece tutto
201
è così di un'urtante impudicizia 12.
Sacrificare a tanta bassezza un segreto intimo e doloroso fa. l'effetto di
una vera prostituzione. Forse Kirìllov, da parte sua, risponderebbe che
tutto è indifferente. Ma ciò che è abbietto non dovrebbe lasciare
indifferenti.
E tutto si conclude poi in un finale odioso, grottesco e
insieme terribile.
Kirìllov sente che la sua ora è venuta. Pjotr
Vjerchovènskij, che intende servirsi di lui per coprire le proprie
sporche trame, non lascia la presa. Egli vuole che Kirìllov dichiari per
iscritto, dato che la cosa non può essergli che indifferente, di aver
ucciso Sàtov. Dapprima Kirìllov si rifiuta, poi all'improvviso, in modo
affatto inatteso e come se fosse ispirato, grida:
— Dettami, firmerò tutto. Firmerò anche che ho ucciso
Sàtov. Dettami finché questo mi diverte. Io non temo l'opinione degli
schiavi arroganti! Vedrai anche tu che ogni mistero sarà chiarito! E tu
sarai schiacciato... Io credo!
Pjotr Stjepànovic, cogliendo a volo il - momento e
trepidando per la riuscita, si slanciò e in un batter d'occhio gli porse
il calamaio e la carta e si mise a dettargli.
« Io, Aleksjèj Kirìllov, dichiaro... ».
— Alt! non voglio! A chi dichiaro?
—Kirìllov tremava come se avesse la febbre. Quella
dichiarazione e non so che idea venutagli subitamente al riguardo parevano
averlo a un tratto assorbito tutto quanto, come una via d'uscita verso cui
si fosse impetuosamente slanciato, sia pure per un solo istante, il suo
spirito tormentato.
— A chi dichiaro? Voglio sapere a chi.
— A nessuno, a tutti, al primo che leggerà. A che
precisare? Al mondo intiero.
12 Per il nostro modo di sentire i personaggi di
Dostojev-skij perdono troppo sovente ogni ritegno. Anche questo è
probabilmente in rapporto con la fragile struttura della loro
personalità.
202
— Al mondo intiero? Bravo! E senza esprimere pentimento.
Non voglio pentirmi; e non voglio rivolgermi alle autorità!
— Ma no, non occorre, al diavolo le autorità! Ma
scrivete dunque, se dite sul serio... — gridò nervosamente Pjòtr
Stjepànovic.
— Aspetta! Io voglio fard su, in alto, un
muso con la lingua fuori.
— Eh, sciocchezzé! — si stizzì Pjòtr Stjepànovic,
— anche senza disegno si può esprimere ciò soltanto col tono.
— Col tono? Va bene. Sì, col tono, col tono. Dettami
col tono!
« Io, Aleksjèj Kirìllov, — dettò Pjòtr Stjepànovic
con voce ferma e imperiosa, chino sopra la spalla di Kirìllov e seguendo
ogni lettera che questi tracciava con mano tremante per l'agitazione, —
io, Kirìllov, dichiaro che oggi... » (J Demoni, voi. Ili, pp.
235-36).
Kirìllov finisce di scrivere tutto, ma Vjerchovèn-skij
s'accorge che non ha ancora firmato:
— Perché sbarrate gli occhi, firmate!
— Io voglio insultarli... — mormorò Kirìllov, però
prese la penna e firmò. — Io voglio insultarli...
— Firmate: Vive la république, e basta.
— Bravo! — urlò quasi Kirìllov dall'entusiasmo. — Vive
la république démocratique sociale et universelle ou la morti...
No, no non così. Liberto, égalité, fraternité ou la mort. Ecco,
così va meglio, così va meglio, — disse scrivendo con voluttà quelle
parole sotto la propria firma.
— Basta, basta, — ripeteva Pjòtr Stjepànovic.
— Aspetta, aspetta ancora un momento... Sai, firmerò
ancora una volta in francese: "de Kirìlloff, gentilhomme russe et
citoyen du monde'. Ah, ah, ah! — scrosciò in una risata. — No,
no, no, aspetta, ho trovato la migliore di tutte, eureka: gentilhomme
séminariste russe et citoyen du monde civilisé! Ecco quel che è
meglio di ogni... — ed egli balzò su dal divano, afferrò con rapida
mossa la rivoltella sulla finestra, corse nell'altra stanza e chiuse con
cura la porta dietro di sé. (I Demoni, voi. Ili, p. 237).
203
Poi tutto è silenzio.
Segue ora una scena terrificante: Vjerchovènskij afferra
la maniglia della porta che mette nella stanza attigua, sta in ascolto,
apre:
Qualcosa si mise ad urlare e si slanciò verso di lui. Con
tutte le sue forze egli sbattè l'uscio e ci si appoggio nuovamente, ma
tutto era già tornato nella calma: di nuovo un silenzio di morte (pp.
238-29).
"Qualcosa", questo neutro!
Vj'erchuvènskij è lì immobile e si domanda se
Kirìllov si ucciderà... "L'infamia è ch'egli in Dio ci
crede più di un pop..."'. Infine si fa coraggio e entra nelk
stanza.
Contro la parete opposta alle finestre, a destra
dell'uscio, c'era un armadio. A destra di questo, nell'angolo formato
dall'armadio e dal muro, stava in piedi Kirìllov, e stava in una positura
paurosamente strana: immobile, rigido, con le braccia tese lungo i
fianchi, la testa sollevata e la nuca appoggiata con forza al muro,
proprio nell'angolo, pareva che volesse farsi piccino e nascondersi.
Secondo ogni apparenza, egli si nascondeva, ma non si riusciva a crederlo.
Pjotr Stjepànovic si trovava un po' di sbieco rispetto all'angolo e non
poteva osservare che le parti rilevate della figura. Egli non si risolveva
ancora a fare un passo verso sinistra per esaminare tutta la persona di
Kirìllov e risolvere l'enigma. Il cuore prese a battergli forte... E
all'improvviso s'impadronì di lui una vera frenesia: egli balzò di
dov'era, gettò un grido e, pestando coi piedi, si slandò verso il punto
terribile.
Ma quando fu vicinissimo si fermò di nuovo come
inchiodato, ancor più compreso di orrore. Lo colpì soprattutto il fatto
che, non ostante il suo grido e il suo balzo furioso, la figura non si era
mossa, non aveva bucicato in nessuna sua parte: come impietrita o fatta di
cera. Il pallore del suo volto aveva del soprannaturale, gli occhi neri
204
erano del tutto immobili e guardavano verso un punto dello
spazio. Pjotr Stjepànovic gli passò la candela sul viso di su in giù in
su, illuminandolo da tutti i lati ed esaminandolo. A un tratto notò che
Kirìllov, benché guardasse chi sa dove dinanzi a sé, lo vedeva però
con la coda dell'occhio e fors'anche l'osservava. Gli venne allora l'idea
di avvicinare la fiamma al viso di « quel mascalzone » e di scottarlo
per vedere che cosa avrebbe fatto. Improvvisamente ebbe l'impressione che
il mento di Kirìllov si muovesse e che un sorriso di scherno gli corresse
sulle labbra, quasi l'altro avesse indovinato il suo pensiero. Egli si
mise a tremare e, dimenticandosi, afferrò Kirìllov con forza per una
spalla.
Allora successe qualcosa di tanto fantastico e rapido che
Pjotr Stjepànovic non riuscì poi mai a mettere un po' d'ordine nei suoi
ricordi. Appena egli ebbe toccato Kirìllov, questi inchinò bruscamente
il capo, facendogli con una capata saltar via la candela di mano; il
candeliere ruzzolò tintinnando sul pavimento e la candela si spense. Nel
medesimo istante egli sentì un terribile dolore al mignolo della sua mano
sinistra. Si mise a gridare e più tardi si sovvenne soltanto di avere
fuori di sé picchiato per tré volte con la rivoltella a tutta forza
sulla testa di Kirìllov, che era attaccato a lui e gli aveva morsicato il
dito. Infine liberò il dito e corse a precipizio fuori della casa,
cercando la strada nell'oscurità. Dalla stanza lo inseguirono delle
terribili grida:
— Subito, subito, subito, subito!... (I Demoni,
voi. Ili, pp. 239-242).
La scena non ha bisogno di commento: nell'orrore
dell'angoscia suprema si rivela d'un tratto un'altra vita, ma non certo
quella dell'uomo nuovo, redento, bensì quella raccapricciante dell'uomo
meccanico, della marionetta: e davanti a noi c'è solo un automa che
abbassa la testa e morde.
205
Il finito e il nulla
Tutto questo mondo di pensieri e di impressioni da noi
testé descritto, potrebbe esser giudicato e messo da parte come follia
religiosa. Ma se già ogni malattia ha un suo significato, vi sono poi
alcune manifestazioni patologiche in cui esso va molto al di là
dell'individuo in cui si manifestano. A questo proposito c'illumina il
parallelismo che corre tra la figura di Kirìllov e il mondo delle
rappresentazioni dello Zarathustra di Nietzsche.
Esso è così profondo e completo fin nelle più segrete
intenzioni dei due scrittori che il personaggio dostojevskiano viene a
costituire come un vero e proprio commento e una esemplificazione figurata
della filosofìa o meglio del messaggio di salvezza di Zarathustra. L'idea
fondamentale, non che "Dio" non esista ma che debba esser
soppresso affinchè l'uomo possa vivere, è comune a entrambi. In entrambi
troviamo l'autoliberazione dall'angoscia e dal risentimento
nell'affermazione del finito e della pura immanenza, la lotta contro una
volontà segreta di tormento, la consapevolezza della potenzialità
dell'uomo e della possibilità, in-sita nella sua natura, di trasformarsi
in un nuovo essere, la definizione di questo essere come qualche cosa di
tisicamente superiore trasformato ontica-mente, per cui l'uomo verrebbe ad
assumere gli attributi di Dio; finalmente, il pensiero che questo passo
debba condurre, attraverso l'orrore della distruzione, ad una libertà e
ad una gioia terribili per l'uomo d'oggi... tutto questo, derivante dalla
certezza inferiore che l'ora del finito sia venuta, non solo in un senso
immenso, religioso, ma anche in
206
un senso assolutamente reale e immanente al mondo. In
tutti e due i casi, poi, non si tratta di accostamenti causali o di
sentimenti incontrollati ma di una situazione esistenziale nettamente
definibile che si traduce in un atteggiamento senza equivoci e può
esprimersi in una costruzione concettuale ben determinata.
Per tutto il secolo decimonono si svolge l'attività
creativa di tré uomini che esteriormente sono rimasti estranei l'uno
all'altro — solo uno di essi ha conosciuto, ma parzialmente, l'opera di
uno degli altri due — ma rivelano un'affinità profonda nella struttura
del pensiero e nella sensibilità. Sono i tré grandi
"romantici" Soren Aabye Kierkegaard, Fjòdor Michailovic
Dostojevskij e Friedrich Wilhelm Nietzsche. Nell'opera di questi tré
scrittori l'uomo moderno — ossia l'uomo quale ci appare a partire dal
quindicesimo secolo — trae le ultime conseguenze dalla sua posizione.
L'epoca moderna è messa in liquidazione e nello stesso tempo sono
anticipati aspetti del tempo nuovo che ancora non ha nome.
A conclusione del passato e ad introdurre l'epoca nuova
sta l'affermazione del finito come valore assoluto.
Per il medioevo — come già prima per l'antichità —
il mondo era finito, ma lo era secondo una figura e questa figura era
perfetta: la sfera. Il mondo era creato da Dio e Dio lo avvolgeva e
penetrava di sé. Tutto nel mondo era finito ma recava l'impronta
dell'assoluto poiché era simbolo di Dio, rappresentazione concreta, nel
tempo, di una realtà e di un significato eterni. Partecipava così
dell'eterno e già per questo era più che mera
207
finitezza. Tutto in questo mondo era ordinato
"assolutamente", ossia simbolicamente, secondo la forma della
sfera col suo centro e il suo raggio e tutto era disposto in gerarchle,
quelle delle sfere, della piramide, ecc. Ma l'uomo era somma, centro,
colmine del creato, sacerdote della creazione di fronte a Dio".
A partire dall'età moderna, il mondo comincia ad
estendersi, diventa illimitato e l'esperienza im-- mediata, ingenua, è
impotente a comprenderlo. Vien meno così il senso della presenza
vigilante di Dio intorno a ogni cosa, la certezza di essere in Lui come in
un gran mare di bontà e di potenza. Centro e raggio della sfera vanno
perduti e così pure l'ordine e il luogo gerarchico. Le cose perdono a
loro volta il loro carattere simbolico, il loro accento d'eternità.
Se il mondo, dunque, diventa illimitato, le cose invece
diventano puramente finite; questi due fatti sono in relazione e portano
alle stesse conseguenze.
La consapevolezza che il mondo sia senza limiti crea le
prime condizioni psicologiche per il suo distacco da Dio. Alla prima
impressione Dio appare depotenziato. Per l'esperienza immediata, egli
viene a perdere di fronte al mondo valore di realtà, imponenza e forza di
significazione. In compenso questo mondo, apparentemente finito,
apparentemente assoluto, comincia a sentirsi autosumciente. Ma poiché al
sentimento, educato nel rapporto col divino, l'autosufficienza non sembra
da principio possibile che per l'"Assoluto", ecco inserirsi un
ele-
13
Nella sua forma più pura, perché vista da uno spirito •che sta già
sul limitare di due epoche, questa immagine dell'ordine del creato appare
in Dante.
208
mento intermedio: la "falsa infinità" della
continuità, indefinita, unita alla "falsa assolutezza" del
matematicamente necessario nella scienza e nella logica. Qui la coscienza
nascente dell'autonomia dell'esistenza terrena trova insieme un sostegno e
un rivestimento protettivo.
Contemporaneamente si sviluppa però una sensazione
particolare, staremmo per dire qualificata, del finito: la sensazione
d'essere meramente finito. In conseguenza del depotenziamento di Dio
l'uomo sente che il senso del suo esistere non gli viene più direttamente
da Lui. Abbandonato all'indefinito insieme a tutte le cose, egli avverte
con un senso di terrore — e nei frammenti di Pascal possiamo
ripetere quest'esperienza — il suo essere finito minacciato da ogni
parte; l'avverte con terrore ma, insieme, come uno stimolo a difendersi e
si irrigidisce e prende saldamente posizione nella sua realtà finita.
Incomincia con l'arrogarsi gli attributi di Dio, ponendo
anzitutto se stesso come "assoluto". Come si pone infatti il
soggetto nella filosofia moderna? Non altrimenti, in fondo, che
identificando l'assolutezza relativa della validità ideale insita in ogni
essere e in ogni atto dello spirito con l'indipendenza nell'essere e
l'altezza suprema del, valore di Dio, pensando cioè il soggetto finito
secondo la misura dell'essere divino. Viene così a costituirsi
l'autonomia categoriale a cui tosto s'aggiunge quella del contenuto: uno
dopo l'altro i piani dell'esistenza umana si costituiscono in valore
autonomo. Il concetto moderno di cultura ne attua la sintesi e assieme
l'eredità del regno di Dio, incarnandosi magari anche nello Stato.
209
Nello stesso tempo si afferma la coscienza della pura
finitezza. Dapprima essa viene conosciuta come stato di abbandono, di
contingenza, di precarietà. Ma poi l'uomo scopre proprio nel fatto
ch'egli è un essere finito una nuova intensità e preziosità
dell'esistenza e una nuova base etica: la moderna
"responsabilità". Così il finito si affida a se stesso,
diventa autonomo. Esso è cresciuto sotto la protezione di quell'"
assolutezza" logica, etica, culturale. II passo decisivo si compie
appena essa diventi superflua, appena il finito non abbia più bisogno di
legittimarsi mediante quella pseudo-assolutezza, e osi sentire e affermare
praticamente questa nuova verità: il finito come tale basta; l'assoluto
non esiste. Ora non si tratta più soltanto di trasferire il Dio vivente
nel puro assoluto, facendone un'astrazione, e di affermare di fronte a
questa il valore del finito, e nemmeno di porre il carattere assoluto del
finito. Questi non erano che gradi preliminari. Una cosa ora è dichiarata
e anzitutto sentita: solo il finito è. Ciò che un tempo era chiamato
"assoluto" non è in realtà che un attributo del finito. Ciò
che un tempo era chiamato "Dio" è una dignità, un
atteggiamento, una particolare condizione di vita che si propongono come
fine allo stesso finito.
Il passo decisivo compiuto in questo senso consiste in
ultima analisi nella scelta di una finitezza radicale ed esclusiva, scelta
che noi potremmo definire come "finitismo titanico". A misura
che questo passo si compie, il finito stesso diventa "divino" o,
più esattamente, "profanamente sacro". Siamo qui su un piano
che trascende il significato della contrapposizione moderna "Dio e
mondo".
210
Ci troviamo così sul limitare di un'epoca nuova e il
presentimento di questo evento nell'opera di quei tré uomini, ne
costituisce il lato profondamente inquietante.
Il "paradosso assoluto" di Kierkegaard e la
dot-' trina dell'uomo e dell'esistenza di Nietzsche hanno origine dalla
stessa esperienza esistenziale. Kierkegaard riesce a superarla
cristianamente, sebbene ci dia talvolta l'impressione di servirsi di
Belzebù per scacciare Satana. Infatti, a parte la sua intenzione
cristiana, in che cosa si distingue ancora sostanzialmente il suo concetto
del "Dio del tutto differente" dal "nulla" di
Nietzsche e di Kirìllov? Un pensiero orientato diversamente non potrebbe,
raccogliendo l'eredità di Kierkegaard, trame una filosofia della
finitezza disperata?
La medesima situazione di fondo si ripete sostanzialmente
per Nietzsche, con la differenza che questi afferma dove Kierkegaard nega,
e viceversa. Questa ambivalenza rivela l'unità dialettica della
posizione.
E ancora una volta la stessa situazione esistenziale
appare in diversi personaggi di Dostojevskij, soprattutto nei Demoni.
Kirìllov ne è la manifestazione più potente. Nella sua iperpensibilità
ed esaltazione patologica si rivela ciò che questa situazione ha di
terribile. Oltre a una profonda esperienza di Dio, vissuta su un piano di
naturalità immediata come entro un cerchio magico e dunque senza riscatto
cristiano, c'è qui un'esperienza dell'esistenza già pervenuta al punto
in cui il finito sembra prossimo ad emanciparsi totalmente. Perciò quella
immediatezza religiosa si traduce in tormento. Occorrerebbe trasformarla
in senso cristiano, conver-
211
tire l'immediatezza naturalistica nella concezione
cristiana di un Dio personale, l'indipendenza del finito, prossima ad
affermarsi, nella schietta maturità responsabile cristiana, il falso
rapporto tra finito ed eterno in quello genuino indicato nel mistero
cristiano dell'incarnazione e della grazia. Invece qui tutto ciò che è
cristiano è respinto, il finito entra in rivolta, il rapporto religioso
naturale è avvelenato e si allea, per liberarsi, all'esaltazione del
finito: "Dio" deve scomparire e il finito esser dichiarato unica
realtà, nella speranza che l'angoscia esistenziale si plachi e si
risvegli l'umanità vera, degna di questo nome. In verità ciò che si
annuncia è il finito nudo e spoglio, senza valore simbolico, senza luogo
nello spazio, non più avvolto nella sollecitudine vigilante di Dio;
intorno ad esso si distende invece il nulla che "nientifica".
La teoria e la pratica medico-pedagogica della
psicoanalisi freudiana e soprattutto il bolscevismo come potenza
storico-politica, dimostrano che qui non si tratta più soltanto di
filosofìa pura. Ma noi ci domandiamo quali abissi di angoscia si
spalancheranno se l'uomo non riuscirà a proteggersi in una insensibilità
ancor più terribile dal punto di vista cristiano. In questo caso l'uomo
diverrebbe a tal punto padrone dei meccanismi dell'esistenza da potersi
liberare dall'angoscia come mediante un'" operazione
chirurgica". Questo potrebbe avvenire per via pedagogica e medica,
mediante "condizionamento" dell'individuo e della specie, per
via biologica, politica e culturale, con misure psicologiche o interventi
chirurgici. Avremmo così l'uomo pienamente emancipato, finalmente
tranquillo nella sua finitezza pura. Ma dal punto di vista cri-
212
stiano nessun tormento della creatura angosciata potrebbe
eguagliare l'orrore di questo stato.
Questo evento non si può identificare semplicemente con
la colpa e l'apostasia. La colpa e la apostasia stanno nel fraintendimento
volontario e nell'abuso di una trasformazione storica della situazione
esistenziale dell'uomo, di per sé ancora "indifferente" e
anteriore alla decisione morale. Colpa è, solo quando si da un giudizio
cieco ed errato su questa nuova situazione e quando l'egoismo, lo
orgoglio, la sete di dominio e la viltà si servono di questi rivolgimenti
storici, di questi spostamenti di valori e di esigenze per giustificarsi.
La possibilità che quanto abbiamo descritto si verifichi
mette la coscienza cristiana davanti a responsabilità e doveri
gravissimi: responsabilità di discernimento e di giudizio, dovere
d'intervenire per un'opera di salvezza e di ricostruzione. Vi abbiamo già
accennato e non è questo il luogo di insistervi.
Stavròghin
È stato osservato che i grandi romanzi di Dosto-jevskij
sono diversamente costruiti. Due di essi:
Delitto e Castigo che descrive il periodo decisivo
nello sviluppo di un giovane e I Fratelli Karamàzov frammento
della storia di una famiglia, sono costruiti, potremmo dire, linearmente.
Difficile sarebbe in questo caso parlare di genere epico data
l'interiorità e il carattere riflesso della vicenda;
manca troppo inoltre uno sviluppo progressivo
213
degli avvenimenti e soprattutto uno sfondo storico mosso e
rilevato. Abbiamo tuttavia sempre una vicenda con un inizio e un seguito
sicché è possibile rappresentarsi la forma di questi romanzi sotto
l'immagine della linea, sebbene alquanto si-nuosa e attraversata in più
punti da fasci di linee minori.
Altro è per Vidiota, i Demoni e V
Adolescente. Per la forma deQ.'Idiota si è usata l'immagine
del vortice in cui tutto s'infrange. I Demoni ci danno
l'impressione di una intera provincia dell'esistenza umana assalita da un
processo di distruzione. Nello Adolescente infine, un nodo
aggrovigliato poco alla volta si spiana; da tenebre piene di fermenti si
passa successivamente a una luce chiarifica-trice. Qui si potrebbe parlare
di processi che si svolgono su una superficie o meglio in uno spazio.
A questi diversi modi di composizione corrispondono delle
differenze nella struttura intima dei personaggi principali. Anche questo
è già stato osservato. Alcuni agiscono personalmente, urtano contro un
avversario e lottano con lui; altri, invece, formano il centro
d'attrazione intorno a cui gravita l'azione di personaggi minori. Sono
figure di questo secondo tipo che determinano in alcuni romanzi la
struttura che abbiamo definita ricorrendo all'immagine di un tessuto, o di
una superficie o di uno spazio: il principe Myskin ìie[V Idiota, Stavròghin
nei Demoni, Vèrsilov nelF'Adolescente.
Questi uomini in senso stretto non agiscono di propria
iniziativa, determinano piuttosto l'agire altrui. Essi non vanno a cercare
nessuno, ma esercitano su tutti una profonda attrazione. Sembrano non
chiedere nulla per sé e tuttavia portano negli
214
altri un grave turbamento e il destino di questi ultimi si
compie sempre in rapporto a loro. Gli uomini si notano, s'interessano di
loro, cercano la loro amicizia, vorrebbero conquistarli, ne sono toccati,
scossi, annientati — senza che essi, in fondo, l'abbiano voluto.
All'interno di questa somiglanza tipica sussistono però
profonde differenze nel modo come si esercita questa influenza, da parte,
esempio, di Stavrò-ghin o del principe Myskin. Di quest'ultimo parleremo
nel capitolo seguente; in lui si manifesta una realtà superiore e il
rapporto che lo lega agli altri uomini è direttamente determinato dal
fatto religioso. Anche in Stavròghin opera una forza religiosa, ma di
natura affatto diversa. Alla fine del-Vìdiota il vortice ha
inghiottito tutto e le rive sono cosparse di rottami. Ma un fatto si è
compiuto di immenso significato, una chiarificazione è avvenuta e
nell'aria c'è un'indefinibile ma sicura speranza. Invece alla fine dei Demoni
non rimane che un mondo devastato pieno di brutture, uno squallore
desolato. La ragione di tutto questo è nella figura di Stavròghin.
Il caso neIT'Adolescente è ancora diverso.
Vèrsi-lov è un personaggio ambiguo, mezzo scettico mezzo credente,
liberale e aristocratico a un tempo. È un carattere instabile, una natura
profondamente contraddittoria, come se in lui agissero due persone
distinte, che creino due diversi destini. Prevale tuttavia una forza
benefica e ristabilisce l'unità minacciata. La sorte, inoltre, gli è
favorevole circondandolo di persone che gli vengono in aiuto:
suo figlio, l'Adolescente, e soprattutto la sua compagna.
La forza calma e raccolta di Sònja riesce a
215
guarire un'anima in pericolo di disgregarsi. Ella crea
proprio l'atmosfera nella quale Vèrsilov ritrova la salute. Ma ciò è
possibile perché in lui stesso è la predisposizione favorevole; la
conclusione delle sue vicende non è che l'estrinsecazione delle energie
operanti nel suo intimo.
Chi è dunque l'uomo intorno a cui si agita il mondo dei Demoni?
Che cosa c'è in lui perché questo mondo possa essere come sappiamo e
finire come finisce?
Sembra infatti che il destino dei personaggi del romanzo
sia fatalmente legato al loro incontro con Stavròghin.
Sua madre, Varvàra Petròvna Stavròghina, è una donna
inquieta, ambiziosa, legata a Stjepàn Vjer-chovènskij da un'amicizia
singolare, che non vive per il suo "principe". Non lo capisce,
lo teme;
ma lo idolatra e, alla fine, rimane atrocemente delusa.
La sua figlia adottiva, Darja Paviova Sàtova, sorella di
Sàtov, spiritualmente affine alle due Sònje, ama Stavròghin. Gli ha
dato tutto e spera di salvarlo col suo sacrificio. Ma è più debole di
Sònja, madre dell'Adolescente, non è che una dolce infermiera che si
sacrifica senza essere troppo sicura di stessa. Stavròghin invece è di
ben altra potenza nel male che non sia Vèrsilov. Perciò ella fallisce e
a un certo punto scompare.
Lizavèta Nikolàjevna Tuscina è una di quelle figure di
donne appassionate, orgogliose ma interior-mente dolorosamente scisse,
sorella spirituale della Katjerìna Nikolàjevna dell''Adolescente
e della Katje-rìna Ivànovna dei Karamàzov.
216
Anch'elio, che pure si sente al sicuro vicino al fedele ed
onesto Mavrikij Nikolàjevic Dròsdov, ama perdutamente Stavròghin. Nella
sua disperazione finisce col darsi a lui e si accorge così della sua
insormontabile freddezza. Tutto crolla allora intorno a lei e il fabbro
che durante l'incendio provocato per far scomparire il cadavere di Màrja
Lebjàdkina, moglie segreta di Stavròghin, l'abbatte senza sapere quello
che fa, non è in fondo che lo strumento di un destino misericordioso.
Quanto a Màrja Lebjàdkina, la povera demente, nel cui
corpo deforme palpita l'anima di una principessa romantica e quella di un
fanciullo spaurito e di una visionaria, che nella sua fantasia ha fatto di
Stavròghin un eroe luminoso, alla fine deve pure accorgersi ch'egli è
una falsa grandezza. Di lei che sin da principio è vittima di un inganno
diremo ancora perché Stavròghin l'abbia sposata.
L'ultima donna di cui Stavròghin ha distrutto la vita è
la sposa di Sàtov, Maria Ignàtjevna Sàtova. Stavròghin l'ha sedotta e
poi subito abbandonata. Ora ella ritorna aspettando un bimbo. In pagine
commosse, di una patetica bellezza, è narrato com'el-la dia alla luce la
sua creatura, come Sàtov, il sognatore esaltato, ritrovi assistendola,
poche ore prima di essere ucciso dai sicari della banda, la via della vera
realtà che è pienezza d'amore.
Vengono poi gli uomini: di Kirìllov si è già detto.
Stavròghin ha esercitato 'su di lui un'influenza decisiva ed egli lo ama.
"Non dimenticate cosa siete stato per me!" gli dice una volta.
Ma il seme deposto da Stavròghin da frutti terribili.
Altrettanto evidente è la devastazione prodotta nello
spirito di Sàtov, lo stesso a cui Stavròghin
217
ha sedotto la sorella e preso la moglie. Stavròghin che
personalmente non crede in niente — ne in Dio e nemmeno "nel popolo
russo" — ha alimentato in lui, per il puro gusto dell'esperimento,
l'esaltazione dell'idea di popolo, dove "popolo" e
"dio" vengono fusi in una sola unità pagana e demoniaca. Ma,
appena Sàtov lo invita alla resa dei conti, egli declina ogni
responsabilità e abbandona il disgraziato a se stesso.
Viene poi il personaggio più "diabolico", Pjotr
Vjerchovènskij, figlio di Stjepàn, sradicato senza scrupoli e di un tale
cinismo nella sua bassezza che è difficile trovare nell'opera di
Dostojevskij chi gli assomigli. Pure anche quest'uomo ha una corda segreta
che vibra: è la fede bizzarra nel "regno" fantastico di un
re-messia — da attuarsi con i mezzi più scellerati — il cui zarevic
ancora sconosciuto dovrà essere Stavròghin...
Intorno a lui i satelliti: il capitano Lebjàdkio che egli
disonora e di cui provoca la morte; Fèdka, il forzato, che è spinto da
lui a uccidere; Lipùtin, Ljàmsin e tutti gli altri....
A questi uomini sovrasta Stavròghin con la sua potenza
misteriosa. Chi è dunque costui?
Cominciamo dallo strano esempio del V capitolo (voi. I)
intitolato: II serpente onnisciente. Nikolàj Vsjevolòdovic
Stavròghin torna dopo una lunga assenza alla casa paterna. Qui si è
raccolta ad attenderlo intorno a sua madre una strana compagnia:
c'è Lizavèta, in preda a una profonda emozione, poi, di
ritorno dalla Svizzera dov'è stata con Stavròghin, Darja, dietro a cui
sta — sempre tenuta in ombra — la vicenda di quelle giornate miste-
218
riose; la terza donna, infine, è Màrja Lebjàdkina che
dopo la messa si è presentata alla madre di Stavròghin e le ha fatto
capire, con discorsi in apparenza sconnessi ma in realtà perfettamente
giunti a segno, di essere la moglie di Stavròghin. L'atmosfera è satura
di eccitazione tanto aggrovigliata, com'è possibile soltanto nei romanzi
di Dostojevskij — bisognerà pur decidersi a tradurre tutto quanto in
termini europei — ed a questo punto entra Stavròghin.
Come già quattro anni addietro, quando lo avevo veduto
per la prima volta, io rimasi allora colpito fai dal primo sguardo che gli
diedi. Io non l'avevo dimenticato per nulla; ma pare che ci siano delle
fisionomie che sempre, ogni qualvolta vi compaiono dinanzi, portano con
sé qualcosa di nuovo, che non avevate ancora notato in loro, benché le
aveste già incontrate cento volte. All'apparenza, egli era sempre quello
di quattr'anni prima: altrettanto elegante, altrettanto grave, era entrato
con la stessa gravita di allora, era perfino quasi altrettanto giovane. Il
suo leggero sorriso era convenzionalmente carezzevole come allora e come
allora soddisfatto, il suo sguardo altrettanto severo, pensoso e come
distratto. Insomma pareva' che ci fossimo lasciati solo il giorno avanti.
Ma una cosa m'impressiono:
una volta il suo viso, benché egli fosse considerato come
una bellezza, era in realtà « simile a una maschera », come si
esprimevano alcune male lingue femminili della nostra società. Adesso
invece, adesso, non so perché, egli mi apparve fin dal primo sguardo come
una bellezza assoluta e incontestabile, tanto che in nessun modo si poteva
dire che il suo viso rassomigliasse a una maschera. Forse perché si era
fatto un tantino più pallido di prima ed era, pare, dimagrito un poco? O
forse qualche nuovo pensiero brillava adesso nel suo sguardo? (I
Demoni, voi. I, pp. 259-60).
Queste parole alludono a una descrizione anteriore, di cui
riportiamo alcuni passi per meglio chiarirle:
219
Egli sapeva pronunziarsi anche su argomenti
interessantissimi del giorno, e, cosa più di ogni altra apprezzabile, con
una notevole assennatezza. Ricorderò come una stranezza che tutti da noi,
quasi fin dal primo giorno, lo trovarono un uomo oltremodo assennato. Egli
era poco ciarliere, elegante senza ricercatezza, mirabilmente modesto e
nello stesso tempo audace e sicuro di sé, come nessuno da noi...
M'impressionò pure il suo viso: i suoi capelli erano anche troppo neri, i
suoi occhi sereni anche troppo tranquilli e limpidi, il colorito del viso
anche troppo delicato e bianco, l'incarnato anche troppo vivo e puro, i
denti come perle, le labbra come coralli, — si sarebbe detta una
bellezza dipinta, ma nello stesso tempo egli aveva anche qualcosa di
ripulsivo. Si diceva che il suo viso ricordasse una maschera; del resto si
dicevano molte cose, fra l'altro anche intorno alla sua straordinaria
forza fisica. (I Demoni, voi. I, pp. 62-63).
Nikolàj fa per avvicinarsi alla madre, ma questa con
l'atteggiamento teatrale che le è proprio — ella è la caricatura di
una madama de Staèl o di una principessa Gallitzin — lo costringe a
fermarsi.
— Nikolàj Vsjevolòdovic, — ripete, martellando le
parole con una voce ferma in cui sonò una sfida minacciosa, — vi prego,
dite subito, senza muovervi dal vostro posto, se è vero che questa
disgraziata zoppa, — ecco, ecco là, guardatela! — se è vero che
è... la vostra moglie legittima!
L'interrogato non batte ciglio; guarda fissamente la
madre, infine sorride "con una specie di sorriso indulgente",
s'avvicina alla madre senza rispondere e le bacia rispettosamente la mano.
Poi fissa con la stessa calma tuttti i presenti, si avanza lentamente
verso Màrja Lebjàdkina che,
tutta irrigidita dallo sgomento, si levò per muovergli
incontro e giunse le mani davanti a sé, come supplicando; ma nello stesso
tempo mi toma alla memoria anche l'estasi
220
che aveva quasi sfigurato i suoi lineamenti, — un'estasi
quale difficilmente degli esseri umani possono sopportare.
Nikolàj Stavròghin le sta dinanzi in un atteggiamento
deferente e la sua voce "carezzevole e melodiosa" dice con
"straordinaria tenerezza":
— Voi non potete star qui.
La poveretta, ansando, con un impetuoso sussumo, mormora:
— E posso... adesso inginocchiarmi davanti a voi?
— No, non lo potete assolutamente, — egli disse con un
magnifico sorriso, tanto che anche lei sorrise subito gaiamente. Con la
stessa voce melodiosa ed esortandola con tenerezza, come fosse un bambino,
egli aggiunse grave:
— Pensate che voi siete una fanciulla e che, sebbene io
sia per voi l'amico più devoto, sono pur sempre per voi un estraneo; io
non vi sono ne marito, ne padre, ne fidanzato. Datemi dunque il vostro
braccio e andiamo; io vi accompagnerò fino alla carrozza e, se lo
permettete, vi condurrò io stesso a casa vostra.
Ella ascoltò e chinò il capo come soprapensiero.
— Andiamo, — disse sospirando e dandogli il braccio.
Egli la conduce fuori e qui appare tutta la miseria fisica
di lei. Ella inciampa e per poco non cade.
Arrossì, si confuse in modo strordinario. Guardando m
silenzio a terra, zoppicando fortemente ella si aggrappava a lui, quasi
sospesa al suo braccio. Ma egli la prese forte sotto il braccio e
premurosamente, con cautela la condusse verso la porta. (I Demoni,
voi. I, pp. 261-63).
Il terribile effetto simbolico di quest'episodio è
sottolineato dal lungo racconto esplicativo di Pjotr Stjepànovic
Vj'erchovènskij. Non sarà inopportuno presentare qui questo personaggio.
Ha ventisette
anni.
221
La sua testa era allungata verso la nuca e come appiattita
ai lati, per cui il suo viso pareva aguzzo. La fronte era alta e stretta,
ma i lineamenti minuti, l'occhio acuto, il nasino piccolo e aguzzo, le
labbra lunghe e sottili. L'espressione del viso sembrava malaticcia, ma
era solo apparenza... La sua pronunzia era mirabilmente chiara; le sue
parole cadevano come grossi chicchi uguali, sempre ben scelte e sempre
pronte a servirvi. Dapprincipio questo vi piaceva, ma poi vi stuccava,
precisamente per quella pronunzia anche troppo chiara, per quel tempestìo
di parole sempre pronte. Cominciavate in certo modo a immaginarvi ch'egli
dovesse avere in bocca una lingua di forma particolare, eccezionalmente
lunga e sottile, rossa oltre ogni dire e con una punta acutissima, suo
malgrado sempre in movimento.1 (I Demoni, voi. I, pp.
256-57),
Questo figlio del precettore di Stavròghin riduce tutta
la faccenda all'importanza di un "aneddoto". Il giovane principe
ha dunque incontrato a Pietro-burgo dove "conduceva allora una vita,
per dir così, di derisione — non posso definirla con altra
parola", i due Lebjàdkin; al fratello, rovinato dai debiti, ha dato
del denaro e si è entusiasmato della sorella al punto che
ella era infine arrivata a considerarlo come una specie di
.fidanzato, che non osava « rapirla » unicamente perché aveva molti
nemici... Finì che quando Nikolàj Vsjevolodovic dovette allora venir
qui, dispose, partendo, per il suo mantenimento e per una pensione annua,
mi pare abbastanza notevole, di tremila rubli almeno, se non di più.
Insemina supponiamo che tutto ciò fosse da parte sua un capriccio, la
fantasia di un uomo precocemente stanco, — e fosse pure, infine, come
diceva Kirìllov, la nuova esperienza di
14 Confronta a questo proposito l'animale del sogno
di Ippolito aéH'Idiola. Il significato degli animali e dei
fantasmi ferini nel mondo di Dostojevskij del resto rappresenta un
capitolo a sé. Essi interpretano e rivelano gli uomini ai quali vengono
riferiti.
222
un uomo troppo sazio allo scopo di sapere fino a che punto
si possa ridurre una sciancata pazza. (I Demoni, voi. I, pp.
268-69).
Stavròghin ritorna. Liza è al colmo dell'agitazione;
Darja non riesce a star ferma al suo posto. Ed ecco accade qualcosa.
Sàtov, che tutti avevano interamente dimenticato nel suo
angolo e che, in apparenza, non sapeva neppur lui perché se ne stesse lì
invece di andarsene, si levò a un tratto dalla sedia e si diresse,
attraversando tutta la stanza, con passo frettoloso, ma fermo, verso
Nikolàj Vsjevolòdovic, mentre lo guardava diritto in viso. Questi già
da lontano notò il suo avvicinarsi e sogghignò leggermente; ma quando
l'altro gli fu vicino, cessò di sogghignare.
Allorché Sàtov si fermò in silenzio dinanzi a lui senza
staccare gli occhi, tutti a un tratto se ne avvidero e fecero silenzio,
dopo di tutti Pjotr Stjepànovic; Liza e la mamma si fermarono in mezzo
alla stanza. Passarono così circa cinque secondi; l'espressione di
arrogante stupore si mutò sul viso di Nikolàj Vsjevolòdovic in collera,
egli aggrottò a un tratto le sopracciglia...
E a un tratto Sàtov alzò il suo braccio lungo e pesante
e a tutta forza lo colpì sulla guancia. Nikolàj Vsjevolòdovic barcollò
fortemente.
Sàtov lo aveva colpito in modo speciale, non già come
usa generalmente prendere a schiaffi, non con la palma, ma con tutto il
pugno, e il suo pugno era grosso, pesante, ossuto, coperto di peli
rossicci e di lentiggini. Se il colpo avesse raggiunto il naso, l'avrebbe
schiacciato. Ma raggiunse la guancia, investendo l'angolo sinistro del
labbro e dei denti di sopra, dai quali spiccò subito sangue.
Echeggiò, mi pare, un grido istantaneo, forse fu Vai-vara
Petròvna a gridare, — di questo non ricordo, perché tutto parvero
subito irrigidirsi di nuovo. Del resto, tutta la scena non durò più di
una diecina di secondi.
Nondimeno in quei dieci secondi accaddero moltissime cose.
Nikolàj Vsjevolòdovic era di quelle nature che non
conoscono la paura. In duello egli poteva affrontare con san-
223
yue freddo il fuoco dell'avversario, mirare a sua volta e
uccidere con una calma feroce. Se qualcuno l'avesse percosso su una
guancia, mi pare che egli non avrebbe nemmeno sfidato a duello, ma
immediatamente ucciso sul posto l'offensore...
E nondimeno avenne quella volta qualcosa di diverso e
di prodigioso.
Egli si era appena raddrizzato dopo aver barcollato così
ignominiosamente su un fianco, piegandosi quasi in due,
•sotto lo schiaffo ricevuto, e pareva che nella stanza
non si fosse ancora spento il rumore ignobile e per così dire umidiccio
del pugno sul volto, che egli tosto afferrò Sàtov con le due mani per le
spalle; ma subito dopo, quasi nel medesimo istante, ritrasse le due mani e
le incrociò dietro il dorso. Egli taceva, guardava Sàtov e impallidiva
come un cencio. Ma, fatto strano, il suo sguardo pareva spegnersi. Dopo
dieci secondi, lo sguardo dei suoi occhi era freddo e — sono
sicuro di non sbagliarmi — tranquillo. Egli era solo terribilmente
pallido. Ignoro, s'intende, che accadesse dentro a quell'uomo, io non ne
vedevo che l'esterno...
Sàtov fu il primo di loro ad abbassare gli occhi,
evidentemente perché fu costretto ad abbassarli. Poi si voltò lentamente
e uscì dalla stanza, ma con andatura ben diversa
•da. quella con cui si era avanzato. Egli se
n'andava senza rumore, inarcando le spalle con una certa qual particolare
goffaggine, a capo chino e come se meditasse fra sé. Mi parve che
mormorasse qualcosa. Arrivò fino alla porta con precauzione, senza urtar
nulla e senza rovesciar nulla, poi aprì la porta non lasciando che un
piccolo passaggio, tanto-che sgusciò per l'apertura quasi di fianco.
Mentre sgusciava fuori, il ciuffo di capelli che gli si ergeva .sulla nuca
si faceva particolarmente notare. (I Demoni, voi. I. pp. 290-95).
Questo l'episodio.
Per quanto riguarda la verità dei fatti, la povera Màrja
Lebjàdkina è effettivamente la moglie di Sta-vròghin. È anche vero
però che ella è rimasta vergine. Vero che il matrimonio è avvenuto per
una '"sodomia" esteriore e intcriore. Sàtov però sa di questo
matrimonio, e, mentre la donna s'illude an-
224
cora, sa
che cosa esso significhi. In questo episodio esplode la sua indigna2Ìone
esasperata. Il duro colpo che egli vibra a Stavròghin dovrebbe, come la
azione sconvolgente di una bomba, mettere a nudo questa vergogna o
annientare il colpevole. Invece viene ricevuto da qualcosa di ancora più
forte e, Sàtov deve chinare la testa, vinto.
Seguiamo da questo punto il filo della nostra indagine .
Nikolàj è cresciuto senza padre.
Il ragazzo sapeva che sua madre lo amava molto, ma è
dubbio ch'egli l'amasse altrettanto. Ella parlava poco con lui, di rado lo
limitava in qualcosa, ma egli avvertiva su di sé con un senso di
disagio lo sguardo di lei, che lo seguiva fissamente. (I Demoni,
voi. I, p. 58).
La sua educazione ed istruzione sono affidati alla troppo
debole guida di Stjepàn Vjerchovènskij che in questo tempo gode ancora
la piena fiducia di Varvàra Petròvna. È un'educazione sentimentale,
soprattutto insincera come la persona che la impartisce.
Il ragazzo è da principio "infermiccio e pallido,
stranamente quieto e pensieroso"; in seguito si distingue "per
una forza fisica straordinaria". A sedici anni va al liceo, poi entra
in un reggimento della guardia a cavallo.
La madre lo fornisce abbondantemente di denaro. Egli ha un
gran successo in società.
Ma assai presto cominciarono a giungere a Varvàra
Petròvna delle voci abbastanza strane: pareva che il giovane si fosse
messo tutt'a un tratto a far pazzamente baldoria. Non che giocasse o
bevesse molto; si parlava soltanto di una sua selvaggia sfrenatezza, di
persone schiacciate dai suoi cavalli, di
225
un contegno bestiale tenuto con una dama della buona
società, con la quale era stato in relazione, ma che poi aveva offesa
pubblicamente. C'era anzi in questa faccenda una specie di ostentata
bassezza. Aggiungevano inoltre ch'era uno spadaccino, che attaccava briga
e offendeva per il piacere di offendere... Si ricevette ben presto la
fatale notizia che il principe Harry aveva avuto quasi allo stesso tempo
due duelli, in cui tutta la colpa era sua, aveva ucciso d'un colpo uno dei
suoi avversari e mutilato l'altro e, in seguito a tali fatti, era stato
deferito al tribunale. La faccenda era terminata con la sua retrocessione
a soldato, con la perdita dei diritti e l'invio in un reggimento di
fanteria di linea, e anche questo per un particolare riguardo.
Questa degradazione non dura a lungo; egli si distingue ed
è promosso "ben presto" ufficiale. Ma poi da improvvisamente le
dimissioni e non fa più saper niente di sé. Va a Pietroburgo.
Si arrivò a scoprire ch'egli viveva fra certa strana
gente, avendo stretti rapporti con la feccia della popolazione di
Pietroburgo, con certi straccioni d'impiegati, militari in ritiro che
chiedevano decorosamente la carità, ubriaconi; che visitava le loro
sudice famiglie, passava i giorni e le notti in angiporti oscuri e Dio sa
in quali chiassoli, che si era lasciato andare, era ruzzolato giù, e che
tutto ciò doveva piacergli.
Finalmente, dietro le insistenti preghiere della madre,
ritorna.
Egli fa una grande impressione sulla società femminile
della città. Questa si divide in due campi.
Nell'uno lo adoravano, nell'altro lo odiavano a morte; ma
pazze di lui erano le une e le altre.
La mamma è fiera di suo figlio, ma nello stesso tempo
inquieta.
226
Egli passò da noi mezz'anno circa, di una vita fiacca,
tranquilla, abbastanza cupa; andava in società e osservava
inappuntabilmente tutta la nostra etichetta provinciale. Del governatore
era parente,, per parte di padre, e nella sua casa fu accolto come un
prossimo congiunto. Ma passarono alcuni mesi e la belva mostrò a un
tratto i suoi artigli. (I Demoni, voi. I, p. 63).
La stessa frase ricorre un poco più avanti e anche noi
vogliamo marcare la sottolineatura riportandola. La mamma è molto fiera
del suo figliolo,
tuttavia ella lo temeva in modo evidente e in sua presenza
aveva l'aria di una schiava. Si vedeva ch'ella temeva qualcosa di vago, di
misterioso, che lei stessa non avrebbe potuto precisare, e molte volte
osservava Nicolas di sfuggita e fissamente, riflettendo e
scrutando... ed ecco che la belva a un tratto mise fuori gli artigli. (I
Demoni, voi. I, p. 64).
Avviene talvolta che per rendere l'espressione di un volto
o l'aspetto di un uomo si debba ricorrere a qualcosa di non umano perché
nella persona ci sembra di veder agire un meccanismo, la marionetta, o
addirittura l'animale, un dato animale. È questo un fenomeno di cui è
facile intuire, ma non altrettanto facile spiegare il significato.
Nell'uomo, infatti, c'è anche un meccanismo, risultante dalla struttura
ossea e dalla funzione delle membra, ma esso è inserito in un tutto
vivente e perciò non si fa notare. Appena esso desti invece la nostra
attenzione, come nell'impressione di cui s'è detto sopra, si produce come
una scissione: ai nostri occhi appare qualche cosa di
"inanimato", che tuttavia "vive". L'ambito del
meccanismo puro è' esterno all'uomo, tuttavia gli è prossimo e da lui
può essere non solo avvertito ma anche sentito come una possibilità, ma
naturalmente come possibilità di distruzione.
227
Questa si concreta in una minaccia non appena il
meccanismo traspare dal comportamento di un uomo. Accade allora un fatto
profondamente inquietante: qualcosa che "non ha vita" si pasce
di vitalità umana ed acquista una vita apparente. Come se lo
"spirito" e la materia si fossero congiunti, senza l'intervento
del sangue e del cuore. Non abbiamo in questo caso un "corpo"
unito a un'anima, ma un "fisico" semplicemente materiale, dalla
cui irreale vitalità può trasparire la grazia o la veemenza, ma che
nello stesso momento può anche convenirsi in qualche cosa di orrido, di
spettrale, di demoniaco.
Accade un fenomeno analogo quando osservando un uomo ci
vien fatto di pensare a un determinato animale. Come il meccanismo,
infatti, così anche l'animale è nell'uomo — lo si voglia intendere
secondo la teoria dell'evoluzione o secondo la classificazione
sistematica. L'animale è vita fatta di istinti e di impulsi che si
esplica nell'unità impersonale della specie. L'uomo non può partecipare
a questa esistenza ma l'avverte come una sfera limitrofa alla sua e una
possibilità il cui concretarsi significa a sua volta minaccia e
distruzione dell'esistenza personale. Quando nell'uomo affiora l'animale,
egli corre pericolo di soccombere all'istinto, alle forze subpersonali
della terra e della specie.
Quando dunque nell'uomo appaiono le caratteristiche del
meccanismo o dell'animale ci troviamo di fronte a una minaccia di
involuzione, a un pericolo demoniaco. Possiamo ancora annotare in margine,
come un sintomo importante, a proposito della madre di Stavròghin, che
qualcosa nella forma della sua testa ricorda vagamente quella di un ca-
228
vallo... Il significato di questa rassomiglianza d
colpisce sgradevolmente perché ci fa pensare lungo quali correnti
sotterranee si sviluppi l'esistenza umana.
La belva mette fuori i suoi artigli e s'avventa. — Ma
questa belva è un uomo! Chi gli è vicino ha ben ragione di aver paura.
Tutt'a un tratto, di punto in bianco, il nostro principe
fece a diverse persone due o tré inconcepibili villanie, la cui
caratteristica stava per l'appunto in ciò, che queste villanie erano
assolutamente inaudite, senza termine di paragone possibile... e fatte il
diavolo sa perché, senza motivo alcuno. Uno degli anziani più
rispettabili del nostro circolo, Pjotr Pàviovic Gagànov, uomo maturo e
anche benemerito, aveva preso l'innocente abitudine di aggiungere con foga
ad ogni parola: « No, me non mi meneranno per il naso! » E sia pure! Ma
una volta al circolo, avendo egli, in un momento di eccitazione,
pronunziato quest'aforisma davanti a un gruppo di frequentatori del
circolo che gli si era adunato intorno (e tutti uomini che non erano gli
ultimi venuti) Nikolàj Vsjevolòdovic, che stava solo in disparte e a cui
nessuno si rivolgeva, si avvicinò all'improvviso a Pjotr Pàviovic, con
due dita lo afferrò inopinatamente e con forza per il naso e riuscì a
trascinarselo dietro nella sala per due o tré passi. Animosità verso il
signor Gagànov egli non poteva averne nessuna. Si poteva pensare che
fosse una semplice monelleria, ben inteso, imperdonabile;
però si raccontò più tardi che, nell'istante
dell'operazione, egli era quasi assorto, « come se fosse uscito di senno
», ma ci si ricordò di questo e si fece tale riflessione solo molto
tempo dopo. Sulle prime tutti non conservarono memoria del secondo
momento, quand'egli certamente già vedeva le cose nel loro vero aspetto e
non solo non era turbato, ma al contrario sorrideva con malignità e
gaiezza, « senza il minimo pentimento ». Si levò un terribile baccano-
egli fu attorniato. Nikolàj Vsievolòdovic si girava e. guardava intorno,
senza rispondere a nessuno e osservando con curiosità quelli che
gettavano delle esclamazioni. Infi-
229
ne parve a un tratto farsi di nuovo pensieroso, — così
almeno si raccontava, — aggrottò le ciglia, si avvicinò con passo
fermo all'offeso Pjotr Pàviovic e mormorò precipitosamente, con visibile
stizza:
— Voi, certo, mi scuserete... Davvero non so come mi sia
a un tratto venuta la voglia... una sciocchezza...
Questo modo noncurante di chiedere scusa equivaleva a un
nuovo affronto. Si alzarono grida ancor maggiori. Nikolàj Vsjevolòlovic
si strinse nelle spalle e uscì {I Demoni, voi. I, pp. 64-66).
La società è indignata. La mamma profondamente
impressionata. Ella confessò più tardi a Stjepàn Trofìmovic di avere
preveduto tutto ciò da molto tempo, e ogni giorno durante quei sei mesi,
e anzi di aver preveduto proprio "qualche cosa del genere",
confessione notevole da parte di una madre. "Ci siamo!" ella
pensò trasalendo.
Domanda al figlio ragione della sua condotta.
Nicolas,
sempre così affabile e rispettoso con la madre, l'ascoltò per un certo
tempo con gli occhi bassi, ma assai seriamente; a un tratto si alzò, non
rispose nemmeno una parola, le baciò la mano e uscì. Ma quello stesso
giorno, alla sera, scoppiò, come a farlo apposta, un altro scandalo, sia
pure molto meno grave e più comune del primo, ma che nondimeno, grazie
agli umori generali, accrebbe di molto le proteste in città. (I Demoni,
voi. I, p. 68).
Si tratta della moglie di Lipùtin che egli bacia
all'improvviso davanti a tutti.
Ma il peggio avviene quando Sua Eccellenza il Governatore,
uomo ben disposto verso la famiglia di Stavròghin, gli fa un rabbuffo a
causa di tutte queste storie.
Ivàn Osipovic si mise a parlare alla lontana, quasi
sottovoce, ma confondendosi un poco. Nicolas lo guardava
230
molto ostilmente, niente affatto con l'affabilità di un
congiunto, era pallido, sedeva con gli occhi bassi e ascoltava con le
sopracciglia aggrottate, come se reprimesse un forte dolore.
— Voi avete un cuore buono e nobile, Nicolas, — disse
fra l'altro il vecchietto, — siete un uomo coltissimo, avete frequentato
le più alte sfere, e anche qui vi siete finora comportato in modo
esemplare, e avete con ciò tranquillizzato il cuore della mamma vostra
che è caro a noi tutti... Ed ecco che tutto torna adesso a presentarsi
sotto una luce così enigmatica e sinistra per tutti... Dite, che cosa vi
spinge ad azioni così sfrenate, fuori dì. ogni regola e misura? Che cosa
possono significare delle uscite di questo genere, che hanno del delirio?
Nicolas ascoltava con dispetto e impazienza. A un
tratto parve balenare nel suo sguardo un che di furbo e di beffardo.
— Ve lo dirò magari che cosa mi spinge, — disse torvo
e, guardandosi intorno, si chinò all'orecchio di Ivàn Osi-povic... Ed
ecco che accadde a un tratto qualcosa di affatto Inaudito, ma, d'altra
parte, anche troppo chiaro in un certo senso. Il vecchietto sentì
all'improvviso che 'Nicolas, invece di sussurrargli qualche
interessante segreto, aveva afferrato coi denti e stretto abbastanza forte
il lembo superiore del suo orecchio.
— Nicolas, che scherzi son questi? — gemette
macchinalmente con voce alterata...
[I presenti] non sapevano se dovessero gettarsi in suo
soccorso, com'era stato convenuto, oppure attendere ancora! Nicolas
forse se ne avvide e strinse più forte l'orecchio.
— Nicolas, Nicolas! — gemette di nuovo la
vittima, — via, basta scherzare...
Ancora un secondo e il poveretto sarebbe certo morto di
spavento; ma il mostro gli fece grazia e abbandonò l'orecchio. Quella
mortale paura era durata un buon minuto, e il vecchio ebbe poi una specie
di attacco. Ma di lì a mezz'ora Nicolas era arrestato e
condotto, per il momento, al corpo di guardia e là chiuso in uno stanzino
speciale con apposita sentinella alla porta. [I Demoni, voi. I,
pp. 72-73).
In prigione è colto da un attacco di pazzia fu-231
riosa e per qualche mese è malato. Una volta guarito è
calmissimo e si scusa con tutti.
Lipùtin, in verità, gli fa capire di non averlo mai
creduto malato di mente, ma al contrario "l'uomo più intelligente e
più sensato del mondo, ma feci finta di credere che non foste sano di
mente...". Stavròghin, seccato, lo contraddice: "Possibile che
mi credeste veramente capace di gettarmi sulla gente, pur avendo la testa
del tutto a posto? Perché mai avrei fatto questo?".
Certamente Stavròghin è malato, ma questa malattia ha un
significato e precisamente un perverso significato. Abbiamo qui un uomo
che perfettamente impassibile, quasi assente, infligge un affronto a un
altro uomo. Come un semplice spettatore sta a vedere quello che succede.
È la fredda cattiveria di un esperimento — di uno "studio",
dice Kirìllov —; egli vuoi vedere come l'altro si comporta dopo
l'affrontp che lo disonora.
Stavròghin si mette in viaggio; visita l'Europa,
l'Egitto, la Palestina; prende parte a una spedizione in Islanda;
frequenta anche durante un inverno una università tedesca. Alla madre
scrive solo raramente.
Poi ritorna e precisamente nel momento in cui si svolge la
scena sopra descritta.
Stavròghin è robusto. -Sovente si parla della sua forza
fisica. La vediamo nel suo incontro col criminale Fèdka. Grande è pure
la forza del suo volere. Si pensi all'incidente con Sàtov e al duello con
Ga-gànov. Ma questa forza è concentrata in se stessa, non è quindi
effetto di muscoli vigorosi e di una volontà di ferro, ma proviene
piuttosto da una sua
232
inferiore, calma e misteriosa potenza. Forza della.
passione dunque. Ma si può in questo caso parlare di
passione?
Stavròghin è pigro; più volte è detto di lui che agiva
"con fiacchezza, con indolenza, e perfino con noia" (J Demoni,
voi. I, p. 293). C'è l'indolenza dell'animale da preda che però, quando
è il momento, s'avventa ed è capace di sforzi possenti. C'è l'indolenza
del soldato, che in tempo di pace fa il perdigiorno, ma in guerra è
instancabile, e c'è l'indolenza giovanile del futuro eroe o del genio.
L'indolenza di Stavròghin è diversa. Nel grande colloquio con Sàtov,
questi lo chiamerà "bei signorino, ozioso e bighellone". Il
giovane Vjerchovènskij parla della sua vita oziosa a Pietroburgo, causa,
a sentir lui, di molti guai. Gli vien consigliato di. guadagnarsi il pane
col lavoro delle sue braccia; nel colloquio con Tichon egli stesso
manifesta questo-proposito, e l'arcivescovo vi scorge una speranza di
salvezza per lui.
Stavròghin sente dunque che la sua indolenza. ha radici
molto profonde. Essa è data precisamente dal fatto ch'egli non sa trovare
un senso alcuno-nel fare alcunché. Non esistono per lui occasioni di
agire. Questa indolenza è l'oziosità del dandy, la noia del
romantico — ma diventate estremamente potenti e pericolose. Non avendo
bisogno di lavorare poiché egli è un "gran signore", non
essendoci guerre o altre situazioni di necessità, egli. non fa niente.
Questo però ha per la sua forza conseguenze funeste. Essa
diventa senza oggetto, senza direziono. Le manca un significato che
l'azione le potrebbe dare. Smisuratamente cresciuta, diventa torpida e
235
ottusa, si cristallizza, e se di quando in quando esplode
è segno di irritazione, di disperazione. Forza senza oggetto, impotente,
che avvelena se stessa.
Caratteristiche analoghe presenta la terribile freddezza
di quest'uomo.
È una freddezza concentrata, immensa. Ci sono, è vero,
passioni fredde come v'è il bruciore del ghiaccio. Ma qui non troviamo
mai il calore di un'emozione, un'effusione intcriore, uno slancio del
cuore. Quello che spinge Lizavèta a morire è l'es-sersi data quella
notte con tutto il suo ardore e non avere trovato che l'inalterabile,
impassibile freddezza di Stavròghin, rimasto indifferente fin nelle
intime fibre. Tutto sprofondò così per lei nella vergogna e nell'orrore.
Egli si rende conto della sua freddezza con una lucidità
terribile e si dispera della sua indifferenza, ma non fa nulla per
scuoterla.
Le persone che l'avvicinano credono di trovare in lui
delle ricchezze misteriose; interpretano la sua indolenza come
l'immobilità del drago che cova a guardia di tesori nascosti, come il
profondo silenzio che precede la rivelazione di qualcosa d'immenso.
E qualcosa di simile affiora una volta davvero. Non è
aspirazione alla scienza o alla cultura ma qualcosa di più profondo: una
nostalgia infinita, un sogno di bellezza15. Lo racconta egli
stesso nella "confessione". Egli vede
un cantuccio dell'Arcipelago greco: onde azzurre
accarezzanti isole e scogli, una riva tutta in fiore, un magico
15 È
lo stesso sogno di Vèrsilov nell''Adolescente. Lo ritroviamo,
svolto più ampiamente, nel Sogno di un uomo ridicolo.
254
panorama in lontananza, il sole che tramonta ed invita;
una cosa impossibile a descrivere. Qui l'umanità europea
si ricorda di aver avuto la sua culla, qui si svolsero le prime scene
della mitologia, qui fu il suo paradiso terrestre... Qui vissero degli
uomini bellissimi. Essi si alzavano e si addormentavano felici e
innocenti, i boschetti erano pieni delle loro liete canzoni, la grande
esuberanza delle loro forze intatte si spandeva in amore e in candida
gioia. Il sole inondava coi suoi raggi queste isole e questo mare,
beandosi alla vista dei suoi bellissimi .figli. Sogno prodigioso,
illusione sublime! Il sogno più incredibile tra quanti mai siano stati,
ma a cui l'intera umanità ha dato durante tutta la sua esistenza ogni sua
forza, per cui ha sacrificato ogni cosa, per cui sono moni sulla croce o
furono immolati i suoi profeti, senza di cui i popoli non vorrebbero
vivere e non possono nemmeno morire. Tutte queste sensazioni mi parve di
riviverle in quel sogno; io non so che cosa precisamente avessi sognato,
ma gli scogli e il mare e i raggi obliqui del sole al tramonto, mi pareva
ancora di vederli quando mi svegliai e aprii gli occhi, per la prima volta
nella mia vita letteralmente bagnati di lacrime. Una sensazione di
felicità ancora sconosciuta mi attraversò tutto il cuore sino a farmi
soffrire. (I Demoni, voi. Ili, pp. 351-52).
Un desiderio grande di redenzione, luce, bellezza e
amore traspare in questo sogno, di qualsiasi natura, d'altronde, ne siano
le radici psicologiche. Per la prima volta Stavròghin piange, e che
lagrime... Proprio questo sogno però è simbolicamente legato
all'immagine del piccolo ragno rosso sulla foglia di geranio e a quella
della piccola Matrjòsa — la bambina che, insieme a Màrja Lebjàdkina,
testimonia di ciò che vi è di più abbominevole nella vita di
Stavròghin.
La prima impressione si va confermando in modo sempre più
preciso: nell'intimo di questo uomo c'è il vuoto.
255
Egli possiede un'intelligenza acuta, una immensa forza
fisica e una volontà immane, ma il suo cuore è deserto.
La vita in lui sembra raggelata. Egli non riesce a provare
alcun sentimento di gioia o di dolore, ma solo le loro tristi
degenerazioni: il piacere fisico e il tormento del proprio stato visto con
una lucidità disperata. Non c'è vera vita in lui, poiché è il cuore
che ci fa veramente "vivere", non lo spirito e non la physis.
Solo per il cuore ha vita umana lo spirito, vita umana la materia. Solo
per il cuore lo spirito diventa "anima" e la materia
"corpo". Allora soltanto nasce una vita umana con le sue gioie e
i suoi dolori, i suoi compiti e le sue battaglie, miserabile e grande a un
tempo. Ma Stavròghin non ha cuore; perciò il suo spirito è freddo e
vuoto e il suo corpo s'intossica nella pigrizia e nella sensualità
"bestiale".
Perciò egli non può incontrare intimamente nessuno e
nessuno incontra veramente lui. Poiché solo il cuore crea l'intimità, la
vera vicinanza tra due esseri. Solo il cuore sa accogliere e dare una
patria. L'intimità è l'atto, la sfera del cuore. Ma Stavròghin è
distante. Egli non sa trovare la via che conduce al prossimo. Può
essergli materialmente vicino, ma sempre, quando si tratta in senso puro e
semplice di intimità — o di non intimità — è infinitamente lontano.
Infinitamente lontano anche da se stesso, poiché
ulteriore a sé l'uomo può esserlo soltanto col cuore, non con lo
spirito. Essere ulteriore a sé con lo spirito non è in potere dell'uomo.
Ora, se il cuore non vive, l'uomo rimane estraneo a se stesso.
Stavròghin non si possiede, così come non può donarsi e
nemmeno ricevere alcun dono, alcuna dedizione d'altri.
236
Egli è un centro d'attrazione per tutti, ma nessuno può
avvicinarsi a lui. Intorno a lui sono distanze essenziali. Nessuno può
accostarsi, entrare, dimorare nella sua intimità. Egli è sempre "al
di fuori". È chiuso, ma non ha nulla da custodire. È inaccessibile.
Non può far ricco nessuno ne appartenere ad alcuno. Non può ricevere
nulla; non vi è posto in lui per i doni di un altro. Egli non può
arricchirsi di ciò che solo fa ricchi: dell'amore che è dono di sé.
Stavròghin è povero e nudo come un blocco di ghiaccio.
Quest'uomo non conosce neppure la paura. Della
intrepidità, come segno di esenzione da ciò che abitualmente paralizza e
sgomenta l'uomo abbiamo già parlato a proposito di Aljòsa. Questi non
teme nulla perché il suo vero io è come sollevato in una sfera
superiore. Stavròghin non può aver paura perché nel suo intimo la vita
gli si è raggelata.
Nikolàj Stavròghin era di quelle nature che non
conoscono la paura. In duello egli poteva affrontare con sangue freddo il
fuoco dell'avversario, mirare a sua volta e uccidere con una calma feroce.
Se qualcuno l'avesse percosso su una guancia, mi pare che egli non avrebbe
nemmeno sfidato a duello, ma immediatamente ucciso sul posto l'offensore.
E il passo seguente sottolinea questo giudizio:
Mi pare anzi ch'egli non avesse neppur mai conosciuto
quegli impeti acceccanti di collera nei quali diventa impossibile
ragionare. Malgrado l'ira smisurata che alle volte s'impadroniva di lui,
egli poteva tuttavia conservar sempre il pieno dominio di sé e capire, in
conseguenza, che per un omicidio non commesso in duello lo avrebbero di
sicuro mandato ai lavori forzati. (I Demoni, voi. I, pp. 291-92).
237
Stavròghin non è soltanto il personaggio intorno a cui
gravita tutto il mondo del romanzo, egli riassume in un certo senso anche
le caratteristiche delle figure che lo circondano. Le diverse personalità
del romanzo sono esplicazioni di ciò che in Stavròghin si concentra ed
è semplicemente contenuto, oppure esse gli sono complementari: a tal
figlio corrisponde tale madre; a tale discepolo, tale maestro. Soprattutto
sono tré i personaggi più rilevati del romanzo che ci danno la chiave
della sua anima: Pjotr Vjerchovèn-skij e il suo mondo, Kirìllov e
Sàtov.
Tutte le energie disgregatrici latenti in Stavròghin, lo
scetticismo riguardo alla vita della società, l'istinto sovvertitore, la
voluttà degli esperimenti sociali, tutto questo viene alla luce in
Vjerchovènskij e nei suoi accoliti, ma avvilito da una povertà di idee e
da una volgare ribalderia che sembrano estranee a Stavròghin; tuttavia
non si può fare a meno di riconoscere negli impulsi distruttori di
costoro la rivelazione di ciò che fermenta in lui... Sàtov nel loro
ultimo colloquio decisivo gli rammenta che è stato lui, Stavròghin, a
mettere nel socialista d'un tempo il seme della idea di un popolo-dio.
Effettivamente Stavròghin, colla sua aspirazione all'infinità della
natura, alla grande unità e alla trasformazione magica dell'esistenza,
col suo desiderio di attingere alle radici della terra e del popolo è
anche lui un romantico. Tutto questo è. già in lui, ma appare poi
chiaramente in Sàtov, con la differenza che questi prende pienamente sul
serio le dottrine del maestro, al quale invece esse sono indifferenti come
qual non altra cosa... E ancora vive in Stavròghin la rivolta prometeica
e romantica di un Kirìllov, il tormento deU'esperien2a religiosa immedia-
238
ta e il rifiuto di dominarla scegliendo la via cristiana.
Tutto questo esiste in lui, ma contemporaneamente. Ogni
singola figura del romanzo — sarebbero da ricordare anche Fèdka e
Lipùtin e altri ancora — incarna l'uno o l'altro aspetto particolare e
diventa così un'individualità dal profilo nettamente disegnato. In
Stavròghin, invece, questi aspetti diversi sembrano raccolti in una
unità senza volto, che poi genera negli altri personaggi volti diversi.
Ma mentre questi entrano per ciò stesso in azione e incarnano ciascuno un
destino particolare, Stavròghin rimane immobile in una gelida
indifferenza e ottusa inerzia che è la peggior contraffazione di quella
schietta semplicità dove la calma è generatrice feconda di movimento e
di vita e l'unità racchiude in sé una ricchezza di figure e valori.
Una certa vivacità acquistano i suoi rapporti con gli
uomini dove si tratta di quelli che chiameremo gli esperimenti di
Stavròghin. Kirìllov gli osserva:
Voi avete scelto appositamente l'ultima delle creature...
sapendo per giunta che si struggeva per voi di un mo ridicolo
amore, e a bella posta vi siete inesso tutt'a un tratto a mistificarla
unicainenle per vedere che cosa ne. sarebbe venuto fuori! (I Demoni,
voi. I, p. 269).
Stavròghin non si lascia mai prendere dalla vita. In un
senso molto sconfortante, non ne viene mai nemmeno scalfito. Non si
impegna, non si lega. Egli può influire sul destino degli altri ma
nessuno può influire sul suo. E sebbene ne soffra terribilmente non cerca
l'unica soluzione possibile. Le persone che lo avvicinano ne restano
soggiogate ed egli è spinto da una forza demoniaca a esercitare in ogni
modo la
239
•sua influenza, a infondere un'idea, a scatenare un
movimento. Non per una curiosità intellettuale, per osservare ad esempio,
di che stoffa sono questo o quell'individuo; il motivo non è
intellettuale, così come in realtà egli stesso non è affatto assetato
di conoscenza. Opera invece in lui un vero istinto: il piacere di
afferrare qualcosa di vivo, di dominarlo, di tormentarlo, di distruggerlo.
Sa che è un'iniquità ma lo fa ugualmente. Questo istinto però è freddo
e perciò da l'impressione di una pura curiosità.
Tale è il suo contegno verso Màrja Lebjàdkina e
•verso la piccola Matrjòsa — in questo caso però
c'è "un secondo motivo di cui parleremo subito. Chiarissimo esso è
poi di fronte ai tré uomini di cui abbiamo già parlato.
Egli deve aver dato a Vjerchovènskij motivo di credere di
essere dei suoi. Tutto ci dice che egli gli Ma suggerito la tecnica
dell'azione rivoluzionaria. È lui che ha immaginato i criteri
psicologici, tattici e organizzativi per vedere come sarebbe andata a
finire...
Più oscura è la vicenda di Kirìllov, ma Sàtov vi
•accenna:
Voi avete fortificato in lui la menzogna e la negazione
•c'avete condotto il suo spirito fino alla frenesia...
Andate, guardate adesso, è opera vostra. (I Demoni, voi. II, p.
62).
Il caso di Sàtov, invece, è chiarissimo. La sua
esasperazione è appunto dovuta al fatto che fu Stavrò-ghin a suggerirgli
l'idea dalla quale il panslavismo romantico trae l'ultima conseguenza:
Questa frase è vostra per intero e non mia. È vostra
propria, e non soltanto la conclusione del nostro colloquio. Un « nostro
» colloquio non ci fu punto: c'era un maestro, che pronunziava delle
parole possenti e c'era un
240
discepolo risuscitato da morte. Io ero quel discepolo e
voi il maestro.
Ma Stavròghin non pensa affatto dì restar fedele alla
propria idea. Della lettera che Sàtov gli ha scritto dall'America al
tempo in cui "il seme rimase e crebbe" egli ha letto solo
"tré pagine, le prime due e l'ultima" e dato "una rapida
scorsa alle altre". Anzi, mentre Sàtov gli ricorda tutto questo,
egli ha l'aria d'averlo dimenticato. Non è più cosa che lo riguardi.
Tuttavia non fu soltanto un esperimento gratuito:
Io non schervazo con voi nemmeno allora; cercando di
persuadervi, mi davo pensiero forse più ancora di me stesso che di voi,
— disse enigmaticamente Stavròghin.
Egli vorrebbe credere. Ma da sé non vi riesce; per questo
infonde questa crederla negli altri sperando di arrivare a convincere se
stesso per questa via. Ma che "fede" è mai questa? Una
debolezza, una fiacchezza nel ricercare la verità che si traduce in
assolutismo prepotente. Un'affermazione che grida perché è troppo debole
per parlare. Se dovesse dire pacatamente la sua parola, la voce le
mancherebbe. Scetticismo romantico e disperato che amora nella brutta
parola che Sàtov gli rammenta:
Non mi dicevate voi che, se vi avessero dimostrato
matematicamente che la verità è fuori di Cristo, avreste preferito
rimanere con Cristo piuttosto che con la verità? (I Demoni, voi.
II, pp. 62-64).
Impotenza insopportabile!... Fosse almeno fedele a se
stesso. Prendesse, almeno una volta, una decisione e portasse poi il giogo
imposto. Ma alla frase "enigmatica" di Stavròghin, Sàtov
replica:
241
Non scherzavate! In America io vissi, tré mesi disteso
sulla paglia, al fianco di un... disgraziato e seppi da lui che, nello
stesso tempo che piantavate nel mio cuore Dio e la Patria, nello stesso
tempo, e forse in quegli stessi giorni, avevate avvelenato il cuore di
questo disgraziato, di questo maniaco, di Kirìllov... (I Demoni,
voi. II, p. 62).
A quale disperata conclusione porti poi l'esperimento di
Stavròghin si rivela dalla domanda che questi formula dapprima sotto
forma di scherzo, poi, in seguito alla protesta di Sàtov, "con altre
parole":
Nikolài Vsjevolòdovìc lo guardò severamente:
— Volevo soltanto sapere: voi stesso credete in Dio o
no?
— Io credo nella Russia, io credo nella sua
ortodossia... Io credo nel corpo di Cristo... Io credo che il nuovo
avvento si compirà in Russia... Io credo... — si mise a balbettare
Sàtov esaltato.
— Ma in Dio? In Dio?
— Io... io crederò in Dio.
Non un muscolo vibrò sul viso di Stavròghin. Sàtov lo
fissava con uno sguardo di fuoco, provocante, come se col suo sguardo
volesse incenerirlo.
— Ma io non vi ho mica detto di non credere affatto! —
gridò infine. — vi dichiaro soltanto che io sono un libro miserabile e
noioso, e nulla di più per il momento, per il momento... Ma perisca il
mio nome! Si tratta di voi e non di me!... Io sono un uomo senza talento e
non posso dare che il mio sangue, null'altro, come ogni uomo senza
talento. Vada dunque alla malora anche il mio sangue! Io parlo di voi, io
vi ho atteso qui per due anni... Per voi è mezz'ora che danzo nudo...
Voi, voi solo avreste potuto sollevare questa bandiera!... (I Demoni, voi.
II, pp. 69-70).
Stavròghin vede che l'esperimento non è riuscito. Sàtov
non crede. La sua non è che un'ideologia fanatica e impotente. Tuttavia
presto Sàtov crederà davvero, quando ritroverà sua moglie, abbandonata
da Stavrò-
242
ghin e in attesa di un figlio di lui — allora, davanti
al miracolo della nascita, gli si aprirà il cuore. Allora, d'un tratto,
troverà la vera fede, un minuto prima di morire.
Più aggressivo, più inquietante si fa il contegno di
Stavroghin nelle due singolari circostanze di cui si è già parlato.
Quando si mette a trascinare per il naso, senza alcun motivo, l'innocuo
Gagànov, solo perché si sente provocato da quel suo comico intercalare,
o quando morde all'orecchio la vecchia Eccellenza siamo seriamente in
presenza di un caso patologico; subito dopo infatti egli viene colto da un
accesso di pazzia furiosa. Tuttavia il fatto non è senza significato.
Lipùtin lo sente quando afferma che Stavroghin era perfettamente in sé.
E questi sente a sua volta che il proprio "delirio" ha carattere
ambiguo. La prima volta fa assegnamento sul fatto che lo si creda malato
di mente, ma un'altra volta dice all'arcivescovo Tichon che questa
opinione lo danneggia. Egli sente dunque il dovere di essere moralmente
responsabile, mentre la prima interpretazione lo libera da ogni
responsabilità e lo abbandona alla schiavitù dell'impulso.
Qui 1"'esperimento" diventa pericoloso dal punto
di vista sociale. Nell'uomo si scatena la belva, l'istinto asociale,
tenuto in freno dall'ordine, l'attacco a questo ordine.
La presenza di Stavroghin ci fa sentire la sua forza
concentrata - una "potenza sconfinata", dice Sàtov, quella che
egli invoca quando afferma che soltanto Stavroghin potrebbe
"sollevare la bandiera", quella a cui allude Vjerchovènskij
quando fa di Stavroghin lo zarevic segreto, il messia della sua
escatologia selvaggia. Nello stesso tempo però sen-
243
tiamo che nell'intimo di quest'uomo qualche cosa rimane
mortalmente inerte.
Egli esiste ma non vive la propria- esistenza;
pensa, ma non vive il proprio pensiero. Degli uomini
vengono a lui ed egli esercita su di loro una profonda influenza, ma
questo rapporto gli rimane estraneo. C'è vita in lui, ma egli non riesce
a farla sua. Stavròghin non può vivere.
Questo stato di morte Ulteriore è così avanzato che
nemmeno il pericolo agisce da stimolante. Nel riferire l'episodio dello
schiaffo il cronista racconta come il decabrista L...n cercasse il
pericolo per inebriarsene e continua:
Ma da allora tuttavia sono passati molti armi, e la natura
nervosa, tormentata e complessa degli uomini del nostro tempo non ammette
neppur più il bisogno di quelle sensazioni immediate e totali che erano
allora così ricercate da certi signori del buon tempo antico nella loro
attività irrequieta. Nikolàj Vsjevolòdovic avrebbe forse trattato
dall'alto in basso, l'avrebbe chiamato magari millantatore e fanfarone,
— è vero che non si sarebbe espresso così ad alta voce. Egli avrebbe
anche ucciso l'avversario in duello, avrebbe cacciato l'orso, purché
fosse stato necessario, e si sarebbe difeso contro un brigante nella
foresta con la stessa fortuna e la stessa intrepidità di L-n, ma però
senza alcuna senzazione di piacere, unicamente per una sgradita
necessità, con fiacchezza, con indolenza, e perfino con noia. (I Demoni,
voi. I, p. 193).
Così egli ricorre allo stimolante più abbomine-vole,
l'unico che gli resti: commettere l'infamia per se stessa. Coprirsi di
ignominia davanti agli uomini e davanti a se stesso lo eccita — su
questo punto non ci è lasciato alcun dubbio — fino alla voluttà
fisica.
Un giorno, lo racconta egli stesso nella sua
"Confessione", ruba a un impiegatuccio tutto lo stipendio
244
"per distraisi dal sogno che non gli dava tregua o
soltanto per ridere". Si accorge che l'altro ha dei sospetti sul suo
conto, ma prova piacere a vederlo sovente e "a incontrare il suo
sguardo nel corridoio". Poi, "la cosa mi venne a noia".
Seguitando, egli riferisce la storia infame della piccola
Matrjòsa. Con perfetta calma, non ostante l'eccitazione spasmodica, egli
suscita il sospetto che la bambina l'abbia derubato per assistere alla
punizione che la madre le infligge; in seguito, senza far nulla di
speciale, soltanto con lo sguardo, con l'atteggiamento e con qualche
carezza, egli le mette il fuoco nelle vene con raffinatezza atroce,
suscita in lei il sentimento della dedizione totale, poi quello del
brutale abbandono, sicché, disperata, la bimba si uccide. Pagine
terribili, in cui vediamo la creatura innocente passare attraverso tutto
il disonore di cui può macchiarsi la vita di una donna fino a veder
distrutta in sé non solo la dignità ma anche il senso di ciò che è
sacro poiché la bimba si rimprovera di "aver ucciso Dio".
Finalmente il matrimonio con la zoppa Màrja Lebjàdkina
"che faceva qualche servizio nei nostri cantucci e che a quel tempo
non era ancora una pazza, ma semplicemente un'idiota entusiasta,
innamorata in segreto di me".
Tutte creature inermi torturate da lui. Sadismo,
dunque, per chiamare la cosa col suo nome. Ma ciò che esso ha di
particolare è lo psicologismo raffinato della scelleratezza, quello che
nelle Memorie del Sottosuolo Dostojevsidj chiama
"aracneo", solo che qui si tratta di una cosa piuttosto
meschina, mentre in Stavròghin esso assume ben altre dimensioni. In più
c'è la consapevolezza acuta dell'infamia; Stavròghin stesso dice:
245
Ogni qualvolta nella mia vita mi sono trovato in una
situa2Ìone estremamente vergognosa, umiliante, ignobile, ma, soprattutto,
ridicola, essa ha suscitato in me, con una collera smisurata, anche una
voluttà incredibile. Lo stesso avveniva nei momenti in cui commettevo dei
delitti e nei momenti in cui la mia vita era in pericolo.
Se avessi rubato qualcosa, mi sarei sentito, nel
commettere il furto, inebriato dalla consapevolezza della profondità
della mia infamia. Non che amassi l'infamia (su questo punto la mia
ragione rimaneva intatta), ma mi piaceva l'ebbrezza derivante dalla
tormentosa coscienza della mia ignobiltà. Così, pure, ogni qualvolta, in
piedi sul terreno, attendevo lo sparo dell'avversario, provavo la stessa
senzazione di onta e di furore, e una volta la provai foltissima. Confesso
che sovente la cercavo io stesso, perché era per me la più forte tra
tutte quelle del medesimo genere. Quando ho ricevuto uno schiaffo (e nella
mia vita ne ho ricevuti due), è stata la stessa cosa, nonostante la mia
terribile collera. Ma, se si riesce in quel momento a dominare la collera,
il godimento supera tutto ciò che si può immaginare. Di questo non ho
mai parlato a nessuno nemmeno velatamente, e l'ho sempre tenuto nascosto
come una vergogna e un disonore. Ma quando una volta, in una taverna di
Pietroburgo, fui picchiato gravemente e trascinato per i capelli, non
provai quella sensazione, ma soltanto una collera incredibile, benché non
fossi ubriaco, e mi azzuffai semplicemente. Ma se mi avesse afferrato per
i capelli e piegato giù quel visconte francese che all'estero mi aveva
colpito su una guancia e al quale fracassai in duello la mascella
inferiore, ne avrei provato un'ebbrezza e forse non avrei sentito la
collera. Così mi parve allora.
Tutto questo perché ognuno sappia che quel sentimento non
mi dominò mai per intero, ma conservai sempre la piena coscienza di me (e
anzi è sulla coscienza che tutto si basava). Ed esso mi possedeva bensì
fino alla follìa e, per dir così, fino all'ossessione, mai però fino
all'oblio di me stesso. Mentre arrivavo nell'intimo al calor bianco,
potevo in pari tempo superarlo e perfino arrestarlo nel suo punto
culminante; ma ero io stesso a non volerlo arrestare. Io sono convinto
che, nonostante la sensualità bestiale di cui sono dotato e che ho sempre
provocata, avrei potuto passare tutta la mia vita come un monaco.
246
Sono sempre padrone di me, quando lo voglio. Si sappia
dunque che io non intendo invocare ne l'ambiente, ne le malattie per
esimermi da responsabilità per i miei delitti. (I Demoni, voi.
Ili, pp. 335-36).
Parlando della bambina egli ripete sovente che "il
cuore [gli] batteva" e a proposito di Màrja Lebjàdkina dice:
"L'idea del matrimonio di Sta-vròghin con un essere così infimo
vellicava i miei nervi. Nulla si poteva immaginare di più
mostruoso". Qui sta la spiegazione di quello che avviene in lui dopo
lo schiaffo di Sàtov: è la voluttà dell'onta; la facoltà di mantenere
allo stato più intenso quella sensazione inebriante e di dominarla nello
stesso tempo perfettamente: l'"innata sensualità bestiale"
congiunta a una capacità di astinenza assoluta, l'istinto cieco che vuole
solo il piacere e il potere di mantenersi sempre padrone di se stesso...
Il cronista ne da l'interpretazione etica quando dice che la malvagità in
lui era "fredda, tranquilla e, se così posso esprimermi, ragionevole,
per conseguenza la più rivoltante e terribile che ci possa essere".
Che cosa da un significato alla passione? Che cosa
legittima l'assenso all'istinto, nell'uomo che è un essere spirituale e
personale? Il fine naturale, la funzione legata alla specie e alla
società umana, da soli non bastano. La giustificazione vitale non può
venire che dal cuore. Il cuore lega nell'uomo lo spirito alla materia, la
persona all'istinto e a questo legame da un significato. Solo il cuore
può farlo in virtù dell'amore. Se questo viene a mancare, tutto si
avvilisce e si degrada. Se poi lo spirito è per giùnta consapevole e
raffinato, se è violento e impotente insieme, il risultato sarà la
turpitudine di cui stiamo parlando.
247
— È vero — domando Sàtov, — che avete affermato di
non vedere differenza di bellezza tra un qualunque atto di sensualità
bestiale e qualsivoglia grande impresa, fosse anche quella di sacrificare
la vita per l'umanità? È vero che ai due poli avete trovato la stessa
bellezza, l'identico godimento?
— Rispondere così è impossibile... non voglio
rispondere, — mormorò Stavròghin, che avrebbe potuto benissimo alzarsi
e andarsene, ma non si alzava e non se ne andava.
— Anch'io non so perché il male è brutto e perché il
bene è bello, ma so perché il sentimento di questa distinzione si
cancella e si perde in certi signori, come gli Stavròghin, — persisteva
a dire Sàtov, tremando tutto;
— sapete perché vi sposaste allora in modo così
vergognoso e vile? Appunto perché qui la vergogna e l'assurdo arrivavano
alla genialità! Oh, voi non vi aggirate sull'orlo dell'abisso, ma vi
buttate giù arditamente a capofitto. Vi siete sposato per la passione del
martirio, per bramosia di rimorsi, per voluttà morale. I vostri nervi
hanno avuto uno schianto... La sfida al buon senso era troppo seducente!
Stravroghin e la zoppa deforme, povera di spirito e miserabile! E quando
mordeste l'orecchio al governatore, non provaste una voluttà? La
provaste? La provaste, bei signorino ozioso e bighellone? (Z Demoni,
voi. II, pp. 71-72).
L'ultima espressione di questa perversità è
l'apparizione del satanico negli stati visionar! e morbosi di-Stavròghin
ai quali sovente si allude nel romanzo:
E tutt'a un tratto, nel modo, del resto, più conciso e
più brusco, tanto che parecchie cose non si potevano nep-pur capire,
raccontò che andava soggetto, specialmente la notte, a un certo genere di
allucinazioni, che talvolta sentiva o vedeva accanto a sé un essere
malvagio, beffardo e « ragionevole », « con facce diverse e diversi
caratteri, ma sempre lo stesso, e io vado sempre sulle furie! ».
Queste confidenze erano stravaganti e confuse e parevano
realmente quelle di un pazzo. Ma Nikolàj Vsjevolòdovic parlava inoltre
con una sincerità così strana, senza precedenti in lui, con una
ingenuità così lontana dalla sua natura, che l'uomo di prima pareva
fosse in lui totalmente
248
scomparso. Egli non si vergogno punto di lasciar vedere-lo
sgomento con cui parlava della sua visione. Ma tutto questo durò un
istante e se ne andò con la stessa rapidità con cui era venuto.
— Tutto ciò è assurdo, — disse in fretta e con una
steza un po' goffa, riprendendosi. — Andrò da un dottore..-
— E da molto tempo ci andate soggetto?
— Da un anno circa, ma tutte queste son sciocchezse. Io
andrò da un dottore. Sono tutte schiocchezze, enormi sciocchezze. Sono io
stesso sotto aspetti diversi, e nien-t'altro16. Siccome dianzi
ho aggiunto quella... frase, voi credete certamente che io abbia ancora
dei dubbi e non sia sicuro che in realtà sono io e non il demonio.
Tichon lo guardava interrogativamente.
— E... voi lo vedete per davvero? — domandò,
escludendo così ogni dubbio che si trattasse realmente di
un'allucinazione ingannevole e morbosa — vedete in realtà una-figura?
— È strano che insistiate su questo, quando vi ho
già detto che la vedo, tornò a irritarsi Stavròghin sempre più a ogni
parola, — si capisce che la vedo, la vedo come vedo voi... ma qualche
volta, pur vedendola, non sono-sicuro di vederla... e alle volte non so
quale sia la realtà:
se io o lui... tutte sciocchezze. Ma voi non potete
proprio-supporre che sia realmente il demonio? — aggiunse, mettendosi a
ridere e passando in modo troppo brusco al. tono canzonatorio, — eppure
sarebbe più in armonia con la vostra professione. .
— È più probabile che sia là malattia,
benché...
— Benché cosa? ^
— I demòni esistono senza dubbio, ma il modo di
concepirli può essere molto diverso.
— Voi avete adesso abbassato un'altra volta gli occhi,.
— riprese Stavròghin irritato e beffardo, — perché avete sentito
vergogna per me che io credessi nel demonio, ma, facendo finta di non
crederci, io vi rivolgerò astutamente questa domanda: esiste in realtà o
non esiste?
16 II fenomeno dello sdoppiamento della personalità
che-può arrivare fino a quello del sosia — vedi la figura di Gol-djakin
nel Sosia — non è identico all'esperienza satanica ma. qui si
combina con essa, come pure nelle visioni di Ivàn Ka-ramàzov.
249-
Tichon sorrise vagamente.
— Ebbene, sappiate ch'io non mi vergogno affatto e, per
compensarvi della mia ruvidezza, vi dirò seriamente e impudentemente: io
credo nel demonio, ci credo nel senso canonico, credo nel demonio come
persona e non come allegoria, e non ho bisogno di farmi dir nulla da
nessuno a questo riguardo, ecco tutto!
E poi la domanda:
Si può credere al diavolo senza credere in Dio? » (I Demoni,
voi. Ili, pp. 324-27).
Ma su questo punto non ci dilungheremo di più perché non
si tratta che di un grado preliminare alle visioni di Ivàn Karamàzovn.
Studiando la figura di Kirìllov abbiamo accennato alla
relazione esistente fra i concetti del finito, del nulla e dell'angoscia e
abbiamo creduto di vedere il momento decisivo dell'evoluzione dell'epoca
moderna nel fatto che il carattere finito dell'esistenza è assunto come
assoluto e incondizionato. Abbiamo visto ancora come per la coscienza
cristiana si tratti di decidere se considerare o no il finito sotto un
aspetto nuovo, come un compito e un dovere di cui si è responsabili
davanti a Dio. Una volta il finito era concepito ingenuamente e riferito
direttamente a Dio. L'epoca moderna o, più esattamente, i tempi che
seguiranno l'"epoca moderna" sembrano chiamati a decidere se
introdurre il finito, ormai maturo e responsabile, nel rapporto divino
oppure emanciparlo da questo rapporto, dichiarandone l'autarchia,
l'autonomia. Ma in questo caso
17 Si
veda il capitolo V di questo libro. 250
esso apparirà nudo e spoglio e intomo ad esso il nulla
"identificherà". L'esistenza cadrà allora in potere
dell'angoscia.
A me sembra che nel fenomeno Stavròghin si presenti
qualche cosa di simile. Soltanto qui non l'essere vivente, ma l'atto
vitale stesso viene appreso come finito e precisamente all'interno, nella
sua intensità, nella sua intimità. Il limite del finito risalta qui
nello stesso modo come, vivendo, ci accorgiamo d'esser vivi, come la vita,
dunque, prende coscienza di sé e, nel compiere i suoi atti, assimila a
sé i suoi oggetti. Il limite appare qui nella vitalità stessa della
vita. All'uomo non rimane altro su cui contare che la propria intensità
vitale ed egli si fa consapevole del suo limite, sia in senso attivo, come
potere che egli esercita sulla realtà, sia esistenzialmente, come unità
di atto e di soggetto, di atto e contenuto dell'atto, di soggetto e di
oggetto, di realizzazione del soggetto e appropriazione dell'oggetto, di
essere se stesso e di avere. Nel caso di Kirìllov egli sente aprirsi
sotto il proprio essere l'abisso del nulla, qui invece avverte nella
propria forza l'impotenza, l'assurdità del proprio agire, la noia in
tutto ciò che fa, la morte che insidia la vita... Anche qui c'è il
nulla, ma si è insediato nella vita stessa. E anche questo nulla
nientifica. Dall'intimo sale, come dice Pascal, la noia, la sazietà, il
disgusto, l'aridità, l'assurdità, il veleno. Non dal nulla esteriore, ma
dal nulla interiore . sale e si espande l'angoscia.
Qui si chiarisce anche il fenomeno del vuoto Ulteriore.
Non so se esso sia sempre esistito, se sia semplicemente una
manifestazione di decadenza, segno di una civiltà in declino o proprio
soltanto
251
dell'epoca moderna. Comunque esso è particolar-mente
sentito al giorno d'oggi. In Stavròghin appare con un'eviden2a
impressionante. La esistenza di quest'uomo è vuota. Non ch'egli non
possieda nulla o che nulla avvenga nella sua vita; qui il vuoto è nel
divenire stesso di questa vita: esso si spalanca nel suo cuore.
Esiste in una natura simile qualche possibilità di bene?
La domanda non è pedantesca ma deve contribuire a trovare un significato
a quest'esistenza. Un uomo siffatto può arrivare alla luce del bene? In
altri termini: la sua struttura ha un senso positivo? Può significare un
compito la cui soluzione impegni l'esistenza umana nel suo complesso?
Un fatto richiama anzitutto la nostra attenzione:
Stavròghin sembra incapace di mentire. Quando Sàtov lo invita al
rendiconto delle sue azioni, non risponde evasivamente ma con sincerità,
quantunque, parlando di se stesso, sia "soprapensiero" e senza
vera partecipazione, e non riviva ma piuttosto contempli i fatti narrati,
mettendosi, per così dire, al di fuori delle sue parole. Nella
"Confessione" c'è addirittura una volontà violenta di rivelare
tutto, ma proprio questa violenza è sospetta, e inoltre dobbiamo
chiederci quanto le tendenze che abbiamo analizzate siano determinanti di
questa sincerità.
Ciò nonostante, la presenza di Stavròghin genera
l'inganno. Fino a che punto arrivi l'impostura appare dalle fantasie della
povera Màrja Lebjàdkina;
ingannati però sono tutti. Egli ne è responsabile in
quanto permette che ciò avvenga e anche lo favorisce, sia col silenzio,
sia sottolineando il fatto. Ma, a parte questo, l'inganno è nella natura
stessa
252
di Stavròghin. Sappiamo che nel suo intimo egli è sempre
totalmente indifferente; ma poiché egli possiede una forza immensa di
suggestione e un tatto psicologico profondamente differenziato, il suo
interlocutore è sempre indotto a prenderlo sul serio e ad agire sul
serio; egli sente in questo incontro la presenza di un destino e suppone
la stessa cosa in Stavròghin, che nel suo intimo è rimasto invece
distaccato e lontano. Così da ogni incontro nasce l'inganno. Stavròghin
è "commediante" nato. Ma forse egli potrebbe obiettare che
nessuno ha il diritto di proibirgli di vivere secondo la sua natura e
chiedere: che colpa ne ha, lui, se gli uomini lo credono diverso? Quando
essi cadono nella rete non agisce in loro sempre una segreta volontà di
subire l'inganno, una fragilità ulteriore, un desiderio di annientamento
?
Stavròghin anela però a uscire da quella confusione. Al
principio del romanzo, là .dove si parla della educazione funesta
impartita al ragazzo dal sentimentale Stjepàn Vjerchovènskij, è anche
detto che egli era pieno di aspirazioni ideali e qui c'è certamente del
vero. Nei colloqui con Sàtov e con Kirìllov non c'è soltanto il
desiderio di distruggere o la ricerca di un pretesto per passare il tempo,
ma anche un bisogno di chiarezza. Ciò che lo lega alla dolce e soave Dasa
Sàtova è la speranza di trovare qualcosa che riesca a trarnelo fuori.
Forse a questo proposito sono da ricordare anche i suoi singolari pensieri
sulT'Apocalisse.
Durante la visita a Tichon, benché si difenda dalla
"psicologia" e tema che si legga nel suo cuore, sebbene taccia
dell'ironia e sia sempre pronto a dar prova di cinismo, pur egli cerca
l'uomo più forte
253
di lui, capace di "smuovere le montagne" —
questo è, ad onta del tono cinico, il senso velato della domanda a Tichon
—; l'uomo la cui fede sia abbastanza forte da vincere la minaccia della
dannazione e salvarlo da se stesso.
In questo desiderio freme a dire il vero anche la
ribellione:
— Credete in Dio? — domandò bruscamente Nikolàj
Vsjevolòdovic.
— Ci credo.
— Ebbene, è detto che, se si crede e si ordina a una
montagna di muoversi, essa si muove... perdonate, del resto, le
sciocchezze che vi dico. Tuttavia sono curioso di sapere: la smuovereste
la montagna o no? (I Demoni, voi. Ili, p. 326).
Poi, improvvisamente:
— Basta, — interruppe Stavròghin. —- Sapete, io vi
amo molto.
— E io voi, — rispose Tichon sottovoce. Stavròghin
tacque e ricadde nella fantasticheria di poco prima. Era come un accesso
che lo prendeva già per la terza volta. E anche a Tichon egli aveva detto
« vi amo » quasi come fosse in preda a un accesso, per lo meno era stata
anche per lui una sorpresa.
Il suo contegno verso l'arcivescovo fa paura; anche questi
ne prova spavento:
— Non adiratevi, — sussurrò Tichon, toccandolo
leg-germente con un dito nel gomito e come preso da timidezza.
Quello trasalì e aggrottò, iroso, le sopracciglia.
— Perché avete proprio supposto che io dovessi andare
in collera? — chiese irritato. (I Demoni, voi. Ili, pp. 328-29).
254
Quest'uomo è torturato, roso dal rimorso. Esso si
concentra sulla figura della piccola Matrjòsa; sovente l'immagine della
bimba gli appare quale egli l'aveva vista nella sua estrema dispera2Ìone:
Provavo, non so perché, un vero piacere a non rivolgere
la parola a Matrjòsa, ma a farla languire.
Io aspettai un'ora intiera e a un tratto sbucò lei stessa
di dietro al paravento. Io sentii i suoi due piedi picchiare sul pavimento
quando saltò giù dal letto, poi dei passi abbastanza rapidi, e la vidi
comparire sulla soglia della mia camera. Stava là in piedi e mi guardava
in silenzio.
10 ero così vile che il cuore mi palpitò di gioia
perché ero stato di carattere e avevo atteso che lei mi fosse venuta
incontro per la prima. In quei giorni, in cui, dopo di allora, non l'aveva
più veduta da vicino nemmeno una volta, era veramente dimagrata
moltissimo. Il suo viso si era fatto smunto e la testa di sicuro le
ardeva.
I suoi occhi si erano dilatati e mi guardavano immobili
con una curiosità ottusa, come sul principio mi parve. Io stavo seduto,
la guardavo e non mi muovevo. E a un tratto sentii nuovamente dell'odio.
Ma mi accorsi ben presto che non aveva affatto paura di me, ma invece,
forse
11 delirio. Ma non aveva neppure il delirio.
Improvvisamente si mise a crollare il capo, come fanno le persone ingenue
e alla buona quando vogliono fare dei grandi rimproveri, e a un tratto
alzò contro di me il suo piccolo pugno e cominciò a minacciarmi dal suo
posto. Nel primo istante quel gesto mi sembrò ridicolo, ma poi non potei
più resistere. Sul suo viso c'era tanta disperazione che sulla faccia di
una bambina non se ne poteva sopportare la vista. Ella continuava a
minacciarmi col suo piccolo pugno e a scuotere il capo con aria di
rimprovero. Io mi alzai e mi avvicinai a lei spaventato, cominciai a
parlarle cautamente, a bassa voce e in tono carezzevole, ma vidi che non
capiva. (I 'Demoni, voi. Ili, pp. 343-44).
La bambina esce dalla stanza e sale nel solaio;
egli però, sapendo quello che sta per accadere, aspetta
che tutto sia finito, mentre il cuore gli "bat-
255
•teva sino a fargli male"; poi, s'accosta allo
sgabuz-
•zino, e vede che la bambina si è impiccata. L'immagine
ritorna continuamente:
Io vidi davanti a me (oh, non allo stato dì veglia! fosse
almeno stata una visione reale!)," io vidi Matrjòsa
•dimagrita e con gli occhi febbricitanti, esattamente
com'era
•quando stava in piedi sulla mia soglia crollando il
capo e col minuscolo pugno levato contro di me. E nulla mai mi era
apparso di così angoscioso! La disperazione pietosa
•di un essere indifeso la cui ragione era ancora
imperfettamente sviluppata e che mi minacciava (di che? che mai poteva
farmi, mio Dio?), ma non accusava senza dubbio
•che se stesso! Non avevo ancora mai provato nulla di
simile.
Restai fino a notte senza muovermi, perduta ogni nozione
del tempo. Se questo si chiami rimorso di coscienza
•o pentimento non so, ne lo potrei dire neppur oggi. Ma
mi riesce insopportabile quella sola immagine, e precisamente sulla mia
soglia, col suo piccolo pugno alzato e minaccioso, quel solo aspetto di
lei, quel solo momento,
•quel solo crollar di capo. Ecco appunto ciò che non
posso più sopportare, perché dopo di allora la visione mi apparve quasi
ogni giorno. Non si presenta da sé, ma io
•stesso la evoco e non posso non evocarla, benché essa
m'impedisca di vivere. Oh, se avessi una volta potuto
•vederla in realtà, fosse pure in -un'allucinazione!
..Perché mai tra i ricordi della mia vita non uno suscita
in me nulla di simile? Eppure di ricordi forse ancora molto peggiori agli
occhi degli uomini ne ho molti! Tutt'al più essi suscitano in me
dell'odio, anche questo però è pro-
•vocato dalla mia attuale situazione, mentre prima avevo
il sangue freddo di dimenticarli e di allontanarli da me.
Di poi ho errato quasi tutto quest'anno e ho cercato di
occuparmi. So che anche adesso potrei, se lo volessi, scacciare Matrjòsa.
Sono assolutamente padrone della mia volontà come in passato. Ma tutto
sta qui, che non l'ho mai voluto fare, non lo voglio e non lo vorrò. E
così
18 In questo caso avrebbe potuto
obicttivarla, ragionare
•con lei.
-256
continuerà fino a che sarò pazzo. (I Demoni, voi.
Ili, pp. 352-53).
È pentimento? È autodistruzione? O la volontà di
mantener desta l'eccitazione che gli da quest'infamia?
Egli si reca dall'arcivescovo per parlargli della
penitenza che si è imposta: render nota, dappertutto, la sua
"Confessione". Ma Tichon non gli crede:
— Quest'idea è una grande idea e il pensiero cristiano
non può esprimersi in modo più pieno. Più in là di un atto così
sorprendente come quello che avete meditato, il pentimento non può
andare, purché...
— Purché?
— Purché sia un vero pentimento e un pensiero veramente
cristiano.
— Io ho scritto con sincerità.
— Pare che facciate apposta a farvi passare per un uomo
più grossolano di quel che il vostro cuore desidererebbe... — si faceva
sempre più ardito Tichon.
Evidentemente il « documento » gli aveva fatto profonda
impressione...
— Questo documento scaturisce direttamente dal
bisogno di un cuore mortalmente ulcerato, ho capito bene?
— egli proferì con tono insistente e con insolito
calore.
— Sì, è il pentimento, il bisogno naturale di
pentimento che vi ha sopraffatto, e voi vi siete messo per un grande
cammino, un cammino inaudito. Ma pare che già anticipatamente odiate e
disprezzate tutti coloro che leggeranno ciò che qui è scritto e li
sfidiate a una lotta. Poiché non vi vergognate di confessare un delitto,
perché vi vergognate del vostro pentimento?
— Mi vergogno?
— Vi vergognate e avete paura.
— Ho paura?
— Una paura mortale. Che mi guardino — voi dite- —
bene, ma voi adesso come guarderete gli altri? Certi punti della vostra
narrazione sono scritti in uno stile sforzato;
avete l'aria di compiacervi della vostra psicologia e vi
257
aggrappate a ogni minuzia, pur di stupire il lettore con
una insensibilità che in voi non esiste. Che è questo, se non la sfida
orgogliosa del colpevole ai suoi giudici?
— Ma dov'è la sfida? Io mi sono astenuto da qualsiasi
giudizio intorno alla mia persona.
Tichon tacque. Anzi il rossore coprì le sue pallide
guance... — Non vi nasconderò nulla: sono rimasto atterrito vedendo una
grande forza oziosa, spesa deliberatamente nel commettere infamie. (I Demoni,
voi. Ili, pp. 355-57).
Tichon non crede a questo pentimento. La confessione è
piena di vanità: la vanità dell'" immoralista" di fronte al
"borghese". Nello stesso tempo essa è piena di risentimento
verso chi l'ascolta;
piena di paura e di un'insopportabile senso d'umiliazione.
La confessione veramente pentita richiede che la persona alla quale essa
è fatta e che in fin dei conti rappresenta Dio, sia riconosciuta come
testimonio e giudice e che si accetti di umiliarsi davanti a lei. Qui ciò
non avviene e perciò l'avvilimento si converte in odio, e dove c'è
l'odio non c'è posto per il pentimento. Il pentimento in questa
confessione freme d'orgoglio. Non sa compiere la rinuncia indispensabile,
la rinuncia ad affermare se stesso. È terribilmente sforzato, violento
sino all'eccesso, e non produce quel lieve ma decisivo moto del cuore in
cui esso si apre e si libera. È dunque intimamente insincero:
Anche nella forma stessa di questo grande atto di
contrizione c'è qualcosa di ridicolo. Oh, non credete di non
vincere! — esclamò, quasi con entusiasmo.
Il delitto di Stavròghin è "vergognoso, infame,
all'infuori di ogni orrore, per così dire, troppo inelegante". Gli
manca quello che può rare veramente
258
impressione: ' il carattere tipico. Per parlare con
Kierkegaard: il puro "spirito del delitto" vi appare, ma questo
pentimento non riesce a toccarlo:
"Non siete preparato, non siete temprato; siete come
sradicato dal suolo, non avete la fede".
Stavròghin si accorge che quest'uomo ha toccato veramente
il punto essenziale:
— Ascoltate, padre Tichon: io mi voglio perdonare da me,
ecco il mio scopo principale, ecco ogni mio scopo! — disse a un tratto
Stavròghin con un cupo entusiasmo negli occhi. — Io so che soltanto
allora sparirà la visione. Ed ecco perché cerco una sofferenza infinita,
perché io stesso la cerco. Non spaventatemi, dunque, se no perirò nel
mio furore. (I Demoni, voi. Ili, p. 361).
Tichon a sua volta sente che il suo interlocutore è
scosso e si trova a una svolta decisiva. Si tratta di giuocare il tutto
per il tutto:
— Se credete di potervi perdonare da voi, — il che
vuoi dire, se voi potete affermare, davanti alla vostra stessa coscienza,
di essere veramente pentito, senza cioè altro motivo secondario o
sottinteso che invalidi ogni cosa, e di sciogliervi, con la volontà più
sincera, da quei vostri orribili legami, — e di poter raggiungere tale
perdono in questo mondo mercé la sofferenza, se vi proponete con fede un
simile scopo, voi credete già in tutto!... Come mai avete detto che non
credete in Dio?
Stavròghin non risponde e Tichon incalza:
— Dio vi perdonerà la vostra miscredenza, perché
onorate lo Spirito Santo, pur senza conoscerlo.
Lo "Spirito Santo", la limpidità intcriore di
chi si apre alla verità e alla volontà buona: ma già
259
il piatto nero della bilancia si abbassa, e il cuore si
chiude:
— A proposito. Cristo, perdonerà? — domandò
Stavrò-ghin con un sorriso sforzato e cambiando rapidamente il suo tono,
e nella domanda si sentì un leggero accento d'ironia- È detto nel Libro:
« Se darete scandalo a uno solo di questi piccoli », ricordate. Secondo
il Vangelo non c'è maggior delitto... Voi avete semplicemente una gran
voglia che non avvenga uno scandalo e mi tendete un tranello, buon padre
Tichon, — biascicò Stavròghin con noncuranza e dispetto18,
facendo l'atto di alzarsi — più brevemente, vorreste che io diventassi
un uomo posato, che prendessi moglie e finissi la mia vita membro del
circolo locale, visitando ogni domenica il vostro monastero. Bella
penitenza! Non è vero? Ma del resto, come conoscitore del cuore umano,
avete forse il presentimento che sarà senza dubbio così e che si tratta
solo di sermoneggiarmi ora a dovere per osservare le convenienze, poiché
io stesso non aspetto altro, newero?
Egli sorrise sforzatamente. (I Demoni, voi. Ili,
pp. 361-62).
Tichon fa un ultimo sforzo per indurlo a impegnarsi sul
serio e lo consiglia di andare da un asceta "di tanta sapienza
cristiana che ne io, ne voi lo possiamo comprendere". Stavròghin
dovrebbe far l'obbedienza sotto la sua dirczione e purificarsi nel
pentimento e nel sacrificio. Stavròghin ascolta "serio", poi,
improvvisamente:
— Lasciatemi stare, padre Tichon, — lo
interruppe sdegnoso Stavròghin e si alzò dalla sedia...
— Che avete? — egli gridò tutt'a un tratto,
considerando Tichon quasi con spavento. Questi gli stava dinanzi con le
mani giunte e un tremito convulso che pareva
w rivolta!
260
Com'è più grave qui il « dispettò » della più
selvaggia
ta!
provocato da un vero terrore gli percorse istantaneamente
il viso.
— Che avete? che avete? — ripeteva Stavròghin,
slanciandosi verso di lui per sostenerlo. Gli era parso che stesse per
cadere.
L'arcivescovo legge in Stavròghin il nuovo addensarsi
della minaccia: la ripresa del ritmo pauroso per cui il tormento della
coscienza ammoni-trice sta per essere sopraffatto da una nuova infamia.
— Calmatevi! — lo supplicava Stavròghin, veramente
allarmato per lui. — Forse lo differirò ancora... Avete ragione...
— No, non sarà dopo la pubblicazione, ma prima, un
giorno, un'ora forse prima del grande passo, vi getterete in un nuovo
delitto come in una via d'uscita e lo commetterete unicamente per evitare
la pubblicazione di questi fogli.
Terribile conferma che questo "pentimento" non
è sincero, non viene dal cuore, e non è veramente cristiano ma resta
viziato di "esibizionismo" e di "romanticismo", è
autotortura e godimento insieme.
Stavròghin capisce che l'occhio penetrante
dell'arcivescovo ha scorto qualche cosa che forse a lui stesso finora è
sruggito: egli "tremò di collera e quasi di sgomento".
— Maledetto psicologo! — gridò improvvisamente,
furioso, e, senza voltarsi indietro, uscì dalla cella. (I Demoni, voi.
Ili, pp. 363-64).
Nei piani di Pjotr Vjerchovènskij c'è già quello di
uccidere la povera Màrja Lebjàdkina. Nell'incontro avvenuto sul ponte,
Stavròghin ha dato il denaro al criminale incaricato
dell'assassinio; o meglio, gliel'ha gettato nel fango della strada; non è
261
dunque stato un incarico vero e proprio ma
piuttosto un lasciar correre, un incoraggiamento dato e smentito nello
stesso tempo, avvenuto ma non riconosciuto. Rimane esso dunque a mezz'aria
ma Fèdka non può interpretarlo se non come un invito ad agire.
Se Stavròghin è tale uomo — riproponiamo la questione
di cui si è perso il filo nell'incrociarsi delle risposte contrastanti
— se questa è la sua natura, dobbiamo considerarlo sin da principio
perduto? Questa freddezza, questa assenza di vita, questo vuoto ulteriore
significano forse una predestinazione alla condanna?
Se qui si tratta, come siamo convinti, di una
"struttura" tipica, sia di un uomo che di una situazione, allora
un senso c'è e c'è una via che conduce alla salvezza.
Alla "vacuità" è dato il compito di subire la
finitezza dell'essere, di sentirne tutta l'impotenza, il non-valore,
l'assurdità. Ad essa è imposto di perdere l'illusione di poter
contemplare, senza venir meno, il volto svelato dell'esistenza.
'Essa è condannata a non ricever sollievo dalla pienezza
del cuore, a non sentirsi irrorare dalle linfe salienti della vita, a non
esser sostenuta da nulla di naturale e di spontaneo. Nulla che provenga di
là potrà aiutarla a trovare la fedeltà e la fede.
Il prossimo non le è dato immediatamente; essa deve
sempre nuovamente ricercarlo nella fedeltà. Dio non le è dato
immediatamente; intomo ad essa non sono che cose inanimate e spazi
deserti. Perciò essa deve realizzare la nuda fede, ossia accogliere il
Verbo predicato e unirsi a lui con un proposito di fedeltà continuamente
rinnovato. De-
262
ve perseverare, sorretta soltanto — cosa ben difficile a
dirsi — da un quid impalpabile, da una fiducia quasi
ingiustificabile, dalla presenza, appena avvertita. Dovrà perseverare e
servire così di anno in anno. E finalmente la verità, la bontà, la
semplicità d'un significato appariranno e saranno scarne e acerbe, ma
molto pure. E questa sarà la garanzia che il vuoto sta per colmarsi, che
una realtà e una significanza si manifesteranno, al di là di tutto ciò
che potremmo chiamare vitalità o psicologia o con qualsiasi altro nome.
Ma se ciò non avviene la vacuità si trasforma nel nulla.
È questo l'inizio della caduta. Allora è l'impotenza brutale, lo
"strider di denti", l'assurdo spaventoso.
Se poi l'uomo è anche intellettualmente agguerrito,
l'obliterazione sarà completa. In questo caso la conoscenza psicologica
è così vasta, così universale l'esperienza delle possibili
interpretazioni della vita, così sperimentata la raffinatezza che nessun
argomento riesce più a convincere. Nulla vale a scuotere
quell'indifferenza perché tutto è già saputo, e di tutto ciò che
potrebbe esser detto è pronta un'interpretazione diversa. Dio, è vero,
ha tutte le vie aperte, ma umanamente parlando un'anima siffatta sembra
inespugnabile. In questa esistenza non si può far breccia.
Chiusa però su... niente. "Dietro" non c'è
niente, tranne un'angoscia fredda e contratta, senza vie d'uscita.
Certamente la via della conversione rimane aperta fino
all'ultimo respiro, ma nel piano del romanzo la visita all'arcivescovo è
sentita come la decisione definitiva, di cui tutto ciò che avviene in se-
263
guito, fino al suicidio di Stavròghin, non è che la
conseguenza.
Studiando la figura di Kirìllov abbiamo accennato alla
relazione che passa tra le diverse posizioni del problema esistenziale in
Dostojevskij, Kierkegaard e Nietzsche. In particolare abbiamo indicato una
precisa corrispondenza fra la figura di Kirìllov e quella di Zarathustra.
A proposito di Stavròghin, si potrebbe ora rilevare che esiste un'analoga
e altrettanto precisa corrispondenza tra il personaggio di Dostojevskij e
certi orientamenti del pensiero di Kierkegaard. Già alcuni tratti nella
figura di Kirìllov, ma poi e soprattutto la psicologia e la teologia di
quella di Stavròghin sono come la vera incarnazione del più cupo libro
di Kierkegaard: II concetto dell'angoscia20. I diversi
gradi di angoscia, il processo di obliterazione progressiva, il nulla e il
demoniaco risaltano in Stavròghin con una evidenza esemplare. Ma qui non
è possibile entrare più a fondo nell'argomento.
Questo è dunque il personaggio intorno a cui gravita il
mondo dei Demoni.
Davanti a noi è lo spettacolo di una distruzione senza
fine, di una devastazione e di una rovina totale. Forze malvage, orrende,
paurose sono all'opera: i demoni. Tuttavia essi non fanno che esplicare
ciò che si concentra in un solo. Egli è il maestro. Ma ciò intorno a
cui questo mondo si svolge, il centro d'innervazione della sua attività
distruttrice è in ultima analisi il nulla,, il vuoto disperato, richiuso
su se stesso. Questo è ciò che atterrisce.
L'immagine dell'inferno di Dante sorge davanti
20 11
concetto dell'angoscia e la malattia mortale, sono ti. da C. fabro,
Firenze 1953.
264
alla mente spontanea. In ogni punto del gigantesco imbuto
s'agitano furiosi i diavoli, ma essi a loro volta non sono che gli
emissari, le esplicazioni di colui che sta al centro: Lucifero. Questi non
si muove, è congelato. Altrettanto è di Stavròghin.
Egli è il più miserabile degli uomini. Si può provare
per lui una compassione immensa, nien-t'altro. Ma anche Satana non è
certo un titano. Ciò che la nostra epoca — l'epoca del satanismo e
dell'inversione dei valori — ha scritto sulla "grandezza del
male" non è che letteratura. Satana è l'ingannato per eccellenza,
colui che inganna se stesso. È. povero e nudo e non ha proprio niente di
grandioso. È il miserabile simius Dei.
265
CAPITOLO SETTIMO
UN SIMBOLO DI CRISTO
Chiunque consideri il mondo spirituale di Do-stojevski]
dovrà alla fine domandarsi anche quale sia il significato della sua opera
religiosa più profonda, il romanzo L'Idiota. Cercherò di dare una
risposta e nel farlo prenderò le mosse, forse più di quanto si è
soliti, dalla mia personale esperienza di questo libro. Le pagine che
seguono diranno in che modo ho cercato di orientarmi. Esse hanno perciò
il valore di una semplice ipotesi.
Non si può ritornare agl'Idiota senza sentire la
profonda intensità religiosa di questo mondo, paragonabile soltanto a
quella che pervade le 'creazioni di Rembrandt. Si avverte, formidabile e
penetrante, la presenza di Dio, senza che per altro si parli molto di Lui.
Ma Egli è lì presente, vi si leva e domina.
Tutto questo è chiaro ed è chiaro anche che la presenza
di Dio si avverte soprattutto nella persona del principe Myskin. La
sentiamo al suo contatto, entrando nella sua atmosfera. Ma questo fatto
prende l'aspetto di un enigma appena lo si scruti più a fondo. Questo
uomo, nel quale si manifesta in tal modo la realtà divina, in che
rapporto si trova con Dio, con se stesso, con gli altri uomini? Qui siamo
in presenza di un mistero e si sarebbe tentati
267
di metterlo da' parte, riducendo tutto alla solita
formula, che tuttavia supera la nostra intelligenza, che Myskin è un
cristiano di natura speciale, che in lui si manifesta una particolare
somiglianzà con Cristo, e richiamandosi alla frase paolina: "Io
vivo, ma non io, bensì Cristo vive in me"... Tuttavia, per quanto
apparentemente ovvia, questa interpre-tazione è insufficiente. Potrebbe
anzi mettere sulla falsa strada. Il principe è un uomo come tutti gli
altri. Il vero contenuto della sua esistenza è religioso; è, in fondo,
il Cristo, per quanto poco di Cristo si parli e per quanto di rado i
pensieri di Myskin o i moti del suo cuore vadano espressamente a Lui.
Tuttavia non credo che l'intenzione di Dostojevskij sia stata
semplicemente di farci il ritratto di un cristiano, sia pure di un
cristiano eccezionale, e questo sembra provato dal fatto che noi sentiamo
continuamente la presenza di Cristo, senza che le parole o i pensieri
espressi si riferiscano esplicitamente a Lui.
La grandezza di Dostojevskij come creatore di tipi umani
è tale che solo lentamente riusciamo a misurarla. Essa appare sempre più
incommensurabile a misura che le figure dei suoi personaggi s'illuminano
nel loro insieme e nei tratti particolari. È come se a questo scrittore
si schiudesse il grembo della realtà e una figura dopo l'altra ne
uscisse. Ma più misterioso è forse in lui il potere di evocare nel corso
di un vicenda umana figure che sono al di qua, o trascendono o esulano
addirittura dall'umano; non però personaggi irreali, disegnati coll'estro
di molti romantici, ma uomini veri, solidamente costruiti, determinati
nella loro realtà individuale; creature che vivono, agiscono, hanno un
268
proprio destino — dalle quali tuttavia si leva
l'immagine di un'esistenza che non è più, essa stessa,
•umana 1.
Ecco per esempio Kirìllov affermare che Dio non ha mai
cessato di torturarlo; egli sente il dovere di por fine a questa tortura
rivendicando per sé il massimo attributo di Dio, la sovranità del
volere, e in che modo? Nel modo più terribile: uccidendosi. Ma
nell'attimo in cui sta per porre in atto la sua intenzione ecco i suoi
movimenti alterarsi: davanti a noi si muove una marionetta. Una forma
particolare di esistenza, quella meccanica, che traduce l'uomo in
un'astrazione inanimata, appare nel momento della decisione suprema. È un
uomo, Kirìllov, ma nella sua figura, nelle sue movenze appare l'immagine
della marionetta.
Se poi ci volgiamo a Smerdjàkov, il quarto dei fratelli
Karamàzov, per osservarlo più da vicino, vien fatto di chiederci se egli
sia veramente un uomo. Che lo sia, in un certo senso, è fuori dubbio:
egli ragiona e parla, si veste, mangia e beve come tutti
noi, ha la sua vanità, i suoi segreti e il suo lato sincero. Ma
osserviamo certi particolari carat-teristici, straordinariamente
impressionanti, la natura ad esempio e la ragione della sua vanità, che
esclude ogni riferimento ad altre persone, le sue strane impressioni, i
suoi gusti, le sue ripugnanze o la sua logica singolare, o anche la
maniera indiretta di osservare e capire senza farsi accorgerò, e ancora
la strana, fredda serietà con cui reagisce al-
1 A
questo punto si affaccia però il quesito se, in ultima analisi, l'uomo
sia « soltanto uomo ». Qui appare l'insufficienza di un umanesimo che
voglia restare sempre umanesimo « puro ». « L'homme dopasse infiniment
l'homme », ha detto Pascal. Pensées, ed. Brunschvicg, n.
434.
269
l'elemento morale o religioso... Dopo aver considerato
tutto questo mi parve d'un tratto d'averne trovato la spiegazione: questo
essere è un airuna, una mandragola, qualcosa d'intermedio fra la pianta e
la mucillagine; un uomo in carne e ossa, senza dubbio, ma nel quale si
rivela distintamente quell'altra natura. Non solo per imitazione o
"personificazione", ma per emanazione diretta dai tratti, dalle
movenze, dal linguaggio...
Qualcosa di simile mi accade, in un senso s'intende ben
diverso, per il minore dei quattro fratelli, Aljòsa Karamàzov. La mia
attenzione fu destata dal rapporto singolare di questo personaggio con la
verità, dal suo modo di dire la verità, non solo per l'intensità ma per
l'accento particolare che egli mette nel farlo. Proprio in questo mi
pareva consistere il carattere peculiare onde Aljòsa si distacca dal
comune degli uomini. Il vecchio Fjòdor lo chiama "il suo
angelo", Dmìtrij, il fratello maggiore, "cherubino";
Ivàn, che poi entrerà in contraddizione con Aljòsa proprio sulla linea
della divina folgorante verità, fa suo quell'appellativo. Tutto ciò mi
ha fatto scorgere anche questa volta l'immagine di una esistenza non
umana, quella dell'angelo. E precisamente del cherubino, il cui atto
essenziale è conoscenza. Altri esempi del genere mancano. Queste figure
sembrano indicarci la via per giungere a scoprire il vero significato àeìì'Idiota.
La personalità del principe Myskin
Per non aver dubbi sulla autentica umanità del principe
Myskin, faremo anzitutto un ritratto del personaggio.
270
Lo incontriamo subito al principio del romanzo, una
mattina fredda e nebbiosa, in una vettura ferroviaria mentre ritorna in
Russia dalla Svizzera. Un modesto involto è tutto il suo avere. Del suo
aspetto esteriore è detto:
II possessore del mantello col cappuccio era un giovanotto
sui ventisei o ventisette anni... di statura poco più che mezzana, con
capelli assai biondi e folti, guance infossate e una rada barbetta a
punta, chiarissima. I suoi occhi erano grandi, celesti e fissi; c'era nel
loro sguardo un che di dolce, ma anche di pesante, colmo di quella strana
espressione da cui certuni sanno al primo tratto indovinare in una persona
il mal caduco. Il viso del giovane, del resto, era simpatico, fine ed
asciutto, ma smorto, anzi in quel momento illividito dal freddo 2.
Della sua voce è detto che era "sommessa e
conciliativa" e Rogòzin, il cupo diffidente, gli dirà più tardi:
"Credo alla tua voce quando mi sei vicino".
Più volte si sottolineano le sue maniere perfette e la
squisita cortesia. Ciononostante manca di disinvoltura in società e
sovente è persino imbarazzato e maldestro. Tuttavia le circostanze non lo
soppraffanno mai ed egli conserva di fronte ad esse una chiara
indipendenza di giudizio. E questo non con uno sforzo particolare, ma
naturalmente.
Al principio del racconto, lo troviamo vestito con
semplicità, anzi poveramente. Poi egli riceve una grossa eredità e si
veste con molta eleganza, ma un po', si aggiunge, come chi si affidi a un
sarto troppo premuroso senza aver gusti propri. In fondo, sia la povertà,
prima, che l'eleganza del suo vestire, poi, gli sono indifferenti... Pare
anzi che
2 L'Idiota,
tr. di A. Poliedro, Torino, Einaudi, 1941, p. 4. 271
•gli manchi il senso del possesso. In principio è
povero, ma non se ne rende conto, tant'è vero che ride anche lui delle
allusioni indelicate dei compagni di viaggio, Rogòzin e Lèbedev, al suo
fagot-tino. Riconosce apertamente la sua povertà, si rallegra quando
Rogòzin gli promette di aiutarlo, accetta poco dopo senza esitare un
prestito di pochi rubli e non gli passa per la mente di abbassarsi
facendolo. D'altro lato, la prospettiva di ereditare una grossa sostanza
non sembra fargli alcuna impressione. Ne parla solo più tardi e
unicamente in relazione a un fatto che l'interessa da un punto
•di vista umano. Egli dona senza contare e riconosce
anche le pretese più impudenti. "Sei proprio una santa
innocenza", esclama un giorno la generalessa Epàncin, la sua
singolare e materna amica. '"Tutti ti ingannano, tu lo sai, e ti fidi
ugualmente". Qualsiasi valore umano è per lui infinitamente più
importante del denaro; che finisce per non contare più nulla. Il
generale, che sa badare così bene ai propri interessi, sarà costretto a
definirlo "un nomo perduto".
Nel carattere del principe spicca tra tutte le altre
qualità una nobiltà innata. Tuttavia egli non da affatto l'impressione
di essere una persona fuori del mondo, anzi, ha il senso della realtà e
quando parla è assolutamente degno di tede. Se Aglaja ne fa un Don
Chisciotte, è per tutt'altri motivi: è l'insufficienza virile del
principe di cui ella vuole vendicarsi, sia pur per proprio tormento.
Myskin è coraggioso. Non temerario, come Sta-
•vròghin, ma intrepido. Lo rivelano due episodi in cui
egli interviene in difesa di due donne: la prima volta in casa di Gavrila
Ardaliònic, quando prende
272
le parti della sorella; la seconda, sulla passeggiata
pubblica della stazione balneare, a proposito di Nastàsja Filippovna. In
entrambi i casi egli è solo e tutt'e due le volte la cosa finisce male
per lui. Ma alla prossima occasione egli lo farebbe ancora. Questa
intrepidità è più che l'impavidità di un cuore di ghiaccio:
Vigliacco è chi ha paura e scappa; ma chi ha paura e non
scappa non è un vigliacco,
dice egli stesso sorridendo, dopo aver riflettuto. {L'Idiota,
p. 366).
Di fronte alla società che è sempre spieiata, egli
prende le parti di ciò che è nobile e delicato, di cui il mondo scettico
sorride. Questa intrepidità ha carattere metafisico, ed è segno di una
missione ma anche di una grande sofferenza.
Egli pure un senso molto affinato dell'onore:
Forse mi sono espresso in modo assai buffo ed ero buffo io
stesso, ma mi è sempre parso... di capire in che consista l'onore. (L'Idiota,
pp. 175-76).
L'onore, cioè, nella forma più alta, come un impegno
verso tutto ciò che è nobile, disinteressato, minacciato.
Egli si fida di tutti e la gente finisce per crederlo un
chiacchierone. Ma è l'ingenuità di uno spirito eletto che non può
concepire la necessità di essere guardinghi. E che della sua fiducia si
abusi sovente e in modo indegno non è per lui un motivo di non concederla
di nuovo alla prossima occasione. Essa ha forza creativa.
273
Benché egli non "giudichi" mai — come
Aljòsa, ma per un atteggiamento diverso dell'animo che è quello di una
misteriosa e pensosa umiltà — pure nello stesso tempo ha un senso molto
vivo dei valori autentici e dei gradi di differenziazione dell'umano.
Ma soprattutto egli sta in un rapporto molto intimo con la
perfezione. I valori d'essa rappresentano un pericolo, sono valori-limite.
Essi determinano infatti il suo destino e la sua rovina. Così il suo
incontro con Natàsja Filippovna, un essere che per natura vive sotto la
categoria della compiutezza totale. Nella esistenza di questa donna tutti
i valori appaiono portati a un grado estremo di tensione. Se fosse
cresciuta circondata di bontà, rispettata e libera, sarebbe diventata una
donna dagli slanci eroici, un'amante dal cuore grande e generoso. Totskij,
invece, ne ha distrutto la vita e così, poiché la sua esistenza è
determinata dalla legge della pienezza compiuta, la sua rovina è totale.
Anche Myskin è ordinato per natura alla compiutezza totale. In questa
donna, che vive con lui sotto la stessa legge, bellissima, ma della
bellezza delle vicine al tramonto, egli incontra perciò il suo destino:
l'amore nato da una compassione che uccide.
Il principe è un sottile psicologo. "Ora osservo
molto i visi", dice egli stesso (L'Idiota, p. 77). Egli
s'interessa vivamente di tutto ciò che può e-splicare un significato.
Caratteristica, a questo proposito, la sua disposizione per la grafologia,
più esattamente, per la scrittura antica, di cui interpreta con finezza
le sfumature stilistiche (L'Idiota, pp. 55-6). Sa leggere nel cuore
di un uomo con un intuito che confina con la divinazione. Questo po-
274
tere gli viene dal fatto che al suo sguardo non fa velo
alcuna cupidigia ne alcuna ostilità; esso è sempre perfettamente limpido
e aperto. Egli non è mai prevenuto verso il prossimo e questi può
apparirgli com'è veramente.
Più ancora: gli può apparire nella sua vera natura,
mostrargli il lato che di solito rimane nascosto. Per Myskin ogni persona,
anche la più umile, rappresenta qualcosa. In ciascuno egli sa trovare
dignità e buon volere. Va incontro a tutti fiducioso, senza intenti
pedagogia, con grande naturalezza. Vede certamente anche i difetti, le
meschinità, le furfanterie del prossimo, ma le accetta con obiettività
pacata, molto realisticamente, e la persona sente ad un tratto il sollievo
di poter apparire ai suoi occhi nella sua vera natura, senza più bisogno
di guardarsi dalla presunzione o dall'ipocrisia d'un giudizio morale, che
qui non esiste. D'altra parte non le vien neppure in mente di recitare una
commedia o di mettersi in posa perché sa benissimo di non potergli
nascondere nulla. Questo fa bene; da l'impressione di esser liberi e veri.
Tuttavia in questa obiettività è fatto appello — senza alcun pathos
ma con un calmo e certo sublime realismo —a ciò che ciascun uomo è
davanti a Dio e lo si aiuta a, riconoscere la propria posizione
spirituale, a ritrovare l'unità inferiore del proprio io.
Questo conferisce all'infinita capacità di compassione
del principe il suo carattere peculiare. Egli è disposto ad aiutare il
prossimo fino all'oblio totale di sé. La sua partecipazione alla vita e
alla miseria altrui è così intensa ch'egli ne resta sopraffatto. Questo
potrebbe esser segno di passività, uno smarrirsi della configurazione
propria nella potenza del-
275
l'altrui dolore, anzi quasi un abbandonarsi e. assorbirsi
elementare e caotico nel "tu" dietro a cui 'vediamo sorgere un
"tu universale", panico. Tanto più quando si aggiunga
l'elemento patologico che non mancheremo tra poco di mettere in rilievo.
Effettivamente la compassione di Myskin sfiora spesso anche il limite
oltre il quale la persona minaccia di dissolversi e di cadere fuori del
piano del cristianesimo. Ma lo preserva da questo pericolo la calma
aderenza alla realtà. Qui alla sua compassione è dato compiere cose
veramente grandi; qui anzi essa si tramuta nella sostanza da cui P
"altro" può sorgere e manifestarsi.
Comprensione, disinteresse personale, bontà,
sollecitudine, simpatia come sentimento attivo — a queste qualità
un'altra si aggiunge che nel carattere di una persona difficilmente
coesiste con quelle:
la veracità. La sua presenza in questo personaggio fino a
determinarne i moti più segreti da alla compassione di Myskin la sua
qualità personale e metafisica.
Quest'uomo però non è verace per il solo fatto di non
saper mentire; egli afferma la verità, appena l'abbia riconosciuta,
sempre e dovunque, indifferente alle conseguenze che ne derivano.
Effettivamente da questa sincerità nascono sovente dei guai molto gravi,
ma la verità vuole essere detta ed egli le obbedisce,
incondizionatamente.
Myskin è l'ultimo rampollo di un'antichissima casata
principesca, legata fin dai tempi più remoti alla storia della Russia. Ma
anche di fatto e inte-riormente vi sono in lui tutti i segni dell'estremo
momento del declino.
Da un semplice punto di vista biologico si po-
276
trebbe parlare di degenerazione. Myskin, sin dalla
infanzia, ha sofferto di epilessia. Gli accessi si sono intensificati fino
a ridurlo poco per volta alla demenza totale. Dalle sue stesse parole
veniamo a sapere che poi egli è stato in Isvizzera dove ha attraversato
un periodo difficile, finché tutt'a un tratto le tenebre che
l'avvolgevano si sono diradate ed egli ha ritrovato il contatto con la
natura e con gli uomini. In seguito, la compagnia dei ragazzi del luogo e
di Màrja, la malata — indimenticabile il racconto della sua amicizia
con i ragazzi e con la giovane votata alla morte, che tutti evitano! —
rinvigorisce la sua salute e il suo animo. Quando poi fa ritorno in Russia
per entrare in possesso di una eredità, non è ancora veramente guarito
ma in via di progressivo miglioramento. I pochi mesi che se- , guono,
durante i quali si svolge l'azione del romanzo, portano però delle
emozioni terribili; le crisi ricominciano e con l'ultima catastrofe
irrompono definitivamente le tenebre. Nell'epilogo ritroviamo il principe,
incosciente e ormai inguaribile, nella casa di salute svizzera donde era
partito per tornare in Russia... Un'esistenza minata, dunque, dal punto di
vista biologico. Questo fatto è messo crudelmente in luce dal contegno di
una giovane donna, Aglaja, che il principe ama, questa volta per sé, per
la propria felicità. Ella pure lo ama, con femminile dedizione di tutto
il suo essere, ed è poi terribile per il principe quando ella si rende
conto, nel suo istinto infallibile, di non poterlo considerare un uomo
normale e dapprima vede in lui, inconsapevolmente, un Don Chisciotte, poi
lo mette apertamente in ridicolo chiamandolo "il cavaliere
povero" e sconfessando così il proprio amore.
277
Il principe non è nemmeno armato per sostenere le lotte
dell'esistenza quotidiana, gli attriti tra persona e persona, perché le
qualità che abbiamo descritte non facilitano certamente la riuscita e
l'ascesa. Eppure, ad onta di tutto questo, se consideriamo il lato
universalmente umano e non quello fisiologico o economico, non possiamo
parlare di degenerazione. Nella malattia di Myskin non c'è traccia di
quella cupezza che tanto spesso invade la mente e il cuore di chi soffre
gravemente di epilessia. La sua natura è limpida, aperta, generosa. E
negli stessi accessi del male egli è rapito come in una estasi alle vette
supreme dell'esistenza. Con Ro-gòzin egli parla diffusamente di questi
brevi istanti radiosi, traboccanti di vita intensa, di luminosa pienezza.
È il morbus sacer, gravido di senso numi-noso, avvolto da
misteriose vibrazioni... "Malata", nel vero senso della parola,
non ci sembra di poter dire questa esistenza. Uno degli assiomi di una
genuina dottrina dei valori vuole che quanto più elevato è il grado di
un valore, tanto più debole sia la sua affermazione nel mondo della
realtà immediata. L'esistenza di Myskin sembra la dimostrazione pratica
di questo assioma: nel suo caso valori'di grado elevatissimo s'incarnano
in un'esistenza incapace di affermarsi in questo mondo.
Significato della figura del •principe
Da quanto abbiamo detto sin qui la personalità del
principe Myskin esce già più chiaramente delineata. Possiamo ora
prendere in esame le situazioni che ci interessano particolarmente:
l'immagine dell'uomo ne risalterà con più ricco rilievo.
278
Nell'interpretare i momenti successivi di questa esistenza
in relazione a un mio particolare punto di vista devo pregare il lettore
di seguirmi con pazienza sinché io abbia terminato la mia esposizione. I
singoli tratti di essa si integrano reciprocamente. Nessuno, preso per
sé, rivela tutto il suo significato e solo nel loro insieme essi parlano
con chiarezza. Quando l'esposizione sarà completa, la critica
avrà il diritto d'intervenire.
La vita del principe Myskin nei suoi avvenimenti
successivi e in quelli ai quali essa è legata, dagli inizi sino alla
catastrofe, si presenta come un'autentica esistenza umana; sebbene
straordinaria e tale da scuoterei profondamente, essa è pur sempre la
vita di un uomo. Ma se cerchiamo di penetrare nell'intimo di questa
esistenza, procedendo di episodio in episodio, di avvenimento in
avvenimento, avvertiamo subito che tutto — certe corrispondenze
inferiori, l'atmosfera, e così pure molti particolari — sembra indicare
qualcosa che trascende l'umano. Tutto ha un significato proprio, eppure al
di là di questo tutto allude nello stesso tempo a una realtà diversa e
più alta.
Quest'uomo esce dall'epilessia, da una notte inaccessibile
a chi viva nel sano clima del giorno. E presto vi farà ritorno. Intorno a
questa esistenza, simile a una piccola macchia di luce, si distendono
tenebre impenetrabili. Da queste egli viene, attraversa la breve zona
luminosa e scompare di nuovo nell'inafferrabile... Se sono bene informato,
chi ha cercato di spiegare l'epilessia ha visto rivelarsi in essa
un'aspirazione inconscia di evadere dal limite dell'esistenza iniziata con
la nascita, dal presente, dalla storicità per raggiungere il mistero
anteriore alla nascita stessa.
279
A questo bisogna aggiungere che Myskin durante la sua
malattia ha vissuto con i bambini. Potrebbe trattarsi soltanto di un
idillio gentile, nella cui benefica atmosfera la costituzione gravemente
scossa del principe ritrova la salute. Ma è qualcosa di più e di
diverso. Myskin vive davvero con i bambini, torna fanciullo tra i
fanciulli e partecipa alla loro esistenza dall'interno, restando nella
loro cerchia. Egli prende i bambini sul serio, non li tratta "da
bambini". Per lui il fanciullo è un essere completo e sotto diversi
aspetti più profondo dell'adulto:
Al fanciullo tutto si può dire, tutto; mi ha sempre
colpito il pensiero di quanto poco i grandi conoscano i fanciulli, quanto
poco anche i padri e le madri conoscano i propri figli. Ai fanciulli non
si deve nasconder nulla col pretesto che son piccoli e che è troppo
presto perché essi sappiano. Che triste e malaugurata idea! E come i
ragazzi stessi si avvedono che i padri li considerano troppo piccoli e
incapaci di capire, mentre essi capiscono tutto! I grandi non sanno che un
fanciullo, anche in un caso difficile, può dare un consiglio di molta
importanza. O Dio! quando vi guarda quel grazioso uccellino, con aspetto
fiducioso e felice, voi avete pur vergogna d'ingannarlo! (L'Idiota, p.
70).
- Chi conosce bene Dostojevskij ricorderà che nei suoi
libri uomini saggi e pii hanno una singolare affinità col fanciullo:
così, per non parlare che dei fratelli Karamàzov, lo stàrets
Zòsima, padre Anfim, il suo compagno, e Aljòsa, la cui immagine è
inseparabile da quella della schiera dei ragazzi. Per questi uomini il
fanciullo è un mistero sacro: è la creatura ancora vicina a Dio, in cui
sopravvive un po' del Paradiso terrestre. Così, in questo paese di
fanciulli donde Myskin è venuto troveremo già un significato più
profondo.
280
Ascoltiamolo ora tare il racconto della sua partenza:
Seduto in treno, pensavo: « Ora vado verso gli uomini;
non so nulla, forse, ma è cominciata una nuova vita. M£
sono proposto di fare il mio dovere con onestà e fermezza. Fra gli uomini
proverò forse uggia e fastidio. Come prima cosa, mi sono prefisso di
essere cortese e franco con tutti ».
Qui
notiamo qualcosa di singolare. Anzitutto:
"Ora vado verso gli uomini". Poi, due o tré
righe più avanti: "Fra gli uomini proverò forse uggia e
fastidio". Non par di ascoltare qualcuno che venga da un mondo
"di là" dagli uomini? Da un paese che è dei fanciulli, al di
là del terrestre affannarsi degli adulti? Non si direbbe che chi parla
così viene dal cielo? E ora va "verso gli uomini", entra nella
storia, sente il compito di esser vero, di "fare la verità" ed
è pronto a compierla nella fedeltà, sapendo di esser solo e di avere
davanti a sé una strada difficile. E anch'egli sarà creduto "un
fanciullo", ossia uno fatto secondo la logica del cielo e perciò
troppo ingenuo, impari alla vita sulla terra.
Certo, nel simbolo dell'epilessia si può anche vedere un
tentativo di evadere dall'esistenza autonoma dell'adulto, dalla
responsabilità storica, per rifugiarsi in una forma di esistenza
pre-personale — così come nella partecipazione alla vita dell'infanzia
si può scorgere un segno di infantilismo. E infatti, anche
nell'interpretazione che il principe stesso da di questo suo particolare
stato d'animo, l'idea del "fanciullo" si associa con un
passaggio molto significativo a quella dell'" idiota", di uno
stato di demenza e di impotenza in cui il principe era allora realmente
venuto a trovarsi a causa della malattia:
281
Può darsi che anche qui mi si prenda per un bambino, e
sia! Anche idiota mi credono tutti, non so perché, e in realtà un tempo
fui tanto malato, che allora ero proprio simile a un idiota; ma ora che
idiota potrei essere, quando capisco anch'io che mi ritengono un idiota?
Io entro e penso: « Ecco, mi ritengono un idiota, e io invece sono
intelligente, e loro nemmeno lo sospettano... ». (L'Idiota, p.
78).
Non è ritratta qui l'immagine di un uomo che sa di essere
venuto d'"altrove", di vivere interiormente secondo la misura
più alta, di essere, dunque, creatura celeste e insieme è conscio di dar
motivo "agli uomini "di sospettare di ciò che vive in lui,
motivo, dunque, di "scandalo"?
In tal modo quest'uomo fa il suo ingresso nel mondo ed il
mondo non tarda ad accorgersi di lui.
Nella stanza del generale egli vede il ritratto di
Nastàsja Filippovna e il suo viso lo colpisce.
« Un viso meraviglioso! — rispose il principe — e son
persuaso che il suo destino non è di quelli comuni. Un volto gaio, eppure
essa ha sofferto tremendamente, non è vero? Lo dicono gli occhi e questi
due ossicini, questi due punti sotto gli occhi, dove cominciano le guance.
È un viso- orgoglioso, orgogliosissimo; ma chi sa se è buona? Ah, se
fosse buona! Tutto sarebbe salvo! » (L'Idiota, p. 37).
Parole gravide di destino...
Qualche ora dopo egli si avvicina di nuovo al ritratto:
Si accostò a una finestra, dove c'era più luce, e si
mise a osservare il ritratto di Nastàsja Filippovna.
Pareva volesse risolvere un enigma che era celato in quel
viso e che già dianzi lo aveva colpito. Quell'impressione non lo aveva
quasi più lasciato, e ora si affrettava
282
come a verificare nuovamente qualche punto. Quel viso non
comune per bellezza, e per altro ancora, lo colpì più fortemente di
prima. C'era in esso un orgoglio senza limiti e un disprezzo che era quasi
odio, e nello stesso tempo un certo che di fiducioso, di meravigliosamente
ingenuo:
tale contrasto suscitava perfino, in chi guardava quei
lineamenti, un senso di pietà. Quasi insopportabile era quella bellezza
abbagliante, quella bellezza del volto pallido, delle guance quasi
infossate e degli occhi ardenti:
strana bellezza! Il principe la fissò per un minuto, poi
di colpo si riscosse, si guardò intorno, avvicinò in fretta il ritratto
alle labbra e lo baciò. Quando, di lì a un minuto, entrò nel salotto,
il suo viso era perfettamente tranquillo. (L'Idiota, p. 83).
All'osservazione sprezzante della generalessa che vede in
Nastàsja una declassata:
Sì, è bella... molto bella, anzi. Io l'ho veduta due
volte, ma solo da lontano. Sicché a voi piace questo genere di bellezza?
egli risponde con un certo sforzo:
— Sì...questo...
— Proprio questo, volete dire?
— Proprio questo.
— Perché?
— In questo viso... c'è molta sofferenza — proferì
il principe quasi involontariamente, quasi parlando a se stesso, anziché
rispondere alla domanda. (L'Idiota, p. 84).
Più tardi, in casa Ardalionic, il principe, per non
assistere a una scena molto penosa, esce dalla stanza e si trova a passare
davanti alla porta d'ingresso. Qualcuno suona il campanello, egli apre.
Entra Nastàsja Filippovna ed il principe, da lei scambiato per un
servitore, nella sua confusione non sa come comportarsi e va ad
annunciarla. In seguito, nel
283
corso della conversazione, Nastàsja domanda al prin-,cipe
perché l'abbia lasciata nell'equivoco.
— Mi sono meravigliato, vedendovi così
all'improvviso...
— E come avete fatto a riconoscermi? Dove mi avete
veduta prima? Ma davvero, mi sembra di averlo già veduto in qualche
posto! E, permettete una domanda, perché poco fa siete rimasto come
impietrito? Che c'è in me di pietrificante?
— Su via, su! — continuava Ferdyscènko facendo lazzi:
— ma su, dunque! O Signore Iddio, quante cose risponderei io a una
simile domanda! Ma via... Sei dunque un allocco, principe!
— Ma anch'io, al vostro posto, potrei dire molte cose,
— e il principe, volgendosi a Ferdyscènko, si mise a
ridere. — Poco fa il vostro ritratto mi ha fatto una grande impressione,
— seguitò, parlando a Nastàsja Filippovna,
— poi ho discorso di voi con le Epàncin... e già
stamane presto, ancor prima di giungere a Piettoburgo, in ferrovia, mi
aveva parlato molto di voi Parfèn Rogòzin... Nel preciso momento in cui
vi aprivo la porta, pensavo a voi, ed eccovi arrivare.
— Ma come dunque mi avete riconosciuta?
— Dal ritratto e...
— E poi?
— E poi perché v'immaginavo precisamente così... Anche
a me pare di avervi già veduta in qualche posto. .:— Ma dove,
dove?
— Mi pare di aver già veduto altrove i vostri occhi...
ma non è possibile! Ho detto così per dire... Non ero mai stato qui.
Forse in sogno...
— Ah principe! — esclamò Ferdyscènko. — II mio se
non è vero lo ritiro. Del resto... del resto, lui tutto questo lo
dice per innocenza! — soggiunse con rimpianto.
Il principe aveva pronunciato le sue poche frasi con voce
turbata, interrompendosi e respirando affannosamente. Tutto in lui
esprimeva una commozione straordinaria. (L'Idiota, pp. 109-110).
li breve episodio è denso di una intera trama di 284
significati. Myskin è colpito dalla bellezza di questa
donna. Egli sa che la bellezza è una qualità metafisica. Durante la
conversazione già citata in casa delle Epàncin il discorso cade sulla
figlia minore, Aglaja. La generalessa chiede al principe se egli non ha
notato la fanciulla.
— Oh, si, si fa notare. Voi, Aglaja Ivànovna, siete una
bellezza straordinaria. Siete così bella, che si ha paura a guardarvi.
— E nient'altro? E le caratteristiche? — insistè
la generalessa. ,
— La bellezza è difficile giudicarla; io non ci sono
ancora preparato. La bellezza è un enigma. (L'Idiota, p.80).
La bellezza è il modo in cui l'essere appare e parla al
cuore con un volto e una voce. Per essa l'essere acquista il potere di
destare l'amore e toccando il cuore e il sangue tocca anche lo spirito.
Per questo essa è tanto forte. La bellezza domina ovunque incontrastata e
conturbante. Ma da che è apparso il peccato, essa ha anche un potere di
seduzione che esercita trionfalmente come per un facile giucco perché
l'immagine dell'essere bello tocca direttamente il nostro intimo e lo
infiamma... Sembra anche che essa sia come dispensata dal dover decidere
tra il bene e il male; indifferente e misteriosamente irresponsabile,
immeritata e immerita-bile ed in nessun rapporto ne col contenuto
concreto, ne col valore dell'essere. In fondo la bellezza dovrebbe esser
riservata solo a ciò che è valido, buono e vero, e in un certo senso è
proprio così — ma innegabile e inquietante è anche l'altro aspetto
della bellezza, secondo il quale non è affatto così, ed essa può
risplendere anche nel male, nel disor-
285
dine, nell'indifferenza e anzi persino nella stupidità.
Che cosa è dunque l'uomo se è possibile una figura come quella di
Myrrha Glawicz nel Martin Salander di Gottfried Keller? 3
Qui la bellezza appare come una qualità, come una potenza che
nes-sun'idea, nessun merito giustifica, che è semplicemente. In questo
consiste la sua sovranità assoluta, ma in questo anche, nell'essere
caduto, la sua profonda ambiguità. Ne parla una volta Dmìtrij
Kara-màzov:
La bellezza è una cosa tremenda e spaventosa! Tremenda,
perché indefinibile, e non sì può definire, perché Dio non ha posto
che enigmi. Qui le sponde si congiungono, qui tutte le contraddizioni
convivono. Io, fratello, ho ben poca istruzione, ma ho pensato molto a
queste cose. Troppi sono i misteri! Troppi enigmi opprimono l'uomo sulla
terra... La bellezza! Io non posso soffrire che un uomo, magari di cuore
elevatissimo e di alto intelletto, cominci con l'ideale della Madonna e
finisca con quello di Sodoma. Ma più terribile ancora è il caso di chi,
avendo già nell'animo l'ideale di Sodoma, non ripudia l'ideale della
Madonna, e il suo cuore ne arde, ne arde per davvero... No, vasto, troppo
vasto anzi, è l'uomo: io lo restringerei. Ci si raccapezza il diavolo,
ecco! Quello che alla mente appare come una vergogna è tutta bellezza per
il cuore. È forse in Sodoma la bellezza?... È orribile che la bellezza
sia una cosa non solo tremenda ma anche misteriosa. Qui il diavolo lotta
con Dio e campo della battaglia sono i cuori degli uomini. (I Fratelli
Karamàzov, pp. 121-22).
Così parla il violento Dmìtrij. Ma noi pensiamo anche a
Macario il pellegrino, e allo stàrets Zòsi-
3
Gottfried Keller (1819-1890), di Zurigo, lirico, romanziere, novelliere; Der
grùne Heinrich è romanzo autobiografico, Martin Salander
(1886) è il suo secondo romanzo, in cui polemizza contro le storture e
degenerazioni della società contemporanea (N. d. t.).
286
ma; alla "bellezza intcriore" che è nelle loro
anime e nel mondo, come essi lo vedono. Nel loro pensiero la bellezza
esprime uno stato di perfezione, un che di celeste e di sacro che appare
quando in un cuore che ama la creazione si trova unita con Dio, esprime la
trasfigurazione di ogni cosa per virtù dell'amore. Nei discorsi dello stàrets
il "bello" non appare soltanto come il più alto concetto
riassuntivo di tutti i valori, ma anche come una realtà che comprende la
santa verità e il bene 'che "il popolo ha sete di ricevere".
Tanti sono i volti della bellezza!... E di nuovo il suo mistero ha nel
principe Mysidn una voce diversa, che sembra venire da un tempo anteriore
al peccato e tuttavia conosce il peccato. Potremmo forse meglio chiamarla
una voce del regno dell'Apocalisse, che canta la bellezza escatologica del
mondo riscattato, ma in cui trema ancora un ricordo del passato, della
"prima" esistenza, con la sua sofferenza e il suo male...
Subito, al suo ingresso "nella vita",, la
bellezza gli viene incontro nella persona di Nastàsja Filip-ppvna e in
lei anche il suo destino.
Abbiamo già accennato come sia difficile definire la
personalità di Nastàsja. Solo verso la fine ci si rende conto della sua
vera natura. Ella esiste sotto la categoria della compiutezza e
perfezione. Un giorno il principe le dice: "In voi tutto è
perfetto". Detto da lui e quando si pensi alla situazione di
Nastàsja, non può essere un puro complimento. Non può nemmeno riferirsi
a ciò che in lei è solo esteriore, ma solo a qualche cosa di più
profondo. E in un momento di amara disperazione ella raccoglie la frase:
287
Forse, per quanto sia una svergognata, ho io pure
il •mio orgoglio. Poco fa mi hai chiamato una perfezione:
bella perfezione che, per il solo vanto di calpestare un
milione e il tìtolo di principessa, se ne va a finire in una doaca! (L'Idiota,
p. 177).
E tuttavia, anche questo avviene per questa legge
che la governa. Fin dall'origine e per natura — per una naturale
grandezza ch'è in lei — tutto in questa donna è orientale verso la
perfezione. Ella non può fare a meno di arrivare in ogni cosa fino alle
ultime conseguenze. Quello che ella è, vuoi
•esserlo intieramente è con grandezza e vivere con
grandezza e sino in fondo ciò che entra nella sua
•vita. Ella deve attuare intieramente la propria
personalità e la forma del proprio destino. Per quanto io sappia, è un
caso unico in Dostojevskij e qui sta l'originalità di Nastàsja. Sotto
questo aspetto, ella è degna di stare accanto a Myskin che è, lui pure,
"unico". Ma appunto per questo le sono già sin
•da principio tracciate le vie che ella può scegliere:
•o una vita piena di grandi cose, seppure pagata a
prezzo di profonde sofferenze, oppure, ed è più verosimile in questo
mondo non certo orientale verso la perfezione, la rinuncia; oppure ancora,
lo sfacelo. Un uomo come Totskij l'ha rovinata. Ella lo odia, ma in fondo
il suo odio non va affatto a quel freddo egoista. Non passerà molto tempo
ed ella lo disprezzerà solamente, rivolgendo il suo odio — e qui incide
la categoria della perfezione — solo contro se stessa. Così ella vive
in uno stato di profonda disperazione. Ora, il tipo della sua bellezza
rivela nello stesso tempo quel rapporto con la perfezione e questa
disperazione.
288
Così questa donna tocca il principe Myskin proprio là
dove la sua sensibilità si unisce alla sua forza più intima: il suo
potere di intensa partecipazione alla vita di un altro essere e alla sua
sofferenza. Nasce così un eros di somma profondità, un amore
fatto in realtà solo di sofferenza e di un significato tutto metafisico o
più propriamente religioso: l'amore di compassione.
Non una compassione nel significato comune, ma la forma
originale ed etema dell'eroe. L'amore che nasce davanti alla bellezza che
corre alla sua rovina, davanti alla disperazione di un essere che era
destinato a esser perfetto. Sotto la prima impressione del ritratto egli
dice: "In questo viso... c'è molta sofferenza". E subito segue
a questo pensiero una preoccupazione: "È un viso orgoglioso,
orgogliosissimo" — sempre la categoria della perfezione —
"ma chi sa se è buona? Ah, se fosse buona! Tutto sarebbe
salvo!" Consapevolezza dunque di una minaccia incombente di rovina,
certezza sollecita di una salvezza possibile purché questa bellezza celi
anche della bontà.
In Aglaja, invece, Myskin va incontro alla bellezza in un
altro modo, con un personale desiderio di felicità. Ma — qui è il
dramma doloroso — questo desiderio, da lui stesso sentito come
impossibile, non osa quasi manifestarsi e finisce per essere infranto
dalle forze congiunte della sua missione e della realtà...
Forse non occorre dire di più e basta una semplice
riflessione per convincersi che nel rapporto in cui Myskin si trova con
Nastàsja è racchiuso un altro simbolo. Questa compassione per una
creatura che, creata per esser perfetta, si è poi perduta, com-
289
passione non voluta per decisione morale ma irrompente dal
cuore così impetuosa da determinare per l'amore che essa suscita il
destino di Myskin, è simbolo del Redentore.
Ma c'è altro da aggiungere.
Ricordiamo il primo incontro avvenuto tra Na-stàsja e
Myskin in una riunione di gente e come, ascoltando le parole di
Ferdyscènko e le risposte di Myskin, queste persone ci sono apparse per
così dire divise in due piani nettamente distinti: più vicino a noi la
realtà empirica; dietro a questa, presente eppure come perduto in una
lontananza essenziale, quel reame dove Myskin e Nastàsja "si sono
già veduti".
Reame eterno, dove ha avuto luogo un incontro
"etemo"4. Al momento dell'incontro attuale, storico,
si rivela qualche cosa di eterno. I due non si ricordano soltanto di un
fatto già avvenuto nel tempo, ma intuiscono la partecipazione ad
un'esistenza che è senza tempo ma in cui è racchiuso il senso di tutto
ciò ch'è temporale. Nell'incontro temporale affiora l'essenza di ciò
ch'è proprio all'al-.tra sfera.
Nastàsja ha "già veduto" il principe, ma non
sa dove. Non sa di vedere in lui la somiglianzà col Cristo e che tutto
quello che in lei anela alla redenzione riconosce in eterno in lui il
Salvatore:
"in eterno", non come misura di tempo e di
durata, ma come qualità dell'esistenza ricevuta da Dio. Non sa che
nell'attimo in cui lo scorge nel tempo, ne ha una consapevolezza
"eterna". Ma anche Myskin
4 Può
qui apparir chiaro che cosa significhi l'Idea platonica e non solo questo.
290
porta in sé il senso di un incontro etemo. Egli ha visto
Nastàsja nel tempo, un momento fa, ma in questo istante si ridesta nella
sua coscienza temporale quel momento "eterno" ed egli la scopre
nel-l'"eternità" della propria missione.
Egli è soltanto un uomo, ma da tutto il suo essere
traspare l'immagine di un'esistenza che è più di quella di un uomo:
l'esistenza del Redentore.
Del disinteresse e della forza di compassione del principe
abbiamo già parlato. Vediamone ora un esempio. In casa Ardaijonic è
scoppiata una lite violenta fra Gavrila e sua sorella Barbara.
A Ganja si annebbiò la vista e, perduto il dominio di
sé, con tutta la sua forza, egli akò il braccio sulla sorella. Il colpo
le sarebbe sceso inevitabilmente sul viso. Ma d'un subito un'altra mano
fermò in aria il braccio di Ganja.
Tra lui e la sorella stava il principe.
— Smettetela, basta! — disse recisamente, ma tremando
tutto anche lui, come per una scossa troppo violenta.
— Ma mi attraverserai in eterno la strada, eh? —5
urlò Ganja, lasciato il braccio di Varja, e con la mano tornata libera,
al colmo della furia, diede uno schiaffo al principe con quanto impeto
aveva...
Il principe impallidì. Fissò Ganja negli occhi con uno
sguardo strano e pieno di rimprovero; le sue labbra tremanti facevano
sforai per dire qualcosa, e le storceva uno strano sorriso, del tutto fuor
di luogo.
— Ebbene, a me sia pure... ma a lei... non
permetterò!... — disse infine, piano, ma a un tratto non resse più,
lasciò Ganja e, copertosi il viso con le mani, se n'andò in un angolo,
si mise col viso verso il muro e con voce rotta proferì:
— Oh, come vi vergognerete della vostra azione! Ganja
infatti era come annientato. Kolja corse ad abbracciare e baciare
il principe; alle sue spalle si strinsero
5 Tra i due è già apparso un profondo contrasto
d'idee. Più esattamente, Gavrila s'è già urtato in Myskin.
291
Rogòzin, Varja, Ptitsyn, Mina Aleksandrovna, tutti,
perfino il vecchio Ardaliòn Aleksàndrovic.
— Non è nulla, non è nulla! — mormorava il principe,
volgendosi da tutte le parti, sempre con quel sorriso fuor di luogo.
— E si pentirà! — gridò Rogòzin. — Ti vergognerai
Gan'ka, di avere offeso una simile... pecorella! — egli non seppe
trovare un'altra parola. — Principe, anima mia, lasciali stare; sputaci
su, andiamo! Vedrai come sa voler bene Rogòzin! (L'Idiota, pp.
121-122).
Per un sentimento naturale di cavalleria, il principe ha
preso le parti della ragazza e ha ricevuto uno schiaffo in presenza di
tutti. Secondo la logica del sentimento, la tensione del suo animo
dovrebbe sfogarsi in uno scatto d'ira verso l'offensore. Invece l'affronto
fa affiorare una regione molto più profonda del suo essere. Anzitutto un
sentimento d'umiltà: "Ebbene, a me sia pure". — Ma poi egli
sente tutta la terribile situazione dell'uomo che l'ha offeso e, dimentico
ormai di se stesso, s'immedesima nell'infelicità del suo offensore... Qui
non è certo il caso di parlare di vittoria su se stesso. Non ce n'è
stato neppure il tempo. E nemmeno si rivela qui una forza di autocontrollo
acquisita con lunga disciplina. Qui parla l'intimo essere del principe e
proprio nella sorpresa esso si tradisce. Tuttavia non si tratta, è bene
ricordarlo, della mancanza di amor proprio di un essere debole e malato,
poiché il principe ha dato prova della più cavalieresca fermezza. Qui si
schiude piuttosto, sotto l'urto della sorpresa, qualcosa di molto profondo
e Rogòzin ne da la spiegazione: "Ti vergognerai, Gan'ka, di avere
offeso una simile... pecorella! (egli non seppe trovare unaltra
parola)". Rogòzin non conosce la portata delle sue parole. In esse
affiora l'im-
292
magine dell'agnello, "che toglie i peccati del
mondo".
Ma è necessario ritornare sull'episodio.
Il principe impallidì. Fissò Ganja negli occhi con uno
sguardo strano e pieno di rimprovero; .le sue labbra tremanti facevano
sforzi per dire qualcosa, e le storceva uno strano sorriso, del tutto fuor
di luogo.
Questo sorriso fuor di luogo!... Il sorriso
"enigmatico" che presto ritroveremo.. Vorrei inserire qui una
mia esperienza personale. Per molto tempo il Vangelo di san Giovanni mi è
rimasto inaccessibile perché non riuscivo a spiegarmi in che modo vi si
esprimesse il pensiero di Gesù. Leggevo le domande rivolte a Cristo e non
capivo il nesso fra queste e la risposta. Mi urtavo sempre in un
"poiché" che mi pareva non spiegasse nulla. Ma un giorno mi
accadde di leggere L'Idiota e incontrai la figura del principe
Myskin. Mi parve allora di scorgere nel suo atteggiamento qualche cosa che
ricordasse il Cristo giovanneo e d'un tratto mi fu chiara l'importanza del
"piano" per la strutttura di una situazione e il suo retto
intendimento. Mi parve di capire che, a formare una situazione, concorrono
rapporti tra cose e avvenimenti ordinati su piani diversi, i quali si
differenziano a seconda dell'importanza e dell'accessibilità delle sfere
dell'essere e della persona, in cui quei rapporti hanno luogo. I piani di
una situazione possono avere perciò "giacitura" diversa, e
alcuni trovarsi molto in avanti, altri invece, dietro di essi e via di
seguito fino ai più lontani e ai più profondi. Tanto più facilmente
potranno capirsi due uomini che s'in-
293
centrano, quanto più vicini saranno i piani sui quali
essi esistono e dai quali si parlano. Se ora qualcuno intervenisse in una
situazione da un piano situato molto profondamente
"all'interno", o molto lontano "all'estemo", i suoi
"perché" e "a qual fine" corrisponderebbero tanto
poco a quelli degli altri uomini da fare apparire il suo contegno
facilmente strano o irragionevole. Se poi qualcuno si trovasse,
nell'essenza del suo pensiero e della sua coscienza, veramente su un piano
assoluto, nell'eternità, nella volontà di Dio, molto probabilmente
farebbe l'impressione di un essere incomprensibile. Ma poiché nello
stesso tempo si sarebbe costretti a ricono-scersi in presenza di qualcosa
di grande che potremmo chiamare purezza, nobiltà, forza, santità ecc.
avverrà che quel senso di stupore e di incomprensione, se il cuore non si
apre all'umiltà e all'amore, si trasformi in irritazione, in ribellione,
in odio. E sarà allora lo scandalo, fenomeno biblico, elementare. Ora,
proprio sotto questo aspetto ci appare il Signore nel Vangelo di san
Giovanni.
La stessa impressione si prova, mi sembra, davanti alla
figura del principe Myskin. Egli vive di momento in momento nella
situazione, ma non vi si smarrisce. Parla ma la sua voce viene da
un piano molto più lontano e più profondo di quelli ove vivono gli
altri. Agisce, ma i suoi atti seguono una via che semplicemente incrocia,
non scorre entro la situazione. E così egli non può esser capito da
quelli che vivono nei piani più esterni. Egli è uno straniero in mezzo a
loro e quel sorriso lo dice.
Il sorriso, una cosa tanto semplice, è però uno dei più
intensi mezzi d'espressione. Tutto il problema dell'uomo si potrebbe
riassumere nella do-
294
manda che cosa voglia dire sorridere... Qui il sorriso
rivela l'esperienza di un uomo che da un piano di eternità ch'è il suo
viene sbalzato nella meschina realtà di un questo ambiente, dalla sfera
sublime ove è valido soltanto il volere divino passa a un piccolo mondo
governato dall'incertezza e dalla confusione e dalla pura intelligibilità
alla stolta presunzione di questa gente medicete, e con tutto
questo non riesce a capire se stesso ma sa soltanto che così deve essere.
Che cos'è lo "scandalo" nel significato che il
Nuovo Testamento da alla parola? Esso non consiste certamente nel fatto
che la pura plenitudine del Vero e del Bene sia apparsa nel mondo agli
uomini e questi nel loro pervertimento, nella loro insofferenza e nel loro
accecamento le abbiano chiuso il loro cuore. Le cose nella realtà non
sono così semplici. Certamente la verità divina e l'eterno amore sono
apparsi viventi con Cristo, ma "in figura di servo", ossia come
parola e azione umana. Di fronte ad essi perciò non si risveglia soltanto
una ribellione all'esigenza divina, già latente nell'uomo, e nemmeno
solamente l'irritazione contro l'essere personale che pretende d'incarnare
quella verità e quell'amore. C'è di più. L'apparente oscuramento della
luce divina nella concezione terrena e l'imprigionamento della
significanza, dell'intelligibilità divina, libera ed infinita, nei limiti
temporali e spaziali della realtà storica, fanno sentire l'urgenza di
preservare il logos di Dio nella sua libertà ed assolutezza.
Questo bisogno si unisce a quella ribellione e questa si sente per ciò
stesso legittimata. Lo scandalo è appunto il rifiuto, opposto per seri
motivi, di riconoscere il messaggio divino, il ri-
295
fiuto del valore sommo fatto nel nome di valori
autentici, ma certo inferiori.
Questa situazione di scandalo affiora a più riprese in
tutto il romanzo. Intorno al principe è un continuo raccogliersi di
persone che si sentono attirate da lui. Vicino a lui esse provano un senso
di benessere, si sentono capite ed incoraggiate verso ciò che hanno in
sé di migliore. Una compassione che non vien mai meno, una fiducia che
non si sente mai delusa, una sollecitudine sempre viva le accoglie. Essi
avvertono una presenza misteriosa che le scuote nell'animo, eppure... ad
ogni istante sale loro alle labbra una parola: "idiota". Non è
una cosa strana? Molte persone sono riunite e Myskin si trova subito senza
volerlo al centro della loro attenzione. Tutti lo ascoltano, tutti son
costretti a riconoscere che in ciò che egli dice è un profondo
significato, sebbene egli stesso non dia mai molto peso alle sue parole6;
la conversazione continua ma tosto l'irritazione latente nei suoi
ascoltatori esplode ed egli viene naturalmente a trovarsi dalla parte del
torto. Tutti sono convinti che egli abbia torto, e in un certo senso lo è
anche lui,, per lo meno accetta con molta semplicità che la cosa sia
vista così, appunto perché è inevitabile. ' Come se il male che si
nasconde dappertutto fosse costretto in sua presenza a scoprirsi, e in lui
"si manifestasse il cuore degli uomini".
E come tutta la sua esistenza giustifica lo scandalo! Ciò
che egli fa, è infatti veramente "folle". Tutti sono delusi di
lui. A nessuno egli sa dare un
6 Egli
sa tuttavia di vedere più giusto degli altri, sa che gli uomini farebbero
bene a seguirlo. Interrogato dalla generalessa su questo punto, lo ammette
con franchezza.
296
vero aiuto. Egli stesso vede crollare tutto intorno a.
sé e dopo pochi mesi rientra nella notte, là donde era venuto. È
già stato osservato che la forma dì questo romanzo suggerisce l'immagine
del vortice. Non la linea, non la trama che si distende con armoniosa
regolarità, ma il gorgo che dopo aver ghermito la preda la volge in un
giro vorticoso, la stritola e l'inghiotte. Tuttavia è la forma che
conviene a questa vita. È l'immagine dell'esplosione elementare con la
quale il mondo reagisce a questa esistenza: lo scandalo al suo parossismo.
Ogni pagina del Nuovo Testamento ci dice come lo scandalo
sia legato all'esistenza di Cristo. Quando gli inviati di Giovanni vanno
da Lui a domandargli: "Sei tu dunque Colui che deve venire o ne
dobbiamo aspettare un altro?", Egli risponde: "Andate a riferire
a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano,
i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono e la buona
novella è annunciata ai poveri. E beato colui che non si sarà
scandalizzato in me". Alla domanda rivoltagli, Egli risponde dunque
con la parola messianica del profeta che ora si è compiuta nei fatti e
nei segni. Ma subito aggiunge:
"Beato colui che non si sarà scandalizzato in
me". Questi è dunque grande e degno di lode, perché il pericolo di
scandalizzarci in Cristo ci è dato ineluttabile e urgente nella esistenza
stessa di Lui ed è difficile non soccombervi. Nella persona stessa di
Cristo, nel fatto ch'Egli è uomo si offrono le "obiezioni" alla
sua divinità. Proprio il segno più grande dell'amore di Dio, l'aver
assunto la "forma di servo", sembra escludere la presenza
essenziale e personale dell'Amore di Dio nel Galileo: "Non è
297
questi il figliuolo del falegname?". Perciò la sua
vita rappresenta una continua provocazione di questo scandalo, finché
Egli vien punito, con ricorso a tutto l'apparato dell'ordine e del
diritto, per aver preteso di esser ciò che Egli è. Tante sono le ragioni
che militano contro di Lui, ch'Egli può esser rivelato solo "ai
piccoli e ai bambini privi di ragione" che nulla sanno di
"ragioni" e "ai pubblicani e alle peccatrici" i quali,
per la condanna che pesa su di loro da parte dei saggi e dei provveduti,
dei conformisti sociali e dei benpensanti, sono dispensati dal pronunciare
per conto proprio un verdetto di condanna.
L'episodio che chiude la prima parte del romanzo mostra
come dall'esistenza di Myskin siano esclusi tutti quei princìpi in cui ha
fede il mondo.
Dopo aver lasciato Totskij, Nastàsja ha vissuto per
alcuni anni lontana dalla società. Ora si trova a dover prendere una
decisione: o sposare Gavrila Ardalionic e restare così alla mercé del
generale Epàncin, o seguire Rogòzin. Ma questo vorrebbe dire gettarsi in
un baratro. Myskin capisce il dramma -di. questa donna e chiede la
sua mano, dicendole nello stesso tempo di essere in attesa di una grossa
eredità che lo farà ricco:
— Nastàsja Filippovna, — disse il principe piano e
quasi con un senso di pietà, — poco fa vi ho detto che il vostro
consenso lo riterrei un onore e che siete voi a fare un onore a me e non
io a voi. A queste parole avete sorriso, e anche qui intorno ho sentito
ridere. Forse mi sono espresso in modo assai buffo ed ero buffo io stesso,
ma mi è sempre parso... di capire in che consista l'onore e son sicuro di
aver detto il vero.
298
L'emozione suscitata da queste parole è enorme. Sentiamo
aprirsi in mezzo ai presenti una solitudine nella quale i due si stanno di
fronte: Myskin . e Nastàsja si guardano. Ciascuno legge nel cuore
dell'altro. Essi non sono più lì, ma infinitamente lontani da tutti e la
volgarità degli astanti lo fa risaltare con un'evidenza quasi
intollerabile:
— Voi siete orgogliosa, Nastàsja Filippovna, ma forse
siete già infelice a tal punto da credervi veramente colpevole. Bisogna
avere molte cure per voi, Nastàsja Filippovna. E io le avrò. Dianzi,
vedendo il vostro ritratto mi è sembrato di riconoscere un viso noto. Mi
è subito parso che voi mi aveste già chiamato... Io... io tutta la vita
avrò stima di voi, Nastà-sia Filippovna, — concluse a un tratto il
principe come tornato subitaneamente in sé, arrossendo e riflettendo
davanti a che sorta di gente dicesse tutto ciò. (L'Idiota, p.
176).
Tutti sentono quello che c'è di insolito in Myskin:
egli sa ciò che gli altri non sanno, ha potere sopra le
anime e gli uomini nella sua vicinanza si trasformano. Ma Nastàsja, che
lo sa molto più degli altri, dice una cosa assai significativa — la
dice nel momento in cui, misurando nella sua disperata sofferenza chi egli
sia, lo lascia perché non crede di avere il diritto di appartenergli:
"Addio, principe, per la prima volta ho veduto un uomo".
Tutta l'impressione che fa la natura singolare di Myskin
si riassume in questo, che egli è "un uomo". La cosa più
straordinaria che si dica di lui è di essere ciò che tutti si credono:
un uomo. E noi pensiamo a Colui che essendo il figlio di Dio si è detto
"Figliuolo dell'uomo". Tanto miserabile è la condizione
dell'uomo e così divinamente grande ciò che si voleva fare di lui, che
possiamo dire:
solo Dio riesce ad attuare la pura umanità. Essere ve-
299
ramente uomo non è cosa naturale, non è un punto di
partenza ovviamente dato. Con le sole forze umane è cosa inattuabile.
L'"uomo umano" è un'ideologia. Il vero uomo non ci può venire
che da Dio. "Figlio di Dio" e "Figlio dell'uomo" sono
i due modi in cui si esprime nel Nuovo Testamento la esistenza del
Redentore.
Di tutti i personaggi del romanzo fa degno riscontro a
Myskin, per quanto sappiamo fin'ora, soltanto Nastàsja Filippovna, forse
la più profonda raffigurazione poetica della magna peccatrix del
Nuovo Testamento. Ma ce n'è un altro; è l'uomo che ama Nastàsja di un
amore tale che si direbbe che la natura stessa ami in lui: la terra nella
sua ottusità, e l'abisso ardente del vulcano e la tempesta negli spazi.
Quest'uomo che incontriamo nelle prime pagine del romanzo in viaggio verso
Pietroburgo in compagnia di Myskin e sebbene si prenda giucco del principe
è subito toccato dalla singolare natura di questi, quasi si sentisse
legato a lui non da un rapporto qualsiasi ma da una vera e propria
affinità segreta, si chiama Parfèn Semjonovic Ro-gòzin.
È un uomo strano, terribile e commovente insieme. Non
credo che ne! mondo di Dostoj'evskij vi sia chi gli somigli. Pare
un essere ancora legato alla terra, come le statue incompiute di
Michelangelo, i cui corpi sembrano lottare per svincolarsi dalle pietre e
ne rimangono tuttavia prigionieri.
Rogòzin è intelligente ma la sua mente è come legata.
Dice egli stesso : "io non ho imparato niente". Si presenta come
un "contadino sudicio" con le unghie mal curate e gli stivalacci
infangati, un enorme brillante al sudicio dito della mano destra
300
e una spilla da cravatta impossibile. Ma egli ha la stoffa
di quelli che vivono su un piano assoluto. Viene da una famiglia segnata
nel carattere da una cupa malinconia. Suo padre, un membro della setta
degli skops, abitava una casa massiccia e tetra ch'è tutta un
succedersi di stanze e corridoi. Della sua dolce sposa ha fatto una
schiava e' noi la incontriamo ormai vecchia e non più interamente in
possesso delle sue facoltà mentali, ma come cinta da un'aureola di
santità nel momento in cui Parfèn le conduce il suo amico. Il vecchio è
stato un commerciante abile e uno spieiato usuario e ha ammassato enormi
ricchezze. A Parfèn, il figliuolo, Nastàsja dirà che il padre rivive in
lui e che anche su di lui pesa la minaccia di soccombere all'oscura
potenza del denaro. Questo è vero, ma lo stesso uomo è anche capace di
sprecare centinaia di migliala di rubli per soddisfare la sua passione.
Quando Nastàsja getta nel fuoco il pacco dei biglietti di banca, esulta:
"Ecco, da vera regina... Così facciamo noi!"
Tutto in lui è legato, asservito alle forze della terra.
Ma l'amore potrebbe liberarlo ed egli sarebbe allora capace di qualsiasi
ardimento e di tutte le bontà. E l'amore viene. Lo colpisce come la
folgore al primo incontro con Nastàsja Filippovna e non lo lascia più;
simile a un terremoto che sconvolge un paese e lo trasforma per sempre. È
un amore che vuole tutto, senza. riserve. Schiavo anch'esso delle forze
della terra, intollerante e brutale. All'inizio del romanzo, mentre Myskin
contempla il ritratto di Nastàsja, Gavrila chiede a bruciapelo:
"E Rogòzin, la sposerebbe?" Myskin, risponde:
""Quanto a sposarla, credo che la potrebbe
sposare anche domani; la sposerebbe, ma dopo una
301
settimana sarebbe capace di scannarla". Rogòzin ama
Nastàsja di un amore che è tutto una tortura. Questa passione è così unica.,
incondizionata ed esclusiva da non poter sopportare la propria violenza e
doversi volgere necessariamente contro se stessa. Essa deve trasformarsi
in tortura per l'essere che ne è l'oggetto poiché non gli lascia nulla,
ne personalità, ne vita inferiore, ne libertà, ne pace. Nessun essere
umano potrebbe sopportare una passione simile, tanto meno una Nastàsja
Filippovna. E poiché dovrà per forza ribellarsi, essa l'annienterà..
Inoltre Rogòzin sente di essere "soltanto un
contadino". Sente qualcosa in sé che lo lega alla terra, forse
persino una "bassezza", che si esprime nel sorriso sfrontato,
sicché guardandolo si resta colpiti dal contrasto tra la parte inferiore
del viso e la fronte nobilmente modellata. Perciò egli in cuor suo non
crede affatto che Nastàsja lo possa amare e questo fa sì che fin dal
primo istante si aggiunga il tormento della gelosia. Una gelosia mai
placata, muta e terribile come il suo amore.
Nell'amore di Rogòzin c'è una minaccia di morte.
Umanamente parlando, è fatale che questo amore porti là morte alla donna
che ne è l'oggetto. E anche per Rogòzin sarà la morte.
Quest'uomo ha capito l'anima di Myskin. I legami si
stringono fin dal primo incontro. E quando il principe interviene in
difesa della sorella di Gavrila e riceve lo schiaffo, Rogòzin pronuncia
la parola rivelatri-ce: "Ti vergognerai, Gan'ka, di aver
offeso una simile... pecorella! — (egli non seppe trovare un'altra
parola). — Principe, anima mia, lasciali stare; sputaci su, andiamo!
Vedrai come sa voler bene Rogòzin!". Egli ha conosciuto Myskin
esistenzialmente e gli ap-
302
partiene. Ma come un essere sotterraneo può appartenere a
una creatura di luce. Sono grandi tutt'è due, ma uno sta nella terra,
l'altro nella luce. Ed egli è costretto a vedere come Nastàsja ami il
suo amico, con tutto ciò che vi è in lei di più profondo, com'ella
disperi di poter esser sua e perciò corra da lui, Rogòzin, come un
disperato senza scampo cerca la morte. Ma che anche Nastàsja lo ami,
questo davvero non può fargli piacere.
Anche tra quest'uomo e Myskin vi sono rispondenze
profonde. Nastàsja è l'essere umano non riscattato, che vive sotto la
categoria della perfezione. E poiché è donna, dev'essere bella, di
quella bellezza che suscita l'amore doloroso di compassione. In Rogòzin
che è uomo la stessa condizione si rivela come una forza possente, capace
di qualunque atto di coraggio e di bontà, ma chiusa, prigioniera,
vincolata alla terra, tale che il suo amore non può che significare la
morte dell'essere amato.
Non credo vi siano parole di più cupa e bruciante
passione di quelle che esprimono ciò che sta accadendo tra Nastàsja e
Rogòzin nel racconto che questi ne fa all'amico nella sua tetra dimora.
Rogòzin ha capito Myskin e lo ama. Ma verso di lui porta
anche la gelosia e un senso terribile d'umiliazione. Non soltanto perché
Nastàsja lo ama ma perché egli è nella luce, mentre lui,
Rogòzin, è nelle tenebre.
Ciò che si addensa in queste tenebre appare poi nel
simbolo del coltello. È un coltello da giardiniere che Rogòzin ha
comprato "per caso" e messo in un volume di storia della Russia
che Nastàsja gli ha consigliato di leggere — nell'unico momento in cui
l'ha trattato con stima e amicizia ed egli potè sentirsi "un
uomo"... — il coltello che il principe, per un oscuro
303
presagio, del subconscio, cerca nelle vetrine dei
negozi... col quale 'Rogòzin attende il principe dopo che questi,
nonostante la sua promessa, è andato a trovare Nastàsja... .il coltello,
infine, di cui si servirà per uccidere Nastàsja quando la tensione sarà
giunta al punto da non lasciargli scorgere altra via uscita.
Qui s'inserisce anche la misteriosa tentazione e la
•colpa di Myskin.
Tutto il romanzo è percorso da una cupa eco di morte.
Subito in principio, nell'anticamera del generale, Myskin parla
dell'esecuzione di un condannato e del modo come questi vive gli
ultimi istanti prima della fine. Ne riparla poi più tardi, quando è
ricevuto dalla generalessa e dalle sue tré figlio. Si è detto che questo
racconto non ha nulla a che fare col romanzo; Dostojevskij l'avrebbe
inserito per narrare quello
•che egli stesso aveva provato nei terribili istanti che
precedono l'esecuzione. Ma non si tratta di questo. L'immagine della morte
doveva piuttosto sorgere accanto alla figura del principe appena questa
avesse cominciato a prendere un certo rilievo. Myskin si trova a un
limite; davanti a lui è la morte. Diremo più avanti che cosa significhi
questa morte.
' Un'esistenza come questa di Myskin è soggetta a molte
tentazioni. La più forte è quella di oltrepassare quello stesso limite,
di cedere all'attrazione dell'abisso. Quale fu realmente la tentazione di
Gesù quando Satana lo condusse sui fastigi del tempio e gli gridò di
gettarsi in basso? Non fu, certo, di compiere un miracolo vistoso! Satana
è più sottile e più sottile era la sua intenzione. Questa tentazione
solo "uno spirito altissimo, poteva provarla; alla sua origine era
l'attrazione dell'abisso, e su di essa l'allusione
•alla protezione degli angeli non cercava che di
304
stendere un velo. L'immagine di questa tentazione ritorna,
singolarmente dissimulata, quando Myskin, col sentimento di cedere a una
potenza oscura, prima incoscientemente, poi sempre più consapevolmente,
si mette a cercare il coltello e in seguito va a trovare Nastàsja,
sebbene abbia promesso di non farlo... In fondo egli non cerca affatto
Nastàsja, ma quello che inevitabilmente lo attende, se andrà da lei: il
coltello di Rogòzin. Ma la tentazione è dissimulata, è dissimulata
ancora dietro la pietà ch'egli prova per Nastàsja.
Myskin soccombe e si rende colpevole. Per questo avviene
il fatto terribile che Rogòzin, col quale egli ha "scambiato la
croce", alza contro di lui il coltello. Una colpa velata, piuttosto
una mancanza di vigilanza e di fermezza — là però dove essa non
sarebbe mai dovuta accadere, nel cuore stesso della sua missione. Il fatto
però che Myskin "cada", che egli fallisca proprio là dove
Cristo rimane vigile e assolutamente inattaccabile, sarebbe un'idea troppo
personale, un'ipotesi costruita per partito preso, interpretarlo come un
segno della pietà religiosa di Dostojev-skij? Il quale, conoscendo i
limiti «imposti dal rispetto dovuto a Dio, nel narrare simbolicamente
quella storia santissima come storia d'un uomo, la racconta a questo punto
come una sconfitta e non come una vittoria, affinchè tutto l'onore
rimanga a Dio?
Resta ora da interpretare la prova più dura di questa
esistenza.
Myskin è andato a trovare il suo amico e questi gli ha
parlato del tormento che avvelena il suo amore per Nastàsja. Sentiamo
tutto il peso di questa sofferenza nell'ultima domanda di Rogòzin:
305
— Che pensi di tutto questo. Lev Nikolajevic?
— E che ne pensi tu stesso? — domandò a sua volta il
principe, guardando tristemente Rogòzin.
— Ma io penso forse? — sfuggì detto a quello.
Voleva soggiungere altro, ma tacque, preso da un'angoscia senza
scampo (L'Idiota, p. 219).
Il racconto prosegue... Appare la fosca immagine del padre
di Rogòzin, incarnazione delle peggiori inclinazioni del figlio, e noi
sentiamo che a questi non sarà dato farsi strada fino alla luce. Egli
conduce il principe dalla vecchia madre, ormai debole di mente, ma tutta
piena della presenza del divino. Le ha già condotto Nastàsja e questa si
è lasciata benedire da lei. Ora le porta il suo amico, quasi volesse
preservarlo da una oscura minaccia. Finalmente, attraverso stanze e
corridoi, si dirigono verso l'uscita. Passano davanti a un quadro, la
deposizione dalla croce di Hans Holbein, ove s'esprime in tratti tanto
intollerabili l'orrore della crocifissione e ciò ch'è più sacro appare
calpestato e avvilito da una furia annien-tatrice. Si svolge qui un
dialogo singolare:
— Sai, Lev Nikolajevic, da un pezzo tè lo volevo
domandare: credi in Dio sì o no? — riprese a dire Rogòzin, fatti
alcuni passi.
— Che strano modo di far domande e... di guardarmi! —
osservò involontariamente il principe.
— Mi piace guardare quel quadro, — mormorò, dopo un
po' di silenzio, Rogòzin, come se avesse già dimenticato la sua domanda.
— Quel quadro! — esclamò il principe, colpito da un
pensiero subitaneo: — quel quadro! Ma quel quadro a più d'uno potrebbe
far perdere la fede!
— Si perde anche quella, — confermò in modo
inaspettato Rogòzin. Erano intanto arrivati alla porta d'uscita.
— Come? — e il principe si fermò di botto. — Che
dici? Io ho quasi scherzato, e tu lo dici così seriamente! E perché mi
hai domandato se credo in Dio?
306
— Così, per niente. Già prima tè lo volevo
domandare... (L'Idiota, pp. 225-26).
Passo, questo, di difficile interpretazione e che
lascia un'impressione quasi indefinibile. "Già
prima" Rogòzin voleva chiedere all'amico se questi crede in Dio...
Non è forse strano chiedere a un uomo in cui si manifesta ed agisce una
formidabile presenza religiosa, se egli crede in Dio? E non è ancora
inconcepibile il modo in cui Myskin reagisce alla domanda? Egli in fondo
non da una risposta, ma si limita a dire cose profonde sul
"sentimento religioso" e a raccontare due storie singolari,
dalle quali si può dedurre che il fenomeno religioso nella sua essenza
sta al di là di qualunque dottrina teorica e persino al di là
dell'azione morale. Che vuoi dire questo? Vorrei solo spiegare quello che
mi par di vedere nell'atteggiamento più intimo del principe.
In questa esistenza è presente Dio. Egli è sentito
nell'atmosfera che l'avvolge e negli atti che la manifestano. Questo è
sicuro. Ma se "credere in Dio" ha lo stesso significato che noi
intendiamo dicendo di noi stessi che crediamo in Dio — allora non sembra
che Myskin creda "in Dio". "Credere" può infatti
soltanto chi in qualche modo stia "di fronte" a Dio, non chi nel
suo stesso esistere procede da Lui. Ora qui sembra proprio verificarsi in
un certo senso qualcosa di simile. Analizzando l'atteggiamento di Myskin,
noi ci accorgiamo che egli non sembra stare di fronte a Dio ma venire
invece da Lui e, più che parlare di Dio, sembra irraggiarlo. Per Myskin
il problema di Dio non consiste, si direbbe, nel modo come a Lui si
pervenga o come in Lui ci si conservi, ma come si possa, venendo da Dio,
sopportare fino all'ultimo il fatto di entrare e di muoversi in un mondo
di tene-
307
bre e di peccaminoso indurimento, assai diverso da Dio.
Supponiamo ora che qualcuno avesse chiesto al Cristo del
Vangelo di san Giovanni: Credi tu in Dio? Noi crediamo che a questa
domanda Egli avrebbe guardato l'interrogante con stupore, quasi come per
chiedergli che senso essa possa avere. Credere in Dio, lui, Figlio di
Dio?... Ora, a me sembra di vedere nella vicenda di Myskin in certo qual
modo la raffigurazione simbolica di questo fatto unico, un tentativo di
rappresentare l'evento dell'esistenza teandrica. Non direttamente; il
racconto diretto è ormai fissato una volta per tutte nelle parole di
coloro che "erano presenti fin dal principio"; ma in forma
simbolica, traduzione in linguaggio puramente umano di quel mistero
divino, ispirata all'atteggiamento di un uomo che certamente solo in tanto
ne partecipa, in quanto può dire, come ogni cristiano, essere Cristo la
parte più vera di lui; al quale tuttavia è stato dato, come ragione
ultima della sua esistenza, di ravvivare tra gli uomini il ricordo di
Cristo, di raccontare il Signore con la sua persona e la sua vita, con la
sua forza e la sua miseria, con la fedeltà alla sua missione e persino
col suo fallimento.
Con questo non intendiamo assolutamente dire che una cosa
del genere sia veramente possibile. Qui si tratta soltanto di possibilità
poetica, del significato di una figurazione artistica, come è apparso
evidente a noi.
Rispondendo ora al quesito, come interpretare la figura
del principe Myskin, diremo che in lui si manifesta il Cristo.
Questo non significa in alcun modo che, secondo
308
Dostojevskij, il Cristo potrebbe esistere una seconda
volta. In nessun caso si tratta qui di una "distruzione di
Cristo" 7. In senso assoluto, e dunque anche per
Dostojevskij credente, Cristo, e Lui soltanto, è l'Uomo-Dio. Uno solo lo
è, una volta sola e per sempre. Mai potrà un uomo che non deliri o
bestemmi, sognare di attribuire a sé quest'esistenza. Mi preme dirlo,
altrimenti tutta l'interpretazione non regge o peggio si riduce a una
banalità. Myskin non è ne l'Uomo-Dio ne un secondo Cristo. Egli è
soltanto un uomo, che risponde al nome di Lev Nikolàjevic Myskin e nella
sua vita, come in quella di chiunque altro, noi troviamo gioia e
sofferenza, ricchezza e povertà, amicizia e solitudine. Ma dietro alla
sua esistenza umana appare l'immagine di un'altra esistenza che non
è umana: quella dell'Uomo-Dio.
Si è già detto come nell'arte di Dostojevskij attraverso
una semplice vita d'uomo appaia talvolta una forma di esistenza che
trascende l'umano. Ora qui Dostojevskij sembra essersi accinto al compito
immenso — e non potrei dire con certezza fino a che punto ne fosse
consapevole — non di narrrare la vita di Cristo direttamente e in se
stessa, o raccontando come un uomo abbia cercato di riviverla nella fede e
nell'imitazione, ma di far apparire l'immagine dell'Uomo-Dio nella
trasparenza di una personalità umana. Può la vita dell'Uomo-Dio, come ci
è nota dai Vangeli e in particolare dal Vangelo di san Giovanni, essere
tradotta in una vita d'uomo ed esservi raccontata senza che quest'uomo
cada nel ridicolo o il Figlio di Dio venga spogliato della sua divinità?
Se
7 Nel
senso deU'« umanizzazione » di Gesù (il « Gesù della storia »
contrapposto al « Cristo della fede ») operata dal protestantesimo
liberale (N. d. f.).
309
la nostra interpretazione non è errata, a Dostojevskij è
stato concesso di risolvere questo problema.
Psicologicamente la figura di Myskin forse è irreale.
Forse -un uomo come lui non può neppure esistere 8. Eppure è
un personaggio significativo in ogni suo atteggiamento. Lo ascoltiamo, lo
osserviamo, lo seguiamo e d'un tratto scopriamo l'unità inferiore ed
entro questa ogni aspetto particolare s'illumina; dietro quest'esistenza
d'uomo si profila l'immagine di Cristo.
' Davanti alla nostra interpretazione qualcuno — e forse
anche noi stessi — potrebbe ora esser preso da un senso di perplessità
e domandarsi se i tratti ai quali abbiamo attribuito una determinata
funzione simbolica non debbano essere invece interpretati in un senso
affatto diverso.
Abbiamo già osservato ad esempio che l'epilessia potrebbe
significare non solo un rapporto con una realtà sovratemporale, ma anche
l'evasione dall'autonomia e dalla responsabilità della persona, e la
partecipazione alla vita dell'infanzia non tanto la comunione con un mondo
di sacra innocenza, quanto uno stato di minorità infantile... Una
partecipazione così dolorosa alle sofferenze altrui può essere
semplicemente il sintomo di una sensibilità malata. Alla compassione di
Myskin si può rimproverare di non trasformarsi mai in azione energica e
soccorrevole. E se lo volessimo giustificare, dicendo che quest'uomo sente
troppo profondamente l'impotenza umana
8
Questa « impossibilità », mi è stato detto, è tale soltanto per
l'anima occidentale, non per l'anima orientale. Non essendo in grado di
giudicare, bisogna che mi attenga a ciò che io posso vedere.
310
per risolverei a fare ancora qualcosa e perciò non gli
resta altro che accettare il peso che gli è imposto e portarlo sino alla
fine, sarebbe poi difficile controbattere la seconda obiezione, che tale
compassione non è in fondo che un segno di passività, poiché la vera
forza costringe l'esistenza a impegnarsi e un'azione autentica porta
sempre con sé tutto il peso d'essa. Ugualmente davanti a un atteggiamento
di pura comprensione, dove tutto è preso ugualmente sul serio e si
rifugge da un giudizio discriminante, sarebbe pur lecito osservare che in
questo modo si rinuncia a introdurre in un mondo ove regnano l'incertezza
e la confusione la distinzione chiarificatrice tra il bene e il male, da
cui pure ha inizio qualsiasi attività costruttiva e generatrice di
intcriore libertà. Che Mysidn, sia con i suoi discorsi che con le sue
azioni, dia l'impressione di esser come fuori dalla realtà,
po-trebb'essere anche difetto di chiarezza intcriore che rende la parola e
l'atteggiamento incerti e confusi... Inoltre ciascuno è perfettamente
libero di chiedersi se la sensazione conturbante di "aver già visto
la persona" che s'incontra per la prima volta, non dipenda da una
facile impressionabilità della fantasia, come accade a temperamenti molto
suggestionabili, quando sentano esprimere un pensiero o raccontare un
tatto, di credere d'averli già saputi in anticipo. Quanto al ricorso allo
"scandalo", si tratta anche qui di un'arma a doppio taglio e non
è facile rispondere all'obiezione che con questo argomento tutto si può
dimostrare. Porre lo schema dello scandalo come base per la soluzione di
alcuni problemi dell'esistenza è cosa assai pericolosa perché minaccia
di annullare ogni possibilità di giudizio obiettivo introducendo nel
pensiero il quia absurdum. In talune sottili zone mar-
311
ginali dell'esistenza e dove esista una vera attitudine
discriminante degli spiriti, vigile ed operante, la cosa ha un senso, ma
negli altri casi essa rende impossibile qualsiasi giudizio.
Questo ed altro si potrebbe dire e a buon diritto. La
figura del principe Myskin è realmente di una scoraggiarne ambiguità. Ne
consegue che V ultima rafia dell'interpretazione è l'impressione
complessiva che il lettore ne riceve, purché sia sufficientemente forte e
durevole per resistere al risorgere continuo di certe obiezioni. Ma se si
accetta l'interpretazione che abbiamo data senza cadere in contraddizione
con se stessi, il simbolismo di Myskin si arricchisce di un nuovo tratto
decisivo.
Il carattere e il contegno di Myskin sono così enigmatici
da rendere possibili gli apprezzamenti più contradditori. Si potrebbe
pensare che il romanzo stesso suggerisca in qualche modo l'interpretazione
esatta, sia mediante il rilievo che la figura del principe va •via via
acquistando nel corso del suo sviluppo e nel delinearsi del suo destino,
sia facendo trasparire dalle sue azioni la sua intima natura o mostrando
l'ascendente ch'egli esercita sugli altri, insomma con tutti
quegli-aspetti che determinano un'atmosfera e hanno senso simbolico, di
cui l'arte si vale per suggerire un significato senza esprimerlo
direttamente. Ma l'intenzione del libro è proprio di non farlo. La figura
del principe non è mai veramente spiegata, ne di lui si da mai un
giudizio definitivo. L'ascendente della sua personalità non appare mai
chiaramente, ne in un momento decisivo ne in genere. Il suo destino non ha
un carattere determinante e, quel che più conta, non è mai considerato
da un punto di vista generale e giudicato obiettivamente. Tutto questo non
perché
312
la sua vita tra gli uomini sia stata troppo breve, ma.
perché l'ambiguità gli è essenziale per natura. Noi lo incontriamo, per
dirla con Kierkegaard, sempre nella "simultaneità". Nessun
personaggio del romanzo può contemplarlo con distacco, nemmeno il
lettore:
che sappia penetrare realmente nell'intimità del
suo-mondo.
Così l'appello religioso che sale da questa figura.
perpetuamente ondeggiante ed ambigua può esser raccolto non sotto la
forma di una certezza oggettiva,. ma solo sotto quella di una decisione
arrischiata. Un giorno la spiegazione si avrà, si saprà se Myskin era.
veramente chiamato a un'esistenza simbolica o se era soltanto un
decadente. Ma questo avverrà quando egli sarà morto da un pezzo, quando
le reazioni provocate da lui si saranno calmate e il giucco delle cause e
degli effetti si sarà spiegato; quando gli altri personaggi di questa
storia avranno avuto tempo di veder chiaro in lui e in se stessi in
rapporto a lui perché allora il loro atteggiamento verso Myskin, sia di
pentimento che di avversione ostinata, sarà diventato-definitivo. Il
romanzo però si svolge dal principio alla fine prima di questa
chiarificazione. In esso Myskin. ci appare solo nell'atteggiamento di chi
non è stato ancora interpretato e di contraddizione, e chi legge si trova
con lui sempre nel rapporto di "simultaneità"' di cui s'è
detto. Ma chi viva questo rapporto e non si lasci indurre a considerare la
figura di Myskin come semplice oggetto di giudizio estetico, chi si
abbandoni a quel non so che d'inquietante che da essa emana, avrà d'un
tratto la rivelazione di quello che doveva essere lo stato d'animo dei
contemporanei di Cristo nel tempo che precedette la sua morte, la sua
resurrezione e la testimonianza dello Spirito Santo,
313.
quando credere era infinitamente difficile, ma se il
popolo, ne avesse trovata la forza, quella fede sarebbe stata tanto
possente da attuare la profezia d'Isaia ed aprire la via all'avvento pieno
e manifesto del regno di Dio.
Per arrivare a una interpretazione definitiva della
fiigura di Myskin sembra realmente necessaria una specie di scelta. Se non
ci si vuoi fermare alla oggetti-vità di una labile parvenza psicologica o
estetica e alla semplice constatazione dell'ambiguità di questa figura,
ma penetrare più profondamente nel suo senso vero, occorre davanti ad
essa decidersi in favore o contro il suo significato simbolico, anche a
rischio di prendere un grosso abbaglio e di rendersi ridicoli. Poiché
sarebbe davvero ridicolo e mortificante davanti al foro di una critica
obiettiva, sia filologica che psicologica o religiosa, esser convinti di
sentimentalismo per aver visto in un decadente o in uno psicopatico il
simbolismo esistenziale di Cristo.
Con questo mi sembra però di aver anche messo in evidenza
quello che c'è di originale in questo libro. Non si può di fronte ad
esso conservare un atteggiamento di obiettività estetica. E non solo come
avviene per qualsiasi opera schiettamente religiosa che rivela il suo vero
significato solo quando sia entrata a far parte della nostra esistenza, ma
in un senso affatto particolare: il suo significato vero non si può
determinare obiettivamente, ma appare solo nell'atto stesso in cui lo
facciamo nostro — e qui c'è effettivamente il rischio, come sempre
nella decisione religiosa, di scegliere l'assurdo.
A questo punto appare anche chiaro cosa si debba intendere
per "simbolo".
314
Ogni avvenimento nella vita di quest'uomo, come pure la
sua vita stessa ha anzitutto un senso proprio. Se si vuole, si può anche
fare a meno di cercare dietro il dato immediato una seconda significazione
e considerare semplicemente questa vita singolare in se stessa, tragica
com'è e in ultima analisi misteriosa. Ma se prendiamo di fronte ad essa
l'atteggiamento di cui s'è detto, ci sentiremo rinviati da ogni punto di
questa esistenza a un piano che le sta alle spalle;
non intenzionalmente, sì da avvertire la duplicità di un
significato proprio e di uno sottinteso, della cosa espressa e del mezzo
d'espressione; ciò che qui è avvenuto è invece una vera e propria
traduzione. L'immagine dell'esistenza di Cristo è qui tradotta
nell'esistenza di quest'uomo, il che forse è possibile solo se, da un
punto di vista puramente umano, rimanga una "impossibilità";
non un'impossibilità pura e semplice, come conseguenza di una psicologia
errata, di un eccesso di fantasia o di una idealizzazione da super-uomini,
ma di un'impossibilità dotata di significato. Proprio essa sarebbe allora
il simbolo decisivo. L'apparizione di una impossibilità umana
suggellerebbe la validità di questo simbolo di Cristo. Ciò che in Cristo
oltrepassa i limiti dell'umanità, questo mistero impenetrabile che invita
ad adorare, sarebbe qui tradotto in impossibilità umana, che in tal caso
sarebbe davvero un'eloquente impossibilità.
Non insistiamo. In ogni caso non appare mai un simbolismo
diretto. L'epilessia, il mondo dell'infanzia, ad esempio, presi per se
stessi, non hanno alcun riferimento col regno celeste del Vangelo di san
Giovanni; ma appena siano contemplati nel complesso della vicenda e in
rapporto alla figura del principe, ricordano in qualche modo la sfera
della vici-
315
nanza inaccessibile di Dio, donde è venuto il
Redentore. Non liricamente o idealmente, per una trasfigurazione compiuta
dalla fantasia, ma in concreto, tradotti nell'esistenza di quest'uomo
determinato.
Se questo, dunque, è possibile, nuove e più profonde
prospettive si aprono alla comprensione del problema dell'uomo. Questi non
sarebbe più un essere definito e chiuso, e invece di autosufficienza
umana si dovrebbe parlare di un potenziale altissimo che, aperto a
incalcolabili possibilità, è posto nella mano di Dio.
Siamo giunti ormai alla catastrofe. Myskin si è recato a
trovare l'amico nella sua tetra casa. Dopo un breve scambio di parole,
avvenuto in un'atmosfera d'incubo, Rogòzin conduce il principe nella
stanza attigua e gli mostra, distesa su un letto, Nastàsja Filip-povna
che egli ha uccisa. Un'oscurità orrenda, un'oppressione infinita grava su
questa scena. Rogòzin prepara una specie di giaciglio e quando "in
qualche modo il giaciglio fu fatto, egli si avvicinò al principe, con
fervida tenerezza lo prese sotto braccio, lo sollevò e lo guidò verso il
giaciglio... adagiò il principe sul cuscino di sinistra, il migliore,
coricandosi alla sua destra". Ed ora è come se la terra si aprisse a
inghiottirlo... Myskin sente le tenebre, donde un giorno era uscito,
richiudersi sopra il suo capo. Nelle parole che egli dice ora sentiamo
compiersi il progressivo, fatale annientamento.
Quando Rogòzin si fu calmato (e si calmò di colpo), il
principe si chinò piano verso di luì, gli sedette accanto e, col cuore
che batteva forte, respirando affannosamente, si mise a osservarlo.
Rogòèin non voltava il capo dalla sua parte
316
e pareva essersi dimenticato addirittura di lui. Il
principe
guardava e aspettava; il tempo scorreva, comincio ad
albeggiare. Rogòzin tratto tratto si metteva improvvisamente,
bruscamente, a borbottare forte delle parole sconnesse- si metteva a
gridare, a ridere: allora il principe tendeva verso di lui la sua mano
tremante e gli toccava dolcemente la testa, i capelli, glieli carezzava,
gli carezzava le guance... più di questo non poteva fare! Egli stesso
ricominciò a tremare e di nuovo si sentì mancar le gambe di colpo.
Una sensazione affatto nuova gli tormentava il cuore con
un'angoscia affatto infinita. Intanto si era fatto giorno. Alla fine egli
si abbandonò sul cuscino come se non avesse più forze, disperato, e
premette il suo viso contro il pallido viso immobile di Rogòzin: le
lacrime scorrevano dai suoi occhi sulle guance di Rogòzin, ma forse
allora egli non sentiva più quelle sue lacri-
• me e non ne aveva più alcuna coscienza...
Comunque, quando dopo molte ore, si aprì la porta ed
entrò gente, l'assassino fu trovato privo di sensi e in preda alla
febbre... Il principe, immobile, gli era seduto accanto sul giaciglio e, a
ogni grido o accesso di delirio del malato, si affrettava a passargli
dolcemente la mano tremante sui capelli e sulle guance, come per
carezzarlo e calmarlo. Ma non capiva più nulla di quanto gli si domandava
e non riconosceva le persone che erano entrate e gli stavano intorno. E se
lo stesso Schneider fosse arrivato ora dalla Svizzera per visitare il suo
antico discepolo e paziente, anch'egli, ricordandosi dello stato in cui si
trovava qualche volta il principe nel primo anno di cura, in Svizzera,
avrebbe fatto con la mano un gesto di scorag-giamento e avrebbe detto,
come allora: « Idiota! » (L'Idiota, pp. 634-35).
Nietzsche una volta ha detto: "Hai mai visto dormire
il tuo amico? Non hai trasalito nel vedere il suo viso? " Questo vuoi
dire che nel sonno, quando si rilasciano le forze dell'inibizione
cosciente, si libera la verità intcriore abitualmente repressa. Può
accadere allora di vedere d'un tratto chi sia veramente quegli che
credevamo di conoscere. Questa liberazione della verità intcriore per la
sospensione del controllo che la ragione vigile esercita sulla vita
istintiva può,
317
dati certi presupposti, andare molto più lontano quando
si tratti di un alienato. Se un uomo si avvicinasse a un pazzo che
provasse verso di lui repulsione o odio, questi indietreggerebbe dando
segni evidenti di terrore. Ora questo Rogòzin, accanto a cui giace
Myskin, ha ucciso Nastàsja, ha alzato il coltello contro il suo amico, ha
distrutto la vita del principe. Troveremmo grande, grande in senso
cristiano, se Myskin, cosciente e padrone della propria volontà, vincesse
l'odio o lo spavento in presenza di quest'uomo terribile; troveremmo però
naturale che egli provasse questi sentimenti. Ma se ci fosse traccia di
essi nell'anima del principe, se vi t'osse solo un'ombra di repulsione o
di spavento nel suo cuore e, diciamolo ancora una volta, nel suo
subcosciente, questi sentimenti, ora che col venir meno della ragione ogni
controllo consapevole è cessato, dovrebbero prorompere con una violenza
elementare. In presenza dell'assassino dovremmo vederlo indietreggiare con
un grido d'orrore. Ma noi leggiamo — e bisogna prestar fede a queste
parole perché sono profondamente veritiere — che Myskin, nella sua
follia sragionante, accosta il suo viso al viso immobile di Rogòzin e
tutte le volte che l'assassino grida gli carezza con mano tremante i
capelli e le guance per calmarlo.
Questi gesti non sono più un linguaggio soltanto umano.
Non vediamo ' qui un uomo; davanti a noi sono le mani, il volto, il cuore
di un uomo, ma ciò che da essi traspare è l'immagine del Redentore.
L'immagine di quell'Amore dimentico di sé fin nel suo fondo più sincero,
che nessuna ragione può più cogliere e nessun volere penetrare.
L'immagine del Signore che muore dicendo: "Padre, perdona loro
perché non sanno quello che si fanno".
318
E così in questa rovina si annuncia una grande vittoria
spirituale. Mai, credo, fu dato ad uno scrittore di farci sentire nella
gesta vittoriosa di un uomo tanta forza di intcriore superamento quanta ne
ha saputa suscitare Dostojevskij da questo sfacelo. La forza divina e
l'amore trionfante si manifestano qui nell'ora del più sconsolato
abbandono.
Qualcuno a questo punto obietterà che nessuno è
riscattato. Lo è forse Nastàsja? Oppure Rogòzin, Aglaja e tutti gli
altri? Ma la perfezione del simbolo sta appunto in questo, che nulla esso
"mima" di dò che è divino. Noi non vediamo nessuna
"conversione", nessun ripiegamento ulteriore. Tuttavia qualcosa
appare che è più di tutto questo. Chi apre il suo cuore per accogliere
questo libro sente l'infinita forza di redenzione di Dio operante non solo
al di là, ma entro e attraverso quello che in esso ci è accessibile. Lo
stacelo di Myskin contiene una promessa per Rogòzin e Nastàsja, per
questi due esseri per i quali, stando alla psicologia e all'esperienza
comune, non c'è posto in questo mondo. Qui la Redenzione avviene proprio
da una prigionia senza uscita, a conferma che "ciò che è
impossibile agli uomini è posibile a Dio" 9.
^ Le. 18, 27.
319
CONCLUSIONE
Al lettore che ci ha seguiti fin qui nella nostra analisi
del mondo religioso di Dostojevskij, dobbiamo ancora qualche spiegazione
sulla via che abbiamo scelta.
Forse egli ha già pronta l'obiezione che la nostra
interpretazione è stata sì chiarificatrice, ma in quanto ha
razionalizzato la realtà originaria.
Questo pericolo esiste effettivamente. Appena l'analisi,
al di là di una semplice comprensione, tenda e si leghi all'interesse per
il problema filosofico e teologico, è indotta a trasformare il carattere
di unicità e il vivente divenire della figura concreta in una costruzione
concettuale. Tanto maggiore è poi il pericolo, quanto più sottile è il
metodo di cui si serve quest'analisi. Da parte di un Pascal, ad esempio,
proprio per quella sua intuizione profonda della singolarità del vivente
che egli cerca di cogliere con una sottilissima tecnica concettuale,
sarebbe da temere un razionalismo molto più radicale che non da un Hume e
da un Berkeley, che fanno del vivente un complesso di processi meccanici.
A costoro, infatti, esso sfuggirebbe con facilità, continuando a esistere
indisturbato accanto a quelle loro grossolane costruzioni, mentre Pascal,
con l'agilità deYl'esprii de finesse, saprebbe penetrare fin nelle
sue pieghe più nascoste e assediarlo con un metodo, dalla cui azione
strin-
321
gente esso ben difficilmente riuscirebbe a preservare la
propria inviolabilità.
Ai giorni nostri dappertutto il razionalismo perde
prestigio. Nel dominio spirituale si affermano sempre più apertamente
l'irrazionalità e l'intuizione. Occorre pertanto maggior finezza nel
distinguere. Ciò che minaccia l'integrità della conoscenza del vivente
'non è la volontà di applicare a questo tutta la chiarezza del concetto,
ma solo un certo presupposto sulla base nel quale ciò avviene. Qualsiasi
conoscenza che pretenda a un valore scientifico o che voglia legittimarsi
di fronte alla scienza è razionale; ma ciò che ne determina il carattere
è la soluzione del quesito — anteriormente ad ogni sforzo individuale
del pensiero — se la realtà e la conoscenza di essa possano risolversi
interamente nel razionale. Solo una filosofia che attribuisca il carattere
di vera conoscenza esclusivamente alla conoscenza razionale e dica reale
solo ciò che può essere colto dalla ragione minaccia le fondamenta
stesse e la dignità della vita, com'è apparso chiaro verso la fine del
secolo scorso. Di fronte a questa posizione spirituale, il senso della
nostra situazione conoscitiva odierna sembra consistere in un netto
accentuarsi del carattere di tensione intcriore della realtà e dell'atto
che la coglie. In ognuno dei suoi aspetti l'essere è saturo di
razionalità. Ciascuno dei suoi ambiti, dal meccanico fino al personale,
sia nella struttura che nella specie, nel suo evolversi come nel suo
stadio terminale, può essere appreso dalla ragione. Ma nessuno di questi
ambiti, e nessun loro aspetto particolare, può risolversi intieramente
nel razionale poiché, dal personale al meccanico nell'insieme come in
ciascuna parte, l'essere contiene anche un elemento alogico, che non va
inteso come una
522
deficienza rispetto al razionale ma come il suo opposto
polo in senso essenziale1. Occorre dunque una volontà di
razionalità universale che non escluda l'irrazionale ne gli attribuisca,
riluttante, un compito secondario e ambiguo ma si riconosca a priori
rapportata all'elemento alogico, che altrimenti sarà inevitabile il
risveglio di un irrazionalismo altrettanto radicale nel trasferire
l'essenziale dell'atto conoscitivo nell'intuizione e in una visione di
immagini e nel proclamare la ragione nemica della vita.
Questa razionalità sente dappertutto la viva
contrapposizione dell'elemento alogico dell'esistenza, accessibile
soltanto all'intuizione. Tuttavia potrà proseguire la sua opera
chiarificatrice con fiducia proprio perché nella esistenza, cui si
applica con sollecitudine, rimarrà sempre un elemento insolubile. Questa
insolubilità è proprio ciò che essa ama.
Si tratta dunque di una volontà di razionalità che è
ben lontana dall'identificarsi col "razionalismo" 2;
ma questo non si manifesta in un affievolirsi dell'energia
conoscitiva o nella rinunzia a determinati oggetti o ad alcuni loro
aspetti particolari. Nulla esiste da cui questa volontà di conoscenza
potrebbe sentirsi esclusa. Ma i suoi atti sono accompagnati da una
1 A
questo proposito mi sia concesso di rinviare il lettore ai miei Versucheeiner
philosophie des Lebendig-Konkre-ten pubblicati nel 1925 sotto il
titolo Der Gegensatz. Nonostante le sue deficienze, l'impostazione
fondamentale mi sembra ancora esatta. Si veda anche quanto riguarda il
concetto dell'elemento alogico nell'essere; l'intuizione, nel senso
sostenibile seriamente, come sua forma di conoscenza subordinata e il suo
rapporto con la conoscenza logica. (Cfr. tr. it. di G. Sonunavilla in R.
guardini, Scritti filosofici, 2 voli.. Collana « Filosofi
contemporanei », Milano, 1966).
2 Questo era pure, con presupposti diversi, il
carattere del pensiero medioevale.
325
coscienza avvertita del polo opposto: l'elemento alogico e
là funzione conoscitiva che gli è ordinata. La purezza e l'evidenza di
realtà che troviamo nell'inter-pretazione che Pascal da dell'esistenza
sono dovute proprio al fatto che in lui la conoscenza razionale non
rifugge da alcuna sottigliezza per impossessarsi del concreto, mentre
d'altra parte deve riconoscere la natura razionalmente insolubile del
vivente. Perciò la chiarezza dei suoi concetti si arricchisce di una
particolare risonanza di profondità, e viceversa il senso
dell'insolubilità del'esistente e il ricorso all'intuizione non si
esprimono in un rifiuto della netteté de vue e della logica delVesprit
de finesse, ma nell'ac-cettazione di questa logica.
Il richiamo a Pascal non ha il significato sottinteso di
un confronto; esso doveva soltanto servire a spiegare il nostro pensiero e
invitare il lettore, forse troppo incline a separare pensiero e visione,
concetto e vita, chiarezza e profondità, acutezza critica e forza
creatrice, a riflettere che esiste un pensiero strettamente affine alla
visione, una profondità che risalta solo nella chiarezza, una compattezza
del concreto che si afferma nella struttura della logica. Per dirlo in
forma polemica: uno spirito che non è avversario della vita, ma che esso
stesso è vita e di ordine eleva-tissimo, atto a edificare una logique
de la finesse, che non distrugga la fragile libertà dell'esistenza
viva e una logique du coeur, che al cuore, organo della
comprensione dell'uomo e dei valori che in lui splendono, nulla tolga del
suo calore.
In questo senso vanno intese le analisi che abbiamo qui
tentate.
Pure mi rendo conto di quanto sia problematico un 324
simile tentativo. Lo sarebbe nei riguardi di qualsiasi
grande creatore; lo è in misura ancor più grande quando si tratta di
Dostojevskij. C'è una grande poesia che configura l'esistenza come un
cosmo trasparente, in cui la pienezza della vita è contenuta in un ordine
unitario — la Divina Commedia di Dante ne è l'ultima e più
luminosa espressione — e c'è una poesia che scopre gli abissi della
creazione, il grembo dell'esistenza nell'atto stesso di schiudersi. Anche
qui c'è un "ordine" che però non è concluso, ma dappertutto
in continua trasformazione; le figure non escono dalla loro ambiguità e
l'unità del tutto sopravanza le forze del nostro sguardo. Ogni
personaggio perpetuamente si trasforma e diviene, pur conservando la sua
intima coerenza; ogni immagine ha vita propria e pure si fonde con la vita
del tutto. Di questo tipo è l'opera di Dostojevskij. Come deve apparire
dunque di esito incerto un tentativo come il nostro!
E anche tra gli scrittori veramente « creatori »
Dostojevskij occupa un posto speciale. Nelle sue opere personaggi ed
avvenimenti non sono soltanto di una originalità assoluta, presi, come
quelli di Shakespeare, nel dinamismo del divenire; in essi c'è
qualcos'altro che potremmo chiamare il "caos". Ma non soltanto
come sostrato originario di ogni creazione, riserva di immagini future,
grembo oscuro dal quale emergono le figure, fiume sotterraneo che scorre
sotto le forme concrete dell'esistenza. Tutto questo non escluderebbe la
perfetta chiarezza della creazione artistica. In Dostojevskij invece è il
caos stesso l'elemento che tutto pervade. Non s'intende però esprimere
con questa parola un giudizio negativo. Liberi da ogni pregiudizio
formalistico, la usiamo soltanto nel senso che
325
le compete nell'esistenza cristiana, dove non solo la
forma ma anche il suo opposto — diciamo "opposto" [Gegensatz),
non contraddizione (Widerspruch), — sono riscattati. Respingiamo
così nettamente l'antico errore, più fatale all'Occidente di quanto a
prima vista non sembri, di identificare la "forma" con
l'"es-senza", col "valore", con la
"realtà", e tutte le conseguenze che ne derivano, a cui fa
riscontro l'altra identificazione errata che fa il "caos" o
meglio la "pienezza" (per usare il termine della mia teoria
dell'opposto) equivalente a "non essere",
"non-valore", "apparenza", "oscurità".
Questo errore — che non fu soltanto teorico ma significò anche una
determinazione vitale, un atteggiamento, una "politica" — ha
avuto per l'Occidente conseguenze incalcolabili e provocato d'altra parte
l'insorgere contratto delle varie forme di irrazionalismo, di
polarizzazione romantica e dei sospetti antispiritualistici. Il pensiero
moderno occidentale non ha più ritrovato la necessaria posizione di
equilibrio e, passando da un estremo all'altro, ha eluso i problemi
fondamentali del pensiero e dell'azione. Per questa ragione e non ostante
gli sforzi fatti per conciliarle, cultura e vita sono rimasti due domini
divisi e reciprocamente ostili e non esiste ancora una vera Europa.
Ma torniamo a Dostojevskij. Nelle sue opere il momento di
pienezza dell'esistenza, il non-definito, l'elemento fluido sfuggente a
ogni forma, l'improvviso e l'imprevedibile è affluito nei personaggi
stessi e li pervade. È nei loro volti, nei loro gesti, nei loro
sentimenti e pensieri, nella loro volontà e nel loro destino.
Di qui la scoraggiante ambiguità di queste figure. Appena
si crede d'aver capito che cosa significhi un tratto particolare nel
carattere di un personaggio o una
326
determinata azione nel complesso della sua vita, subito ci
si accorge che la spiegazione potrebbe anche essere diversa. Si pensa di
aver capito una figura e tosto si è costretti a riconoscere che esiste un
rapporto dialettico tra questa ed altre figure, nel quale ciascuna è via
via diversamente determinata dalle altre. Se poi si cerca, per fissare la
dialettica di quei rapporti, di seguire l'azione nella sua linea unitaria
di sviluppo, si deve constatare che l'azione stessa è ambigua e si
sottrae a una determinazione precisa. In queste condizioni l'esito del
nostro tentativo doveva apparire più che mai incerto.
Se ciononostante mi sembra di poterlo giustificare è per
l'intenzione che ha guidato quest'indagine. Essa non mirava ad
un'interpretazione del pensiero di Do-stojevskij su linee filologiche o
secondo princìpi della scienza dello spirito, ma a stabilire la
possibilità di un incontro con questo scrittore. Si è trattato dunque di
un dialogo fra lui e me sui problemi essenziali dell'esistenza umana — salva
reverentia e nel senso che appunto il dialogo è uno dei modi in cui
si esplica la vita dello spirito.
Esporre i risultati di un incontro, di un colloquio, su
argomenti di capitale importanza per tutti era l'intenzione di questo
libro. Esso ha voluto dare così un contributo all'edificazione di
un'Europa umana e spirituale e di conseguenza alla conoscenza dello
spirito e del cuore umano.
327
332
Finito di stampare nel mese di aprile 1968 nella
Tipografia Editoriale « Aldo Manuzio » S. Martino B. A. (Verona)
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Premessa .......
pag. 7
CAPITOLO PRIMO •
II popolo e la sua ascesa verso il sacro . » 13 II popolo
. . . . . . » 13
Le donne credenti . . . . » 21
Paganesimo ...... » 27
CAPITOLO SECONDO
Le silenziose e la grande acccttazione . » 33 Sònja
Andrèjevna ..... » 34 Sònja Semjònovna . . . . » 45
CAPITOLO TERZO
Gli uomini spirituali ..... » 61 II popolo e gli uomini
spirituali . » 61 Macario, il pellegrino .... » 63 Lo stàrets Zòsima e
suo fratello
Markèl ...... » 74
CAPITOLO QUARTO
II cherubino ....... » 93
Aijosa Karamàzov . . . . . » 93
La verità e l'angelo . . . . » 100
331
CAPITOLO QUINTO
I ribelli ........ » 117
La leggenda del Grande Inquisitore
e il suo poeta . . . . » 117
La leggenda ...... » ' 119
II piano dell'interpretazione . . » 123 II cristianesimo
della leggenda . . » 127 Ivàn Karamàzov . . . . . » 136
Ivàn e Smerdj'àkov .... » 149
II colloquio col diavolo . . . » 157 II senso della
leggenda . . . » 169 La leggenda e il contesto del problema ...... » 170
CAPITOLO SESTO
Gli atei ........ » 173
Osservazioni preliminari ... » 173 Kirillov ....... »
175
II finito e il nulla ...... 206
Stavròghin . . ... . » 213
CAPITOLO
SETTIMO
Un sirribolo di Cristo . . . . . » 267 La personalità
del principe Myskin . » 270 Significato della figura del principe . »
278
Conclusione ....... » 321
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