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OPERE DI ROMANO GUARDINI
EDIZIONE ITALIANA A CURA DEL «CENTRO DI STUDI
FILOSOFICI DI GALLARATE»
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ROMANO GUARDINI
APPUNTI PER UN'AUTOBIOGRAFIA
Editi dall'opus postumum a cura di Franz Henrich
MORCELLIANA
Titolo originale dell'opera:
Berichte ùber mein Leben Autobiographische
Aufzeichnungen Aus dem Nachlass herausgegeben von 'Franz Henrich
by Patmos Veriag-Dusseldorf 1984 - Dritte Auflage 1985
Dei diritti d'autore sulle opere di Romano Guardini dispone la Katholische
Akademie in Bayern
Trad. di giancarlo penati
Con approvazione ecclesiastica
O 1986 by Editrice Morcelliana S.p.A. - Bresda
Tipolitografia La Nuova Cartografica - Broscia 1986
PREFAZIONE
II 17 febbraio 1985 cade il centenario della nascita di
Romano Guardini (1885-1968), uno dei più significativi filosofi della
religione, teologi, pedagogisti ed ermeneuti. La
Katholische Akademie di Baviera si propone sin dal suo inizio (1957)
di collegarsi particolarmente all'opera di Guardini. Con deliberazione
dell'8 dicembre 1982 si è impegnata con gli eredi dì Romano Guardini a
occuparsi per la più ampia diffusione delle sue opere, il che comprende
fra l'altro la tutela dei suoi diritti di autore, la cura ed eventuale
pubblicazione degli inediti, la preparazione di una edizione completa e
l'organizzazione di un Archivio Guardini. In accordo con il comitato
competente costituito per la cura secondo il testamento dei suoi
inediti, l'Accademia coglie l'occasione del suo centenario per dare alle
stampe le note autobiografiche di Romano Guardini Berichte uber mein
Leben. Quali mèmbri del comitato erano dapprima stati designati il
prof. dr. Werner Deffloff, il dr. Felix Messerschmid (presidente sino
alla morte, nel 1981), il prof. dr. Johannes Sport (anch'egli deceduto
nel 1977) e la dr." Bernardine Sug-Bellini (mancata nel 1979). Oggi
vi appartengono come aventi diritto dì voto:
il prof. dr. Eugen Biser, il prof. dr. Werner Def-
7
tioff, il prof. dr. Franz Henrich (Presidente), il prof.
dr. Richard Heinzmann: mèmbri consiglieri sono Giuliano Guardini e il
dr. Hans Mercker.
Il Comitato e l'editore non hanno preso facilmente la
decisione di pubblicare questi documenti. I
Berichte sono rimasti in due esemplari scritti a macchina, che si
trovano negli archivi di due amici di R. Guardini: l'originale presso
Johannes Spóri e la prima copia presso Felix Messerschmid, che era
anche il curatore testamentario di Guardini. 'Nell'esemplare di
Messerschmid si trovano come fogli separati i testi Fiir den
Todesfall (5-2-1964) e Aus einem Traum (TJn sogno, 1-8-1964).
Il fatto che questi abbozzi per un'autobiografia non
fossero compresi nell'insieme dei veri e propri inediti letterari di
Guardini, fa presumere che l'autore intendesse lasciare al giudizio del
suo più giovane amico, a lui legato sin dal tempo di Rothen-feis, la
decisione se e in quale forma pubblicare i Berichte. In questo
senso da espressa indicazione anche la Lettera a Johannes Spóri del
12-1-1945. Nella nota Fùr den Todesfall (In caso di morte,) datata
quasi vent'anni dopo la stesura dei Berichte, Guardini lascia
intendere che le sue note, interrotte a causa della chiamata a Tubinga e
non poi riprese, non siano pronte per la pubblicazione, poiché tra
l'altro il periodo sino ai sessant'anni non è visto nel suo pieno
significato.
Dopo la morte di Romano Guardini ed anche dei suoi amici
Johannes Spóri e Felix Messerschmid si imponeva da parte del Comitato
degli esperti una
decisione. Sicuramente l'Autore non ha consegnato in due
copie ad intimi amici le sue note accuratamente concepite e più volte
corrette, per tenerle sotto chiave o per lasciarle del tutto perdere.
Che ad un autore vent'anni dopo la stesura venga il dubbio se questo
testo incompiuto sia maturo per esser pubblicato, è ovvio. È decisivo
il fatto che Romano Guardini, come risulta chiaramente dalla lettera a
Spòri, intendeva impedire possibili difetti di presentazione della sua
persona. Tutto ciò ha indotto il comitato incaricato della cura degli
inediti letterari di Guardini a superare ogni esitazione e non differire
più a lungo la -pubblicazione di quest'opera, in analogia con quanto
aveva fatto il presidente della commissione degli inediti Felix
Mes-serschmid con le note di diario l. Sarebbe inoltre sleale
lasciare che altri autori formulino supposizioni, in occasione del
centenario della nascita, sulla persona di Guardini, quando materiale
autentico è conservato nell'archivio della Katohiische Aka-demie di
Baviera.
I Berichte ùber mein Leben furono composti negli
anni 1943-45 a Mooshausen in Algovia, dove l'Autore passò gli ultimi
anni della seconda guerra mondiale, dopo la soppressione disposta dai
nazisti della sua cattedra berlinese, nella casa parrocchiale dell'amico
Josef Weiger. Essi furono scritti
1 Cfr.
R. guardimi, Wahrheit des Denkens una Wahrheit des Tuns. Notszen unì
lexte 1942-1964, Aus nachgelassene Aufzeichnungen hrsg. v. F.
messerschmid, F. Schoningh, Paderborn-Munchen-Wien-Zùrich 1980 (trad.
ital., Diario, Appunti e testi dal 1942 al 1964, Morcelliana,
Brescia 1983).
poco prima del suo sessantesimo compleanno, quando egli
poco poteva operare in pubblico e doveva fare scarso conto di una
possibile nuova chiamata ad insegnare. Il testo si presenta bipartito,
poiché dopo la lettera a J. Spari seguono due parti distinte e numerate
in cifre romane, che riferiscono essenzialmente notizie dello stesso
periodo della vita di Guardini, ma ne trattano da un diverso punto di
vista. La prima parte, «Carriera universitaria e attività
d'insegnamento», inizia dal momento in cui Guardini pensa ad abilitarsi
per l'insegnamento universitario (nella redazione stesa dal 14 al 19
febbraio 1945). La seconda parte «La ricerca della vocazione.
Sacerdozio e attività pastorale» (nella redazione stesa dal 21
febbraio al 6 marzo 1945) concerne, in aggiunta, il periodo degli anni
di fanciullezza fino alla fine degli studi. In molti luoghi l'Autore
accenna che verrà a parlare dì determinate questioni o di -particolari
ambienti più innanzi o in altro luogo; db per lo più non è stato
fatto. Mancano così importanti temi complessivi come il movimento
giovanile, Quickborn, il Castello di Ro-thenfeis, il movimento e
rinnovamento liturgico, gli incontri con scienziati, artisti,
pubblicisti ed limici, ecc.
Che le due parti siano da considerare relativamente
indipendenti, lo si deduce nel manoscritto dalla numerazione delle
pagine e dei capitoli, che ricomincia ogni volta da capo, tuttavia si
evidenzia d'altro canto l'appartenenza a un unico tutto di ambedue le
parti nella numerazione doppia aggiunta
10
a macchina delle pagine nella seconda parte. L'originale
e la copia del testo scritto a macchina si presentano nel secondo stadio
redazionale e sono riviste con una serie di correzioni scritte a mano da
Guardini, che essenzialmente si limitano a miglioramenti stilistici.
Come testo per la stampa è servito fondamentalmente l'originale,
poiché è corretto in modo maggiore e include annotazioni scritte a
mano più numerose della copia. Soltanto là dove le correzioni della
copia sono ulteriori rispetto a quelle dell'originale, esse sono state
preferite per la stampa. Le proprietà tipiche di Romano Guardini nel
linguaggio, nell'ortografia e nella punteggiatura restano invariate.
Anche piccole lacune di data, così come anche occasionali imprecisioni,
restano intatte nel testo, vengono però rettificate negli indici [nelle
note nella versione italiana]'.
Per facilitare l'orientamento del lettore, il curatore
ha fatto precedere un indice-sommario e m appendice aggiunto indici dei
nomi citati, dei luoghi e delle opere di R. Guardini *, ed anche una
cronologia della sua vita, per la cui delineazione molto cordialmente si
ringrazia il dr. Hans Mercker. Del resto si noti a questo proposito che
più ampie prospettive circa gli anni della vita di Guardini qui non
rievocati dal 1945 al 1968, anno della sua morte, danno ad esempio i due
seguenti scritti di Romano Guardini:
Wahrheit des Denkens und Wahr-
* Questi indici non sono stati riprodotti nell'edizione
italiana, ma le notizie che possono interessare il nostro lettore sono
state incorporate nelle Note del traduttore.
11
heit des Tuns,Notizen und Texte 1942 bis 1964 2,
e Stationen und Rùckblicke, Wùrzburg 1965. La connessione di
Guardini col movimento giovanile è trattata in: Franz Henrich, Die
Bùnde katho-lischer Jugendbewegung, Munck en 1968. Indicazioni
autobio grafiche minori si trovano nei discorsi che sono stati scritti
in occasione degli anniversari della nascita e delle commemorazioni di
Guardini, come pure nelle biografie di contemporanei che trattano di
incontri con lui. La Bibliografia di Romano Guardini pubblicata
dalla Katholische Akademie di Baviera in occasione del decimo
anniversario della morte 3 ne da un riassunto
complessivo.
Il presente testo non rappresenta ne una completa
autobiografia, ne una autobiografia in senso tradizionale, ordinata
secondo le date della vita e il corso defili eventi esterni. In queste
annotazioni Guardini segue sempre le orme della sua intima linea di
sviluppo, che deve guidarlo al suo compito, sulla sua via, alla parola a
lui detta, alla sua «parola d'ordine» (cfr. Un sogno, p. 20).
Durante la sua vita Guardini fu molto riservato nel comunicare notizie
personali. I suoi Appunti per un'autobiografia non costituiscono
soltanto un documento per la storia del tempo e della Chiesa di
altissimo valore, ma anzitutto un commovente e in parte impressionante
apertura consentono un libero sguardo
2 V. nota
1.
3 Guardinis Werke. Veroffentlichungen ùber
Romano Guardini. Rezensionen. Erarbeitet v. hans merckek, Paderbom
1978.
12
sul cuore e la mente di un cristiano credente, sacerdote
e docente. La personalità e l'opera della sua vita vi appaiono ora in
nuova luce su di uno sfondo sinora non noto, cosi da poter facilitare un
rinnovato accesso alla sua insostituibile opera. Decisivo è non ciò
che ci è gradito o sgradito, «bensì ciò che è vero»!
franz henrich Monaco, ottobre 1984
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LETTERA DI INTRODUZIONE a Johannes Spóri4
Caro Amico,
Entro pochi giorni compio i miei sessant'anni, e si è
solitamente d'accordo sul fatto che ciò significa l'inizio della
vecchiaia. Non lo dico in senso malinconico, perché faccio conto, se
Dio vuoi concedermelo, ancora su parecchi anni di attività e lavoro.
Tuttavia neppure posso non riconoscere che anzitutto gli ultimi diciotto
mesi con la loro infinita devastazione mi hanno toccato profondamente, e
da allora qualcosa è cambiato. Mi capita pure spesso da ultimo di
sognare e di incontrare nei sogni persone che appartengono a tempi molto
lontani della mia vita; ed io ricordo che una volta una mia vecchia
amica diceva che questo avviene di solito quando si avvicina la
vecchiaia, poiché significa che la vita va in cerca delle sue radici. E
se in
4
Johannes Spori (1904-1977), storico, libero docente dal 1934, poi
docente di storia medievale a Friburgo in Br. (1940), Monaco (1947); fu
legato a Guardini nel movimento giovanile sin dal primo periodo di
Rothenfeis ed ebbe gran parte nella chiamata di Guardini a Monaco (1947)
alla cattedra di filosofia della religione e Weltanschauung
cristiana. A lui Guardini dedicò Der Tod des Sokrates, Berlin
1943 (trad. ital. La morte di Sacrate, Morcelliana, Bresda 1981).
15
questi giorni la lancetta dell'orologio della mia
propria piccola vita ritorna ad un'ora importante, anche la lancetta del
grande orologio della storia, fa lo stesso; in modo tanto
imponente e incalzante, che spesso non si sa come lo si debba
sopportare.
Perciò è venuto questa mattina il pensiero se non sia
tempo di guardare indietro alla mia propria vita e di renderne conto,
anzitutto a me stesso. I diversi motivi e influssi, che tessono insieme
lo straordinario intreccio che si chiama esistenza, hanno avuto tempo di
mostrarsi; le combinazioni orientatrid si sono annodate e le decisioni
principali sono avvenute; perciò lo sguardo può ben riconoscere un
insieme coerente che rende possibile una riflessione riconoscente e da
luce e forza a quella parte di cammino che ancora rimane. Tu stesso hai
già parlato più volte dei fatto che volevi scrivere a suo tempo la mia
biografia. In sé questo pensiero mi è estraneo. Ogni uomo esiste
soltanto una volta, e nessun corso di vita si ripete; perciò non si
può mostrare ciò che è più proprio all'essenza e nel cammino della
sua vita. .Le biblioteche sono colme di biografie, ma è bene che le
persone di cui esse trattano, siano morte;
non credo che sarebbero molto contente del ritratto che
di esse è stato disegnato. Secondo il mio immediato sentimento, alla
domanda se desidero una narrazione della mia vita, risponderei di no.
Tuttavia già da più di trent'anni ho un'attività pubblica, e la serie
dei miei scritti è divenuta a poco a poco lunga. Perciò si vorrà pur
sapere chi era l'uomo
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che ha parlato e scritto così, e mi sarebbe quindi
gradito che-la mia immagine risultasse abbastanza vera: per tal motivo
sarà meglio che io stesso dica qualcosa circa la mia persona e la mia
causa.
La questione è soltanto in che modo devo far ciò.
Quello più semplice sarebbe una serie di note biografiche che,
rimontando indietro tanto quanto può il ricordo, narrassero, di anno in
anno, le circostanze esterne e i cambiamenti interni. Ma non mi è
occorsa lunga riflessione per chiarire a me stesso che non sono in grado
di farlo. Non sono uomo di ampi ricordi; per me è sempre stato, più
del passato, importante il futuro. Un piano di narrazione simile,
perciò, mostrerebbe troppe lacune. Ma potrei fare in modo di scrivere
una serie di capitoli, ciascuno dei quali dipanasse un filo particolare
tratto dal tessuto degli avvenimenti, seguendolo di anno in anno sino in
fondo; oppure parlare di un qualche settore della mia vita e cercar di
mostrare come entro di esso i vari fili di ogni genere si siano
intrecciati in un tutto. Ciò avrebbe il vantaggio che io non avrei
necessità di essere esauriente, e tuttavia il risultato significherebbe
pur sempre qualcosa di relativamente compiuto. Potrei sempre iniziare da
dove mi fosse più gradito; e nel caso, possibilissimo, poiché come
detto non sono uomo di ricordi, in cui il tutto mi divenisse ostico,
potrei smettere senza grave danno. Così cercherò dunque di fare, e tu
potrai poi farne quello che ti sembra giusto.
Tu, carissimo Johannes, sei ora anche lontano
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e la grande storia è divenuta nel modo più immediato
personalmente tua. Che io racconti a tè, per così dire, questi
ricordi, significa, insieme, il desiderio che tu possa presto dopo un
felice ritorno leggerli e, come scrittore di storia, quale tu sei, avere
l'occasione di utilizzarli.
Mooshausen, 12 febbraio 1945.
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JN CASO DI MORTE
Note sulla mia vita
Dopo la mia partenza da Berlino e durante il mio
soggiorno a Mooshausen (1943-45) ho scritto annotazioni sulla mia vita,
sulla mia evoluzione spirituale, ecc. Questo lavoro fu interrotto nel
1945 a causa della mia chiamata a Tubinga e da allora non è più stato
ripreso.
Nello stato in cui è attualmente, esso non è pronto
per la pubblicazione. Anzitutto, poiché giunge solo sino al
sessantesimo anno della mia vita; ma poi perché quanto si riferisce al
tempo precedente non ha ancora raggiunto il suo pieno significato.
5-2-1964
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UN SOGNO
Stanotte, ma verso mattina, all'ora, dei sogni, ne ho
fatto uno anch'io. Che cosa vi si svolgeva, non lo so più, ma era un
qualche discorso; e se fosse fatto a me, o da me, anche questo non lo so
più.
Però vi si diceva che, quando un uomo nasce, gli viene
consegnata una parola, ed era chiara, che cosa significasse: non era
soltanto un carattere, ma una parola. Essa viene pronunziata all'interno
della essenza dell'uomo, ed è come la parola d'ordine per tutto quanto
poi accade; è insieme forza e debolezza, è compito e promessa, è
protezione e minaccia. Tutto ciò che avviene nel corso degli anni, è
conseguenza di questa parola, è suo commento e adempimento. E avviene
perciò che colui cui essa è stata detta, ogni uomo, poiché ad ognuno
ne viene singolarmente detta una, la comprenda e con . essa venga ad
accordarsi. E sarà forse questa parola ad essere il fondamento di ciò
che un giorno il Giudice gli dirà.
1.8.1964
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CARRIERA UNIVERSITARIA E ATTIVITÀ D'INSEGNAMENTO
Mi trovo ora da un anno e mezzo qui a Mooshau-sen, un
piccolo villaggio dell'Algovia sveva. In questo periodo la mia nostalgia
per l'attività di insegnamento accademico, che credevo di aver
concluso, è. nuovamente molto cresciuta. Nella primavera del 1939, la
mia cattedra era stata soppressa, e circa sei mesi fa ho tenuto a
Stoccarda, invitato là dalla locale Hólderlin Gesellschaft, in
un'aula della Technische Hochschuie, una relazione su «II
paesaggio nella poesia di Hólderlin» 1. È stato proprio la
sola volta, da quella soppressione, che mi son sentito totalmente al mio
posto. Nessuno sa che cosa porterà il futuro. Chissà, forse sarò io
pure chiamato ancora una volta 2.
Quando ieri ho pensato a come dovessi iniziare queste
«note», ho deciso che anzitutto dovevo riferire come si è svolto il
mio cammino verso l'Università e poi entro il suo mondo. Ciò non
corrispon-
* Cfr. R. guardimi, Form und Sinn der Landschaft in
der Dichtung Holderlins, Wunderlich, Tubingen-Stuttgart 1946.
2 In realtà Guardini doveva esser chiamato a
riprendere l'insegnamento a Tubinga già nel 1945 e successivamente a
Monaco di Baviera (1947).
21
de certamente a un buon metodo storico; ma probabilmente
dice qualcosa circa la stratificazione dei motivi spirituali
nella mia vita, il fatto che essa per la prima volta trovasse
espressione letteraria.
Quando affiorasse per la prima volta nella mia vita
l'intenzione di dedicarmi all'insegnamento accademico, non sono più in
grado di dirlo: in ogni caso, non prima del mio inizio di studi
teologia, poiché fino allora tutto era completamente confuso.
Probabilmente avvenne quando, dopo nove semestri di studi universitari,
di cui quattro dedicati alla teologia, entrai nel Seminario
ecclesiastico di Ma-gonza. In generale gli iscritti ai corsi teologici
provenivano, senza periodi intermedi, dal seminario minore. Soltanto
raramente qualcuno aveva frequentato, e molto brevemente, l'università:
così questa mia provenienza accademica apparve in quell'ambiente
qualcosa di speciale. Mi ricordo anche che mio padre, che aveva
accettato il mio proposito di divenire sacerdote soltanto con molta
contrarietà, espresse il desiderio che io fossi in ogni caso •
laureato. Questo desiderio egli aveva anche espresso all'alierà Rettore
del seminario, il prof. Becker;
il quale non fece però in merito alcuna promessa, ed
anzi dispose che io dovessi fare esattamente come tutti gli altri, pur
lasciando aperta quella possibilità. Ma da ciò si formò una sorta di
presunzione che la mia strada fosse certo quella dell'insegnamento.
Quando fui ordinato sacerdote, questa idea pre-
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se una forma più concreta. L'ordinazione non si era
svolta in verità senza difficoltà. Insieme al mio amico Karl
Neundórfer, che era entrato un semestre dopo di me, mi ero permesso
critiche di ogni genere, e il collegio dei professori ne era tanto
preoccupato da esprimere l'opinione che ci si dovesse piuttosto lasciar
uscire. Questo però non ci nocque, e sia pure con il ritardo di un
semestre, giungemmo al fine. Dopo due destinazioni provvisorie, di cui
dirò, andai come cappellano a St. Christoph a Magonza, il cui parroco
era ben noto per il fatto di non lasciare al suo cappellano niente di
importante da fare: e così era considerato un incarico nel quale
avanzava tempo. Dovevo colà iniziare a lavorare per la mia laurea.
Con ciò però si presentò qualcosa di non facile;
anzitutto la questione dell'argomento di laurea.
Raccomandato dal Rettore del seminario, mi recai per consiglio dal prof.
Grabmann3, che teneva allora la cattedra di teologia
dogmatica a ... Egli si trovava appunto a Bad Worishofen, e della mia
visita mi è proprio rimasto soltanto il ricordo di come la gente girava
sotto la pioggia torrenziale a piedi nudi. Tutto il resto, ad eccezione
dell'impressione
3
Martin Grabmann (1875-1949), storico della teologia e filosofia, docente
di dogmatica a Eichstatt (1906), Vienna (1913), Monaco (1918), è uno
dei principali studiosi della filosofia e teologia medievale, con la
dirczione dei «Beitrage zur Geschich-te der Philosophie und Theologie
des Mittelalters» e del «Phi-losophisches Jahrbuch» ed esponente
della rinascita in sede storica e teoretica degli studi tomistici.
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di accoglienza amichevole di Grabmann, l'ho di'
menticato. In particolare non potè darmi alcun aiuto, probabilmente per
colpa mia. Ne ricordo più quale argomento mi consigliò.
Allora lo cercai da solo. Già a Tubinga, stimolato da
Beuron4, mi ero introdotto agli argomenti liturgici. Poiché
dopo la consacrazione a suddiaco-no avevo iniziato a leggere il
Breviario, i responsori dopo le letture del mattutino mi avevano fatto
speciale impressione: così feci il progetto di lavorare su di essi.
Intendevo ricercare, con l'appoggio dei metodi dell'analisi
critico-estetica, secondo quali leggi fossero stati stabiliti, come
fossero stati annessi alle lezioni e in generale al mattutino, quali
pensieri emergessero in essi, ecc. Alla questione, in quale disciplina
teologica questo argomento dovesse inserirsi, non dedicai molta
attenzione, come infondo mai me ne sono fatto un pensiero. Non ho mai
avuto molta sensibilità per le «discipline», e questa era una buona
disposizione, che mi ha permesso di percorrere la mia strada libero da
barriere disciplinari. Tuttavia dovevo pur scegliere una discipli-• na,
il che implicava la scelta del docente con il quale laurearmi, e poiché
per me si poteva pensare so-
4
L'antica abbazia di Beuron, presso Sigmaringen, nell'alta valle del
Danubio, esistente sin dal sec. ix come convento di canonici regolari,
dal sec. xvn monastero benedettino, ristabilito nel sec. xix, fu da
allora centro di un movimento di rinnovamento liturgico e di arte sacra,
d'ispirazione tra il nazzare-no e il primitivista (p. Desiderius Lenz),
che si diffuse in Germania e all'estero.
5 Karl Kiinstle (1859-1932), fu docente di
teologia pastorale e storia dell'arte a Friburgo in Br. dal 1896.
24
io a Friburgo, mi rivolsi al prof. E. Kùnstle5,
che fra l'altro era docente anche di liturgia. Gli prospettai i miei
punti di vista, ma con questi non devo avergli fatto buona impressione.
Egli era uno storico, e non poteva immaginarsi il modo in cui intendevo
svolgere il lavoro, e io, che non ero nessuno, non potevo spiegarglielo.
Quello che progettavo gli sembrò letteratura, e mi consigliò di
riflettere molto sulla questione.
Con ciò ho toccato un punto che mi doveva procurare
ancora molte difficoltà. All'inizio del secolo, «scienza» era scienza
naturale o storia. Nell'ambito cattolico la situazione era la stessa,
ormai, riguardo alla ricerca scientifica in generale riconosciuta
segretamente come parametro, inoltre con una certa preoccupata
ristrettezza. Condurre scientificamente un lavoro teologico significava
stabilire che cosa un dato tempo o un dato uomo avevano pensato circa
una questione. Ma questo non mi interessava, e non mi ha mai interessato
neppure poi sino ad oggi.
Vedevo bene il significato di tali ricerche proprio per
la teologia cattolica, che riconosce la tradizione ecclesiale come
portatrice della rivelazione; ma ciò che spontaneamente mi interessava,
non era la questione, che cosa qualcuno avesse detto circa la verità
cristiana, bensì che cosa fosse vero. Così per molto tempo mi sono
trovato in una situazione falsa: volevo trovare e dire cose valide
scientificamente, ma non lo potevo fare nell'unica forma riconosciuta
come scientifica. D'altro canto,
25
non sapevo in qual modo lo dovessi fare per poterne
essere soddisfatto e persuaderne gli altri. Ho dovuto per anni lavorare
in modo storico senza poterlo fare in modo ordinato; e quando cercavo di
esprimere in materia che cosa mi stesse propriamente a cuore, avevo
sempre la sensazione che i miei critici non sapessero bene che cosa
dovessero trar-ne fuori.
Faccio un passo indietro. A poco a poco mi persuasi che
non v'era niente da fare con l'argomento responsori. Nel frattempo era
venuto il momento della mia licenza, e mi recai nella primavera (?) del
1912 a Friburgo. Colà si trovava il Colle gium Sa-pientiae,
chiamato anche semplicemente «die Bur-se», una fondazione del
canonista Heiner, ove tutti quelli che intendevano continuare a lavorare
dopo il completamento dei loro studi, dimoravano in una libera
comunità. Secondo gli Statuti ogni diocesi aveva il diritto di
presentare un candidato, e per me era stato reso libero un posto.
Ottenni la borsa di studio «Moufang», i proventi di una fondazione _di
studio - pochissimo richiesta per il suo scopo preciso - fatta da un
antico vicario generale di Ma-gonza 6. Essi dovevano servire,
come aveva stabilito mio padre, per spese eccezionali; per il
mantenimento corrente avrebbe pensato egli stesso.
Ero quindi di nuovo all'università e dovevo restarvi
sino all'estate 1915. Fu un buon periodo:
6
Franz Christoph Moufang (1817-1890) fu rettore e docente al seminario di
Magonza dal 1851 e poi dal 1871 membro del Reichstag, il
Parlamento tedesco.
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il lavoro scientifico, stimolanti relazioni personali, e
il chiarirsi delle mie intenzioni spirituali si intrecciano nel mio
ricordo con l'immagine della bella città, oggi distrutta.
Ma l'inizio di quel periodo non fu facile. La questione
dell'argomento della dissertazione di laurea si presentò inquietante.
Questa insicurezza non era affatto casuale. Essa mi ha dato da fare,
come ancora dovrò notare, anche sotto altri riguardi e per altri
periodi della mia vita, e ha ben attinenza alle cose che, sia come
compito, sia come carico, mi vengono imposte. Mi separai, non so più
come, in ogni caso in buona maniera, da Kiinstle, e mi decisi per la
dogmatica, sia per mia inclinazione, poiché vedevo in questa disciplina
il centro della teologia, sia perché lo si desiderava a Magonza. Una
laurea di perfezionamento scientifico colà non contava;
chi intendeva laurearsi dottore, lo faceva per uno scopo
preciso. Per me era quello di prepararmi ad assumere la cattedra di
dogmatica nel Seminario.
Perciò andai dal prof. Cari Braig; avevo già prima
studiato il suo Manuale di filosofia 7 e da molte sue
parti - più precisamente devo dire: tesi — avevo ricevuto una forte
impressione. V'era in esse un suono originariamente filosofico. Non era
molto sti-
7 II
titolo esatto è Grundwge der Philosophie, Freiburg i.B. 1896-97:
Cari Braig (1853-1923) fu docente di filosofia cristiana a Tubinga
(1893), poi a Friburgo in Br. (1897) e relatore della dissertazione di
laurea di Guardini, che poi gli dedicò la sua opera Vom Leben des
Glaubens, Griinewaid, Mainz 1935 (trad. ital. La vita della fede,
Morcelliana, Broscia 1965).
27
mato, era venuto da Tubinga, e, in origine filosofo,
aveva poi occupato una cattedra teologica. Le sue lezioni erano troppo
difficili, egli era un argomen-tatore sottile. Ho ancora dinanzi agli
occhi il modo in cui egli, con una matitina in mano, guardava la sua
punta e parlava totalmente assorto. Quando durante la mia visita mi
avvicinai a lui, fece un piccolo movimento arretrando. Più innanzi
sperimentai che ciò gli era abituale; era parte del suo carattere. Gli
dissi quale impressione mi aveva fatto il suo manuale, ed egli mi
rispose col suo accento svevo: «Non so proprio più che cosa vi abbia
scritto». Anche questo era del suo carattere: aveva dovuto rinunziare a
ciò che per lui era stato proprio importante. Poi gli raccontai donde
venivo, che cosa si prospettava per me, e gli feci la richiesta di un
argomento per la tesi di laurea. Mi consigliò un confronto fra Tommaso
d'Aquino e Wilhelm Wundt. Non ricordo più su quale base si dovesse
fondare il confronto: in ogni caso mi stupisco an-cor oggi del fatto che
un docente universitario potesse assegnare un argomento di tal genere.
' Naturalmente anche questo argomento non andò bene;
non riuscii a farne nulla e dopo poco tempo rimasi un'altra volta fermo.
Era un gran guaio, specialmente riguardo a Magonza; alla scarsa
comprensione che laggiù si aveva in generale per l'attività
scientifica, e — come io ora aggiungo retrospettivamente - alla
sfiducia verso la mia persona che dall'inizio doveva esservi stata.
Allora ne fui anche del tutto disperato e non sapevo semplicemen-
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tè che cosa fare. Un mio conoscente però mi consigliò
di .rivolgermi all'alierà libero docente Engel-bert Krebs 8,
che era stimato uomo prudente e ben disposto ad aiutare e a cui lode si
attribuiva una grande libertà di spirito. Seguii il consiglio e non
ebbi a pentirmene. Egli mi indirizzò verso san Bo-naventura,
l'edÌ2Ìone critica del quale era uscita a cura del Collegio di
Quaracchi, cosicché era disponibile il primo requisito per una ricerca
sistematica; e precisamente io dovevo trattare della sua dottrina della
redenzione.
Così finalmente avevo il mio argomento e vi lavorai per
un anno e mezzo: un tempo alquanto lungo, come poi anche da
Magon2a non si mancò di far notare. Questo prolungarsi del mio lavoro
dipese dalle difficoltà già descritte della mia disposizione di
spirito. Dovevo lavorare da un punto di vista storico, ma il mio
interesse si rivolgeva però a questioni sistematiche. Alcuni anni prima
avevo formulato con precisione i pensieri che avevo costruito assieme a
Karl Neundórfer, dei quali ancora debbo espressamente riferire, cioè
la dottrina dell'opposizione9. Con riferimento ad essa,
aveva-
8
Engelbert Krebs (1881-1950) divenne poi docente di dogmatica a Friburgo
in Br. (1919), succedendo a Cari Braig.
9 Cfr., Der Gegensatz. Versuch w eìner
Philosophie des Lebendig-Konkreten, Mainz 1925 (il ed. Griinewaid,
Mainz 1956; ttad. ital. Scritti filosofici. Fabbri, voi. i,
Milano 1964);
v. pure A. babolin, R. Guardini filosofo dell'alterila,
2 voli., Zanichelli, Bologna 1968-69, e in Questioni di storiografia
fi-losoftca. La Scuola, Brescia 1978, voi. v, pp. 390-394. Un primo
abbozzo della teoria era già stato pubblicato nel 1917.
29
mo costruito una teoria dei tipi psicologici, ai quali
dovevano corrispondere le strutture fondamentali della vita culturale.
Io volevo applicare qui questo principio. Bonaventura era appropriato in
modo particolare a questo esperimento per il fatto che la sua teologia
riunisce elementi distinti. Egli è un agostiniano che con una certa
fatica si inserisce nella corrente aristotelica del suo tempo, e del
resto più homo religiosus e mistico che teoretico. Così potei
effettivamente estrarre dai suoi scritti ciò che mi conveniva, cioè i
due o tré tipi fondamentali di teoria della redenzione. Questa è ancor
oggi l'utilità propria del libro apparso a Diisseldorf, nel 1921,
presso l'editore Schwann col titolo La dottrina di san Bonaventura
sulla redenzione. Un contributo alla storia e al sistema della dottrina
della redenzione w. Le sue parti storiche le scrissi
soltanto perché ero obbligato a farlo, e sono pertanto cattive. Ciò fu
anche criticato nel giudizio; tuttavia al lavoro toccò il voto
migliore.
L'esame di laurea di Friburgo passava per essere
leggero, perché si potevano superare le sette disci-- piine in tré
tempi. Tuttavia feci molta fatica, poiché la maggior difficoltà
consisteva soprattutto nell'aspetto storico, ed io non avevo proprio
alcuna memoria per i fatti. Dovetti applicarmi molto, di tanto in tanto
fino all'esaurimento delle mie forze fisiche. E l'esame orale fu
comunque sostenuto col secondo voto.
10
Die Lehre des hi. Bonaventura von der Eriósung. Ein Beitrag zur
Geschichte und zum System der Eriosungsiehre, Schwann, Diisseldorf 1921
(Dissertation).
30
La terza fase dell'esame si svolse mentre incombeva una
grave difficoltà esterna. L'Italia era sul punto di entrare in guerra;
mio padre era cittadino italiano e teneva il consolato a Magonza. Poteva
così accadere qualcosa da un momento all'altro, che rendesse la mia
presenza necessaria. Effettivamente egli poi dovette anche, dopo la
dichiarazione di guerra, lasciare la Germania dalla sera alla mattina,
ma non tornò in Italia, bensì restò in Svizzera, nella speranza di
mantenere così un certo contatto:
due miei fratelli erano in Italia, un altro a Magonza.
Così dovetti prendermi una parte di responsabilità per le cose di
famiglia e per gli affari di mio padre.
II
Appena concluso il periodo di permesso per la laurea in
vista di un'attività di insegnamento al Seminario di Magonza, nella
stessa prospettiva mi fu dato un altro impiego occasionale. Divenni
cappellano a Magonza, da ultimo alla bella chiesa rococò di San Pietro,
che come mi fu detto, era ancora indenne poco tempo fa. Vi rimasi cinque
anni, un periodo al quale ripenso con sentimenti davvero differenziati.
Di esso dirò di più in altro luogo. In esso si verificò la mia
chiamata alle armi nell'autunno 1916. Prestai servizio come infermiere,
prevalentemente in ufficio, sino alla primavera del 1918.
Dal 1915 al 1920 ebbi anche la guida della
31
«Juventus», un'associazione di studenti degli istituti
di istruzione superiore. Questo incarico mi fu dato in relazione al
fatto che già dovevo soggiornare a Magonza; così anche in esso v'era
un riferimento alla prospettiva dell'insegnamento in Seminario. Ma con
ciò la cosa andava per le lunghe, e cominciai a sentirmi non sicuro. A
poco a poco mi divenne chiaro dove stesse il centro dell'opposizione
verso la mia persona, e precisamente nel membro del capitolo del Duomo
dott. Ludwig Bendix. Fondamentalmente era la personalità decisiva nella
diocesi, un uomo interessante e dotato, in possesso di una cultura
personale. La sua famiglia doveva essere in qualche modo in contatto con
il mondo dei romantici: il Duomo di Magonza era stato dipinto dai
fratelli Veit n; il precedente vicario generale, Raich, era,
se mi ricordo bene, legato in qualche tortuoso modo con Novalis 12,
e ancora altre cose del genere. Ma questi legami si erano sviluppati in
Bendix non nel senso di un ampliamento e impulso spirituale, bensì in
modo da farne un reazionario della più bell'acqua. Lo immagino ancora
abbastanza bene dinanzi a me: di media statura, di taglia che tendeva un
poco alla pinguedine; con piccoli piedi calzati in modo rigidamente
clericale; con un viso caratteristico, che somigliava un po' a quello
n
Philipp Veit (1795-1877) dipinse con la sua scuola gli affreschi del
Duomo di Magonza, ove era anche direttore delle collezioni d'arte
cittadine.
i2 Novalis (Friedrich von Hardenberg,_
1772-1801)_ è il famoso pensatore e poeta romantico sostenitore di un
idealismo «magico» e individualistico.
32
eli Napoleone, il che egli consapevolmente accresceva,
poiché portava i capelli alla Napoleone. Quando voleva, sapeva essere
affascinante; ma di regola .non lo voleva, cosicché i più lo ricordano
con una espressione piuttosto cupa, forse anche sprezzante. Credo fosse
un uomo deluso, e che ciò avesse acuito il pessimismo romantico e
contribuito a fare di lui l'avversario di ogni movimento che tendesse a
più ampio spazio di libertà, di ogni autonomia spirituale, di ogni
confronto genuino col nostro tempo, per i lunghi anni in cui egli fece
sentire il suo peso sulla diocesi. Tutto ciò doveva influire anche
sulla mia destinazione: se vedo bene, la mia designazione era stata
fatta contro il suo desiderio, o almeno senza la sua iniziativa; forse
però aveva anche semplicemente cambiato le sue prospettive a mio
riguardo. Io avevo sempre provato simpatia per lui, e quand'ero da lui,
sentivo che anch'egli aveva simpatia per me. Perciò potevo immaginare
che la sua posizione verso di me fosse in sé scissa, e alla fine egli
credesse di dover agire in linea di principio contro i suoi sentimenti
amichevoli. Che cosa lo inducesse a ciò, non lo so ma presumo che fosse
il modo in cui guidavo la «Juventus». Questa associazione era stata
fondata come congregazione mariana da lui e da suo fratello, presidente
dell'Istituto degli apprendisti cattolici, e l'aveva sempre interpretata
come a lui specialmente legata. Poiché io la guidavo, senza sapere che
cosa fosse la ]ugendbewegung, il movimento giovanile, nella
dirczione di questo, devo averlo preoccupato ed
33
anche forse offeso. In ogni caso mi divenne chiaro che
egli non desiderava la mia chiamata al Seminario di Magonza, certo
pensava a un altro candidato. Ma contro la sua volontà non poteva
avvenire nulla, quindi la mia situazione a mano a mano si fece
insostenibile. Decisi pertanto di avanzare una domanda che, se in
qualche modo si faceva conto su di me, secondo le tradizioni di Magonza,
in ogni caso avrebbe dovuto essere respinta: chiesi, per il progresso
dei miei studi, di avere il permesso di andar di nuovo all'università.
La domanda fu sen-z'altro accettata, ed ora io sapevo in che posizione
stavo.
Tutta la faccenda costituì un venir meno a reali
promesse che erano state fatte, certo non formal-mente, ma sotto forma
di atti, e così fu anche generalmente interpretata la cosa; tanto più
che proprio nulla era avvenuto con cui avessi tradito la fiducia in me
riposta. Naturalmente l'autorità superiore della diocesi deve mantenere
il diritto di cambiare il suo giudizio su di una persona. Ma ciò deve
basarsi su dei fatti, ed essa lo deve tempestivamente dire
all'interessato, in modo che possa regolarsi in modo corrispondente.
Tutto ciò a Magonza non avvenne. Se io fossi stato troppo timido per
avanzare quella domanda, o se per qualsiasi altro motivo avessi taciuto,
sarebbe passato un anno dopo l'altro, ed io sarei capitato alla fine in
un posto qualsiasi. In un primo tempo tutta la questione mi addolorò
molto; in seguito certamente riconobbi quale buona disposizione si fosse
realizzata in ciò: fui
34
costretto a uscire al largo dall'angustia soffocante di
Magonza e di ciò non posso esser mai abbastanza grato. A Magonza avrei
incontrato le più grandi difficoltà, ovvero sarei crollato,
spiritualmente e con ogni probabilità anche tìsicamente.
Da allora mi sono totalmente separato dalla diocesi di
Magonza, tanto più da quando mio padre morì, nel 1919, poco dopo esser
ritornato dalla Svizzera, e mia madre decise di ritornare in Italia.
Sono poi ritornato una sola volta a Magonza, dopo che avevo ottenuto la
cattedra a Berlino. La delusione che allora provai, fece divenire la
separazione definitiva. Il fatto che l'attuale vescovo di Magonza,
l'Eccellenza prof. dott. Albert Stohr, con cui già ero stato per alcuni
anni in seminario, e che avevo poi, dopo qualche anno, incontrato di
nuovo come presidente della Commissione liturgica, mi abbia offerto la
sua migliore amicizia, è stato inteso da lui come superamento della
lacerazione allora avvenuta e da me pure accolto con gratitudine nello
stesso senso. L'estate scorsa mi sono recato colà per la prima volta
dal 1923 e non ho provato alcun rancore.
Ili
Ma ora devo ritornare un po' indietro. A Fri-burgo mi
ero profondamente introdotto nei problemi liturgici, ed avevo anche
trovato compagni in questo interesse, come ad esempio il professore di
liturgia di Paderborn, Johannes Brinktrine. Cercai, per qualcuno che me
l'aveva chiesto, di dire
35
in alcuni capitoli che cosa sia la liturgia; questi
capitoli furono il corpo principale del libro successivo Lo spirito
della liturgia (Vom Geist der Liturgie) u. Li mostrai al
padre benedettino di Maria Laach Kunibert Mohiberg, che qualche tempo
prima si era laureato e nutriva grandi disegni di storia della liturgia.
Egli ne fu molto affascinato e li espose al reverendissimo Abate di
Maria Laach, padre Ildefons Herwegen, nel quale pure suscitarono caldo
interesse. Allora nacque a Maria Laach la richiesta di una serie di
pubblicazioni liturgiche comprensibili a tutti, e si giunse alla
fondazione della collezione «Ecclesia orans». I miei capitoli, quando
ebbero raggiunto il numero necessario e furono adattati in un corpo
unico, furono compresi nella collezione come primo volume, e ricevettero
il titolo suddetto Vom Geist der Liturgie.
Questo legame con Maria Laach doveva divenire per me
fecondo di sviluppi. L'Abate cominciò a interessarsi del mio lavoro in
generale, e — non so più per suggerimento di chi, ma credo di padre
Kunibert - emerse l'idea che dovevo abilitarmi a Bonn. Ciò sembrò
anche ovvio perché l'ordinario di dogmatica di quella sede, prof.
Esser, era molto malato e si prevedeva perciò ch'egli avrebbe dovuto
abbandonare l'attività accademica in un prossimo futuro. L'abate
Herwegen aveva nella facoltà di Bonn buone relazioni, soprattutto con
il docente di morale, prof. Fritz Tillmann, che, fattore egualmen-
u
Herder, Freiburg i.B. 1918 (195818; trad. ital. a cura di M.
Bendiscioli, Morcelliana, Brescia 19805.
36
tè favorevole in tutta la situazione, era allora
rettore dell'Università.
Come la pensasse la facoltà circa la mia abilitazione
alla docenza, non posso più ora dire nei particolari. Decisamente
contrario dev'essere stato soltanto il prof. Heinrich Schrórs, che
certo era ormai emerito, ma aveva influenza, e l'impiegava specialmente,
a quanto si diceva, per volere in modo diverso dagli altri. Il prof.
Arnold Rademacher14, che è morto da qualche anno, mi si
mostrò invece molto ben disposto e fu in ogni caso anche in questo
senso efficace. Il mio sostegno principale fu Tillmann, che vedeva in
me, nel senso di allora, un teologo moderno, cioè critico-liberale.
Così le prospettive erano favorevoli, ed io osai il passaggio da
Magon-za a Bonn.
La questione del mio mantenimento era così risolta,
poiché io tramite l'intercessione di Maria Laach divenni assistente
spirituale nell'Istituto del Sacré-Coeur appena fondato a Putzchen
presso Bonn. Circa la mia permanenza colà avrò ancora altrove modo di
riferire. In tutto vi rimasi due anni, dalla primavera 1920 alla
primavera 1922, e certamente con soddisfazione, sino all'ultimo periodo,
in cui si ebbero sgradevoli complicazioni. Poi assunsi la cura della
chiesa di Holtorf sul Siebenge-birge, dipendente dalla Parrocchia di
Kùdinghoven sul Reno.
14
Arnold Rademacher (1873-1939) fu docente di teologia fondamentale e di
filosofia della religione a Bonn dal 1912, e segretario generale della GSrres-Gesellschaft
dal 1914 al 1922.
37
A Pùtzchen scrissi il mio lavoro di abilitazione.
Il tema da me prescelto incontrò dapprima perplessità,
perché aveva per oggetto il medesimo teologo di cui aveva trattato
anche il mio studio per la laurea, cioè Bonaventura, tuttavia su ciò
alla fine si fu d'accordo. Si trattava più precisamente di tré gruppi
di pensieri che reggono il sistema filosofico-teologico di Bonaventura,
cioè la dottrina della luce intellettuale, dell'ordinamento gerarchico
dell'essere e degli impulsi vitali. In questo lavoro mi movevo molto
più sicuramente che nel primo, perché sapevo con più precisione che
cosa volevo. Esso fu pure approvato, anche se, come in quello, venne
criticata la manchevolezza della fondazione storica. La sua stampa non
fu possibile a causa delle condizióni economiche del tempo, e così
esso rimase inedito. Più tardi mi divenne-indifferente e non me ne sono
dato cura. Un esemplare del manoscritto andò perduto; l'altro due o
tré anni fa l'ho dato a un giovane teologo che era stato inviato come
cappellano a Aachen e lavorava su Bonaventura. Sicuramente è stato
distrutto come tutto il resto.
Il colloquio andò bene. La mia lezione di prova la
tenni sul concetto di teologia di Anselmo di Can-terbury, e in
particolare sul suo principio «credo ut intelligam», cioè sulla
dipendenza della conoscenza teologica dall'atto di fede. Il tema si
connetteva con la questione dei presupposti dei vari ambiti di
conoscenza, che mi ha impegnato continuamente. La lezione fece una certa
impressione;
38
essa al tempo stesso ebbe una conseguenza notevole.
Schrors, che in un primo tempo mi era contrario, perché non avevo da
presentare alcun lavoro scientifico pubblicato oltre quello di
dottorato, fu molto bene impressionato dalla mia lezione e si
congratulò molto caldamente con me; Tillmann al contrario disse a tal
proposito, come udii, di aver avuto la sensazione che qualcuno gli desse
un colpo in testa. Aveva creduto di trovare in me un teologo
«critico», che sostenesse la sua tendenza; l'atteggiamento critico
era, come mostrò la «tendenza di Bonn» più tardi sviluppatasi,
fondamentalmente un liberalismo, limitato dall'obbedienza nei confronti
del dogma. Viceversa la mia lezione faceva della rivelazione e della
fede la base del conoscere, e ciò costituiva una dirczione di pensiero
del tutto diversa. Sin dal tempo dei miei studi a Tubinga ero persuaso
che la teologia fosse distinta dagli altri sforzi di conoscenza e
andasse fondata su una base propria. Proprio la responsabilità di un
pensiero scientifico doveva esigere che essa fosse fondata su di un
proprio oggetto di conoscenza, cioè la rivelazione, e su di un proprio
principio conoscitivo, cioè la fede sedimentata nel dogma: cui
naturalmente doveva applicarsi tutto ciò che si denomina accuratezza di
metodo e rispetto dei fatti empirici. Tillmann per questo modo di
pensare non aveva alcuna comprensione, anzi vedeva in esso un dogmatismo
non scientifico.
In ogni caso ora ero libero docente abilitato in 39
dogmatica e iniziai la mia attività accademica
d'insegnamento nel semestre estivo 1922 con una lezione sui «tipi di
dottrina della Redenzione». Avevo un buon pubblico, fra cui si
trovavano — cosa per un teologo non consueta — anche molti uditori
di altre facoltà. Ciò si collegava certo al fatto che si sapeva della
mia presenza nel movimento giovanile. Oggi non si comprende facilmente
che cosa significasse ciò allora. Chi vi apparteneva, era classificato:
per gli uni, come persona vicina in modo speciale e degna di fiducia,
per gli altri come oggetto di rifiuto. Su quale argomento io tenessi
lezione nel secondo semestre, non ricordo più. La mia attività di
insegnamento a Bonn durò in tutto un anno.
Holtorf distava da Bonn circa due ore e mezzo di cammino
a piedi. Usando la ferrovia, se ne impiegava circa la metà, quindi per
la situazione di Bonn, abitavo abbastanza fuori. Già questo fatto
rendeva i miei rapporti con gli altri mèmbri della facoltà non molto
vivaci. Ma i motivi veri e propri di ciò erano più profondi:
fondamentalmente non ero uno di loro. Non ero un teologo specializzato,
e più di una volta mi ero chiesto con inquietudine come potessi
diventarlo, poiché non vedevo alcun'altra strada nel mondo accademico
eccetto quella di docente di dogmatica.
La mia lezione inaugurale apparve nella raccolta
miscellanea pubblicata presso l'editore Grùnewaid di Magonza nel 1923
sotto il titolo Auf dem Wege {In cammino). Titolo ed edizione,
come pure tutto
40
il tono della pubblicazione, fanno capire quanto poco io
fossi al posto giusto... Alla fine del volu-metto v'è un Dialogo del
Regno di Cristo della cui stesura mi ricordo ancora bene. Ero stato
invitato dal prof. Clemen, storico dell'arte di Bonn, ed avevo colà
ricevuto una determinata e tanto viva impressione, che tornando a piedi
nella notte verso Holtorf, durante il cammino verso quella mèta, senza
diretta connessione con l'occasione che lo provocò, nacque in me un
dialogo; in esso tré persone, dopo le quali ne appariva ancora una
quarta, discutevano di vari aspetti della personalità di Cristo, e
precisamente partendo dall'idea del Cuore di Gesù. Quando giunsi a
casa, ero abbastanza esausto, ma tutto il complicato intreccio di
pensiero stava chiaro nel mio spirito. Questo può essere una
indicazione della forza con la quale si imponeva allora la produttività
spirituale, e quanto poco le sue vie fossero quelle della scienza
teologica regolare.
Nel corso di quell'anno a Bonn mi si offrì la
possibilità di rispondere a una chiamata per teologia pratica e scienza
della liturgia. Ma ebbi la sensazione di deviare con ciò dalla mia
linea autentica e non andai. Circa questa occasione potrei dire che, da
quando la mia vita spirituale era divenuta cosciente di sé, avevo un
forte sentimento di questa linea inferiore, e che le varie decisioni
della mia vita, professionali, spirituali e personali, in fondo furono
sempre determinate da essa. Una sola volta mi sono lasciato allontanare
da essa per considerazioni estrinseche e me ne sono molto pentito. Fu,
41
in tutta la mia vita, l'unico passo falso di grande
importanza che io feci e le cui conseguenze non potei appianare. Di ciò
forse tratterò ancora.
Come tipico del mio modo di pensare di allora potrei
ancora riferire che mi si era fatto capire che se essendo nel movimento
giovanile, mi fossi pertanto impegnato nel «Quickborn» e nel lavoro a
Rothenfeis 15, molto a stento avrei potuto aspirare a una
cattedra. In ciò si esprimeva l'atteggiamento che era stato preso nei
circoli ufficiali verso il movimento giovanile che fondamentalmente non
è realmente mutato. Ciò che questo significasse per me, riferirò
ancora espressamente; comunque tanto che dichiarai che, in questo caso,
avrei deciso per Rothenfeis. Ciò non significava certamente disprezzo
per l'attività di insegnamento, la rinunzia ad essa mi sarebbe stata
molto gravosa; ma la vita e il lavoro nel mondo del movimento giovanile
erano per me essenziali. Come la questione si sarebbe posta nel caso
della cattedra di Esser, non si doveva però decidere, poiché io fui
chiamato a seguire un'altra via.
In quel tempo si svolse a Bonn il secondo convegno della
Associazione laureati cattolici. Io vi tenni una serie di relazioni sul
tema del «Senso della Chiesa», che furono pubblicate nel 1922 con
15 La
lega giovanile «Quickborn» fu fondata e diretta (dal 1910) dal
pedagogista Bernhard Strehier (1872-1945), e poi trasferita nel suo
nuovo centro al castello (Burg) di Rothenfeis. Di tale lega Guardini fu
prima consigliere, poi dal 1924 la guida e il direttore spirituale.
42
dedica «alla gioventù cattolica» nelle edizioni
Grii-newaid 16. L'intero convegno fu molto vivace, aveva
veramente in sé qualcosa del «movimento». Nelle relazioni avevo dato
espressione a ciò di cui ero sempre più profondamente persuaso: che la
Chiesa non rendeva non liberi, anzi al contrario dava la piena libertà
all'intera esistenza; che essa aveva il carattere non della limitazione,
ma anzi della pienezza. Le mie relazioni colpirono proprio al centro di
ciò che allora commoveva il mondo cattolico e fecero forte impressione
sugli ascoltatori... In esse mi divenne pure più chiaro quale fosse il
mio compito proprio: non di portare avanti la ricerca in una disciplina
teologica, bensì di interpretare la realtà cristiana con
responsabilità scientifica e ad alto livello spirituale.
Effettivamente queste relazioni assunsero poi piena
importanza anche per il corso successivo della mia vita.
IV
Dopo la guerra e per la prima volta dopo molto tempo, i
cattolici avevano ottenuto libero spazio. E così pure dopo il crollo si
erano liberati forti impulsi religiosi; e poiché tutto era tanto
incerto, si diede alla solidità del punto di vista cattolico una stima
sino allora inconsueta. La Germania era una repubblica e il Partito del
Centro era una forza non
16 Vom
Sinn der Kirche, Griinewaid, Mainz 1923, poi in Die Kirche des
Herrn, Herder, 1965 (trad. ital. Il senso della Chiesa, in La
realtà della Chiesa, Morcelliana, Broscia 19793).
43
solo politica, ma anche spirituale. Perciò
all'università di Berlino, che — nella misura in cui non coltivava
l'incredulità - era sempre stata marcatamente protestante, era emersa
l'intenzione di creare una cattedra dalla quale gli studenti cattolici
potessero udire un'esposizione della verità cattolica rispondente alle
esigenze accademiche. L'intenzione ebbe un seguito e la cattedra fu
istituita. La facoltà teologica berlinese era protestante; perciò la
cattedra non potè nemmeno esserle annessa. Il ministero del culto venne
perciò nell'idea di aggregare la cattedra di «Filosofia della
religione e intuizione (visione) del mondo cattolica» alla facoltà
teologica cattolica di Breslavia e così ottenere che il suo titolare
fosse permanentemente in permesso a Berlino e, come ospite permanente di
quella università, dovesse tenervi le sue lezioni. Questo piano superò
le difficoltà sul suo cammino, ma ne provocò altre che dovevano
manifestarsi in modo particolare.
Il titolare della cattedra tuttavia non era ancora stato
nominato. La decisione in questo caso non dipendeva, come solitamente
per le chiamate, dalla facoltà corrispondente, perché l'appartenenza
ad essa doveva essere soltanto formale, ma dal ministero prussiano del
culto. Là gli affari cattolici erano seguiti dal direttore generale di
ministero Johannes Schiùter, la cui moglie, dott. Maria
SchIuter-Herm-kes, era molto attiva nella vita delle organizzazioni
cattoliche. Attraverso le mie relazioni al convegno di Bonn, essi
avevano posto la loro attenzione su
44
di me, e furono essi che poi pure procurarono la mia
chiamata. Un giorno apparve a Bonn il direttore generale di ministero
dott. Wende, e mi chiese se ero disposto ad accettare la cattedra. Di
che cosa propriamente si trattasse, mi spiegò soltanto in modo
approssimativo. Contemporaneamente mi avvisò che l'università di
Berlino era piuttosto ostile alla faccenda. Mi ricordo ancora le sue
parole: «Lei va su di un terreno molto sdrucciolevole. Si è convinti
che non durerà a lungo». Soltanto Harnack 17 aveva espresso
l'opinione in Senato che si dovesse pur dare al designato una chance,
e poi si vedrebbe di che cosa egli era capace.
Ciò non sonava incoraggiante: donde il problema, se io
fossi in grado di rispondere ai requisiti. D'altro canto avevo la
sensazione che alla fine sarei stato ciò a cui fossi stato chiamato;
perciò chiesi tempo per riflettere sulla faccenda. Rademacher, cui
stavo sempre un po' vicino, mi consigliò di accettare, e così Tillmann,
e certamente quest'idea era per lui la benvenuta, per liberarsi di me in
questo modo. Soprattutto Max Scheler 18, che allora teneva
lezione a Colonia, e con cui avevo iniziato una relazione che
interiormente non è mai stata
17
Adolf von Hamack (1851-1930) è il celebre teologo luterano caposcuola
della teologia liberale e inkiatore delTinterpre-tazione prevalentemente
morale del Vangelo, docente a Lipsia dal 1876, a Marburgo (1886) e poi
per lunghi anni a Berlino (1888-1921).
18 Max Scheler (1874-1928) è il filosofo che
nella scuola fenomenologica di Hussed ha sviluppato le indagini
etico-religiose, docente a Colonia dal 1919 e a Francoforte nel 1928,
anno della sua morte.
45
rotta, mi consigliò. Tuttavia le preoccupa2Ìoni erano
molto gravi. Retrospettivamente riconosco che allora non avevo affatto
preso coscienza di come poco fossi preparato a questo compito,
altrimenti non mi ci sarei sobbarcato; ma la sensazione di appartenere a
questa «linea» fu così forte, da prevalere su tutto, ed accettai.
Nella primavera del 1923 giunsi a Berlino. Il
trasferimento fu difficile già per cause esterne. Allora la Renania era
occupata e le mie poche suppellettili poterono raggiungere il territorio
tedesco libero soltanto di contrabbando. Vedo ancora il veicolo carico
dei mobili dinanzi a me, a cui nella sua odissea era stata strappata la
parete di fondo, cosicché aveva dovuto esser fissata con funi.
Allora a Berlino non si trovavano abita2Ìoni. A mezzo
della dott. Schiùter trovai una sistemazione provvisoria nel convento
delle Borromee a Pots-dam. Ottenni colà una camera e mezza, che poi
assomigliava francamente più a un deposito di mobili che a
un'abitazione. Una consolazione era il vicino Sanssouci. Il convento si
trovava nella Zimmer-strasse, lontano solo pochi minuti dall'entrata
principale. Quanto spesso vi sono entrato, portando le mie perplessità
fra i begli alberi del parco!
La situazione all'Università era ancor più
sco-raggiante. La mia prima visita fu per l'alierà Ministro del Culto
dott. Becker; mi accolse molto amichevolmente, e così pure in seguito
trovai sempre da lui simpatia e disponibilità ad aiutarmi. Era uno
46
scolaro di Ernst Troeltsch 19 e un colto
liberale dell'inizio del secolo. Più che un uomo colto, era un politico
della cultura, con vivace sensibilità per gli uomini e le correnti
spirituali. Per le ricerche pedagogiche del tempo, come in generale per
il movimento giovanile, aveva molta comprensione; anche il cattolicesimo
lo interessava, e non soltanto come elemento di politica culturale,
bensì anche come forza viva, creativa. Una delle prime domande che gli
rivolsi, fu a chi ora propriamente dovessi far visita. Egli si rese
conto, ed io notai, che non aveva ancora piena consapevolezza delle
difficoltà inerenti alla suddetta progetta2Ìone e riguardanti il
titolare della cattedra. Il risultato fu che dovevo far visita soltanto
a coloro con cui avevo un rapporto ufficiale, cioè al Rettore e al
«giurista» dell'università. Ciò significava che in una università,
che allora, se ben ricordo, contava circa ottocento docenti e
quindicimila studenti, ero privo di ogni collegamento.
Tra i professori avevo un chiaro concetto soltanto di
Eduard Spranger20; conoscevo diversi suoi scritti, ed inoltre
egli aveva relazioni con il movimento giovanile, e più precisamente con
i nuovi «giovani esploratori» di Potsdam. Gli feci visita
19
Celebre storico, teologo e filosofo di confessione evangelica
(1865-1923), docente a Bonn, Heidelberg, e infine a Berlino (1915) come
successore di Dilthey.
20 Filosofo della cultura e pedagogista
(1882-1963), docente a Lipsia (1906) e Berlino (1920), «Gastprofessor»
in Giappone dal 1936 e richiamato a Tubinga (1946) dopo la caduta del
nazismo.
47
per così dire in veste non ufficiale. Fu molto
amichevole e venne anche presto da me. Più tardi feci conoscenza anche
con Werner Sombart21, credo in un circolo che soleva
radunarsi nella Fasanenstras-se, e cui apparteneva anche Max Scheler. Se
mi ricordo bene, Sombart era l'unico che era intervenuto perché si
facesse il tentativo con la cattedra cattolica; poiché si sarebbe
mostrato che cosa valesse. Mi incontrò molto amichevolmente e sino alla
mia partenza da Berlino fui ospite delle sua casa. Tramite la Casa
Kempner feci conoscenza con Werner Jaeger 2, ordinario di
filologia greca, e il mio legame con lui durò sinché egli andò
all'università di Chicago.
Poiché non avevo a che fare con alcuna facoltà, ero al
di fuori della struttura universitaria. Avevo nel suo edificio la mia
aula, e questo era tutto. Questa condizione di fatto si ripercosse in
tutto, sino alle strutture inferiori. Così i bidelli, uno dei quali era
ad ogni entrata, non mi hanno mai salutato; e poteva succedere che il
portiere, alla domanda dove tenesse lezione il prof. Guardini,
rispondesse: «Da noi non c'è alcun prof. Guardini». L'avviso delle
mie lezioni era posto nell'elenco dopo quello dell'insegnante di
ginnastica, e dovette essere! un in-
21
Docente di economia politica, sociologo e storico dell'economia
(1863-1941), soprattutto dei movimenti socialisti e del capitalismo,
prima a Breslavia (1890) e poi a Berlino (1906).
2 Filologo e storico della filosofia greca di fama
intemazionale (1888-1961), docente a Basilea, Kiel e Berlino (1921), poi
emigrato a Chicago (1936) e docente alla Harvard Vniversity (1939).
48
tervento al Ministero del Culto per ottenere che almeno
fosse disposto dopo quelli delle facoltà, e così via. Per
l'Università ero il «propagandista» della Chiesa cattolica, imposto a
forza dal Centro s, che non aveva niente da cercare nella
«cittadella del protestantesimo tedesco», ed essa me lo dimostrava in
tutti i modi. Anche quando nel corso degli anni potè divenire chiaro a
tutti che le mie lezioni non avevano nulla in comune con la propaganda,
e mantenevano il livello accademico, non ho ricevuto neppure il più
sommesso segno di una generosità, che certo sarebbe pur convenuta alla
loro assoluta preponderanza. Forse avrei potuto mutare questo stato di
cose, se fossi stato introdotto e avessi cercato in forme personali
relazioni con le persone influenti. Il ministro Becker me lo
raccomandò, offrendomi il suo aiuto. Ma io mi dicevo che, se non mi si
voleva, io non ero da parte mia importuno;
certo non si può escludere che dietro a ciò si
nascondesse anche la timidezza che nel corso di tutta la mia vita mi ha
dato gravi difficoltà a fare cose che gli altri sbrigano con facilità,
ed io invece ero felice di evitare.
Certo la situazione aveva anche i suoi vantaggi. Poiché
tutte le faccende attinenti alla facoltà mancavano e l'università non
mi imponeva alcun dovere associativo, il mio tempo rimaneva libero per
23 È
la Zentrum-Partei o partito cattolico tedesco, nato nel 1870 e
così denominato per la posizione dei suoi deputati nel Reichstag
e per la posizione politica. moderata intermedia fra le due estreme.
49
ciò che era più importante. Lo stesso mio isolamento
personale non mi diede soltanto svantaggi. Che dalla primavera del 1933 24
sino al 1939 non avessi la benché minima difficoltà, certamente era il
risultato del fatto che, al di fuori dell'effettivo svolgimento delle
mie lezioni, io per l'Università non esistevo... Pure, tutto era
davvero difficile. Io non ho avuto nella mia vita molto senso d'orgoglio
personale, e mi trovavo ora di fronte a un mondo chiuso, per il quale
avevo profonda stima, ma che mi respingeva. Così non mi restava altro
da fare che tirarmi indietro. In seguito mi venne detto che mi si era
stimato non affabile e presuntuoso, impressione falsa che così spesso
interviene, suscitata dalla timidezza. In verità dovevo sempre prendere
una rincorsa inferiore per entrare nell'edificio dell'Università.
Certo, appena poi ero in cattedra, tutto era passato e non esisteva più
nulla, all'infuori della questione che c'era da trattare e della gioia
di poterla sviluppare. Eppure no, anche questo non è del tutto esatto.
La sensazione della insufficienza mi ha anche qui sempre minacciato,
cosicché percepivo ogni sorta di manchevolezza di comportamento negli
ascoltatori come ostilità, e quindi, li rimproveravo spesso molto
aspramente. In seguito a ciò ho ottenuto che nella mia aula dominasse
una condotta esemplare, ma di sicuro ho anche fatto torto a qualcuno.
24
Cioè dall'avvento al potere del partito nazionalsocialista con Hitler.
La difficoltà vera e propria era però quella intcriore,
spirituale. Che cosa dovevo propriamente insegnare sulla cattedra di
Berlino. La sua denominazione era: «Filosofia della religione e
intuizione [visione] del mondo (Weltanschauung) cattoliche»,
«Filosofia della religione», presa da sola, sarebbe stato chiaro; ma
che cosa era il suo essere «cattolica»? Non si da una filosofia della
religione cattolica, e protestante, e buddhista, bensì soltanto una
vera filosofia della religione. E che cos'era la «Welf-anschauung
cattolica»? Vi è una teologia cattolica, cioè la penetrazione
teoretica della rivelazione, come viene esposta dalla Chiesa quale sua
portatrice — ma una Weltanschauung cattolica? A poco a poco mi
divenne chiaro che, chiunque fosse ad aver imposto l'istituzione della
cattedra, non potevo a-spettarmi da lui nessuna genuina indicazione
scientifica. Il titolare di questa cattedra doveva piuttosto completare
il lavoro dell'assistente ecclesiastico degli studenti dal punto di
vista riflessivo, dando una esposizione comprensibile in generale, di
andamento apologetico, delle verità di fede. Egli doveva pure — come
mi venne detto in certe occasioni — frequentare le associazioni
cattoliche in quanto sostegno principale del mondo universitario
cattolico e, detto in breve, dare il suo aiuto affinchè le persone non
cambiassero opinione religiosa.
Non avrei mai potuto accettare un simile compito. Non
per una qualsiasi presunzione, bensì perché un'attività di
insegnamento accademico secondo la mia versione poteva provenire
soltanto da
51
una ricerca di verità metodicamente chiara. Certo essa
doveva esser d'aiuto agli uditori, ma soltanto attraverso la forza della
verità stessa cercata dalla loro volontà. E ciò significava fatica
per il docente come per l'uditore... Per ciò che riguardava le
associazioni, io ho trascorso una o l'altra serata presso di esse, per
non andarci poi più. Il vuoto del loro affaccendarsi era
insopportabile. Per di più si seppe che appartenevo al movimento
giovanile e in seguito a ciò fin da principio mi si guardò con
sfiducia; tanto più che ero astemio sin dal tempo del «Quickborn» e
sembravo davvero essere il guastafeste nella Birreria del Commercio e in
altri simili ritrovi.
Così fui costretto a dare io a me stesso un'idea di
ciò che dovevo fare. Era solo spiacevole che ciò dovesse avvenire
proprio all'inizio, mentre il chiarimento di ciò che fosse oggetto
della mia cattedra, sarebbe dovuto essere propriamente il risultato di
un lungo lavoro. Così parlai nella mia prima lezione, o «prolusione»,
come si suoi dire, di che cosa fosse la Weltanschauung e la
dottrina della Welt-anschauung. Essa fu pubblicata nel 1935 nel
volume Unterscheidung des Christlichenìs. Definii la Weltanschauung
cristiana come lo sguardo che diviene possibile a partire dalla fede
sulla realtà del
25
Questa raccolta di saggi, Grunewaid, Mainz 1935, pubblicata da H.
Kahiefeld, trova la sua ispira2Ìone unitaria nella ricerca della
«differenziazione decisiva» dell'elemento cristiano nella sua
specificità (trad. ital. in tré voli-. Pensatori religiosi, Natura,
cultura, cristianesimo; Fede, religione, esperienza, risp.
Morcelliana, Brescia 1977, 1983, 1984).
52
mondo; e la dottrina della W' eltanschàuung poi
la ricerca teoretica dei suoi presupposti e del suo contenuto. Con ciò
potei trarre le conseguenze da quanto già a Tubinga avevo riconosciuto
come il senso della fede. Esso significava l'insediarsi dentro la
rivelazione e la possibilità di vedere da essa il mondo, che già in
sé è opera del Dio che si rivela, nella sua verità propria. Il dogma
però non era strumento di una forza ecclesiastica costrittiva dello
spirito 26, ma la garanzia della stessa libertà spirituale,
sistema di coordinate della coscienza credente aperta, a partire dalla
rivelazione, a tutta la realtà nella sua pienezza. Circa le mie
personali possibilità non mi ero fatto illusioni; tuttavia mi era
chiaro questo fatto, che la mia coscienza cristianamente cattolica come
tale in larghezza e chiarezza sarebbe stata fondamentalmente superiore a
tutti, anche al non credente più geniale. Questa convinzione mi ha dato
il coraggio di occupare l'isolata cattedra nella totalmente estranea
Università di Berlino, ed è stata la forza e la norma del mio
insegnamento.
V
I miei ascoltatori erano composti di specie del tutto
diverse di persone. Erano studenti di tutte le facoltà, che, ad
eccezione di curiosi che si mostravano per poco tempo, avevano reale
interesse per la materia. Inoltre venivano professionisti di
26
Nel testo originale, «Geistespolizei, lett. «polhia spirituale».
53
vario tipo. Di quando in quando appariva anche un
collega che voleva andare a sentire il docente «strano». Una nota
caratteristica portavano i provenienti dal movimento giovanile, che già
allora erano riconoscibili da tutto il loro modo di fare. Le
associazioni cattoliche mancavano del tutto; questo forse dipendeva
dalla nota appena menzionata, e del resto ciò era semplicemente sintomo
di come esigui fossero in verità i loro interessi religioso-spirituali.
Il loro ideale segreto invece era formato dalle relazioni o collegamenti
efficacemente aggressivi, con la loro risolutezza e la protezione che
loro assicurava la carriera. Che queste aggregazioni ufficiali del mondo
universitario cattolico ignorassero le mie lezioni, apparteneva alla mia
situazione. Mi erano mancati sin dall'inizio tutti gli appoggi ufficiali
— ma perciò ero anche libero da ogni riguardo per quanto non fosse
attinente alla mia opera.
Per quanto riguardava le lezioni stesse, restava una
grossa difficoltà nel fatto che esse non trattavano di nessuna
disciplina specifica. Perciò io non potevo, come ogni altro ordinario,
redigerle, attenermi al loro sviluppo corrente e a certi intervalli
ripeterle. Ciò che avevo era fondamentalmente solo un punto di partenza
di principio, un punto fermo e una norma per l'«intuizione»; cercare
che cosa a partire da ciò dovesse essere intuito, realizzare lo sguardo
e tradurlo in termini teoretici, era oggetto di uno sforzo sempre nuovo.
Ero solo io ad avere questo tipo di compito, che era tanto più
difficile,
54.
in quanto avevo un'esperienza di insegnamento di soli
due semestri, e il mio sapere, che sarebbe dovuto essere ricco ed
esteso, si circoscriveva in limiti molto modesti.
L'unico che mi diede un consiglio utile fu Max Scheler.
Nel primo semestre feci lezione sulle forme principali di dottrine della
Redenzione. Questo naturalmente era un tema di ripiego; ma dovevo
iniziare e quindi prendere da ciò che avevo. Scheler disse che così
non andava: io dovevo sviluppare i punti di vista fondamentali
applicandoli a oggetti concreti; ad esempio, a un'analisi delle figure
di Dostoevskij, che allora era molto di attualità.
Così io molto andai cercando e sperimentai.
Sfortunatamente non posseggo più l'elenco delle lezioni tenute nel
corso degli anni; è andato perduto con molte altre cose. Col tempo mi
formai determinati tipi di lezioni, che si sono conservati. Erano
anzitutto lezioni di carattere sistematico, che trat-tavnno i problemi
dell'interpretazione dell'esistenza nel loro complesso; ad esempio,
questioni principali di etica, o lineamenti fondamentali di antropologia
cristiana. Per svolgerle non mi attenevo a manuali o a vie tradizionali
di pensiero, bensì cercavo prima di giungere al problema stesso e di
rispondere ad esso con mezzi appropriati. Un secondo gruppo erano le
lezioni sul Nuovo Testamento;
tentativi, quindi, di esporre il contenuto della
rivelazione partendo per così dire dalla sua voce originaria. Anche in
queste mi sforzavo di compiere il mio lavoro senza presupposti ne
terminologia
55
teologica specializzata, anzi partendo totalmente dal
fenomeno. Un terzo gruppo, infine, erano interpre-tazioni di testi e
figure religiose, filosofiche o poetiche. Riconobbi sempre meglio il
significato che ha l'autentica interpretazione per un tempo
spiritualmente scialbo, e mi formai gradualmente un metodo, per
penetrare dall'adeguata spiegazione del testo nell'interezza del
pensiero e della personalità dell'autore e collegarvi problematiche
fondamentali. In questo modo mi sono cimentato nel corso del tempo con
le Confessioni e la Città di Dio di Agostino, la Divina
Commedia di Dante, Pascal, le poesie di Hòlderlin e le Elegie
Duinesi di R.M. Riike. Con queste come con gli altri due gruppi di
lezioni io mi sforzavo in particolar modo di liberare i significati
cristiani da tutti gli annacquamenti e le mescolanze che vi aveva
apportato il relativismo moderno.
In questo indirizzo di insegnamento si nascondeva
naturalmente il pericolo di dilettantismo. Dominare realmente campi
tanto diversi, conoscere lo stato della ricerca e trattare in modo
giusto i me-•todi di vario genere, era del tutto impossibile. Ho
trovato perciò sempre mólto difficile anche accettare il fatto di
dover condurre il mio lavoro al di fuori, per così dire, dei metodi
riconosciuti. Fondamentalmente ciò che mi rendeva tanto difficile da
accettare il comportamento dell'Università era il fatto che
interiormente io le dovevo dare ragione. Certo, non nel rifiuto della
fede cristiano-cattolica,
56
— ciò costituendo quella non vera «libertà da
presupposti», che subito dopo doveva sconfessare se stessa in modo
così grottesco - ma nel fatto che per l'Università ha giustificazione
soltanto una dottrina scientificamente fondata. Ma il concetto
dell'Università come scuola di scienza doveva essere sviluppato in
quello di una scuola di formazione spirituale, attraverso la quale si
aggiungessero al sapere e alla ricerca i momenti del comprendere, del
giudicare e del formare. In questa dirczione ho sempre cercato di
realizzare anche il mio insegnamento cattedratico e di vedere in esso il
precorri-mento di un tipo di Università che ancora non esiste. Ma per
tale scopo sarebbe occorso un sapere incomparabilmente maggiore del mio,
e ciò mi ha reso sempre insicuro.
Così mi sentii obbligato a una decisione. Dovevo, con
un lavoro incessante, insegnare e sapere tutto quanto potevo, per
soddisfare a tale esigenza? In tal caso avrei intrapreso qualcosa che
era estraneo alla mia natura, avrei distrutto le mie forze e tuttavia
alla fine sarei naufragato. Invece feci per così dire di necessità
virtù: rinunziai coscientemente al sapere disciplinare di allora.
Cercai, per quanto potevo, di giungere dinanzi alla questione stessa, e
di venirne a capo; di penetrare nei testi il più profondamente
possibile e di lavorare partendo da essi. Naturalmente ciò significava
un rischio, si potrebbe anche dire una presunzione. Si presupponeva che
io fòssi capace di porre il problema partendo dall'oggetto stesso, e di
giungere ai testi e al
57
loro contenuto in un rapporto genuino. Non so sino a che
punto ciò si realiz2asse, in ogni caso non mi restava altra via: se non
l'avessi percorsa fino in fondo sarei appunto naufragato.
Così seguii il mio istinto; posi i problemi e ne cercai
le soluzioni; lessi i testi, chiarii le questioni che da essi
emergevano, e tratteggiai la figura spirituale che vi era contenuta nel
modo migliore a me possibile. Anzi mi spinsi, nella mia fiducia
(chiamiamola pure così) anche più innanzi. In fondo non mi ero chiesto
quali oggetti mi assegnasse la mia cattedra, o che cosa i miei
ascoltatori desiderassero sapere, ma ciò che andasse detto, nella
convinzione che ciò che di volta in volta per me era importante lo
sarebbe dovuto essere anche per gli altri. Ebbi sempre la certezza,
forse presuntuosa, ma viva e non affatto ulteriormente dibattuta, che le
cose che mi interessavano valesse la pena che fossero dette, poiché
riguardavano tutti. Forse posso, allora, mostrare anche sotto un altro
aspetto che tutta una serie di miei libri trattavano i loro oggetti, in
certo qual modo, un'ora prima che la generalità divenisse consapevole
di voler sentire qualcosa su di essi. Non che aspirassi all'attualità,
veramente no. Non ho scritto nessun libro perché pensassi che il tempo
Io richiedeva, o perché ottenesse questo o quello scopo, ma sempre
invece soltanto perché vi ero indotto dall'interno, in genere però
risultava ciò di cui si aveva necessità. Così feci anche per le mie
lezioni e mi regolai interamente secondo me stesso. Assumevo di volta in
volta l'og-
58
getto che mi interessava, e leggevo della letteratura
critica quanto era strettamente necessario per essere informato, e per
il resto dicevo quello che mi sembrava importante.
Forse è bene che dica qualcosa circa l'aspetto più
tecnico-didattico dell'insegnamento.
Per un tipo di lavoro come quello suddetto il numero di
lezioni poteva risultare troppo ridotto: infatti avevo in tré giorni
settimanali un'ora di lezione del corso, ed in un quarto due ore di
esercitazioni. Se mi si fosse obbiettato che era troppo poco, non avrei
potuto tuttavia fare altrimenti.
Le lezioni furono fissate prima alle cinque, poi alle
sei e finalmente alle sette, e in quest'ultima ora sono rimaste. Questa
infatti era la più gradita per gli ascoltatori, perché le grandi
lezioni principali si svolgevano prima, e lo era anche per me, perché
corrispondeva nel miglior modo al mio tipo di preparazione.
Dopo vari tentativi arrivai a scegliere per ogni
semestre tré temi distinti, che conseguentemente erano trattati in
lezioni di un'ora per settimana, Ciò era faticoso; quando il tema si
presenta in modo sviluppabile a sufficienza, una lezione di due ore
richiede infatti una preparazione di poco maggiore di una lezione di una
sola ora. Ma gli studenti avevano un'abbondante dose di lavoro
disciplinare, e perciò era per loro più facile trovare il tempo
necessario per un'ora, che per due o tré ore.
59
Durante le vacanze leggevo il necessario, per
o-rientarmi e lavoravo sui testi sino ad avere poi il materiale
disponibile alla mano. Preparavo anche per ogni corso uno schema di
venti o trenta pagine in quarto stenografate, che conteneva l'intero
andamento del pensiero sino ai dettagli. Poi stendevo giorno per giorno
il testo della lezione. Poiché aveva luogo alle sette, avevo cura di
venire in città alle tré ed ero alle quattro nella Biblioteca di
Stato, la cui gran sala di lettura io prediligevo. In essa non c'era
troppa tranquillità, la gente camminava intorno, e parlavano anche più
di quanto non fosse necessario; nondimeno si era sempre concentrati e
soli con i propri pensieri. Dalle quattro alle sette in base agli schemi
e ai testi raccolti scrivevo stenograficamente l'intera lezione.
Pronunziavo la lezione stessa con in mano il mio
scritto, il dito sempre sulla parola. Era così possibile, se si dava
l'opportunità, scostarsi dal testo e di nuovo riprenderlo.
La preparazione della lezione non aveva un carattere
puramente scientifico. Significava non solo l'approfondimento metodico e
la chiara esposizione 3i un argomento, ma era pure — egualmente come
l'elaborazione dello schema — un processo d'arte. Il pensiero non
doveva soltanto esser colto oggettiva-mente, bensì doveva passare
attraverso il centro produttivo, emergerne, attrarre a sé il materiale
e sviluppare la sua forma. Quando ciò avveniva, v'era più di una mera
esposizione scientifica; quando non avveniva, v'era meno. Io quindi
dovevo
60
sempre passare, attraverso questo processo.;, ciò era
molto impegnativo, gratificante, quando si svolgeva rettamente,
scoraggiante, anzi umiliante, quando non avveniva. E più di una volta
in ogni semestre dovetti rinviare la lezione, perché non avevo
semplicemente portato nulla a compimento, ed ero troppo maldestro o
anche troppo onesto, per comporre il testo scrivendo delle cose
qualsiasi. Per la stessa causa anche il parlare mi eccitava sempre
molto, spesso tanto, da farmi stare sulle punte dei piedi per tutta
l'ora. Ciò era faticoso e parecchie volte ritornai a casa in condizioni
fisiche abbastanza mal ridotte. Ma comunque gli ascoltatori notavano che
l'argomento mi stava a cuore, cosicché avevo sempre un pubblico attento
e le ore in cui si produceva qualcosa sul piano spirituale, non erano
rare.
Nelle esercitazioni seminariali feci tenere inizialmente
delle relazioni; però questo si dimostrò poco fruttuoso. Gli studenti
avevano troppi obblighi disciplinari per poter avere il tempo libero
necessario per questi lavori a parte. Perciò in seguito posi come base
dei testi e invitai i partecipanti a interpretarli. Lo scopo era il
discorso sulla stessa inter-pretazione e sui problemi generali che ne
emergevano. Tali problemi ho trattato fra l'altro sulle Briciole di
filosofia di Kierkegaard, sui Pensieri di Pascal, sui Dialoghi
di Fiatone, su alcuni Inni di •Hòlderlin e Elegie di
Riike.
Gli ascoltatori naturalmente mutavano molto. Al
Una larga percentuale andava e veniva ad ogni semestre;
da una lezione all'altra pure apparivano dei nuovi venuti, che presto di
nuovo scomparivano. Tuttavia si formò a lungo andare una base costante
di studenti, che per parecchi semestri frequentavano i miei corsi, e di
lavoratori che facevano altrettanto per lungo tempo. Le lezioni avevano
realmente prodotto una specie di comunione. Essi erano, questo devo ben
dirlo, assolutamente seri e esigenti; così venivano, essenzialmente,
soltanto quelli cui il loro oggetto premeva molto. L'atteggiamento di
rifiuto dell'Università tuttavia aveva fatto sì che si sentissero
anche sostenitori di esso.
Il numero dei frequentatori era vario nei vari corsi;
era il minore in quelli sul Nuovo Testamento, che presupponevano un
interesse specificamente teoiogico-religioso; qui erano circa
trenta-cinquan-ta e di loro una buona parte studenti di teologia
protestanti, con cui in generale mi son trovato in un buon rapporto.
Nelle lezioni sistematiche il numero degli ascoltatori era maggiore, da
sessanta a ottanta circa. Era massimo in quelle lezioni che trattavano
di una forma di filosofia o di poesia che •riscuoteva il generale
interesse; là avevo fino a trecento e più ascoltatori. Alle
esercitazioni presenziavano costantemente venti persone, perciò un
numero discreto.
Da tutto quanto detto si può ben dedurre che
l'attività cattedratica era proprio faticosa - tanto più che accanto
alla mia professione accademica ne
62
svolgevo una seconda: quella pastorale ed educativa,
della quale ancora devo più precisamente trattare. In connessione con
le lezioni erano le ore regolari di visita, che nominalmente erano
fissate il mercoledì dalle quattro alle cinque, ma si estendevano in
realtà spesso sino alla sera e dopo qualche tempo dovettero essere
prolungate al sabato pomeriggio. La domenica avevo la celebrazione
liturgica per gli studenti con la predica; pochi anni dopo anche il
mercoledì di buon'ora una predica nella scuola sociale femminile. E
inoltre relazioni di vario genere in Berlino stessa e altrove.
Poiché il lavoro di Rothenfeis richiedeva una gran
parte delle mie ferie, nei sedici anni della mia attività accademica
ebbi una vera vacanza soltanto raramente. Ciò era effettivamente troppo
e, col tempo, ho subito le conseguenze di questo eccessivo strapazzo.
VI
Dopo il 1933 ci si aspettava generalmente l'abolizione
della mia cattedra. Di semestre in semestre io ne ero convinto, eppure
avevo una fiducia fondata su qualcosa di non esprimibile; effettivamente
non c'erano difficoltà di alcun genere. Avevo proseguito le lezioni
precisamente come prima, sia pure con comprensibile riservatezza in
determinati punti. Fra gli ascoltatori e me v'era una tacita intesa, che
qui vi fosse da conservare qualcosa di valido e non lo si dovesse
mettere in pericolo con di-
63
chiarazioni e comportamenti inopportuni.
Dapprima nell'inverno 1939, credo a fine gennaio, fui
invitato per un colloquio al Ministero del Culto, il che poteva
significare solo una cosa. Il consigliere governativo competente iniziò
il colloquio dicendo che potevo ben pensare di che cosa si trattasse.
Poiché lo Stato stesso aveva una sua visione della vita, non vi poteva
essere posto in Università per una cattedra sulla visione cattolica
della vita. Su questo assioma non era naturalmente possibile alcuna
discussione, e non potei far altro che accennare un inchino. Ad
eccezione di questo principio essenziale, il colloquio si sviluppò
benevol-mente. Il consigliere disse di voler considerare con me quale
cattedra dovessi assumere, e dichiarò che a Bonn, Friburgo e, credo,
anche a Tubinga c'erano possibilità. Io feci valere il fatto che da
sedici anni avevo lavorato in una determinata dirczione, e sarei
totalmente uscito dalla mia disciplina. Così mi trovavo nella posizione
di lavoratore altamente specializzato secondo una determinata dirczione,
che non poteva essere utilizzato altrove. Egli ribatte .che potevo pormi
in congedo per due semestri e riprendere; in ogni caso ero ancora troppo
giovane per andare in pensione. Allora dissi che mi ero impegnato in un
lavoro che poteva avere importanza per le relazioni culturali fra
Germania e Italia. Effettivamente questo era il caso: si trattava di
ricerche sul mondo della Divina Commedia dantesca, delle quali la
pubblicazione parziale, avvenuta nel
6A
1937, riguardante gli angeli27, aveva
riscosso attenzione in Italia. Ciò mutò la situazione ed egli
dichiarò di voler saggiare più da vicino la questione.
Entro un tempo relativamente breve mi richiamò: non si
poteva pensare a una collocazione come emerito con stipendio pieno,
bensì a un pensionamento. Secondo le disposizioni in vigore, la
pensione però sarebbe stata non molto elevata, cosicché dovevo ancora
una volta considerare la questione. Questo aspetto tuttavia non poteva
mutare l'essenziale, perché con i miei guadagni letterari, le mie
esigenze sarebbero state soddisfatte. Così ero libero di lavorare
totalmente secondo le mie necessità spirituali e personali. Non avrei
potuto assumere una cattedra di dogmatica: i problemi mi erano
abbastanza chiaramente presenti, e neppure le idee mi mancavano; ma la
mia preparazione disciplinare era minore di quella di un libero docente
da cinque semestri, e colmarne le lacune, come sarebbe stato necessario,
mi sarebbe costato la salute. In ogni caso, si sarebbe dovuto pensare a
una cattedra di carattere più generale, come apologetica o teologia
fondamentale, ma non ne avevo però desiderio. Avevo in corso importanti
lavori — il mio libro su Hòlderlin, quello sulla morte di Scorate e
ancora altri — cosicché mi attirava il pensiero di essere libero per
essi. Concorse a dò anche una stanchezza che si era prodotta durante i
lunghi anni di
27 Der Engel
in Dantes Gòttlicher Komodie, Dantestudien, Band i, Hegner, Leipzig
1937 (trad. ital. Studi su Dante, Mor-celliana, Brescia 19792).
65
eccessivo lavoro e mi faceva apparire molto bello il
poter vivere tranquillamente nella mia casa silenziosa, senza scadenze
urgenti e con la possibilità di fare qualcosa più per me stesso.
Rinnovai perciò in una risposta scritta la mia richiesta di
pensionamento, e lo ottenni dopo poco tempo in forma onorevole.
Con ciò si era chiusa la mia attività accademica, per
sempre, almeno come allora ero convinto che fosse. Nella mia vita avevo
avuto già molteplici cambiamenti, ora me ne attendevano di nuovi. Per
il pericolo dell'essere pensionato, cioè di sentirsi estraniato dal
lavoro regolare e reale, e di non poter saper fare nulla di se stesso,
non avevo alcuna paura. Avvertii il pensionamento come il passaggio in
una nuova forma di vita e di attività, e così anche è effettivamente
avvenuto.
Tuttavia l'allontanamento dall'Università mi riuscì
difficile, ed anzi sino ad ora non mi ci sono rassegnato. Fortunatamente
non sapevo ancora nulla di questo distacco quando tenni l'ultima
lezione. Così la cosa potè svolgersi, come propriamente tut-' tè le
vicende della mia vita, in modo tranquillo e senza molto scalpore. Molto
mi rallegrò il commiato dei miei ascoltatori. All'inizio del semestre
estivo ne vennero due, uno studente e una studentessa, e con il
ringraziamento degli altri mi portarono il grosso Libro dei fiori
di Rudolf Koch, tré bei volumi colmi di cose graziose. Lo ricevetti
come segno di intima comprensione, poiché dei giovani ritene-
66
vano me, filosofo e teologo, capace di apprezzare un
libro di questo genere. Mi è molto caro e ogni tanto mi guardo le
figure dei fiori. L'elenco allegato dei donatori l'ho bruciato; non
doveva per essi emergere la benché minima parvenza di legame a.
La vita e il lavoro che seguirono, furono realmente
diversi rispetto a prima, tanto più radicalmente, perché sei mesi
dopo, nell'agosto 1939, anche il castello di Rothenfeis fu soppresso, e
così io persi ambedue i grandi punti di riferimento che sino allora
avevano attirato il mio lavoro e le sollecitudini, anzi avevano riempito
anche la mia vita con la coscienza di una fruttuosa attività e di un
vincolo umano profondo.
Dapprincipio provai la bella sensazione di un grande
spazio e di una ampia libertà. Primavera ed estate erano a Zehiendorf
sempre bellissimi; ora mi godetti casa, giardino e dintorni veramente
per la prima volta. Potevo tranquillamente lasciar passare oziosi ore e
giorni, senza che una qualche scadenza mi minacciasse con la necessità
di preparare un lavoro. Ciò che aveva reso le mie lezioni così
faticose nella preparazione era, come già ho detto, il loro carattere
produttivo, e perciò l'obbligo non solo di lavorare, ma di produrre per
ogni ora. Questo cessò; la produzione potè seguire la sua legge
interna, e ciò era molto gradevole. Così realmente
28
Ciò probabilmente per evitare ai donatori ogni benché minimo pericolo
di inquisizione e persecuzione politica da parte dei nazisti.
67
in estate e autunno 1939 non feci molto. A Pasqua e a
Pentecoste ero a Rothenfeis per partecipare a bei raduni, gli ultimi; in
estate dai miei, a Isola Vicentina, e presso i Sattler a Grendach
[Baviera superiore].
Poi iniziò la guerra e tutto cambiò. Ricominciò il
lavoro in diversi luoghi, e si realizzò una spede di nuova forma di
professione. Continuò la celebrazione liturgica per gli studenti nella
Cappella S. Benedetto, e così pure le ore di ricevimento al mercoledì
e al sabato. Tenni serie di relazioni nella scuola elementare cattolica,
e intrapresi nella chiesa di S. Canisio le relazioni serali, che
dall'inizio della guerra erano organizzate dall'Associazione femminile.
Si sviluppò l'attività letteraria; nell'inverno 1939-40 ebbi un lavoro
particolarmente intenso.
Gradualmente lo stato di guerra si fece sentire sempre
più fortemente. All'inizio del 1941 cercai a Mooshausen e nei dintorni
un'abitazione che doveva essere pronta per ogni evenienza, ed alla fine
la trovai nell'edificio posteriore del Castello di Tennheim. Come la
trovai, l'allestii e di nuovo la persi, è una storia a sé. Egualmente,
come avevo tutto predisposto per il trasloco, i bagagli erano fatti, e
caricati, ma vennero tenuti fermi dal blocco della circolazione, ed io
abitai quasi due mesi nella casa vuota in Chamberlainstrasse, e alla
fine li feci di nuovo rientrare. Su tutto ciò forse riferirò in altro
luogo, poiché appartiene al mio esistere, così come le relazioni che
tenni in quel periodo e i libri
68
che in esso si formarono. Tutto è strettamente
collegato e quand'anche si facessero separazioni, non si saprebbe quali
conseguenze di un fatto si mostrino in altro punto, molto importante.
Nell'estate 1943, mentre ero a Grendach, giunse
l'intimazione del ministro Goebbeis di andarsene da Berlino a chi non vi
era necessario. Nella eccitazione del momento la sig.na Thomas aveva
iniziato a fare i bagagli. La mia salute da tempo non era buona;
soprattutto il mio cuore non sopportava affatto bene gli attacchi aerei.
Così stimai il tutto come una autorizzazione ad andarmene da Berlino.
Nuovamente mutai il mio modo di vivere e lavorare, e mi
avviai verso l'ignoto, questa volta particolarmente tangibile, poiché
portava con sé la perdita della casa e dalla patria. Dapprima sembrò
che potessi restare a Grendach; poi i miei amici desiderarono che
venissi a Mooshausen, da loro, e tanto insistettero che feci così.
Dal 1918 ero venuto qui in vacanza due volte all'anno
per 8 o 14 giorni; ora sono qui da un anno e mezzo. Tutto è cambiato.
L'attività esterna, il rapporto con gli uomini e le possibilità di
ricevere stimoli e di apprendere, che caratterizzavano la mia vita a
Berlino, sono sparite. Tutto si è ridotto al lavoro allo scrittoio,
nella speranza di essere chiamato ancora una volta a qualche nuovo
incarico.
69
RICERCA DELLA VOCAZIONE SACERDOZIO E ATTIVITÀ PASTORALE
II fatto che narri della mia via per rispondere alla
vocazione sacerdotale solo in una seconda parte di queste note non
significa alcuna mancanza di stima per essa. Essere sacerdote fu sempre
per me l'essenziale, e l'attività d'insegnamento ha poggiato su questo.
Ma nella mia analisi delle figure [di filosofi, di poeti, di teologi...]
ho volentieri adottato il metodo di partire da ciò che è dapprima
visibile, per poi procedere verso ciò che è più profondo.
Anche la via verso il sacerdozio fu non facile — ancor
meno facile di quella verso la cattedra. Quando un giovane d'oggi
leggesse queste note, si mera-viglierebbe certamente che qualcuno
potesse essere così all'oscuro su se stesso, come io lo sono stato. La
causa stava anzitutto in me stesso: nella complessità della mia natura,
che solo dopo molto tempo trovò il suo punto d'equilibrio; in secondo
luogo anche nelle circostanze esterne, di cui anzitutto debbo parlare.
In un capitolo seguente parlerò espressamente della mia
discendenza e famiglia, cosicché qui mi
71
limito a ciò che importa per poter proseguire.
I miei genitori vennero in Germania, e precisamente a
Magonza, nel 1886, quando avevo un anno d'età. Se si tiene presente la
grande differenza fra il mondo italiano e quello tedesco del tempo, ciò
significava tanto, quanto se essi fossero passati dal 1856 al 1886. I
miei genitori però mantennero il comportamento del loro mondo, solo che
fosse possibile; così noi quattro fratelli1, di cui io ero
il più anziano, fummo educati in modo molto rigido, o più esattamente,
secondo il vecchio stile. L'autorità dei genitori aveva valore
assoluto, e in tutto si doveva essere giovani buoni, a modo, bene
educati. Di indipendenza neppure si parlava.
Mio padre, che aveva trapiantato a Magonza la attività
di mio nonno, stimava molto la Germania, ma vi si sentiva tuttavia
sempre ospite. Mia madre era ancora più radicale; era nata nel
Sud-Tirolo [Alto Adige] e aveva sin da bambina sviluppato in sé l'amore
appassionato deU'«irredenta» Italia. Era stata, certo, educata a
Merano in un istituto tedesco; ma colà appunto si intensificò ancor
più questa disposizione d'animo. Quando dopo tré anni di matrimonio si
trasferì con mio madre, non lo fece volentieri e perciò il suo rifiuto
di tutto quanto era tedesco si fece sempre più netto. A Magonza essa,
fatta eccezione per alcuni rapporti di cortesia inevitabili, non
intrattenne relazioni con nessuno;
' I tré fratelli di Romano Guardini si chiamavano
Aleardo, Gino e Mario, il padre Romano Tulio (1857-1919), la madre Paola
Maria BernardineUi (1862-1957).
72
amava appassionatamente i suoi figli e viveva
attivamente solo all'interno della sua casa. La domenica andava in
chiesa, nei giorni feriali usciva per le faccende necessarie, per il
resto stava in casa. In quest'ambito chiuso, per quanto stava in lei, ci
trattenne anche.
Così crescemmo totalmente in casa. La stanza dei
bambini, poi, quando fummo più grandi, la stanza personale con letto,
scrittoio, armadio, furono .(1 nostro mondo. Il fatto che avessimo una
istitutrice tedesca non cambiò nulla n proposito. Ciò che per gli
altri giovani era ovvio, di stare insieme nel gioco e in ogni genere di
occupazioni, mancò a noi quasi del tutto. In pratica non andavamo da
nessuno e nessuno veniva da noi. Il risultato fu che delle cose della
vita, che il giovane impara da sé a conoscere mentre sta con gli altri,
io non ebbi alcuna esperienza.
Certo v'era anche la scuola. Ma ciò che la rende
importante per i giovani non è tanto l'insegnamento, quanto il mondo
delle relazioni con i coetanei, che si prolungano nella vita. Questo per
lo più ci mancò, cosicché la scuola era un ambito isolato, in cui
entravo e che di nuovo lasciavo. Se mi chiedo con quali sentimenti ero
legato alla scuola, anzitutto era con un senso di estraneità, che
abbastanza soesso si accentuava divenendo un senso di paura. Questo si
collegava certo anche agli insegnanti;
nessuno di loro ha saputo risvegliare in me un reale
interesse per una materia, e non ne ho stimato con reverenza nessuno.
Gradivo soltanto
73
quello di francese e inglese delle classi superiori,
evidentemente perché mi rendeva attento alle connessioni fra il
francese e l'italiano. Il fondamento preciso della estraneità era però
certo l'atmosfera della nostra casa, che non ci lasciava mai uscire
all'aperto.
* * *
Mio padre propriamente non viveva in generale con noi.
Ci voleva molto bene, e noi a lui, ma riuscivamo appena a vederlo. Il
suo lavoro lo teneva interamente occupato, ed era spesso in viaggio. Per
i soggiorni di vacanza in campagna non veniva con noi, e in genere non
mi ricordo che egli si sia preso un periodo di riposo.
Era molto dotato, ma già a quattordici anni aveva
lasciato la scuola e dovuto occuparsi del mantenimento dei suoi
genitori. Propriamente avrebbe voluto studiare legge ed economia
politica, ma aveva dovuto rinunciarvi. Dopoché per molti anni aveva
cercato di aggiornarsi nonostante l'attività professionale faticosa, ne
aveva riconosciuto l'impossibilità e aveva rinunciato. Il risultato fu
che non parlava mai di cose culturali; le porte erano state chiuse. Pure
nessuno aveva conoscenza della sua vita intcriore, personale. Quando
morì nel 1919, avevo 34 anni, e credo che in tutto questo tempo io
abbia avuto con lui non più di dieci o quindici colloqui personali, o
su argomenti specifici, che andassero più a fondo.
74
La sua vita dev'essere stata terribilmente solitària;
per lui c'era sostanzialmente solo il lavoro. Mi commuove sempre di
nuovo che fra i pochi mobili che, ben conservati, ho salvato dalla mia
casa di Berlino, ci sia il suo scrittoio, quello su cui scrivo questi
ricordi. Quante volte l'ho visto sedervisi dietro nel suo ufficio!
Così anche nostro padre non aveva allargato il mondo
chiuso della nostra fanciullezza e giovinezza.
Quando guardo indietro al tempo che va sino al mio esame
di maturità, che sostenni all'età di di-ciott'anni e mezzo, ora mi
sembra come se fosse velato. Perché sia così, non so. Sicuramente dal
punto di vista psicologico deve significare ogni genere di cose; questo
significato è certamente anche buono. Ho la sensazione che questo
velamento, durato a lungo, sino al tempo dell'università, e di cui è
sino ad oggi rimasta una componente attraverso tutta la mia vita, con il
suo esistere intcriore, si colleghi anzitutto alla produttività
spirituale. Nella mia fanciullezza e giovinezza devo aver vissuto una
sorta di vita di sogno, di cui solo assai poco mi è rimasto nella
memoria.
Anche i soggiorni di vacanza nell'OdenwaId e nel Taunus
non mutavano nulla in merito; e tanto meno i viaggi in Italia dai nonni,
che, come era il caso per tutte le famiglie benestanti, oltre alla loro
casa di città a Verona avevano un bei possedimento in campagna. Noi
passavamo però soltanto da un
75
mondo chiuso in un altro: poiché la casa, nella quale
dominavano le figure, guardate con soggezione, del nonno e della nonna,
significava soltanto un cambiamento di luogo e di cose, non di condotta
di vita, che anzi era persino più rigorosa che a casa nostra.
Per ciò che concerne la religione, i miei genitori
erano credenti; forse mio padre con la leggera piega scettica, che è
fra gli italiani molto frequente. Andavano in chiesa ogni domenica, ma
delle cose religiose non parlavano mai. Mia madre era pia in un senso
molto intimo e asciutto. Mi ricordo come essa dopo la comunione al
mattino, pratica abitualmente allora rara, veniva al nostro letto e ci
baciava, cosa che sentivo come qualcosa di misteriosamente sacro. La
preghiera mattutina e serale, la frequenza alla chiesa la domenica,
ecc., erano per noi ovvie; per il resto non si parlava di religione
senza uno speciale motivo.
Il mio docente di religione in ginnasio era sicuramente
dotato personalmente, poiché aveva il titolo di dottore, ma come
insegnante assolutamente inadeguato. Da lui non ho appreso nulla, ed
ancor meno egli ha risvegliato in me un autentico interesse.
Infine per ciò che concerne la mia vita religiosa, fin
avanti nei miei studi universitari essa si trovò sotto un gravame. Fui
sempre angosciato e per lunghi anni molto scrupoloso. Ciò per un
giovane è peggio che aver troppa leggerezza, poiché questa almeno è
vita, mentre il continuo autotormentarsi
76
della coscienza angosciata distrugge. Qui propriamente
può esser d'aiuto soltanto un'altra persona, che veda di che cosa si
tratti; ma io non la incontrai. Di qui venne un'inclinazione alla
malinconia che più innanzi doveva divenire acuta, e mi ha sempre dato
preoccupazione.
Tutto ciò avrebbe potuto condurre a una vita in-teriore
molto intensa, piena di forti esperienze; ma anche questo non avvenne.
Quando mi volgo indietro, tutto il tempo sino all'università è come
velato. Anche dei primi ricordi infantili, che rendono troppo attraente
l'inizio di tutte le biografie, niente mi viene in mente. Naturalmente
con ciò non voglio affatto dire che quegli anni siano rimasti vuoti.
Ciò che più tardi ho manifestato, deve pur aver avuto le sue radici;
ma tutto resta come sommerso sott'acqua. Il sentimento della felicità
della fanciullezza e il desiderio di ritornarvi, non li ho mai provati:
io non vorrei tornare nella mia fanciullezza. Tuttavia in essa i miei
genitori, e ciò intendo ancora una volta sottolineare, ci hanno molto
amato, e noi pure a nostra volta li abbiamo amati; ed eravamo quattro
fratelli fra noi molto legati, nonostante ogni contrasto, tensione,
controversia, e lo siamo rimasti sino ad oggi.
II
Quanto detto era una lunga introdu2Ìone alla narrazione
seguente, ma necessaria come premessa per rendere comprensibili molti
aspetti insoliti che
77
vi si dovranno trattare.
Anzitutto con ciò si comprende il fatto che io, quando
venne il tempo dell'esame di maturità e doveva essere scelta la
professione, semplicemente non sapessi che cosa fare. Ma pure così non
si dice abbastanza; io non sapevo in fondo che cosa si potesse fare.
Poiché mio padre, che amava molto il suo Paese, in generale non
prendeva in considerazione la possibilità che potessi assumere la
cittadinanza tedesca, erano quindi escluse tutte le forme di pubblico
impiego e di professione giuridica. La decisione — se così si può
chiamare in generale una risoluzione siffatta — venne stabilita nel
modo seguente: a scuola stava vicino a me un giovane che con grande
attrazione per la materia intendeva diventare chimico, e così volli io
pure.
Perciò andai a Tubinga, e anche questa determinazione
non venne per mia propria iniziativa. La ditta di mio padre aveva una
filiale a Stoccarda, il suo direttore doveva potermi dare una mano; egli
stesso presso un collega suo amico da lui pregato mi aveva procurato
anche una camera a Tubinga. Mio padre mi condusse colà. Li aspettammo a
Plo-chingen per far conoscenza; colà egli mi disse in un tono da cui si
capiva come fosse difficile a lui stesso la cosa, alcune frasi, circa
qualcosa da cui dovevo ben cautelarmi. Solo più tardi avrei capito che
si trattava della questione sessuale. Effettivamente fui all'Università
per qualche semestre senza saperne niente. Che non sia stato indotto in
cose cattive dipese — a prescindere per un attimo dalla divina
78
Provvidenza — innanzitutto dalla mia infinita
timidezza, che fece sì che nella libertà accademica continuassi la
medesima vita che conducevo a casa.
Io studiai dunque chimica, ma devo subito riconoscere
qualcosa di vergognoso: di tutta la materia non ci capii niente.
Anzitutto non avevo alcune doti per la matematica, e che cos'è la
scienza naturale senza la matematica? Inoltre mi mancava l'interesse
netto per gli esperimenti e l'esperienza positiva, che è importante in
particolar modo per il chimico. Infine, allora nella scienza naturale
dominava un assoluto materialismo, cosicché le disposizioni che in me
erano latenti non ne furono stimolate.
A dò si aggiungeva il metodo di insegnamento. Vorrei
non giudicare severamente, ma devo dire che fra i molti docenti
accademia che nel corso dei miei lunghi studi ho imparato a conoscere,
non v'era quasi nessuno che si sia attivamente interessato dei suoi
studenti, anzi devo forse dire restrittivamente, di gente tanto timida.
Secondo i casi, erano scienziati ben noti o anche meno noti, e buoni o
meno buoni parlatori; dei giovani però non si sono interessati, per
loro iniziativa. Se questi erano arrivati al loro posto giusto e avevano
risvegliato il loro interesse con qualche loro prestazione, poteva
accadere qualcosa di diverso. Ma molto importanti finalità formative
della pedagogia erano da adempiere preventivamente: risvegliare
l'interesse del giovane, aiutarlo ad attingere se stesso; insegnargli
come si lavora intellettualmente e, più propriamen-
79
tè, in modo scientifico, come si formula una questione
e la si affronta, come si impara a usare i sussidi per risolverla, a
superare le difficoltà ecc. A me capitò di ascoltare le lezioni, ma di
non trovarvi alcun accesso intcriore, e non v'era nessuno che mi avesse
mostrato come fare. Nel secondo semestre entrai nella sezione di chimica
inorganica del laboratorio. Là mi applicai agli strumenti e non ne
capii il funzionamento. Accanto allo stesso mio tavolo lavorava un certo
dott. F., assistente o già libero docente; in ogni caso ci assegnava le
esercitazioni per le analisi e controllava i nostri risultati. Deve aver
visto che io non combinavo nulla; se non fece nemmeno questo, allora non
vi è niente altro da dire. Ma non fece il minimo tentativo di aiutarmi.
Come sarebbe stato facile per lui accompagnarsi una volta al giovane
sulla via verso casa e sentire come andassero le cose! Un paio di
colloqui mi avrebbero risparmiato verosimilmente molta perplessità e
molto tempo; ma non avvenne nulla di simile. Che il prof. W., da cui
dipendeva l'istituto, e che ogni tanto passava fra i tavoli di lavoro,
si prendesse cura di uno studente principiante, non era naturalmente
neppure pensabile.
Le mie relazioni nei due semestri si limitano
essenzialmente a uno studente di chimica di Brux [Most] nella
Cecoslovacchia, un uomo noioso di opinioni positiviste, con cui mi ero
incontrato proprio soltanto perché, essendo straniero, era anch'e-gli
isolato. Non ne poteva venire alcun logico risultato: mi insegnò
soltanto come si preparano li-
80
quori... L'altra relazione consisteva nel fatto che la
domenica andavo a Stoccarda, visitavo il gerente della ditta di mio
padre e lo accompagnavo a questo o quel divertimento: una cosa
abbastanza sconfortante.
Era un periodo infelice.
Sentivo che non ne poteva uscire nulla e tuttavia non
riuscivo a cavarmene fuori. D'altro canto non trovavo alcun accesso a
persone che potessero aiutarmi. Le uniche ore buone erano quando
girovagavo per i bei dintorni di Tubinga, o quando di sera stavo a letto
e leggevo Fritz Reuter2. Non è bello raccontare di questa
mia miserabile situazione, ma quando si da conto di sé, si deve essere
sinceri.
Mio padre notò che le cose non andavano per niente
bene, ma non disse niente. Era certo preoccupato, ma quasi non sorpreso
che io dopo due semestri gli dovessi spiegare che non potevo continuare.
Ili
Cominciò ora ancora una volta la stessa triste
commedia: non sapevo che cosa dovessi fare. Se non ci fossero state le
decisioni di cui ho prima riferito, probabilmente avrei studiato
filologia e lettere, pure ora questo non avvenne. E poiché si do-
2
Scrittore (1810-1874) allora popolare, umorista con sfondo
sociologico-rivoluzionario.
81
veva comunque decidere, lo si fece nello stesso modo
insensato della prima volta. Avevo a Magonza un conoscente che studiava
scienze politiche. Che cosa ciò fosse precisamente, non sapevo, ma
avevo la sensazione che dovesse essere qualcosa di più intellettuale
della chimica, e spiegai a mio padre che le volevo studiare.
Così andai col mio amico a Monaco da Lujo Brentano,
studioso liberale di economia politica che allora godeva di vasta fama3.
Sentii le sue lezioni e non ne trassi molto più che dalla chimica.
Andai al suo seminario, dove stavano più di cento persone, e ascoltai
la lettura di dotti lavori seminariali, senza comprenderli, e
soprattutto senza vedere come si potesse giungere a un risultato del
genere.
Pensando che si dovesse subito impostare- un lavoro di
dottorato, andai da Brentano e gli chiesi un tema. Poiché sapevo
l'italiano, mi propose di lavorare sulla abolizione dei fedecommessi in
Italia. Citerò ora un piccolo particolare, dal quale meglio che da un
più lungo discorso si potrà determinare lo stato in cui mi trovavo.
Brentano nel suo corso
3
Docente di economia politica (1844-1931), a Breslavia, Stra sburgo,
Vienna, Lipsia e Monaco (1891-1917) e rappresentante di un indirizzo di
liberalismo «sociale» vicino al movimento sindacale.
4 Sidney James Wcbb (1859-1947) e la moglie
Beatrice Pot-ter (1856-1943), importanti esponenti del movimento
laburista inglese; il marito fu anche ministro e poi Lord, nonché
docente dal 1913 alla London School of Economics. L'opera cui
allude «Juardini, scritta con la moglie, come quasi tutti i suoi studi,
è una traduzione tedesca di Industriai Democracy, dal titolo Theorie
unì Praxis der englischen Gewerkaschaftsverei-ne (Teoria e prassi
dei sindacati inglesi), Stuttgart 1898.
82
aveva raccomandato l'opera dei due Webb 4 sui
sindacati inglesi, e io avevo iniziato a leggerla. Ora gli chiesi di
citarmi per il tema proposto la bibliografia iniziale, ed egli disse che
dovevo iniziare con la Kultur der Renaissance di Jakob Burckardt5,
e non so perché abbia pensato a quella. Allora gli chiesi:
«Signor Consigliere, devo allora smettere di leggere il
Webb?» Ancor oggi, riferendolo, me ne vergogno. Ma quando uno studente
del terzo semestre venisse da me e mi ponesse in tale occasione questa
domanda, e l'aspetto mi mostrasse che non è proprio un idiota, mi
direi: «Ecco un ragazzo che va aiutato!». Direi anzi che questo dovere
per un docente universitario sia più urgente che scrivere grossi libri
e brillare ai congressi. Lo inviterei a casa mia e cercherei di portarlo
sulla sua strada. Invece quel celebre docente mi sembrò soltanto
meravigliato e mi rispose che sì, potevo smettere! Certo il mio caso è
raro: studenti che nel terzo semestre si trovavano tanto sprovveduti di
fronte alla vita e allo studio come allora lo ero io, non credo Siano
molti. Pure io ero là e non credo di aver dato l'impressione di essere
irrimediabilmente stupido. Del resto nel mio caso si mostrò solo in
modo estremamente crudo con quale inadeguatezza i professori si
rappresentassero i loro compiti come docenti.
5
Celebre storico della cultura (1818-1897), la cui Kultur der
Renaissance in Italien (1860) è ancora opera fondamentale per la
comprensione del periodo e della connessione fra cultura italiana ed
europea moderna (trad. ital. La civiltà del Rinascimento in Italia,
Sansoni, Firenze 19803).
83
Iniziai comunque a leggere Burckhardt, mi procurai i
resoconti parlamentari italiani, cercai quello che vi era circa i
fedecommessi, lessi anche questo e quello in più. Ma il tutto risultò
un solenne fiasco: non solo perché il lavoro fosse uscito male, ma
perché non ne venne fuori proprio nulla in assoluto. E lo stesso
avvenne con l'economia politica nel suo complesso. Essa era allora
ancora in fase di sviluppo: tutti coloro che non volevano o non potevano
seguire studi regolari, diventavano economisti politici. Ma per far
ciò, occorreva un'iniziativa inferiore, un interesse alle questioni
sociali e politiche, e tutto ciò io non l'avevo. Così il suo studio
continuò a pesarmi addosso come qualcosa di opprimente e in ultima
analisi incomprensibile.
Ciò che allora per me divenne realmente significativo,
fu la città e la sua atmosfera artistica e letteraria. Trovai
stimolanti amicizie, ma, fatto abbastanza indicativo, non fra i compagni
di materia, bensì fra studenti di storia dell'arte, della letteratura e
scrittori. Allora entrai anche più in profondità ' nella vita. La
singolare mescolanza di grande città e di senso di agio, mista a una bohème
di artisti, che imprecavano sempre contro la mentalità piccolo-borghese
della città, e pur sempre vi si trovavano infinitamente bene, ebbe su
di me effetti liberatori e stimolanti. Entrai nel Caffè e presi parte
alle interminabili discussioni sulla letteratura e l'arte figurativa;
frequentai concerti, musei ed esposizioni, mi guardai in giro nei bei
dintorni, ancora però del
84
tutto frenato dalla timidezza che portavo in me.
A Monaco sono anche giunto alla crisi decisiva della mia
vita religiosa.
Durante il periodo di Tubinga avevo sostanzialmente
continuato a vivere come a casa. Avevo detto le mie preghiere
giornaliere, quando appunto non le dimenticavo o tralasciavo; ero andato
la domenica in chiesa, e di tanto in tanto mi accostavo ai sacramenti;
avevo anche letto libri religiosi d'ogni sorta, vecchi testi o scritti
apologetici.
Particolarmente importante fu per me il contatto con due
persone, di cui poco tempo prima avevo fatto la conoscenza. Erano il
prof. Wilhelm Schleussner, docente di storia e tedesco al Reale Ginnasio
di Magonza, e sua moglie Josefine. Erano senza figli e persone di ogni
genere andavano e venivano da loro. Tramite un compagno di studi fui
introdotto presso di loro e cominciai io pure ad andarvi, prima una o
due volte, poi sempre più spesso, infine tanto spesso, che oggi mi
meraviglio che ambedue, che pure avevano il loro lavoro, potessero
perdere tanto tempo con me. Schleussner era un convcrtito e aveva forti
interessi religiosi. Soprattutto conosceva la mistica tedesca e in
seguito avrebbe edito sotto lo pseudonimo «Bruder Bardo» le Deutsche
Gebete (Preghiere tedesche) presso l'editrice Matthias-GrùnewaId 6.
Sua moglie
6
Wilhelm Schleussner (1864-1927), dopo la morte della moglie Josefine
(1861-1913), studiò teologia a Friburgo in Br. e fu consacrato
sacerdote nel 1918. La sua opera pubblicata con
85
era più notevole di lui. Dalla sua casa paterna aveva
portato con sé una cultura non comune, comprendeva il latino e, per
poter leggere nell'originale gli scritti di santa Teresa, che essa amava
più di ogni altra cosa, aveva imparato lo spagnolo. Condivideva la vita
spirituale del marito e lo aiutava nella sua attività di scrittore;
contemporaneamente faceva un lavoro ricco di sacrificio e di impegno
nell'associazione cattolica dei domestici di Magonza, e già questo
dimostra che non apparteneva alle bas bleus. Era gentile e
vivace, e ci si rallegrava di poter starle vicino. Così le dimostrai
infatti anche quella venerazione che un giovane prova per una donna
molto più anziana, notevole spiritualmente e umanamente molto fine. A
ciò si aggiungeva il fatto, che all'inizio non sapevo, benché col
tempo iniziassi a presagirlo, che essa non solo conduceva una intensa
vita religiosa, ma aveva verosimilmente reali esperienze mistiche.
Vicino a lei si avvertiva qualcosa di insolito, nella forma però di una
bontà e riservatezza che mai sconcertava ne opprimeva, ma invece sempre
aiutava. Con gli Schleussner discussi la mia •questione religiosa, e
mi resi presto conto che principalmente era essa la causa per la quale
ero venuto da loro. Così era di fatto la circostanza migliore quando li
trovavo soli e potevo loro esporre quello che avevo nel cuore.
La prima volta ero andato alla loro casa quando ero
ancora a Tubinga, e Schleussner mi aveva su-
lo pseudonimo «Bardo, Br.», Deutsche Gebete,
uscì nel 1916 presso Herder a Friburgo, e non presso l'editore
Grìinewaid di Magonza.
86
bito detto quanto si fosse meravigliato quando gli ero
stato presentato come studente di chimica. Le visite hanno poi
accompagnato il mio periodo di Monaco, ed io vi ho inserito i miei dubbi
che allora crescevano e divenivano critici, dei quali ora ritorno a
parlare.
Le mie convinzioni religiose, cioè, iniziavano a
vacillare. Non posso citare un motivo speciale di questo; neppure ciò
che la sapienza pedagogica volentieri ha assunto come regola, che io
fossi rimasto implicato in qualche relazione erotica, poiché questo non
era avvenuto. Non che io intenzionalmente abbia schivato cose del
genere, ma appunto non ci si è arrivati. Propriamente l'espressione che
le mie convinzioni religiose fossero divenute vacillanti, non è esatta,
piuttosto erano divenute sempre meno numerose. Quando la sera volevo
dire le mie preghiere, non sapevo in quale dirczione dovessi rivolgerle,
e più volte avevo — fatto grottesco — ricapitolato una prova
dell'esistenza di Dio, per sapere che esisteva un Dio che potessi
pregare. Una sera entrai in dialogo con uno studente — di storia
dell'arte, che conduceva una vita molto dispendiosa e sosteneva di
essere kantiano — sulla questione religiosa. Gli esposi gli argomenti
usuali a favore dell'esistenza di Dio, ed egli mi ribattè seguendo i
procedimenti di pensiero della Critica kantiana. Allora tutta la
fede mi si dissolse; più esattamente, notai che non avevo più fede.
Era l'estate del 1905.
87
IV
Nelle vacanze d'autunno venne da me il mio amico Karl
Neundórfer e andammo assieme a Stal-tach, un paesino presso il Lago di
Starnberg [Alta Baviera]. Colà abitammo per pochi quattrini presso
gentili contadini; mi ricordo ancora che il marito portava il nome
imponente di Bartolomaus Werk-meister, e la moglie era grassa e cortese.
Qui devo dire qualcosa circa Karl Neundórfer. Eravamo
stati nella stessa classe fin dal primo anno di scuola, cioè dal 1891,
ci eravamo conosciuti da sempre e trovati molto simpatici. Verso la fine
del nostro periodo scolastico stringemmo un'amicizia che durò sino alla
sua morte nel ghiacciaio Fex presso Siis Maria nel 1925, e divenne
sempre più chiara e sicura. La sua morte fu certo la perdita più
dolorosa della mia vita. Quando andai a Tubinga con lo stolto proposito
di studiare chimica, egli iniziò a Giessen lo studio di scienze
giuridiche; era un lavoratore giudizioso, accurato, tranquillo e
sostenne i suoi esami nel modo migliore. La sua mentalità e carattere
erano molto diversi dai miei; il suo punto di gravita stava in un
intelletto chiaro e mirabilmente ordinato e in un'attività calma,
instancabile. Sotto le sue mani l'ordine si formava da sé. Il suo
intero essere era sano e sicuro. Veniva da una famiglia cattolica di
fede profonda, ma poi era capitato sotto l'influenza della tendenza
neokantiana di allora. Tuttavia ciò non avvenne per caso, perché Kant
gli era intcriormente affine. Secondo la sua
88
inclina2Ìone sarebbe divenuto un giurista molto vivace
di spirito, oggettivamente chiaro e mirabilmente Edato. Sotto l'influsso
della Critica kantiana aveva abbandonato le convinzioni cattoliche e si
era sistemato su misura una vita filosofica, che si sarebbe dovuta
mantenere molto riservata in questioni metafisiche e sarebbe dovuta
culminare in un'etica con una sottostruttura di profondo rispetto
religioso... Effettivamente, anch'egli era incappato nella crisi
religiosa e il soggiorno a Staltach doveva condurla innanzi sia per lui
che per me. Vivemmo insieme un buon periodo, facemmo belle passeggiate,
facemmo bagni, prendemmo il sole, godemmo dell'abbondante vitto che la
signora Werkmeister ci dava quasi per niente. Contemporaneamente
leggevamo; lui non so più che libro, io le Grundiagen des
neunzehnten Jahrhunderts (Mandamenti del secolo xix) di Houston
Stuart Chamberlain7. La lettura di questo libro completò in
certo modo il colloquio alla fontana davanti all'Università di Monaco.
Poi andammo a casa. Io riferii agli Schleussner che cosa
era avvenuto e credetti di notare che li interessava. Di quelle vacanze
mi è rimasto il ricordo di una sera a teatro: davano i Figli del rè
di Humperdinck 8, ed io ne sentii la tragica conclusio-
7 Si
tratta del celebre libro, di carattere ideologico, uscito nel 1899
(Monaco 19002), opera di Houston Stewart Chamberlain, di
origine inglese, che esaltò la razza ariana e divenne dal 1916
cittadino tedesco (nato a Portsmouth nel 1855, morto a Bay-reuth nel
1927).
8 Engelbert Humperdinck (1854-1921), musicista e
compo-
89
ne come una conferma di quello che avevo vissuto. Mi era
rimasto il pensiero di una totalità, che tesse e domina dietro ogni
cosa, della quale però nulla di chiaro si possa dire.
In seguito avvenne però un mutamento. Ciò che mi aveva
distolto dalla fede, non erano stati reali motivi contro di essa, bensì
il fatto che i motivi, le ragioni d'essa a me non dicevano più nulla.
La fede come atto consapevole era divenuta sempre più debole e infine
era morta. Tuttavia penso che i legami inconsci con la realtà cristiana
non si siano mai del tutto strappati. Era anche importante che non
avessi alcuna avversione verso la Chiesa ne verso una qualche
personalità ecclesiastica, e che la difficoltà della coscienza, che
invero era legata strettamente alla educazione ecclesiastica, non fosse
divenuta opposizione ad essa. Ora l'elemento religioso divenne
intcriormente di nuovo più forte, ma ciò condusse, così stando le
cose, immediatamente a un avvicinamento alla fede cristiana.
, Quali riflessioni abbiano concorso a ciò, non sono
più in grado di dire in particolare; ma allora mi si è rivelata una
conoscenza che giustificò e diede forma all'intero sviluppo interiore,
e che da allora rimase per me la vera e propria chiave di accesso alla
fede. Ricordo, come se fosse ieri, l'ora in cui questa conoscenza si
fece decisione. Fu nella mia
sitore di varie opere e fiabe musicali, fra cui i Konigskinder
citati da Guardini, a sfondo magico-mistico.
90
piccola mansarda nella casa dei miei genitori in
Gonsenheimerstrasse. Karl Neundòrfer ed io avevamo discusso della
questione che ci affaticava entrambi, e le mie ultime parole erano
state: «Occorrerà arrivare alla frase: chi vuoi serbare la sua anima,
la perderà; chi invece la dona, la salverà». L'in-terpretazione,
implicita nella traduzione di Mt. 10, 39, dice che cosa mi importava. Mi
era divenuto a grado a grado chiaro che v'è una legge secondo la quale
l'uomo, quando «conserva la sua anima», cioè rimane in se stesso e
accetta come valido soltanto ciò che gli appare immediatamente
evidente, perde la realtà essenziale. Se vuole invece giungere alla
verità e nella verità al suo vero se stesso, allora deve donarsi.
Questa convinzione aveva certo avuto dei gradi iniziali precedenti, ma
ora mi sono sruggiti. A queste parole Karl Neundòrfer era andato nella
camera accanto, alla quale conduceva una porta su un balcone. Io sedetti
dinanzi al mio tavolino, e il mio pensiero procedette: «Dare la mia
anima - ma a chi? Chi è in grado di chiedermela? Di chiedermela in
modo, che tuttavia non sia ancora io che la prenda in mano? Non
semplicemente 'Dio', poiché quando l'uomo vuoi avere a che fare
soltanto con Dio, allora dice 'Dio' e intende se stesso. Deve perciò
esserci una istanza oggetti-va, che possa trar fuori la mia risposta da
ogni nascondiglio dell'affermazione di sé. Ma tale istanza è soltanto
una e unica: la Chiesa cattolica nella sua autorità e precisa
determinatezza. La questione del conservare o dare la propria anima
viene decisa in
91
ultima analisi non dinanzi a Dio, ma dinanzi alla
Chiesa». Allora mi sentii nell'animo come se portassi nelle mie mani
tutto - ma veramente «tutto», il mio essere, come su una bilancia, che
fosse in equilibrio: «Posso farla pendere a destra o a sinistra. Posso
dare la mia anima o tenerla». E allora la feci pendere verso destra.
L'istante fu affatto silenzioso: non fu ne una scossa, ne una
illuminazione, ne una qualche esperienza vissuta. Fu la chiara
convinzione: «È così» — e il moto impercettibilmente sommesso:
«Così deve essere!» Allora uscii, andando dal mio amico, e glielo
dissi. In lui doveva essere accaduto qualcosa di simile; per lui già da
tempo era risonata la parola direttiva: «La maggior chance di
verità è là, dove è la maggior possibilità di amore». Già da
molto tempo si era in lui predisposto un superamento della sua natura
chiara, retta, ma anche sicura di sé e cosciente di sé. Aveva
riconosciuto che gli mancava il mondo dell'amore, e che la pienezza
dell'esistenza dipendeva daU'ot-tenerlo. Perciò la questione per lui
era, dove passasse la via verso l'amore, e la risposta era stata anche
per lui: attraverso la Chiesa.
Nei giorni seguenti fui molto felice, di una felicità
tranquilla e tacita. Non sono mai stato uomo di grandi scosse. Per me le
cose hanno sempre avuto qualcosa di contenuto, per non dire di freddo, e
così fu anche allora. Scrissi tutto nel diario, in cui avevo riferito
di tutta la vicenda, e lo portai dagli Schleussner. Furono gli unici cui
allora ne resi conto.
92
v
Dopo queste vacanze, Karl Neundórfer andò a Giessen,
per sostenervi il suo esame di Stato, ed io a Berlino. Perché proprio
da Monaco, dove mi ero trovato molto bene, andassi a Berlino, non so di
preciso; verosimilmente apparteneva allo stile degli studi di economia
politica, dopo una permanenza nella Monaco bohèmienne, andare
nella città severamente operosa di Berlino, dove anche i problemi
sociali sopravvenivano molto più duri. Io pure vi andai e il semestre
invernale che vi trascorsi fu il peggiore di tutto il mio periodo di
studio.
Questo dipese soprattutto dal carattere della vita che
si viveva colà. Ci si può trovare molto bene a Berlino; ma occorre,
allora, aver una casa, in cui ritornare sempre volentieri, e un lavoro,
che interessi e appaghi, a meno che si abbia molta energia in eccedenza
e ci si voglia sfogare. Ma tutto ciò non era il mio caso. Per quanto
riguarda l'abitazione, io non avevo mai avuto molta attitudine per le
cose di organizzazione pratica, a differenza che in quelle
tecnico-pratiche; dopo aver visto non so quante stanze, rimasi a
soggiornare in una che sembrava tutt'altro che comoda. Era nelle
vicinanze della stazione Bellevue, proprio fuori dalla stazione, era
buia e aveva cinque angoli. Col lavoro andava male... Così da
quell'inverno ho ricavato soltanto qualcosa di passaggio. Ebbi relazioni
stimolanti, per lo più ancora originate a Monaco. Andai anche molto
ai concerti e a teatro; soprattutto si
93
rappresentava meravigliosamente Ibsen al Lessing-theater,
e si vivevano gli interessanti esperimenti delle scene di Max Reinhardt.
Abitava anche, a Berlino, un ecclesiastico della diocesi di Magonza, il
dott. Johannes Moser, un ingegno un po' stravagante, da cui passai
questa o quella serata stimolante. Ma in complesso nella città
sterminata, dove sembrava che ciascuno sapesse con tanta precisione quel
che voleva, mi sentii molto fuori posto.
Oltre a Simmel9, Wolfflin 10 e
altri, ascoltai anzitutto Adolf "Wagner " e Max Sering".
Con quest'ultimo, che mi sembrò competente circa il problema dei
fedecommessi, fui in seminario, un grande gruppo di lavoro con persone
abili, che avevano una massa opprimente di cognizioni. Ciò procedette
per un certo tratto; poi dovetti convenire con me stesso che non sapevo
combinare nulla neppure con l'economia politica. Come totalità, come
finalità teorica e pratica, non la comprendevo;
perciò anche il particolare, da quella impostazione, mi
era incomprensibile, e io vidi con terrore riemergere la domanda, che
cosa dovesse venir fuori da me. Come potevo dire a mio padre che anche
9
Georg Simmel (1858-1918), filosofo storicista e sociologo, docente a
Berlino dal 1901 e poi dal 1914 a Strasburgo.
10 Heinrich Wolfflin (1864-1945), storico
dell'arte, celebre per i suoi studi sul Barocco, e le connesse teorie
storiografiche, docente a Basilea, Berlino (dal 1901), a Monaco dal 1912
e infine a Zurigo.
n Studioso di economia politica, della stessa
scuola di L. Brentano, vissuto dal 1835 al 1917, docente a Berlino dal
1870.
12 Anch'egli docente di economia politica
(1857-1939); a Berlino dal 1889.
94
con questo secondo studio non riuscivo a niente e, cosa
anche peggiore, che non sapevo che altro fare? Per breve tempo pensai
alia possibilità di applicarmi alla medicina. Ciò che me ne
scoraggiò, fu certo la preparazione scientifica di base. A prescindere
da questo, non sarebbe stata però una vera vocazione, bensì soltanto
una scappatoia. Così il semestre trascorse lentamente sino alla fine.
Fortunatamente avevo almeno il punto fermo religioso;
potevo di nuovo pregare e andare in chiesa. Una domenica ero alla messa
solenne nella chiesa dei Domenicani in OIdenburger-S trasse. Mi trovavo
in uno stato molto critico. Quando vidi il fratello laico incaricato
della colletta, dal volto tranquillo, andare in giro con la sua borsa
tintinnante, lo invidiai vivamente e improvvvisamente mi venne il
pensiero: «Non potresti diventare quello che è lui? Allora avresti
pace». Ma poi il pensiero continuò: «No, non fratello laico, ma prete
potresti diventare!». E fu allora come se tutto divenisse sereno e
chiaro, e andai a casa con un sentimento di felicità che, ad eccezione
di quei giorni di Magonza, non avevo più provato da molto tempo.
Il giorno dopo incontrai nella Biblioteca di Stato il
dott. Moser e gli chiesi se potevo fargli visita. Egli assentì
amichevolmente e, quando la sera andai da lui, quasi la sua prima parola
fu: «Vuoi diventare teologo?». Io non gli avevo ancora detto nulla;
perciò accolsi questa sua domanda, che vero-
95
slmilmente per un conoscitore di uomini non era un gioco
di prestigio, come una conferma. Parlammo allora meglio della questione,
ed egli, che era stato allievo di Hermann Schellu, mi
consigliò di andare a Wùrzburg.
In qualche modo portai il semestre alla fine, guardando
con preoccupazione il momento nel quale avrei parlato con mio padre.
Probabilmente gli avevo già scritto in merito alla questione.
La spiegazione temuta avvenne poi a Magonza. Mio padre,
anzitutto certo ricordando il sacrificio che egli stesso aveva dovuto
fare per amore della sua famiglia, e in genere per la sua bontà, mi ha
sempre lasciato piena libertà, del che posso soltanto essergli sempre
grato. Egli mi giudicava però di carattere instabile, in balia di vari
umori, e perciò fu molto indignato della nuova crisi. Soprattutto non
credeva alla autenticità della vocazione sacerdotale, per la quale
aveva un grande rispetto. Così pretese che io dovessi prima terminare
gli studi di economia politica, e poi, se ancora avessi avuto lo stesso
proposito, passassi a teologia. Questo io non lo volevo in nessun modo,
e alla fine egli cedette.
Mia madre fu molto più risoluta di lui. Essa era
13
Docente di apologetica, arte cristiana, scienza della religione, nato
nel 1850, a Wùrzburg dal 1884 sino alla sua morte, nel 1906. Le sue
opere furono poste all'Indice nel 1898 per tendenze ra2Ìonalistiche,
monistiche e filo-protestanti.
96
devota in un senso del tutto interiore e forte, ma aveva
quasi un'avversione per tutto ciò che era ecclesiastico e clericale;
comunque ne prendeva decisa distanza. Così per lei, credo, il pensiero
che il suo figlio maggiore volesse farsi prete, era semplicemente
molesto, e pretendeva da mio padre, nel caso restassi di questa
opinione, che mi rifiutasse i mezzi per studiare. Ci vollero parecchi
sgradevoli colloqui perché alla fine acconsentisse in qualche misura.
Si poteva divenire preti soltanto in dipendenza di una
diocesi; così la prima cosa che feci fu parlare col mio parroco e gli
dissi anche del mio desiderio di andare a Wùrzburg. Il parroco, dott.
S., parlò dal canto suo con il Rettore del seminario, ed entrambi non
furono molto d'accordo con i miei progetti. Già non trovavano secondo
le regole che io, invece di entrare in seminario, volessi continuare
all'università; però lo concedevano, in considerazione del mio
precedente studio e come periodo di prova. Però si opponevano al mio
proposito di andare da Hermann Schell, del quale poco tempo prima erano
state messe all'indice tutte le opere;
anzi mi raccomandarono di andare a Friburgo, la cui
facoltà era stimata ortodossa, e io feci così.
Friburgo, attualmente pur essa distrutta, era
mirabilmente bella, in modo particolarissimo in primavera ed estate.
Questo, e la coscienza finalmen-
97
tè acquisita di essere sulla via giusta, mi avrebbero
dovuto dare nuova gioia ogni giorno. Ma intanto era avvenuto qualcosa di
singolare e di spiacevole. Man mano che i miei genitori acconsentivano
al mio desiderio di diventare prete, io stesso divenivo su questo
incerto, e quando infine fui a Friburgo, provai contro quella decisione
un'inesprimibile avversione. La vista di un ecclesiastico bastava a
gettarmi addosso una cupa oppressione. Non mi comprendevo più. Oggi so
che cosa si esprimesse in questa avversione, era l'opposizione di una
natura che non aveva goduto la vita in alcun modo, contro le rinunce
necessarie dello stato sacerdotale. Avevo anche portato in me fin da
bambino l'eredità della malinconia di mia madre: eredità che in sé
non è cattiva; è la zavorra che da alla imbarcazione il suo
pescaggio. Non credo che siano possibili una capacità creativa e un
rapporto piuttosto profondo con la vita senza un temperamento
malinconico. Non lo si può eliminare, bensì inserire nella vita: ciò
comporta che nel senso intimo lo si accetti da Dio e lo si volga in bene
per gli altri; ma allora _di tutto ciò nulla sapevo. Le correnti
nascoste della malinconia si levavano tanto alte in me, che credevo di
affondare, e il pensiero di dover chiudere con la vita mi occupava
totalmente. Trovavo la calma soltanto in un luogo, e suona patetico dir
così, ma è vero. Nel Duomo di Friburgo nella navata di destra v'era
l'altare del Sacramento; quando mi inginocchiavo sui suoi gradini,
svaniva l'impressione per poi, certo, poco dopo, addensarsi di nuovo.
98
Quanto tempo sia durata questa crisi depressiva, non lo
so più. Nel ricordo mi si presenta senza fine;
probabilmente però furono non più di due settimane.
Pure non è solo la durata esterna ad allungare un periodo di tempo.
Un giorno ero andato a Sant'Odilia, dove sgorga la fonte
che è salutare per gli occhi. Sulla via del ritorno, che passa a fianco
della Certosa, recitavo il rosario. Colà mi liberai della mia pena, e
divenni sereno. Era il mio primo incontro reale con questa preghiera,
che in seguito mi doveva tanto impegnare 14. Da quell'ora non
ho più dubitato circa la mia vocazione sacerdotale. L'onda scura della
malinconia è bensì sempre fluita sotto la mia vita e più di una volta
è montata; ma io avevo chiara coscienza d'essere chiamato ad essere
prete e l'ho mantenuta fino ad oggi.
Lo studio mi procurava gioia. Ascoltavo le lezioni del
teologo dogmatico Cari Braig ", dello storico della Chiesa Franz
Pfeilschifter 16, dell'archeologo August Sauer " e di
altri. Tuttavia ulteriormente rimanevo indifferente. In me era assopito
ancor sempre quel centro più proprio e autentico, solo a
14
Guardini scrisse su di essa un'opera: Der Rosenkram unserer lichen
Frau, Werkbund-Verlag, Wùrzburg (trad. ital. Il Rosario della
Madonna, Morcelliana, Bresda 19.592).
15 V. nota 7 della parte i.
10 Georg (non Franz!) Pfeilschifter (1870-1936) fu
docente a Friburgo dal 1903, poi a Monaco dal 1917 ed ivi Rettore
dell'Università nel 1922-23.
17 Joseph (non Augusti) Sauer (1872-1949) fu
docente di archeologia cristiana a Friburgo dal 1916, ed editore della
rivista «Literarische Rundschau» (1905-1916).
99
partire dal quale si può realmente entrare in movimento
e divenire creativi.
Allora feci conoscenza con due teologi olandesi, che
abitavano nel Collegium Sapientiae. (Uno di loro, Bernhard
Rosenmoller18, in seguito ha rinunciato alla teologia e oggi
è professore di filosofia della religione a Breslavià.) Tramite essi
entrai in contatto più ravvicinato con le questioni teologiche di
allora e avvertii il desiderio vivace di sentire in merito più notizie
di quanto fosse possibile a Friburgo. Così mi decisi ad allontanarmi di
là e a recarmi a Tubinga.
Vorrei ancora aggiungere che allora, per alcuni disturbi
di gola, andai dal dott. von Eick19, allora libero docente,
ed egli mi propose un intervento al setto nasale. Acconsentii,
scioccamente, perché l'operazione non mi giovò in nulla, ma solo
guastò il naso. Per la convalescenza mi trattenni nella cllnica
dell'Università, dove le cure erano affidate a Suore di carità. Allora
per la prima volta ho fatto conoscenza dell'atmosfera del convento. In
rapporto con la chiarezza intcriore da poco conquistata, questo mondo di
ordine tranquillo e di servizio 'silenzioso mi fece un'impressione
profonda. In seguito, sono venuto ancora in contatto più volte con
» B. Rosenmoller (1883-1974) insegnò a Munster (1930),
Braunsberg (1934) e Breslavià (dal 1937); fu fondatore e direttore
della Padagogische Akademie di Paderbom (1947-1949), professore
onorario dal 1947 ed emerito dal 1959 a Munster.
19 Si tratta in realtà del prof. Cari Otto von
Eicken (1873-1960), poi docente di otorinolaringoiatria a Giessen (1910)
e Berlino (1922).
100
questo mondo, ho fatto pure alcune esperienze non
gratificanti, ma ho sentito sempre, nel più profondo, un grande senso
di stima per esso.
VI
II mio desiderio di cambiare di nuovo l'Università fu
accolto con qualche scrollata di capo tanto da mio padre quanto dal
parroco dott. S., e non posso dar loro torto. Il mio comportamento
doveva necessariamente far loro l'impressione dell'irresolutezza. Io ero
facilmente impressionabile — d'altronde solo nei particolari, non
nella dirczione di fondo; di questa però avevo consapevolezza solo in
negativo, poiché la mia natura si ribellava a questa e a quella
prospettiva. Portavo in me potenzialità più numerose e più
contraddittorie, di quanto suole avvenire in generale, e dovevo
conquistarmi solo gradualmente quella chiarezza univoca che gli altri
portano con sé a priori. Ma quest'ultima poteva verificarsi
soltanto a partire dalla chiarezza della mia missione ed io ancora non
la possedevo. Soltanto dopo che avevo acquisito stabilità nell'ambito
religioso e avevo trovato la mia vocazione, cominciò a delinearsi
quella coscienza di ciò che era giusto in via ultimativa e a me
assegnato, che poi mi ha pure realmente guidato. In base ad essa mi si
era prospettato come del tutto giusto decidere di lasciare Friburgo. Là
non avevo trovato nulla che mi servisse. Ciò che mi attirava a Tubinga
era la notizia che il locale docente di dogmatica, Wil-
101
helm Koch20, era un teologo «moderno» —
ed oltre a ciò l'attaccamento alla piccola città, nella quale avevo
trascorso parecchie ore difficili, e a cui tuttavia mi ero
affezionato... Contro Tubinga non seguirono obiezioni, perché di Koch
non si sapeva nulla, altrimenti si sarebbero poste certamente innanzi
ammonizioni ancor più decise di quelle contro Wùrzburg. Ma che mio
padre acconsentisse, fu una rinnovata prova della sua bontà.
Perciò mi recai a Tubinga nell'autunno 1906, e i tré
semestri che passai nell'università sveva, furono il più fortunato e
fecondo periodo di tutti i miei studi. Già in qualche modo simbolico fu
il fatto che per la prima volta avessi una bella camera nella silenziosa
Gartenstrasse, presso l'anziana sorella di un pastore protestante
defunto, che affittava una camera come supplemento alle sue certo
limitate entrate. Per la vecchia signora tutto ciò che era cattolico
era terribile, tanto più che suo nipote, che abitava anch'egli presso
di lei, studiava teologia protestante. Perché mi avesse preso
nonostante ciò, non lo so; in ogni caso ci intendemmo molto bene.
Nella cara vecchia città mi trovavo infinitamente bene;
essa allora non aveva subito ancora nessu-
20
Docente di dogmatica e apologetica, vissuto dal 1874 al 1955, prima a
Tubinga (1905-1910), poi per conflitti di origine dottrinale con il
vescovo Keppler e il rettore del Seminario di Rottenburg, rinunziò alla
cattedra e fu parroco a Lillà e poi sacerdote in vari luoghi. Guardini
gli dedicò il suo volume Christliches Bewusstsem (1935; trad.
ital. Pascal, Morcelliana, Brescia 19803).
102
na modernizzazione. L'Università era la sua realtà
principale, e ne determinava tutta la vita. Se non erro, aveva 15000
abitanti e vi venivano in più 1500 studenti. Durante le vacanze, quando
«i signori» erano assenti, ciò mutava la situazione in modo tanto
notevole, che parecchie merci nei negozi non erano più neppure
disponibili. Dalla Collegiata ogni giorno ad ore fisse si eseguiva la
corale, e nel tempo di Avvento nell'oscurità della prima mattina i Pauperle
[i «poverini»], cioè i fanciulli dell'orfanotrofio, con cappucci e
lanternini passavano di casa in casa cantando le canzoni di Natale, allo
scopo di raccogliere poi per la festa le offerte della gente. Eccettuate
poche strade, la città era vecchia; la stazione ferroviaria stava
sull'altra sponda del Neckar e non stonava. I dintorni di Tubinga
avevano pure una toccante grazia sempre nuova. Il precedente dei primi
due semestri con il loro disagio passato faceva il presente anche più
bello:
quante volte sono passato di sera per le vecchie strade,
felice di ogni svolta e di ogni casa!
A Tubinga mi sono dunque davvero propriamente svegliato
interiormente; ho amato dall'inizio il temperamento svevo e, credo, l'ho
capito benissimo. Il nesso tra intelligenza e sentimento, tra energia e
discreta intimità, tra serietà e vivace e talvolta davvero rozzo
umorismo, mi è sempre piaciuto.
Presto trovai amici. Anzitutto Josef Weiger",
21 A
J. Weiger (1882-1966), sacerdote a Mooshausen, di cui Guardini era
ospite nel periodo in cui scriveva queste note,
103
che da poco aveva lasciato il noviziato di Beuron e
iniziato i suoi studi teologici, e da allora fu mio compagno di cammino
sino ad ora. Dopo un semestre venne Karl Neundórfer, che nel frattempo
aveva sostenuto l'esame di Stato in legge e si era pure deciso per lo
studio della teologia. Egli, Josef Wei-ger ed io siamo stati in
comunione in un modo che non capita certo di frequente; e perché Karl
Neundórfer dovesse morire nel 1925, sino ad oggi non l'ho compreso.
Così diversi per temperamento, come eravamo uniti nell'essenziale, ci
completavamo perciò mirabilmente. A una cerchia più ampia
appartenevano Hermann Hefele 2, nipote del grande vescovo di
Rottenburg, che più tardi in seguito alle difficoltà del modernismo
lasciò gli studi teologici, studiò storia e infine morì professore a
Braunsberg;
Philipp Funk a, che prese la stessa via e poi
fu docente di storia a Friburgo come successore di Hein-rich Finke;
Josef Heilmann, che poi andò a Monaco e vi divenne ben noto per la sua
attività pubblicistica e redazionale, ed altri ancora.
Fra i professori ascoltai Ludwig Baur24 per
la
fu dedicato, tra gli altri, il suo volume Die Mutter
des Herrn, 1935 (La Madre del Signore), come «al compagno di
cammino attraverso mezzo secolo».
22 Hermann Hefele (1885-1936) fu docente di storia
a Braunsberg dal 1929, e nipote di Karl Joseph Hefele, vescovo di
Rottenburg e celebre storico della Chiesa (1809-1893), docente a Tubinga
e autore della Storia dei Concilii in sette volumi.
" Storico (1884-1937), prima a Braunsberg (1929),
poi dallo stesso anno a Friburgo in Br.
24 Docente di filosofia e filosofia scolastica
(1871-1943), a Tubinga (1903), poi a Breslavia (1925), emerito dal 1936.
104
Slosofia scolastica, Frank Xavier Funk M, che
morì durante il mio soggiorno colà, per la storia della Chiesa; J.E.
Belser26 per l'esegesi neotestamentaria e J. Vetter27
per l'introduzione all'Antico Testamento. Ma la personalità più
importante era Wilhelm Koch, che da ancora non molto tempo era stato
chiamato a succedere a Paul Schanz, come docente di dogmatica. Di lui
devo dire di più.
Anzitutto, dirò che è stato lui a liberarmi
dall'angustia della coscienza scrupolosa. Come già ho riferito, mi
aveva dato preoccupazione sin dalla fanciullezza; nel primo periodo di
Tubinga era divenuta insopportabile. Che i miei nervi per lungo tempo
siano stati così deboli e che in fondo, non si siano mai ristabiliti,
lo ascrivo in buona parte a questa dissennata autodistruzione. Essa è
connessa con l'indole malinconica e può, nella misura in cui rende
l'uomo serio, in certo grado avere effetti positivi. Ma per il resto
essa vale solo a distruggere giudizio ed energia, prescindendo inoltre
dal pericolo di una sorta di corto circuito interno, che spinge
l'angosciato all'estremo opposto, così da sbarazzarsi di tutte le
inibizioni. Ora Koch aveva l'abitudine di ascoltare le confessioni, di
un limitato numero di studenti. Noi, Karl Neundorfer, Joseph
s Uno
dei «capi» della cosiddetta Scuola di Tubinga, storico vissuto dal
1840 al 1907, successore di K.J. Hefele e docente dal 1870 alla morte.
. a Docente di esegesi neotestamentaria dal
1899, vissuto dal 1850 al 1916.
rì Paul Alexander (non J.) Vetter (1850-1906)
insegnava a Tubinga dal 1893.
105
Weiger ed io, lo pregammo di questo favore, ed egli ci
accettò. La confessione presso di lui si svolgeva in questo modo: si
andava da lui in un'ora determinata ed egli camminava col penitente su e
giù per la stanza, e lasciava che gli raccontasse tutto quello che
aveva in cuore, sia che riguardasse la scienza o la pratica, la
religione e la morale, come veniva, e diceva quello che ne pensava. Poi
prendeva la stola, riassumeva in breve i dati di fatto, e dava
l'assoluzione. Allora ho sperimentato quale meravigliosa forza vitale
sia il sacramento della Penitenza, quando viene amministrato in modo
giusto. Imparai a prendere una posLzione ferma di fronte all'angoscia, a
distinguere l'importante dal non importante e a vedere i compiti veri e
propri della formazione religiosa e del carattere. Come fosse originale
Koch lo dimostra un consiglio che ci diede. Avevamo a che fare, e del
resto non può mai essere diversamente, col problema sessuale, ed egli
vide di quante nebulosità era gravato. Perciò mandò uno di noi da un
professore di psichiatria, per chiedergli che fosse così gentile da
segnalarci un buon libro sulle questioni sessuali. Ciò era un poco
rischioso, poiché il «Collega G.» era tutt'al-tro che
cristiano; perciò ci raccomandò Die sexuel-le Frage di ForelM.
Ma il libro trattava l'argomento con una tale disinvoltura e ampiezza di
particolari, che ci servì nel modo migliore: tanto più che, poi-
28
Auguste Forel, docente a Zurigo (1848-1931), psichiatra, pubblicò
questo testo in prima edizione nel 1905; nel 1942 ne usci una xvil
edizione!
106
che lo leggemmo insieme ad alta voce, così svanì
radicalmente l'incantesimo di tutta la questione. Questa libera2Ìone
intima contribuì a rendere i semestri di Tubinga così essenzialmente
buoni. Naturalmente con ciò non voglio dire che l'angoscia fosse
totalmente sparita; là dove essa realmente proviene dalla natura,
continua ancor sempre, come possibilità, a scorrere al di sotto della
superficie. Ma io ho guadagnato una posizione ferma e son divenuto
capace di giudicare e di distinguere. Questo è più di quanto sia mai
in grado di apprezzare uno che ne sia a -priori capace.
Ancora più importanti furono però per me di Wilhelm
Koch le lezioni. La sua forza migliore erano l'onestà e la
coscienziosità. Non era un grande teologo, gli mancava per esserlo lo
sguardo all'essenziale e la forza di sintesi; ma per lui la verità era
una cosa talmente seria, che si avvertiva come essa si identificasse,
nel suo caso, con la sua stessa personalità.
Era allora il periodo del cosiddetto modernismo.
Soprattutto si affermava la tendenza ad applicare in teologia i dati
della ricerca scientifica moderna e così a oltrepassare un tipo di
pensiero autoritario-scolastico irrigiditesi in ampia misura; si
coglievano dappertutto questioni di tipo gnoseologico-critico, storico,
etico. Contemporaneamente si notava anche l'influsso dell'atteggiamento
liberale, e tendenze agnostiche, relativistiche, psicologistiche
divenivano in più luoghi un pericolo per la fede e la teologia. In
questa situazione agitata vennero nel 1907
107
le dichiarazioni papali dell'Enciclica Pascendi
dominici gregis e del cosiddetto Sillabo z>. Esse
implicarono una gran quantità di condanne e misero in grave difficoltà
chi fosse coinvolto nelle suddette questioni.
Questo era il caso anche fra la parte più vivace degli
studenti; ma il significato importante del corso di dogmatica di Wilhelm
Koch consisteva in ciò, che quanto si agitava nel loro spirito, e che
altri schiacciavano sotto il peso dell'autorità, ovvero intimidivano
col pathos dell'incondizionatezza della fede, egli enunciava
apertamente e onestamente sulla cattedra. Questo ci rendeva liberi.
Vi si aggiungeva che egli era avversato dal Seminario
ecclesiastico di Rottenburg e precisamente combattuto dal suo Rettore di
allora e certo — i peccati tanto frequenti dell'ortodossia! — in
modo non molto elevato. Così per noi era un uomo che rendeva
testimonianza alla verità, un combattente per cui si preparava una
sventura, e prendemmo con tutto il cuore la sua parte. Inoltre egli era
spesso maldestro nel suo modo di esprimersi, e confessava le sue
difficoltà e i suoi dubbi anche là dove non era ne necessario ne
opportuno. Ho ancora dinanzi agli occhi il modo in cui dopo la
pubblicazione del Sillabo stette in cattedra e diede conto ai suoi
ascoltatori — fra cui alcuni erano per-
29
Riassunto delle proposizioni moderniste condannate dalla detta
Enciclica, da non confondere col documento solitamente citato come il
Sillabo, che è del 1864 e riguarda la condanna del liberalismo e dell'indifferentismo
religioso.
108
sone totalmente immature, ma altri anche osservatori
appositamente inviati - dei punti in cui egli si sentiva colpito dal
decreto papale! Quante volte ce ne siamo stati a riflettere e
preoccuparci per lui!
Certamente di quello che diceva parecchio era errato e
molto fuori luogo, certamente egli ha anche causato a molti
inquietudine; ma ad altri ha con la sua onestà purificato lo spirito e
reso indipendente il giudizio. Una deficienza più profonda era che
vedeva quasi soltanto il fatto storico-biblico, e gli mancava la
capacità di penetrare nell'essenza e dischiudere la ricchezza delle
connessioni. In lui, da ciò che si chiama teologia positiva, su queste
basi, non si andava molto innanzi. A tal proposito fu il primo, a quanto
io so, che si pose la questione del valore di vita dei dogmi; certo in
modo inadeguato, per una utilizzabilità di corto respiro, ma lo fece.
Nella sua indole v'era una certa grettezza. Per ogni rispetto si
avvertiva in lui una diligenza piena di abnegazione, una grande
responsabilità verso il sapere, un'esigenza di giungere a ciò che è
reale: ma gli mancava ogni grandezza teologica. Aveva troppo rispetto
per la «scienza» come allora era concepita; e perciò troppo scarsa
coscienza della rivelazione, come realtà e forza donanti, da cui trarre
con fiducia di che costruire quell'immagine della nuova creazione che si
chiama teologia. Così il risultato finale delle sue lezioni era
tuttavia insoddisfacente, e più di un ascoltatore le lasciava con la
sensazione che Koch l'avesse
109
strappato dalla tranquilla sicurezza delle concezioni
tradizionali senza dargli nulla di corrispondente in cambio.
A noi tré amici ciò accadde in modo particolare.
Provammo l'efficacia liberatrice della serietà nella ricerca della
verità da parte di Wilhelm Koch, lo amammo e sostenemmo, sin dove
potemmo, ma in-teriormente ce ne staccammo. Joseph Weiger veniva da una
famiglia credente, di antica tradizione cattolica. Poi era stato novizio
a Beuron e aveva interiorizzato l'atteggiamento benedettino. Era stato
bensì nemico della mancanza di libertà e d'ingegno del
tradizionalismo, e il modo in cui Koch ricercava e parlava fu per lui
una prosecuzione della efficacia liberatrice di Beuron; ma egli non
pensava di dover abbandonare la profondità religiosa e la forza
autorevole della tradizione. Karl Neundórfer esigeva in tutto una via
chiara, perciò era a lui bene accetto ogni sforzo che rimuovesse il
falso e mettesse in ordine ciò che era fuori posto. Ma aveva
sperimentato vitalmente ciò che significa «Chiesa». Egli non poteva
percepirla, come certo invece si fi-'niva per fare da Koch, come limite
e chiusura, anzi essa per lui era il punto centrale. Infine per quanto
riguarda me, avevo scoperto il fatto della verità oggettiva e la
possibilità di un'esistenza vissuta a partire da essa. E mi era chiaro
che dovevo essere o un cristiano cattolico, e allora interamente, senza
alcuna riduzione, oppure proprio nulla. Cosicché avvertii il pensiero
di Koch come aria pura e chiaro
110
spazio; esso rendeva seri e insegnava ad applicarsi, ina
da sé solo era semplicemente troppo poco.
Sperimentammo con gratitudine la liberazione che la
seria sollecitudine per la verità del nostro maestro produceva. Ci
rendemmo consapevoli del dovere della critica, che discendeva appunto da
questa volontà di verità. Ma riconoscemmo anche che tale critica
esisteva in Koch a livello meno importante, ma in quello più importante
mancava. Certamente era importante porre questioni ston-che,
psicologiche, di critica testuale, per distinguere il vero dal falso; il
compito principale della critica teologica consisteva però in una
distinzione della essenza della conoscenza teologica sulla fede da
quella delle altre forme conoscitive e scientifiche;
nel fondarla nella sua fonte, nel fissarne i criteri
normativi, e nel trarre tutte le conseguenze dalla sua essenza. Noi
scoprimmo - prendendo questa parola nel senso della prima visione
consapevole della portata dell'oggetto — la rivelazione come il
«fatto originante» della conoscenza teologica, la Chiesa come sua
portatrice, e il dogma come ordinamento del pensiero teologico.
Sicuramente in ciò ha contribuito la differenza generazionale; eravamo
decisamente non liberali. Noi prendemmo come base del pensiero proprio
ciò che l'atteggiamento liberale aveva ritenuto elemento di disturbo e
vincolo, e facemmo l'esperienza che attraverso questa «rivoluzione
copernicana» dello spirito credente ci si dischiudeva la profondità e
pienezza della sacra ve-
111
rità; inoltre ci si era offerto uno sguardo
sull'ampiezza e realtà del mondo che l'atteggiamento liberale, con la
sua costante attenzione di sbieco verso la scienza profana e la sua
inasprita opposizione contro l'autorità della Chiesa, non aveva.
Se fossi stato abbandonato a me stesso, l'esperienza
dapprima della mia perplessità sprovveduta e poi quella conversione di
pensiero mi avrebbero verosimilmente fatto divenire un fanatico. Da ciò
Wilhelm Koch - e ambedue i miei amici - mi preservarono e mi aiutarono a
porre in relazione l'in-condizionatezza del pensiero credente con lo
sguardo senza prevenzioni sulla realtà delle cose e sulla ricchezza
della cultura.
Nei tré semestri di Tubinga raggiunsi ciò che
precedentemente avevo cercato invano: il chiaro punto di partenza del
pensiero e insieme la incommensurabilità del suo compito; un'atmosfera
e un ordine, un «mondo» in cui ciò che in me voleva divenire creativo
si potesse manifestare. Allora vennero poste le basi di tutto ciò che
venne poi e si ' va sviluppando ancor sempre.
Potrei aggiungere che allora mi mancava il senso
dell'elemento storico. Per me si dava solo l'idea, il principio, lo
sviluppo della connessione essenziale. A ciò che non «deve» essere,
ma è, e porta nella sua realtà la dignità dell'irrevocabile e del
decisivo, avrei applicato senza esitazione la frase che udii poi una
volta, di Charles Maurras: «II n'y a rien de
112
plus méprisable qu'un fait»30. D'altro
canto vedevo l'imponente fatto della Chiesa, ma in un modo e con un
carattere di cui ancora dovrò parlare in diverso contesto. La realtà
di Cristo e con essa tutto ciò che si chiama esistenza storica
cristiana, doveva aprirsi a me per la prima volta più tardi. Ma era
solo questione di tempo: la via per giungervi era libera.
Ancora qualcosa si riferisce al tempo di Tubin-ga:
l'abbazia di Beuron. Josef Weiger era venuto di là e mi raccontava
della vita nella comunità mo-nastica; di tutta l'originalità e forza,
che cresceva in mezzo a quella rigorosa disciplina; dell'arte di Beuron,
che era allora nel suo fiore e soprattutto della liturgia di Beuron.
La mia prima visita colà mi è rimasta profondamente
impressa nella memoria. Era sera; andammo dalla stazione direttamente
nell'Abbazia e ricevemmo le nostre camere, cosa che rendeva allora la
permanenza in essa così calda e viva, non nell'ala degli ospiti, che
ancora non esisteva, ma nel chiostro stesso; stanze nella loro
semplicità molto accoglienti, con molto legno scuro, e un che di non
descrivibile, che faceva sì che ci si sentisse profondamen-
30
«Non v'è nulla di più disprezzabile di un fatto». Charles Maurras
(1868-1952) fu scrittore e uomo politico francese di tendenza
nazionalista, fondatore del movimento «Action fran-caise», sconfessato
dalla Chiesa nel 1926, Accademico di Francia e infine consigliere del
governo collaborazionista di Vichy, e condannato dopo la sconfitta
nazista.
113
tè a proprio agio; Poi ricevemmo qualcosa da mangiare,
e andammo a compieta. La chiesa era già scura, solo poche luci nel
coro. I monaci stavano in piedi ai loro posti, e intonavano a memoria i
bei Salmi della compieta che allora era sempre eguale. In tutta la
chiesa dominava un mistero insieme di santità e di salvezza. In seguito
avrei constatato che la liturgia ha in sé molto di più potente e
soggiogante; ma dapprincipio la porta della compieta immette più
profondamente nel cuore del suo sacro mondo, che i portali delle grandi
azioni liturgiche.
Poi vi si aggiunsero la Messa solenne e le rimanenti ore
liturgiche. Tramite Wilhelm Schleussner avevo preso conoscenza di
parecchio della mistica tedesca e la amavo; ma avevo sempre pensato che
vi dovesse essere necessariamente pure un'altra mistica, in cui
l'intimità del mistero fosse legata alla grandezza delle forme
oggettive: la trovai a Beuron e nella sua liturgia.
Era allora il 1907 e il movimento liturgico aveva in un
primo tempo raggiunto soltanto piccoli gruppi. Con i colloqui con Josef
Weiger però, e dal -soggiorno a Beuron, avevo conosciuto già molto di
quello che in essi avveniva, e assunto profondamente entro i miei
procedimenti di pensiero teologico il fatto liturgico. Il luogo intorno
al quale ruotavano continuamente i miei pensieri era la Chiesa, la
misteriosa realtà, che sta così profondamente entro la storia, eppure
è garante dell'eterno; esposta a tutte le differenziazioni dell'umano,
eppure integra e santa, in modo tale da riempire chi la
114
guardi in atteggiamento comprensivo della coscienza del
miracolo. Ed ora Karl Neundorfer ed io ritenevamo che la vita della
Chiesa dovesse poter essere colta anzitutto da due prospettive, da
quella sociologico-giuridica, come la comunione nell'azione e nella
lotta, e da quella liturgica, come unità dell'agire contemplativo,
orante. Attraverso questi due aspetti correrebbe il terzo aspetto della
Chiesa come custode della verità divina, sempre via via posta in
pericolo dal volere e disvolere umano. Allora concepimmo il piano,
volevamo cioè in seguito presentare una volta che cosa significasse
«Chiesa»: egli doveva lavorare dal lato del diritto canonico in un
volume del tipo di quello di Rudolf Jhering31 Geist des
rómischen Rechts (Spirito del diritto romano); io dal lato della
liturgia, come fonte e forma della vita contemplativa. Da questo piano
mi si sono formati non certo la prevista grande Teologia della
liturgia, ma tuttavia parecchi scritti, come Lo spirito della
liturgia, La formazione liturgica a, altri ancora.
31
Rudolf von Jhering (1818-1892), celebre giurista e storico del diritto,
pubblicò il suo capolavoro, Der Geist des rómischen Rechts auf den
verschiedenen Stufen seiner Entwickiung, in 4 voli. a Lipsia,
1852-1865 (v'è trad. frane. L'esprit du Droit Romain dans les
diverses phases de son developpement, voli. 4 riuniti in due. Forni,
Bologna, rist. anastatica dell'ed. 1886-1888).
2 Vom Geist der Liturgie, cit. e trad. ital.
cit.; Litwgische Bildung. Versuche, Burg Rothenfeis 1923.
115
VII
Dopo aver studiato teologia all'università per quattro
semestri, era tempo per me di entrare nel Seminario di Magon2a.
Ma nell'ultimo periodo di tempo avevo avuto disturbi
nervosi di ogni specie; gli avvenimenti inferiori degli ultimi anni non
erano appunto rimasti sen2a effetto. Mi feci visitare e ricevetti il
consiglio di riposare. Mio padre non accettò l'idea che un giovane
potesse aver bisogno di una vacanza, ma suppose invece che avessi
il desiderio di mettere ancora una volta alla prova la mia vocazione
sacerdotale, e fu d'accordo su ciò. Così andai nel piccolo villaggio
di Schmitten nel Taunus e vissi colà alcuni mesi da solo tra belle
valli e foreste. Il mio diario di quel periodo potrebbe raccontare di
una vita buona e felice, ma pure visitata da insoddisfazioni di vario
genere. Ma da qualche anno l'ho bruciato con tutte le restanti
annotazioni di questo tipo.
Nell'autunno seguente entrai nel Seminario di Magonza.
Ho spesso ripensato alla bellezza che potrebbe avere
questa istituzione. Essa era qualcosa di totalmente diverso da una
università. A questa manca la chiarezza delle prese di posizione
definitive, e da ciò deriva in tutto una intima perplessità e
debolezza; il mondo del seminario si fonda sulla verità
116
sacra, sulla sua chiarezza e forza. L'università è per
se stessa molto grande e sta nello spazio generale della città, e così
perde l'unità ultima e la forza formativa dell'atmosfera; il seminario
è più piccolo, ma proprio perciò forma un'unità vivente, un
«mondo». Scienza, vita religiosa, educazione morale, comunione umana
si legano fra loro e si risveglia ciò che appartiene alle potenze
formative più forti: una struttura complessiva di formazione, radicata
nella tradizione. I seminaristi sono dei giovani, di regola, chiaramente
consapevoli di ciò che vogliono, e pronti a dedicarsi al compito più
alto. In seminario è l'assistente spirituale, un sacerdote, che insegna
loro a lavorare entro se stessi, a pregare, ad avvicinarsi maggiormente
a Dio. L'antica tradizione della Chiesa gli offre saggezza; il suo
sentimento per ciò che è la personalità cristiana, gli insegna a
condurli all'indipendenza morale, alla genuina esperienza religiosa, in
una parola, alla libertà cristiana. Un gruppo di uomini, i loro
docenti, insegnano loro a filosofare, cioè a porsi domande sull'essenza
delle cose, e a sperimentare quella potenza originaria che sostiene
tutto il resto, e che si chiama verità. Essi insegnano al loro spirito
a effettuare quella svolta decisiva, nella quale esso impara a pensare a
partire dalla rivelazione e diviene capace di vedere rottamente nella
sua luce le cose del mondo e della vita, così che ne sorga la coscienza
cristiana. I docenti mostrano loro come si lavora, li conducono ai
problemi, li rendono capaci di un giudizio proprio, e contemporanea-
117
mente insegnano loro ciò che soltanto la fede può
serenamente sostenere, cioè le questioni che l'uomo da solo non può
risolvere... Infine qui v'è il capo dell'intero organismo, il rettore,
che mantiene nell'ordine tutto questo ambito di giovane vita, non per
soffocare alcunché, bensì per condurre tutto a un dispiegamento
migliore. Egli conosce ciascuno in particolare, segue il suo sviluppo ed
è pronto a intervenire quando sia necessario. Suo assistente è il
vice-rettore; più giovane, in modo da avere ancora vivi rapporti con
gli studenti; ma d'altro canto rispetto a loro interiormente progredito,
in modo da poter costituire un collegamento fra loro e il rettore.
Dietro tutto sta il vescovo, che ama il seminario come il «vivaio» dei
sacerdoti, piuttosto spesso vi entra, parla con i singoli, e da loro la
sensazione che essi crescono entro la vivente unità della Chiesa.
In tutto v'è un ordine chiaro e deciso; un'autorità
che ottiene e merita obbedienza perché parla con la forza della Chiesa.
Ma essa è indirizzata in modo da fare, dei giovani, personalità, da
condurli all'indipendenza del giudizio e alla sicurezza dell'agire.
L'ordine della piccola comunità è in molte occasioni a loro stessi
affidato, in modo che divengano capaci di assumersi responsabilità e
aver rapporti con gli uomini... Si richiedono continuamente sacrifici ai
giovani teologi, giacché essi debbono invero divenire sacerdoti, e il
sacerdote non è tale per sé, ma per la causa di Dio e per gli uomini.
Il seminario però non è un monastero; quelli che vi si
118
formano, debbono poi stare nel mondo. Debbono essere
capaci di vedere e di valutare ciò che è valido nel mondo, di non
opporsi ad esso con un risentimento, che avvelenerebbe il loro
insegnamento e la loro azione. Devono conseguire il senso della
qualità, affinchè esso operi efficacemente anche nel loro annunzio
cristiano. In seguito dovranno molto lavorare e loro abbisogna un
arricchimento dello spirito, oppure stare in un luogo solitario, dove
incombe il pericolo dell'inaridimento: in ambedue i casi debbono
conoscere l'accesso alla cultura nobile e poter attingere ai suoi
tesori.
Perciò gli uomini che li guidano debbono essere i
migliori che si trovino; quindi non ogni diocesi può avere un
seminario, poiché in tal caso la scelta è troppo esigua e tutto il
campo di visuale è troppo piccolo, bensì parecchie diocesi, le cui
possibilità corrispondono al compito, debbono insieme organizzarne uno.
Dopo la conclusione degli studi e la consacrazione sacerdotale, i
singoli torneranno nella loro diocesi per vivere colà nella forma di
una piccola comunità ancora per un certo tempo sotto una guida adatta,
per esser così introdotti meglio nelle speciali tradizioni ed esigenze
della loro diocesi. Contemporaneamente il seminario sta in rapporti di
scambio con le università, e forse in particolare in relazioni
amichevoli con una di esse. Costantemente, sia nel corso degli studi,
sia dopo la loro conclusione,, singoli studenti vengono inviati
all'università, cosicché i, due tipi fondamentali di
119
formazione spirituale rimangono in contatto vitale fra
loro.
Tutto ciò forse sembra utopistico — eppure, io credo,
non lo è. Ed anche se lo fosse, le «utopie» nel corso della storia
umana sono state le forze più efficaci, poiché esse esprimono quelle
forme di perfezione cui l'uomo ritiene valga la pena di aspirare. Potrei
pensare che un tal tipo di seminario fosse ancor oggi veramente attuale.
In ogni caso a Ma-gonza si rintracciava poco di un seminario simile.
Sono ora trentacinque anni che l'ho lasciato, e sicuramente molto vi è
cambiato; quello che dico non riguarda perciò la sua situazione
attuale, che io non conosco. Le lezioni si mantenevano interamente
nell'ambito del convenzionale. Di una formazione che promuova al
giudizio personale e alla capacità viva di responsabilità non si
parlava neppure; autorità e obbedienza erano non solo le basi, ma
tutto. Come non poteva essere diversamente, l'educazione poggiava su di
una sistematica diffidenza e sorveglianza, che scendeva sino al
particolare.
Con ciò la bellezza che deve necessariamente sorgere in
una comunità di questo genere, la vita inferiore, la preghiera, le
conquiste di vario genere insieme a tutta quella letizia che ne
scaturisce ecc., non devono assolutamente venir trascurate. Io stesso ho
avuto colà molte ore buone, tali da stimolare la mia interiorità. Ma
in generale esso rimase per me una oppressione; non è casuale che io vi
120
sia divenuto sofferente di stomaco e da allora lo sia
rimasto per tutta la mia vita. Un episodio vissuto mi resta
indelebilmente nella memoria. Sin da tutta la mia formazione e in
particolare dalle esperienze di Tubinga in poi avevo esercitato ogni
sorta di critica; di ciò molto sicuramente era superfluo e parecchio
ingiusto; ma appunto la saggezza non è all'inizio, bensì alla fine.
Inoltre io avevo manifestato questo atteggiamento critico soltanto ad un
compagno di studio, in cui avevo fiducia. Ora dovetti constatare che
egli aveva sottoposto quello che egli avevo detto all'assistente
spirituale; poiché questi aveva comunicato la cosa al Rettore, un
giorno fui chiamato da quest'ultimo a risponderne e per un pelo non fui
escluso dall'ordinazione. Chi mi denunziò non lo fece per danneggiarmi,
e nemmeno per procurarsi un vantaggio, ma perché credeva che ciò fosse
suo dovere, e certamente con riluttanza ulteriore. Ma tutto ciò
dimostra una tale mancanza di considerazione per la fiducia e
l'amicizia, una tale mancanza di sincerità, apertura e dirittura, che
ancora oggi dopo trentacinque anni non riesco ad accettarlo. Ma non era
un caso isolato, bensì un sintomo dello spirito e metodo di tutta
l'educazione.
Per quanto mi concerne, ne trassi parecchi insegnamenti,
ma avrei anche potuto perdere ogni fiducia ed essere alienato dalla mia
stessa vocazione. Se ciò non avvenne, lo devo al fatto che il mio amico
Karl Neundórfer condivise il medesimo destino;
ed inoltre alla comprensione, esperienza e pazienza
121
che in quel periodo mi dimostrarono gli Schleussner
marito e meglie. Così la cosa passò senza catastrofe. Noi fummo
ordinati sacerdoti, per punizione, certo, con sei mesi di ritardo, ma
pure lo fummo, in un giorno di maggio 1'910.
Una circostanza propizia mi permise di celebrare la
prima Messa con tutta tranquillità. Io e Karl Neundórfer a Magonza
appartenevamo alla stessa parrocchia; poiché egli voleva celebrare la
prima Messa con ogni solennità, indusse il parroco a lasciarmi libero,
in caso diverso questi non si sarebbe lasciato sfuggire l'evento. I miei
genitori, specialmente mia madre, avevano avversione a queste cose. Dopo
che si erano riconciliati con la mia vocazione sacerdotale ed avevano
iniziato ad esserne lieti, mi sarebbe dispiaciuto pretendere da loro una
manifestazione pubblica di religiosità che fosse contraria al loro
sentimento.
Così celebrai la mia prima Messa nella cappella delle
Francescane. Con loro — veramente povere Fi-glie di San Francesco —
la nostra famiglia aveva sempre avuto buoni rapporti. In particolare mi
ricordo di una di loro, che di anno in anno veniva da noi con la sua
borsa da mendicante, e con la quale mia madre, che era sempre molto
riservata con tutte le persone ecclesiastiche, parlò di parecchie cose
circa le quali altrimenti non avrebbe parlato. Così la festa fu
semplice e bella. Il calice, che allora usai per la prima volta e ancor
oggi possiedo, mi fu donato dai miei genitori. Era una creazione
122
di Beuron, e rappresentò un ricordo permanente del
luogo in cui per la prima volta mi era divenuta chiara l'essenza della
liturgia.
Quel giorno ebbero una grande gioia anche quelle due
persone che erano state per me quasi genitori spirituali, cioè i
coniugi Schleussner. Sentirono l'avvenimento come coronamento di molta
pazienza e cura da loro avuta per me nel corso di parecchi anni. Molte
belle possibilità svanirono quando la signora Schleussner morì, tré
anni dopo, il 15 giugno 1913.
Vili
Ottenemmo ancora un breve periodo di permesso e poi la
nostra prima sistemazione. Per me restava ancora un ostacolo. Ero
cittadino italiano e perciò non potevo impartire insegnamento religioso
nelle scuole, perché ciò presupponeva un rapporto di impiego pubblico.
Per mio padre l'idea che potessi lasciare la cittadinanza italiana era a
mala pena comprensibile, ed indugiava ancor sempre a prendere le
disposizioni necessarie, forse nella speranza che si potesse trovare un
modo per evitare questo passo. Ma alla fine dovette pur constatare che
la cosa non avrebbe avuto esito, e l'anno seguente fu compiuta la mia
naturalizzazione.
Ottenni la mia prima, ancora interamente provvisoria
sistemazione a Darmstadt, e precisamente
123
all'ospedale tenuto dalle suore nella
Nieder-Ram-stadterstrasse. Ivi non avevo molto da fare e potei lavorare
parecchio per conto mio.
Dopo alcuni mesi fui spostato a Heppenheim come
cappellano nella Bergstrasse. Dell'accogliente cittadina conservo molti
graditi ricordi, e soprattutto del vecchio decano, che realmente per i
suoi due cappellani era quasi un padre. Ci lasciava disponibile ogni
cosa, ci faceva lavorare secondo le nostre forze ed era costantemente
pronto a consigliarci e aiutarci. Anche la responsabile della casa, la
signorina Anna, la ricordo volentieri, perché si preoccupava di noi in
ogni modo, e, certo anche nella sua semplicità, era una persona per cui
subito si provava rispetto.
A Heppenheim rimasi un anno; poi fui chiamato come
secondo cappellano nel Duomo di Worms. Colà l'ambito dei rapporti era
più ampio, e tutto più faticoso. A Heppenheim inoltre non avevo potuto
insegnare a scuola, ciò che ora avvenne, e costituì un nuovo
compito... Il Duomo molto bello costituiva una fonte sempre nuova di
gioia. La casa parrocchiale aveva un che di freddo, ma ci si sentiva' a
proprio agio. Il prevosto era malaticcio, cosicché il lavoro principale
ricadeva su di noi. Avevo simpatia per lui, ed anch'egli, credo, per me.
Potei anche scambiare parecchi discorsi con lui e ne conservo un ricordo
amichevole.
Voglio ora dire in qual modo fossi disposto per il 124
lavoro pastorale e quali possibilità e limiti trovassi
in me a questo proposito.
Sin dall'inizio mi sembrò che la santa Messa fosse il
punto centrale. Perciò mi sono sempre sforzato di celebrarla con ogni
cura. Mi è pur stato obiettato ripetutamente che vi impiegavo troppo
tempo; ma io rispondevo come risponderei anche oggi: che anche per la
comunità non sarebbe stato di alcuna utilità, se il dir Messa non
avesse significato per me più nulla, il che però sarebbe avvenuto se
fossi stato costretto ad affrettarmi... Il fattore più propriamente
liturgico, cioè la conoscenza delle distinte forme essenziali del culto
e l'impegno a renderle il più possibile chiaramente visibili, come pure
a introdurre la comunità nel loro attivo compimento, allora a Magonza
mancava completamente. Nonostante Beuron, qui inizialmente fui ancora
totalmente perplesso e sprovveduto; le vie per l'attuazione pratica mi
divennero chiare per la prima volta a Rothenfels. Sotto questo rispetto,
la cosa peggiore fu l'obbligo che io mi assunsi più tardi in S.
Cristoforo e S. Ignazio a Magonza, durato complessivamente due anni,
precisamente di celebrare la Messa dinazi al Santissimo Sacramento
e-sposto, mentre dai fedeli veniva recitato il rosario. La mancanza di
senso di questa celebrazione era insopportabile, e potei evitare un
danno interiore soltanto in quanto cercavo di esservi indifferente.
Ciò che immediatamente mi impegnò nel modo più forte
fu l'attività di predicazione. Per parecchi anni ho scritto parola per
parola ogni predica e l'ho
125
imparata a memoria. Era un ottimo esercizio, che mi
insegnava a usare le parole con precisione... Al mio temperamento erano
legate proprietà che portavano vantaggi, ma anche svantaggi. Anzitutto,
che per ogni predica mi occorreva un «punto di accensione», un
interrogativo che mi stimolasse. Sviluppavo il tutto partendo da là.
Ciò produce una tensione che coinvolge anche l'ascoltatore; porta con
sé anche però il pericolo che l'interrogare e il pensare prendano la
mano, e che tutto il discorso divenga troppo teoretico; e appunto il
«mio» interrogare e pensare personali. Naturalmente per la scelta del
tema e il suo sviluppo intrinseco pensavo alla comunità e a ciò che a
me era suggerito dal periodo dell'anno liturgico o almeno da un certo
punto di vista; ma in ultima analisi erano pur sempre i miei
interrogativi che mi guidavano. Ciò comportava il pericolo di proporre
agli ascoltatori qualcosa che era loro estraneo, o almeno che risultava
loro non vivente. Un'altra particolarità era l'aspetto
creativo-estetico sempre più fortemente sviluppato. Non che mi
preoccupassi di un «bei» parlare, di solenni introduzioni e di
esposizioni a regola d'arte: non era questo il caso. Sul pulpito si deve
parlare lo stesso linguaggio della vita, cioè il proprio. La sua scuola
consiste nel fatto che si dica sempre qualcosa, e che lo si dica in modo
preciso;
poi diventa buono da sé. Invece per aspetto
creativo-estetico intendo, che per me, in ogni predica, si tratta di una
«forma», che deve prodursi, e che quel «punto di accensione» di cui
ho detto, è contem-
126
poraneamente il punto di origine di questa forma. In
conseguenza di ciò ogni predica, sia pure nella misura più modesta, è
una crea2Ìone. Quando riesce, è più di una semplice esposizione,
quando non riesce, è meno. Così spesso io ero in dubbio, se il mio
modo di predicare fosse quello utile a una normale comunità: il pane
quotidiano della verità, introdotto nella sua esistenza, quale essa
realmente è. In ogni caso però non potevo fare diversamente, e la
dirczione [provvidenziale] della mia vita mi ha pure concesso la
possibilità di trovarmi al posto giusto con questo mio stile di
predicazione.
"Un capitolo difficile per me fu la scuola. Mi è
stato detto che avevo la possibilità di spiegare le cose più difficili
in modo tale che divenivano trasparenti, ma io lo posso fare
propriamente soltanto con quelle che sono realmente «difficili», cioè
in cui si cela un problema. Con i bambini la questione è diversa, cioè
consiste nel portare lo spirito in crescita dei bambini a contatto con
la verità sacra. Ma io non ho mai capito i bambini. Il giovane entra
nel mio campo visivo soltanto nel tempo della maturità, ed anche qui
anzitutto se ha una certa formazione. Questo fatto, da un punto di vista
sacerdotale, è una grave limitazione, ma non la posso modificare.
Difficile fu anche sempre per me il problema della disciplina. Nella
situazione pedagogica quale dominava un tempo nelle nostre scuole, tutto
si fondava in ultima analisi sul comando e Fobbe-dienza, ed io invece
non ero capace di comandare in modo efficace. Potevo bensì ottenere
influenza;
127
il lavoro nella «Juventus» di Magon2a e così pure a
Rothenfeis me l'ha dimostrato. Ciò era certo anche autorità, ma
indiretta, e la sua forza erano la fiducia e la spontaneità. Dove non
potevo avvalermi di queste, io ero impotente.
Una speciale difficoltà costituivano per me le
associazioni, giovanili, sociali, professionali, con le quali non seppi
semplicemente combinare nulla, ed esse egualmente con me. Molti
sacerdoti nonostante ogni incomodo si occupano volentieri e con zelo del
lavoro delle associazioni; ma io ritengo che sia loro gradito in modo
incondizionato il rapporto con la gente, e che la rappresentazione delle
consuete commedie delle associazioni procuri gioia a loro stessi. Io
invece a fare tutto questo dovevo costringermi; e così si spiegava la
mia contrarietà.
Riassumendo, devo dire che non riuscii a trovare quella
relazione umana che deve avere il pastore con la sua comunità, e fui
anche sempre convinto che quella di pastore fosse la forma vera e
propria del sacerdozio. Ma non ho mai trovato la giusta via di accesso
al popolo, al modo del suo pensare e alla forma dei suoi interessi.
Ritengo che vi siano diversi tipi fondamentali di
condotta e operosità sacerdotali. Se prescindo da quella che da noi si
trova forse maggiormente negli ordini religiosi, e il cui centro sta nel
rapporto con Dio e nella preghiera per la salvezza degli uomini, vedo
anzitutto due di questi tipi. Il primo lo potrei chiamare il prete
paterno: esso procede totalmente
128
dalla coscienza dell'ufficio sacerdotale. In lui v'è
quella coscienza che è stata tanto forte in san Paolo: tramite la
Parola e i sacramenti esercitare una generazione spirituale; nutrire,
proteggere e guidare i propri Egli. È una forma molto bella, forse
quella originaria del sacerdozio; ma io non l'ho mai potuta realizzare.
Io ho trovato invece — senza partire da princìpi di sorta,
semplicemente nel mio spontaneo atteggiamento circa i compiti pastorali
-il tipo del sacerdote fraterno, che non parte dall'ufficio, ma lo porta
in sé come forza; non sta di fronte ai fedeli come soggetto
dell'autorità, ma cammina accanto a loro. Egli evita di presentare loro
risultati e indicazioni prefissati, ed invece si immette con loro entro
la ricerca e l'indagine per scoprire in comune con loro. So che cosa si
può obiettare: l'esistenza cristiana non viene dagli uomini, bensì da
Dio e sarebbe perciò essenzialmente un «ordine» rispetto al quale si
darebbe solo ob-bedienza. Quindi anche nella Chiesa non si troverebbe
alcuna verità incognita, bensì vi sarebbe an-nunziata la verità
rivelata per sempre. Ma ciò che intendo sta all'interno di questo dato
di fatto. V'è una distinzione di atteggiamento che penetra in tutta
l'attività, se parto espressamente dall'autorità e richiedo
obbedienza, o se invece mi pongo accanto agli altri e cerco con loro di
giungere all'obbedien-za. In ambedue i comportamenti v'è autorità e
obbedienza, ma percorrono diverse strade. V'è pure in ambedue l'ufficio
sacerdotale; solo che nel primo esso è per così dire il titolo di
diritto che sta al di
129
sopra di tutto, da cui l'attività deriva espressamente;
nel secondo forma l'interna sicurezza di dirczione e forza, attraverso
le quali quel permanente avventurarsi viene guidato e sostenuto. Nella
«Ju-ventus» di Magonza e a Rothenfeis ho avuto una autorità che mi
rendeva possibile dire tutto e richiedere moltissimo, molto più che non
avessi potuto richiedere col metodo della autorità diretta;
ma questo proprio perché non ero partito da essa.
Da qui anche l'intero problema del rapporto fra clero e
laici riceve un carattere diverso, ed ho spesso pensato che tutta una
quantità di difficoltà sarebbero eliminate, se ci fossero più preti
che seguissero il comportamento fraterno. Del resto è ben chiaro che
con ciò non intendo esprimere valuta-zioni di alcun genere. Anzi sono
persino disposto a concedere che nell'economia generale della vita
cristiana ed ecclesiale sarà dominante il primo tipo.
Nella primavera del 1912 fui spostato a Magonza,
affinchè, occupando un posto che si prevedeva leggero, potessi lavorare
per la mia laurea.
Come allora a Magonza fossero ordinati la celebrazione
liturgica, la pastorale individuale e la vita spirituale e religiosa, in
quali rapporti stessero un parroco con gli altri e il parroco con il
cappellano, qui preferisco non dirlo... All'inizio del mio soggiorno
colà incontrai un giorno sulla piazza del Duomo un vecchio cappellano,
che era a Magonza già da molto tempo e la conosceva a fondo. Mi salutò
come nuovo venuto, poi, e rivedo ancora la sce-
130
na dinanzi a me, si girò verso il duomo e disse nel
più rigoroso dialetto di Magonza: «Signor cappellano, guardi una volta
lassù: lei sa che cosa sta sulla coda del gallo del Duomo?» Avendo io
risposto che non potevo vedere il motto esoreistico, egli continuò:
«Lasciate ogni speranza voi ch'entrate!». Lo disse senza alcuna
accentuazione, nel tono di una semplice constatazione, e da parte mia
devo dire che aveva ragione.
Il mio luogo di lavoro era S. Cristoforo, che senza
animosità si poteva dire il centro del bigottismo di Magonza. Non avevo
cura d'anime, perché era — come in generale a Magonza — affare
riguardante il parroco. Avevo un gran numero di ore di scuola, di
celebrazioni, di preghiera e qua e là funerali «minori». Alle 6 di
mattina avevo la santa Messa, ogni giorno davanti al Santissimo esposto.
Ma quel periodo ebbe qualcosa di buono; per vecchia
tradizione c'era la domenica alle 18 una predica che doveva essere
tenuta dal cappellano. Colà per la prima volta scoprii il vantaggio del
ciclo di temi e in seguito me ne valsi tutte le volte che potevo.
Nella primavera del 1913 mi recai a Friburgo per la
laurea. Che cosa ha significato per me il periodo di Friburgo, lo
narrerò altrove; per l'attività pastorale non ebbi colà alcuna
occasione. Dovevo dire Messa ogni mattina; ciò avveniva per lo più nel
Collegium Sapientiae, oppure in qualcuno dei numerosi conventi o
istituti ecclesiastici.
In questo periodo si verificò, come già ho detto,
131
la morte della signora Schleussner. Per distrarre il
prof. Schleussner, che era stato scosso fin nell'intimo dell'animo, lo
accompagnai in un viaggio attraverso vari luoghi della Germania,
anzitutto a Neisse in Slesia. Colà viveva un vecchio ecclesiastico, il
dott. Adolf Kluge, con cui voleva parlare. Sempre a Neisse v'era anche
il convitto di ragazzi cui presiedeva il dott. Bernhard Strehier, uno
dei fondatori del «Quickborn» e più tardi dirigente del Castello di
Rothenfels. Il convitto era condotto totalmente in spirito di
comprensione e fiducia, di autonomia e spontaneità e fece su di me una
impressione che determinò tutto il mio lavoro pedagogico. Pure di ciò
parlerò in altra circostanza.
Nel 1915 presi la laurea e ritornai a Magonza, stavolta
per cinque anni.
Durante questo periodo ebbi successivamente tré
assegnazioni, cosicché in genere la mia vita di cappellano è stata
abbastanza instabile. Ciò costituiva anzitutto un principio, in quanto
si riteneva giusto di spostare spesso i cappellani, sia che in tal -
modo essi dovessero imparare l'obbedienza col distacco da sé e la
continua peregrinazione, e racco-gliessero esperienze nei diversi tipi
di rapporti, sia che, così, non prendessero troppo piede e non
nascessero difficoltà coi parroci. Questa frequenza di spostamento è
però parallela in modo peculiare con altre circostanze della mia vita.
Quando penso alla mia strada verso la vocazione e all'interno di essa, o
alla molteplicità dei miei luoghi di soggior-
132
no nel corso degli anni, o ai miei molti trasferimenti,
vedo sempre la stessa immagine di una inquietudine che deve avere
fondamento in radici più profonde, che nelle motivazioni del momento...
E ciononostante mi costò e mi costa ancor sempre uno sforzo il dovermi
allontanare da qualcosa, e il fenomeno dell'attaccamento è il rovescio
della medaglia del viaggio di distacco, rovescio che continuamente
rispunta.
Così anzitutto fui cappellano a S. Ignazio, da un caro
parroco, con il quale mi intesi in modo eccellente. Poi andai a S.
Emmerano, del cui «Rector Ecclesiae» ho detto in altra occasione che
tendeva a scambiare il suo rapporto col cappellano con quello con un
servitore. Infine andai a S. Pietro dove rimasi per il periodo più
lungo, credo tré anni e mezzo.
Per quanto concerne l'attività pastorale durante questo
tempo, non v'è nulla in più da rilevare rispetto a quanto già detto.
Pure si aggiunse un compito sul quale voglio parlare specificamente in
un altro capitolo: cioè fui incaricato di assistere i giovani cattolici
delle scuole superiori di Magonza, che erano riuniti in una associazione
denominata «Juventus». Questo incarico mi assorbì per determinati
periodi e ci fu perciò motivo per attriti permanenti con i due ultimi
miei superiori, che non riuscivano a comprendere che il loro
cappellano avesse qualcos'altro da fare, oltre quello di cui lo incaricavano.
133
IX
Come già ho narrato trattando del mio itinerario verso
la cattedra, ero stato destinato alla laurea allo scopo di assumere poi
un incarico di insegnamento in seminario. Ma ciò non avvenne ed io mi
vidi costretto, per chiarire la situazione, a richiedere un nuovo
permesso. Questo mi fu concesso e nel 1920 andai a Bonn per prendere
colà l'abilitazione.
La questione del mio sostentamento fu risolta, poiché
divenni cappellano della casa nell'allora appena fondato Istituto del
Sacré-Coeur a Pùtzchen presso Beuel sul Reno. Là tutto era al primo
avvio e aveva un tono veramente vivace. Il luogo era stato
precedentemente una cllnica per malati di nervi, con padiglioni separati
in un grande giardino. In uno di questi, con grandi camere ed enormi
finestre, io abitavo tutto solo e mi trovai molto bene.
All'inizio non compresi quale dovesse essere la mia
attività. Ero dell'avviso di poter offrire un contributo culturale, ma
poi dovetti comprendere che ero soltanto una specie di domestico
ecclesiastico, .che aveva da adempiere doveri prescritti esattamente.
Quando poi — d'accordo col parroco locale — mi permisi di far notare
alcune gravi difficoltà nel rapporto con impiegati e dipendenti, la
situazione si fece critica. A ciò si aggiunse che io già allora
appartenevo al «Quickborn», e questo già precedentemente era stato
considerato rivoluzionario. Sotto la prima Supcriora, che portava a
compimento la fondazione, era andata ancora relativamente bene,
134
e la seconda era una donna eccellente; ma nel frattempo
la dirczione era capitata in mano a Madre Sch..., che era una pura
integralista, esattamente la copia femminile del Vicario generale di
Magonza, Ludwig Bendix. Alla prima udienza mi chiese fra l'altro se
leggessi l'«HochIand»; avendo io risposto affermativamente, fui
classificato come liberale. Nuovamente si stabilì la singolare
relazione ambigua che c'era stata anche con Bendix: provavo simpatia per
la sua forte personalità, essa deve aver provato a sua volta un
sentimento simile per me. Perciò, quando si fu persuasa della mia
pericolo-sita, non fu per lei certo facile fare quello che fece. Dopo
che già era in carica colei che le succedette, Madre Sch. mi comunicò
che era giunto l'ordine della Madre generale di pregarmi di lasciare il
posto, comando però che aveva fatto seguito a una sua propria
relazione. Dopo questa dichiarazione si mise in ginocchio e mi chiese la
benedizione.
Rimasi a Pùtzchen due anni, e mi trovai bene sino alle
complicazioni finali. Se fossi stato più riservato, avrei forse evitato
questo esito, ma soltanto «forse», perché l'autentico scoglio non
stava in singole dichiarazioni o prese di posizione, ma nella sostanza.
Nel primo periodo di Piitzchen o poco prima di esso mi
capitò un'occasione che per la mia attività pastorale doveva essere
più importante di quasi ogni altra: nella Pasqua del 1920 andai alla
seconda adunanza della Lega giovanile a Rothenfels. Su ciò cui mi
dovevano portare i seguenti diciannove
135
anni in connessione con questa associazione e con il
Castello, quanto a lavori e legami spirituali, riferirò espressamente
in un altro luogo.
Dopo la dichiarazione di Madre Sch. ero nella necessità
di cercare con scadenza ravvicinata qual-cos'altro e ciò mi fu anche
concesso. Trovai questa diversa sistemazione assumendo la succursale di
Holtorf della parrocchia di Kùdinghoven am Rhein nel Siebengebirge. La
signorina Thomas, che aveva curato la mia camera a Putzchen, mi
accompagnò come mia domestica e da allora è rimasta con me.
Il trasloco mi rimarrà sempre in mente. C'era già
l'inflazione e non si poteva più comprare nulla. Dalla mia casa avevo
avuto alcuni mobili; per la maggior parte dalla casa paterna li aveva
presi mia madre, che allora si era decisa a tornare in Italia, per
portarli colà. Io e Padre Kunibert caricammo queste poche suppellettili
su un carro e lo accompagnammo, seguendolo a fianco, lungo la strada per
Holtorf.
Presi colà un'abitazione piccola proprio inade--guata,
in una casa che, se ricordo bene, apparteneva a un fornaio. La camera da
letto era così umida, che la tappezzeria pendeva a brani. La questione
del mio mantenimento fu regolata così: una famiglia si dichiarò pronta
a darmi ogni giorno un litro di latte, e un'altra ogni settimana del
pane; altri davano occasionalmente ora questo, ora quello. Oltre a ciò,
si faceva la colletta per me ogni settimana; dopo qualche tempo ci fu
una cesta piena di
136
denaro, con il quale la signora Thomas andò poi al più
presto a Bonn, per comprare qualcosa. Così tutto era molto povero, ma
quell'anno mi resta molto chiaro nel ricordo.
L'attività pastorale era molto modesta. La comunità
apparteneva a Kùdinghoven, perciò non avevo una vera e propria
giurisdizione; inoltre il mio impegno poteva essere soltanto
transitorio. Così mi limitai a fare quello che il parroco desiderava
veder fatto.
X
Nella primavera del 1923 mi recai a Berlino e trovai,
come già detto, anzitutto una piccola abitazione a Potsdam nel convento
delle Borromee nella Zimmerstrasse. La mancanza di case era allora
grandissima, e dovetti adattarmi ancora a due soluzioni provvisorie,
finché potei ottenere una piccola casa di nuova fabbricazione al
Brauhausberg. Abitai colà sinché potei trasferirmi a Berlino.
Durante il periodo di Potsdam non svolsi proprio nessuna
attività pastorale. Il lavoro delle lezioni mi teneva fortemente
impegnato e Rothenfeis prendeva per sé tutto il tempo libero.
Nell'estate 1924 avvenne un'esperienza religiosa circa
la quale dovrei riferire propriamente in modo particolareggiato...
Nel 1927 trovai in particolari circostanze un'abitazione
a Berlino-Charlottenburg, nella Sophiestras-
137
se. Due anni dopo mi trasferii ancora, prima a
ZehIendorf-West, poi a Eichkamp, per trovare infine abitazione sino al
1936 in una casa costruita per me a Schlachtensee dal prof. Rudolf
Schwarz33:
questa per la prima volta fu da me sentita come una vera
e propria dimora. Ora anch'essa è a sua volta perduta.
A Potsdam avevo abitato molto lontano, e di conseguenza
non avevo potuto svolgere alcuna attività ad eccezione delle lezioni.
Ora ciò potè avvenire. Subito dopo il mio trasferimento la direttrice
della scuola sociale femminile mi pregò di celebrare la Messa il
mercoledì nella cappella dell'istituto, e di tenere un piccolo
discorso. L'ho fatto volentieri per alcuni anni, perché l'uditorio era
attento e re-cettivo.
Subito dopo venne un nuovo incarico. Nella
Schiùterstrasse, non lontano dal Knie, una seconda cappella era stata
destinata per la pastorale degli studenti. Essa si trovava in una casa
d'affitto appartenente alla comunità cattolica ed era servita
originariamente come ambiente di ripiego per la sua liturgia. Poi era
stata costruita la chiesa nella Schil-lerstrasse e la pastorale
studentesca aveva rilevato l'ambiente. L'aveva rifinita il dott. Dieter
Sattler34, con cui precedentemente ero entrato in stretti
rap-
" Questo architetto (1897-1961) fu molto legato al
movimento liturgico e a quello giovanile, disegnando tra l'altro la
cappella di Rothenfeis e fu con Guardini editore della rivista del
Quickborn, dal titolo «Die Schiidgenossen».
34 Architetto e uomo politico (1906-1968),
segretario di Stato per le belle arti nel ministero bavarese per
l'insegnamento e la
138
porti d'amicizia. La cappella constava dello spazio di
tré stanze, cui erano stati tolti i tramezzi di divisione, e di due
locali a parte. Poiché si trovava più in basso dell'entrata della
casa, si aveva l'impressione di scendere in una catacomba. Era molto
semplice, le pareti bianche, eccetto i dodici lampa-dari di rito, senza
alcun ornamento. L'altare stava isolato su un rialzo costruito con
mattoni, sui cui gradini si inginocchiavano i fedeli per ricevere la
comunione. Esso era pure fatto di mattoni con una semplice lastra di
pietra arenaria bianca, sulla quale si trovavano soltanto il Crocifisso,
due lumi e le cartaglorie appoggiate. Su di esso si poteva celebrare la
Messa da ambedue le parti, perciò anche rivolgendosi al popolo. Dietro
l'altare, sulla parete, v'era un Cristo benedicente di rame sbalzato.
Quivi ho celebrato la Messa e predicato la domenica dal 1928 sino
all'estate 1943, con la sola interruzione delle ferie.
La liturgia consisteva sempre nella Messa recitata in
latino, rigorosa e senza alcuna concessione alla devozione popolare.
Ciò perché i fedeli erano per lo più universitari e comprendevano il
latino. L'assistente spirituale, dott. PinskM, con decisione
preliminare aveva celebrato la Messa volgendosi verso la comunità. In
quel tempo si poteva ancora
cultura, poi ambasciatore della Germania federale presso
la S. Sede a Roma.
3S Johannes Pinsk fu poi parroco a Berlino e
docente onorario alla Libera Università di Berlino. Era importante
esponente del movimento liturgico.
139
fare una cosa simile senza essere subito rimproverati, e
così fu ancora poi. Io mi ero momentaneamente opposto a ciò, perché
trovavo insopportabile lasciare che mi si vedesse in faccia durante la
preghiera e l'azione sacra, ma in seguito cedetti, pen-tendomi di non
averlo fatto prima. Specialmente in un luogo ristretto, questo è
l'unico modo naturale di celebrare la Messa; con esso si stabilisce una
reale unione, tutti vedono che cosa accade e possono seguire ogni
particolare.
Di conseguenza, era divenuta particolarmente viva anche
la predica. Dopo la lettura del Vangelo, si restava in piedi davanti al
Messale aperto su un cuscino piatto e si parlava, in certo modo
attingendo da esso, alla comunità. Qui in S. Benedetto — e dal 1920
nella cappella di Rothenfeis — mi sono quindi assai allietato di
annunciare la parola di Dio. Dopo brevi tentativi, subito passai a
trattare argomenti che si estendevano per parecchie domeniche, di regola
per un semestre. Ovviamente, ogni comunità ha i suoi particolari
bisogni, come pure l'anno liturgico va valorizzato continuamente. Ma,
a'parte ciò, mi sembra che la trattazione di una serie di prediche fra
loro collegate sia il modo più adatto di annunciare la Parola di Dio.
In un primo tempo erano piuttosto prediche tematiche, ad esempio
sull'essenza e Io sviluppo della fede: un ciclo dal quale è derivato il
libro La vita della fede36.
36 Vom Leben
des Glaubens, cit.; trad. ital. La vita della fede, cit.
140
In seguito mi avvicinai sempre più alla predica
omi-letica. Certo il predicatore deve poter parlare anche attingendo
dalla diretta coscienza della fede della Chiesa e dalla sua personale
esperienza religiosa, poiché la Chiesa è la depositarla della missione
«di insegnare a tutti i popoli» e «insegnar loro a osservare quello
che Cristo ha detto». Ciononostante, è la Sacra Scrittura, come
testimone della rivelazione della prima Parola di Dio ispirata, il vero
e proprio fondamento.
Questa prospettiva in me si univa con un altro sviluppo,
che era prodotto dal mio incarico di insegnamento accademico. Riconobbi
come fosse importante, per un'età non spiritualmente creativa e
fuorviata dal relativismo di ogni specie, accogliere in sé la parola
dei grandi. Ma a questo scopo tale parola doveva essere resa
accessibile, e perciò mi assunsi il compito di interpretarla, compito
che divenne per me sempre più importante. È una gioia tutta
particolare introdursi in un grande testo, renderlo comprensibile, frase
per frase, e spiegarla nel suo particolare contenuto così come nella
sua connessione col tutto; infine, da ciò che l'autore dice, istituire
il collegamento col problema in sé e con la questione attuale. Ho
condotto innanzi questo lavoro in molte lezioni e pure in una serie di
volumi, ma il suo oggetto più importante doveva essere la Sacra
Scrittura. Qui si poteva entrare nel senso delle parole e delle frasi,
senza mai esaurirlo. Tutto ciò che si stabiliva sulla base del sapere
storico, speculativo, psicologico, era utilizzabile. Dalla Pa-
141
rola sacra v'erano vie che conducevano a tutti gli
interrogativi del tempo, e quando non si trovava da se stessi una
risposta, si trovava però la fiducia che quella Parola una risposta la
dava. In questo modo ad esempio spiegai i Salmi per tutto un semestre,
in un altro gli Atti degli Apostoli o le Lettere di san Paolo. Nel 19..
giunsi sino a rappresentare l'essenza e la vita di Gesù traendola dal
Nuovo Testamento; sempre movendo dalla accurata analisi di singoli testi
o gruppi di testi, per cercare poi, partendo da essi, la via verso il
tutto. Queste prediche si estesero per otto semestri e da esse prese
forma il libro II Signore s7.
Per un periodo piuttosto lungo proseguì anche la
predica del mercoledì; infine la dovetti abbandonare, perché era
divenuta troppo impegnativa.
Per un semestre tenni anche, secondo il desiderio del
parroco di Berlino-GrunewaId, nella sua chiesa, la predica per gli
uomini alle dodici e mezza. Il tema era ogni volta diverso da quello di
S. Benedetto; così era un'esperienza peculiare che esse non si
disturbassero reciprocamente, poiché ciascuna era per così dire una
entità a sé. Pure l'impegno era tanto gravoso, che dovetti rinunciare
all'incarico.
Perciò dal 1920 al 1943 si svolse una larga corrente di
predicazione, e devo dire che poche cose come questa mi rendono
altrettanto felice nel ricordarle. Quanto più a lungo, tanto meno in
ciò mi
37 Der
Herr, Werkbund, Wiirzburg 1937 (trad. ital.. Il Signore, Vita
e Pensiero, Milano 1940).
142
importava l'effetto immediato: ciò che avevo inteso
fare, sin dall'inizio, prima per istinto, poi sempre più
coscientemente, era portare a risplendere la verità. La verità è una
potenza; ma soltanto quando non si esige da essa alcun effetto
immediato, bensì si ha pazienza e si fa conto sui tempi lunghi —
an-cor meglio, quando in assoluto non si pensa agli effetti, ma la si
vuoi illustrare per se stessa, per amore della sua grandezza sacra e
divina. La rivelazione dice appunto: «Dio è luce» [Gv 1,5]; la
luce è più che la verità; ma questa eccedenza sta appunto nella sua
direzione, cosicché l'annunzio che fa risplendere la verità sacra, le
apre la porta. Soltanto, come dissi, si deve pazientare; qui non
dovrebbero contare i mesi, e neppure gli anni. E non bisogna avere
alcuna mira particolare; se mai lo potrà essere, proprio qui questa
assenza di propositi particolari è la forza più grande. È ciò che
spesso ho sperimentato.
Parecchie volte, specialmente negli ultimi anni, ebbi la
sensazione che la verità mi stesse dinanzi come un essere concreto.
Una forma particolare di attività si svolgeva nel
colloquio personale. Tali colloqui iniziarono molto presto, in parte
ancora nel tempo in cui ero fra gli studenti. In connessione con la mia
attività di insegnamento, divennero poi sempre più numerosi e
ricevettero il loro punto d'appoggio fisso nell'ora di colloquio. Questa
era indicata nel quadro delle le-
143
zioni il mercoledì dalle 16 alle 17, ma si prolungò
subito nel tempo e durò di regola sino a sera. Poi il mercoledì non
bastò più, dovetti introdurre il sabato pomeriggio, e spesso qualcuno
veniva da me anche il pomeriggio della domenica.
Per lo più i colloqui duravano a lungo. Quando si
trattava di dare esito a una determinata questione, si giungeva subito
alla fine; ma di regola si trattava di conflitti umani, o di dubbi e di
insicurezza sul piano religioso, ovvero della ricerca della propria
linea spirituale. Perciò non si doveva badare al tempo. Imparai sempre
meglio ad ascoltare e a creare lo spazio in cui l'altro non è
semplicemente libero di parlare, ma anche scorge se stesso con una
visione giusta. E a capire: a non applicare alcun schema predisposto, ma
a cogliere la persona, che in verità è sempre un singolo, partendo da
lei stessa. Da tutto ciò spesso la parola che chiarifica e indica la
dirczione giusta viene totalmente da sé. In mancanza di essa, allora si
deve onestamente dire che non si sa niente, e quello che un colloquio
non ha prodotto, attenderlo da un secondo... Anche qui non si deve
cercare alcun risultato rapido, bensì avere pazienza. Le cose umane e
spirituali non vanno in fretta, richiedono il loro tempo. Ed è meglio
in generale non pretendere alcun «risultato», e invece lasciar andare
il colloquio del tutto a partire dall'oggetto e dal movimento spirituale
dell'ora.
Nei miei primi anni berlinesi ebbi un contrasto 144
con una personalità, che per la vita cattolica di
allora aveva molta importanza, cioè con Cari Son-nenschein3S.
Entrai in contatto con lui per la prima volta nel mio secondo periodo di
studio a Tubinga. Allora fui molto impressionato dal suo temperamento e
dalla sua eloquenza, e lo aiutai a fondare a Tubinga un circolo sociale
per gli studenti. Poi ci incontrammo ancora a Berlino e io gli feci
visita più di una volta in Georgenstrasse. La sua intenzione era di
coinvolgermi nel suo lavoro molto esteso sia spirituale che sociale, ma
io istintivamente mi opposi a ciò. Egli se ne ebbe molto a male con me,
ma era giusto così. Sonnenschein era solito utilizzare i suoi
collaboratori senza riguardo, naturalmente per la sua opera, non per
sé; ma chi si fosse messo a sua disposizione, poteva sperimentare cose
di ogni genere. Così può avermi ritenuto un uomo egoista, che si
ritraesse nella posizione 'distinta' accademica.
Anche un'altra cosa ci portò in contrasto. Sonnenschein
era stato profondamente entro il movimento modernista. Quando poi ne
avvenne la crisi, egli non solo si separò da esso, ma deve anche
es-sersi distaccato dai problemi teologici in generale. Il suo punto di
vista a Berlino era: «Siamo in una città assediata; perciò non ci
sono problemi, bensì soltanto parole d'ordine». Questo motto può fare
impressione, ma è sbagliato. Non si possono con-
38 Fu
particolarmente attivo a Berlino nell'organizzazione dell'assistenza
religiosa nella grande città, soprattutto per gli studenti. Visse dal
1876 al 1929.
145
gedare i problemi; chi li avverte, deve applicarvisi,
specialmente se è responsabile sul piano intellettuale e spirituale. La
prassi autentica, cioè l'agire giusto, deriva dalla verità, e per essa
bisogna lottare. Credo che egli non abbia mai veramente superato le
questioni che gli avevano dato tanto da fare, ma che chiudesse loro la
porta in faccia. Questo può essere andato bene per lui, sebbene io
abbia pure a questo proposito i miei dubbi e pensi che la sua operosità
sarebbe stata più tranquilla, più profonda e più duratura nei suoi
risultati, se fosse vissuto alimentandosi maggiormente di autentici
problemi. Ma questo era affar suo; in ogni caso io mi applicavo
all'interrogare e non potevo lasciarmi aggiogare alla sua prassi. So che
mi giudicava in modo molto aspro; mi vedeva come un uomo che suscita
inquietudine. In verità temo che fosse proprio così, poiché egli non
sopportava alcun interrogativo.
Adesso ci sarebbe da riferire ancora su di un'altra
linea di attività, cioè sulle conferenze.
In ciò non ho fatto tanto quanto sarebbe stato
auspicabile. Ciò derivava anzitutto dal fatto che una conferenza mi
riusciva più difficile di quanto in generale si supponesse. Ma la causa
principale era che Rothenfeis assorbiva per sé la maggior parte
dell'energia che era stata lasciata libera dal lavoro universitario
regolare.
In particolare l'Associazione dei laureati a questo
proposito non era d'accordo con me. Tenni al
'146
suo convegno di Bonn una serie di conferenze sul «Senso
della Chiesa», nelle quali trovai per me stesso la forma intrinseca
della conferenza. Colla-borai anche ai convegni di Ulma e di Aachen (a
questo insieme con Karl Neundórfer, che poi mi precedette in Engadina e
colà trovò la morte il giorno in cui l'avevo raggiunto.) Parlai più
volte nella sezione locale di Berlino. Si sarebbe desiderato che mi
introducessi interamente nel lavoro dell'associazione; ma questo non lo
potevo fare a causa degli obblighi di Rothenfels. Questi ultimi li
ritenevo più importanti e lo dissi anche francamente. A partire da un
certo momento, mi ritirai poi dall'associazione, poiché mi ero persuaso
che prendeva strade errate. Il suo lavoro cominciò a divenire
meccanico, e sarebbe stato necessario creare nuove forme di impegno:
circoli più piccoli con lavoro più intenso; piccole settimane di
studio, che andassero a fondo in senso religioso e spirituale, ecc. Di
ciò però il dott. Mùnch39, segretario generale
dell'associazione, non ne volle sapere.
Una nuova possibilità si offrì nelle Settimane della
scuola superiore di Salisburgo. Collaborai alla prima tenendo una serie
di lezioni sulle figure religiose nei romanzi di Dostoevskij. Anche
questa iniziativa però, come credevo di vedere, fu diretta su di una
via errata, e lo dissi al dott. Mùnch così
39 II
dott. Franz Xaver Mùnch (1883-1940) fu segretario generale della
Associazione universitaria cattolica, cofondatore delle Settimane di
Salisburgo, fondatore ed editore del giornale «Der katholische
Gedanke».
147
come al Padre Mager4C. Si voleva far sorgere
dalle Settimane della scuola superiore di Salisburgo una università
cattolica, e ciò doveva condurre in un vicolo cieco. Il mio punto di
vista era che si dovesse creare un nuovo tipo di attività intellettuale
e spirituale con un minimo di apparato organizza-tivo e un massimo di
libertà e mobilità. Questa idea fu rifiutata e si mostrarono pure
presto i sintomi che l'iniziativa cominciava a incagliarsi. Poi mutarono
le situazioni esterne e tutto cessò, io temo, proprio ancora al momento
giusto.
Poi vi furono le lezioni alla Scuola superiore Lessing,
che tenni con molto gradimento. L'uditorio era eccellente e l'attenzione
tale, che spontaneamente si dava il meglio di sé. Le conferenze
durarono parecchi anni; cessarono subito dopo il 1933.
In seguito parlai anche alcune volte nella Università
popolare cattolica; dopo il 1940 ciò avvenne più spesso. Anche qui
c'era un ottimo uditorio, e le conferenze avevano una tensione interna
simile a quella che avevano avuto nella Scuola superiore Lessing.
Un peso particolare hanno nel mio ricordo le conferenze
serali nella chiesa di S. Canisio.
Subito dopo l'inizio della guerra venne la dott. Josepha
Fischer per incarico dell'associazione fem-
40
Padre Alois Mager (1883-1945), benedettino, docente a Salisburgo e
direttore delle prime «Settimane della scuola superiore di Salisburgo»
(1931).
148
minile cattolica di Berlino, e disse che si doveva fare
qualcosa di appropriato per dare aiuto nelle angustie dell'epoca. Dopo
alcune riflessioni ci accordammo sul fatto che si dovesse trattare di
qualcosa che stesse fra predica e conferenza, in modo che potesse essere
istruttivo e al tempo stesso desse sostegno, conforto. Le conferenze
dovevano aver luogo in una chiesa, perché solo là si aveva la
necessaria libertà di movimento; tuttavia il momento liturgico doveva
svilupparsi solo in misura del tutto modesta cosicché quelli che erano
lontani dalla vita della chiesa non lo sentissero come un ostacolo.
Perciò facemmo proprio così. Le conferenze ebbero
luogo nella chiesa di S. Canisio a Charlotten-burg, tenuta dai gesuiti.
In dipendenza dai vari orari di lavoro e pure dal pericolo di incursioni
aeree, l'ora cambiò un poco, ma fu fissata intorno alle diciotto. Il
«rito» era il più semplice possibile; iniziava con un inno allo
Spirito Santo; poi veniva la conferenza, che io, per mantenere fuori da
ogni dubbio il suo carattere ecclesiastico, svolgevo in vesti
liturgiche. Poi venivano cantate, o da un piccolo coro oppure dagli
uditori, alcune strofe di un Canto; in questo tempo andavo all'altare, e
in un primo periodo seguiva una litania; ma in seguito, su proposta di
Heinrich Kahiefeld41, al posto d'essa ci fu una preghiera
improvvisata, che si sviluppava dalla conferenza e i cui pensieri
introduceva-no direttamente nella sfera religiosa. Concludeva
41
Heinrich Kahiefeld (1905-1980), prete oratoriano, collaboratore di
Guardini a Rothenfeis e dal 1948 direttore.
149
una benedizione semplice impartita in lingua tedesca.
La forma era buona e persuasiva. L'uditorio era numeroso
e si componeva, come avevamo sperato, di persone della più varia
provenienza. Esse ascoltavano con una serietà e concentrazione tali che
queste prediche-conferenze appartengono ai miei ricordi più fortemente
impressi.
Solevo parlare abbastanza a lungo, alla fine sino a
cinquanta minuti. Dapprima liberamente, ma in seguito ciò divenne così
faticoso che portavo con me il manoscritto sul pulpito.
Qui sperimentai nel modo più intenso ciò che dissi
precedentemente circa la forza della verità. Quanto grande, quanto
originaria fosse e quanta potenza sulla vita avesse il messaggio
cristiano-cattolico, mi è toccato di riscontrare raramente come in
quelle sere. Talvolta avveniva come se la verità stesse dinanzi a noi
come un essere concreto.
Da quelle conferenze derivarono parecchie pubblicazioni;
così anzitutto i dodici contributi che diedi alla collezione Riflessione
cristiana {Christliche Besinnung) e i cinque capitoli del libro I
Novissimi (Die letzten DingeY1.
XI
Quando ero giunto alla fine di questo capitolo, mi si è
presentata la domanda, se un modo di agire
42 La
collezione Christliche Besinnung fu pubblicata da R. Guardini, H.
Kahiefeld, F. Messerschmid, Werkbund Verlag,
150
come quello qui descritto non sia soggettivistico... Ed
è effettivamente stato così, poiché il mio lavoro personale non l'ho
svolto nelle forme tradizionali. Appena iniziai nella «Juventus»,
abbandonai la sua struttura precedente e costruii queU'Jugendreich, quel
«regno della gioventù» che fu tanto disapprovato dai suoi fondatori e
subito di nuovo distrutto dal mio successore. L'attività a Rothenfeis
partì anzitutto dall'impulso del movimento giovanile e
dell'associazione così come delle idee del dott. Streh-ler, ma dopo il
1924 sempre più dall'iniziativa del nostro circolo di Rothenfeis, in
cui io avevo una posizione con forti titoli di condeterminazione.
L'impegno a S. Benedetto e nella cura pastorale personale non provenne
da incarico ufficiale, e non era sotto il controllo di nessuno. Per la
mia attività universitaria non avevo ne il quadro di una materia
regolare, ne l'inserimento anche solo in una facoltà. Per quanto
riguarda il pensiero filosofico e teologico, e il tentativo di
comprendere l'esistenza a partire dalla rivelazione, ovviamente avevo
ricevuto influenze di vario genere; posso dire tuttavia che esso si era
prodotto nella sua essenza come frutto di un mio proprio sviluppo
ulteriore. Così il mio lavoro effettivamente era venuto da me stesso in
misura tale, da non essere frequentemente riscontrabile in altri casi.
Di questa constatazione mi rendo consapevole senza alcun
autocompiacimento. Ma è pur avvenu-
Wùrzburg 1951; Die Letzten Dìnge, Werkbund,
Wurzburg 1940 (trad. ital. I Novissimi, Vita e Pensiero, Milano
1951).
151
to così: non perché volessi essere o fare qualcosa di
speciale, ma perché non avrei potuto fare diversamente. Ma la domanda
è: un tal modo di procedere non si deve disapprovare in quanto
individualistico e soggettivistico?
Effettivamente anche l'opinione pubblica ecclesiastica,
per lungo tempo, mi si è posta di fronte con riserve, se non
addirittura, specialmente riguardo a Rothenfeis, con diffidenza. Le
istanze d'autorità non mi hanno dato aiuto in alcun modo e sino a poco
tempo fa non mi han consultato per nessuna questione. Per quanto poi
riguarda il mio lavoro letterario, il mondo laico l'ha accolto con
simpatia, ma la teologia l'ha sinora ignorato, visto nel suo complesso.
Il prof. Schmaus43 fu il primo a ricono-scerlo e a
utilizzarlo nella sua Dogmatica; a parte ciò, esso non è andato
oltre mere recensioni convenzionali. D'altro canto, debbo dire con
ricono-scen2a che questo riserbo o quello che comunque era, non mi ha
ostacolato. Mi si è lasciato solo in difficili compiti, cosicché tutto
fu molto faticoso ed io dovetti spesso chiedermi con ansia se non fossi
su di una strada errata. D'altronde, v'era pure in ciò una sorta di
benevolenza, come se si dicesse: «Vogliamo vedere che cosa ne esce!»
43
Michael Schmaus (nato nel 1897) fu docente di dogmatica a- Praga (1929),
Munster (1933), Monaco di Baviera (1946), ove fondò il Grabmann
Institut per la ricerca filosofico-teologica sul medioevo. La sua Dogmatica
cattolica è tradotta in italiano presso Marietti, Casale
Monferrato, in più volumi.
152
Trentacinque anni sono un lungo lasso di tempo; quando
lo si considera retrospettivamente, si può già cogliere quale sia lo
spirito del lavoro speso vi. Così devo dire di non trovarvi alcun
soggettivismo. Se questo termine deve avere un senso, può significare
soltanto in verità, che qualcuno, senza riconoscere alcuna regola
oggettiva, pensa e fa ciò che a lui sembra giusto. Ma io non ho mai
agito così — anzi avrei valutato questo comportamento semplicemente
come stolto. Nel periodo decisivo della mia vita ho riconosciuto che la
Chiesa non è un guardiano spirituale cui si cerca di sottrarre il
maggior spazio possibile per una propria vita, altrimenti sarei andato
per la mia strada. È viceversa divenuto per me sempre più chiaro che
essa impersona il terzo elemento essenziale nell'ordine della
rivelazione. Il Signore ha detto: «Nessuno conosce il Padre se non il
Figlio, e colui cui il Figlio lo vuoi rivelare» [Mt 11,27; Le 10,22].
Ma il Figlio, Cristo, non sta da qualche parte nella sfera storica,
bensì è stato mandato lo Spirito Santo per «intro-durci ad ogni
verità» [Gv 16,15]. Ciò è così essenziale che, secondo le parole
dell'Apostolo, noi senza di Lui non possiamo pronunziare neppure una
volta la parola di confessione «Signore Gesù». Ma lo Spirito non
agisce come forza spirituale liberamente fluente, bensì tramite una
istaraa storica, cioè tramite la Chiesa. Questo è l'ordine: dal Padre
si giunge soltanto attraverso Cristo; ma Cristo lo si vede giustamente
soltanto nello spazio ordinato dallo Spirito Santo, la Chiesa. Come può
quin-
153
di chiunque, abbia da trattare con la verità, voler
affrontare un'impresa privata? Non sarebbe -ridicolo ciò? Invece
accoglierà in sé la Chiesa il più profondamente possibile. Non fu
perciò casuale il fatto che il primo scritto con cui affrontai i
problemi del tempo fu Lo spirito della liturgia (Vom Geist der
Liturgie) 44, che sviluppava il concetto della vita di
preghiera della Chiesa oggettivamente ordinata;
e il secondo 11 senso della Chiesa {Vom Sinn der
Kirche)45, che inizia con la frase: «Un avvenimento
religioso di imprevedibile portata si è iniziato: la Chiesa si desta
nelle anime».
D'altro canto la Chiesa non si identifica con una parte
singola della sua gerarchla, o con una scuola teologica, o con una
prassi tradizionale. Essa è molto più di ciò e, rispetto ad ogni
momento singolo, si apre il ricorso alla sua totalità ed essenza. So
bene che ciò va detto e fatto con cautela, poiché l'autorità diviene
attuale nel concreto, e l'obbedienza deve esserle prestata dinanzi ad
esso. Ciononostante si da pure la relazione immediata alla Chiesa nella
pienezza della sua essenza, e a partire da questa diviene possibile,
procedere «con fiducia» [ad es. Eb 13,6], come dice san Paolo, quando
il discernimento e il mandato interiore lo consentono. Posso dire che ho
operato sempre con la Chiesa, anche quando per servirla ho proceduto da
solo.
Moltissimo mi ha affaticato il problema della
44
Herder, Freiburg i,B. 1918 (ttad. ital. cit.).
45 Griinewaid, Mainz 1918 (trad. ital. cit.).
154
coscienza cristiana; con questo termine non si intende
semplicemente la fede. Si diventa credenti nel momento in cui si
riconosce la rivelazione e si cerca di obbedire alla sua parola; di
conseguenza intendo per coscienza cristiana che il fatto della
rivelazione divenga il punto di partenza e il suo ordine spirituale
divenga l'ordine del pensiero. A ciò mi sono applicato, perché ero
convinto di poter raggiungere anzitutto partendo di là uno sguardo
completo sul mondo e sulle cose. Non ho sentito mai il dogma come
limite, bensì come sistema delle coordinate della mia coscienza. Con
ciò non intendo dire che io abbia anche portato a compimento realmente
quanto progettato in queste frasi, ma che era il fine mai posto in
questione.
Il mio carattere non mi ha permesso di lavorare secondo
uno schema preventivamente progettato. Quando era necessario, mi sono
adattato, e senza molti disturbi, ma la mia energia ne restò legata.
Così ho sempre cercato la libertà, la quale significava anche
abbastanza spesso solitudine, incertezza, e lotta. Pure ero sicuro, ciò
facendo, di operare non di mio arbitrio personale, ma partendo dalla
grande unità con la Chiesa. E la via per la quale la mia vita è stata
condotta mi sembra una conferma che il mio istinto era giusto. L'impulso
interno e le circostanze esterne si sono sempre corrisposti con tale
precisione che divenivano sorprendenti.
A tal proposito è anche avvenuto qualcosa che
retrospettivamente mi riempie di riconoscenza. I
155
laici hanno accolto subito e con crescente prontezza il
mio lavoro; ma da alcuni anni anche l'autorità ecclesiastica comincia a
dimostrarmi fiducia. Questo io sento come conferma che mi allieta e
desidero di tutto cuore che possa restare acquisito sino alla fine.
156
TAVOLA CRONOLOGICA
1885 (17 febbraio) Nascita a Verona.
1886 Trasferimento della famiglia a Magonza. 1891
Iscrizione alla scuola elementare (Volks-schuie) a Magonza con
Karl Neundórfer.
1903 (7 agosto) Esame di maturità a Magonza. (Semestre
invernale) Inizio dello studio della chimica a Tubinga (due semestri).
1904 (Semestre invernale) Inizio dello studio
dell'economia politica a Berlino (un semestre).
1906 (Semestre estivo) Inizio dello studio della teologia
a Tubinga.
1906-1907 (Semestre invernale) Prosecuzione dello studio
della teologia a Tubinga (due semestri) .
1908 Decisione per la vocazione.
(Semestre invernale) Ingresso nel seminario di Magonza.
1910 (28 maggio) Ordinazione presbiterale (da parte del
vescovo Georg Heinrich Kirs-tein).
1911 (27 maggio) Cappellano a Darmstadt, 0-spedale.
(1 agosto) Cappellano a Worms, parrocchia del Duomo.
(11 agosto) Assunzione della cittadinanza tedesca come
condizione per impartire l'insegnamento della religione.
1912 (16 aprile) Cappellano a Magonza, S. Cri-stoforo.
157
(1 ottobre) Permesso per l'approfondimento dello studio
a Friburgo in Brisgovia al fine di preparare la tesi di laurea,
residenza nel Collegium Sapientiae.
1913 (15 giugno) Morte di Josefine Schleuss-ner.
Viaggio a Neisse (Nisa in polacco) con Wilhelm
Schleussner.
1915 (15 maggio) Laurea di dottore in teologia a
Friburgo in Brisgovia con la tesi Die Lehre des heil. Bonaventura von
der Er-lósung. Ein Beitrag zur Geschichte una zum System der
Eriósungsiehre (La dottrina di san Bonaventura sulla redenzione. Un
contributo alla storia e al sistema della dottrina sulla redenzione)
(stampata nel 1921).
(20 maggio) Cappellano a Magonza, S. I-gnazio.
1915-1920 Dirczione della «Juventus», una associazione
di studenti delle scuole medie superiori a Magonza.
1916 (1 febbraio) Cappellano a Magonza, S. Em-merano.
(21 agosto) Cappellano a Magonza, S. Pietro.
Chiamata al servizio militare come infermiere. Primo
rapporto con l'abbazia Maria Laach.
1918 Appare Vom Geist der Liturgie (Lo spirito
della liturgia) come primo volumetto della collana di Maria Laach
«Ecclesia orans».
1920 (13 aprile) Permesso per l'abilitazione alla libera
docenza a Bonn. ... Primo incontro con la Jugendbewegung (Movimento
della gioventù) in occasione
158
•:.- . della seconda giornata tedesca del
«Quick-born» al castello di Rothenfels. Durante il periodo
dell'abilitazione, dapprima sacerdote addetto all'Istituto Sacre Coeur a
Pùtzchen presso Beuel sul Reno, poi incarico di curare la succursale di
Hol-torf appartenente alla parrocchia di Kù-dinghoven (Siebengebirge).
1922 Abilitazione alla libera docenza presso la Università
di Bonn in dogmatica cattolica con la tesi Die Lehren vom lumen
mentis, von der gradatio entium una von der in-fluentia sensus et motus
und ihre Bedeu-tung fùr den Aufbau des Systems Bona-venturas (Le
dottrine del lumen mentis, della gradatio entium e deìì'influentia
sensus et motus e il loro significato per la costruzione del sistema
di Bonaventura) (pubblicata nel 1964).
Libero docente alla facoltà teologica cattolica
dell'Università di Bonn. Ciclo di conferenze Vom Sinn der Kirche (II
senso della Chiesa) al Convegno dell'associazione dei laureati cattolici
a Bonn.
1923 (11 aprile) Chiamata alla cattedra di nuova
istituzione di «Filosofia della religione e Weltanschauung
cattolica» nell'Università di Berlino. Per ragioni organizzative
Guar-dini è membro della facoltà teologica cattolica dell'Università
di Breslavia (oggi Wroclaw) con l'obbligo di tenere lezioni
all'Università di Berlino come ospite permanente.
1925 Morte di Karl Neundórfer.
1927 Assunzione della celebrazione della Messa al
mercoledì nella Soziale Frauenschuie (Scuola sociale femminile)
a Berlino.
L59
1928-1943 Strutturazione della liturgia domenicale - per
studenti a Berlino, S. Benedetto.
1931 Lezione alle prime Settimane della scuola superiore
a Salisburgo.
1936 Dopo la residenza in diverse abitazioni a Potsdam e
Berlino, entrata nella propria casa costruita da Rudolf Schwarz a
Berlino-Schlachtensee.
1939-1943 Attività come conferenziere nella università
popolare a Berlino.
1939 (11 marzo) Abolizione della cattedra da parte dei
nazisti e pensionamento. Conferenze serali a Berlino, S. Canisio.
Chiusura del castello di Rothenfeis da parte delle autorità naziste.
1943 Trasferimento da Berlino a Mooshausen (Algovia)
dall'amico parroco Josef Weiger. Inizio delle annotazioni
autobiografiche.
1944 Prima visita a Magonza dal 1923.
1945 (6 marzo) Qui terminano le annotazioni
autobiografiche di Guardini esattamente a
sessant'anni. 1968 (1 ottobre) Romano Guardini muore a
83
anni a Monaco.
160
165
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|
INDICE
Prefazione
di franz henrich , . '. . 7
Lettera di introduzione a Johannes Sport . . 15
In caso di morte ... . . . . 19
Un sogno . . . . ... . . 20
CARRIERA UNIVERSITARIA E ATTIVITÀ DI
INSEGNAMENTO
i. L'itinerario verso la laurea .... 21
Seminarista con interessi personali, 21 - La ricerca
.dell'argomento per la tesi di laurea, 2.3 - La dottrina della
redenzione di san Bonaventura, 29.
il. Esperienza a Magonza . . . . .
31 Frustrazione per la mancata nomina a professore nel Seminario di
Magonza, 31 - La guida della «Juventus» a Magonza, 33 - II vescovo
Albert Stohr, 35.
IXl. Andata
a Bonn per l'abilitazione , . 35
Lo .spirito della liturgia, 36 - L'abate di Maria Laach
s'impegna, 36 - La tesi per l'abilitazione, 37 - La lezione di prova per
l'abilitazione, 39 -Docente privato a Bonn, 40 - II forte sentimento
della linea intcriore, 41 - II Senso della Chiesa, 43.
iv. Cattedra a Berlino ..... OA La
cattedra come corpo estraneo, 44 - La lotta
163
per la determinazione del contenuto della cattedra, 51.
v. Lezioni e loro eco ..... 53
Gli uditori, 53 - L'elaborazione delle lezioni, 54 -
Vengono anche protestanti, 62.
VI. Abolizione della cattedra da parte dei nazisti
......... 63
Pensionamento, 65 - Progetti di libri e conferenze, 67 -
Allontanamento da Berlino in dirczione di Mooshausen, 69.
RICERCA DELLA VOCAZIONE. SACERDOZIO E ATTIVITÀ
PASTORALE
i. Chiesa paterna, fanciullezza, scuola . .
71
La famiglia italiana in Germania, 71-11 padre, 74 - La
tendenza alla coscienza scrupolosa, 76.
li. Chimica ed economia politica ... 77 Due
semestri a Tubinga, 78.
ili. Studente in crisi ...... 81
Didattica nella Economia politica a Monaco, 81 -Scuola
superiore, 82 - La città e gli studenti, 84 -La crisi religiosa, 85 - I
coniugi Schleussner, 85.
IV. Amicizia e colloqui di fede .... 88
L'amico Karl Neundòrfer, 88 - Ferie al lago di
Starnberg, 88 - La fede ritorna dall'interno, 90.
v. Chiamato al sacerdozio . . . .93
II semestre a Berlino, 93 - II pensiero del sacerdozio,
95 - Studio della teologia a Friburgo, 97 - II retaggio della
malinconia, 98.
vi. Studio della teologia a Tubinga . . .
101
Amici di studio, 103 - Confessioni dal prof. Koch, 105 -
Le lezioni del prof. Koch, 107 -Rivelazióne e Chiesa come base, 110 -
Liturgia a Beuron, 113.
164
VII. Ingresso
nel Seminario di Magonza . . 116
La decisione per il sacerdozio messa alla prova, 116
- II seminario nella sua configura2Ìone ideale, 116 - Esperienze nel
Seminario di Magonza, 120 - La prima Messa, 122.
vili. Il
periodo d'impegno come cappellano . 123
La predica2Ìone, 125 - La scuola, 127 - II mondo delle
associazioni, 128 - Tipi fondamentali di attività sacerdotale, 128 -
Parroco e cappellano, 130.
ix. Studio
e azione pastorale .... 134
II periodo berlinese ..... 137
Liturgia per gli studenti a S. Benedetto, 138 -II senso
della predicazione, 140 - Ore di colloqui, 143 - Cari Sonnenschein, 14.5
- Associazione dei laureati e Settimane della scuola superiore di
Salisburgo, 148 - Conferenze serali a S. Cani-sio, 149.
xi. Specificità
personale del mio operare e
opinione pubblica ecclesiale . . . 150
Tavola cronologica .......
157
x.
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