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OPERE DI ROMANO GUARDINI

EDIZIONE ITALIANA A CURA DEL «CENTRO DI STUDI FILOSOFICI DI GALLARATE»

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ROMANO GUARDINI

APPUNTI PER UN'AUTOBIOGRAFIA

Editi dall'opus postumum a cura di Franz Henrich

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera:

Berichte ùber mein Leben Autobiographische Aufzeichnungen Aus dem Nachlass herausgegeben von 'Franz Henrich

by Patmos Veriag-Dusseldorf 1984 - Dritte Auflage 1985 Dei diritti d'autore sulle opere di Romano Guardini dispone la Katholische Akademie in Bayern

Trad. di giancarlo penati

Con approvazione ecclesiastica

O 1986 by Editrice Morcelliana S.p.A. - Bresda Tipolitografia La Nuova Cartografica - Broscia 1986

PREFAZIONE

II 17 febbraio 1985 cade il centenario della nascita di Romano Guardini (1885-1968), uno dei più significativi filosofi della religione, teologi, pedagogisti ed ermeneuti. La Katholische Akademie di Baviera si propone sin dal suo inizio (1957) di collegarsi particolarmente all'opera di Guardini. Con deliberazione dell'8 dicembre 1982 si è impegnata con gli eredi dì Romano Guardini a occuparsi per la più ampia diffusione delle sue opere, il che comprende fra l'altro la tutela dei suoi diritti di autore, la cura ed eventuale pubblicazione degli inediti, la preparazione di una edizione completa e l'organizzazione di un Archivio Guardini. In accordo con il comitato competente costituito per la cura secondo il testamento dei suoi inediti, l'Accademia coglie l'occasione del suo centenario per dare alle stampe le note autobiografiche di Romano Guardini Berichte uber mein Leben. Quali mèmbri del comitato erano dapprima stati designati il prof. dr. Werner Deffloff, il dr. Felix Messerschmid (presidente sino alla morte, nel 1981), il prof. dr. Johannes Sport (anch'egli deceduto nel 1977) e la dr." Bernardine Sug-Bellini (mancata nel 1979). Oggi vi appartengono come aventi diritto dì voto:

il prof. dr. Eugen Biser, il prof. dr. Werner Def-

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tioff, il prof. dr. Franz Henrich (Presidente), il prof. dr. Richard Heinzmann: mèmbri consiglieri sono Giuliano Guardini e il dr. Hans Mercker.

Il Comitato e l'editore non hanno preso facilmente la decisione di pubblicare questi documenti. I Berichte sono rimasti in due esemplari scritti a macchina, che si trovano negli archivi di due amici di R. Guardini: l'originale presso Johannes Spóri e la prima copia presso Felix Messerschmid, che era anche il curatore testamentario di Guardini. 'Nell'esemplare di Messerschmid si trovano come fogli separati i testi Fiir den Todesfall (5-2-1964) e Aus einem Traum (TJn sogno, 1-8-1964).

Il fatto che questi abbozzi per un'autobiografia non fossero compresi nell'insieme dei veri e propri inediti letterari di Guardini, fa presumere che l'autore intendesse lasciare al giudizio del suo più giovane amico, a lui legato sin dal tempo di Rothen-feis, la decisione se e in quale forma pubblicare i Berichte. In questo senso da espressa indicazione anche la Lettera a Johannes Spóri del 12-1-1945. Nella nota Fùr den Todesfall (In caso di morte,) datata quasi vent'anni dopo la stesura dei Berichte, Guardini lascia intendere che le sue note, interrotte a causa della chiamata a Tubinga e non poi riprese, non siano pronte per la pubblicazione, poiché tra l'altro il periodo sino ai sessant'anni non è visto nel suo pieno significato.

Dopo la morte di Romano Guardini ed anche dei suoi amici Johannes Spóri e Felix Messerschmid si imponeva da parte del Comitato degli esperti una

decisione. Sicuramente l'Autore non ha consegnato in due copie ad intimi amici le sue note accuratamente concepite e più volte corrette, per tenerle sotto chiave o per lasciarle del tutto perdere. Che ad un autore vent'anni dopo la stesura venga il dubbio se questo testo incompiuto sia maturo per esser pubblicato, è ovvio. È decisivo il fatto che Romano Guardini, come risulta chiaramente dalla lettera a Spòri, intendeva impedire possibili difetti di presentazione della sua persona. Tutto ciò ha indotto il comitato incaricato della cura degli inediti letterari di Guardini a superare ogni esitazione e non differire più a lungo la -pubblicazione di quest'opera, in analogia con quanto aveva fatto il presidente della commissione degli inediti Felix Mes-serschmid con le note di diario l. Sarebbe inoltre sleale lasciare che altri autori formulino supposizioni, in occasione del centenario della nascita, sulla persona di Guardini, quando materiale autentico è conservato nell'archivio della Katohiische Aka-demie di Baviera.

I Berichte ùber mein Leben furono composti negli anni 1943-45 a Mooshausen in Algovia, dove l'Autore passò gli ultimi anni della seconda guerra mondiale, dopo la soppressione disposta dai nazisti della sua cattedra berlinese, nella casa parrocchiale dell'amico Josef Weiger. Essi furono scritti

1 Cfr. R. guardimi, Wahrheit des Denkens una Wahrheit des Tuns. Notszen unì lexte 1942-1964, Aus nachgelassene Aufzeichnungen hrsg. v. F. messerschmid, F. Schoningh, Paderborn-Munchen-Wien-Zùrich 1980 (trad. ital., Diario, Appunti e testi dal 1942 al 1964, Morcelliana, Brescia 1983).

poco prima del suo sessantesimo compleanno, quando egli poco poteva operare in pubblico e doveva fare scarso conto di una possibile nuova chiamata ad insegnare. Il testo si presenta bipartito, poiché dopo la lettera a J. Spari seguono due parti distinte e numerate in cifre romane, che riferiscono essenzialmente notizie dello stesso periodo della vita di Guardini, ma ne trattano da un diverso punto di vista. La prima parte, «Carriera universitaria e attività d'insegnamento», inizia dal momento in cui Guardini pensa ad abilitarsi per l'insegnamento universitario (nella redazione stesa dal 14 al 19 febbraio 1945). La seconda parte «La ricerca della vocazione. Sacerdozio e attività pastorale» (nella redazione stesa dal 21 febbraio al 6 marzo 1945) concerne, in aggiunta, il periodo degli anni di fanciullezza fino alla fine degli studi. In molti luoghi l'Autore accenna che verrà a parlare dì determinate questioni o di -particolari ambienti più innanzi o in altro luogo; db per lo più non è stato fatto. Mancano così importanti temi complessivi come il movimento giovanile, Quickborn, il Castello di Ro-thenfeis, il movimento e rinnovamento liturgico, gli incontri con scienziati, artisti, pubblicisti ed limici, ecc.

Che le due parti siano da considerare relativamente indipendenti, lo si deduce nel manoscritto dalla numerazione delle pagine e dei capitoli, che ricomincia ogni volta da capo, tuttavia si evidenzia d'altro canto l'appartenenza a un unico tutto di ambedue le parti nella numerazione doppia aggiunta

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a macchina delle pagine nella seconda parte. L'originale e la copia del testo scritto a macchina si presentano nel secondo stadio redazionale e sono riviste con una serie di correzioni scritte a mano da Guardini, che essenzialmente si limitano a miglioramenti stilistici. Come testo per la stampa è servito fondamentalmente l'originale, poiché è corretto in modo maggiore e include annotazioni scritte a mano più numerose della copia. Soltanto là dove le correzioni della copia sono ulteriori rispetto a quelle dell'originale, esse sono state preferite per la stampa. Le proprietà tipiche di Romano Guardini nel linguaggio, nell'ortografia e nella punteggiatura restano invariate. Anche piccole lacune di data, così come anche occasionali imprecisioni, restano intatte nel testo, vengono però rettificate negli indici [nelle note nella versione italiana]'.

Per facilitare l'orientamento del lettore, il curatore ha fatto precedere un indice-sommario e m appendice aggiunto indici dei nomi citati, dei luoghi e delle opere di R. Guardini *, ed anche una cronologia della sua vita, per la cui delineazione molto cordialmente si ringrazia il dr. Hans Mercker. Del resto si noti a questo proposito che più ampie prospettive circa gli anni della vita di Guardini qui non rievocati dal 1945 al 1968, anno della sua morte, danno ad esempio i due seguenti scritti di Romano Guardini: Wahrheit des Denkens und Wahr-

* Questi indici non sono stati riprodotti nell'edizione italiana, ma le notizie che possono interessare il nostro lettore sono state incorporate nelle Note del traduttore.

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heit des Tuns,Notizen und Texte 1942 bis 1964 2, e Stationen und Rùckblicke, Wùrzburg 1965. La connessione di Guardini col movimento giovanile è trattata in: Franz Henrich, Die Bùnde katho-lischer Jugendbewegung, Munck en 1968. Indicazioni autobio grafiche minori si trovano nei discorsi che sono stati scritti in occasione degli anniversari della nascita e delle commemorazioni di Guardini, come pure nelle biografie di contemporanei che trattano di incontri con lui. La Bibliografia di Romano Guardini pubblicata dalla Katholische Akademie di Baviera in occasione del decimo anniversario della morte 3 ne da un riassunto complessivo.

Il presente testo non rappresenta ne una completa autobiografia, ne una autobiografia in senso tradizionale, ordinata secondo le date della vita e il corso defili eventi esterni. In queste annotazioni Guardini segue sempre le orme della sua intima linea di sviluppo, che deve guidarlo al suo compito, sulla sua via, alla parola a lui detta, alla sua «parola d'ordine» (cfr. Un sogno, p. 20). Durante la sua vita Guardini fu molto riservato nel comunicare notizie personali. I suoi Appunti per un'autobiografia non costituiscono soltanto un documento per la storia del tempo e della Chiesa di altissimo valore, ma anzitutto un commovente e in parte impressionante apertura consentono un libero sguardo

2 V. nota 1.

3 Guardinis Werke. Veroffentlichungen ùber Romano Guardini. Rezensionen. Erarbeitet v. hans merckek, Paderbom 1978.

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sul cuore e la mente di un cristiano credente, sacerdote e docente. La personalità e l'opera della sua vita vi appaiono ora in nuova luce su di uno sfondo sinora non noto, cosi da poter facilitare un rinnovato accesso alla sua insostituibile opera. Decisivo è non ciò che ci è gradito o sgradito, «bensì ciò che è vero»!

franz henrich Monaco, ottobre 1984

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LETTERA DI INTRODUZIONE a Johannes Spóri4

Caro Amico,

Entro pochi giorni compio i miei sessant'anni, e si è solitamente d'accordo sul fatto che ciò significa l'inizio della vecchiaia. Non lo dico in senso malinconico, perché faccio conto, se Dio vuoi concedermelo, ancora su parecchi anni di attività e lavoro. Tuttavia neppure posso non riconoscere che anzitutto gli ultimi diciotto mesi con la loro infinita devastazione mi hanno toccato profondamente, e da allora qualcosa è cambiato. Mi capita pure spesso da ultimo di sognare e di incontrare nei sogni persone che appartengono a tempi molto lontani della mia vita; ed io ricordo che una volta una mia vecchia amica diceva che questo avviene di solito quando si avvicina la vecchiaia, poiché significa che la vita va in cerca delle sue radici. E se in

4 Johannes Spori (1904-1977), storico, libero docente dal 1934, poi docente di storia medievale a Friburgo in Br. (1940), Monaco (1947); fu legato a Guardini nel movimento giovanile sin dal primo periodo di Rothenfeis ed ebbe gran parte nella chiamata di Guardini a Monaco (1947) alla cattedra di filosofia della religione e Weltanschauung cristiana. A lui Guardini dedicò Der Tod des Sokrates, Berlin 1943 (trad. ital. La morte di Sacrate, Morcelliana, Bresda 1981).

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questi giorni la lancetta dell'orologio della mia propria piccola vita ritorna ad un'ora importante, anche la lancetta del grande orologio della storia, fa lo stesso; in modo tanto imponente e incalzante, che spesso non si sa come lo si debba sopportare.

Perciò è venuto questa mattina il pensiero se non sia tempo di guardare indietro alla mia propria vita e di renderne conto, anzitutto a me stesso. I diversi motivi e influssi, che tessono insieme lo straordinario intreccio che si chiama esistenza, hanno avuto tempo di mostrarsi; le combinazioni orientatrid si sono annodate e le decisioni principali sono avvenute; perciò lo sguardo può ben riconoscere un insieme coerente che rende possibile una riflessione riconoscente e da luce e forza a quella parte di cammino che ancora rimane. Tu stesso hai già parlato più volte dei fatto che volevi scrivere a suo tempo la mia biografia. In sé questo pensiero mi è estraneo. Ogni uomo esiste soltanto una volta, e nessun corso di vita si ripete; perciò non si può mostrare ciò che è più proprio all'essenza e nel cammino della sua vita. .Le biblioteche sono colme di biografie, ma è bene che le persone di cui esse trattano, siano morte;

non credo che sarebbero molto contente del ritratto che di esse è stato disegnato. Secondo il mio immediato sentimento, alla domanda se desidero una narrazione della mia vita, risponderei di no. Tuttavia già da più di trent'anni ho un'attività pubblica, e la serie dei miei scritti è divenuta a poco a poco lunga. Perciò si vorrà pur sapere chi era l'uomo

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che ha parlato e scritto così, e mi sarebbe quindi gradito che-la mia immagine risultasse abbastanza vera: per tal motivo sarà meglio che io stesso dica qualcosa circa la mia persona e la mia causa.

La questione è soltanto in che modo devo far ciò. Quello più semplice sarebbe una serie di note biografiche che, rimontando indietro tanto quanto può il ricordo, narrassero, di anno in anno, le circostanze esterne e i cambiamenti interni. Ma non mi è occorsa lunga riflessione per chiarire a me stesso che non sono in grado di farlo. Non sono uomo di ampi ricordi; per me è sempre stato, più del passato, importante il futuro. Un piano di narrazione simile, perciò, mostrerebbe troppe lacune. Ma potrei fare in modo di scrivere una serie di capitoli, ciascuno dei quali dipanasse un filo particolare tratto dal tessuto degli avvenimenti, seguendolo di anno in anno sino in fondo; oppure parlare di un qualche settore della mia vita e cercar di mostrare come entro di esso i vari fili di ogni genere si siano intrecciati in un tutto. Ciò avrebbe il vantaggio che io non avrei necessità di essere esauriente, e tuttavia il risultato significherebbe pur sempre qualcosa di relativamente compiuto. Potrei sempre iniziare da dove mi fosse più gradito; e nel caso, possibilissimo, poiché come detto non sono uomo di ricordi, in cui il tutto mi divenisse ostico, potrei smettere senza grave danno. Così cercherò dunque di fare, e tu potrai poi farne quello che ti sembra giusto.

Tu, carissimo Johannes, sei ora anche lontano

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e la grande storia è divenuta nel modo più immediato personalmente tua. Che io racconti a tè, per così dire, questi ricordi, significa, insieme, il desiderio che tu possa presto dopo un felice ritorno leggerli e, come scrittore di storia, quale tu sei, avere l'occasione di utilizzarli.

Mooshausen, 12 febbraio 1945.

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JN CASO DI MORTE

Note sulla mia vita

Dopo la mia partenza da Berlino e durante il mio soggiorno a Mooshausen (1943-45) ho scritto annotazioni sulla mia vita, sulla mia evoluzione spirituale, ecc. Questo lavoro fu interrotto nel 1945 a causa della mia chiamata a Tubinga e da allora non è più stato ripreso.

Nello stato in cui è attualmente, esso non è pronto per la pubblicazione. Anzitutto, poiché giunge solo sino al sessantesimo anno della mia vita; ma poi perché quanto si riferisce al tempo precedente non ha ancora raggiunto il suo pieno significato.

5-2-1964

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UN SOGNO

Stanotte, ma verso mattina, all'ora, dei sogni, ne ho fatto uno anch'io. Che cosa vi si svolgeva, non lo so più, ma era un qualche discorso; e se fosse fatto a me, o da me, anche questo non lo so più.

Però vi si diceva che, quando un uomo nasce, gli viene consegnata una parola, ed era chiara, che cosa significasse: non era soltanto un carattere, ma una parola. Essa viene pronunziata all'interno della essenza dell'uomo, ed è come la parola d'ordine per tutto quanto poi accade; è insieme forza e debolezza, è compito e promessa, è protezione e minaccia. Tutto ciò che avviene nel corso degli anni, è conseguenza di questa parola, è suo commento e adempimento. E avviene perciò che colui cui essa è stata detta, ogni uomo, poiché ad ognuno ne viene singolarmente detta una, la comprenda e con . essa venga ad accordarsi. E sarà forse questa parola ad essere il fondamento di ciò che un giorno il Giudice gli dirà.

1.8.1964

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CARRIERA UNIVERSITARIA E ATTIVITÀ D'INSEGNAMENTO

Mi trovo ora da un anno e mezzo qui a Mooshau-sen, un piccolo villaggio dell'Algovia sveva. In questo periodo la mia nostalgia per l'attività di insegnamento accademico, che credevo di aver concluso, è. nuovamente molto cresciuta. Nella primavera del 1939, la mia cattedra era stata soppressa, e circa sei mesi fa ho tenuto a Stoccarda, invitato là dalla locale Hólderlin Gesellschaft, in un'aula della Technische Hochschuie, una relazione su «II paesaggio nella poesia di Hólderlin» 1. È stato proprio la sola volta, da quella soppressione, che mi son sentito totalmente al mio posto. Nessuno sa che cosa porterà il futuro. Chissà, forse sarò io pure chiamato ancora una volta 2.

Quando ieri ho pensato a come dovessi iniziare queste «note», ho deciso che anzitutto dovevo riferire come si è svolto il mio cammino verso l'Università e poi entro il suo mondo. Ciò non corrispon-

* Cfr. R. guardimi, Form und Sinn der Landschaft in der Dichtung Holderlins, Wunderlich, Tubingen-Stuttgart 1946.

2 In realtà Guardini doveva esser chiamato a riprendere l'insegnamento a Tubinga già nel 1945 e successivamente a Monaco di Baviera (1947).

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de certamente a un buon metodo storico; ma probabilmente dice qualcosa circa la stratificazione dei motivi spirituali nella mia vita, il fatto che essa per la prima volta trovasse espressione letteraria.

Quando affiorasse per la prima volta nella mia vita l'intenzione di dedicarmi all'insegnamento accademico, non sono più in grado di dirlo: in ogni caso, non prima del mio inizio di studi teologia, poiché fino allora tutto era completamente confuso. Probabilmente avvenne quando, dopo nove semestri di studi universitari, di cui quattro dedicati alla teologia, entrai nel Seminario ecclesiastico di Ma-gonza. In generale gli iscritti ai corsi teologici provenivano, senza periodi intermedi, dal seminario minore. Soltanto raramente qualcuno aveva frequentato, e molto brevemente, l'università: così questa mia provenienza accademica apparve in quell'ambiente qualcosa di speciale. Mi ricordo anche che mio padre, che aveva accettato il mio proposito di divenire sacerdote soltanto con molta contrarietà, espresse il desiderio che io fossi in ogni caso • laureato. Questo desiderio egli aveva anche espresso all'alierà Rettore del seminario, il prof. Becker;

il quale non fece però in merito alcuna promessa, ed anzi dispose che io dovessi fare esattamente come tutti gli altri, pur lasciando aperta quella possibilità. Ma da ciò si formò una sorta di presunzione che la mia strada fosse certo quella dell'insegnamento.

Quando fui ordinato sacerdote, questa idea pre-

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se una forma più concreta. L'ordinazione non si era svolta in verità senza difficoltà. Insieme al mio amico Karl Neundórfer, che era entrato un semestre dopo di me, mi ero permesso critiche di ogni genere, e il collegio dei professori ne era tanto preoccupato da esprimere l'opinione che ci si dovesse piuttosto lasciar uscire. Questo però non ci nocque, e sia pure con il ritardo di un semestre, giungemmo al fine. Dopo due destinazioni provvisorie, di cui dirò, andai come cappellano a St. Christoph a Magonza, il cui parroco era ben noto per il fatto di non lasciare al suo cappellano niente di importante da fare: e così era considerato un incarico nel quale avanzava tempo. Dovevo colà iniziare a lavorare per la mia laurea.

Con ciò però si presentò qualcosa di non facile;

anzitutto la questione dell'argomento di laurea. Raccomandato dal Rettore del seminario, mi recai per consiglio dal prof. Grabmann3, che teneva allora la cattedra di teologia dogmatica a ... Egli si trovava appunto a Bad Worishofen, e della mia visita mi è proprio rimasto soltanto il ricordo di come la gente girava sotto la pioggia torrenziale a piedi nudi. Tutto il resto, ad eccezione dell'impressione

3 Martin Grabmann (1875-1949), storico della teologia e filosofia, docente di dogmatica a Eichstatt (1906), Vienna (1913), Monaco (1918), è uno dei principali studiosi della filosofia e teologia medievale, con la dirczione dei «Beitrage zur Geschich-te der Philosophie und Theologie des Mittelalters» e del «Phi-losophisches Jahrbuch» ed esponente della rinascita in sede storica e teoretica degli studi tomistici.

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di accoglienza amichevole di Grabmann, l'ho di' menticato. In particolare non potè darmi alcun aiuto, probabilmente per colpa mia. Ne ricordo più quale argomento mi consigliò.

Allora lo cercai da solo. Già a Tubinga, stimolato da Beuron4, mi ero introdotto agli argomenti liturgici. Poiché dopo la consacrazione a suddiaco-no avevo iniziato a leggere il Breviario, i responsori dopo le letture del mattutino mi avevano fatto speciale impressione: così feci il progetto di lavorare su di essi. Intendevo ricercare, con l'appoggio dei metodi dell'analisi critico-estetica, secondo quali leggi fossero stati stabiliti, come fossero stati annessi alle lezioni e in generale al mattutino, quali pensieri emergessero in essi, ecc. Alla questione, in quale disciplina teologica questo argomento dovesse inserirsi, non dedicai molta attenzione, come infondo mai me ne sono fatto un pensiero. Non ho mai avuto molta sensibilità per le «discipline», e questa era una buona disposizione, che mi ha permesso di percorrere la mia strada libero da barriere disciplinari. Tuttavia dovevo pur scegliere una discipli-• na, il che implicava la scelta del docente con il quale laurearmi, e poiché per me si poteva pensare so-

4 L'antica abbazia di Beuron, presso Sigmaringen, nell'alta valle del Danubio, esistente sin dal sec. ix come convento di canonici regolari, dal sec. xvn monastero benedettino, ristabilito nel sec. xix, fu da allora centro di un movimento di rinnovamento liturgico e di arte sacra, d'ispirazione tra il nazzare-no e il primitivista (p. Desiderius Lenz), che si diffuse in Germania e all'estero.

5 Karl Kiinstle (1859-1932), fu docente di teologia pastorale e storia dell'arte a Friburgo in Br. dal 1896.

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io a Friburgo, mi rivolsi al prof. E. Kùnstle5, che fra l'altro era docente anche di liturgia. Gli prospettai i miei punti di vista, ma con questi non devo avergli fatto buona impressione. Egli era uno storico, e non poteva immaginarsi il modo in cui intendevo svolgere il lavoro, e io, che non ero nessuno, non potevo spiegarglielo. Quello che progettavo gli sembrò letteratura, e mi consigliò di riflettere molto sulla questione.

Con ciò ho toccato un punto che mi doveva procurare ancora molte difficoltà. All'inizio del secolo, «scienza» era scienza naturale o storia. Nell'ambito cattolico la situazione era la stessa, ormai, riguardo alla ricerca scientifica in generale riconosciuta segretamente come parametro, inoltre con una certa preoccupata ristrettezza. Condurre scientificamente un lavoro teologico significava stabilire che cosa un dato tempo o un dato uomo avevano pensato circa una questione. Ma questo non mi interessava, e non mi ha mai interessato neppure poi sino ad oggi.

Vedevo bene il significato di tali ricerche proprio per la teologia cattolica, che riconosce la tradizione ecclesiale come portatrice della rivelazione; ma ciò che spontaneamente mi interessava, non era la questione, che cosa qualcuno avesse detto circa la verità cristiana, bensì che cosa fosse vero. Così per molto tempo mi sono trovato in una situazione falsa: volevo trovare e dire cose valide scientificamente, ma non lo potevo fare nell'unica forma riconosciuta come scientifica. D'altro canto,

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non sapevo in qual modo lo dovessi fare per poterne essere soddisfatto e persuaderne gli altri. Ho dovuto per anni lavorare in modo storico senza poterlo fare in modo ordinato; e quando cercavo di esprimere in materia che cosa mi stesse propriamente a cuore, avevo sempre la sensazione che i miei critici non sapessero bene che cosa dovessero trar-ne fuori.

Faccio un passo indietro. A poco a poco mi persuasi che non v'era niente da fare con l'argomento responsori. Nel frattempo era venuto il momento della mia licenza, e mi recai nella primavera (?) del 1912 a Friburgo. Colà si trovava il Colle gium Sa-pientiae, chiamato anche semplicemente «die Bur-se», una fondazione del canonista Heiner, ove tutti quelli che intendevano continuare a lavorare dopo il completamento dei loro studi, dimoravano in una libera comunità. Secondo gli Statuti ogni diocesi aveva il diritto di presentare un candidato, e per me era stato reso libero un posto. Ottenni la borsa di studio «Moufang», i proventi di una fondazione _di studio - pochissimo richiesta per il suo scopo preciso - fatta da un antico vicario generale di Ma-gonza 6. Essi dovevano servire, come aveva stabilito mio padre, per spese eccezionali; per il mantenimento corrente avrebbe pensato egli stesso.

Ero quindi di nuovo all'università e dovevo restarvi sino all'estate 1915. Fu un buon periodo:

6 Franz Christoph Moufang (1817-1890) fu rettore e docente al seminario di Magonza dal 1851 e poi dal 1871 membro del Reichstag, il Parlamento tedesco.

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il lavoro scientifico, stimolanti relazioni personali, e il chiarirsi delle mie intenzioni spirituali si intrecciano nel mio ricordo con l'immagine della bella città, oggi distrutta.

Ma l'inizio di quel periodo non fu facile. La questione dell'argomento della dissertazione di laurea si presentò inquietante. Questa insicurezza non era affatto casuale. Essa mi ha dato da fare, come ancora dovrò notare, anche sotto altri riguardi e per altri periodi della mia vita, e ha ben attinenza alle cose che, sia come compito, sia come carico, mi vengono imposte. Mi separai, non so più come, in ogni caso in buona maniera, da Kiinstle, e mi decisi per la dogmatica, sia per mia inclinazione, poiché vedevo in questa disciplina il centro della teologia, sia perché lo si desiderava a Magonza. Una laurea di perfezionamento scientifico colà non contava;

chi intendeva laurearsi dottore, lo faceva per uno scopo preciso. Per me era quello di prepararmi ad assumere la cattedra di dogmatica nel Seminario.

Perciò andai dal prof. Cari Braig; avevo già prima studiato il suo Manuale di filosofia 7 e da molte sue parti - più precisamente devo dire: tesi — avevo ricevuto una forte impressione. V'era in esse un suono originariamente filosofico. Non era molto sti-

7 II titolo esatto è Grundwge der Philosophie, Freiburg i.B. 1896-97: Cari Braig (1853-1923) fu docente di filosofia cristiana a Tubinga (1893), poi a Friburgo in Br. (1897) e relatore della dissertazione di laurea di Guardini, che poi gli dedicò la sua opera Vom Leben des Glaubens, Griinewaid, Mainz 1935 (trad. ital. La vita della fede, Morcelliana, Broscia 1965).

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mato, era venuto da Tubinga, e, in origine filosofo, aveva poi occupato una cattedra teologica. Le sue lezioni erano troppo difficili, egli era un argomen-tatore sottile. Ho ancora dinanzi agli occhi il modo in cui egli, con una matitina in mano, guardava la sua punta e parlava totalmente assorto. Quando durante la mia visita mi avvicinai a lui, fece un piccolo movimento arretrando. Più innanzi sperimentai che ciò gli era abituale; era parte del suo carattere. Gli dissi quale impressione mi aveva fatto il suo manuale, ed egli mi rispose col suo accento svevo: «Non so proprio più che cosa vi abbia scritto». Anche questo era del suo carattere: aveva dovuto rinunziare a ciò che per lui era stato proprio importante. Poi gli raccontai donde venivo, che cosa si prospettava per me, e gli feci la richiesta di un argomento per la tesi di laurea. Mi consigliò un confronto fra Tommaso d'Aquino e Wilhelm Wundt. Non ricordo più su quale base si dovesse fondare il confronto: in ogni caso mi stupisco an-cor oggi del fatto che un docente universitario potesse assegnare un argomento di tal genere.

' Naturalmente anche questo argomento non andò bene; non riuscii a farne nulla e dopo poco tempo rimasi un'altra volta fermo. Era un gran guaio, specialmente riguardo a Magonza; alla scarsa comprensione che laggiù si aveva in generale per l'attività scientifica, e — come io ora aggiungo retrospettivamente - alla sfiducia verso la mia persona che dall'inizio doveva esservi stata. Allora ne fui anche del tutto disperato e non sapevo semplicemen-

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tè che cosa fare. Un mio conoscente però mi consigliò di .rivolgermi all'alierà libero docente Engel-bert Krebs 8, che era stimato uomo prudente e ben disposto ad aiutare e a cui lode si attribuiva una grande libertà di spirito. Seguii il consiglio e non ebbi a pentirmene. Egli mi indirizzò verso san Bo-naventura, l'edÌ2Ìone critica del quale era uscita a cura del Collegio di Quaracchi, cosicché era disponibile il primo requisito per una ricerca sistematica; e precisamente io dovevo trattare della sua dottrina della redenzione.

Così finalmente avevo il mio argomento e vi lavorai per un anno e mezzo: un tempo alquanto lungo, come poi anche da Magon2a non si mancò di far notare. Questo prolungarsi del mio lavoro dipese dalle difficoltà già descritte della mia disposizione di spirito. Dovevo lavorare da un punto di vista storico, ma il mio interesse si rivolgeva però a questioni sistematiche. Alcuni anni prima avevo formulato con precisione i pensieri che avevo costruito assieme a Karl Neundórfer, dei quali ancora debbo espressamente riferire, cioè la dottrina dell'opposizione9. Con riferimento ad essa, aveva-

8 Engelbert Krebs (1881-1950) divenne poi docente di dogmatica a Friburgo in Br. (1919), succedendo a Cari Braig.

9 Cfr., Der Gegensatz. Versuch w eìner Philosophie des Lebendig-Konkreten, Mainz 1925 (il ed. Griinewaid, Mainz 1956; ttad. ital. Scritti filosofici. Fabbri, voi. i, Milano 1964);

v. pure A. babolin, R. Guardini filosofo dell'alterila, 2 voli., Zanichelli, Bologna 1968-69, e in Questioni di storiografia fi-losoftca. La Scuola, Brescia 1978, voi. v, pp. 390-394. Un primo abbozzo della teoria era già stato pubblicato nel 1917.

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mo costruito una teoria dei tipi psicologici, ai quali dovevano corrispondere le strutture fondamentali della vita culturale. Io volevo applicare qui questo principio. Bonaventura era appropriato in modo particolare a questo esperimento per il fatto che la sua teologia riunisce elementi distinti. Egli è un agostiniano che con una certa fatica si inserisce nella corrente aristotelica del suo tempo, e del resto più homo religiosus e mistico che teoretico. Così potei effettivamente estrarre dai suoi scritti ciò che mi conveniva, cioè i due o tré tipi fondamentali di teoria della redenzione. Questa è ancor oggi l'utilità propria del libro apparso a Diisseldorf, nel 1921, presso l'editore Schwann col titolo La dottrina di san Bonaventura sulla redenzione. Un contributo alla storia e al sistema della dottrina della redenzione w. Le sue parti storiche le scrissi soltanto perché ero obbligato a farlo, e sono pertanto cattive. Ciò fu anche criticato nel giudizio; tuttavia al lavoro toccò il voto migliore.

L'esame di laurea di Friburgo passava per essere leggero, perché si potevano superare le sette disci-- piine in tré tempi. Tuttavia feci molta fatica, poiché la maggior difficoltà consisteva soprattutto nell'aspetto storico, ed io non avevo proprio alcuna memoria per i fatti. Dovetti applicarmi molto, di tanto in tanto fino all'esaurimento delle mie forze fisiche. E l'esame orale fu comunque sostenuto col secondo voto.

10 Die Lehre des hi. Bonaventura von der Eriósung. Ein Beitrag zur Geschichte und zum System der Eriosungsiehre, Schwann, Diisseldorf 1921 (Dissertation).

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La terza fase dell'esame si svolse mentre incombeva una grave difficoltà esterna. L'Italia era sul punto di entrare in guerra; mio padre era cittadino italiano e teneva il consolato a Magonza. Poteva così accadere qualcosa da un momento all'altro, che rendesse la mia presenza necessaria. Effettivamente egli poi dovette anche, dopo la dichiarazione di guerra, lasciare la Germania dalla sera alla mattina, ma non tornò in Italia, bensì restò in Svizzera, nella speranza di mantenere così un certo contatto:

due miei fratelli erano in Italia, un altro a Magonza. Così dovetti prendermi una parte di responsabilità per le cose di famiglia e per gli affari di mio padre.

II

Appena concluso il periodo di permesso per la laurea in vista di un'attività di insegnamento al Seminario di Magonza, nella stessa prospettiva mi fu dato un altro impiego occasionale. Divenni cappellano a Magonza, da ultimo alla bella chiesa rococò di San Pietro, che come mi fu detto, era ancora indenne poco tempo fa. Vi rimasi cinque anni, un periodo al quale ripenso con sentimenti davvero differenziati. Di esso dirò di più in altro luogo. In esso si verificò la mia chiamata alle armi nell'autunno 1916. Prestai servizio come infermiere, prevalentemente in ufficio, sino alla primavera del 1918.

Dal 1915 al 1920 ebbi anche la guida della

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«Juventus», un'associazione di studenti degli istituti di istruzione superiore. Questo incarico mi fu dato in relazione al fatto che già dovevo soggiornare a Magonza; così anche in esso v'era un riferimento alla prospettiva dell'insegnamento in Seminario. Ma con ciò la cosa andava per le lunghe, e cominciai a sentirmi non sicuro. A poco a poco mi divenne chiaro dove stesse il centro dell'opposizione verso la mia persona, e precisamente nel membro del capitolo del Duomo dott. Ludwig Bendix. Fondamentalmente era la personalità decisiva nella diocesi, un uomo interessante e dotato, in possesso di una cultura personale. La sua famiglia doveva essere in qualche modo in contatto con il mondo dei romantici: il Duomo di Magonza era stato dipinto dai fratelli Veit n; il precedente vicario generale, Raich, era, se mi ricordo bene, legato in qualche tortuoso modo con Novalis 12, e ancora altre cose del genere. Ma questi legami si erano sviluppati in Bendix non nel senso di un ampliamento e impulso spirituale, bensì in modo da farne un reazionario della più bell'acqua. Lo immagino ancora abbastanza bene dinanzi a me: di media statura, di taglia che tendeva un poco alla pinguedine; con piccoli piedi calzati in modo rigidamente clericale; con un viso caratteristico, che somigliava un po' a quello

n Philipp Veit (1795-1877) dipinse con la sua scuola gli affreschi del Duomo di Magonza, ove era anche direttore delle collezioni d'arte cittadine.

i2 Novalis (Friedrich von Hardenberg,_ 1772-1801)_ è il famoso pensatore e poeta romantico sostenitore di un idealismo «magico» e individualistico.

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eli Napoleone, il che egli consapevolmente accresceva, poiché portava i capelli alla Napoleone. Quando voleva, sapeva essere affascinante; ma di regola .non lo voleva, cosicché i più lo ricordano con una espressione piuttosto cupa, forse anche sprezzante. Credo fosse un uomo deluso, e che ciò avesse acuito il pessimismo romantico e contribuito a fare di lui l'avversario di ogni movimento che tendesse a più ampio spazio di libertà, di ogni autonomia spirituale, di ogni confronto genuino col nostro tempo, per i lunghi anni in cui egli fece sentire il suo peso sulla diocesi. Tutto ciò doveva influire anche sulla mia destinazione: se vedo bene, la mia designazione era stata fatta contro il suo desiderio, o almeno senza la sua iniziativa; forse però aveva anche semplicemente cambiato le sue prospettive a mio riguardo. Io avevo sempre provato simpatia per lui, e quand'ero da lui, sentivo che anch'egli aveva simpatia per me. Perciò potevo immaginare che la sua posizione verso di me fosse in sé scissa, e alla fine egli credesse di dover agire in linea di principio contro i suoi sentimenti amichevoli. Che cosa lo inducesse a ciò, non lo so ma presumo che fosse il modo in cui guidavo la «Juventus». Questa associazione era stata fondata come congregazione mariana da lui e da suo fratello, presidente dell'Istituto degli apprendisti cattolici, e l'aveva sempre interpretata come a lui specialmente legata. Poiché io la guidavo, senza sapere che cosa fosse la ]ugendbewegung, il movimento giovanile, nella dirczione di questo, devo averlo preoccupato ed

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anche forse offeso. In ogni caso mi divenne chiaro che egli non desiderava la mia chiamata al Seminario di Magonza, certo pensava a un altro candidato. Ma contro la sua volontà non poteva avvenire nulla, quindi la mia situazione a mano a mano si fece insostenibile. Decisi pertanto di avanzare una domanda che, se in qualche modo si faceva conto su di me, secondo le tradizioni di Magonza, in ogni caso avrebbe dovuto essere respinta: chiesi, per il progresso dei miei studi, di avere il permesso di andar di nuovo all'università. La domanda fu sen-z'altro accettata, ed ora io sapevo in che posizione stavo.

Tutta la faccenda costituì un venir meno a reali promesse che erano state fatte, certo non formal-mente, ma sotto forma di atti, e così fu anche generalmente interpretata la cosa; tanto più che proprio nulla era avvenuto con cui avessi tradito la fiducia in me riposta. Naturalmente l'autorità superiore della diocesi deve mantenere il diritto di cambiare il suo giudizio su di una persona. Ma ciò deve basarsi su dei fatti, ed essa lo deve tempestivamente dire all'interessato, in modo che possa regolarsi in modo corrispondente. Tutto ciò a Magonza non avvenne. Se io fossi stato troppo timido per avanzare quella domanda, o se per qualsiasi altro motivo avessi taciuto, sarebbe passato un anno dopo l'altro, ed io sarei capitato alla fine in un posto qualsiasi. In un primo tempo tutta la questione mi addolorò molto; in seguito certamente riconobbi quale buona disposizione si fosse realizzata in ciò: fui

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costretto a uscire al largo dall'angustia soffocante di Magonza e di ciò non posso esser mai abbastanza grato. A Magonza avrei incontrato le più grandi difficoltà, ovvero sarei crollato, spiritualmente e con ogni probabilità anche tìsicamente.

Da allora mi sono totalmente separato dalla diocesi di Magonza, tanto più da quando mio padre morì, nel 1919, poco dopo esser ritornato dalla Svizzera, e mia madre decise di ritornare in Italia. Sono poi ritornato una sola volta a Magonza, dopo che avevo ottenuto la cattedra a Berlino. La delusione che allora provai, fece divenire la separazione definitiva. Il fatto che l'attuale vescovo di Magonza, l'Eccellenza prof. dott. Albert Stohr, con cui già ero stato per alcuni anni in seminario, e che avevo poi, dopo qualche anno, incontrato di nuovo come presidente della Commissione liturgica, mi abbia offerto la sua migliore amicizia, è stato inteso da lui come superamento della lacerazione allora avvenuta e da me pure accolto con gratitudine nello stesso senso. L'estate scorsa mi sono recato colà per la prima volta dal 1923 e non ho provato alcun rancore.

Ili

Ma ora devo ritornare un po' indietro. A Fri-burgo mi ero profondamente introdotto nei problemi liturgici, ed avevo anche trovato compagni in questo interesse, come ad esempio il professore di liturgia di Paderborn, Johannes Brinktrine. Cercai, per qualcuno che me l'aveva chiesto, di dire

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in alcuni capitoli che cosa sia la liturgia; questi capitoli furono il corpo principale del libro successivo Lo spirito della liturgia (Vom Geist der Liturgie) u. Li mostrai al padre benedettino di Maria Laach Kunibert Mohiberg, che qualche tempo prima si era laureato e nutriva grandi disegni di storia della liturgia. Egli ne fu molto affascinato e li espose al reverendissimo Abate di Maria Laach, padre Ildefons Herwegen, nel quale pure suscitarono caldo interesse. Allora nacque a Maria Laach la richiesta di una serie di pubblicazioni liturgiche comprensibili a tutti, e si giunse alla fondazione della collezione «Ecclesia orans». I miei capitoli, quando ebbero raggiunto il numero necessario e furono adattati in un corpo unico, furono compresi nella collezione come primo volume, e ricevettero il titolo suddetto Vom Geist der Liturgie.

Questo legame con Maria Laach doveva divenire per me fecondo di sviluppi. L'Abate cominciò a interessarsi del mio lavoro in generale, e — non so più per suggerimento di chi, ma credo di padre Kunibert - emerse l'idea che dovevo abilitarmi a Bonn. Ciò sembrò anche ovvio perché l'ordinario di dogmatica di quella sede, prof. Esser, era molto malato e si prevedeva perciò ch'egli avrebbe dovuto abbandonare l'attività accademica in un prossimo futuro. L'abate Herwegen aveva nella facoltà di Bonn buone relazioni, soprattutto con il docente di morale, prof. Fritz Tillmann, che, fattore egualmen-

u Herder, Freiburg i.B. 1918 (195818; trad. ital. a cura di M. Bendiscioli, Morcelliana, Brescia 19805.

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tè favorevole in tutta la situazione, era allora rettore dell'Università.

Come la pensasse la facoltà circa la mia abilitazione alla docenza, non posso più ora dire nei particolari. Decisamente contrario dev'essere stato soltanto il prof. Heinrich Schrórs, che certo era ormai emerito, ma aveva influenza, e l'impiegava specialmente, a quanto si diceva, per volere in modo diverso dagli altri. Il prof. Arnold Rademacher14, che è morto da qualche anno, mi si mostrò invece molto ben disposto e fu in ogni caso anche in questo senso efficace. Il mio sostegno principale fu Tillmann, che vedeva in me, nel senso di allora, un teologo moderno, cioè critico-liberale. Così le prospettive erano favorevoli, ed io osai il passaggio da Magon-za a Bonn.

La questione del mio mantenimento era così risolta, poiché io tramite l'intercessione di Maria Laach divenni assistente spirituale nell'Istituto del Sacré-Coeur appena fondato a Putzchen presso Bonn. Circa la mia permanenza colà avrò ancora altrove modo di riferire. In tutto vi rimasi due anni, dalla primavera 1920 alla primavera 1922, e certamente con soddisfazione, sino all'ultimo periodo, in cui si ebbero sgradevoli complicazioni. Poi assunsi la cura della chiesa di Holtorf sul Siebenge-birge, dipendente dalla Parrocchia di Kùdinghoven sul Reno.

14 Arnold Rademacher (1873-1939) fu docente di teologia fondamentale e di filosofia della religione a Bonn dal 1912, e segretario generale della GSrres-Gesellschaft dal 1914 al 1922.

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A Pùtzchen scrissi il mio lavoro di abilitazione.

Il tema da me prescelto incontrò dapprima perplessità, perché aveva per oggetto il medesimo teologo di cui aveva trattato anche il mio studio per la laurea, cioè Bonaventura, tuttavia su ciò alla fine si fu d'accordo. Si trattava più precisamente di tré gruppi di pensieri che reggono il sistema filosofico-teologico di Bonaventura, cioè la dottrina della luce intellettuale, dell'ordinamento gerarchico dell'essere e degli impulsi vitali. In questo lavoro mi movevo molto più sicuramente che nel primo, perché sapevo con più precisione che cosa volevo. Esso fu pure approvato, anche se, come in quello, venne criticata la manchevolezza della fondazione storica. La sua stampa non fu possibile a causa delle condizióni economiche del tempo, e così esso rimase inedito. Più tardi mi divenne-indifferente e non me ne sono dato cura. Un esemplare del manoscritto andò perduto; l'altro due o tré anni fa l'ho dato a un giovane teologo che era stato inviato come cappellano a Aachen e lavorava su Bonaventura. Sicuramente è stato distrutto come tutto il resto.

Il colloquio andò bene. La mia lezione di prova la tenni sul concetto di teologia di Anselmo di Can-terbury, e in particolare sul suo principio «credo ut intelligam», cioè sulla dipendenza della conoscenza teologica dall'atto di fede. Il tema si connetteva con la questione dei presupposti dei vari ambiti di conoscenza, che mi ha impegnato continuamente. La lezione fece una certa impressione;

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essa al tempo stesso ebbe una conseguenza notevole. Schrors, che in un primo tempo mi era contrario, perché non avevo da presentare alcun lavoro scientifico pubblicato oltre quello di dottorato, fu molto bene impressionato dalla mia lezione e si congratulò molto caldamente con me; Tillmann al contrario disse a tal proposito, come udii, di aver avuto la sensazione che qualcuno gli desse un colpo in testa. Aveva creduto di trovare in me un teologo «critico», che sostenesse la sua tendenza; l'atteggiamento critico era, come mostrò la «tendenza di Bonn» più tardi sviluppatasi, fondamentalmente un liberalismo, limitato dall'obbedienza nei confronti del dogma. Viceversa la mia lezione faceva della rivelazione e della fede la base del conoscere, e ciò costituiva una dirczione di pensiero del tutto diversa. Sin dal tempo dei miei studi a Tubinga ero persuaso che la teologia fosse distinta dagli altri sforzi di conoscenza e andasse fondata su una base propria. Proprio la responsabilità di un pensiero scientifico doveva esigere che essa fosse fondata su di un proprio oggetto di conoscenza, cioè la rivelazione, e su di un proprio principio conoscitivo, cioè la fede sedimentata nel dogma: cui naturalmente doveva applicarsi tutto ciò che si denomina accuratezza di metodo e rispetto dei fatti empirici. Tillmann per questo modo di pensare non aveva alcuna comprensione, anzi vedeva in esso un dogmatismo non scientifico.

In ogni caso ora ero libero docente abilitato in 39

dogmatica e iniziai la mia attività accademica d'insegnamento nel semestre estivo 1922 con una lezione sui «tipi di dottrina della Redenzione». Avevo un buon pubblico, fra cui si trovavano — cosa per un teologo non consueta — anche molti uditori di altre facoltà. Ciò si collegava certo al fatto che si sapeva della mia presenza nel movimento giovanile. Oggi non si comprende facilmente che cosa significasse ciò allora. Chi vi apparteneva, era classificato: per gli uni, come persona vicina in modo speciale e degna di fiducia, per gli altri come oggetto di rifiuto. Su quale argomento io tenessi lezione nel secondo semestre, non ricordo più. La mia attività di insegnamento a Bonn durò in tutto un anno.

Holtorf distava da Bonn circa due ore e mezzo di cammino a piedi. Usando la ferrovia, se ne impiegava circa la metà, quindi per la situazione di Bonn, abitavo abbastanza fuori. Già questo fatto rendeva i miei rapporti con gli altri mèmbri della facoltà non molto vivaci. Ma i motivi veri e propri di ciò erano più profondi: fondamentalmente non ero uno di loro. Non ero un teologo specializzato, e più di una volta mi ero chiesto con inquietudine come potessi diventarlo, poiché non vedevo alcun'altra strada nel mondo accademico eccetto quella di docente di dogmatica.

La mia lezione inaugurale apparve nella raccolta miscellanea pubblicata presso l'editore Grùnewaid di Magonza nel 1923 sotto il titolo Auf dem Wege {In cammino). Titolo ed edizione, come pure tutto

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il tono della pubblicazione, fanno capire quanto poco io fossi al posto giusto... Alla fine del volu-metto v'è un Dialogo del Regno di Cristo della cui stesura mi ricordo ancora bene. Ero stato invitato dal prof. Clemen, storico dell'arte di Bonn, ed avevo colà ricevuto una determinata e tanto viva impressione, che tornando a piedi nella notte verso Holtorf, durante il cammino verso quella mèta, senza diretta connessione con l'occasione che lo provocò, nacque in me un dialogo; in esso tré persone, dopo le quali ne appariva ancora una quarta, discutevano di vari aspetti della personalità di Cristo, e precisamente partendo dall'idea del Cuore di Gesù. Quando giunsi a casa, ero abbastanza esausto, ma tutto il complicato intreccio di pensiero stava chiaro nel mio spirito. Questo può essere una indicazione della forza con la quale si imponeva allora la produttività spirituale, e quanto poco le sue vie fossero quelle della scienza teologica regolare.

Nel corso di quell'anno a Bonn mi si offrì la possibilità di rispondere a una chiamata per teologia pratica e scienza della liturgia. Ma ebbi la sensazione di deviare con ciò dalla mia linea autentica e non andai. Circa questa occasione potrei dire che, da quando la mia vita spirituale era divenuta cosciente di sé, avevo un forte sentimento di questa linea inferiore, e che le varie decisioni della mia vita, professionali, spirituali e personali, in fondo furono sempre determinate da essa. Una sola volta mi sono lasciato allontanare da essa per considerazioni estrinseche e me ne sono molto pentito. Fu,

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in tutta la mia vita, l'unico passo falso di grande importanza che io feci e le cui conseguenze non potei appianare. Di ciò forse tratterò ancora.

Come tipico del mio modo di pensare di allora potrei ancora riferire che mi si era fatto capire che se essendo nel movimento giovanile, mi fossi pertanto impegnato nel «Quickborn» e nel lavoro a Rothenfeis 15, molto a stento avrei potuto aspirare a una cattedra. In ciò si esprimeva l'atteggiamento che era stato preso nei circoli ufficiali verso il movimento giovanile che fondamentalmente non è realmente mutato. Ciò che questo significasse per me, riferirò ancora espressamente; comunque tanto che dichiarai che, in questo caso, avrei deciso per Rothenfeis. Ciò non significava certamente disprezzo per l'attività di insegnamento, la rinunzia ad essa mi sarebbe stata molto gravosa; ma la vita e il lavoro nel mondo del movimento giovanile erano per me essenziali. Come la questione si sarebbe posta nel caso della cattedra di Esser, non si doveva però decidere, poiché io fui chiamato a seguire un'altra via.

In quel tempo si svolse a Bonn il secondo convegno della Associazione laureati cattolici. Io vi tenni una serie di relazioni sul tema del «Senso della Chiesa», che furono pubblicate nel 1922 con

15 La lega giovanile «Quickborn» fu fondata e diretta (dal 1910) dal pedagogista Bernhard Strehier (1872-1945), e poi trasferita nel suo nuovo centro al castello (Burg) di Rothenfeis. Di tale lega Guardini fu prima consigliere, poi dal 1924 la guida e il direttore spirituale.

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dedica «alla gioventù cattolica» nelle edizioni Grii-newaid 16. L'intero convegno fu molto vivace, aveva veramente in sé qualcosa del «movimento». Nelle relazioni avevo dato espressione a ciò di cui ero sempre più profondamente persuaso: che la Chiesa non rendeva non liberi, anzi al contrario dava la piena libertà all'intera esistenza; che essa aveva il carattere non della limitazione, ma anzi della pienezza. Le mie relazioni colpirono proprio al centro di ciò che allora commoveva il mondo cattolico e fecero forte impressione sugli ascoltatori... In esse mi divenne pure più chiaro quale fosse il mio compito proprio: non di portare avanti la ricerca in una disciplina teologica, bensì di interpretare la realtà cristiana con responsabilità scientifica e ad alto livello spirituale.

Effettivamente queste relazioni assunsero poi piena importanza anche per il corso successivo della mia vita.

IV

Dopo la guerra e per la prima volta dopo molto tempo, i cattolici avevano ottenuto libero spazio. E così pure dopo il crollo si erano liberati forti impulsi religiosi; e poiché tutto era tanto incerto, si diede alla solidità del punto di vista cattolico una stima sino allora inconsueta. La Germania era una repubblica e il Partito del Centro era una forza non

16 Vom Sinn der Kirche, Griinewaid, Mainz 1923, poi in Die Kirche des Herrn, Herder, 1965 (trad. ital. Il senso della Chiesa, in La realtà della Chiesa, Morcelliana, Broscia 19793).

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solo politica, ma anche spirituale. Perciò all'università di Berlino, che — nella misura in cui non coltivava l'incredulità - era sempre stata marcatamente protestante, era emersa l'intenzione di creare una cattedra dalla quale gli studenti cattolici potessero udire un'esposizione della verità cattolica rispondente alle esigenze accademiche. L'intenzione ebbe un seguito e la cattedra fu istituita. La facoltà teologica berlinese era protestante; perciò la cattedra non potè nemmeno esserle annessa. Il ministero del culto venne perciò nell'idea di aggregare la cattedra di «Filosofia della religione e intuizione (visione) del mondo cattolica» alla facoltà teologica cattolica di Breslavia e così ottenere che il suo titolare fosse permanentemente in permesso a Berlino e, come ospite permanente di quella università, dovesse tenervi le sue lezioni. Questo piano superò le difficoltà sul suo cammino, ma ne provocò altre che dovevano manifestarsi in modo particolare.

Il titolare della cattedra tuttavia non era ancora stato nominato. La decisione in questo caso non dipendeva, come solitamente per le chiamate, dalla facoltà corrispondente, perché l'appartenenza ad essa doveva essere soltanto formale, ma dal ministero prussiano del culto. Là gli affari cattolici erano seguiti dal direttore generale di ministero Johannes Schiùter, la cui moglie, dott. Maria SchIuter-Herm-kes, era molto attiva nella vita delle organizzazioni cattoliche. Attraverso le mie relazioni al convegno di Bonn, essi avevano posto la loro attenzione su

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di me, e furono essi che poi pure procurarono la mia chiamata. Un giorno apparve a Bonn il direttore generale di ministero dott. Wende, e mi chiese se ero disposto ad accettare la cattedra. Di che cosa propriamente si trattasse, mi spiegò soltanto in modo approssimativo. Contemporaneamente mi avvisò che l'università di Berlino era piuttosto ostile alla faccenda. Mi ricordo ancora le sue parole: «Lei va su di un terreno molto sdrucciolevole. Si è convinti che non durerà a lungo». Soltanto Harnack 17 aveva espresso l'opinione in Senato che si dovesse pur dare al designato una chance, e poi si vedrebbe di che cosa egli era capace.

Ciò non sonava incoraggiante: donde il problema, se io fossi in grado di rispondere ai requisiti. D'altro canto avevo la sensazione che alla fine sarei stato ciò a cui fossi stato chiamato; perciò chiesi tempo per riflettere sulla faccenda. Rademacher, cui stavo sempre un po' vicino, mi consigliò di accettare, e così Tillmann, e certamente quest'idea era per lui la benvenuta, per liberarsi di me in questo modo. Soprattutto Max Scheler 18, che allora teneva lezione a Colonia, e con cui avevo iniziato una relazione che interiormente non è mai stata

17 Adolf von Hamack (1851-1930) è il celebre teologo luterano caposcuola della teologia liberale e inkiatore delTinterpre-tazione prevalentemente morale del Vangelo, docente a Lipsia dal 1876, a Marburgo (1886) e poi per lunghi anni a Berlino (1888-1921).

18 Max Scheler (1874-1928) è il filosofo che nella scuola fenomenologica di Hussed ha sviluppato le indagini etico-religiose, docente a Colonia dal 1919 e a Francoforte nel 1928, anno della sua morte.

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rotta, mi consigliò. Tuttavia le preoccupa2Ìoni erano molto gravi. Retrospettivamente riconosco che allora non avevo affatto preso coscienza di come poco fossi preparato a questo compito, altrimenti non mi ci sarei sobbarcato; ma la sensazione di appartenere a questa «linea» fu così forte, da prevalere su tutto, ed accettai.

Nella primavera del 1923 giunsi a Berlino. Il trasferimento fu difficile già per cause esterne. Allora la Renania era occupata e le mie poche suppellettili poterono raggiungere il territorio tedesco libero soltanto di contrabbando. Vedo ancora il veicolo carico dei mobili dinanzi a me, a cui nella sua odissea era stata strappata la parete di fondo, cosicché aveva dovuto esser fissata con funi.

Allora a Berlino non si trovavano abita2Ìoni. A mezzo della dott. Schiùter trovai una sistemazione provvisoria nel convento delle Borromee a Pots-dam. Ottenni colà una camera e mezza, che poi assomigliava francamente più a un deposito di mobili che a un'abitazione. Una consolazione era il vicino Sanssouci. Il convento si trovava nella Zimmer-strasse, lontano solo pochi minuti dall'entrata principale. Quanto spesso vi sono entrato, portando le mie perplessità fra i begli alberi del parco!

La situazione all'Università era ancor più sco-raggiante. La mia prima visita fu per l'alierà Ministro del Culto dott. Becker; mi accolse molto amichevolmente, e così pure in seguito trovai sempre da lui simpatia e disponibilità ad aiutarmi. Era uno

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scolaro di Ernst Troeltsch 19 e un colto liberale dell'inizio del secolo. Più che un uomo colto, era un politico della cultura, con vivace sensibilità per gli uomini e le correnti spirituali. Per le ricerche pedagogiche del tempo, come in generale per il movimento giovanile, aveva molta comprensione; anche il cattolicesimo lo interessava, e non soltanto come elemento di politica culturale, bensì anche come forza viva, creativa. Una delle prime domande che gli rivolsi, fu a chi ora propriamente dovessi far visita. Egli si rese conto, ed io notai, che non aveva ancora piena consapevolezza delle difficoltà inerenti alla suddetta progetta2Ìone e riguardanti il titolare della cattedra. Il risultato fu che dovevo far visita soltanto a coloro con cui avevo un rapporto ufficiale, cioè al Rettore e al «giurista» dell'università. Ciò significava che in una università, che allora, se ben ricordo, contava circa ottocento docenti e quindicimila studenti, ero privo di ogni collegamento.

Tra i professori avevo un chiaro concetto soltanto di Eduard Spranger20; conoscevo diversi suoi scritti, ed inoltre egli aveva relazioni con il movimento giovanile, e più precisamente con i nuovi «giovani esploratori» di Potsdam. Gli feci visita

19 Celebre storico, teologo e filosofo di confessione evangelica (1865-1923), docente a Bonn, Heidelberg, e infine a Berlino (1915) come successore di Dilthey.

20 Filosofo della cultura e pedagogista (1882-1963), docente a Lipsia (1906) e Berlino (1920), «Gastprofessor» in Giappone dal 1936 e richiamato a Tubinga (1946) dopo la caduta del nazismo.

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per così dire in veste non ufficiale. Fu molto amichevole e venne anche presto da me. Più tardi feci conoscenza anche con Werner Sombart21, credo in un circolo che soleva radunarsi nella Fasanenstras-se, e cui apparteneva anche Max Scheler. Se mi ricordo bene, Sombart era l'unico che era intervenuto perché si facesse il tentativo con la cattedra cattolica; poiché si sarebbe mostrato che cosa valesse. Mi incontrò molto amichevolmente e sino alla mia partenza da Berlino fui ospite delle sua casa. Tramite la Casa Kempner feci conoscenza con Werner Jaeger 2, ordinario di filologia greca, e il mio legame con lui durò sinché egli andò all'università di Chicago.

Poiché non avevo a che fare con alcuna facoltà, ero al di fuori della struttura universitaria. Avevo nel suo edificio la mia aula, e questo era tutto. Questa condizione di fatto si ripercosse in tutto, sino alle strutture inferiori. Così i bidelli, uno dei quali era ad ogni entrata, non mi hanno mai salutato; e poteva succedere che il portiere, alla domanda dove tenesse lezione il prof. Guardini, rispondesse: «Da noi non c'è alcun prof. Guardini». L'avviso delle mie lezioni era posto nell'elenco dopo quello dell'insegnante di ginnastica, e dovette essere! un in-

21 Docente di economia politica, sociologo e storico dell'economia (1863-1941), soprattutto dei movimenti socialisti e del capitalismo, prima a Breslavia (1890) e poi a Berlino (1906).

2 Filologo e storico della filosofia greca di fama intemazionale (1888-1961), docente a Basilea, Kiel e Berlino (1921), poi emigrato a Chicago (1936) e docente alla Harvard Vniversity (1939).

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tervento al Ministero del Culto per ottenere che almeno fosse disposto dopo quelli delle facoltà, e così via. Per l'Università ero il «propagandista» della Chiesa cattolica, imposto a forza dal Centro s, che non aveva niente da cercare nella «cittadella del protestantesimo tedesco», ed essa me lo dimostrava in tutti i modi. Anche quando nel corso degli anni potè divenire chiaro a tutti che le mie lezioni non avevano nulla in comune con la propaganda, e mantenevano il livello accademico, non ho ricevuto neppure il più sommesso segno di una generosità, che certo sarebbe pur convenuta alla loro assoluta preponderanza. Forse avrei potuto mutare questo stato di cose, se fossi stato introdotto e avessi cercato in forme personali relazioni con le persone influenti. Il ministro Becker me lo raccomandò, offrendomi il suo aiuto. Ma io mi dicevo che, se non mi si voleva, io non ero da parte mia importuno;

certo non si può escludere che dietro a ciò si nascondesse anche la timidezza che nel corso di tutta la mia vita mi ha dato gravi difficoltà a fare cose che gli altri sbrigano con facilità, ed io invece ero felice di evitare.

Certo la situazione aveva anche i suoi vantaggi. Poiché tutte le faccende attinenti alla facoltà mancavano e l'università non mi imponeva alcun dovere associativo, il mio tempo rimaneva libero per

23 È la Zentrum-Partei o partito cattolico tedesco, nato nel 1870 e così denominato per la posizione dei suoi deputati nel Reichstag e per la posizione politica. moderata intermedia fra le due estreme.

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ciò che era più importante. Lo stesso mio isolamento personale non mi diede soltanto svantaggi. Che dalla primavera del 1933 24 sino al 1939 non avessi la benché minima difficoltà, certamente era il risultato del fatto che, al di fuori dell'effettivo svolgimento delle mie lezioni, io per l'Università non esistevo... Pure, tutto era davvero difficile. Io non ho avuto nella mia vita molto senso d'orgoglio personale, e mi trovavo ora di fronte a un mondo chiuso, per il quale avevo profonda stima, ma che mi respingeva. Così non mi restava altro da fare che tirarmi indietro. In seguito mi venne detto che mi si era stimato non affabile e presuntuoso, impressione falsa che così spesso interviene, suscitata dalla timidezza. In verità dovevo sempre prendere una rincorsa inferiore per entrare nell'edificio dell'Università. Certo, appena poi ero in cattedra, tutto era passato e non esisteva più nulla, all'infuori della questione che c'era da trattare e della gioia di poterla sviluppare. Eppure no, anche questo non è del tutto esatto. La sensazione della insufficienza mi ha anche qui sempre minacciato, cosicché percepivo ogni sorta di manchevolezza di comportamento negli ascoltatori come ostilità, e quindi, li rimproveravo spesso molto aspramente. In seguito a ciò ho ottenuto che nella mia aula dominasse una condotta esemplare, ma di sicuro ho anche fatto torto a qualcuno.

24 Cioè dall'avvento al potere del partito nazionalsocialista con Hitler.

La difficoltà vera e propria era però quella intcriore, spirituale. Che cosa dovevo propriamente insegnare sulla cattedra di Berlino. La sua denominazione era: «Filosofia della religione e intuizione [visione] del mondo (Weltanschauung) cattoliche», «Filosofia della religione», presa da sola, sarebbe stato chiaro; ma che cosa era il suo essere «cattolica»? Non si da una filosofia della religione cattolica, e protestante, e buddhista, bensì soltanto una vera filosofia della religione. E che cos'era la «Welf-anschauung cattolica»? Vi è una teologia cattolica, cioè la penetrazione teoretica della rivelazione, come viene esposta dalla Chiesa quale sua portatrice — ma una Weltanschauung cattolica? A poco a poco mi divenne chiaro che, chiunque fosse ad aver imposto l'istituzione della cattedra, non potevo a-spettarmi da lui nessuna genuina indicazione scientifica. Il titolare di questa cattedra doveva piuttosto completare il lavoro dell'assistente ecclesiastico degli studenti dal punto di vista riflessivo, dando una esposizione comprensibile in generale, di andamento apologetico, delle verità di fede. Egli doveva pure — come mi venne detto in certe occasioni — frequentare le associazioni cattoliche in quanto sostegno principale del mondo universitario cattolico e, detto in breve, dare il suo aiuto affinchè le persone non cambiassero opinione religiosa.

Non avrei mai potuto accettare un simile compito. Non per una qualsiasi presunzione, bensì perché un'attività di insegnamento accademico secondo la mia versione poteva provenire soltanto da

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una ricerca di verità metodicamente chiara. Certo essa doveva esser d'aiuto agli uditori, ma soltanto attraverso la forza della verità stessa cercata dalla loro volontà. E ciò significava fatica per il docente come per l'uditore... Per ciò che riguardava le associazioni, io ho trascorso una o l'altra serata presso di esse, per non andarci poi più. Il vuoto del loro affaccendarsi era insopportabile. Per di più si seppe che appartenevo al movimento giovanile e in seguito a ciò fin da principio mi si guardò con sfiducia; tanto più che ero astemio sin dal tempo del «Quickborn» e sembravo davvero essere il guastafeste nella Birreria del Commercio e in altri simili ritrovi.

Così fui costretto a dare io a me stesso un'idea di ciò che dovevo fare. Era solo spiacevole che ciò dovesse avvenire proprio all'inizio, mentre il chiarimento di ciò che fosse oggetto della mia cattedra, sarebbe dovuto essere propriamente il risultato di un lungo lavoro. Così parlai nella mia prima lezione, o «prolusione», come si suoi dire, di che cosa fosse la Weltanschauung e la dottrina della Welt-anschauung. Essa fu pubblicata nel 1935 nel volume Unterscheidung des Christlichenìs. Definii la Weltanschauung cristiana come lo sguardo che diviene possibile a partire dalla fede sulla realtà del

25 Questa raccolta di saggi, Grunewaid, Mainz 1935, pubblicata da H. Kahiefeld, trova la sua ispira2Ìone unitaria nella ricerca della «differenziazione decisiva» dell'elemento cristiano nella sua specificità (trad. ital. in tré voli-. Pensatori religiosi, Natura, cultura, cristianesimo; Fede, religione, esperienza, risp. Morcelliana, Brescia 1977, 1983, 1984).

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mondo; e la dottrina della W' eltanschàuung poi la ricerca teoretica dei suoi presupposti e del suo contenuto. Con ciò potei trarre le conseguenze da quanto già a Tubinga avevo riconosciuto come il senso della fede. Esso significava l'insediarsi dentro la rivelazione e la possibilità di vedere da essa il mondo, che già in sé è opera del Dio che si rivela, nella sua verità propria. Il dogma però non era strumento di una forza ecclesiastica costrittiva dello spirito 26, ma la garanzia della stessa libertà spirituale, sistema di coordinate della coscienza credente aperta, a partire dalla rivelazione, a tutta la realtà nella sua pienezza. Circa le mie personali possibilità non mi ero fatto illusioni; tuttavia mi era chiaro questo fatto, che la mia coscienza cristianamente cattolica come tale in larghezza e chiarezza sarebbe stata fondamentalmente superiore a tutti, anche al non credente più geniale. Questa convinzione mi ha dato il coraggio di occupare l'isolata cattedra nella totalmente estranea Università di Berlino, ed è stata la forza e la norma del mio insegnamento.

V

I miei ascoltatori erano composti di specie del tutto diverse di persone. Erano studenti di tutte le facoltà, che, ad eccezione di curiosi che si mostravano per poco tempo, avevano reale interesse per la materia. Inoltre venivano professionisti di

26 Nel testo originale, «Geistespolizei, lett. «polhia spirituale».

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vario tipo. Di quando in quando appariva anche un collega che voleva andare a sentire il docente «strano». Una nota caratteristica portavano i provenienti dal movimento giovanile, che già allora erano riconoscibili da tutto il loro modo di fare. Le associazioni cattoliche mancavano del tutto; questo forse dipendeva dalla nota appena menzionata, e del resto ciò era semplicemente sintomo di come esigui fossero in verità i loro interessi religioso-spirituali. Il loro ideale segreto invece era formato dalle relazioni o collegamenti efficacemente aggressivi, con la loro risolutezza e la protezione che loro assicurava la carriera. Che queste aggregazioni ufficiali del mondo universitario cattolico ignorassero le mie lezioni, apparteneva alla mia situazione. Mi erano mancati sin dall'inizio tutti gli appoggi ufficiali — ma perciò ero anche libero da ogni riguardo per quanto non fosse attinente alla mia opera.

Per quanto riguardava le lezioni stesse, restava una grossa difficoltà nel fatto che esse non trattavano di nessuna disciplina specifica. Perciò io non potevo, come ogni altro ordinario, redigerle, attenermi al loro sviluppo corrente e a certi intervalli ripeterle. Ciò che avevo era fondamentalmente solo un punto di partenza di principio, un punto fermo e una norma per l'«intuizione»; cercare che cosa a partire da ciò dovesse essere intuito, realizzare lo sguardo e tradurlo in termini teoretici, era oggetto di uno sforzo sempre nuovo. Ero solo io ad avere questo tipo di compito, che era tanto più difficile,

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in quanto avevo un'esperienza di insegnamento di soli due semestri, e il mio sapere, che sarebbe dovuto essere ricco ed esteso, si circoscriveva in limiti molto modesti.

L'unico che mi diede un consiglio utile fu Max Scheler. Nel primo semestre feci lezione sulle forme principali di dottrine della Redenzione. Questo naturalmente era un tema di ripiego; ma dovevo iniziare e quindi prendere da ciò che avevo. Scheler disse che così non andava: io dovevo sviluppare i punti di vista fondamentali applicandoli a oggetti concreti; ad esempio, a un'analisi delle figure di Dostoevskij, che allora era molto di attualità.

Così io molto andai cercando e sperimentai. Sfortunatamente non posseggo più l'elenco delle lezioni tenute nel corso degli anni; è andato perduto con molte altre cose. Col tempo mi formai determinati tipi di lezioni, che si sono conservati. Erano anzitutto lezioni di carattere sistematico, che trat-tavnno i problemi dell'interpretazione dell'esistenza nel loro complesso; ad esempio, questioni principali di etica, o lineamenti fondamentali di antropologia cristiana. Per svolgerle non mi attenevo a manuali o a vie tradizionali di pensiero, bensì cercavo prima di giungere al problema stesso e di rispondere ad esso con mezzi appropriati. Un secondo gruppo erano le lezioni sul Nuovo Testamento;

tentativi, quindi, di esporre il contenuto della rivelazione partendo per così dire dalla sua voce originaria. Anche in queste mi sforzavo di compiere il mio lavoro senza presupposti ne terminologia

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teologica specializzata, anzi partendo totalmente dal fenomeno. Un terzo gruppo, infine, erano interpre-tazioni di testi e figure religiose, filosofiche o poetiche. Riconobbi sempre meglio il significato che ha l'autentica interpretazione per un tempo spiritualmente scialbo, e mi formai gradualmente un metodo, per penetrare dall'adeguata spiegazione del testo nell'interezza del pensiero e della personalità dell'autore e collegarvi problematiche fondamentali. In questo modo mi sono cimentato nel corso del tempo con le Confessioni e la Città di Dio di Agostino, la Divina Commedia di Dante, Pascal, le poesie di Hòlderlin e le Elegie Duinesi di R.M. Riike. Con queste come con gli altri due gruppi di lezioni io mi sforzavo in particolar modo di liberare i significati cristiani da tutti gli annacquamenti e le mescolanze che vi aveva apportato il relativismo moderno.

In questo indirizzo di insegnamento si nascondeva naturalmente il pericolo di dilettantismo. Dominare realmente campi tanto diversi, conoscere lo stato della ricerca e trattare in modo giusto i me-•todi di vario genere, era del tutto impossibile. Ho trovato perciò sempre mólto difficile anche accettare il fatto di dover condurre il mio lavoro al di fuori, per così dire, dei metodi riconosciuti. Fondamentalmente ciò che mi rendeva tanto difficile da accettare il comportamento dell'Università era il fatto che interiormente io le dovevo dare ragione. Certo, non nel rifiuto della fede cristiano-cattolica,

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— ciò costituendo quella non vera «libertà da presupposti», che subito dopo doveva sconfessare se stessa in modo così grottesco - ma nel fatto che per l'Università ha giustificazione soltanto una dottrina scientificamente fondata. Ma il concetto dell'Università come scuola di scienza doveva essere sviluppato in quello di una scuola di formazione spirituale, attraverso la quale si aggiungessero al sapere e alla ricerca i momenti del comprendere, del giudicare e del formare. In questa dirczione ho sempre cercato di realizzare anche il mio insegnamento cattedratico e di vedere in esso il precorri-mento di un tipo di Università che ancora non esiste. Ma per tale scopo sarebbe occorso un sapere incomparabilmente maggiore del mio, e ciò mi ha reso sempre insicuro.

Così mi sentii obbligato a una decisione. Dovevo, con un lavoro incessante, insegnare e sapere tutto quanto potevo, per soddisfare a tale esigenza? In tal caso avrei intrapreso qualcosa che era estraneo alla mia natura, avrei distrutto le mie forze e tuttavia alla fine sarei naufragato. Invece feci per così dire di necessità virtù: rinunziai coscientemente al sapere disciplinare di allora. Cercai, per quanto potevo, di giungere dinanzi alla questione stessa, e di venirne a capo; di penetrare nei testi il più profondamente possibile e di lavorare partendo da essi. Naturalmente ciò significava un rischio, si potrebbe anche dire una presunzione. Si presupponeva che io fòssi capace di porre il problema partendo dall'oggetto stesso, e di giungere ai testi e al

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loro contenuto in un rapporto genuino. Non so sino a che punto ciò si realiz2asse, in ogni caso non mi restava altra via: se non l'avessi percorsa fino in fondo sarei appunto naufragato.

Così seguii il mio istinto; posi i problemi e ne cercai le soluzioni; lessi i testi, chiarii le questioni che da essi emergevano, e tratteggiai la figura spirituale che vi era contenuta nel modo migliore a me possibile. Anzi mi spinsi, nella mia fiducia (chiamiamola pure così) anche più innanzi. In fondo non mi ero chiesto quali oggetti mi assegnasse la mia cattedra, o che cosa i miei ascoltatori desiderassero sapere, ma ciò che andasse detto, nella convinzione che ciò che di volta in volta per me era importante lo sarebbe dovuto essere anche per gli altri. Ebbi sempre la certezza, forse presuntuosa, ma viva e non affatto ulteriormente dibattuta, che le cose che mi interessavano valesse la pena che fossero dette, poiché riguardavano tutti. Forse posso, allora, mostrare anche sotto un altro aspetto che tutta una serie di miei libri trattavano i loro oggetti, in certo qual modo, un'ora prima che la generalità divenisse consapevole di voler sentire qualcosa su di essi. Non che aspirassi all'attualità, veramente no. Non ho scritto nessun libro perché pensassi che il tempo Io richiedeva, o perché ottenesse questo o quello scopo, ma sempre invece soltanto perché vi ero indotto dall'interno, in genere però risultava ciò di cui si aveva necessità. Così feci anche per le mie lezioni e mi regolai interamente secondo me stesso. Assumevo di volta in volta l'og-

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getto che mi interessava, e leggevo della letteratura critica quanto era strettamente necessario per essere informato, e per il resto dicevo quello che mi sembrava importante.

Forse è bene che dica qualcosa circa l'aspetto più tecnico-didattico dell'insegnamento.

Per un tipo di lavoro come quello suddetto il numero di lezioni poteva risultare troppo ridotto: infatti avevo in tré giorni settimanali un'ora di lezione del corso, ed in un quarto due ore di esercitazioni. Se mi si fosse obbiettato che era troppo poco, non avrei potuto tuttavia fare altrimenti.

Le lezioni furono fissate prima alle cinque, poi alle sei e finalmente alle sette, e in quest'ultima ora sono rimaste. Questa infatti era la più gradita per gli ascoltatori, perché le grandi lezioni principali si svolgevano prima, e lo era anche per me, perché corrispondeva nel miglior modo al mio tipo di preparazione.

Dopo vari tentativi arrivai a scegliere per ogni semestre tré temi distinti, che conseguentemente erano trattati in lezioni di un'ora per settimana, Ciò era faticoso; quando il tema si presenta in modo sviluppabile a sufficienza, una lezione di due ore richiede infatti una preparazione di poco maggiore di una lezione di una sola ora. Ma gli studenti avevano un'abbondante dose di lavoro disciplinare, e perciò era per loro più facile trovare il tempo necessario per un'ora, che per due o tré ore.

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Durante le vacanze leggevo il necessario, per o-rientarmi e lavoravo sui testi sino ad avere poi il materiale disponibile alla mano. Preparavo anche per ogni corso uno schema di venti o trenta pagine in quarto stenografate, che conteneva l'intero andamento del pensiero sino ai dettagli. Poi stendevo giorno per giorno il testo della lezione. Poiché aveva luogo alle sette, avevo cura di venire in città alle tré ed ero alle quattro nella Biblioteca di Stato, la cui gran sala di lettura io prediligevo. In essa non c'era troppa tranquillità, la gente camminava intorno, e parlavano anche più di quanto non fosse necessario; nondimeno si era sempre concentrati e soli con i propri pensieri. Dalle quattro alle sette in base agli schemi e ai testi raccolti scrivevo stenograficamente l'intera lezione.

Pronunziavo la lezione stessa con in mano il mio scritto, il dito sempre sulla parola. Era così possibile, se si dava l'opportunità, scostarsi dal testo e di nuovo riprenderlo.

La preparazione della lezione non aveva un carattere puramente scientifico. Significava non solo l'approfondimento metodico e la chiara esposizione 3i un argomento, ma era pure — egualmente come l'elaborazione dello schema — un processo d'arte. Il pensiero non doveva soltanto esser colto oggettiva-mente, bensì doveva passare attraverso il centro produttivo, emergerne, attrarre a sé il materiale e sviluppare la sua forma. Quando ciò avveniva, v'era più di una mera esposizione scientifica; quando non avveniva, v'era meno. Io quindi dovevo

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sempre passare, attraverso questo processo.;, ciò era molto impegnativo, gratificante, quando si svolgeva rettamente, scoraggiante, anzi umiliante, quando non avveniva. E più di una volta in ogni semestre dovetti rinviare la lezione, perché non avevo semplicemente portato nulla a compimento, ed ero troppo maldestro o anche troppo onesto, per comporre il testo scrivendo delle cose qualsiasi. Per la stessa causa anche il parlare mi eccitava sempre molto, spesso tanto, da farmi stare sulle punte dei piedi per tutta l'ora. Ciò era faticoso e parecchie volte ritornai a casa in condizioni fisiche abbastanza mal ridotte. Ma comunque gli ascoltatori notavano che l'argomento mi stava a cuore, cosicché avevo sempre un pubblico attento e le ore in cui si produceva qualcosa sul piano spirituale, non erano rare.

Nelle esercitazioni seminariali feci tenere inizialmente delle relazioni; però questo si dimostrò poco fruttuoso. Gli studenti avevano troppi obblighi disciplinari per poter avere il tempo libero necessario per questi lavori a parte. Perciò in seguito posi come base dei testi e invitai i partecipanti a interpretarli. Lo scopo era il discorso sulla stessa inter-pretazione e sui problemi generali che ne emergevano. Tali problemi ho trattato fra l'altro sulle Briciole di filosofia di Kierkegaard, sui Pensieri di Pascal, sui Dialoghi di Fiatone, su alcuni Inni di •Hòlderlin e Elegie di Riike.

Gli ascoltatori naturalmente mutavano molto. Al

Una larga percentuale andava e veniva ad ogni semestre; da una lezione all'altra pure apparivano dei nuovi venuti, che presto di nuovo scomparivano. Tuttavia si formò a lungo andare una base costante di studenti, che per parecchi semestri frequentavano i miei corsi, e di lavoratori che facevano altrettanto per lungo tempo. Le lezioni avevano realmente prodotto una specie di comunione. Essi erano, questo devo ben dirlo, assolutamente seri e esigenti; così venivano, essenzialmente, soltanto quelli cui il loro oggetto premeva molto. L'atteggiamento di rifiuto dell'Università tuttavia aveva fatto sì che si sentissero anche sostenitori di esso.

Il numero dei frequentatori era vario nei vari corsi; era il minore in quelli sul Nuovo Testamento, che presupponevano un interesse specificamente teoiogico-religioso; qui erano circa trenta-cinquan-ta e di loro una buona parte studenti di teologia protestanti, con cui in generale mi son trovato in un buon rapporto. Nelle lezioni sistematiche il numero degli ascoltatori era maggiore, da sessanta a ottanta circa. Era massimo in quelle lezioni che trattavano di una forma di filosofia o di poesia che •riscuoteva il generale interesse; là avevo fino a trecento e più ascoltatori. Alle esercitazioni presenziavano costantemente venti persone, perciò un numero discreto.

Da tutto quanto detto si può ben dedurre che l'attività cattedratica era proprio faticosa - tanto più che accanto alla mia professione accademica ne

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svolgevo una seconda: quella pastorale ed educativa, della quale ancora devo più precisamente trattare. In connessione con le lezioni erano le ore regolari di visita, che nominalmente erano fissate il mercoledì dalle quattro alle cinque, ma si estendevano in realtà spesso sino alla sera e dopo qualche tempo dovettero essere prolungate al sabato pomeriggio. La domenica avevo la celebrazione liturgica per gli studenti con la predica; pochi anni dopo anche il mercoledì di buon'ora una predica nella scuola sociale femminile. E inoltre relazioni di vario genere in Berlino stessa e altrove.

Poiché il lavoro di Rothenfeis richiedeva una gran parte delle mie ferie, nei sedici anni della mia attività accademica ebbi una vera vacanza soltanto raramente. Ciò era effettivamente troppo e, col tempo, ho subito le conseguenze di questo eccessivo strapazzo.

VI

Dopo il 1933 ci si aspettava generalmente l'abolizione della mia cattedra. Di semestre in semestre io ne ero convinto, eppure avevo una fiducia fondata su qualcosa di non esprimibile; effettivamente non c'erano difficoltà di alcun genere. Avevo proseguito le lezioni precisamente come prima, sia pure con comprensibile riservatezza in determinati punti. Fra gli ascoltatori e me v'era una tacita intesa, che qui vi fosse da conservare qualcosa di valido e non lo si dovesse mettere in pericolo con di-

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chiarazioni e comportamenti inopportuni.

Dapprima nell'inverno 1939, credo a fine gennaio, fui invitato per un colloquio al Ministero del Culto, il che poteva significare solo una cosa. Il consigliere governativo competente iniziò il colloquio dicendo che potevo ben pensare di che cosa si trattasse. Poiché lo Stato stesso aveva una sua visione della vita, non vi poteva essere posto in Università per una cattedra sulla visione cattolica della vita. Su questo assioma non era naturalmente possibile alcuna discussione, e non potei far altro che accennare un inchino. Ad eccezione di questo principio essenziale, il colloquio si sviluppò benevol-mente. Il consigliere disse di voler considerare con me quale cattedra dovessi assumere, e dichiarò che a Bonn, Friburgo e, credo, anche a Tubinga c'erano possibilità. Io feci valere il fatto che da sedici anni avevo lavorato in una determinata dirczione, e sarei totalmente uscito dalla mia disciplina. Così mi trovavo nella posizione di lavoratore altamente specializzato secondo una determinata dirczione, che non poteva essere utilizzato altrove. Egli ribatte .che potevo pormi in congedo per due semestri e riprendere; in ogni caso ero ancora troppo giovane per andare in pensione. Allora dissi che mi ero impegnato in un lavoro che poteva avere importanza per le relazioni culturali fra Germania e Italia. Effettivamente questo era il caso: si trattava di ricerche sul mondo della Divina Commedia dantesca, delle quali la pubblicazione parziale, avvenuta nel

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1937, riguardante gli angeli27, aveva riscosso attenzione in Italia. Ciò mutò la situazione ed egli dichiarò di voler saggiare più da vicino la questione.

Entro un tempo relativamente breve mi richiamò: non si poteva pensare a una collocazione come emerito con stipendio pieno, bensì a un pensionamento. Secondo le disposizioni in vigore, la pensione però sarebbe stata non molto elevata, cosicché dovevo ancora una volta considerare la questione. Questo aspetto tuttavia non poteva mutare l'essenziale, perché con i miei guadagni letterari, le mie esigenze sarebbero state soddisfatte. Così ero libero di lavorare totalmente secondo le mie necessità spirituali e personali. Non avrei potuto assumere una cattedra di dogmatica: i problemi mi erano abbastanza chiaramente presenti, e neppure le idee mi mancavano; ma la mia preparazione disciplinare era minore di quella di un libero docente da cinque semestri, e colmarne le lacune, come sarebbe stato necessario, mi sarebbe costato la salute. In ogni caso, si sarebbe dovuto pensare a una cattedra di carattere più generale, come apologetica o teologia fondamentale, ma non ne avevo però desiderio. Avevo in corso importanti lavori — il mio libro su Hòlderlin, quello sulla morte di Scorate e ancora altri — cosicché mi attirava il pensiero di essere libero per essi. Concorse a dò anche una stanchezza che si era prodotta durante i lunghi anni di

27 Der Engel in Dantes Gòttlicher Komodie, Dantestudien, Band i, Hegner, Leipzig 1937 (trad. ital. Studi su Dante, Mor-celliana, Brescia 19792).

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eccessivo lavoro e mi faceva apparire molto bello il poter vivere tranquillamente nella mia casa silenziosa, senza scadenze urgenti e con la possibilità di fare qualcosa più per me stesso. Rinnovai perciò in una risposta scritta la mia richiesta di pensionamento, e lo ottenni dopo poco tempo in forma onorevole.

Con ciò si era chiusa la mia attività accademica, per sempre, almeno come allora ero convinto che fosse. Nella mia vita avevo avuto già molteplici cambiamenti, ora me ne attendevano di nuovi. Per il pericolo dell'essere pensionato, cioè di sentirsi estraniato dal lavoro regolare e reale, e di non poter saper fare nulla di se stesso, non avevo alcuna paura. Avvertii il pensionamento come il passaggio in una nuova forma di vita e di attività, e così anche è effettivamente avvenuto.

Tuttavia l'allontanamento dall'Università mi riuscì difficile, ed anzi sino ad ora non mi ci sono rassegnato. Fortunatamente non sapevo ancora nulla di questo distacco quando tenni l'ultima lezione. Così la cosa potè svolgersi, come propriamente tut-' tè le vicende della mia vita, in modo tranquillo e senza molto scalpore. Molto mi rallegrò il commiato dei miei ascoltatori. All'inizio del semestre estivo ne vennero due, uno studente e una studentessa, e con il ringraziamento degli altri mi portarono il grosso Libro dei fiori di Rudolf Koch, tré bei volumi colmi di cose graziose. Lo ricevetti come segno di intima comprensione, poiché dei giovani ritene-

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vano me, filosofo e teologo, capace di apprezzare un libro di questo genere. Mi è molto caro e ogni tanto mi guardo le figure dei fiori. L'elenco allegato dei donatori l'ho bruciato; non doveva per essi emergere la benché minima parvenza di legame a.

La vita e il lavoro che seguirono, furono realmente diversi rispetto a prima, tanto più radicalmente, perché sei mesi dopo, nell'agosto 1939, anche il castello di Rothenfeis fu soppresso, e così io persi ambedue i grandi punti di riferimento che sino allora avevano attirato il mio lavoro e le sollecitudini, anzi avevano riempito anche la mia vita con la coscienza di una fruttuosa attività e di un vincolo umano profondo.

Dapprincipio provai la bella sensazione di un grande spazio e di una ampia libertà. Primavera ed estate erano a Zehiendorf sempre bellissimi; ora mi godetti casa, giardino e dintorni veramente per la prima volta. Potevo tranquillamente lasciar passare oziosi ore e giorni, senza che una qualche scadenza mi minacciasse con la necessità di preparare un lavoro. Ciò che aveva reso le mie lezioni così faticose nella preparazione era, come già ho detto, il loro carattere produttivo, e perciò l'obbligo non solo di lavorare, ma di produrre per ogni ora. Questo cessò; la produzione potè seguire la sua legge interna, e ciò era molto gradevole. Così realmente

28 Ciò probabilmente per evitare ai donatori ogni benché minimo pericolo di inquisizione e persecuzione politica da parte dei nazisti.

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in estate e autunno 1939 non feci molto. A Pasqua e a Pentecoste ero a Rothenfeis per partecipare a bei raduni, gli ultimi; in estate dai miei, a Isola Vicentina, e presso i Sattler a Grendach [Baviera superiore].

Poi iniziò la guerra e tutto cambiò. Ricominciò il lavoro in diversi luoghi, e si realizzò una spede di nuova forma di professione. Continuò la celebrazione liturgica per gli studenti nella Cappella S. Benedetto, e così pure le ore di ricevimento al mercoledì e al sabato. Tenni serie di relazioni nella scuola elementare cattolica, e intrapresi nella chiesa di S. Canisio le relazioni serali, che dall'inizio della guerra erano organizzate dall'Associazione femminile. Si sviluppò l'attività letteraria; nell'inverno 1939-40 ebbi un lavoro particolarmente intenso.

Gradualmente lo stato di guerra si fece sentire sempre più fortemente. All'inizio del 1941 cercai a Mooshausen e nei dintorni un'abitazione che doveva essere pronta per ogni evenienza, ed alla fine la trovai nell'edificio posteriore del Castello di Tennheim. Come la trovai, l'allestii e di nuovo la persi, è una storia a sé. Egualmente, come avevo tutto predisposto per il trasloco, i bagagli erano fatti, e caricati, ma vennero tenuti fermi dal blocco della circolazione, ed io abitai quasi due mesi nella casa vuota in Chamberlainstrasse, e alla fine li feci di nuovo rientrare. Su tutto ciò forse riferirò in altro luogo, poiché appartiene al mio esistere, così come le relazioni che tenni in quel periodo e i libri

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che in esso si formarono. Tutto è strettamente collegato e quand'anche si facessero separazioni, non si saprebbe quali conseguenze di un fatto si mostrino in altro punto, molto importante.

Nell'estate 1943, mentre ero a Grendach, giunse l'intimazione del ministro Goebbeis di andarsene da Berlino a chi non vi era necessario. Nella eccitazione del momento la sig.na Thomas aveva iniziato a fare i bagagli. La mia salute da tempo non era buona; soprattutto il mio cuore non sopportava affatto bene gli attacchi aerei. Così stimai il tutto come una autorizzazione ad andarmene da Berlino.

Nuovamente mutai il mio modo di vivere e lavorare, e mi avviai verso l'ignoto, questa volta particolarmente tangibile, poiché portava con sé la perdita della casa e dalla patria. Dapprima sembrò che potessi restare a Grendach; poi i miei amici desiderarono che venissi a Mooshausen, da loro, e tanto insistettero che feci così.

Dal 1918 ero venuto qui in vacanza due volte all'anno per 8 o 14 giorni; ora sono qui da un anno e mezzo. Tutto è cambiato. L'attività esterna, il rapporto con gli uomini e le possibilità di ricevere stimoli e di apprendere, che caratterizzavano la mia vita a Berlino, sono sparite. Tutto si è ridotto al lavoro allo scrittoio, nella speranza di essere chiamato ancora una volta a qualche nuovo incarico.

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RICERCA DELLA VOCAZIONE SACERDOZIO E ATTIVITÀ PASTORALE

II fatto che narri della mia via per rispondere alla vocazione sacerdotale solo in una seconda parte di queste note non significa alcuna mancanza di stima per essa. Essere sacerdote fu sempre per me l'essenziale, e l'attività d'insegnamento ha poggiato su questo. Ma nella mia analisi delle figure [di filosofi, di poeti, di teologi...] ho volentieri adottato il metodo di partire da ciò che è dapprima visibile, per poi procedere verso ciò che è più profondo.

Anche la via verso il sacerdozio fu non facile — ancor meno facile di quella verso la cattedra. Quando un giovane d'oggi leggesse queste note, si mera-viglierebbe certamente che qualcuno potesse essere così all'oscuro su se stesso, come io lo sono stato. La causa stava anzitutto in me stesso: nella complessità della mia natura, che solo dopo molto tempo trovò il suo punto d'equilibrio; in secondo luogo anche nelle circostanze esterne, di cui anzitutto debbo parlare.

In un capitolo seguente parlerò espressamente della mia discendenza e famiglia, cosicché qui mi

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limito a ciò che importa per poter proseguire.

I miei genitori vennero in Germania, e precisamente a Magonza, nel 1886, quando avevo un anno d'età. Se si tiene presente la grande differenza fra il mondo italiano e quello tedesco del tempo, ciò significava tanto, quanto se essi fossero passati dal 1856 al 1886. I miei genitori però mantennero il comportamento del loro mondo, solo che fosse possibile; così noi quattro fratelli1, di cui io ero il più anziano, fummo educati in modo molto rigido, o più esattamente, secondo il vecchio stile. L'autorità dei genitori aveva valore assoluto, e in tutto si doveva essere giovani buoni, a modo, bene educati. Di indipendenza neppure si parlava.

Mio padre, che aveva trapiantato a Magonza la attività di mio nonno, stimava molto la Germania, ma vi si sentiva tuttavia sempre ospite. Mia madre era ancora più radicale; era nata nel Sud-Tirolo [Alto Adige] e aveva sin da bambina sviluppato in sé l'amore appassionato deU'«irredenta» Italia. Era stata, certo, educata a Merano in un istituto tedesco; ma colà appunto si intensificò ancor più questa disposizione d'animo. Quando dopo tré anni di matrimonio si trasferì con mio madre, non lo fece volentieri e perciò il suo rifiuto di tutto quanto era tedesco si fece sempre più netto. A Magonza essa, fatta eccezione per alcuni rapporti di cortesia inevitabili, non intrattenne relazioni con nessuno;

' I tré fratelli di Romano Guardini si chiamavano Aleardo, Gino e Mario, il padre Romano Tulio (1857-1919), la madre Paola Maria BernardineUi (1862-1957).

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amava appassionatamente i suoi figli e viveva attivamente solo all'interno della sua casa. La domenica andava in chiesa, nei giorni feriali usciva per le faccende necessarie, per il resto stava in casa. In quest'ambito chiuso, per quanto stava in lei, ci trattenne anche.

Così crescemmo totalmente in casa. La stanza dei bambini, poi, quando fummo più grandi, la stanza personale con letto, scrittoio, armadio, furono .(1 nostro mondo. Il fatto che avessimo una istitutrice tedesca non cambiò nulla n proposito. Ciò che per gli altri giovani era ovvio, di stare insieme nel gioco e in ogni genere di occupazioni, mancò a noi quasi del tutto. In pratica non andavamo da nessuno e nessuno veniva da noi. Il risultato fu che delle cose della vita, che il giovane impara da sé a conoscere mentre sta con gli altri, io non ebbi alcuna esperienza.

Certo v'era anche la scuola. Ma ciò che la rende importante per i giovani non è tanto l'insegnamento, quanto il mondo delle relazioni con i coetanei, che si prolungano nella vita. Questo per lo più ci mancò, cosicché la scuola era un ambito isolato, in cui entravo e che di nuovo lasciavo. Se mi chiedo con quali sentimenti ero legato alla scuola, anzitutto era con un senso di estraneità, che abbastanza soesso si accentuava divenendo un senso di paura. Questo si collegava certo anche agli insegnanti;

nessuno di loro ha saputo risvegliare in me un reale interesse per una materia, e non ne ho stimato con reverenza nessuno. Gradivo soltanto

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quello di francese e inglese delle classi superiori, evidentemente perché mi rendeva attento alle connessioni fra il francese e l'italiano. Il fondamento preciso della estraneità era però certo l'atmosfera della nostra casa, che non ci lasciava mai uscire all'aperto.

* * *

Mio padre propriamente non viveva in generale con noi. Ci voleva molto bene, e noi a lui, ma riuscivamo appena a vederlo. Il suo lavoro lo teneva interamente occupato, ed era spesso in viaggio. Per i soggiorni di vacanza in campagna non veniva con noi, e in genere non mi ricordo che egli si sia preso un periodo di riposo.

Era molto dotato, ma già a quattordici anni aveva lasciato la scuola e dovuto occuparsi del mantenimento dei suoi genitori. Propriamente avrebbe voluto studiare legge ed economia politica, ma aveva dovuto rinunciarvi. Dopoché per molti anni aveva cercato di aggiornarsi nonostante l'attività professionale faticosa, ne aveva riconosciuto l'impossibilità e aveva rinunciato. Il risultato fu che non parlava mai di cose culturali; le porte erano state chiuse. Pure nessuno aveva conoscenza della sua vita intcriore, personale. Quando morì nel 1919, avevo 34 anni, e credo che in tutto questo tempo io abbia avuto con lui non più di dieci o quindici colloqui personali, o su argomenti specifici, che andassero più a fondo.

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La sua vita dev'essere stata terribilmente solitària; per lui c'era sostanzialmente solo il lavoro. Mi commuove sempre di nuovo che fra i pochi mobili che, ben conservati, ho salvato dalla mia casa di Berlino, ci sia il suo scrittoio, quello su cui scrivo questi ricordi. Quante volte l'ho visto sedervisi dietro nel suo ufficio!

Così anche nostro padre non aveva allargato il mondo chiuso della nostra fanciullezza e giovinezza.

Quando guardo indietro al tempo che va sino al mio esame di maturità, che sostenni all'età di di-ciott'anni e mezzo, ora mi sembra come se fosse velato. Perché sia così, non so. Sicuramente dal punto di vista psicologico deve significare ogni genere di cose; questo significato è certamente anche buono. Ho la sensazione che questo velamento, durato a lungo, sino al tempo dell'università, e di cui è sino ad oggi rimasta una componente attraverso tutta la mia vita, con il suo esistere intcriore, si colleghi anzitutto alla produttività spirituale. Nella mia fanciullezza e giovinezza devo aver vissuto una sorta di vita di sogno, di cui solo assai poco mi è rimasto nella memoria.

Anche i soggiorni di vacanza nell'OdenwaId e nel Taunus non mutavano nulla in merito; e tanto meno i viaggi in Italia dai nonni, che, come era il caso per tutte le famiglie benestanti, oltre alla loro casa di città a Verona avevano un bei possedimento in campagna. Noi passavamo però soltanto da un

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mondo chiuso in un altro: poiché la casa, nella quale dominavano le figure, guardate con soggezione, del nonno e della nonna, significava soltanto un cambiamento di luogo e di cose, non di condotta di vita, che anzi era persino più rigorosa che a casa nostra.

Per ciò che concerne la religione, i miei genitori erano credenti; forse mio padre con la leggera piega scettica, che è fra gli italiani molto frequente. Andavano in chiesa ogni domenica, ma delle cose religiose non parlavano mai. Mia madre era pia in un senso molto intimo e asciutto. Mi ricordo come essa dopo la comunione al mattino, pratica abitualmente allora rara, veniva al nostro letto e ci baciava, cosa che sentivo come qualcosa di misteriosamente sacro. La preghiera mattutina e serale, la frequenza alla chiesa la domenica, ecc., erano per noi ovvie; per il resto non si parlava di religione senza uno speciale motivo.

Il mio docente di religione in ginnasio era sicuramente dotato personalmente, poiché aveva il titolo di dottore, ma come insegnante assolutamente inadeguato. Da lui non ho appreso nulla, ed ancor meno egli ha risvegliato in me un autentico interesse.

Infine per ciò che concerne la mia vita religiosa, fin avanti nei miei studi universitari essa si trovò sotto un gravame. Fui sempre angosciato e per lunghi anni molto scrupoloso. Ciò per un giovane è peggio che aver troppa leggerezza, poiché questa almeno è vita, mentre il continuo autotormentarsi

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della coscienza angosciata distrugge. Qui propriamente può esser d'aiuto soltanto un'altra persona, che veda di che cosa si tratti; ma io non la incontrai. Di qui venne un'inclinazione alla malinconia che più innanzi doveva divenire acuta, e mi ha sempre dato preoccupazione.

Tutto ciò avrebbe potuto condurre a una vita in-teriore molto intensa, piena di forti esperienze; ma anche questo non avvenne. Quando mi volgo indietro, tutto il tempo sino all'università è come velato. Anche dei primi ricordi infantili, che rendono troppo attraente l'inizio di tutte le biografie, niente mi viene in mente. Naturalmente con ciò non voglio affatto dire che quegli anni siano rimasti vuoti. Ciò che più tardi ho manifestato, deve pur aver avuto le sue radici; ma tutto resta come sommerso sott'acqua. Il sentimento della felicità della fanciullezza e il desiderio di ritornarvi, non li ho mai provati: io non vorrei tornare nella mia fanciullezza. Tuttavia in essa i miei genitori, e ciò intendo ancora una volta sottolineare, ci hanno molto amato, e noi pure a nostra volta li abbiamo amati; ed eravamo quattro fratelli fra noi molto legati, nonostante ogni contrasto, tensione, controversia, e lo siamo rimasti sino ad oggi.

II

Quanto detto era una lunga introdu2Ìone alla narrazione seguente, ma necessaria come premessa per rendere comprensibili molti aspetti insoliti che

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vi si dovranno trattare.

Anzitutto con ciò si comprende il fatto che io, quando venne il tempo dell'esame di maturità e doveva essere scelta la professione, semplicemente non sapessi che cosa fare. Ma pure così non si dice abbastanza; io non sapevo in fondo che cosa si potesse fare. Poiché mio padre, che amava molto il suo Paese, in generale non prendeva in considerazione la possibilità che potessi assumere la cittadinanza tedesca, erano quindi escluse tutte le forme di pubblico impiego e di professione giuridica. La decisione — se così si può chiamare in generale una risoluzione siffatta — venne stabilita nel modo seguente: a scuola stava vicino a me un giovane che con grande attrazione per la materia intendeva diventare chimico, e così volli io pure.

Perciò andai a Tubinga, e anche questa determinazione non venne per mia propria iniziativa. La ditta di mio padre aveva una filiale a Stoccarda, il suo direttore doveva potermi dare una mano; egli stesso presso un collega suo amico da lui pregato mi aveva procurato anche una camera a Tubinga. Mio padre mi condusse colà. Li aspettammo a Plo-chingen per far conoscenza; colà egli mi disse in un tono da cui si capiva come fosse difficile a lui stesso la cosa, alcune frasi, circa qualcosa da cui dovevo ben cautelarmi. Solo più tardi avrei capito che si trattava della questione sessuale. Effettivamente fui all'Università per qualche semestre senza saperne niente. Che non sia stato indotto in cose cattive dipese — a prescindere per un attimo dalla divina

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Provvidenza — innanzitutto dalla mia infinita timidezza, che fece sì che nella libertà accademica continuassi la medesima vita che conducevo a casa.

Io studiai dunque chimica, ma devo subito riconoscere qualcosa di vergognoso: di tutta la materia non ci capii niente. Anzitutto non avevo alcune doti per la matematica, e che cos'è la scienza naturale senza la matematica? Inoltre mi mancava l'interesse netto per gli esperimenti e l'esperienza positiva, che è importante in particolar modo per il chimico. Infine, allora nella scienza naturale dominava un assoluto materialismo, cosicché le disposizioni che in me erano latenti non ne furono stimolate.

A dò si aggiungeva il metodo di insegnamento. Vorrei non giudicare severamente, ma devo dire che fra i molti docenti accademia che nel corso dei miei lunghi studi ho imparato a conoscere, non v'era quasi nessuno che si sia attivamente interessato dei suoi studenti, anzi devo forse dire restrittivamente, di gente tanto timida. Secondo i casi, erano scienziati ben noti o anche meno noti, e buoni o meno buoni parlatori; dei giovani però non si sono interessati, per loro iniziativa. Se questi erano arrivati al loro posto giusto e avevano risvegliato il loro interesse con qualche loro prestazione, poteva accadere qualcosa di diverso. Ma molto importanti finalità formative della pedagogia erano da adempiere preventivamente: risvegliare l'interesse del giovane, aiutarlo ad attingere se stesso; insegnargli come si lavora intellettualmente e, più propriamen-

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tè, in modo scientifico, come si formula una questione e la si affronta, come si impara a usare i sussidi per risolverla, a superare le difficoltà ecc. A me capitò di ascoltare le lezioni, ma di non trovarvi alcun accesso intcriore, e non v'era nessuno che mi avesse mostrato come fare. Nel secondo semestre entrai nella sezione di chimica inorganica del laboratorio. Là mi applicai agli strumenti e non ne capii il funzionamento. Accanto allo stesso mio tavolo lavorava un certo dott. F., assistente o già libero docente; in ogni caso ci assegnava le esercitazioni per le analisi e controllava i nostri risultati. Deve aver visto che io non combinavo nulla; se non fece nemmeno questo, allora non vi è niente altro da dire. Ma non fece il minimo tentativo di aiutarmi. Come sarebbe stato facile per lui accompagnarsi una volta al giovane sulla via verso casa e sentire come andassero le cose! Un paio di colloqui mi avrebbero risparmiato verosimilmente molta perplessità e molto tempo; ma non avvenne nulla di simile. Che il prof. W., da cui dipendeva l'istituto, e che ogni tanto passava fra i tavoli di lavoro, si prendesse cura di uno studente principiante, non era naturalmente neppure pensabile.

Le mie relazioni nei due semestri si limitano essenzialmente a uno studente di chimica di Brux [Most] nella Cecoslovacchia, un uomo noioso di opinioni positiviste, con cui mi ero incontrato proprio soltanto perché, essendo straniero, era anch'e-gli isolato. Non ne poteva venire alcun logico risultato: mi insegnò soltanto come si preparano li-

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quori... L'altra relazione consisteva nel fatto che la domenica andavo a Stoccarda, visitavo il gerente della ditta di mio padre e lo accompagnavo a questo o quel divertimento: una cosa abbastanza sconfortante.

Era un periodo infelice.

Sentivo che non ne poteva uscire nulla e tuttavia non riuscivo a cavarmene fuori. D'altro canto non trovavo alcun accesso a persone che potessero aiutarmi. Le uniche ore buone erano quando girovagavo per i bei dintorni di Tubinga, o quando di sera stavo a letto e leggevo Fritz Reuter2. Non è bello raccontare di questa mia miserabile situazione, ma quando si da conto di sé, si deve essere sinceri.

Mio padre notò che le cose non andavano per niente bene, ma non disse niente. Era certo preoccupato, ma quasi non sorpreso che io dopo due semestri gli dovessi spiegare che non potevo continuare.

Ili

Cominciò ora ancora una volta la stessa triste commedia: non sapevo che cosa dovessi fare. Se non ci fossero state le decisioni di cui ho prima riferito, probabilmente avrei studiato filologia e lettere, pure ora questo non avvenne. E poiché si do-

2 Scrittore (1810-1874) allora popolare, umorista con sfondo sociologico-rivoluzionario.

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veva comunque decidere, lo si fece nello stesso modo insensato della prima volta. Avevo a Magonza un conoscente che studiava scienze politiche. Che cosa ciò fosse precisamente, non sapevo, ma avevo la sensazione che dovesse essere qualcosa di più intellettuale della chimica, e spiegai a mio padre che le volevo studiare.

Così andai col mio amico a Monaco da Lujo Brentano, studioso liberale di economia politica che allora godeva di vasta fama3. Sentii le sue lezioni e non ne trassi molto più che dalla chimica. Andai al suo seminario, dove stavano più di cento persone, e ascoltai la lettura di dotti lavori seminariali, senza comprenderli, e soprattutto senza vedere come si potesse giungere a un risultato del genere.

Pensando che si dovesse subito impostare- un lavoro di dottorato, andai da Brentano e gli chiesi un tema. Poiché sapevo l'italiano, mi propose di lavorare sulla abolizione dei fedecommessi in Italia. Citerò ora un piccolo particolare, dal quale meglio che da un più lungo discorso si potrà determinare lo stato in cui mi trovavo. Brentano nel suo corso

3 Docente di economia politica (1844-1931), a Breslavia, Stra sburgo, Vienna, Lipsia e Monaco (1891-1917) e rappresentante di un indirizzo di liberalismo «sociale» vicino al movimento sindacale.

4 Sidney James Wcbb (1859-1947) e la moglie Beatrice Pot-ter (1856-1943), importanti esponenti del movimento laburista inglese; il marito fu anche ministro e poi Lord, nonché docente dal 1913 alla London School of Economics. L'opera cui allude «Juardini, scritta con la moglie, come quasi tutti i suoi studi, è una traduzione tedesca di Industriai Democracy, dal titolo Theorie unì Praxis der englischen Gewerkaschaftsverei-ne (Teoria e prassi dei sindacati inglesi), Stuttgart 1898.

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aveva raccomandato l'opera dei due Webb 4 sui sindacati inglesi, e io avevo iniziato a leggerla. Ora gli chiesi di citarmi per il tema proposto la bibliografia iniziale, ed egli disse che dovevo iniziare con la Kultur der Renaissance di Jakob Burckardt5, e non so perché abbia pensato a quella. Allora gli chiesi:

«Signor Consigliere, devo allora smettere di leggere il Webb?» Ancor oggi, riferendolo, me ne vergogno. Ma quando uno studente del terzo semestre venisse da me e mi ponesse in tale occasione questa domanda, e l'aspetto mi mostrasse che non è proprio un idiota, mi direi: «Ecco un ragazzo che va aiutato!». Direi anzi che questo dovere per un docente universitario sia più urgente che scrivere grossi libri e brillare ai congressi. Lo inviterei a casa mia e cercherei di portarlo sulla sua strada. Invece quel celebre docente mi sembrò soltanto meravigliato e mi rispose che sì, potevo smettere! Certo il mio caso è raro: studenti che nel terzo semestre si trovavano tanto sprovveduti di fronte alla vita e allo studio come allora lo ero io, non credo Siano molti. Pure io ero là e non credo di aver dato l'impressione di essere irrimediabilmente stupido. Del resto nel mio caso si mostrò solo in modo estremamente crudo con quale inadeguatezza i professori si rappresentassero i loro compiti come docenti.

5 Celebre storico della cultura (1818-1897), la cui Kultur der Renaissance in Italien (1860) è ancora opera fondamentale per la comprensione del periodo e della connessione fra cultura italiana ed europea moderna (trad. ital. La civiltà del Rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze 19803).

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Iniziai comunque a leggere Burckhardt, mi procurai i resoconti parlamentari italiani, cercai quello che vi era circa i fedecommessi, lessi anche questo e quello in più. Ma il tutto risultò un solenne fiasco: non solo perché il lavoro fosse uscito male, ma perché non ne venne fuori proprio nulla in assoluto. E lo stesso avvenne con l'economia politica nel suo complesso. Essa era allora ancora in fase di sviluppo: tutti coloro che non volevano o non potevano seguire studi regolari, diventavano economisti politici. Ma per far ciò, occorreva un'iniziativa inferiore, un interesse alle questioni sociali e politiche, e tutto ciò io non l'avevo. Così il suo studio continuò a pesarmi addosso come qualcosa di opprimente e in ultima analisi incomprensibile.

Ciò che allora per me divenne realmente significativo, fu la città e la sua atmosfera artistica e letteraria. Trovai stimolanti amicizie, ma, fatto abbastanza indicativo, non fra i compagni di materia, bensì fra studenti di storia dell'arte, della letteratura e scrittori. Allora entrai anche più in profondità ' nella vita. La singolare mescolanza di grande città e di senso di agio, mista a una bohème di artisti, che imprecavano sempre contro la mentalità piccolo-borghese della città, e pur sempre vi si trovavano infinitamente bene, ebbe su di me effetti liberatori e stimolanti. Entrai nel Caffè e presi parte alle interminabili discussioni sulla letteratura e l'arte figurativa; frequentai concerti, musei ed esposizioni, mi guardai in giro nei bei dintorni, ancora però del

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tutto frenato dalla timidezza che portavo in me.

A Monaco sono anche giunto alla crisi decisiva della mia vita religiosa.

Durante il periodo di Tubinga avevo sostanzialmente continuato a vivere come a casa. Avevo detto le mie preghiere giornaliere, quando appunto non le dimenticavo o tralasciavo; ero andato la domenica in chiesa, e di tanto in tanto mi accostavo ai sacramenti; avevo anche letto libri religiosi d'ogni sorta, vecchi testi o scritti apologetici.

Particolarmente importante fu per me il contatto con due persone, di cui poco tempo prima avevo fatto la conoscenza. Erano il prof. Wilhelm Schleussner, docente di storia e tedesco al Reale Ginnasio di Magonza, e sua moglie Josefine. Erano senza figli e persone di ogni genere andavano e venivano da loro. Tramite un compagno di studi fui introdotto presso di loro e cominciai io pure ad andarvi, prima una o due volte, poi sempre più spesso, infine tanto spesso, che oggi mi meraviglio che ambedue, che pure avevano il loro lavoro, potessero perdere tanto tempo con me. Schleussner era un convcrtito e aveva forti interessi religiosi. Soprattutto conosceva la mistica tedesca e in seguito avrebbe edito sotto lo pseudonimo «Bruder Bardo» le Deutsche Gebete (Preghiere tedesche) presso l'editrice Matthias-GrùnewaId 6. Sua moglie

6 Wilhelm Schleussner (1864-1927), dopo la morte della moglie Josefine (1861-1913), studiò teologia a Friburgo in Br. e fu consacrato sacerdote nel 1918. La sua opera pubblicata con

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era più notevole di lui. Dalla sua casa paterna aveva portato con sé una cultura non comune, comprendeva il latino e, per poter leggere nell'originale gli scritti di santa Teresa, che essa amava più di ogni altra cosa, aveva imparato lo spagnolo. Condivideva la vita spirituale del marito e lo aiutava nella sua attività di scrittore; contemporaneamente faceva un lavoro ricco di sacrificio e di impegno nell'associazione cattolica dei domestici di Magonza, e già questo dimostra che non apparteneva alle bas bleus. Era gentile e vivace, e ci si rallegrava di poter starle vicino. Così le dimostrai infatti anche quella venerazione che un giovane prova per una donna molto più anziana, notevole spiritualmente e umanamente molto fine. A ciò si aggiungeva il fatto, che all'inizio non sapevo, benché col tempo iniziassi a presagirlo, che essa non solo conduceva una intensa vita religiosa, ma aveva verosimilmente reali esperienze mistiche. Vicino a lei si avvertiva qualcosa di insolito, nella forma però di una bontà e riservatezza che mai sconcertava ne opprimeva, ma invece sempre aiutava. Con gli Schleussner discussi la mia •questione religiosa, e mi resi presto conto che principalmente era essa la causa per la quale ero venuto da loro. Così era di fatto la circostanza migliore quando li trovavo soli e potevo loro esporre quello che avevo nel cuore.

La prima volta ero andato alla loro casa quando ero ancora a Tubinga, e Schleussner mi aveva su-

lo pseudonimo «Bardo, Br.», Deutsche Gebete, uscì nel 1916 presso Herder a Friburgo, e non presso l'editore Grìinewaid di Magonza.

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bito detto quanto si fosse meravigliato quando gli ero stato presentato come studente di chimica. Le visite hanno poi accompagnato il mio periodo di Monaco, ed io vi ho inserito i miei dubbi che allora crescevano e divenivano critici, dei quali ora ritorno a parlare.

Le mie convinzioni religiose, cioè, iniziavano a vacillare. Non posso citare un motivo speciale di questo; neppure ciò che la sapienza pedagogica volentieri ha assunto come regola, che io fossi rimasto implicato in qualche relazione erotica, poiché questo non era avvenuto. Non che io intenzionalmente abbia schivato cose del genere, ma appunto non ci si è arrivati. Propriamente l'espressione che le mie convinzioni religiose fossero divenute vacillanti, non è esatta, piuttosto erano divenute sempre meno numerose. Quando la sera volevo dire le mie preghiere, non sapevo in quale dirczione dovessi rivolgerle, e più volte avevo — fatto grottesco — ricapitolato una prova dell'esistenza di Dio, per sapere che esisteva un Dio che potessi pregare. Una sera entrai in dialogo con uno studente — di storia dell'arte, che conduceva una vita molto dispendiosa e sosteneva di essere kantiano — sulla questione religiosa. Gli esposi gli argomenti usuali a favore dell'esistenza di Dio, ed egli mi ribattè seguendo i procedimenti di pensiero della Critica kantiana. Allora tutta la fede mi si dissolse; più esattamente, notai che non avevo più fede. Era l'estate del 1905.

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IV

Nelle vacanze d'autunno venne da me il mio amico Karl Neundórfer e andammo assieme a Stal-tach, un paesino presso il Lago di Starnberg [Alta Baviera]. Colà abitammo per pochi quattrini presso gentili contadini; mi ricordo ancora che il marito portava il nome imponente di Bartolomaus Werk-meister, e la moglie era grassa e cortese.

Qui devo dire qualcosa circa Karl Neundórfer. Eravamo stati nella stessa classe fin dal primo anno di scuola, cioè dal 1891, ci eravamo conosciuti da sempre e trovati molto simpatici. Verso la fine del nostro periodo scolastico stringemmo un'amicizia che durò sino alla sua morte nel ghiacciaio Fex presso Siis Maria nel 1925, e divenne sempre più chiara e sicura. La sua morte fu certo la perdita più dolorosa della mia vita. Quando andai a Tubinga con lo stolto proposito di studiare chimica, egli iniziò a Giessen lo studio di scienze giuridiche; era un lavoratore giudizioso, accurato, tranquillo e sostenne i suoi esami nel modo migliore. La sua mentalità e carattere erano molto diversi dai miei; il suo punto di gravita stava in un intelletto chiaro e mirabilmente ordinato e in un'attività calma, instancabile. Sotto le sue mani l'ordine si formava da sé. Il suo intero essere era sano e sicuro. Veniva da una famiglia cattolica di fede profonda, ma poi era capitato sotto l'influenza della tendenza neokantiana di allora. Tuttavia ciò non avvenne per caso, perché Kant gli era intcriormente affine. Secondo la sua

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inclina2Ìone sarebbe divenuto un giurista molto vivace di spirito, oggettivamente chiaro e mirabilmente Edato. Sotto l'influsso della Critica kantiana aveva abbandonato le convinzioni cattoliche e si era sistemato su misura una vita filosofica, che si sarebbe dovuta mantenere molto riservata in questioni metafisiche e sarebbe dovuta culminare in un'etica con una sottostruttura di profondo rispetto religioso... Effettivamente, anch'egli era incappato nella crisi religiosa e il soggiorno a Staltach doveva condurla innanzi sia per lui che per me. Vivemmo insieme un buon periodo, facemmo belle passeggiate, facemmo bagni, prendemmo il sole, godemmo dell'abbondante vitto che la signora Werkmeister ci dava quasi per niente. Contemporaneamente leggevamo; lui non so più che libro, io le Grundiagen des neunzehnten Jahrhunderts (Mandamenti del secolo xix) di Houston Stuart Chamberlain7. La lettura di questo libro completò in certo modo il colloquio alla fontana davanti all'Università di Monaco.

Poi andammo a casa. Io riferii agli Schleussner che cosa era avvenuto e credetti di notare che li interessava. Di quelle vacanze mi è rimasto il ricordo di una sera a teatro: davano i Figli del rè di Humperdinck 8, ed io ne sentii la tragica conclusio-

7 Si tratta del celebre libro, di carattere ideologico, uscito nel 1899 (Monaco 19002), opera di Houston Stewart Chamberlain, di origine inglese, che esaltò la razza ariana e divenne dal 1916 cittadino tedesco (nato a Portsmouth nel 1855, morto a Bay-reuth nel 1927).

8 Engelbert Humperdinck (1854-1921), musicista e compo-

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ne come una conferma di quello che avevo vissuto. Mi era rimasto il pensiero di una totalità, che tesse e domina dietro ogni cosa, della quale però nulla di chiaro si possa dire.

In seguito avvenne però un mutamento. Ciò che mi aveva distolto dalla fede, non erano stati reali motivi contro di essa, bensì il fatto che i motivi, le ragioni d'essa a me non dicevano più nulla. La fede come atto consapevole era divenuta sempre più debole e infine era morta. Tuttavia penso che i legami inconsci con la realtà cristiana non si siano mai del tutto strappati. Era anche importante che non avessi alcuna avversione verso la Chiesa ne verso una qualche personalità ecclesiastica, e che la difficoltà della coscienza, che invero era legata strettamente alla educazione ecclesiastica, non fosse divenuta opposizione ad essa. Ora l'elemento religioso divenne intcriormente di nuovo più forte, ma ciò condusse, così stando le cose, immediatamente a un avvicinamento alla fede cristiana.

, Quali riflessioni abbiano concorso a ciò, non sono più in grado di dire in particolare; ma allora mi si è rivelata una conoscenza che giustificò e diede forma all'intero sviluppo interiore, e che da allora rimase per me la vera e propria chiave di accesso alla fede. Ricordo, come se fosse ieri, l'ora in cui questa conoscenza si fece decisione. Fu nella mia

sitore di varie opere e fiabe musicali, fra cui i Konigskinder citati da Guardini, a sfondo magico-mistico.

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piccola mansarda nella casa dei miei genitori in Gonsenheimerstrasse. Karl Neundòrfer ed io avevamo discusso della questione che ci affaticava entrambi, e le mie ultime parole erano state: «Occorrerà arrivare alla frase: chi vuoi serbare la sua anima, la perderà; chi invece la dona, la salverà». L'in-terpretazione, implicita nella traduzione di Mt. 10, 39, dice che cosa mi importava. Mi era divenuto a grado a grado chiaro che v'è una legge secondo la quale l'uomo, quando «conserva la sua anima», cioè rimane in se stesso e accetta come valido soltanto ciò che gli appare immediatamente evidente, perde la realtà essenziale. Se vuole invece giungere alla verità e nella verità al suo vero se stesso, allora deve donarsi. Questa convinzione aveva certo avuto dei gradi iniziali precedenti, ma ora mi sono sruggiti. A queste parole Karl Neundòrfer era andato nella camera accanto, alla quale conduceva una porta su un balcone. Io sedetti dinanzi al mio tavolino, e il mio pensiero procedette: «Dare la mia anima - ma a chi? Chi è in grado di chiedermela? Di chiedermela in modo, che tuttavia non sia ancora io che la prenda in mano? Non semplicemente 'Dio', poiché quando l'uomo vuoi avere a che fare soltanto con Dio, allora dice 'Dio' e intende se stesso. Deve perciò esserci una istanza oggetti-va, che possa trar fuori la mia risposta da ogni nascondiglio dell'affermazione di sé. Ma tale istanza è soltanto una e unica: la Chiesa cattolica nella sua autorità e precisa determinatezza. La questione del conservare o dare la propria anima viene decisa in

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ultima analisi non dinanzi a Dio, ma dinanzi alla Chiesa». Allora mi sentii nell'animo come se portassi nelle mie mani tutto - ma veramente «tutto», il mio essere, come su una bilancia, che fosse in equilibrio: «Posso farla pendere a destra o a sinistra. Posso dare la mia anima o tenerla». E allora la feci pendere verso destra. L'istante fu affatto silenzioso: non fu ne una scossa, ne una illuminazione, ne una qualche esperienza vissuta. Fu la chiara convinzione: «È così» — e il moto impercettibilmente sommesso: «Così deve essere!» Allora uscii, andando dal mio amico, e glielo dissi. In lui doveva essere accaduto qualcosa di simile; per lui già da tempo era risonata la parola direttiva: «La maggior chance di verità è là, dove è la maggior possibilità di amore». Già da molto tempo si era in lui predisposto un superamento della sua natura chiara, retta, ma anche sicura di sé e cosciente di sé. Aveva riconosciuto che gli mancava il mondo dell'amore, e che la pienezza dell'esistenza dipendeva daU'ot-tenerlo. Perciò la questione per lui era, dove passasse la via verso l'amore, e la risposta era stata anche per lui: attraverso la Chiesa.

Nei giorni seguenti fui molto felice, di una felicità tranquilla e tacita. Non sono mai stato uomo di grandi scosse. Per me le cose hanno sempre avuto qualcosa di contenuto, per non dire di freddo, e così fu anche allora. Scrissi tutto nel diario, in cui avevo riferito di tutta la vicenda, e lo portai dagli Schleussner. Furono gli unici cui allora ne resi conto.

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v

Dopo queste vacanze, Karl Neundórfer andò a Giessen, per sostenervi il suo esame di Stato, ed io a Berlino. Perché proprio da Monaco, dove mi ero trovato molto bene, andassi a Berlino, non so di preciso; verosimilmente apparteneva allo stile degli studi di economia politica, dopo una permanenza nella Monaco bohèmienne, andare nella città severamente operosa di Berlino, dove anche i problemi sociali sopravvenivano molto più duri. Io pure vi andai e il semestre invernale che vi trascorsi fu il peggiore di tutto il mio periodo di studio.

Questo dipese soprattutto dal carattere della vita che si viveva colà. Ci si può trovare molto bene a Berlino; ma occorre, allora, aver una casa, in cui ritornare sempre volentieri, e un lavoro, che interessi e appaghi, a meno che si abbia molta energia in eccedenza e ci si voglia sfogare. Ma tutto ciò non era il mio caso. Per quanto riguarda l'abitazione, io non avevo mai avuto molta attitudine per le cose di organizzazione pratica, a differenza che in quelle tecnico-pratiche; dopo aver visto non so quante stanze, rimasi a soggiornare in una che sembrava tutt'altro che comoda. Era nelle vicinanze della stazione Bellevue, proprio fuori dalla stazione, era buia e aveva cinque angoli. Col lavoro andava male... Così da quell'inverno ho ricavato soltanto qualcosa di passaggio. Ebbi relazioni stimolanti, per lo più ancora originate a Monaco. Andai anche molto ai concerti e a teatro; soprattutto si

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rappresentava meravigliosamente Ibsen al Lessing-theater, e si vivevano gli interessanti esperimenti delle scene di Max Reinhardt. Abitava anche, a Berlino, un ecclesiastico della diocesi di Magonza, il dott. Johannes Moser, un ingegno un po' stravagante, da cui passai questa o quella serata stimolante. Ma in complesso nella città sterminata, dove sembrava che ciascuno sapesse con tanta precisione quel che voleva, mi sentii molto fuori posto.

Oltre a Simmel9, Wolfflin 10 e altri, ascoltai anzitutto Adolf "Wagner " e Max Sering". Con quest'ultimo, che mi sembrò competente circa il problema dei fedecommessi, fui in seminario, un grande gruppo di lavoro con persone abili, che avevano una massa opprimente di cognizioni. Ciò procedette per un certo tratto; poi dovetti convenire con me stesso che non sapevo combinare nulla neppure con l'economia politica. Come totalità, come finalità teorica e pratica, non la comprendevo;

perciò anche il particolare, da quella impostazione, mi era incomprensibile, e io vidi con terrore riemergere la domanda, che cosa dovesse venir fuori da me. Come potevo dire a mio padre che anche

9 Georg Simmel (1858-1918), filosofo storicista e sociologo, docente a Berlino dal 1901 e poi dal 1914 a Strasburgo.

10 Heinrich Wolfflin (1864-1945), storico dell'arte, celebre per i suoi studi sul Barocco, e le connesse teorie storiografiche, docente a Basilea, Berlino (dal 1901), a Monaco dal 1912 e infine a Zurigo.

n Studioso di economia politica, della stessa scuola di L. Brentano, vissuto dal 1835 al 1917, docente a Berlino dal 1870.

12 Anch'egli docente di economia politica (1857-1939); a Berlino dal 1889.

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con questo secondo studio non riuscivo a niente e, cosa anche peggiore, che non sapevo che altro fare? Per breve tempo pensai alia possibilità di applicarmi alla medicina. Ciò che me ne scoraggiò, fu certo la preparazione scientifica di base. A prescindere da questo, non sarebbe stata però una vera vocazione, bensì soltanto una scappatoia. Così il semestre trascorse lentamente sino alla fine.

Fortunatamente avevo almeno il punto fermo religioso; potevo di nuovo pregare e andare in chiesa. Una domenica ero alla messa solenne nella chiesa dei Domenicani in OIdenburger-S trasse. Mi trovavo in uno stato molto critico. Quando vidi il fratello laico incaricato della colletta, dal volto tranquillo, andare in giro con la sua borsa tintinnante, lo invidiai vivamente e improvvvisamente mi venne il pensiero: «Non potresti diventare quello che è lui? Allora avresti pace». Ma poi il pensiero continuò: «No, non fratello laico, ma prete potresti diventare!». E fu allora come se tutto divenisse sereno e chiaro, e andai a casa con un sentimento di felicità che, ad eccezione di quei giorni di Magonza, non avevo più provato da molto tempo.

Il giorno dopo incontrai nella Biblioteca di Stato il dott. Moser e gli chiesi se potevo fargli visita. Egli assentì amichevolmente e, quando la sera andai da lui, quasi la sua prima parola fu: «Vuoi diventare teologo?». Io non gli avevo ancora detto nulla; perciò accolsi questa sua domanda, che vero-

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slmilmente per un conoscitore di uomini non era un gioco di prestigio, come una conferma. Parlammo allora meglio della questione, ed egli, che era stato allievo di Hermann Schellu, mi consigliò di andare a Wùrzburg.

In qualche modo portai il semestre alla fine, guardando con preoccupazione il momento nel quale avrei parlato con mio padre. Probabilmente gli avevo già scritto in merito alla questione.

La spiegazione temuta avvenne poi a Magonza. Mio padre, anzitutto certo ricordando il sacrificio che egli stesso aveva dovuto fare per amore della sua famiglia, e in genere per la sua bontà, mi ha sempre lasciato piena libertà, del che posso soltanto essergli sempre grato. Egli mi giudicava però di carattere instabile, in balia di vari umori, e perciò fu molto indignato della nuova crisi. Soprattutto non credeva alla autenticità della vocazione sacerdotale, per la quale aveva un grande rispetto. Così pretese che io dovessi prima terminare gli studi di economia politica, e poi, se ancora avessi avuto lo stesso proposito, passassi a teologia. Questo io non lo volevo in nessun modo, e alla fine egli cedette.

Mia madre fu molto più risoluta di lui. Essa era

13 Docente di apologetica, arte cristiana, scienza della religione, nato nel 1850, a Wùrzburg dal 1884 sino alla sua morte, nel 1906. Le sue opere furono poste all'Indice nel 1898 per tendenze ra2Ìonalistiche, monistiche e filo-protestanti.

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devota in un senso del tutto interiore e forte, ma aveva quasi un'avversione per tutto ciò che era ecclesiastico e clericale; comunque ne prendeva decisa distanza. Così per lei, credo, il pensiero che il suo figlio maggiore volesse farsi prete, era semplicemente molesto, e pretendeva da mio padre, nel caso restassi di questa opinione, che mi rifiutasse i mezzi per studiare. Ci vollero parecchi sgradevoli colloqui perché alla fine acconsentisse in qualche misura.

Si poteva divenire preti soltanto in dipendenza di una diocesi; così la prima cosa che feci fu parlare col mio parroco e gli dissi anche del mio desiderio di andare a Wùrzburg. Il parroco, dott. S., parlò dal canto suo con il Rettore del seminario, ed entrambi non furono molto d'accordo con i miei progetti. Già non trovavano secondo le regole che io, invece di entrare in seminario, volessi continuare all'università; però lo concedevano, in considerazione del mio precedente studio e come periodo di prova. Però si opponevano al mio proposito di andare da Hermann Schell, del quale poco tempo prima erano state messe all'indice tutte le opere;

anzi mi raccomandarono di andare a Friburgo, la cui facoltà era stimata ortodossa, e io feci così.

Friburgo, attualmente pur essa distrutta, era mirabilmente bella, in modo particolarissimo in primavera ed estate. Questo, e la coscienza finalmen-

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tè acquisita di essere sulla via giusta, mi avrebbero dovuto dare nuova gioia ogni giorno. Ma intanto era avvenuto qualcosa di singolare e di spiacevole. Man mano che i miei genitori acconsentivano al mio desiderio di diventare prete, io stesso divenivo su questo incerto, e quando infine fui a Friburgo, provai contro quella decisione un'inesprimibile avversione. La vista di un ecclesiastico bastava a gettarmi addosso una cupa oppressione. Non mi comprendevo più. Oggi so che cosa si esprimesse in questa avversione, era l'opposizione di una natura che non aveva goduto la vita in alcun modo, contro le rinunce necessarie dello stato sacerdotale. Avevo anche portato in me fin da bambino l'eredità della malinconia di mia madre: eredità che innon è cattiva; è la zavorra che da alla imbarcazione il suo pescaggio. Non credo che siano possibili una capacità creativa e un rapporto piuttosto profondo con la vita senza un temperamento malinconico. Non lo si può eliminare, bensì inserire nella vita: ciò comporta che nel senso intimo lo si accetti da Dio e lo si volga in bene per gli altri; ma allora _di tutto ciò nulla sapevo. Le correnti nascoste della malinconia si levavano tanto alte in me, che credevo di affondare, e il pensiero di dover chiudere con la vita mi occupava totalmente. Trovavo la calma soltanto in un luogo, e suona patetico dir così, ma è vero. Nel Duomo di Friburgo nella navata di destra v'era l'altare del Sacramento; quando mi inginocchiavo sui suoi gradini, svaniva l'impressione per poi, certo, poco dopo, addensarsi di nuovo.

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Quanto tempo sia durata questa crisi depressiva, non lo so più. Nel ricordo mi si presenta senza fine;

probabilmente però furono non più di due settimane. Pure non è solo la durata esterna ad allungare un periodo di tempo.

Un giorno ero andato a Sant'Odilia, dove sgorga la fonte che è salutare per gli occhi. Sulla via del ritorno, che passa a fianco della Certosa, recitavo il rosario. Colà mi liberai della mia pena, e divenni sereno. Era il mio primo incontro reale con questa preghiera, che in seguito mi doveva tanto impegnare 14. Da quell'ora non ho più dubitato circa la mia vocazione sacerdotale. L'onda scura della malinconia è bensì sempre fluita sotto la mia vita e più di una volta è montata; ma io avevo chiara coscienza d'essere chiamato ad essere prete e l'ho mantenuta fino ad oggi.

Lo studio mi procurava gioia. Ascoltavo le lezioni del teologo dogmatico Cari Braig ", dello storico della Chiesa Franz Pfeilschifter 16, dell'archeologo August Sauer " e di altri. Tuttavia ulteriormente rimanevo indifferente. In me era assopito ancor sempre quel centro più proprio e autentico, solo a

14 Guardini scrisse su di essa un'opera: Der Rosenkram unserer lichen Frau, Werkbund-Verlag, Wùrzburg (trad. ital. Il Rosario della Madonna, Morcelliana, Bresda 19.592).

15 V. nota 7 della parte i.

10 Georg (non Franz!) Pfeilschifter (1870-1936) fu docente a Friburgo dal 1903, poi a Monaco dal 1917 ed ivi Rettore dell'Università nel 1922-23.

17 Joseph (non Augusti) Sauer (1872-1949) fu docente di archeologia cristiana a Friburgo dal 1916, ed editore della rivista «Literarische Rundschau» (1905-1916).

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partire dal quale si può realmente entrare in movimento e divenire creativi.

Allora feci conoscenza con due teologi olandesi, che abitavano nel Collegium Sapientiae. (Uno di loro, Bernhard Rosenmoller18, in seguito ha rinunciato alla teologia e oggi è professore di filosofia della religione a Breslavià.) Tramite essi entrai in contatto più ravvicinato con le questioni teologiche di allora e avvertii il desiderio vivace di sentire in merito più notizie di quanto fosse possibile a Friburgo. Così mi decisi ad allontanarmi di là e a recarmi a Tubinga.

Vorrei ancora aggiungere che allora, per alcuni disturbi di gola, andai dal dott. von Eick19, allora libero docente, ed egli mi propose un intervento al setto nasale. Acconsentii, scioccamente, perché l'operazione non mi giovò in nulla, ma solo guastò il naso. Per la convalescenza mi trattenni nella cllnica dell'Università, dove le cure erano affidate a Suore di carità. Allora per la prima volta ho fatto conoscenza dell'atmosfera del convento. In rapporto con la chiarezza intcriore da poco conquistata, questo mondo di ordine tranquillo e di servizio 'silenzioso mi fece un'impressione profonda. In seguito, sono venuto ancora in contatto più volte con

» B. Rosenmoller (1883-1974) insegnò a Munster (1930), Braunsberg (1934) e Breslavià (dal 1937); fu fondatore e direttore della Padagogische Akademie di Paderbom (1947-1949), professore onorario dal 1947 ed emerito dal 1959 a Munster.

19 Si tratta in realtà del prof. Cari Otto von Eicken (1873-1960), poi docente di otorinolaringoiatria a Giessen (1910) e Berlino (1922).

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questo mondo, ho fatto pure alcune esperienze non gratificanti, ma ho sentito sempre, nel più profondo, un grande senso di stima per esso.

VI

II mio desiderio di cambiare di nuovo l'Università fu accolto con qualche scrollata di capo tanto da mio padre quanto dal parroco dott. S., e non posso dar loro torto. Il mio comportamento doveva necessariamente far loro l'impressione dell'irresolutezza. Io ero facilmente impressionabile — d'altronde solo nei particolari, non nella dirczione di fondo; di questa però avevo consapevolezza solo in negativo, poiché la mia natura si ribellava a questa e a quella prospettiva. Portavo in me potenzialità più numerose e più contraddittorie, di quanto suole avvenire in generale, e dovevo conquistarmi solo gradualmente quella chiarezza univoca che gli altri portano con sé a priori. Ma quest'ultima poteva verificarsi soltanto a partire dalla chiarezza della mia missione ed io ancora non la possedevo. Soltanto dopo che avevo acquisito stabilità nell'ambito religioso e avevo trovato la mia vocazione, cominciò a delinearsi quella coscienza di ciò che era giusto in via ultimativa e a me assegnato, che poi mi ha pure realmente guidato. In base ad essa mi si era prospettato come del tutto giusto decidere di lasciare Friburgo. Là non avevo trovato nulla che mi servisse. Ciò che mi attirava a Tubinga era la notizia che il locale docente di dogmatica, Wil-

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helm Koch20, era un teologo «moderno» — ed oltre a ciò l'attaccamento alla piccola città, nella quale avevo trascorso parecchie ore difficili, e a cui tuttavia mi ero affezionato... Contro Tubinga non seguirono obiezioni, perché di Koch non si sapeva nulla, altrimenti si sarebbero poste certamente innanzi ammonizioni ancor più decise di quelle contro Wùrzburg. Ma che mio padre acconsentisse, fu una rinnovata prova della sua bontà.

Perciò mi recai a Tubinga nell'autunno 1906, e i tré semestri che passai nell'università sveva, furono il più fortunato e fecondo periodo di tutti i miei studi. Già in qualche modo simbolico fu il fatto che per la prima volta avessi una bella camera nella silenziosa Gartenstrasse, presso l'anziana sorella di un pastore protestante defunto, che affittava una camera come supplemento alle sue certo limitate entrate. Per la vecchia signora tutto ciò che era cattolico era terribile, tanto più che suo nipote, che abitava anch'egli presso di lei, studiava teologia protestante. Perché mi avesse preso nonostante ciò, non lo so; in ogni caso ci intendemmo molto bene.

Nella cara vecchia città mi trovavo infinitamente bene; essa allora non aveva subito ancora nessu-

20 Docente di dogmatica e apologetica, vissuto dal 1874 al 1955, prima a Tubinga (1905-1910), poi per conflitti di origine dottrinale con il vescovo Keppler e il rettore del Seminario di Rottenburg, rinunziò alla cattedra e fu parroco a Lillà e poi sacerdote in vari luoghi. Guardini gli dedicò il suo volume Christliches Bewusstsem (1935; trad. ital. Pascal, Morcelliana, Brescia 19803).

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na modernizzazione. L'Università era la sua realtà principale, e ne determinava tutta la vita. Se non erro, aveva 15000 abitanti e vi venivano in più 1500 studenti. Durante le vacanze, quando «i signori» erano assenti, ciò mutava la situazione in modo tanto notevole, che parecchie merci nei negozi non erano più neppure disponibili. Dalla Collegiata ogni giorno ad ore fisse si eseguiva la corale, e nel tempo di Avvento nell'oscurità della prima mattina i Pauperle [i «poverini»], cioè i fanciulli dell'orfanotrofio, con cappucci e lanternini passavano di casa in casa cantando le canzoni di Natale, allo scopo di raccogliere poi per la festa le offerte della gente. Eccettuate poche strade, la città era vecchia; la stazione ferroviaria stava sull'altra sponda del Neckar e non stonava. I dintorni di Tubinga avevano pure una toccante grazia sempre nuova. Il precedente dei primi due semestri con il loro disagio passato faceva il presente anche più bello:

quante volte sono passato di sera per le vecchie strade, felice di ogni svolta e di ogni casa!

A Tubinga mi sono dunque davvero propriamente svegliato interiormente; ho amato dall'inizio il temperamento svevo e, credo, l'ho capito benissimo. Il nesso tra intelligenza e sentimento, tra energia e discreta intimità, tra serietà e vivace e talvolta davvero rozzo umorismo, mi è sempre piaciuto.

Presto trovai amici. Anzitutto Josef Weiger",

21 A J. Weiger (1882-1966), sacerdote a Mooshausen, di cui Guardini era ospite nel periodo in cui scriveva queste note,

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che da poco aveva lasciato il noviziato di Beuron e iniziato i suoi studi teologici, e da allora fu mio compagno di cammino sino ad ora. Dopo un semestre venne Karl Neundórfer, che nel frattempo aveva sostenuto l'esame di Stato in legge e si era pure deciso per lo studio della teologia. Egli, Josef Wei-ger ed io siamo stati in comunione in un modo che non capita certo di frequente; e perché Karl Neundórfer dovesse morire nel 1925, sino ad oggi non l'ho compreso. Così diversi per temperamento, come eravamo uniti nell'essenziale, ci completavamo perciò mirabilmente. A una cerchia più ampia appartenevano Hermann Hefele 2, nipote del grande vescovo di Rottenburg, che più tardi in seguito alle difficoltà del modernismo lasciò gli studi teologici, studiò storia e infine morì professore a Braunsberg;

Philipp Funk a, che prese la stessa via e poi fu docente di storia a Friburgo come successore di Hein-rich Finke; Josef Heilmann, che poi andò a Monaco e vi divenne ben noto per la sua attività pubblicistica e redazionale, ed altri ancora.

Fra i professori ascoltai Ludwig Baur24 per la

fu dedicato, tra gli altri, il suo volume Die Mutter des Herrn, 1935 (La Madre del Signore), come «al compagno di cammino attraverso mezzo secolo».

22 Hermann Hefele (1885-1936) fu docente di storia a Braunsberg dal 1929, e nipote di Karl Joseph Hefele, vescovo di Rottenburg e celebre storico della Chiesa (1809-1893), docente a Tubinga e autore della Storia dei Concilii in sette volumi.

" Storico (1884-1937), prima a Braunsberg (1929), poi dallo stesso anno a Friburgo in Br.

24 Docente di filosofia e filosofia scolastica (1871-1943), a Tubinga (1903), poi a Breslavia (1925), emerito dal 1936.

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Slosofia scolastica, Frank Xavier Funk M, che morì durante il mio soggiorno colà, per la storia della Chiesa; J.E. Belser26 per l'esegesi neotestamentaria e J. Vetter27 per l'introduzione all'Antico Testamento. Ma la personalità più importante era Wilhelm Koch, che da ancora non molto tempo era stato chiamato a succedere a Paul Schanz, come docente di dogmatica. Di lui devo dire di più.

Anzitutto, dirò che è stato lui a liberarmi dall'angustia della coscienza scrupolosa. Come già ho riferito, mi aveva dato preoccupazione sin dalla fanciullezza; nel primo periodo di Tubinga era divenuta insopportabile. Che i miei nervi per lungo tempo siano stati così deboli e che in fondo, non si siano mai ristabiliti, lo ascrivo in buona parte a questa dissennata autodistruzione. Essa è connessa con l'indole malinconica e può, nella misura in cui rende l'uomo serio, in certo grado avere effetti positivi. Ma per il resto essa vale solo a distruggere giudizio ed energia, prescindendo inoltre dal pericolo di una sorta di corto circuito interno, che spinge l'angosciato all'estremo opposto, così da sbarazzarsi di tutte le inibizioni. Ora Koch aveva l'abitudine di ascoltare le confessioni, di un limitato numero di studenti. Noi, Karl Neundorfer, Joseph

s Uno dei «capi» della cosiddetta Scuola di Tubinga, storico vissuto dal 1840 al 1907, successore di K.J. Hefele e docente dal 1870 alla morte.

. a Docente di esegesi neotestamentaria dal 1899, vissuto dal 1850 al 1916.

Paul Alexander (non J.) Vetter (1850-1906) insegnava a Tubinga dal 1893.

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Weiger ed io, lo pregammo di questo favore, ed egli ci accettò. La confessione presso di lui si svolgeva in questo modo: si andava da lui in un'ora determinata ed egli camminava col penitente su e giù per la stanza, e lasciava che gli raccontasse tutto quello che aveva in cuore, sia che riguardasse la scienza o la pratica, la religione e la morale, come veniva, e diceva quello che ne pensava. Poi prendeva la stola, riassumeva in breve i dati di fatto, e dava l'assoluzione. Allora ho sperimentato quale meravigliosa forza vitale sia il sacramento della Penitenza, quando viene amministrato in modo giusto. Imparai a prendere una posLzione ferma di fronte all'angoscia, a distinguere l'importante dal non importante e a vedere i compiti veri e propri della formazione religiosa e del carattere. Come fosse originale Koch lo dimostra un consiglio che ci diede. Avevamo a che fare, e del resto non può mai essere diversamente, col problema sessuale, ed egli vide di quante nebulosità era gravato. Perciò mandò uno di noi da un professore di psichiatria, per chiedergli che fosse così gentile da segnalarci un buon libro sulle questioni sessuali. Ciò era un poco rischioso, poiché il «Collega G.» era tutt'al-tro che cristiano; perciò ci raccomandò Die sexuel-le Frage di ForelM. Ma il libro trattava l'argomento con una tale disinvoltura e ampiezza di particolari, che ci servì nel modo migliore: tanto più che, poi-

28 Auguste Forel, docente a Zurigo (1848-1931), psichiatra, pubblicò questo testo in prima edizione nel 1905; nel 1942 ne usci una xvil edizione!

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che lo leggemmo insieme ad alta voce, così svanì radicalmente l'incantesimo di tutta la questione. Questa libera2Ìone intima contribuì a rendere i semestri di Tubinga così essenzialmente buoni. Naturalmente con ciò non voglio dire che l'angoscia fosse totalmente sparita; là dove essa realmente proviene dalla natura, continua ancor sempre, come possibilità, a scorrere al di sotto della superficie. Ma io ho guadagnato una posizione ferma e son divenuto capace di giudicare e di distinguere. Questo è più di quanto sia mai in grado di apprezzare uno che ne sia a -priori capace.

Ancora più importanti furono però per me di Wilhelm Koch le lezioni. La sua forza migliore erano l'onestà e la coscienziosità. Non era un grande teologo, gli mancava per esserlo lo sguardo all'essenziale e la forza di sintesi; ma per lui la verità era una cosa talmente seria, che si avvertiva come essa si identificasse, nel suo caso, con la sua stessa personalità.

Era allora il periodo del cosiddetto modernismo. Soprattutto si affermava la tendenza ad applicare in teologia i dati della ricerca scientifica moderna e così a oltrepassare un tipo di pensiero autoritario-scolastico irrigiditesi in ampia misura; si coglievano dappertutto questioni di tipo gnoseologico-critico, storico, etico. Contemporaneamente si notava anche l'influsso dell'atteggiamento liberale, e tendenze agnostiche, relativistiche, psicologistiche divenivano in più luoghi un pericolo per la fede e la teologia. In questa situazione agitata vennero nel 1907

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le dichiarazioni papali dell'Enciclica Pascendi dominici gregis e del cosiddetto Sillabo z>. Esse implicarono una gran quantità di condanne e misero in grave difficoltà chi fosse coinvolto nelle suddette questioni.

Questo era il caso anche fra la parte più vivace degli studenti; ma il significato importante del corso di dogmatica di Wilhelm Koch consisteva in ciò, che quanto si agitava nel loro spirito, e che altri schiacciavano sotto il peso dell'autorità, ovvero intimidivano col pathos dell'incondizionatezza della fede, egli enunciava apertamente e onestamente sulla cattedra. Questo ci rendeva liberi.

Vi si aggiungeva che egli era avversato dal Seminario ecclesiastico di Rottenburg e precisamente combattuto dal suo Rettore di allora e certo — i peccati tanto frequenti dell'ortodossia! — in modo non molto elevato. Così per noi era un uomo che rendeva testimonianza alla verità, un combattente per cui si preparava una sventura, e prendemmo con tutto il cuore la sua parte. Inoltre egli era spesso maldestro nel suo modo di esprimersi, e confessava le sue difficoltà e i suoi dubbi anche là dove non era ne necessario ne opportuno. Ho ancora dinanzi agli occhi il modo in cui dopo la pubblicazione del Sillabo stette in cattedra e diede conto ai suoi ascoltatori — fra cui alcuni erano per-

29 Riassunto delle proposizioni moderniste condannate dalla detta Enciclica, da non confondere col documento solitamente citato come il Sillabo, che è del 1864 e riguarda la condanna del liberalismo e dell'indifferentismo religioso.

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sone totalmente immature, ma altri anche osservatori appositamente inviati - dei punti in cui egli si sentiva colpito dal decreto papale! Quante volte ce ne siamo stati a riflettere e preoccuparci per lui!

Certamente di quello che diceva parecchio era errato e molto fuori luogo, certamente egli ha anche causato a molti inquietudine; ma ad altri ha con la sua onestà purificato lo spirito e reso indipendente il giudizio. Una deficienza più profonda era che vedeva quasi soltanto il fatto storico-biblico, e gli mancava la capacità di penetrare nell'essenza e dischiudere la ricchezza delle connessioni. In lui, da ciò che si chiama teologia positiva, su queste basi, non si andava molto innanzi. A tal proposito fu il primo, a quanto io so, che si pose la questione del valore di vita dei dogmi; certo in modo inadeguato, per una utilizzabilità di corto respiro, ma lo fece. Nella sua indole v'era una certa grettezza. Per ogni rispetto si avvertiva in lui una diligenza piena di abnegazione, una grande responsabilità verso il sapere, un'esigenza di giungere a ciò che è reale: ma gli mancava ogni grandezza teologica. Aveva troppo rispetto per la «scienza» come allora era concepita; e perciò troppo scarsa coscienza della rivelazione, come realtà e forza donanti, da cui trarre con fiducia di che costruire quell'immagine della nuova creazione che si chiama teologia. Così il risultato finale delle sue lezioni era tuttavia insoddisfacente, e più di un ascoltatore le lasciava con la sensazione che Koch l'avesse

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strappato dalla tranquilla sicurezza delle concezioni tradizionali senza dargli nulla di corrispondente in cambio.

A noi tré amici ciò accadde in modo particolare. Provammo l'efficacia liberatrice della serietà nella ricerca della verità da parte di Wilhelm Koch, lo amammo e sostenemmo, sin dove potemmo, ma in-teriormente ce ne staccammo. Joseph Weiger veniva da una famiglia credente, di antica tradizione cattolica. Poi era stato novizio a Beuron e aveva interiorizzato l'atteggiamento benedettino. Era stato bensì nemico della mancanza di libertà e d'ingegno del tradizionalismo, e il modo in cui Koch ricercava e parlava fu per lui una prosecuzione della efficacia liberatrice di Beuron; ma egli non pensava di dover abbandonare la profondità religiosa e la forza autorevole della tradizione. Karl Neundórfer esigeva in tutto una via chiara, perciò era a lui bene accetto ogni sforzo che rimuovesse il falso e mettesse in ordine ciò che era fuori posto. Ma aveva sperimentato vitalmente ciò che significa «Chiesa». Egli non poteva percepirla, come certo invece si fi-'niva per fare da Koch, come limite e chiusura, anzi essa per lui era il punto centrale. Infine per quanto riguarda me, avevo scoperto il fatto della verità oggettiva e la possibilità di un'esistenza vissuta a partire da essa. E mi era chiaro che dovevo essere o un cristiano cattolico, e allora interamente, senza alcuna riduzione, oppure proprio nulla. Cosicché avvertii il pensiero di Koch come aria pura e chiaro

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spazio; esso rendeva seri e insegnava ad applicarsi, ina da sé solo era semplicemente troppo poco.

Sperimentammo con gratitudine la liberazione che la seria sollecitudine per la verità del nostro maestro produceva. Ci rendemmo consapevoli del dovere della critica, che discendeva appunto da questa volontà di verità. Ma riconoscemmo anche che tale critica esisteva in Koch a livello meno importante, ma in quello più importante mancava. Certamente era importante porre questioni ston-che, psicologiche, di critica testuale, per distinguere il vero dal falso; il compito principale della critica teologica consisteva però in una distinzione della essenza della conoscenza teologica sulla fede da quella delle altre forme conoscitive e scientifiche;

nel fondarla nella sua fonte, nel fissarne i criteri normativi, e nel trarre tutte le conseguenze dalla sua essenza. Noi scoprimmo - prendendo questa parola nel senso della prima visione consapevole della portata dell'oggetto — la rivelazione come il «fatto originante» della conoscenza teologica, la Chiesa come sua portatrice, e il dogma come ordinamento del pensiero teologico. Sicuramente in ciò ha contribuito la differenza generazionale; eravamo decisamente non liberali. Noi prendemmo come base del pensiero proprio ciò che l'atteggiamento liberale aveva ritenuto elemento di disturbo e vincolo, e facemmo l'esperienza che attraverso questa «rivoluzione copernicana» dello spirito credente ci si dischiudeva la profondità e pienezza della sacra ve-

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rità; inoltre ci si era offerto uno sguardo sull'ampiezza e realtà del mondo che l'atteggiamento liberale, con la sua costante attenzione di sbieco verso la scienza profana e la sua inasprita opposizione contro l'autorità della Chiesa, non aveva.

Se fossi stato abbandonato a me stesso, l'esperienza dapprima della mia perplessità sprovveduta e poi quella conversione di pensiero mi avrebbero verosimilmente fatto divenire un fanatico. Da ciò Wilhelm Koch - e ambedue i miei amici - mi preservarono e mi aiutarono a porre in relazione l'in-condizionatezza del pensiero credente con lo sguardo senza prevenzioni sulla realtà delle cose e sulla ricchezza della cultura.

Nei tré semestri di Tubinga raggiunsi ciò che precedentemente avevo cercato invano: il chiaro punto di partenza del pensiero e insieme la incommensurabilità del suo compito; un'atmosfera e un ordine, un «mondo» in cui ciò che in me voleva divenire creativo si potesse manifestare. Allora vennero poste le basi di tutto ciò che venne poi e si ' va sviluppando ancor sempre.

Potrei aggiungere che allora mi mancava il senso dell'elemento storico. Per me si dava solo l'idea, il principio, lo sviluppo della connessione essenziale. A ciò che non «deve» essere, ma è, e porta nella sua realtà la dignità dell'irrevocabile e del decisivo, avrei applicato senza esitazione la frase che udii poi una volta, di Charles Maurras: «II n'y a rien de

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plus méprisable qu'un fait»30. D'altro canto vedevo l'imponente fatto della Chiesa, ma in un modo e con un carattere di cui ancora dovrò parlare in diverso contesto. La realtà di Cristo e con essa tutto ciò che si chiama esistenza storica cristiana, doveva aprirsi a me per la prima volta più tardi. Ma era solo questione di tempo: la via per giungervi era libera.

Ancora qualcosa si riferisce al tempo di Tubin-ga: l'abbazia di Beuron. Josef Weiger era venuto di là e mi raccontava della vita nella comunità mo-nastica; di tutta l'originalità e forza, che cresceva in mezzo a quella rigorosa disciplina; dell'arte di Beuron, che era allora nel suo fiore e soprattutto della liturgia di Beuron.

La mia prima visita colà mi è rimasta profondamente impressa nella memoria. Era sera; andammo dalla stazione direttamente nell'Abbazia e ricevemmo le nostre camere, cosa che rendeva allora la permanenza in essa così calda e viva, non nell'ala degli ospiti, che ancora non esisteva, ma nel chiostro stesso; stanze nella loro semplicità molto accoglienti, con molto legno scuro, e un che di non descrivibile, che faceva sì che ci si sentisse profondamen-

30 «Non v'è nulla di più disprezzabile di un fatto». Charles Maurras (1868-1952) fu scrittore e uomo politico francese di tendenza nazionalista, fondatore del movimento «Action fran-caise», sconfessato dalla Chiesa nel 1926, Accademico di Francia e infine consigliere del governo collaborazionista di Vichy, e condannato dopo la sconfitta nazista.

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tè a proprio agio; Poi ricevemmo qualcosa da mangiare, e andammo a compieta. La chiesa era già scura, solo poche luci nel coro. I monaci stavano in piedi ai loro posti, e intonavano a memoria i bei Salmi della compieta che allora era sempre eguale. In tutta la chiesa dominava un mistero insieme di santità e di salvezza. In seguito avrei constatato che la liturgia ha in sé molto di più potente e soggiogante; ma dapprincipio la porta della compieta immette più profondamente nel cuore del suo sacro mondo, che i portali delle grandi azioni liturgiche.

Poi vi si aggiunsero la Messa solenne e le rimanenti ore liturgiche. Tramite Wilhelm Schleussner avevo preso conoscenza di parecchio della mistica tedesca e la amavo; ma avevo sempre pensato che vi dovesse essere necessariamente pure un'altra mistica, in cui l'intimità del mistero fosse legata alla grandezza delle forme oggettive: la trovai a Beuron e nella sua liturgia.

Era allora il 1907 e il movimento liturgico aveva in un primo tempo raggiunto soltanto piccoli gruppi. Con i colloqui con Josef Weiger però, e dal -soggiorno a Beuron, avevo conosciuto già molto di quello che in essi avveniva, e assunto profondamente entro i miei procedimenti di pensiero teologico il fatto liturgico. Il luogo intorno al quale ruotavano continuamente i miei pensieri era la Chiesa, la misteriosa realtà, che sta così profondamente entro la storia, eppure è garante dell'eterno; esposta a tutte le differenziazioni dell'umano, eppure integra e santa, in modo tale da riempire chi la

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guardi in atteggiamento comprensivo della coscienza del miracolo. Ed ora Karl Neundorfer ed io ritenevamo che la vita della Chiesa dovesse poter essere colta anzitutto da due prospettive, da quella sociologico-giuridica, come la comunione nell'azione e nella lotta, e da quella liturgica, come unità dell'agire contemplativo, orante. Attraverso questi due aspetti correrebbe il terzo aspetto della Chiesa come custode della verità divina, sempre via via posta in pericolo dal volere e disvolere umano. Allora concepimmo il piano, volevamo cioè in seguito presentare una volta che cosa significasse «Chiesa»: egli doveva lavorare dal lato del diritto canonico in un volume del tipo di quello di Rudolf Jhering31 Geist des rómischen Rechts (Spirito del diritto romano); io dal lato della liturgia, come fonte e forma della vita contemplativa. Da questo piano mi si sono formati non certo la prevista grande Teologia della liturgia, ma tuttavia parecchi scritti, come Lo spirito della liturgia, La formazione liturgica a, altri ancora.

31 Rudolf von Jhering (1818-1892), celebre giurista e storico del diritto, pubblicò il suo capolavoro, Der Geist des rómischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwickiung, in 4 voli. a Lipsia, 1852-1865 (v'è trad. frane. L'esprit du Droit Romain dans les diverses phases de son developpement, voli. 4 riuniti in due. Forni, Bologna, rist. anastatica dell'ed. 1886-1888).

2 Vom Geist der Liturgie, cit. e trad. ital. cit.; Litwgische Bildung. Versuche, Burg Rothenfeis 1923.

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VII

Dopo aver studiato teologia all'università per quattro semestri, era tempo per me di entrare nel Seminario di Magon2a.

Ma nell'ultimo periodo di tempo avevo avuto disturbi nervosi di ogni specie; gli avvenimenti inferiori degli ultimi anni non erano appunto rimasti sen2a effetto. Mi feci visitare e ricevetti il consiglio di riposare. Mio padre non accettò l'idea che un giovane potesse aver bisogno di una vacanza, ma suppose invece che avessi il desiderio di mettere ancora una volta alla prova la mia vocazione sacerdotale, e fu d'accordo su ciò. Così andai nel piccolo villaggio di Schmitten nel Taunus e vissi colà alcuni mesi da solo tra belle valli e foreste. Il mio diario di quel periodo potrebbe raccontare di una vita buona e felice, ma pure visitata da insoddisfazioni di vario genere. Ma da qualche anno l'ho bruciato con tutte le restanti annotazioni di questo tipo.

Nell'autunno seguente entrai nel Seminario di Magonza.

Ho spesso ripensato alla bellezza che potrebbe avere questa istituzione. Essa era qualcosa di totalmente diverso da una università. A questa manca la chiarezza delle prese di posizione definitive, e da ciò deriva in tutto una intima perplessità e debolezza; il mondo del seminario si fonda sulla verità

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sacra, sulla sua chiarezza e forza. L'università è per se stessa molto grande e sta nello spazio generale della città, e così perde l'unità ultima e la forza formativa dell'atmosfera; il seminario è più piccolo, ma proprio perciò forma un'unità vivente, un «mondo». Scienza, vita religiosa, educazione morale, comunione umana si legano fra loro e si risveglia ciò che appartiene alle potenze formative più forti: una struttura complessiva di formazione, radicata nella tradizione. I seminaristi sono dei giovani, di regola, chiaramente consapevoli di ciò che vogliono, e pronti a dedicarsi al compito più alto. In seminario è l'assistente spirituale, un sacerdote, che insegna loro a lavorare entro se stessi, a pregare, ad avvicinarsi maggiormente a Dio. L'antica tradizione della Chiesa gli offre saggezza; il suo sentimento per ciò che è la personalità cristiana, gli insegna a condurli all'indipendenza morale, alla genuina esperienza religiosa, in una parola, alla libertà cristiana. Un gruppo di uomini, i loro docenti, insegnano loro a filosofare, cioè a porsi domande sull'essenza delle cose, e a sperimentare quella potenza originaria che sostiene tutto il resto, e che si chiama verità. Essi insegnano al loro spirito a effettuare quella svolta decisiva, nella quale esso impara a pensare a partire dalla rivelazione e diviene capace di vedere rottamente nella sua luce le cose del mondo e della vita, così che ne sorga la coscienza cristiana. I docenti mostrano loro come si lavora, li conducono ai problemi, li rendono capaci di un giudizio proprio, e contemporanea-

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mente insegnano loro ciò che soltanto la fede può serenamente sostenere, cioè le questioni che l'uomo da solo non può risolvere... Infine qui v'è il capo dell'intero organismo, il rettore, che mantiene nell'ordine tutto questo ambito di giovane vita, non per soffocare alcunché, bensì per condurre tutto a un dispiegamento migliore. Egli conosce ciascuno in particolare, segue il suo sviluppo ed è pronto a intervenire quando sia necessario. Suo assistente è il vice-rettore; più giovane, in modo da avere ancora vivi rapporti con gli studenti; ma d'altro canto rispetto a loro interiormente progredito, in modo da poter costituire un collegamento fra loro e il rettore. Dietro tutto sta il vescovo, che ama il seminario come il «vivaio» dei sacerdoti, piuttosto spesso vi entra, parla con i singoli, e da loro la sensazione che essi crescono entro la vivente unità della Chiesa.

In tutto v'è un ordine chiaro e deciso; un'autorità che ottiene e merita obbedienza perché parla con la forza della Chiesa. Ma essa è indirizzata in modo da fare, dei giovani, personalità, da condurli all'indipendenza del giudizio e alla sicurezza dell'agire. L'ordine della piccola comunità è in molte occasioni a loro stessi affidato, in modo che divengano capaci di assumersi responsabilità e aver rapporti con gli uomini... Si richiedono continuamente sacrifici ai giovani teologi, giacché essi debbono invero divenire sacerdoti, e il sacerdote non è tale per sé, ma per la causa di Dio e per gli uomini. Il seminario però non è un monastero; quelli che vi si

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formano, debbono poi stare nel mondo. Debbono essere capaci di vedere e di valutare ciò che è valido nel mondo, di non opporsi ad esso con un risentimento, che avvelenerebbe il loro insegnamento e la loro azione. Devono conseguire il senso della qualità, affinchè esso operi efficacemente anche nel loro annunzio cristiano. In seguito dovranno molto lavorare e loro abbisogna un arricchimento dello spirito, oppure stare in un luogo solitario, dove incombe il pericolo dell'inaridimento: in ambedue i casi debbono conoscere l'accesso alla cultura nobile e poter attingere ai suoi tesori.

Perciò gli uomini che li guidano debbono essere i migliori che si trovino; quindi non ogni diocesi può avere un seminario, poiché in tal caso la scelta è troppo esigua e tutto il campo di visuale è troppo piccolo, bensì parecchie diocesi, le cui possibilità corrispondono al compito, debbono insieme organizzarne uno. Dopo la conclusione degli studi e la consacrazione sacerdotale, i singoli torneranno nella loro diocesi per vivere colà nella forma di una piccola comunità ancora per un certo tempo sotto una guida adatta, per esser così introdotti meglio nelle speciali tradizioni ed esigenze della loro diocesi. Contemporaneamente il seminario sta in rapporti di scambio con le università, e forse in particolare in relazioni amichevoli con una di esse. Costantemente, sia nel corso degli studi, sia dopo la loro conclusione,, singoli studenti vengono inviati all'università, cosicché i, due tipi fondamentali di

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formazione spirituale rimangono in contatto vitale fra loro.

Tutto ciò forse sembra utopistico — eppure, io credo, non lo è. Ed anche se lo fosse, le «utopie» nel corso della storia umana sono state le forze più efficaci, poiché esse esprimono quelle forme di perfezione cui l'uomo ritiene valga la pena di aspirare. Potrei pensare che un tal tipo di seminario fosse ancor oggi veramente attuale. In ogni caso a Ma-gonza si rintracciava poco di un seminario simile. Sono ora trentacinque anni che l'ho lasciato, e sicuramente molto vi è cambiato; quello che dico non riguarda perciò la sua situazione attuale, che io non conosco. Le lezioni si mantenevano interamente nell'ambito del convenzionale. Di una formazione che promuova al giudizio personale e alla capacità viva di responsabilità non si parlava neppure; autorità e obbedienza erano non solo le basi, ma tutto. Come non poteva essere diversamente, l'educazione poggiava su di una sistematica diffidenza e sorveglianza, che scendeva sino al particolare.

Con ciò la bellezza che deve necessariamente sorgere in una comunità di questo genere, la vita inferiore, la preghiera, le conquiste di vario genere insieme a tutta quella letizia che ne scaturisce ecc., non devono assolutamente venir trascurate. Io stesso ho avuto colà molte ore buone, tali da stimolare la mia interiorità. Ma in generale esso rimase per me una oppressione; non è casuale che io vi

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sia divenuto sofferente di stomaco e da allora lo sia rimasto per tutta la mia vita. Un episodio vissuto mi resta indelebilmente nella memoria. Sin da tutta la mia formazione e in particolare dalle esperienze di Tubinga in poi avevo esercitato ogni sorta di critica; di ciò molto sicuramente era superfluo e parecchio ingiusto; ma appunto la saggezza non è all'inizio, bensì alla fine. Inoltre io avevo manifestato questo atteggiamento critico soltanto ad un compagno di studio, in cui avevo fiducia. Ora dovetti constatare che egli aveva sottoposto quello che egli avevo detto all'assistente spirituale; poiché questi aveva comunicato la cosa al Rettore, un giorno fui chiamato da quest'ultimo a risponderne e per un pelo non fui escluso dall'ordinazione. Chi mi denunziò non lo fece per danneggiarmi, e nemmeno per procurarsi un vantaggio, ma perché credeva che ciò fosse suo dovere, e certamente con riluttanza ulteriore. Ma tutto ciò dimostra una tale mancanza di considerazione per la fiducia e l'amicizia, una tale mancanza di sincerità, apertura e dirittura, che ancora oggi dopo trentacinque anni non riesco ad accettarlo. Ma non era un caso isolato, bensì un sintomo dello spirito e metodo di tutta l'educazione.

Per quanto mi concerne, ne trassi parecchi insegnamenti, ma avrei anche potuto perdere ogni fiducia ed essere alienato dalla mia stessa vocazione. Se ciò non avvenne, lo devo al fatto che il mio amico Karl Neundórfer condivise il medesimo destino;

ed inoltre alla comprensione, esperienza e pazienza

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che in quel periodo mi dimostrarono gli Schleussner marito e meglie. Così la cosa passò senza catastrofe. Noi fummo ordinati sacerdoti, per punizione, certo, con sei mesi di ritardo, ma pure lo fummo, in un giorno di maggio 1'910.

Una circostanza propizia mi permise di celebrare la prima Messa con tutta tranquillità. Io e Karl Neundórfer a Magonza appartenevamo alla stessa parrocchia; poiché egli voleva celebrare la prima Messa con ogni solennità, indusse il parroco a lasciarmi libero, in caso diverso questi non si sarebbe lasciato sfuggire l'evento. I miei genitori, specialmente mia madre, avevano avversione a queste cose. Dopo che si erano riconciliati con la mia vocazione sacerdotale ed avevano iniziato ad esserne lieti, mi sarebbe dispiaciuto pretendere da loro una manifestazione pubblica di religiosità che fosse contraria al loro sentimento.

Così celebrai la mia prima Messa nella cappella delle Francescane. Con loro — veramente povere Fi-glie di San Francesco — la nostra famiglia aveva sempre avuto buoni rapporti. In particolare mi ricordo di una di loro, che di anno in anno veniva da noi con la sua borsa da mendicante, e con la quale mia madre, che era sempre molto riservata con tutte le persone ecclesiastiche, parlò di parecchie cose circa le quali altrimenti non avrebbe parlato. Così la festa fu semplice e bella. Il calice, che allora usai per la prima volta e ancor oggi possiedo, mi fu donato dai miei genitori. Era una creazione

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di Beuron, e rappresentò un ricordo permanente del luogo in cui per la prima volta mi era divenuta chiara l'essenza della liturgia.

Quel giorno ebbero una grande gioia anche quelle due persone che erano state per me quasi genitori spirituali, cioè i coniugi Schleussner. Sentirono l'avvenimento come coronamento di molta pazienza e cura da loro avuta per me nel corso di parecchi anni. Molte belle possibilità svanirono quando la signora Schleussner morì, tré anni dopo, il 15 giugno 1913.

Vili

Ottenemmo ancora un breve periodo di permesso e poi la nostra prima sistemazione. Per me restava ancora un ostacolo. Ero cittadino italiano e perciò non potevo impartire insegnamento religioso nelle scuole, perché ciò presupponeva un rapporto di impiego pubblico. Per mio padre l'idea che potessi lasciare la cittadinanza italiana era a mala pena comprensibile, ed indugiava ancor sempre a prendere le disposizioni necessarie, forse nella speranza che si potesse trovare un modo per evitare questo passo. Ma alla fine dovette pur constatare che la cosa non avrebbe avuto esito, e l'anno seguente fu compiuta la mia naturalizzazione.

Ottenni la mia prima, ancora interamente provvisoria sistemazione a Darmstadt, e precisamente

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all'ospedale tenuto dalle suore nella Nieder-Ram-stadterstrasse. Ivi non avevo molto da fare e potei lavorare parecchio per conto mio.

Dopo alcuni mesi fui spostato a Heppenheim come cappellano nella Bergstrasse. Dell'accogliente cittadina conservo molti graditi ricordi, e soprattutto del vecchio decano, che realmente per i suoi due cappellani era quasi un padre. Ci lasciava disponibile ogni cosa, ci faceva lavorare secondo le nostre forze ed era costantemente pronto a consigliarci e aiutarci. Anche la responsabile della casa, la signorina Anna, la ricordo volentieri, perché si preoccupava di noi in ogni modo, e, certo anche nella sua semplicità, era una persona per cui subito si provava rispetto.

A Heppenheim rimasi un anno; poi fui chiamato come secondo cappellano nel Duomo di Worms. Colà l'ambito dei rapporti era più ampio, e tutto più faticoso. A Heppenheim inoltre non avevo potuto insegnare a scuola, ciò che ora avvenne, e costituì un nuovo compito... Il Duomo molto bello costituiva una fonte sempre nuova di gioia. La casa parrocchiale aveva un che di freddo, ma ci si sentiva' a proprio agio. Il prevosto era malaticcio, cosicché il lavoro principale ricadeva su di noi. Avevo simpatia per lui, ed anch'egli, credo, per me. Potei anche scambiare parecchi discorsi con lui e ne conservo un ricordo amichevole.

Voglio ora dire in qual modo fossi disposto per il 124

lavoro pastorale e quali possibilità e limiti trovassi in me a questo proposito.

Sin dall'inizio mi sembrò che la santa Messa fosse il punto centrale. Perciò mi sono sempre sforzato di celebrarla con ogni cura. Mi è pur stato obiettato ripetutamente che vi impiegavo troppo tempo; ma io rispondevo come risponderei anche oggi: che anche per la comunità non sarebbe stato di alcuna utilità, se il dir Messa non avesse significato per me più nulla, il che però sarebbe avvenuto se fossi stato costretto ad affrettarmi... Il fattore più propriamente liturgico, cioè la conoscenza delle distinte forme essenziali del culto e l'impegno a renderle il più possibile chiaramente visibili, come pure a introdurre la comunità nel loro attivo compimento, allora a Magonza mancava completamente. Nonostante Beuron, qui inizialmente fui ancora totalmente perplesso e sprovveduto; le vie per l'attuazione pratica mi divennero chiare per la prima volta a Rothenfels. Sotto questo rispetto, la cosa peggiore fu l'obbligo che io mi assunsi più tardi in S. Cristoforo e S. Ignazio a Magonza, durato complessivamente due anni, precisamente di celebrare la Messa dinazi al Santissimo Sacramento e-sposto, mentre dai fedeli veniva recitato il rosario. La mancanza di senso di questa celebrazione era insopportabile, e potei evitare un danno interiore soltanto in quanto cercavo di esservi indifferente.

Ciò che immediatamente mi impegnò nel modo più forte fu l'attività di predicazione. Per parecchi anni ho scritto parola per parola ogni predica e l'ho

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imparata a memoria. Era un ottimo esercizio, che mi insegnava a usare le parole con precisione... Al mio temperamento erano legate proprietà che portavano vantaggi, ma anche svantaggi. Anzitutto, che per ogni predica mi occorreva un «punto di accensione», un interrogativo che mi stimolasse. Sviluppavo il tutto partendo da là. Ciò produce una tensione che coinvolge anche l'ascoltatore; porta con sé anche però il pericolo che l'interrogare e il pensare prendano la mano, e che tutto il discorso divenga troppo teoretico; e appunto il «mio» interrogare e pensare personali. Naturalmente per la scelta del tema e il suo sviluppo intrinseco pensavo alla comunità e a ciò che a me era suggerito dal periodo dell'anno liturgico o almeno da un certo punto di vista; ma in ultima analisi erano pur sempre i miei interrogativi che mi guidavano. Ciò comportava il pericolo di proporre agli ascoltatori qualcosa che era loro estraneo, o almeno che risultava loro non vivente. Un'altra particolarità era l'aspetto creativo-estetico sempre più fortemente sviluppato. Non che mi preoccupassi di un «bei» parlare, di solenni introduzioni e di esposizioni a regola d'arte: non era questo il caso. Sul pulpito si deve parlare lo stesso linguaggio della vita, cioè il proprio. La sua scuola consiste nel fatto che si dica sempre qualcosa, e che lo si dica in modo preciso;

poi diventa buono da sé. Invece per aspetto creativo-estetico intendo, che per me, in ogni predica, si tratta di una «forma», che deve prodursi, e che quel «punto di accensione» di cui ho detto, è contem-

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poraneamente il punto di origine di questa forma. In conseguenza di ciò ogni predica, sia pure nella misura più modesta, è una crea2Ìone. Quando riesce, è più di una semplice esposizione, quando non riesce, è meno. Così spesso io ero in dubbio, se il mio modo di predicare fosse quello utile a una normale comunità: il pane quotidiano della verità, introdotto nella sua esistenza, quale essa realmente è. In ogni caso però non potevo fare diversamente, e la dirczione [provvidenziale] della mia vita mi ha pure concesso la possibilità di trovarmi al posto giusto con questo mio stile di predicazione.

"Un capitolo difficile per me fu la scuola. Mi è stato detto che avevo la possibilità di spiegare le cose più difficili in modo tale che divenivano trasparenti, ma io lo posso fare propriamente soltanto con quelle che sono realmente «difficili», cioè in cui si cela un problema. Con i bambini la questione è diversa, cioè consiste nel portare lo spirito in crescita dei bambini a contatto con la verità sacra. Ma io non ho mai capito i bambini. Il giovane entra nel mio campo visivo soltanto nel tempo della maturità, ed anche qui anzitutto se ha una certa formazione. Questo fatto, da un punto di vista sacerdotale, è una grave limitazione, ma non la posso modificare. Difficile fu anche sempre per me il problema della disciplina. Nella situazione pedagogica quale dominava un tempo nelle nostre scuole, tutto si fondava in ultima analisi sul comando e Fobbe-dienza, ed io invece non ero capace di comandare in modo efficace. Potevo bensì ottenere influenza;

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il lavoro nella «Juventus» di Magon2a e così pure a Rothenfeis me l'ha dimostrato. Ciò era certo anche autorità, ma indiretta, e la sua forza erano la fiducia e la spontaneità. Dove non potevo avvalermi di queste, io ero impotente.

Una speciale difficoltà costituivano per me le associazioni, giovanili, sociali, professionali, con le quali non seppi semplicemente combinare nulla, ed esse egualmente con me. Molti sacerdoti nonostante ogni incomodo si occupano volentieri e con zelo del lavoro delle associazioni; ma io ritengo che sia loro gradito in modo incondizionato il rapporto con la gente, e che la rappresentazione delle consuete commedie delle associazioni procuri gioia a loro stessi. Io invece a fare tutto questo dovevo costringermi; e così si spiegava la mia contrarietà.

Riassumendo, devo dire che non riuscii a trovare quella relazione umana che deve avere il pastore con la sua comunità, e fui anche sempre convinto che quella di pastore fosse la forma vera e propria del sacerdozio. Ma non ho mai trovato la giusta via di accesso al popolo, al modo del suo pensare e alla forma dei suoi interessi.

Ritengo che vi siano diversi tipi fondamentali di condotta e operosità sacerdotali. Se prescindo da quella che da noi si trova forse maggiormente negli ordini religiosi, e il cui centro sta nel rapporto con Dio e nella preghiera per la salvezza degli uomini, vedo anzitutto due di questi tipi. Il primo lo potrei chiamare il prete paterno: esso procede totalmente

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dalla coscienza dell'ufficio sacerdotale. In lui v'è quella coscienza che è stata tanto forte in san Paolo: tramite la Parola e i sacramenti esercitare una generazione spirituale; nutrire, proteggere e guidare i propri Egli. È una forma molto bella, forse quella originaria del sacerdozio; ma io non l'ho mai potuta realizzare. Io ho trovato invece — senza partire da princìpi di sorta, semplicemente nel mio spontaneo atteggiamento circa i compiti pastorali -il tipo del sacerdote fraterno, che non parte dall'ufficio, ma lo porta in sé come forza; non sta di fronte ai fedeli come soggetto dell'autorità, ma cammina accanto a loro. Egli evita di presentare loro risultati e indicazioni prefissati, ed invece si immette con loro entro la ricerca e l'indagine per scoprire in comune con loro. So che cosa si può obiettare: l'esistenza cristiana non viene dagli uomini, bensì da Dio e sarebbe perciò essenzialmente un «ordine» rispetto al quale si darebbe solo ob-bedienza. Quindi anche nella Chiesa non si troverebbe alcuna verità incognita, bensì vi sarebbe an-nunziata la verità rivelata per sempre. Ma ciò che intendo sta all'interno di questo dato di fatto. V'è una distinzione di atteggiamento che penetra in tutta l'attività, se parto espressamente dall'autorità e richiedo obbedienza, o se invece mi pongo accanto agli altri e cerco con loro di giungere all'obbedien-za. In ambedue i comportamenti v'è autorità e obbedienza, ma percorrono diverse strade. V'è pure in ambedue l'ufficio sacerdotale; solo che nel primo esso è per così dire il titolo di diritto che sta al di

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sopra di tutto, da cui l'attività deriva espressamente; nel secondo forma l'interna sicurezza di dirczione e forza, attraverso le quali quel permanente avventurarsi viene guidato e sostenuto. Nella «Ju-ventus» di Magonza e a Rothenfeis ho avuto una autorità che mi rendeva possibile dire tutto e richiedere moltissimo, molto più che non avessi potuto richiedere col metodo della autorità diretta;

ma questo proprio perché non ero partito da essa.

Da qui anche l'intero problema del rapporto fra clero e laici riceve un carattere diverso, ed ho spesso pensato che tutta una quantità di difficoltà sarebbero eliminate, se ci fossero più preti che seguissero il comportamento fraterno. Del resto è ben chiaro che con ciò non intendo esprimere valuta-zioni di alcun genere. Anzi sono persino disposto a concedere che nell'economia generale della vita cristiana ed ecclesiale sarà dominante il primo tipo.

Nella primavera del 1912 fui spostato a Magonza, affinchè, occupando un posto che si prevedeva leggero, potessi lavorare per la mia laurea.

Come allora a Magonza fossero ordinati la celebrazione liturgica, la pastorale individuale e la vita spirituale e religiosa, in quali rapporti stessero un parroco con gli altri e il parroco con il cappellano, qui preferisco non dirlo... All'inizio del mio soggiorno colà incontrai un giorno sulla piazza del Duomo un vecchio cappellano, che era a Magonza già da molto tempo e la conosceva a fondo. Mi salutò come nuovo venuto, poi, e rivedo ancora la sce-

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na dinanzi a me, si girò verso il duomo e disse nel più rigoroso dialetto di Magonza: «Signor cappellano, guardi una volta lassù: lei sa che cosa sta sulla coda del gallo del Duomo?» Avendo io risposto che non potevo vedere il motto esoreistico, egli continuò: «Lasciate ogni speranza voi ch'entrate!». Lo disse senza alcuna accentuazione, nel tono di una semplice constatazione, e da parte mia devo dire che aveva ragione.

Il mio luogo di lavoro era S. Cristoforo, che senza animosità si poteva dire il centro del bigottismo di Magonza. Non avevo cura d'anime, perché era — come in generale a Magonza — affare riguardante il parroco. Avevo un gran numero di ore di scuola, di celebrazioni, di preghiera e qua e là funerali «minori». Alle 6 di mattina avevo la santa Messa, ogni giorno davanti al Santissimo esposto.

Ma quel periodo ebbe qualcosa di buono; per vecchia tradizione c'era la domenica alle 18 una predica che doveva essere tenuta dal cappellano. Colà per la prima volta scoprii il vantaggio del ciclo di temi e in seguito me ne valsi tutte le volte che potevo.

Nella primavera del 1913 mi recai a Friburgo per la laurea. Che cosa ha significato per me il periodo di Friburgo, lo narrerò altrove; per l'attività pastorale non ebbi colà alcuna occasione. Dovevo dire Messa ogni mattina; ciò avveniva per lo più nel Collegium Sapientiae, oppure in qualcuno dei numerosi conventi o istituti ecclesiastici.

In questo periodo si verificò, come già ho detto,

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la morte della signora Schleussner. Per distrarre il prof. Schleussner, che era stato scosso fin nell'intimo dell'animo, lo accompagnai in un viaggio attraverso vari luoghi della Germania, anzitutto a Neisse in Slesia. Colà viveva un vecchio ecclesiastico, il dott. Adolf Kluge, con cui voleva parlare. Sempre a Neisse v'era anche il convitto di ragazzi cui presiedeva il dott. Bernhard Strehier, uno dei fondatori del «Quickborn» e più tardi dirigente del Castello di Rothenfels. Il convitto era condotto totalmente in spirito di comprensione e fiducia, di autonomia e spontaneità e fece su di me una impressione che determinò tutto il mio lavoro pedagogico. Pure di ciò parlerò in altra circostanza.

Nel 1915 presi la laurea e ritornai a Magonza, stavolta per cinque anni.

Durante questo periodo ebbi successivamente tré assegnazioni, cosicché in genere la mia vita di cappellano è stata abbastanza instabile. Ciò costituiva anzitutto un principio, in quanto si riteneva giusto di spostare spesso i cappellani, sia che in tal - modo essi dovessero imparare l'obbedienza col distacco da sé e la continua peregrinazione, e racco-gliessero esperienze nei diversi tipi di rapporti, sia che, così, non prendessero troppo piede e non nascessero difficoltà coi parroci. Questa frequenza di spostamento è però parallela in modo peculiare con altre circostanze della mia vita. Quando penso alla mia strada verso la vocazione e all'interno di essa, o alla molteplicità dei miei luoghi di soggior-

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no nel corso degli anni, o ai miei molti trasferimenti, vedo sempre la stessa immagine di una inquietudine che deve avere fondamento in radici più profonde, che nelle motivazioni del momento... E ciononostante mi costò e mi costa ancor sempre uno sforzo il dovermi allontanare da qualcosa, e il fenomeno dell'attaccamento è il rovescio della medaglia del viaggio di distacco, rovescio che continuamente rispunta.

Così anzitutto fui cappellano a S. Ignazio, da un caro parroco, con il quale mi intesi in modo eccellente. Poi andai a S. Emmerano, del cui «Rector Ecclesiae» ho detto in altra occasione che tendeva a scambiare il suo rapporto col cappellano con quello con un servitore. Infine andai a S. Pietro dove rimasi per il periodo più lungo, credo tré anni e mezzo.

Per quanto concerne l'attività pastorale durante questo tempo, non v'è nulla in più da rilevare rispetto a quanto già detto. Pure si aggiunse un compito sul quale voglio parlare specificamente in un altro capitolo: cioè fui incaricato di assistere i giovani cattolici delle scuole superiori di Magonza, che erano riuniti in una associazione denominata «Juventus». Questo incarico mi assorbì per determinati periodi e ci fu perciò motivo per attriti permanenti con i due ultimi miei superiori, che non riuscivano a comprendere che il loro cappellano avesse qualcos'altro da fare, oltre quello di cui lo incaricavano.

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IX

Come già ho narrato trattando del mio itinerario verso la cattedra, ero stato destinato alla laurea allo scopo di assumere poi un incarico di insegnamento in seminario. Ma ciò non avvenne ed io mi vidi costretto, per chiarire la situazione, a richiedere un nuovo permesso. Questo mi fu concesso e nel 1920 andai a Bonn per prendere colà l'abilitazione.

La questione del mio sostentamento fu risolta, poiché divenni cappellano della casa nell'allora appena fondato Istituto del Sacré-Coeur a Pùtzchen presso Beuel sul Reno. Là tutto era al primo avvio e aveva un tono veramente vivace. Il luogo era stato precedentemente una cllnica per malati di nervi, con padiglioni separati in un grande giardino. In uno di questi, con grandi camere ed enormi finestre, io abitavo tutto solo e mi trovai molto bene.

All'inizio non compresi quale dovesse essere la mia attività. Ero dell'avviso di poter offrire un contributo culturale, ma poi dovetti comprendere che ero soltanto una specie di domestico ecclesiastico, .che aveva da adempiere doveri prescritti esattamente. Quando poi — d'accordo col parroco locale — mi permisi di far notare alcune gravi difficoltà nel rapporto con impiegati e dipendenti, la situazione si fece critica. A ciò si aggiunse che io già allora appartenevo al «Quickborn», e questo già precedentemente era stato considerato rivoluzionario. Sotto la prima Supcriora, che portava a compimento la fondazione, era andata ancora relativamente bene,

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e la seconda era una donna eccellente; ma nel frattempo la dirczione era capitata in mano a Madre Sch..., che era una pura integralista, esattamente la copia femminile del Vicario generale di Magonza, Ludwig Bendix. Alla prima udienza mi chiese fra l'altro se leggessi l'«HochIand»; avendo io risposto affermativamente, fui classificato come liberale. Nuovamente si stabilì la singolare relazione ambigua che c'era stata anche con Bendix: provavo simpatia per la sua forte personalità, essa deve aver provato a sua volta un sentimento simile per me. Perciò, quando si fu persuasa della mia pericolo-sita, non fu per lei certo facile fare quello che fece. Dopo che già era in carica colei che le succedette, Madre Sch. mi comunicò che era giunto l'ordine della Madre generale di pregarmi di lasciare il posto, comando però che aveva fatto seguito a una sua propria relazione. Dopo questa dichiarazione si mise in ginocchio e mi chiese la benedizione.

Rimasi a Pùtzchen due anni, e mi trovai bene sino alle complicazioni finali. Se fossi stato più riservato, avrei forse evitato questo esito, ma soltanto «forse», perché l'autentico scoglio non stava in singole dichiarazioni o prese di posizione, ma nella sostanza.

Nel primo periodo di Piitzchen o poco prima di esso mi capitò un'occasione che per la mia attività pastorale doveva essere più importante di quasi ogni altra: nella Pasqua del 1920 andai alla seconda adunanza della Lega giovanile a Rothenfels. Su ciò cui mi dovevano portare i seguenti diciannove

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anni in connessione con questa associazione e con il Castello, quanto a lavori e legami spirituali, riferirò espressamente in un altro luogo.

Dopo la dichiarazione di Madre Sch. ero nella necessità di cercare con scadenza ravvicinata qual-cos'altro e ciò mi fu anche concesso. Trovai questa diversa sistemazione assumendo la succursale di Holtorf della parrocchia di Kùdinghoven am Rhein nel Siebengebirge. La signorina Thomas, che aveva curato la mia camera a Putzchen, mi accompagnò come mia domestica e da allora è rimasta con me.

Il trasloco mi rimarrà sempre in mente. C'era già l'inflazione e non si poteva più comprare nulla. Dalla mia casa avevo avuto alcuni mobili; per la maggior parte dalla casa paterna li aveva presi mia madre, che allora si era decisa a tornare in Italia, per portarli colà. Io e Padre Kunibert caricammo queste poche suppellettili su un carro e lo accompagnammo, seguendolo a fianco, lungo la strada per Holtorf.

Presi colà un'abitazione piccola proprio inade--guata, in una casa che, se ricordo bene, apparteneva a un fornaio. La camera da letto era così umida, che la tappezzeria pendeva a brani. La questione del mio mantenimento fu regolata così: una famiglia si dichiarò pronta a darmi ogni giorno un litro di latte, e un'altra ogni settimana del pane; altri davano occasionalmente ora questo, ora quello. Oltre a ciò, si faceva la colletta per me ogni settimana; dopo qualche tempo ci fu una cesta piena di

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denaro, con il quale la signora Thomas andò poi al più presto a Bonn, per comprare qualcosa. Così tutto era molto povero, ma quell'anno mi resta molto chiaro nel ricordo.

L'attività pastorale era molto modesta. La comunità apparteneva a Kùdinghoven, perciò non avevo una vera e propria giurisdizione; inoltre il mio impegno poteva essere soltanto transitorio. Così mi limitai a fare quello che il parroco desiderava veder fatto.

X

Nella primavera del 1923 mi recai a Berlino e trovai, come già detto, anzitutto una piccola abitazione a Potsdam nel convento delle Borromee nella Zimmerstrasse. La mancanza di case era allora grandissima, e dovetti adattarmi ancora a due soluzioni provvisorie, finché potei ottenere una piccola casa di nuova fabbricazione al Brauhausberg. Abitai colà sinché potei trasferirmi a Berlino.

Durante il periodo di Potsdam non svolsi proprio nessuna attività pastorale. Il lavoro delle lezioni mi teneva fortemente impegnato e Rothenfeis prendeva per sé tutto il tempo libero.

Nell'estate 1924 avvenne un'esperienza religiosa circa la quale dovrei riferire propriamente in modo particolareggiato...

Nel 1927 trovai in particolari circostanze un'abitazione a Berlino-Charlottenburg, nella Sophiestras-

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se. Due anni dopo mi trasferii ancora, prima a ZehIendorf-West, poi a Eichkamp, per trovare infine abitazione sino al 1936 in una casa costruita per me a Schlachtensee dal prof. Rudolf Schwarz33:

questa per la prima volta fu da me sentita come una vera e propria dimora. Ora anch'essa è a sua volta perduta.

A Potsdam avevo abitato molto lontano, e di conseguenza non avevo potuto svolgere alcuna attività ad eccezione delle lezioni. Ora ciò potè avvenire. Subito dopo il mio trasferimento la direttrice della scuola sociale femminile mi pregò di celebrare la Messa il mercoledì nella cappella dell'istituto, e di tenere un piccolo discorso. L'ho fatto volentieri per alcuni anni, perché l'uditorio era attento e re-cettivo.

Subito dopo venne un nuovo incarico. Nella Schiùterstrasse, non lontano dal Knie, una seconda cappella era stata destinata per la pastorale degli studenti. Essa si trovava in una casa d'affitto appartenente alla comunità cattolica ed era servita originariamente come ambiente di ripiego per la sua liturgia. Poi era stata costruita la chiesa nella Schil-lerstrasse e la pastorale studentesca aveva rilevato l'ambiente. L'aveva rifinita il dott. Dieter Sattler34, con cui precedentemente ero entrato in stretti rap-

" Questo architetto (1897-1961) fu molto legato al movimento liturgico e a quello giovanile, disegnando tra l'altro la cappella di Rothenfeis e fu con Guardini editore della rivista del Quickborn, dal titolo «Die Schiidgenossen».

34 Architetto e uomo politico (1906-1968), segretario di Stato per le belle arti nel ministero bavarese per l'insegnamento e la

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porti d'amicizia. La cappella constava dello spazio di tré stanze, cui erano stati tolti i tramezzi di divisione, e di due locali a parte. Poiché si trovava più in basso dell'entrata della casa, si aveva l'impressione di scendere in una catacomba. Era molto semplice, le pareti bianche, eccetto i dodici lampa-dari di rito, senza alcun ornamento. L'altare stava isolato su un rialzo costruito con mattoni, sui cui gradini si inginocchiavano i fedeli per ricevere la comunione. Esso era pure fatto di mattoni con una semplice lastra di pietra arenaria bianca, sulla quale si trovavano soltanto il Crocifisso, due lumi e le cartaglorie appoggiate. Su di esso si poteva celebrare la Messa da ambedue le parti, perciò anche rivolgendosi al popolo. Dietro l'altare, sulla parete, v'era un Cristo benedicente di rame sbalzato. Quivi ho celebrato la Messa e predicato la domenica dal 1928 sino all'estate 1943, con la sola interruzione delle ferie.

La liturgia consisteva sempre nella Messa recitata in latino, rigorosa e senza alcuna concessione alla devozione popolare. Ciò perché i fedeli erano per lo più universitari e comprendevano il latino. L'assistente spirituale, dott. PinskM, con decisione preliminare aveva celebrato la Messa volgendosi verso la comunità. In quel tempo si poteva ancora

cultura, poi ambasciatore della Germania federale presso la S. Sede a Roma.

3S Johannes Pinsk fu poi parroco a Berlino e docente onorario alla Libera Università di Berlino. Era importante esponente del movimento liturgico.

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fare una cosa simile senza essere subito rimproverati, e così fu ancora poi. Io mi ero momentaneamente opposto a ciò, perché trovavo insopportabile lasciare che mi si vedesse in faccia durante la preghiera e l'azione sacra, ma in seguito cedetti, pen-tendomi di non averlo fatto prima. Specialmente in un luogo ristretto, questo è l'unico modo naturale di celebrare la Messa; con esso si stabilisce una reale unione, tutti vedono che cosa accade e possono seguire ogni particolare.

Di conseguenza, era divenuta particolarmente viva anche la predica. Dopo la lettura del Vangelo, si restava in piedi davanti al Messale aperto su un cuscino piatto e si parlava, in certo modo attingendo da esso, alla comunità. Qui in S. Benedetto — e dal 1920 nella cappella di Rothenfeis — mi sono quindi assai allietato di annunciare la parola di Dio. Dopo brevi tentativi, subito passai a trattare argomenti che si estendevano per parecchie domeniche, di regola per un semestre. Ovviamente, ogni comunità ha i suoi particolari bisogni, come pure l'anno liturgico va valorizzato continuamente. Ma, a'parte ciò, mi sembra che la trattazione di una serie di prediche fra loro collegate sia il modo più adatto di annunciare la Parola di Dio. In un primo tempo erano piuttosto prediche tematiche, ad esempio sull'essenza e Io sviluppo della fede: un ciclo dal quale è derivato il libro La vita della fede36.

36 Vom Leben des Glaubens, cit.; trad. ital. La vita della fede, cit.

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In seguito mi avvicinai sempre più alla predica omi-letica. Certo il predicatore deve poter parlare anche attingendo dalla diretta coscienza della fede della Chiesa e dalla sua personale esperienza religiosa, poiché la Chiesa è la depositarla della missione «di insegnare a tutti i popoli» e «insegnar loro a osservare quello che Cristo ha detto». Ciononostante, è la Sacra Scrittura, come testimone della rivelazione della prima Parola di Dio ispirata, il vero e proprio fondamento.

Questa prospettiva in me si univa con un altro sviluppo, che era prodotto dal mio incarico di insegnamento accademico. Riconobbi come fosse importante, per un'età non spiritualmente creativa e fuorviata dal relativismo di ogni specie, accogliere in sé la parola dei grandi. Ma a questo scopo tale parola doveva essere resa accessibile, e perciò mi assunsi il compito di interpretarla, compito che divenne per me sempre più importante. È una gioia tutta particolare introdursi in un grande testo, renderlo comprensibile, frase per frase, e spiegarla nel suo particolare contenuto così come nella sua connessione col tutto; infine, da ciò che l'autore dice, istituire il collegamento col problema in sé e con la questione attuale. Ho condotto innanzi questo lavoro in molte lezioni e pure in una serie di volumi, ma il suo oggetto più importante doveva essere la Sacra Scrittura. Qui si poteva entrare nel senso delle parole e delle frasi, senza mai esaurirlo. Tutto ciò che si stabiliva sulla base del sapere storico, speculativo, psicologico, era utilizzabile. Dalla Pa-

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rola sacra v'erano vie che conducevano a tutti gli interrogativi del tempo, e quando non si trovava da se stessi una risposta, si trovava però la fiducia che quella Parola una risposta la dava. In questo modo ad esempio spiegai i Salmi per tutto un semestre, in un altro gli Atti degli Apostoli o le Lettere di san Paolo. Nel 19.. giunsi sino a rappresentare l'essenza e la vita di Gesù traendola dal Nuovo Testamento; sempre movendo dalla accurata analisi di singoli testi o gruppi di testi, per cercare poi, partendo da essi, la via verso il tutto. Queste prediche si estesero per otto semestri e da esse prese forma il libro II Signore s7.

Per un periodo piuttosto lungo proseguì anche la predica del mercoledì; infine la dovetti abbandonare, perché era divenuta troppo impegnativa.

Per un semestre tenni anche, secondo il desiderio del parroco di Berlino-GrunewaId, nella sua chiesa, la predica per gli uomini alle dodici e mezza. Il tema era ogni volta diverso da quello di S. Benedetto; così era un'esperienza peculiare che esse non si disturbassero reciprocamente, poiché ciascuna era per così dire una entità a sé. Pure l'impegno era tanto gravoso, che dovetti rinunciare all'incarico.

Perciò dal 1920 al 1943 si svolse una larga corrente di predicazione, e devo dire che poche cose come questa mi rendono altrettanto felice nel ricordarle. Quanto più a lungo, tanto meno in ciò mi

37 Der Herr, Werkbund, Wiirzburg 1937 (trad. ital.. Il Signore, Vita e Pensiero, Milano 1940).

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importava l'effetto immediato: ciò che avevo inteso fare, sin dall'inizio, prima per istinto, poi sempre più coscientemente, era portare a risplendere la verità. La verità è una potenza; ma soltanto quando non si esige da essa alcun effetto immediato, bensì si ha pazienza e si fa conto sui tempi lunghi — an-cor meglio, quando in assoluto non si pensa agli effetti, ma la si vuoi illustrare per se stessa, per amore della sua grandezza sacra e divina. La rivelazione dice appunto: «Dio è luce» [Gv 1,5]; la luce è più che la verità; ma questa eccedenza sta appunto nella sua direzione, cosicché l'annunzio che fa risplendere la verità sacra, le apre la porta. Soltanto, come dissi, si deve pazientare; qui non dovrebbero contare i mesi, e neppure gli anni. E non bisogna avere alcuna mira particolare; se mai lo potrà essere, proprio qui questa assenza di propositi particolari è la forza più grande. È ciò che spesso ho sperimentato.

Parecchie volte, specialmente negli ultimi anni, ebbi la sensazione che la verità mi stesse dinanzi come un essere concreto.

Una forma particolare di attività si svolgeva nel colloquio personale. Tali colloqui iniziarono molto presto, in parte ancora nel tempo in cui ero fra gli studenti. In connessione con la mia attività di insegnamento, divennero poi sempre più numerosi e ricevettero il loro punto d'appoggio fisso nell'ora di colloquio. Questa era indicata nel quadro delle le-

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zioni il mercoledì dalle 16 alle 17, ma si prolungò subito nel tempo e durò di regola sino a sera. Poi il mercoledì non bastò più, dovetti introdurre il sabato pomeriggio, e spesso qualcuno veniva da me anche il pomeriggio della domenica.

Per lo più i colloqui duravano a lungo. Quando si trattava di dare esito a una determinata questione, si giungeva subito alla fine; ma di regola si trattava di conflitti umani, o di dubbi e di insicurezza sul piano religioso, ovvero della ricerca della propria linea spirituale. Perciò non si doveva badare al tempo. Imparai sempre meglio ad ascoltare e a creare lo spazio in cui l'altro non è semplicemente libero di parlare, ma anche scorge se stesso con una visione giusta. E a capire: a non applicare alcun schema predisposto, ma a cogliere la persona, che in verità è sempre un singolo, partendo da lei stessa. Da tutto ciò spesso la parola che chiarifica e indica la dirczione giusta viene totalmente da sé. In mancanza di essa, allora si deve onestamente dire che non si sa niente, e quello che un colloquio non ha prodotto, attenderlo da un secondo... Anche qui non si deve cercare alcun risultato rapido, bensì avere pazienza. Le cose umane e spirituali non vanno in fretta, richiedono il loro tempo. Ed è meglio in generale non pretendere alcun «risultato», e invece lasciar andare il colloquio del tutto a partire dall'oggetto e dal movimento spirituale dell'ora.

Nei miei primi anni berlinesi ebbi un contrasto 144

con una personalità, che per la vita cattolica di allora aveva molta importanza, cioè con Cari Son-nenschein3S. Entrai in contatto con lui per la prima volta nel mio secondo periodo di studio a Tubinga. Allora fui molto impressionato dal suo temperamento e dalla sua eloquenza, e lo aiutai a fondare a Tubinga un circolo sociale per gli studenti. Poi ci incontrammo ancora a Berlino e io gli feci visita più di una volta in Georgenstrasse. La sua intenzione era di coinvolgermi nel suo lavoro molto esteso sia spirituale che sociale, ma io istintivamente mi opposi a ciò. Egli se ne ebbe molto a male con me, ma era giusto così. Sonnenschein era solito utilizzare i suoi collaboratori senza riguardo, naturalmente per la sua opera, non per sé; ma chi si fosse messo a sua disposizione, poteva sperimentare cose di ogni genere. Così può avermi ritenuto un uomo egoista, che si ritraesse nella posizione 'distinta' accademica.

Anche un'altra cosa ci portò in contrasto. Sonnenschein era stato profondamente entro il movimento modernista. Quando poi ne avvenne la crisi, egli non solo si separò da esso, ma deve anche es-sersi distaccato dai problemi teologici in generale. Il suo punto di vista a Berlino era: «Siamo in una città assediata; perciò non ci sono problemi, bensì soltanto parole d'ordine». Questo motto può fare impressione, ma è sbagliato. Non si possono con-

38 Fu particolarmente attivo a Berlino nell'organizzazione dell'assistenza religiosa nella grande città, soprattutto per gli studenti. Visse dal 1876 al 1929.

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gedare i problemi; chi li avverte, deve applicarvisi, specialmente se è responsabile sul piano intellettuale e spirituale. La prassi autentica, cioè l'agire giusto, deriva dalla verità, e per essa bisogna lottare. Credo che egli non abbia mai veramente superato le questioni che gli avevano dato tanto da fare, ma che chiudesse loro la porta in faccia. Questo può essere andato bene per lui, sebbene io abbia pure a questo proposito i miei dubbi e pensi che la sua operosità sarebbe stata più tranquilla, più profonda e più duratura nei suoi risultati, se fosse vissuto alimentandosi maggiormente di autentici problemi. Ma questo era affar suo; in ogni caso io mi applicavo all'interrogare e non potevo lasciarmi aggiogare alla sua prassi. So che mi giudicava in modo molto aspro; mi vedeva come un uomo che suscita inquietudine. In verità temo che fosse proprio così, poiché egli non sopportava alcun interrogativo.

Adesso ci sarebbe da riferire ancora su di un'altra linea di attività, cioè sulle conferenze.

In ciò non ho fatto tanto quanto sarebbe stato auspicabile. Ciò derivava anzitutto dal fatto che una conferenza mi riusciva più difficile di quanto in generale si supponesse. Ma la causa principale era che Rothenfeis assorbiva per sé la maggior parte dell'energia che era stata lasciata libera dal lavoro universitario regolare.

In particolare l'Associazione dei laureati a questo proposito non era d'accordo con me. Tenni al

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suo convegno di Bonn una serie di conferenze sul «Senso della Chiesa», nelle quali trovai per me stesso la forma intrinseca della conferenza. Colla-borai anche ai convegni di Ulma e di Aachen (a questo insieme con Karl Neundórfer, che poi mi precedette in Engadina e colà trovò la morte il giorno in cui l'avevo raggiunto.) Parlai più volte nella sezione locale di Berlino. Si sarebbe desiderato che mi introducessi interamente nel lavoro dell'associazione; ma questo non lo potevo fare a causa degli obblighi di Rothenfels. Questi ultimi li ritenevo più importanti e lo dissi anche francamente. A partire da un certo momento, mi ritirai poi dall'associazione, poiché mi ero persuaso che prendeva strade errate. Il suo lavoro cominciò a divenire meccanico, e sarebbe stato necessario creare nuove forme di impegno: circoli più piccoli con lavoro più intenso; piccole settimane di studio, che andassero a fondo in senso religioso e spirituale, ecc. Di ciò però il dott. Mùnch39, segretario generale dell'associazione, non ne volle sapere.

Una nuova possibilità si offrì nelle Settimane della scuola superiore di Salisburgo. Collaborai alla prima tenendo una serie di lezioni sulle figure religiose nei romanzi di Dostoevskij. Anche questa iniziativa però, come credevo di vedere, fu diretta su di una via errata, e lo dissi al dott. Mùnch così

39 II dott. Franz Xaver Mùnch (1883-1940) fu segretario generale della Associazione universitaria cattolica, cofondatore delle Settimane di Salisburgo, fondatore ed editore del giornale «Der katholische Gedanke».

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come al Padre Mager4C. Si voleva far sorgere dalle Settimane della scuola superiore di Salisburgo una università cattolica, e ciò doveva condurre in un vicolo cieco. Il mio punto di vista era che si dovesse creare un nuovo tipo di attività intellettuale e spirituale con un minimo di apparato organizza-tivo e un massimo di libertà e mobilità. Questa idea fu rifiutata e si mostrarono pure presto i sintomi che l'iniziativa cominciava a incagliarsi. Poi mutarono le situazioni esterne e tutto cessò, io temo, proprio ancora al momento giusto.

Poi vi furono le lezioni alla Scuola superiore Lessing, che tenni con molto gradimento. L'uditorio era eccellente e l'attenzione tale, che spontaneamente si dava il meglio di sé. Le conferenze durarono parecchi anni; cessarono subito dopo il 1933.

In seguito parlai anche alcune volte nella Università popolare cattolica; dopo il 1940 ciò avvenne più spesso. Anche qui c'era un ottimo uditorio, e le conferenze avevano una tensione interna simile a quella che avevano avuto nella Scuola superiore Lessing.

Un peso particolare hanno nel mio ricordo le conferenze serali nella chiesa di S. Canisio.

Subito dopo l'inizio della guerra venne la dott. Josepha Fischer per incarico dell'associazione fem-

40 Padre Alois Mager (1883-1945), benedettino, docente a Salisburgo e direttore delle prime «Settimane della scuola superiore di Salisburgo» (1931).

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minile cattolica di Berlino, e disse che si doveva fare qualcosa di appropriato per dare aiuto nelle angustie dell'epoca. Dopo alcune riflessioni ci accordammo sul fatto che si dovesse trattare di qualcosa che stesse fra predica e conferenza, in modo che potesse essere istruttivo e al tempo stesso desse sostegno, conforto. Le conferenze dovevano aver luogo in una chiesa, perché solo là si aveva la necessaria libertà di movimento; tuttavia il momento liturgico doveva svilupparsi solo in misura del tutto modesta cosicché quelli che erano lontani dalla vita della chiesa non lo sentissero come un ostacolo.

Perciò facemmo proprio così. Le conferenze ebbero luogo nella chiesa di S. Canisio a Charlotten-burg, tenuta dai gesuiti. In dipendenza dai vari orari di lavoro e pure dal pericolo di incursioni aeree, l'ora cambiò un poco, ma fu fissata intorno alle diciotto. Il «rito» era il più semplice possibile; iniziava con un inno allo Spirito Santo; poi veniva la conferenza, che io, per mantenere fuori da ogni dubbio il suo carattere ecclesiastico, svolgevo in vesti liturgiche. Poi venivano cantate, o da un piccolo coro oppure dagli uditori, alcune strofe di un Canto; in questo tempo andavo all'altare, e in un primo periodo seguiva una litania; ma in seguito, su proposta di Heinrich Kahiefeld41, al posto d'essa ci fu una preghiera improvvisata, che si sviluppava dalla conferenza e i cui pensieri introduceva-no direttamente nella sfera religiosa. Concludeva

41 Heinrich Kahiefeld (1905-1980), prete oratoriano, collaboratore di Guardini a Rothenfeis e dal 1948 direttore.

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una benedizione semplice impartita in lingua tedesca.

La forma era buona e persuasiva. L'uditorio era numeroso e si componeva, come avevamo sperato, di persone della più varia provenienza. Esse ascoltavano con una serietà e concentrazione tali che queste prediche-conferenze appartengono ai miei ricordi più fortemente impressi.

Solevo parlare abbastanza a lungo, alla fine sino a cinquanta minuti. Dapprima liberamente, ma in seguito ciò divenne così faticoso che portavo con me il manoscritto sul pulpito.

Qui sperimentai nel modo più intenso ciò che dissi precedentemente circa la forza della verità. Quanto grande, quanto originaria fosse e quanta potenza sulla vita avesse il messaggio cristiano-cattolico, mi è toccato di riscontrare raramente come in quelle sere. Talvolta avveniva come se la verità stesse dinanzi a noi come un essere concreto.

Da quelle conferenze derivarono parecchie pubblicazioni; così anzitutto i dodici contributi che diedi alla collezione Riflessione cristiana {Christliche Besinnung) e i cinque capitoli del libro I Novissimi (Die letzten DingeY1.

XI

Quando ero giunto alla fine di questo capitolo, mi si è presentata la domanda, se un modo di agire

42 La collezione Christliche Besinnung fu pubblicata da R. Guardini, H. Kahiefeld, F. Messerschmid, Werkbund Verlag,

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come quello qui descritto non sia soggettivistico... Ed è effettivamente stato così, poiché il mio lavoro personale non l'ho svolto nelle forme tradizionali. Appena iniziai nella «Juventus», abbandonai la sua struttura precedente e costruii queU'Jugendreich, quel «regno della gioventù» che fu tanto disapprovato dai suoi fondatori e subito di nuovo distrutto dal mio successore. L'attività a Rothenfeis partì anzitutto dall'impulso del movimento giovanile e dell'associazione così come delle idee del dott. Streh-ler, ma dopo il 1924 sempre più dall'iniziativa del nostro circolo di Rothenfeis, in cui io avevo una posizione con forti titoli di condeterminazione. L'impegno a S. Benedetto e nella cura pastorale personale non provenne da incarico ufficiale, e non era sotto il controllo di nessuno. Per la mia attività universitaria non avevo ne il quadro di una materia regolare, ne l'inserimento anche solo in una facoltà. Per quanto riguarda il pensiero filosofico e teologico, e il tentativo di comprendere l'esistenza a partire dalla rivelazione, ovviamente avevo ricevuto influenze di vario genere; posso dire tuttavia che esso si era prodotto nella sua essenza come frutto di un mio proprio sviluppo ulteriore. Così il mio lavoro effettivamente era venuto da me stesso in misura tale, da non essere frequentemente riscontrabile in altri casi.

Di questa constatazione mi rendo consapevole senza alcun autocompiacimento. Ma è pur avvenu-

Wùrzburg 1951; Die Letzten Dìnge, Werkbund, Wurzburg 1940 (trad. ital. I Novissimi, Vita e Pensiero, Milano 1951).

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to così: non perché volessi essere o fare qualcosa di speciale, ma perché non avrei potuto fare diversamente. Ma la domanda è: un tal modo di procedere non si deve disapprovare in quanto individualistico e soggettivistico?

Effettivamente anche l'opinione pubblica ecclesiastica, per lungo tempo, mi si è posta di fronte con riserve, se non addirittura, specialmente riguardo a Rothenfeis, con diffidenza. Le istanze d'autorità non mi hanno dato aiuto in alcun modo e sino a poco tempo fa non mi han consultato per nessuna questione. Per quanto poi riguarda il mio lavoro letterario, il mondo laico l'ha accolto con simpatia, ma la teologia l'ha sinora ignorato, visto nel suo complesso. Il prof. Schmaus43 fu il primo a ricono-scerlo e a utilizzarlo nella sua Dogmatica; a parte ciò, esso non è andato oltre mere recensioni convenzionali. D'altro canto, debbo dire con ricono-scen2a che questo riserbo o quello che comunque era, non mi ha ostacolato. Mi si è lasciato solo in difficili compiti, cosicché tutto fu molto faticoso ed io dovetti spesso chiedermi con ansia se non fossi su di una strada errata. D'altronde, v'era pure in ciò una sorta di benevolenza, come se si dicesse: «Vogliamo vedere che cosa ne esce!»

43 Michael Schmaus (nato nel 1897) fu docente di dogmatica a- Praga (1929), Munster (1933), Monaco di Baviera (1946), ove fondò il Grabmann Institut per la ricerca filosofico-teologica sul medioevo. La sua Dogmatica cattolica è tradotta in italiano presso Marietti, Casale Monferrato, in più volumi.

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Trentacinque anni sono un lungo lasso di tempo; quando lo si considera retrospettivamente, si può già cogliere quale sia lo spirito del lavoro speso vi. Così devo dire di non trovarvi alcun soggettivismo. Se questo termine deve avere un senso, può significare soltanto in verità, che qualcuno, senza riconoscere alcuna regola oggettiva, pensa e fa ciò che a lui sembra giusto. Ma io non ho mai agito così — anzi avrei valutato questo comportamento semplicemente come stolto. Nel periodo decisivo della mia vita ho riconosciuto che la Chiesa non è un guardiano spirituale cui si cerca di sottrarre il maggior spazio possibile per una propria vita, altrimenti sarei andato per la mia strada. È viceversa divenuto per me sempre più chiaro che essa impersona il terzo elemento essenziale nell'ordine della rivelazione. Il Signore ha detto: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui cui il Figlio lo vuoi rivelare» [Mt 11,27; Le 10,22]. Ma il Figlio, Cristo, non sta da qualche parte nella sfera storica, bensì è stato mandato lo Spirito Santo per «intro-durci ad ogni verità» [Gv 16,15]. Ciò è così essenziale che, secondo le parole dell'Apostolo, noi senza di Lui non possiamo pronunziare neppure una volta la parola di confessione «Signore Gesù». Ma lo Spirito non agisce come forza spirituale liberamente fluente, bensì tramite una istaraa storica, cioè tramite la Chiesa. Questo è l'ordine: dal Padre si giunge soltanto attraverso Cristo; ma Cristo lo si vede giustamente soltanto nello spazio ordinato dallo Spirito Santo, la Chiesa. Come può quin-

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di chiunque, abbia da trattare con la verità, voler affrontare un'impresa privata? Non sarebbe -ridicolo ciò? Invece accoglierà in sé la Chiesa il più profondamente possibile. Non fu perciò casuale il fatto che il primo scritto con cui affrontai i problemi del tempo fu Lo spirito della liturgia (Vom Geist der Liturgie) 44, che sviluppava il concetto della vita di preghiera della Chiesa oggettivamente ordinata;

e il secondo 11 senso della Chiesa {Vom Sinn der Kirche)45, che inizia con la frase: «Un avvenimento religioso di imprevedibile portata si è iniziato: la Chiesa si desta nelle anime».

D'altro canto la Chiesa non si identifica con una parte singola della sua gerarchla, o con una scuola teologica, o con una prassi tradizionale. Essa è molto più di ciò e, rispetto ad ogni momento singolo, si apre il ricorso alla sua totalità ed essenza. So bene che ciò va detto e fatto con cautela, poiché l'autorità diviene attuale nel concreto, e l'obbedienza deve esserle prestata dinanzi ad esso. Ciononostante si da pure la relazione immediata alla Chiesa nella pienezza della sua essenza, e a partire da questa diviene possibile, procedere «con fiducia» [ad es. Eb 13,6], come dice san Paolo, quando il discernimento e il mandato interiore lo consentono. Posso dire che ho operato sempre con la Chiesa, anche quando per servirla ho proceduto da solo.

Moltissimo mi ha affaticato il problema della

44 Herder, Freiburg i,B. 1918 (ttad. ital. cit.).

45 Griinewaid, Mainz 1918 (trad. ital. cit.).

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coscienza cristiana; con questo termine non si intende semplicemente la fede. Si diventa credenti nel momento in cui si riconosce la rivelazione e si cerca di obbedire alla sua parola; di conseguenza intendo per coscienza cristiana che il fatto della rivelazione divenga il punto di partenza e il suo ordine spirituale divenga l'ordine del pensiero. A ciò mi sono applicato, perché ero convinto di poter raggiungere anzitutto partendo di là uno sguardo completo sul mondo e sulle cose. Non ho sentito mai il dogma come limite, bensì come sistema delle coordinate della mia coscienza. Con ciò non intendo dire che io abbia anche portato a compimento realmente quanto progettato in queste frasi, ma che era il fine mai posto in questione.

Il mio carattere non mi ha permesso di lavorare secondo uno schema preventivamente progettato. Quando era necessario, mi sono adattato, e senza molti disturbi, ma la mia energia ne restò legata. Così ho sempre cercato la libertà, la quale significava anche abbastanza spesso solitudine, incertezza, e lotta. Pure ero sicuro, ciò facendo, di operare non di mio arbitrio personale, ma partendo dalla grande unità con la Chiesa. E la via per la quale la mia vita è stata condotta mi sembra una conferma che il mio istinto era giusto. L'impulso interno e le circostanze esterne si sono sempre corrisposti con tale precisione che divenivano sorprendenti.

A tal proposito è anche avvenuto qualcosa che retrospettivamente mi riempie di riconoscenza. I

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laici hanno accolto subito e con crescente prontezza il mio lavoro; ma da alcuni anni anche l'autorità ecclesiastica comincia a dimostrarmi fiducia. Questo io sento come conferma che mi allieta e desidero di tutto cuore che possa restare acquisito sino alla fine.

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TAVOLA CRONOLOGICA

1885 (17 febbraio) Nascita a Verona.

1886 Trasferimento della famiglia a Magonza. 1891 Iscrizione alla scuola elementare (Volks-schuie) a Magonza con Karl Neundórfer.

1903 (7 agosto) Esame di maturità a Magonza. (Semestre invernale) Inizio dello studio della chimica a Tubinga (due semestri).

1904 (Semestre invernale) Inizio dello studio dell'economia politica a Berlino (un semestre).

1906 (Semestre estivo) Inizio dello studio della teologia a Tubinga.

1906-1907 (Semestre invernale) Prosecuzione dello studio della teologia a Tubinga (due semestri) .

1908 Decisione per la vocazione.

(Semestre invernale) Ingresso nel seminario di Magonza.

1910 (28 maggio) Ordinazione presbiterale (da parte del vescovo Georg Heinrich Kirs-tein).

1911 (27 maggio) Cappellano a Darmstadt, 0-spedale.

(1 agosto) Cappellano a Worms, parrocchia del Duomo.

(11 agosto) Assunzione della cittadinanza tedesca come condizione per impartire l'insegnamento della religione.

1912 (16 aprile) Cappellano a Magonza, S. Cri-stoforo.

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(1 ottobre) Permesso per l'approfondimento dello studio a Friburgo in Brisgovia al fine di preparare la tesi di laurea, residenza nel Collegium Sapientiae.

1913 (15 giugno) Morte di Josefine Schleuss-ner.

Viaggio a Neisse (Nisa in polacco) con Wilhelm Schleussner.

1915 (15 maggio) Laurea di dottore in teologia a Friburgo in Brisgovia con la tesi Die Lehre des heil. Bonaventura von der Er-lósung. Ein Beitrag zur Geschichte una zum System der Eriósungsiehre (La dottrina di san Bonaventura sulla redenzione. Un contributo alla storia e al sistema della dottrina sulla redenzione) (stampata nel 1921).

(20 maggio) Cappellano a Magonza, S. I-gnazio.

1915-1920 Dirczione della «Juventus», una associazione di studenti delle scuole medie superiori a Magonza.

1916 (1 febbraio) Cappellano a Magonza, S. Em-merano.

(21 agosto) Cappellano a Magonza, S. Pietro.

Chiamata al servizio militare come infermiere. Primo rapporto con l'abbazia Maria Laach.

1918 Appare Vom Geist der Liturgie (Lo spirito della liturgia) come primo volumetto della collana di Maria Laach «Ecclesia orans».

1920 (13 aprile) Permesso per l'abilitazione alla libera docenza a Bonn. ... Primo incontro con la Jugendbewegung (Movimento della gioventù) in occasione

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•:.- . della seconda giornata tedesca del «Quick-born» al castello di Rothenfels. Durante il periodo dell'abilitazione, dapprima sacerdote addetto all'Istituto Sacre Coeur a Pùtzchen presso Beuel sul Reno, poi incarico di curare la succursale di Hol-torf appartenente alla parrocchia di Kù-dinghoven (Siebengebirge).

1922 Abilitazione alla libera docenza presso la Università di Bonn in dogmatica cattolica con la tesi Die Lehren vom lumen mentis, von der gradatio entium una von der in-fluentia sensus et motus und ihre Bedeu-tung fùr den Aufbau des Systems Bona-venturas (Le dottrine del lumen mentis, della gradatio entium e deìì'influentia sensus et motus e il loro significato per la costruzione del sistema di Bonaventura) (pubblicata nel 1964).

Libero docente alla facoltà teologica cattolica dell'Università di Bonn. Ciclo di conferenze Vom Sinn der Kirche (II senso della Chiesa) al Convegno dell'associazione dei laureati cattolici a Bonn.

1923 (11 aprile) Chiamata alla cattedra di nuova istituzione di «Filosofia della religione e Weltanschauung cattolica» nell'Università di Berlino. Per ragioni organizzative Guar-dini è membro della facoltà teologica cattolica dell'Università di Breslavia (oggi Wroclaw) con l'obbligo di tenere lezioni all'Università di Berlino come ospite permanente.

1925 Morte di Karl Neundórfer.

1927 Assunzione della celebrazione della Messa al mercoledì nella Soziale Frauenschuie (Scuola sociale femminile) a Berlino.

L59

1928-1943 Strutturazione della liturgia domenicale - per studenti a Berlino, S. Benedetto.

1931 Lezione alle prime Settimane della scuola superiore a Salisburgo.

1936 Dopo la residenza in diverse abitazioni a Potsdam e Berlino, entrata nella propria casa costruita da Rudolf Schwarz a Berlino-Schlachtensee.

1939-1943 Attività come conferenziere nella università popolare a Berlino.

1939 (11 marzo) Abolizione della cattedra da parte dei nazisti e pensionamento. Conferenze serali a Berlino, S. Canisio. Chiusura del castello di Rothenfeis da parte delle autorità naziste.

1943 Trasferimento da Berlino a Mooshausen (Algovia) dall'amico parroco Josef Weiger. Inizio delle annotazioni autobiografiche.

1944 Prima visita a Magonza dal 1923.

1945 (6 marzo) Qui terminano le annotazioni

autobiografiche di Guardini esattamente a

sessant'anni. 1968 (1 ottobre) Romano Guardini muore a 83

anni a Monaco.

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INDICE

Prefazione di franz henrich , . '. . 7

Lettera di introduzione a Johannes Sport . . 15

In caso di morte ... . . . . 19

Un sogno . . . . ... . . 20

CARRIERA UNIVERSITARIA E ATTIVITÀ DI INSEGNAMENTO

i. L'itinerario verso la laurea .... 21

Seminarista con interessi personali, 21 - La ricerca .dell'argomento per la tesi di laurea, 2.3 - La dottrina della redenzione di san Bonaventura, 29.

il. Esperienza a Magonza . . . . . 31 Frustrazione per la mancata nomina a professore nel Seminario di Magonza, 31 - La guida della «Juventus» a Magonza, 33 - II vescovo Albert Stohr, 35.

IXl. Andata a Bonn per l'abilitazione , . 35

Lo .spirito della liturgia, 36 - L'abate di Maria Laach s'impegna, 36 - La tesi per l'abilitazione, 37 - La lezione di prova per l'abilitazione, 39 -Docente privato a Bonn, 40 - II forte sentimento della linea intcriore, 41 - II Senso della Chiesa, 43.

iv. Cattedra a Berlino ..... OA La cattedra come corpo estraneo, 44 - La lotta

163

per la determinazione del contenuto della cattedra, 51.

v. Lezioni e loro eco ..... 53

Gli uditori, 53 - L'elaborazione delle lezioni, 54 - Vengono anche protestanti, 62.

VI. Abolizione della cattedra da parte dei nazisti ......... 63

Pensionamento, 65 - Progetti di libri e conferenze, 67 - Allontanamento da Berlino in dirczione di Mooshausen, 69.

RICERCA DELLA VOCAZIONE. SACERDOZIO E ATTIVITÀ PASTORALE

i. Chiesa paterna, fanciullezza, scuola . . 71

La famiglia italiana in Germania, 71-11 padre, 74 - La tendenza alla coscienza scrupolosa, 76.

li. Chimica ed economia politica ... 77 Due semestri a Tubinga, 78.

ili. Studente in crisi ...... 81

Didattica nella Economia politica a Monaco, 81 -Scuola superiore, 82 - La città e gli studenti, 84 -La crisi religiosa, 85 - I coniugi Schleussner, 85.

IV. Amicizia e colloqui di fede .... 88

L'amico Karl Neundòrfer, 88 - Ferie al lago di Starnberg, 88 - La fede ritorna dall'interno, 90.

v. Chiamato al sacerdozio . . . .93

II semestre a Berlino, 93 - II pensiero del sacerdozio, 95 - Studio della teologia a Friburgo, 97 - II retaggio della malinconia, 98.

vi. Studio della teologia a Tubinga . . . 101

Amici di studio, 103 - Confessioni dal prof. Koch, 105 - Le lezioni del prof. Koch, 107 -Rivelazióne e Chiesa come base, 110 - Liturgia a Beuron, 113.

164

VII. Ingresso nel Seminario di Magonza . . 116

La decisione per il sacerdozio messa alla prova, 116 - II seminario nella sua configura2Ìone ideale, 116 - Esperienze nel Seminario di Magonza, 120 - La prima Messa, 122.

vili. Il periodo d'impegno come cappellano . 123

La predica2Ìone, 125 - La scuola, 127 - II mondo delle associazioni, 128 - Tipi fondamentali di attività sacerdotale, 128 - Parroco e cappellano, 130.

ix. Studio e azione pastorale .... 134

II periodo berlinese ..... 137

Liturgia per gli studenti a S. Benedetto, 138 -II senso della predicazione, 140 - Ore di colloqui, 143 - Cari Sonnenschein, 14.5 - Associazione dei laureati e Settimane della scuola superiore di Salisburgo, 148 - Conferenze serali a S. Cani-sio, 149.

xi. Specificità personale del mio operare e

opinione pubblica ecclesiale . . . 150

Tavola cronologica ....... 157

x.

 

 

 

 

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