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ROMANO GUARDINI

ACCETTARE SE STESSI

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera:

R. Guardini, Die Annahme seiner selbst. Den Menschen erkennt nur, wer von Goti weij!

© Matthias-GrùnewaId Verlag, Mainz 1987

traduzione di Giovanni Pontoglio

© 1992 Editrice Morcelliana via Gabriele Rosa 71 - 25121 Broscia

Prima edizione: marzo 1992

ISBN 88-372-1456-1

Tipolitografia La Nuova Cartografica S.p.A. - Brescia

CAPITOLO PRIMO ACCETTARE SE STESSI

Chiunque pensi sa che continuamente gli si presentano alla mente cose che sembrano semplicissime, anzi banali, la cui apparente banalità tuttavia è soltanto il rovescio della loro profondità e ricchezza di significati. Questa semplicità può addirittura far velo alla loro rilevanza.

Alla nostra attesa piace ricercare l'interessante e il grandioso; ma Finché noi conserviamo questo desiderio, quant'è veramente significativo si circonda del carattere della quotidianità e scompare così dalla nostra vista. Chi pensa davvero deve imparare ad andar oltre l'apparenza dell'ovvio e a immergersi nelle profondità abissali.

Prendiamo in considerazione una verità di questo genere, e cioè quella che ci concerne più da vicino: il fatto che io sono appunto quello che sono, che ciascuno di noi è se stesso.

Noi esprimiamo tale verità con la frase: «io sono per me il dato per eccellenza»: ciò di cui m'è evidente che esso sia, che costituisce il presupposto per tutto il resto, al quale tutto riferisco e a partire dal quale m'accosto a tutto.

In tutto dunque presuppongo me stesso. Ogni asserzione che pronunzio contiene, espressa o sottintesa, la parola «io». Ogni azione che compio è sorretta

da «me». Ciò che avviene nella mia sfera vitale «mi» investe. Io ci sono sempre: direttamente, in attività immediata, incontro, venendo influenzato; o indirettamente, essendo investito il «mio» ambiente, il «mio» paese, il «mio» mondo.

Così facendo posso allontanarmi sempre più dall'io immediato. «Ambiente», s'è detto, «paese», «mondo»: sempre tuttavia resta la relazione con me: è l'ambiente che mi circonda; il paese nel quale vivo; il mondo al quale appartengo. Posso fare il tentativo di trascendere me stesso e di parlare delle cose come se io non ci fossi. Ciò va molto bene; è esercizio dello spirito che esso divenga capace di prescindere da sé. Purtuttavia rimane il collegamento; perché sono pur sempre io che cerco in modo tale di uscire dai confini di me stesso - senza contare che però così facendo mi porto dietro me stesso e ogni sguardo, anche il più semplice, ch'io rivolga su qualche cosa contiene anche me stesso.

Così io sono il vivente polo opposto rispetto al mondo. Questo esiste per me come mondo in cui vivo, che incontro, nel quale agisco. Un mondo nel quale io non ci fossi è una pura idea-limite, che mi dissuade dall'insuperbirmi; di pensarla davvero non sono capace ... Tuttavia il dato di fatto è ancora più drastico: una volta che ci sono, semplicemente non esiste un mondo nel quale io non ci sia. A chiunque abbia un po' compreso quanto stupido sia insuperbirsi ciò suona strano; ma è così. Per ciascuno «mondo» è il suo mondo, davvero non ce n'è altro. Il mio io ha dunque il carattere dell'inevitabilità - si direbbe quasi d'una specie di necessità. Solo «quasi»; e su che cosa significhi questo «quasi» parleremo subito. Ma pur

sempre «quasi». E ciò che è presupposto dappertutto, ciò che è nel mezzo di tutto, la realtà prossima, vicinanza sin entro il più intimo: appunto «io».

Ora però dobbiamo parlare di quel «quasi», nel quale, ammonitore, ci siamo or ora imbattuti; perché esso ci pone di nuovo in questione il «dato», che di prim'acchito sembra tanto sicuro, del nostro proprio se stesso: e in che misura l'uomo percepisca tale messa in questione è un esame della vitalità spirituale di questo. Per me stesso infatti io non sono solo evidente, ma anche strano, enigmatico, anzi sconosciuto: al punto che possono accadere cose come queste: un giorno guardo nello specchio e m'interrogo straniato - quant'è rivelatrice la parola «straniato» -, toccato da estraneità, respinto da estraneità; ma riflettiamo:

estraneità tra me e la mia stessa immagine! Io allora mi domando: chi è mai questi? Lo specchio è certo una cosa strana. Le fiabe sanno dirne cose misteriose;

e gli allievi delle fiabe, i poeti, hanno imparato da quelle. Nello specchio si mostra come io, che sembravo essere tanto solidamente ed esattamente una cosa sola con me, improvvisamente mi contrappongo a me stesso, divento per me «oggetto» {ob-iectum: posto di fronte*). Che significa allora questo: io sono io-stesso?' Non dovrei dire con eguai diritto: io non so-

* II testo ha Gegen-Stand, ossia «oggetto» evidenziando col trattino il senso etimologico «ciò che sta di fronte», che ho cercato di rendere col riferimento al latino (n.d.t.).

1. Nella poesia «Margareta» di Morike (lirico e narratore tedesco dell'Ottocento postromantico) si legge:

«Potess'io, o anima, qual tu sei / afferrarti nel più puro specchio, / tutto ciò che di tè unica è proprio / farti incontrare qual cosa estranea! / Ricadrebbe solo da quest'occhio uno sguardo, / quale ci colpi, nel proprio cuore -

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no io, ma spero di diventare io? Io non mi possiedo, ma sono sulla strada che conduce a me stesso? Io non mi conosco, ma tento di conoscermi?

In un bei romanzo - uno di quelli che se non sono i più alti per qualità, ma nei limiti del loro più modesto valore sono perfetti -, e cioè nel Kim di Kipling, si narra d'un ragazzo di nome Kimball. È orfano; figlio di padre irlandese e di madre indiana. Talvolta lo coglie una sensazione strana. Allora si mette quieto a sedere silenzioso e dice a se stesso: «Io, Kim ... Io, Kim ... Io, Kim ...», così facendo ha la sensazione che qualcosa s'addentri sempre più nel profondo, verso una realtà ultima, indicibile; e se riuscirà ad arrivarci, allora tutto è in ordine. Ma al penultimo istante sempre qualcosa si spezza; egli trasalisce, e tutto è stato inutile. E un giorno gli sta dinnanzi un vecchio asceta, che lo guarda e gli dice con un volto triste: «Lo so, lo so ... E impossibile!». Che è? Che cosa voleva il ragazzo? Di che cosa il vecchio, esperto d'esercizi intcriori, sapeva che non riesce? Col proprio «nome» raggiungere il proprio «se stesso». Il nome è il diventar dischiuso nella parola; l'essere saputo. Kim voleva dunque che il suo essere e il suo saper circa se stesso divenissero una cosa sola, e che così egli divenisse auto-evidente** a se

Colto da beati brividi, / timido ['avvicinavi all'immagine senza nome, / come ad un enigma che implora d'esser sciolto, / che l'una cosa nell'altra per sempre si placasse; / Ma ahi, non appena hai mezzo riconosciuto tè stesso, / ti disconosci, e di sei già volto altrove!».

Sarebbe necessaria un'analisi molto puntuale per enucleare la ricchezza di significati insita in questi versi. Vedi al riguardo Guardi-ni, Gegenwart und Geheimnis. Eine Auslegung von fùnf Gedichten Eduard Mòrikes, 1957, pp. 35 s.

** II testo ha selbst-verstdndiich: di per sé l'aggettivo selbst-

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stesso. Allora tutto sarebbe in ordine. Il fatto però ch'egli cercasse ciò era un segno che non lo possedeva; e il fatto che non ci riuscisse mai, che non potesse mai riuscirvi, era espressione del suo scontrarsi col limite della sua possibilità, ossia con la sua finitezza.

Presso molti popoli, specialmente nel Settentrione, s'incontra un mito profondo, quello dello «spirito che segue». Secondo tale mito l'uomo esiste una volta come è visibilmente, in carne ed ossa; e inoltre esiste una volta ancora, e così egli è in modo autentico.

Quest'uomo autentico viene però sempre dietro l'uomo immediato; perciò è chiamato spirito che segue. L'uomo immediato dunque non vede quello autentico: egli percepisce solo che c'è, ma «dietro» di lui, ossia nell'ambito di ciò che non si presenta. Una volta però questo fa il giro, gli si para dinnanzi e lo guarda. Allora l'uomo immediato vede quello autentico; vedendolo, egli viene a conoscenza di sé. Si potrebbe dire, rifacendosi alla storia nel Kim: il suo io e il suo nome divengono una cosa sola. Ma questo momento è la morte. Da ciò è sorta poi la figura della Valchiria: nell'istante, in cui essa si fa incontro all'uomo da lei eletto***, questi muore.

Vediamo quanto in ciò trova espressione: ciò che io chiamo «io», è il mio dato. Ma non è nulla d'assoluto, bensì è relativo e problematico.

Alcuni filosofi hanno tentato di togliere di mezzo

verstandiich significa «ovvio», ma la sottolineatura della composizione rimanda al significato etimologico: «comprensibile (verstandiich) da sé (selbst)» (n.d.t.).

*** «Valchiria», ted. Walkùre dall'antico nordico valkyria, è voce etimologicamente connessa con «eleggere» (ted. kiiren) (n.d.t.).

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questo dato di fatto. Pensiamo ad esempio alla dottrina dell'identità propria dell'idealismo tedesco, la quale ha affermato che il se stesso finito sarebbe soltanto la forma che cela quello infinito, ossia l'Io di Dio. Ciò ha apparentemente un senso molto profondo, ma non è affatto così. In primo luogo l'idea è errata; perché se io considero onestamente me stesso, so precisamente di non essere assoluto; e che ogni panteismo proviene da ebbrezza, da superbia. Ma l'idea è anche superficiale; perché la profondità vera, tanto mirabile quanto assillante, della nostra esistenza consiste proprio nel fatto che io sono persona in quanto essere finito.

E un elemento di superiorità del nostro spirito occidentale rispetto a quello asiatico, tendente al panteismo, il fatto che gli sia relativamente facile tener ferma questa distinzione. Ancora nel romanzo Kim si racconta un altro avvenimento: un asiatico vuole mettere alla prova il ragazzo, per vedere se sia idoneo ad un qualche compito pericoloso; allora lo semiipnotiz-za e gl'indica una brocca 11 vicino: «Vedi la brocca? Che ha una fessura? E che dalla fessura fluisce fuori dell'acqua? Vedi come intorno ad essa si forma una pozzanghera?». E il ragazzo già comincia a vedere la fessura e come ne fuoriesca l'acqua. Ma qualche cosa in lui contraddice: «Ma non è vero!». E che cosa fa? Forte della legittima difesa del suo spirito semieuropeo, il quale s'accorge che l'asiatico deve averlo tratto in inganno, recita la tavola pitagorica, e davanti al suo sguardo la brocca è di nuovo sana, e non fluisce più acqua. L'uomo però dice: «Tu sei il primo che mi si sia opposto! Vorrei sapere come hai fatto! Ma naturalmente non mi svelerai ciò». Egli pensa che il ragazzo disponga d'una particolare virtù magica di resi-

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stenza, mentre questi non ha fatto altro che distinguere. Sulla base della fermezza della propria affermazione spirituale di sé egli ha constatato che due per due fa sempre solo quattro, sempre realmente quattro; non cinque, non dieci, non cento e, soprattutto, non infinito. Egli s'è sottratto all'inganno dell'infinito, di quello cattivo, dove le distinzioni svaniscono e tutto può diventare tutto, poiché nessun ente è davvero se stesso. Egli ha posto confini e così facendo ha custodito il vero mistero dell'esistenza umana, mistero tanto impenetrabile nella sua evidenza.

Sorge così l'interrogativo: in che modo io sono io-stesso? E ora la proposizione «io sono per me il dato» assume un senso nuovo.

In primo luogo significava: il mio esser-io è per me la cosa ovvia, prima, il nucleo di tutto il resto. Tutto si riferisce a questo io. Ciò che per me si chiama «mondo» è costruito a partire da quello e mira a quello ... Ma ora significa anche: io non sono io per essenza, bensì sono a me «dato». Dunque ho ricevuto me stesso.

Al principio della mia esistenza - intendendo il «principio» non solo in senso temporale, bensì anche essenziale, quale radice e ragione di essa - non sta una decisione d'essere presa da me stesso. Tantome-no semplicemente ci sono, senza che necessiti d'alcuna decisione d'essere. Tutto ciò è così soltanto in Dio.

Bensì al principio della mia esistenza sta un'iniziativa, un Qualcuno, che ha dato me a me stesso.

In ogni caso sono stato dato, e dato come quest'individuo determinato. Non semplicemente come uomo, ma come questo uomo: appartenente a questo

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popolo, a questo tempo, di questo tipo e con queste attitudini. Fino a quelle ultime determinazioni, che semplicemente esistono una volta soltanto e cioè in me; a quella peculiarità ultima che fa sì che in tutto quanto faccio io riconosca me stesso, e la quale s'esprime nel mio nome.

In tal modo tuttavia è posto anche un compito. E assai grande; si può forse dire: quello che sta alla base di tutti i compiti singoli.

Ho il dovere di voler essere quello che sono; davvero voler esser io, e io soltanto. Devo collocare me nel mio me stesso, quale esso è, e assumermi il compito che in tal modo m'è assegnato nel mondo. È la forma fondamentale di tutto ciò che si chiama «vocazione» (Beruf); perché a partire da ciò mi rivolgo alle cose, e dentro ciò le accolgo.

Esprimiamolo in forma negativa: non posso evitare questo compito assegnatemi; per esempio fuggendo nella fantasia, e sognando d'esser un altro: sono quello e quell'altro ... faccio quella e quell'altra cosa ... ho questa e quella capacità ... faccio la tale e tal altra parte ... Fino ad un certo punto tutto ciò è cosa innocente: così ci si riposa dall'esser se stessi. Ma da lì in poi diventa pericolo di fuggire da se stessi.

Nemmeno di fronte al male che è in me posso fuggire: cattive attitudini, abitudini consolidate, colpe accumulate. Debbo accettarle e riconoscerle: sono così ... ho fatto questo ... Non per dispetto; quello non è accettazione, bensì ostinazione. Piuttosto nella verità, perché solo questa fa superare il male: sono così, ma voglio diventare diverso.

La forma estrema della fuga da sé è il suicidio. Non è ozioso parlarne, perché esso diviene sempre

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più uno dei grandi pericoli del nostro tempo. La fedeltà cala; anche e proprio come fedeltà al proprio essere. Il sentimento che l'esser-io sia un compito si indebolisce vieppiù, poiché scompare la consapevolezza d'esser dati a se stessi. E poiché i modi di togliersi la vita diventano sempre più semplici, il suicidio si fa sempre più facile e banale.

S'è esaltato come uno dei vertici della fortezza og-gettiva il saper farla finita senza tanto scalpore in un dato istante; ma è davvero fortezza osare verso l'esterno qualcosa di pericoloso, senza risponderne con se stessi? La pastiglia di cianuro di potassio in tasca non cancella in verità l'autentico coraggio? Coraggio reale significa sapere che si è collocati in un posto e non dal rispettivo grande o piccolo comandante, bensì dal Signore dell'esistere, da Dio, e che perciò non ce se ne deve andare finché non si sia chiamati da Lui stesso. Soltanto questo conferisce serietà a qualsiasi fare e osare. L'altro coraggio proviene dalla mancanza di rispetto verso di sé: sono uno qualunque; se scompaio, ci sono altri. Come nel caso delle formiche migra-trici: se se ne ammazza una col piede, cento corron dietro; se le si schiaccia tutte, esiste ancora la specie;

e se la specie stessa s'estingue, in fin dei conti non è nulla di veramente importante.

Il compito di esistere può farsi molto difficile. C'è la rivolta contro il dover esser se stessi: perché mai devo? Ho forse chiesto di essere? ... C'è la sensazione che non valga la pena d'esser se stessi: che cosa me ne viene? Mi vengo a noia. Mi ripugno. Non ce la faccio più a sopportare me stesso ... C'è la sensazione d'esser ingannati riguardo a se stessi; d'esser imprigionati in se stessi: sono soltanto così, eppur vorrei

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essere di più. Ho solo questo talento, e ne vorrei di maggiori, di più brillanti. Sempre devo fare lo stesso. Sempre urto contro i medesimi limiti. Sempre commetto i medesimi errori, sperimento lo stesso fallimento ...

Da tutto ciò può nascere una monotonia infinita;

un tedio terribile. Intere epoche ne furono caratterizzate; e precisamente epoche d'altissima cultura. Pensiamo per esempio al Settecento francese, nel quale la noia giocava un ruolo ancora a stento comprensibile per noi; tanto che alcuni, circondati da un mirabile raffinamento della forma, dei rapporti interpersonali, dell'arte, del gusto di vivere, come disse Pascal «si disseccarono dal tedio».

Così l'atto dell'esser se stessi alla sua radice diviene ascesi: debbo rinunziare al desiderio d'esser altrimenti da come sono o addirittura un altro da quello che sono. Quanto insistente possa farsi questo desiderio, lo possiamo cogliere dai miti e dalle fiabe, ricorrenti presso tutti i popoli, e nei quali un uomo viene tramutato in un altro essere: verso l'alto in un astro, verso il basso in un animale, o in un mostro, o in una pietra ... Io debbo rinunciare ad avere talenti che mi sono negati; debbo riconoscere i miei limiti e rispettarli. Ciò non significa rinunzia alla tensione verso l'alto. Questa mi è permessa e doverosa; ma lungo la linea di quanto m'è assegnato ... Però non devo neppure lasciarmi prendere dal risentimento, da quell'atteggiamento che rivela che non ho veramente accettato e veramente rinunciato, e che consiste nel far male quanto m'è precluso.

Alla radice di tutto sta l'atto mediante il quale accetto me stesso. Debbo acconsentire ad essere quello

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che sono. Acconsentire ad avere quelle qualità che ho. Acconsentire a stare nei limiti che mi sono tracciati.

Tutto ciò diviene particolarmente difficile, quando io vengo a conoscenza non solo dei limiti, ma anche delle insufficienze e dei difetti del mio essere: danni nella salute; disturbi nella struttura psichica; oneri provenienti da genitori e antenati; tribolazioni dovute alla situazione sociale e storica e così via. Perché tutto ciò?

Se partiamo da ciò possiamo bruscamente divenir coscienti che l'assegnazione all'esistenza individuale non è penetrabile con l'intelletto. Sono in grado di comprendere come questo o quel fatto mi sia successo: per esempio non ero prudente e ho avuto un incidente subendo dei danni. Ma con ciò è davvero tutto chiaro? Lo è appena si tratti d'un altro. Le serie di pensieri: era imprudente, è stato investito e ora ha una frattura ... oppure: i suoi genitori l'hanno educato così, e per ciò si sono sviluppati questi difetti ... oppure: nei suoi antenati si sono mostrate queste tare fisiche o spirituali, e sono passate in lui - queste serie soddisfano l'interrogativo sul perché. Ma quando al posto della parola «lui» va la parola «io», anche allora è sempre tutto chiaro? Probabilmente sì, dal punto di vista biologico e psicologico; ma da quello esistenziale? Nella comprensione vivente di me stesso? Non perde, in verità, ogni spiegazione di questo genere, non appena si riferisce a me, la sua ultima forza persuasiva? Ho avuto l'incidente: perché proprio io dovevo averlo? I miei genitori hanno commesso questo e quell'errore pedagogico: perché dovevano essere proprio i miei a commetterlo? I miei

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antenati erano gravati in questo e quel punto: perché proprio quelli da cui discendo io?

Alla domanda: perché io sono come sono? perché esisto anziché non essere? - con le sue possibili prosecuzioni in tutte le altezze, ampiezze e profondità della mia esistenza - non si da alcuna risposta che parta dal mio essere immediato. Ma nemmeno dal mio ambiente; anzi nemmeno dal mondo stesso.

Tutti i tentativi di spiegare me stesso a partire dai presupposti nella comunità, nella storia, nella natura, sono equivoci. Perché ciò cui rispondono queste «spiegazioni» sono interrogativi concementi il contesto generale delle cause materiali, biologiche, stori-che. Ma l'interrogativo di cui qui si tratta è tutt'altro. Esso è rivolto a qualcosa che esiste solo una volta: ossia a me ... E non perché io sia qualche cosa d'importante, di straordinario, bensì perché io sono appunto io-stesso, e con questo cessa ogni collocazione nell'universale. Alla domanda: perché proprio io debbo essere quello su cui s'attivano questa e quell'influenza? non c'è risposta.

Io non so spiegare come io sia io-stesso; non so comprendere perché io debba essere così o cosà; non posso dissolvere la mia esistenza in qualche regolarità naturale o storica, perché essa non è una necessità, bensì un dato di fatto; ma, al tempo stesso, «il» dato di fatto per me decisivo. Esso è come è, e potrebbe anche esser altrimenti. E, e potrebbe anche non essere. Eppure esso determina dall'intimo l'intera mia esistenza.

Tutto ciò vuoi dire: io non sono in grado di spiegare me stesso, ne di dimostrarmi, bensì debbo accettarmi. E la chiarezza e il coraggio di quest'accettazio-ne costituiscono la base d'ogni esistere.

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Non m'è possibile adempiere a quest'esigenza per via puramente etica. M'è possibile soltanto a partire da qualcosa di più alto: e con questo entriamo nel campo della fede.

Fede significa qui che comprendo la mia finitezza prendendo le mosse dall'istanza suprema, dalla volontà di Dio.

Dio è reale e necessario. Egli è fondato in sé, ha senso e non ha bisogno d'alcuna spiegazione. La spiegazione di Dio è Egli stesso: Egli è tale perché è tale. Ed Egli semplicemente è perché è Dio. Egli è colui che assolutamente si comprende da Sé**** - laddove peraltro dobbiamo aggiungere che quel «Sé», della cui comprensione qui si parla, è il Suo.

Questo Dio è il Signore; e lo è per essenza. Ciò significa non solo che è Signore sul mondo, bensì anche e prima che è Signore su se stesso. Egli riposa nella propria signoria. Questo inoltre è veramente il nome ch'Egli s'è dato. All'inizio della storia sacra sta la visione dell'Oreb. «Allora Mosè chiese: 'Io vengo dunque ai figli d'Israele e dico loro: il Dio dei vostri padri mi manda a voi. Se ora mi domanderanno: qual è il suo nome? che dovrò dir loro?' Dio parlò a Mosè:

'Io sono VIo-sono\ Ed Egli disse: 'Così dirai ai figli d'Israele: L,'Io-sono m'ha mandato a voi'» (Es 3, 13-14). Ma che significa il nome che Dio qui si da?

In primo luogo: sono colui il quale è qui in realtà e potenza, e ora comincio ad agire ... E poi significa:

non assumo alcun nome dal mondo, bensì l'ho in me stesso ... E nel più profondo significa: il mio nome è

**** II testo ha derabsolut Selbst-Verst&ndliche, «l'assolutamente ovvio», cfr. la nota ** (n.d.t.).

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il modo in cui sono Io-stesso. Solo Io sono così: in pura necessità e perfetta libertà al tempo stesso.

E questo Dio che m'ha creato. Rimaniamo nel nostro discorso: Egli è Colui il quale m'ha dato a me stesso. Con questo finisce il nostro interrogarci. Porre domande ulteriori, per esempio perché m'ha dato a me, e m'ha dato così come è quest'uomo, e oggi e qui?, non ha alcun senso, perché mostrerebbe soltanto che non ho apprezzato che cosa significa questa parola: «Dio». Rispondere che m'ha creato poiché va bene così nella totalità del mondo, o perché in esso devo fare questo e quest'altro, o perché ha senso che ci sia esistenza personale, non significa di più, bensì di meno, che rispondere: perché Egli l'ha voluto2.

Gli interrogativi dell'esistenza: perché io sono quello che sono? perché mi succede quel che mi succede? perché m'è negato ciò che m'è negato? perché io sono così come sono? perché semplicemente sono piuttosto che non essere?, quest'interrogativi trovano risposta solo in riferimento a Dio.

Dobbiamo peraltro aggiungere subito: purché questo riferimento non venga solo pensato astrattamente, bensì sperimentato in modo vivo, e nella misura in cui questo accada. E ciò può accadere. Perché un'esperienza siffatta è sì grazia, tuttavia è promesso che essa, «il buon dono» per eccellenza, è data a coloro che la chiedono con serietà e nella pazienza del loro cuore e vi si sforzano nella preghiera e nella meditazione.

Agli albori della filosofia occidentale emerge continuamente l'interrogativo circa l'arche, il principio di

2. Per ciò occorre tuttavia anche che l'idea di Dio sia piena e chiara. Vedasi al riguardo ['excursus al termine di questo capitolo.

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tutte le cose, e vi si danno risposte varie e profonde. Ma ne esiste una sola che vi risponda davvero: rendersi conto religiosamente che il mio principio sta in Dio. Per meglio dire: nella volontà di Dio, rivolta a me, che io sia e che sia quello che sono. E religiosità significa ricevere continuamente noi stessi da questa volontà di Dio.

Questo è 1'alpha e Y omega di tutta la sapienza, il rifiuto della hybris, la fedeltà alla realtà, l'onestà e la risolutezza dell'esser se stessi e con ciò la radice del carattere, È la fortezza, che si presenta all'esistenza e appunto in ciò si rallegra di quest'esistenza. È bene riaccertarsi sempre di questa Magna charta dell'esistere.

Questo è probabilmente anche il luogo adatto per spendere qualche parola su quell'elemento del quale oggi tanto si parla, seriamente o no, cioè l'angoscia. Non intendiamo dire quella di cui esiste motivo fin troppo fondato, cioè la sensazione d'una minaccia da parte della situazione politica ovvero della stessa evoluzione culturale e sociale3. Intendiamo piuttosto l'angoscia che non ha motivo determinato, bensì nasce dalla condizione sempre data dell'esistenza. La filosofia degli ultimi decenni vi vede l'esperienza di sé dell'essere finito come tale, che si sente oppresso dal nulla. Essa sarebbe indissolubile dalla coscienza d'essere, anzi identica a questa; essere significherebbe es-ser-nell'angoscia.

E tempo di contraddire questa concezione. Ciò che esiste in quanto finito non è affatto necessario

3. Cfr. a questo proposito R. Guardini, La fine dell'epoca moderna-II potere, Morcelliana, Brescia 19892.

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che esista nell'angoscia, bensì potrebbe esistere anche nel coraggio e nella fiducia. Il fatto che la nostra esistenza abbia il carattere dell'angoscia non costituisce un dato primario, bensì secondario; infatti la finitezza che qui s'inquieta è colpevole essa stessa della propria angoscia. E la finitezza ribelle, caduta nell'abbandono appunto attraverso la propria ribellione. L'uomo al suo inizio, la prima finitezza, si sapeva creato e collocato nella libertà del proprio essere ad opera di Dio, il quale è il Veritiero e il Benevolo.

Egli sapeva esser la propria libertà costituita nella libera volontà di Dio; da ciò gli vennero diritto e potere d'andare avanti nel proprio esistere. Questa finitezza fu vissuta quale felicità, quale potenzialità capace d'ogni adempimento. In essa non v'era angoscia, bensì coraggio e fiducia e gioia. Ne era espressione il paradiso.

L'angoscia giunse solo quando l'uomo si ribellò al suo esser finito; quando pretese di non esser più immagine, bensì archetipo, ossia d'essere infinito-assoluto. Così facendo egli rimase bensì finito, perse però la connessione colla propria origine. Ora la fiducia si capovolse in hybris, e il coraggio in paura. La finitezza, sino ad allora vissuta quale pregio, gli divenne cosciente in termini di problematicità; l'ampiezza smisurata del possibile divenne assenza di luogo. Finché l'ateismo del tempo presente non creò attorno alla propria finitezza il minaccioso vuoto, il nulla di cui si parla sino alla nausea, il fantasma del Dio negato. Chi sta in questa situazione ha sì motivo di provar angoscia; non tuttavia perché essa appartenga all'essenza della finitezza, bensì perché lui, portando a compi-

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mento l'eredità del peccato originale, s'è deciso per l'esistenza insensata della mera finitezza.

Torniamo indietro: solo dall'acccttazione di sé parte una via che conduca al vero futuro, per ciascuno al proprio. Poiché crescere come uomini non significa voler uscire da se stessi. Comportarsi in modo morale non vuoi dire rinunziare a sé. Dobbiamo criticare noi stessi, ma in lealtà rispetto a ciò che Dio ha fondato in noi. E quanto al pentimento, esso non deve mai diventare rinunzia a questo se stesso. Comprendere il pentimento è essenziale per ogni comprensione più approfondita dell'uomo, così come esercitarlo è essenziale per ogni dirczione della propria vita, che deve condurci a passare tra gli abissi della hybris da una parte e della disperazione dall'altra. Il pentimento è una della più potenti forme d'espressione della nostra libertà. In esso giudichiamo noi stessi e contro di noi ci poniamo dalla parte del bene. Il pentimento non può far sì che l'accaduto non sia accaduto; tentarlo sarebbe menzogna. Esso poggia piuttosto sulla verità, cioè sulla comprensione che io ho realmente compiuto questo e quest'altro. Questa verità diviene però punto di partenza d'un comportamento nuovo, e così riceve un carattere nuovo. Definitiva la nostra vita lo è soltanto dopo l'ultimo respiro; fino ad allora tutto ciò che è accaduto, il peggio come il meglio, può venir eambiato nel carattere, prendendo noi nuovamente posizione di fronte ad esso e traendone le conseguenze possibili per noi. La nostra vita è allora ciò in cui la trasforma questa presa di posizione. Tutto ciò peraltro non significa che chi si pente getti via il proprio se stesso.

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Non appena egli lo fa ciò non è più pentimento ma disperazione4.

Di fronte al disonore che l'uomo oggi s'arreca coi suoi pensieri ed azioni vogliamo esprimere così il senso: dobbiamo pentirci di ciò che di male abbiamo compiuto e di ciò che siamo diventati a causa di tale male commesso, rispettando tuttavia ciò a cui prima e fondamentalmente Dio ci ha creati. Il rispetto dell'uomo verso se stesso abbisogna addirittura di venir riscoperto. Esso radica nella verità ampiamente dimenticata che Dio stesso ci rispetta. L'uomo non viene dalla natura, bensì dalla conoscenza e dall'amore, il che però significa dalla responsabilità del Dio vivente. Un uomo che venisse solo dalla natura, non potrebbe rispettarsi, così come non lo può un animale. Ed è importante che impariamo il rispetto di sé, perché la storia dell'umanità minaccia d'andare sempre più verso il disonorare l'uomo, così come minaccia d'andare verso il suo annientamento, e l'una cosa diviene possibile soltanto attraverso l'altra. La guerra moderna con le sue armi non sarebbe possibile se nell'uomo non operasse la pulsione di morte; e nessun totalitarismo {totalismus) avrebbe successo, se qualcosa nell'uomo non acconsentisse al proprio di-sonoramento. Ma Dio non ha creato l'uomo nel modo dei corpi celesti, ossia come oggetto; bensì ponendolo quale suo tu e chiamandolo. Appunto in questo modo però Egli ha fatto per l'uomo del rispetto la base del rapporto nel quale Egli l'ha posto con se stes-

4. Non possiamo in questa sede addentrarci nel senso più profondo del pentimento, nel suo riferimento alla potenza divina dell'inizio, alla grazia e alla rinascita, concentrandosi tutto ciò nel mistero della redenzione.

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so. Così anche il giudizio che l'uomo esprime su di sé non deve mai annullare il rispetto fondamentale ch'egli deve avere di fronte a sé, e ciò per il fatto che Dio ha questo rispetto5.

E ancora: se sono dato a me stesso, allora proprio in ciò m'è data anche la mia possibilità di vita; e se Colui il quale m'ha dato a me è il Sapiente e il Benevolo, anzi addirittura, come dice Cristo, è il mio Padre, allora, secondo la parola di Cristo stesso, Egli vuole che io «viva, e viva in pienezza». Questa realizzazione della vita può però essere soltanto la mia;

non quella d'un altro. La via ad ogni bene parte così dalla mia impostazione essenziale, e la fortezza del-l'accettazione di sé significa al tempo stesso fiducia in questa via.

Esser-io significa addirittura avere una via, quella che conduce dall'io degl'inizi a quello del compimento. Essa può passare per lunghi giri, attraverso tribolazioni e oscurità, può venir apparentemente cancellata o coperta, ma c'è sempre, persino quando conduce attraverso la morte. Non fa piacere dire cose simili: suonano patetiche, e inoltre la coscienza obietta domandando se chi parla prenda egli stesso questo sul serio. Alla fine però egli deve dire la verità anche se non è capace di tenervi testa. La morte non è quanto annunciano tutte le chiacchiere macabre che s'incontrano nella filosofia, nella poesia e nell'arte: la via passa per essa.

Ma è vero questo se lo si osserva alla luce del mes-

5. La situazione a cui il totalitarismo porta l'uomo rende esigenza urgente l'analisi dell'onore e dell'elaborazione d'un'etica cristiana dell'onore, anche e proprio in rapporto con la coscienza del peccato e l'esigenza dell'umiltà.

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saggio cristiano? Questo parla d'una rottura originale da parte dell'uomo, ci dice ch'egli non è in grado di trovar da sé la salvezza, che tutto quanto conduce alla salvezza, redenzione, perdono, santificazione, viene solo per grazia: non cancella tutto ciò quanto abbiamo detto?

Tutto quanto conduce alla salvezza è grazia; ciò è vero. Non dobbiamo però lasciarci confondere dai concetti. Esiste un modo funesto di parlare del carattere di grazia proprio della vita nuova, perché tale modo cancella la persona dell'uomo, così che questi viene risucchiato nella condizione di redento come se fosse un oggetto privo di volontà. Oppure lo lacera in due, e allora c'è un uomo, quello naturale, malvagio, e accanto a lui un altro, quello chiamato e santificato dalla grazia di Dio; e tra questi due non c'è passaggio ne in un senso ne nell'altro. Ma non è così. Il Dio che redime è il medesimo Dio che crea; e l'uomo, al quale egli dona la sua grazia, è il medesimo uomo ch'è stato creato da Lui.

Certo è grazia udire il messaggio, credere in esso, confidarsi con Dio e poter ricevere la nuova vita; colui al quale però ciò avviene è l'uomo nella sua identità personale; col suo patrimonio di qualità e forze, con le sue potenzialità e limiti. La vita nuova nasce da un nuovo inizio; ma chi viene fatto nascere in quest'inizio è appunto colui che era prima. Il vecchio e il nuovo, l'uomo decaduto e quello redento sono uno e il medesimo essere. La vita nuova ha sì il carattere che Paolo chiama l'«esser informati all'immagine di Cristo», ma chi è informato in tale modo è il medesimo uomo che prima è stato nel disordine. Movendo dal proprio amore Dio lo rida a lui; ma tra il secondo

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dono e il primo c'è quella identità, ch'è significata dalla parola «esser redenti».

Ma come si debbono interpretare queste cose? Esistono diverse maniere d'interpretazione, e queste richiedono condizioni differenti. Così c'è il semplice capire da parte dell'intelletto. Quando si tratta per esempio d'un problema di matematica o di scienza esatta, allora esamino che cosa sia presupposto, che cosa ne consegua, e giungo al risultato: «E così». Qui il capire dipende da che io affronti la cosa per il giusto verso, pensi chiaramente e non smetta prima d'averne compenetrate le connessioni.

Un'altra maniera di comprendere si rivolge alla forma ed essenza di qualcosa che esiste. Che cosa è questo, un albero? Questa cosa qui, che sotto scende nella terra e sopra s'estende nello spazio; che se ne sta silenzioso eppur vive, che è tanto possente e tanto misterioso? Forse sto a lambiccarmi il cervello a lungo su questa cosa, ma d'un tratto si dischiude e capisco «l'albero». Ciò ch'io allora comprendo deriva dal-l'esser io colpito dall'essenza della cosa, dall'apparire chiaro del suo senso, e fa sì che i dati di fatto empiricamente constatabili e razionalmente comprensibili trovino la loro giusta valutazione.

Una terza forma si riferisce ad un uomo, sia della storia sia del mio ambiente. Di lui forse non mi sono mai particolarmente reso conto; o non l'ho compreso. Poi però ha avuto luogo un incontro, e m'è entrato nello sguardo. C'era una simpatia, un guardarsi faccia a faccia, e in ciò s'è dischiuso il sapere: «così sei tu dunque! Questo sei tu!». Ma come è nel caso del proprio io?

Si dovrebbe pensare che qui le cose dovrebbero

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esser le più semplici, poiché con esso abbiamo costantemente a che fare. Non dobbiamo recarci in viaggio da qualche parte, poiché è sempre qui. Non dobbiamo andare a estrarlo da qualche nascondiglio, poiché è visibile allo sguardo intcriore. Non abbiamo nemmeno bisogno d'allungare lo sguardo, perché siamo noi ciò che vogliamo vedere.

Ma forse consiste proprio in questo il maggior ostacolo. E proprio cosi: le persone con cui abbiamo quotidianamente a che fare ci fanno meno impressione rispetto a qualcuno che incontriamo all'improvviso. La vicinanza quotidiana è un velo che cela il peculiare. E quando non si tratta più di persone con cui siamo insieme, ma il soggetto in questione sono io stesso? Allora questa è distanza maggiore che se io dovessi percorrere lunghe vie.

C'è un libro del filosofo Keyserling, nel quale egli narra come ha fatto il giro del mondo per imparare a conoscere se stesso. A dir il vero se s'è letto il libro ci si domanda s'egli ci sia riuscito, riuscito meglio del povero Kim, che si sedette accanto ad un muro dicendo dentro di sé: «io - Kim», e pensando che avrebbe raggiunto se stesso, ma alla fine tutto era inutile ... C'è tuttavia un'altra descrizione ancora, una molto celebre, di come uno cerchi di raggiungere la cosa più vicina, e cioè se stesso, per la via più lontana:

la «Divina Commedia»6 di Dante. Ivi il viaggio va dalla terra attraverso l'inferno con tutte le sue profondità, attraverso il purgatorio passando per tutti i suoi gradini, ascendendo attraverso le sfere celesti sino all'estasi ultima della visione di Dio. Al termine però si

6. Cfr. R. Guardini, Studi su Dante, Morcelliana, Brescia 19863.

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legge come al viaggiatore viene rivelato il mistero di Cristo, attraverso il quale la nostra essenza umana viene accolta nell'esistenza del Figlio di Dio. Egli allora non solo comprende ciò che sta al di là d'ogni realtà terrena, bensì anche se stesso. Dopo aver conosciuto chi è Cristo, egli sa anche chi è Dante, e a questo punto veramente tutto è a posto.

Questo è molto profondo, ma anche, se ci si riflette correttamente, davvero ovvio.

Chi io sia lo comprendo solamente in ciò che sta al di sopra di me. Anzi: in Colui che m'ha dato a me stesso. L'uomo non può comprender sé a partire da se stesso. Agl'interrogativi dove compaiono la parola «perché» e la parola «io»: perché io sono come sono? perché posso aver solo ciò che ho, perché semplicemente sono anziché non essere?, non si può dar risposta prendendo le mosse dall'uomo. Risposta ad essi la da Dio solo.

E qui certo ci si fa vicino il significato dello Spirito Santo, del quale è detto ch'è «lo Spirito della verità», che «introduce a tutta la verità»; e poi che è lo Spirito d'amore. Esso può insegnarmi a comprendere quella verità che nessuno può insegnarmi, cioè quella di me stesso.

Ma come può farlo? Non mediante scienza, ne filosofìa, bensì attraverso un prendere coscienza. Egli è l'interiorità di Dio. Nello Spirito Santo Dio è Padre. Nello Spirito Santo Egli è Figlio. Forse si può dire addirittura: nello Spirito Santo Dio è Dio. In Lui è consapevole di se stesso, unanime con se stesso, beato di se stesso.

Questo Spirito può anche far sì che io prenda coscienza di me. Ch'io misuri la distanza, sottilissima e

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pur tanto profondamente separatrice, che sta tra me e me-stesso; che io giunga alla pace con me. Perché è chiaro che in me non c'è pace. Tutti quegli interrogativi, che contengono «perché» e «io», sono espressione d'un profondo dissidio intcriore. Io sono in disaccordo con me stesso; pertanto non so nulla su di me. I primi uomini non accettarono se stessi nell'ora in cui furono messi alla prova, vollero invece essere ciò che eternamente non potevano essere. Non vollero esser immagine ma archetipo; non creati e dati da Dio, ma di essi stessi. Però l'effetto fu che entrarono in disaccordo con la loro essenza, perdendo attraverso ciò la conoscenza di se stessi. Il loro essere dimenticò il proprio nome. D'allora in poi il nome e l'essere andarono l'uno in cerca dell'altro senza più trovarsi. Nello Spirito Santo Cristo ha compiuto la redenzione, la riconciliazione, la pace; con Dio, e in Dio con il proprio sé. Lo Spirito Santo compie la redenzione nel credente. In essa Egli fa sì che questi si accetti nella volontà di Dio, completamente, e così diventi chiaro a se stesso. Queste due cose formano un tutt'uno, anzi sono la stessa cosa. È davvero possibile esser a conoscenza di sé solo se ci s'accetta davvero; e ci si può accettare davvero solo se si conosce limpidamente se stessi. L'una cosa presuppone l'altra.

Quest'unità è amore. C'è sapere solo dove c'è amore. Dell'uomo non c'è alcuna conoscenza fredda. Ne alcuna conoscenza nella violenza. Bensì solo in quella magnanimità e libertà che si chiama amore. Ma l'amore ha inizio in Dio: nel fatto ch'Egli mi ama e che io divengo capace d'amarlo; e che Gli sono grato per il suo primo dono che m'ha fatto, ossia: me stesso.

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Excursus

Con quanto detto alle pagine 19-20 del testo tocchiamo una miseria profonda e funesta della nostra cultura religiosa: intendendo la parola nel suo senso più lato, quale pienezza di contenuto e quale forma plasmata dell'esperienza, della conoscenza, del cuore, della lingua. Ossia essa consiste nell'insufficienza della nostra idea di Dio.

Non appena si domanda a qualcuno: che cosa ti viene in mente quando pensi a Dio? quale contenuto ha la parola «Dio» quando l'adoperi nella preghiera o in un discorso serio?, allora di regola quegli risponderà citando alcuni «attributi» di Dio. Dirà che Dio è onnipotente, onnisciente, onnipresente, eterno; forse anche che è santo; al massimo, che Egli è amorevole e vicino. Ma tutto finirà lì. In verità il contenuto dell'idea di Dio dovrebbe essere inesauribile, e ciò sarebbe anche possibile, se la formazione cristiana facesse quel che deve fare. Esistono due direttrici per arrivare a dischiuderci il significato della parola «Dio».

Una è la Sacra Scrittura. Qui però non conterebbe enuclearne proposizioni che dicono qualcosa su Dio;

per esempio, ch'Egli è giusto e punisce il peccato;

ch'Egli è buono e si prende a cuore la miseria umana, e simili. Piuttosto si tratterebbe d'interrogare in riferimento a Lui i concreti eventi di racconti biblici. Per esempio: quando Saul fu eletto rè, la cosa andò in questo e quel modo; egli s'è comportato in questa e quella maniera; su ciò Dio ha dato questo e quel giudizio. Dunque: Dio è Colui il quale agisce così. Da ciò la domanda: allora Egli chi è, e come è? ... O l'eccezionale destino del profeta Elia, qual è narrato nei li-

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bri dei Rè, sino alla visione sull'Oreb. Dunque: Dio è Colui che si manifesta così. Da ciò la domanda: allora chi è Lui? com'è allora questo Dio?

Attraverso un'interpretazione di questo tipo da ogni evento biblico sarebbe gettata luce su che cosa sia Dio. Il risultato conterrebbe naturalmente i concetti tipici della teologia. Ma non si fermerebbe a quelli, bensì entrerebbe nel concreto. Perché Dio è concreto, si rivela nel concreto. La Rivelazione non è una dottrina astratta, bensì un accadimento vivente e un annunzio attraverso tale accadimento. In ogni suo luogo dunque si può dire: Dio è Colui che fa così, o che ha questi sentimenti, come Egli vi si mostra.

Da ciò verrebbe un arricchimento delle asserzioni su Dio; una differenziazione e uno sviluppo dei concetti già familiari. Ma allora s'evolverebbe la intcriore «conoscenza di Dio»; la conoscenza di ciò ch'Egli è, l'Unico, Irripetibile in etemo, Incatturabile in qualsia-si definizione. Su questo non si potrebbe dir molto con concetti; tutt'al più con un'immagine che accenna o con un racconto che dischiude. Ma sarebbe pieno di vita; una conoscenza intcriore, quale l'acquisisce una persona nel frequentare l'amico, quando essa vede che cosa questi faccia, come si comporti, come egli sia.

Una seconda direttrice potrebbe essere la vita personale di ciascuno. Quanto povera sia la nostra cultura religiosa può farcisi spaventosamente chiaro se rinettiamo quanto poco siamo esercitati a comprendere Dio partendo dalla nostra stessa vita, ovvero questa vita prendendo le mosse dalla sua guida. L'esistenza cristiana dovrebbe pur significare che siamo sorretti non soltanto da convinzione teorica, bensì

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dalla viva coscienza che Egli guida la nostra vita. Ma allora ogni evento conterrebbe un'automanifestazione di Dio e proprio in tal modo una conoscenza di noi stessi. Fondandoci su questo potremmo dire: sono nato in questo e questo modo, la mia vita ha questo determinato corso. E allora: dunque Dio è così, come occorre che sia, se devono esser possibili realtà quali io e questo mio esistere. Da ciò sorge l'interrogativo: allora Egli chi e come è? ... Questa domanda richiede ovviamente grande cautela, vigile onestà, sincera umiltà e il sentimento d'autentico pentimento. Infatti devo conservare la consapevolezza di quel fattore che continuamente s'immischia operando confusione e nascondendo la Provvidenza di Dio, ossia il mio male. Tuttavia l'interrogativo è esatto e richiesto, poiché in esso si compie la comprensione di Dio dall'autocomprensione dell'uomo e viceversa.

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CAPITOLO SECONDO

CONOSCE L'UOMO SOLO CHI HA CONOSCENZA DI DIO

1. L'uomo alla luce della Rivelazione

Mi son assunto l'incarico di dire qualche cosa intorno all'immagine dell'uomo quale essa ci viene presentata dalla Rivelazione.

Vorrei porre all'inizio di queste riflessioni un'interrogativo che forse vi sorprenderà, ma che continuamente mi s'impone: e cioè se esista, o no, un'«immagine» dell'uomo, intendendo con questo termine non già l'idea propria d'un'epoca storica o gruppo sociale o d'una determinata professione, bensì quella dell'uomo stesso e di per se stesso.

Sembra che non esista un'immagine così intesa, perché la determinazione decisiva dell'uomo - dovremo ritornare più precisamente su questo argomento - è quella dell'essere «a immagine di Dio». Di Dio però non esiste «immagine».

E vero che si continua a parlare dell'immagine di Dio», e con ciò si dicono certo cose esatte; ciò vale però solo se con questo s'intendono determinate circostanze nelle quali Egli si manifesta o viene pensato. Come quando parliamo dell'idea che di Dio si faceva il cristianesimo antico, a differenza di quella dell'alto medioevo, o ancora di quella del diciottesimo secolo.

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Ma di Dio stesso non esiste immagine, poiché Egli trascende qualsiasi possibilità d'una tale immagine. E sarebbe bene anche a questo proposito riflettere sul primo comandamento, il quale vieta di farsi di Lui un'immagine scolpita». Infatti non solo un'immagine prodotta dall'arte ma anche una tracciata dai pensieri può limitare la Sua sovrana grandezza o addirittura asservirla a qualche finalità intellettuale, artistica o politica.

Se ora ci vien detto che l'uomo è «a immagine di Dio», allora questo ci suggerisce l'idea che con ciò si voglia anche significare un riflesso della capacità di trascendere che Dio ha rispetto a immagini e concetti. Entro i confini che gli traccia la finitezza anche l'uomo è universale. Così il concetto d'immagine dell'uomo è esatto solo fino ad un limite che non è affatto molto lontano.

Ammettiamo tuttavia questo concetto, e usiamolo quale mezzo per rispondere a quest'interrogativo: co-m'è visto l'uomo dalla Rivelazione?

Per entrare subito nell'intera tensione dell'interrogativo vogliamo osservare alcune immagini caratteristiche che dell'uomo s'è fatta l'età moderna.

Esiste l'immagine dell'uomo propria del materialismo, sorta mentre si preparava la rivoluzione francese, sviluppatasi nel diciannovesimo secolo e che oggi caratterizza il pensiero totalitario: ciò ch'esiste secondo tale visione è soltanto la materia, ovvero l'energia. Essa esisteva da sempre. A causa delle leggi della sua essenza s'è messa in moto e dalla sostanza morta s'è formata la vita organica, dalla vita organica quella psichica, e da quest'ultima quella spirituale. Se fosse possibile spingersi fino alle ultime conseguenze, allo-

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ra si potrebbe far derivare tutto dalle proprietà della materia, così come il chimico fa originare un composto dai suoi elementi e dalle condizioni dell'esperimento. Per il materialismo l'uomo non è che una sostanza ad elevato grado di complessità.

A quest'immagine se ne contrappone un'altra, quella idealistica, quale hanno sviluppata i grandi sistemi del tardo diciottesimo e del diciannovesimo secolo.

Secondo quest'altra visione la realtà prima e autentica è lo spirito, e precisamente quello assoluto, lo spirito universale. All'inizio esso è vincolato e muto, ma vuoi divenir padrone di se stesso, e così genera la materia. Avendo a che fare con questa da forma al mondo, per giungere infine nell'uomo alla coscienza di se stesso. L'affermarsi dello spirito eterno nell'uomo ne costituisce l'essenza e in ciò egli trova il proprio senso.

Dalla conoscenza delle connessioni sociali è sorta l'immagine sociologistica, pensata compiutamente dal comunismo. Essa dice: di per sé il singolo non è nulla; è qualcosa solo a partire dall'intero. Un pensiero, un'invenzione, un'opera, qualunque cosa esista come relazione o realizzazione, acquista senso solamente quando la comprendiamo a partire dalla struttura sociale. Quello che è realmente esistente è la società; l'uomo singolo come pure la sua opera risultano da quella. Così l'uomo è prodotto e organo della vita sociale, altrimenti non è nulla.

A questa concezione s'oppone quella dell'individualismo: veramente uomo secondo questa è solo il singolo; nella pluralità scompare l'essenziale. Solo da singolo l'uomo ha coscienza e creatività; solo come

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tale ha responsabilità e dignità. Non appena vi siano i molti, sorge la massa, che può soltanto esser oggetto:

materia per progetti e azioni del singolo.

Il determinismo vede compiersi ogni cosa secondo una costrizione immutabile: in ogni luogo le cose vanno come sono costrette ad andare. In ogni singolo processo s'esprime l'intero corso del mondo. La libertà è un'illusione: è solo un modo particolare in cui le leggi del mondo, che dominano ogni cosa, si fanno valere nell'uomo. Così anche l'uomo stesso è un prodotto che sorge da necessità; e la sua vita è un processo che si compie nella costrizione delle leggi universali.

L'esistenzialismo invece vede l'uomo perfettamente libero: secondo questa concezione non esistono ordini che determinino la vita dell'uomo; ma proprio per questo non ve n'è alcuno neppure su cui possa appoggiarsi. Senza costrizione, ma anche senza punto d'appoggio, come atomo di possibilità, egli è scagliato nel vuoto.

In ogni momento egli decide sul proprio agire con una libertà sovrana, o per meglio dire inquietante. Egli si conferisce il proprio senso da sé, anzi, egli determina il suo proprio essere. Così nella misura in cui osa farlo, egli diviene uomo.

Qui abbiamo disegnato, semplificando all'estremo, sei immagini. Una dice che l'uomo è materia, fin entro il suo nucleo, e l'altra che è una forma dello spirito assoluto. Di nuovo una dice che l'uomo non è altro che un momento nella totalità sociale, e l'altra che è uomo solo se consiste in se stesso come ente personale. E ancora: da una parte l'uomo è assorbito interamente dalla necessità delle leggi universali, e

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dall'altra: è assolutamente libero e padrone di se stesso ...

Le immagini che abbiamo tracciato costituiscono solo una parte di quelle che sono apparse nella storia dell'autocomprensione umana; ve ne sono ancora altre. Tuttavia quelle sei paiono essere sufficienti per porre la domanda che sorge in noi di fronte a tale storia: di queste immagini sempre l'una contraddice l'altra: come può essere? L'uomo non è certo qualcosa che stia in un'area dell'universo irraggiungibilmente lontana nello spazio o nel tempo. Egli è qui, semplicemente. È addirittura il Vicino per eccellenza, ossia noi stessi. Come può sorgere tale enormità di contraddizioni in ciò che si asserisce su di lui? E non in ignoranti o incolti, bensì negli spiriti più forti; non in incerti almanaccatori, ma in persone che si scambiano le proprie vedute e possono aiutarsi reciprocamente nel cercare il vero?

Se è possibile che ciò che ciascuno di noi conosce per più diretta esperienza, perché lo è egli stesso, perché lo sono padre, madre, coniuge, figlio, amico, collega, se è possibile che ciò sia giudicato in tale maniera, allora deve trattarsi di qualche cosa d'eccezionale.

Il biologo Alexis Carrel scrisse un libro: L'uomo questo sconosciuto. Il titolo suona un po' sensazionale, ma esprime qualcosa che forse già ciascuno una volta ha pensato. Sembra effettivamente che sia così: noi non sappiamo chi sia l'uomo - e quale importanza avrebbe il fatto che non sappiamo chi siamo noi stessi! Com'è possibile questo? La ragione non può stare solo nella difficoltà dei problemi. Questi sono certo difficili a sufficienza, e talvolta si ha l'impressione che

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non se ne possa venire a capo. Ma già questo soltanto causerebbe solo una ricerca instancabile; un avanzare graduale: pensiamo per esempio alla strada che la fisica ha percorso nell'investigazione della materia.

Dapprima c'era l'antica dottrina degli elementi;

poi si scoprirono gli atomi quale punto di materia privo di qualità e struttura; e da lì si giunse al concetto moderno dell'atomo, il quale rappresenta un intero mondo di relazioni e processi, e chissà che cosa ancora si troverà. Qui abbiamo certo una sequenza di tentativi e abbandoni; una molteplicità di ipotesi e teorie, ma tutto è attraversato da una linea unitaria. Solo non molto tempo fa uno dei nostri fisici, C.Fr. von Weizsàcker, ha sottolineato che è sbagliato dire che la fisica atomica più recente capovolga i risultati di quella classica che l'ha preceduta; piuttosto diciamo che essa li inserisce in correlazioni più ampie. Ma se noi osserviamo da questo punto di vista le risposte all'interrogativo circa l'essenza dell'uomo, vediamo in esse tutt'altra immagine: non ogni volta il superamento d'una teoria inadeguata ad opera d'una migliore, bensì contraddizioni inconciliabili; non una linea, dalla quale sporgano vari gradini della ricerca, bensì una confusione disperata.

Di più: ciò che qui si contrappone non sono solo opinioni differenti, bensì princìpi totalmente diversi. La discussione teorica è in realtà una battaglia, e vediamo come questa battaglia viene condotta: per la vita e la morte, e lungo fronti, che corrono attraverso il mondo intero. Questo dovrebbe aprirci gli occhi.

Che forse sia che la giusta conoscenza dell'uomo dipenda da particolari condizioni? In ogni campo è così: la conoscenza d'un oggetto richiede le sue con-

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dizioni. Pensiamo ad esempio a owietà come queste:

non posso vedere un oggetto se manca la luce ... o non noto qualcosa che ho davanti agli occhi perché la mia attenzione non è rivolta ad essa ... anzi persino la cerco ma non la trovo, perché un motivo qualsiasi nel mio inconscio vuole ch'essa non ci sia - in una parola: pensiamo a tutto ciò che chiamiamo i presupposti concreti del conoscere ... Non potrebbe dunque essere che la conoscenza dell'uomo si raggiunga solo quando sono adempiute determinate condizioni?

E se è così - di che specie sono allora queste condizioni? Il pensiero moderno interpreta l'uomo come un essere che si sviluppa dalla propria natura, entra in relazione col mondo, vi crea la propria opera; e poi, forse, ammette dietro la realtà immediata mondana anche uno sfondo metafisico. Quest'ultimo però non è necessario. Se ciò avvenga, e in che modo, è fatto soggettivo; questione d'esperienza e di bisogno. E se accade, allora influenzerà l'atteggiamento e la vita dell'interessato; ma non diversamente per esempio dal modo in cui questi padroneggia un qualsiasi destino o da forma all'amore verso una persona. La sua essenza come tale non ne viene toccata.

Ma è vero ciò? La relazione con Dio non ha piuttosto un carattere speciale, a differenza da ogni altra relazione possibile? Costituisce forse la sua giusta realizzazione appunto quel presupposto che stiamo cercando, e dal quale dipende quanto l'uomo comprenda se stesso, perché esso è intemo all'essenza dell'uomo? Non è da cercarsi qui la ragione del sorprendente fatto che l'uomo moderno, con un'immenso spiegamento di metodi e strumenti, scoperte, esperimenti e teorie, ponga la domanda circa che co-

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sa sia ciò ch'è dinnanzi ai suoi occhi, ossia egli stesso, e quale risultato ne venga fuori un guazzabuglio di contraddizioni?

Nel primo libro della Sacra Scrittura, Genesi, si dice: «E Dio disse: 'Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianzà, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche, e su tutti i rettili che strisciano sulla terra'. Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (1, 26-27). Secondo queste parole l'uomo è ad immagine di Dio.

Questo vien detto prima di qualsiasi ulteriore asserzione altrove fatta sull'uomo. Esso costituisce la determinazione fondamentale della dottrina biblica sull'uomo ed è contenuto in ogni asserzione che sia espressa sull'uomo in qualsiasi luogo.

Che significa questo? Un essere finito può essere simile a Dio?

È evidente che qui si tratta di cosa misteriosa; infatti proprio in questo punto s'inizia poi la tentazione. E questa ottiene che nell'uomo la volontà d'essere a immagine di Dio si capovolga in quella d'essergli uguale. Che significa allora quest'essere a immagine di Dio?

Una cosa può essere l'imitazione d'un'altra. Come quando uno dice ad un artigiano di fargli un tavolo della stessa forma di quello che lui gli mostra. Questa sarebbe una somiglianzà semplice, una copia. Esistono però anche modalità più vive. Così per esempio si può dire che un figlio è l'immagine dei suoi genitori. Allora questi ha qualità che hanno anche i genitori;

in lui però esse si sono tradotte entrando a far parte della sua personalità ... Che dire ora circa la somiglianzà con Dio?

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Dio è assoluto, è essere tout court, è essenza, vita, verità, beatitudine. Egli è in un modo che trascende ogni pensiero e parola. Come può l'uomo, che è creato e quindi finito, essere immagine di questa realtà immensa?

E purtuttavia è così, poiché lo dice Dio. Egli dice persino che in quest'essere a sua immagine consiste l'essenza dell'uomo.

D'immagine nel senso di copia qui non si può parlare, perché non esiste copia di Dio. Già ci avviciniamo se partiamo da quanto abbiamo visto circa il rapporto tra genitori e figlio. Qui non si tratta d'una copia, bensì d'una traduzione. I tratti essenziali dei genitori si traducono nel carattere del figlio; così che questi rinascano come propri del figlio, della sua personalità.

Possiamo forse andar più avanti mediante la riflessione che segue: se noi guardiamo il volto d'una persona, vi vediamo che cosa avvenga nella sua anima: rispetto, affetto, odio, paura. Di per sé non si può vedere l'anima, poiché essa è ovviamente spirito. Essa però si traduce nel corpo, divenendovi visibile. Il corpo dell'uomo: la figura, il volto, l'espressione, il gesto, è la manifestazione della realtà dell'anima; ciò significa però, che esso, pur con tutte la sue differenza rispetto dall'anima, le è simile.

Su questa linea potremmo proseguire; ma sembra che siamo già abbastanza vicini a quello che qui vogliamo intendere. All'Inconcepibile, che tuttavia stabilisce la nostra essenza; a Quello dobbiamo avvicinarci con timore, ma anche con fiducia: e cioè che Dio, se è lecito dire così, traduce nella finitezza e fragilità della sua creatura l'infinita pienezza e perfetta semplicità dell'immagine della propria essenza.

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Se è così, allora ciò significa però anche che quest'essere a immagine di Dio pervade l'intero essere dell'uomo. Che esso è qualcosa d'altrettanto preciso quanto misterioso: la forma fondamentale nella quale esiste l'umano; il concetto-base, a partire dal quale soltanto questo può essere compreso.

Al riguardo Agostino trova, all'inizio delle sue Confessioni, l'espressione per sempre valida, quando dice: «Ci hai fatti per tè, o Dio». Quest'affermazione non è intesa in senso entusiastico o edificante, bensì in senso preciso. Dio ha posto l'uomo in una relazione con sé, senza la quale quest'ultimo non può essere ne può venire compreso. L'uomo ha un senso; questo però sta sopra di lui, in Dio. Non si può comprendere l'uomo come figura chiusa che consista e viva in se stesso, bensì egli esiste nella forma d'una relazione: a partire da Dio, in vista di Dio. Questa relazione non è soltanto qualcosa che s'aggiunga secondariamente alla sua essenza, come se questa potesse essere anche prescindendovi, bensì l'essenza ha in tale relazione il suo fondamento.

L'uomo può porsi variamente in relazione con un proprio simile: conoscenza, amicizia, aiuto o danno e così via. In tali relazioni si dispiega la sua essenza, ma questa non consiste in esse. Egli resta uomo anche se non conosce questa o quell'altra persona, o non l'aiuta. Invece la relazione della quale stiamo parlando è d'altra natura. Un ponte è l'arco, che il costruttore edifica da una sponda del fiume all'altra. Non posso dire: il ponte può poggiare sull'altra riva, o anche non farlo e restare pur sempre ponte. Questo sarebbe assurdo, poiché esso è «ponte» soltanto nel suo innalzarsi da questa riva e poggiare su quella di fronte.

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Così possiamo in certo qual modo capire di che cosa qui si tratti. L'uomo è uomo solo nella relazione con Dio. Il suo esser «da Dio» e «per Dio» fonda la sua essenza.

Questo appare ancora più chiaro se consideriamo bene ciò che differenzia l'uomo da tutte le altre creature terrestri: il suo essere persona. Il fatto che l'uomo sia persona significa: egli ha un posto proprio ove stare; è in grado d'agire per propria energia iniziale; e di disporre di sé e delle cose. Alla domanda: chi ha fatto questo?, può e deve dire: io, ed assumersene la responsabilità. Tale Dio l'ha creato. Ma ciò non è avvenuto nel senso ch'Egli abbia plasmato l'uomo e l'abbia posto in se stesso, bensì è successa una cosa di tutt'altra qualità: Dio ha fatto dell'uomo il suo «tu» e gli ha dato la possibilità d'avere a sua volta in Dio il suo «tu», quello vero. In questo rapporto tra un io e un tu consiste la sua essenza. E solo per la ragione che Dio lo ha fondato nella relazione io-tu con Sé che l'uomo può entrare in relazione personale anche con altri uomini. Dire ad un altro: ti vedo ... t'onoro, gli è possibile soltanto perché Dio gli ha concesso di dire a Lui, al Signore: «Tu sei il mio creatore ... io Ti adoro».

Nella Rivelazione, decisiva per tutto quanto sarebbe seguito, sul monte Oreb (Es 3) Dio appare a Mosè nel roveto ardente. Come quest'ultimo chiede il Suo nome, Dio risponde: «Io sono colui che sono». La frase è d'una profondità inesauribile. Egli dice: «Sono Colui che è qui nella potenza e che agirà». Più in profondità: «Sono Colui che non si fa dare alcun nome dal mondo, bensì posso venir nominato solo per Mia iniziativa». Ancora più in profondità: «Sono Colui il quale soltanto ha per essenza capacità e autorità di

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dire: Io». In senso proprio solo Dio è «Io», Egli-stes-so. Quando noi diciamo «egli», possiamo intendere un uomo qualsiasi; ma se lo pronunziamo assolutamente, dal profondo dello Spirito, allora intendiamo Dio. Quando diciamo «Tu», possiamo in tal modo rivolgerci ad un uomo; ma se lo pronunziarne assolutamente, con l'intero nostro essere, volti all'aperto, allora noi chiamiamo Dio ... E questo Dio che chiama l'uomo. E non solo nel senso che l'uomo già sia ed Egli rivolga ora a lui la parola affinchè questi sappia o faccia qualcosa; bensì Dio, chiamando l'uomo, lo fonda nell'essere, e in tal modo l'uomo diviene persona. L'uomo ha consistenza nell'esser chiamato da Dio, e solo così. Prescindendovi semplicemente egli non esiste. Se si potesse staccare l'uomo da quest'essere chiamato, allora egli diverrebbe un fantasma - no, diverrebbe nulla. E il tentativo di pensarlo lo stesso sarebbe assurdità e ribellione.

Così l'uomo può essere compreso solo a partire da questo dato. Non appena si cerca di farlo a partire da un altro luogo lo si perde. Allora s'adopera certo ancora il termine «uomo», ma la sua realtà non c'è più.

Nel mondo moderno si mostra una cosa singolare, che deve sbigottire chiunque sia capace di vedere le cose essenziali. L'uomo - per meglio dire, molti uomini, quelli che determinano il clima spirituale, si staccano da Dio. Si dichiarano autonomi, ossia dotati di capacità e autorità di darsi da se stessi la legge della propria vita. Conscguentemente ciò significa anche la pretesa di potersi comprendere a partire da se stessi. Quest'atteggiamento tende sempre più decisamente a porre l'uomo come assoluto. Un filosofo della morale del nostro tempo ha detto che l'uomo sareb-

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be arrivato al punto di potere ora assumere su di sé le qualità che finora, poiché non ancora maggiorenne, avrebbe trasferito in un Dio. Onniscienza, onnipotenza, provvidenza e dirczione del destino dovrebbero ora divenire qualità umane. Egli sarebbe maturo e in grado di decidere ciò ch'è bene e ciò ch'è male;

ciò che deve volersi e ciò che non deve volersi.

Accanto a questa linea ne corre però anche un'altra. In essa viene detto che l'uomo è un essere vivente come tutti gli altri. La sua spiritualità risulterebbe dalla sfera biologica, e questa dalla materia. In ultima analisi l'uomo non sarebbe altro che l'animale, solo ad un livello di sviluppo superiore; un animale nien-t'altro che oggetto materiale, solo con una struttura più complessa. Così l'uomo si dissolve nella muta materialità.

Ciò non è rivelatore? Che entrambe queste risposte, delle quali l'una elimina l'altra, vengano date nello stesso tempo e a partire dalle stesse radici? Le due linee mostrano come l'uomo fraintenda se stesso quand'abbandona il suo orientamento a Dio, il quale orientamento fonda il suo essere. Sentite ora la serie delle contraddizioni che seguono: l'uomo sperimenta la pienezza di potenza e significato del conoscere e del creare. Egli si domanda come ciò vada interpretato, e risponde: il mio spirito è lo spirito assoluto. Nel mio centro sono identico a Dio. Anzi, sono io stesso ciò che prima, nella debolezza della minorità, chiamavo «Dio» ... Ma lo stesso uomo dice anche: lo spirito semplicemente non esiste. Ciò che si chiama spirito è un prodotto del cervello; ma il cervello è un'articolazione superiore di ciò che già è la morta materia.

E ancora: l'uomo diviene cosciente della potenza

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della sua iniziativa, della propria energia iniziale: che egli non è solo un passaggio delle catene di cause ed effetti che attraversano il mondo, bensì ch'è capace di fare iniziare in se stesso catene d'effetti. Così egli si domanda che cosa ciò significhi, e risponde: libertà, assoluta, creativa, che produce le idee e le norme, anzi il mondo stesso ... Il medesimo uomo dice però anche: parlare di libertà è assurdo.

In verità esistono solo necessità. Nella sfera materiale queste si chiamano «legge della natura»; in quella psichica «pulsione»; in quella morale «movente» -tré nomi per indicare la stessa cosa.

E ancora: l'uomo ha la consapevolezza, che da gioia, di non essere soltanto un esemplare del proprio genere, bensì d'esistere in sé come realtà unica, come lui-stesso. Così si domanda che cosa egli sia, e la risposta suona: una persona, posta interamente su se stessa;

senza ordini che lo sorreggano ne norme che lo vincolino; scagliato in qualche luogo, lasciato al destino, grandioso quanto terribile, di dover decidere in ogni momento il proprio agire, anzi il proprio essere ... Mentre l'altra risposta dice: l'opinione che l'uomo sia persona è un'illusione. In realtà egli è solo un elemento nell'universo; una cosa tra le altre cose; una cellula nello Stato. Di per se stesso non ha alcun senso. Collocare la propria base in se stessi è semplicemente delitto, sabotaggio. Egli deve venire assorbito nell'intero, ed esser d'accordo a che vi venga sacrificato.

Così si potrebbe dire ancora molto, ma ben vediamo come qui, attraverso sempre nuove variazioni, si compia sempre lo stesso fenomeno: l'uomo fraintende se stesso cadendo in inesauribile errore. Ma com'è possibile questo?

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Abbandonato Dio, l'uomo s'è fatto incomprensibile a se stesso. I suoi innumerevoli tentativi d'interpretare se stesso giocano continuamente tra i due poli:

porsi come assoluto o rinunciare a se stesso; avanzare la più alta rivendicazione di dignità e responsabilità, o esporsi ad un'onta, che è tanto più profonda in quanto non viene più nemmeno percepita.

Tanto l'uomo sa chi egli sia, quanto egli si comprende a partire da Dio. Tuttavia per far questo egli deve sapere chi è Dio; e può farlo solo accettando la Sua autotestimonianza.

Se egli si ribella a Dio, Lo pensa in modo errato, e allora perde la conoscenza della propria stessa essenza. Questa è la legge basilare di qualsiasi conoscenza dell'uomo. La prima ribellione a Dio avvenne nel peccato originale. Fu commessa al principio, ed è per noi enigma impenetrabile come ciò fosse potuto accadere. Da allora però l'intera storia umana è sottoposta alle sue ripercussioni. Con questa dottrina la Rivelazione si pone in contrasto di principio con ogni naturalismo e ottimismo. Essa ci dice che l'uomo reale, la sua storia come la sua opera, non hanno nulla a che fare con le concezioni moderne secondo la quale egli, con un progresso sicuro, giungerebbe ad uno sviluppo sempre più ricco di se stesso. Un uomo siffatto non esiste.

Il peccato originale consistette nel fatto che l'uomo non volle più essere a immagine di Dio, bensì essere egli stesso archetipo: sciente e potente come Dio. Così decadde dalla relazione con Dio. Il ponte dava sul vuoto. La figura rovinava su se stessa, e nasceva l'uomo perduto.

Di lunghi tratti della sua vita nel buio della perdi-

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zione non sappiamo nulla. Forse un tempo saremo in grado d'ascoltare che cosa dice su ciò l'arte dei tempi più antichi; forse impareremo anche a interrogare al riguardo i reperti della paleontologia. Fino ad ora non è accaduto nulla di tutto ciò; bensì domanda e risposta sono poste a priori sotto il dominio dell'idea d'evoluzione, secondo la quale ogni stadio più antico è sulla via che conduce ad uno superiore. In verità quel buio non fu la fase precedente il passaggio alla chiarezza della cultura, bensì il torpido turbamento dopo la caduta.

In questo stato l'uomo non sapeva più chi egli fosse, ne in che consistesse il senso della propria vita. Nel mondo nordico si narra la fiaba degli uomini ai quali il troll* ha colpito il cuore. D'allora in poi essi più non sanno chi siano. Vanno alla ricerca di se stessi e non si trovano. Questa è una parabola che esprime quello che vogliamo dire: gli uomini non sapevano più chi erano, ne donde venivano, ne dove andavano.

E tale situazione è rimasta a lungo, nonostante tutta la grandezza delle realizzazioni e tutta la magnificenza delle opere di cui è colma la storia. Se s'esaminano le risposte che l'uomo da all'interrogativo circa la propria essenza - e non solo alcune, bensì tutte;

non solo quelle audaci, ma anche quelle disperate;

non solo quelle nobili, ma anche quelle vili - lo si vede: egli non sa chi sia. Solo che s'è a tal punto abituato a tale non sapere, che quest'ultimo gli sembra esse-

* Nelle credenze popolari scandinave, abitante demoniaco di boschi, montagne, luoghi solitari. Nelle fiabe i troll hanno la parte dell'«orco» di altre tradizioni popolari europee (n.d.r.).

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rè normale; che lo confonde con la problematica della natura la quale vien risolta passo per passo dalla scienza; ch'egli ne va addirittura fiero.

Questa è la seconda determinazione, che l'uomo apprende dalla Rivelazione. La prima suonava: l'uomo è a immagine di Dio. La seconda: egli è insorto contro il riferimento al proprio archetipo, senza tuttavia poterlo eliminare. Così egli è divenuto immagine stravolta. E siffatto stravolgimento fa sentire i suoi effetti in tutto, nel modo in cui si comprende, in ciò che fa, in ciò che è.

Poi ebbe luogo la Rivelazione e redenzione. Essa s'è svolta sulla linea sottile della storia veterotestamentaria ed è giunta a compimento in Cristo. Da questa è stato detto all'uomo chi egli sia, dicendogli chi è Dio. Conoscenza di Dio e conoscenza dell'uomo tornarono a costituire un intero, e l'immagine ricevette di nuovo il suo senso.

Anzi in Cristo ascese ad altezza inconcepibile, poiché in Lui la figura umana divenne mezzo dell'epifania nel mondo del Figlio eterno di Dio: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14, 9). E nella fede e nel battesimo l'uomo diviene partecipe di questo mistero. Nasce l'uomo nuovo, che è «conformato all'immagine del Figlio (di Dio)» (Rm 8, 29).

Da questo punto l'uomo di nuovo potè comprendere se stesso. Egli era come uno che tornasse in sé dopo una lunga fase d'assenza. Se osserviamo come l'uomo abbia pensato, contemplato, creato forme, quali siano stati ordinamenti e sapienza nei primi quindici secoli dopo Cristo, allora vediamo come in essi dappertutto l'uomo s'inoltri fino alle proprie radici. Ascendendo verso l'altezza di Dio, egli incontra

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la propria verità. Apprendendo l'intimità di Dio, prende coscienza della propria profondità. Intuendo la gloria di Dio, egli comprende il proprio anelito. La scienza attuale non è capace di leggere l'arte di quel tempo. Su dati di fatto, correlazioni, forme, stili essa sa dire infinite cose: l'essenziale non lo vede: e cioè l'incontro dell'uomo con se stesso nell'incontro con Dio, che si tratti ora della stessa figura umana, o dello spazio modellato dall'uomo in chiese, palazzi, case;

del destino dell'uomo nella poesia e nel dramma, o della vita del suo cuore nella musica.

Questa è la terza determinazione, che la Rivelazione da per l'essenza dell'uomo. Essa suona così: Cristo ha assunto su di sé ed espiato la colpa. Egli ha reso visibile in Se stesso l'immagine santa, e l'uomo può ritornare integro mediante la fede, l'amore e l'obbedienza.

Nel corso d'una storia che avrebbe dovuto essere una storia di comprensione sempre più profonda e d'una vita qualificata da tale comprensione, giunse invece di nuovo la caduta. Non solo questo o quel singolo individuo, bensì molti tra coloro che hanno influenza e responsabilità si sono distaccati dalla Rivelazione. Ha avuto luogo un immenso, esplosivo sviluppo nel campo delle realizzazioni artistiche, poetiche e scientifiche, della costruzione statale e del dominio scientifico e tecnico del mondo. Però in tutto questo accadeva una cosa terribile: senz'accorgersi che stesse accadendo, anzi pensando di giungere solo ora alla verità autentica, l'uomo ha cominciato a dimenticare di nuovo chi egli stesso sia.

L'uomo abbandonava il suo essere per Dio e s'interpretava quale essere naturale e autosuffìciente, e la sua opera come creazione sovrana. In tal modo però

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egli perdeva di vista il proprio vero essere, e parimen-ti il vero senso del suo agire.

Prendete l'odierna scienza dell'uomo, quale s'esprime nella medicina, psicologia del profondo, sociologia, storia: ritrovate voi stessi in quanto essa dice? Se togliete la suggestione che la circonda, se riflettete sul vostro sapere più intimo, allora avete la sensazione che voi siate quell'essere del quale in essa si parla? Non assistete allo spettacolo che vede l'uomo parlare di sé con possente dispendio di fatti e metodi, e al tempo stesso sfuggire a se stesso? Oppure prendete lo Stato moderno, con le sue così gigantesche realizzazioni d'ordinamento e amministrazione:

avete la coscienza che siete voi stessi l'essere che in esso da le leggi e le esegue, che governa ed è governato? Non si tratta piuttosto di un apparato in movimento, che però alla fine cerca d'afferrare il vuoto? Non è che lì un essere viene preso, inserito in ordinamenti, utilizzato, anche abusivamente, per determinati scopi, favorito e distrutto; e che quest'essere viene chiamato «uomo», ma in realtà non è affatto l'uomo vero, bensì un essere spettrale intermedio tra un semidio e una formica?

Esiste il fenomeno patologico della amnesia; non di rado esso è subentrato in connessione con la guerra. Un uomo è vivo, fa questo e quello, ma ha dimenticato chi egli sia. Così la sua esistenza è priva di centro e d'unità. Qualcosa di simile, ma in proporzioni terribili, è accaduto all'uomo moderno. Egli è come uno che abbia scordato il proprio nome, poiché il suo nome è collocato nel nome di Dio. Non è possibile dimenticare il nome del Dio vivente e conservare il proprio nome, il senso e il cammino della propria vi-

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ta. Ciò è non è più possibile di quanto Io sia che un ponte resti nella sua collocazione se vi si toglie la sponda su cui poggia. Siffatto uomo da prova d'un'attività febbrile. Realizza cose immense, per trovare una conferma a se stesso. Egli prende il mondo nel suo potere, per istituirlo quale opera propria. Ma in fondo non sa più chi sia l'essere che fa ciò, ne donde venga, ne dove vada.

Che però questa condizione non resti limitata al piano metafisico, bensì si ripercuota nella realtà della vita psichica come di quella fisica, di quella individuale come di quella politica, di quella economica come di quella culturale, è cosa che vede chiunque voglia vedere.

Qui sono attive connessioni, l'individuazione delle quali è compito del pensiero cristiano. Risulterà che attraverso il guazzabuglio dei differenti contrasti politici, economici, culturali di cui è pieno il mondo passano due grandi fronti, sui quali si decidono le cose essenziali: quello dell'uomo che avanza la pretesa di comprendere a partire da se stesso la propria esistenza e opera, e quello dell'altro uomo, il quale riceve continuamente il proprio nome dal nome di Dio e il proprio compito dal vero Signore.

Al che sorge tuttavia una domanda difficile: in che misura questo avviene anche di fatto?

Quanti uomini afferrano la nuova possibilità, in che misura lo fa l'umanità vista come insieme?

Più precisamente: quanti hanno udito e ascoltato il messaggio, lo mettono veramente in pratica? Nietz-sche ha rinfacciato ai cristiani di parlare sì di redenzione, ma di non aver l'aspetto di chi è veramente redento. Ancora più radicalmente: anche coloro che

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davvero lo prendono sul serio fanno la figura di redenti? Appare in essi l'«uomo nuovo» che deve derivare dalla fede e dalla carità? Si fa visibile quell'essere ad immagine di Dio che è stato santificato in Cristo? Il messaggio dell'uomo nuovo, che nasce dalla redenzione, non è solo un ideale?

La risposta l'ha data un uomo che sta alla fonte della Rivelazione stessa, e cioè San Paolo. Egli ha conosciuto l'interrogativo che è prodotto dalla contraddizione tra il contenuto della fede e la realtà immediata. Il cristiano crede d'esser redento; crede che in lui si sia destata la nuova essenza umana che parte da Dio; ma non si sente subito confutato dall'esperienza del proprio essere? Paolo esprime ciò mediante la sua dottrina dell'uomo «vecchio» e «nuovo», dell'uomo di spirito e dell'uomo di carne. Con ciò egli non vuole affermare alcun dualismo, non la contraddizione platonica tra spirito e corpo. Ciò ch'egli chiama «carne», è l'uomo vecchio con corpo e anima; e ciò che chiama «spirito» è l'uomo nuovo, che vive ancora in corpo e anima, ma è redento. Tra i due c'è lotta incessante; e l'esistenza viene compresa quale il compiersi di questa lotta. Certamente ci sono momenti nei quali l'uomo «nuovo» prevale e diventa cosciente di sé; continuamente si fa innanzi quello «vecchio» e lo cela.

Così il cristiano si trova nella difficile situazione di dover sostenere ciò che egli propriamente è contro ciò che egli è non essenzialmente ma con l'intensità più tangibile. Sempre rinasce il dubbio: sono io davvero ciò che l'annuncio dice di me? E ogni volta il problema deve venir risolto nel «nonostante» della fede, nella «speranza contro la speranza» (Rm 4, 18).

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Questa è la quarta cosa che la Rivelazione ci dice sull'uomo: ciò che egli sarà una volta giunto alla realizzazione dell'immagine autentica, sarà chiaro solo alla fine, dopo la risurrezione e il Giudizio. Nel frattempo dura la lotta nel nascondimento, il divenire nella continua contraddizione.

E proprio così: il cristiano deve credere nel proprio esser cristiano. Nella propria autenticità contro la forza gigantesca del non autentico. Si potrebbe dire che nel testo del Credo manchi un articolo; questo potrebbe suonare così: credo nell'uomo, che è formato a immagine di Cristo; che è in me, nonostante tutto, e che, nonostante tutto, sta maturando in me.

2. Il nome dell'uomo .

Nella seconda delle sette lettere, che nell''Apocalisse Cristo indirizza alle comunità della provincia d'Asia, c'è una parola che tocca il lettore con tono misterioso. Suona così: «Chi ha orecchio, ascolti che cosa lo Spirito dice alle comunità: Al vincitore darò ... una pietra bianca, e sulla pietra è scritto un nome nuovo, che nessuno sa all'infuori di chi lo riceve» (Ap 2, 17). La parola è potente. Le risponde un movimento nella parte più intima di noi, un intuire e un domandare. Veniamogli in aiuto, forse si dischiuderà il senso della parola.

Che significa il nome nell'esistenza dell'uomo? Spesso aiuta a comprendere la vita informarsi circa quanto le usanze, ma anche la stregoneria e la magia, dicano su una cosa. Se noi imbocchiamo tali strade secondarie, il nome ci viene incontro in molteplici modi.

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C'è per esempio il solenne atto dell'imposizione del nome, il cui significato va al di là del semplice modo in cui la famiglia e la comunità prendono atto della nascita d'un essere umano. Essi ne riconoscono l'esistenza, gli danno dignità e diritto, e gli attribuiscono un posto nella struttura sociale.

Il nome, inoltre, può assumere un carattere speciale: il nome onorifico, che viene dato ad una persona insigne; il vezzeggiativo, donato dall'amore; il nomignolo, con cui il disprezzo bolla un uomo.

Talvolta esso giunge in una strana vicinanza al vivente essere di chi lo porta. Chi usa il nome d'un uomo maledicendo, crede di colpire costui stesso, così come una benedizione che includa un nome è volta a render sicuro da pericoli chi lo porta, a renderlo fecondo e felice. Il mago collega il nome con azioni ch'esprimono lesione o distruzione, ed è convinto di poter in questo modo recare rovina e morte alla persona significata.

Se esaminiamo il sentimento che vige in ciò e che, pur con tutto il nostro illuminismo, percepiamo ancora in qualche modo anche noi uomini odierni, allora vediamo come in questo senso s'avvicinino tra loro il nome d'un uomo e la sua persona vivente, in dirczione d'un punto dove, si pensa, divengano una cosa sola...

L'uomo è a immagine di Dio; perciò forse è lecito rammentare il modo in cui la Sacra Scrittura parla del nome supremo, anzi del «Nome» per antonomasia, Nella parola di questa infatti il Nome di Dio s'identifica con il Santo-Esistente stesso. Così il Signore dice del tempio: «Io ... là farò dimorare il mio Nome per sempre» (1 Rè 9, 3). Ciò dunque non vuoi dire solo:

là lo si pronunzierà proclamandolo, celebrandolo,

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pregandolo, bensì: il Nome di Dio diviene esso stesso la santa realtà che viene incontro all'uomo che entra nel tempio ... Il secondo comandamento del Decalogo, «Non abuserai del Nome di Dio, del tuo Signore» (Es 20, 7), non presuppone soltanto che il nominare in modo sconsiderato ed empio fa mancare il dovuto timore reverenziale, bensì che così facendo il Santo stesso viene inserito in un contesto di parole e pensieri profani ... Quando infine nel Salmo il credente dice: «II nostro aiuto è nel Nome del Signore» (123 [124], 8), allora ciò non significa soltanto ch'egli invoca Dio o s'assicura del suo aiuto, bensì il Nome è esso stesso la vivente potenza di Dio, ed egli da essa avvolto e sorretto va incontro al pericolo ... Ma lasciamo da parte questo mistero; è dell'uomo infatti che vogliamo parlare.

Che vuoi dire dunque il nome dell'uomo? Mediante esso l'essenza dell'uomo si dischiude nella parola.

Finché una cosa resta innominata, essa resta nel velo del silenzio. Già il bambino tuttavia domanda:

«Questo che è?», e non solo perché vorrebbe sapere, ma perché si sente in qualche modo inquietato dal-l'esser la cosa sconosciuta. Se la madre risponde: «È neve», quell'essere bianco e silenzioso perde la sua estraneità, e s'apre la via ed esso ... Nel mondo antico quando una persona non familiare entrava in casa, veniva accolta con cortesia, ma restava estranea; non si sapeva quale forza s'avvicinasse nella sua persona. Poi gli si chiedeva il nome, e dopo che quegli l'aveva detto era stabilita la relazione. Non solo perché ora si conosceva la situazione, bensì perché dicendo il nome s'apriva lo spazio spirituale, includendo l'ospitante come l'ospitato.

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Mediante il nome l'uomo sta nella comunità; vi ha il proprio posto, diritto e onore.

Quando il nome, anzi, diciamo più precisamente, quando il mio nome sarebbe pieno ed esatto? Quando potrei essere del tutto d'accordo con esso?

In primo luogo: se esso non suonasse indistinto, bensì esprimesse veramente, in modo pieno ed esatto, la mia essenza. Però esso dovrebbe anche esprimere la mia persona, così da essere il nome soltanto mio e non quello d'un altro. In esso dovrebbe trovar sede la mia unicità.

Attraverso questo nome starei in uno spazio aperto, per il bene, ma anche per il male. Detto col linguaggio del mago: ciascuno potrebbe usarlo per benedirmi ma anche per maledirmi.

Così dovrebbe aggiungersi qualcosa: occorrerebbe che il nome fosse protetto, conosciuto solo da coloro ai quali io mi sentissi legato; conosciuto e aperto solo nella misura nella quale l'altro fosse ben disposto verso di me, m'amasse; a meno che lo pronunciassi nella lotta annunciando così all'altro l'avversione della mia più personale energia.

Ma come potrebbe nascere un nome siffatto?

Bisognerebbe ch'esso sorgesse dal mio più proprio intimo. Dovrei essere io stesso a esprimere in esso la propria essenza.

Così esso sarebbe il dispiegamento verbale di ciò che sono ... Tuttavia il nome potrebbe giungermi anche dal «di fuori»; dall'uomo che mi sta vicino, che mi ama. Per lui il mio nome dovrebbe essere la manifestazione e il dispiegamento di quel «tu» che io sono per lui. Anche questo sarebbe necessario, poiché una visione precisa della mia essenza non si dischiude a

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me stesso, ma solo all'altro, a quell'altro che vede con l'occhio dell'amore ... E entrambi dovrebbero incontrarsi: il nome che viene dall'aio» e quello che viene dal «tu»; dalla manifestazione di sé quello, dalla parola rivolta questo. Allora il nominare sarebbe completo.

Ma se il mio nome deve scaturire dal mio sapere intorno a me stesso, io mi conosco allora? Davvero ciò che sono mi è tanto familiare da poter io farlo stare in una parola e sentirmi rivelato mediante questa? Mi basta uno sguardo in me stesso per vedere che non è così. Conosco singoli aspetti in me; altri mi sono sconosciuti. Determinati ambiti del mio intimo mi sono aperti; altri restano celati. Se tento di afferrare me stesso, per esempio al fine di fare chiarezza per prendere una decisione, o per comunicarmi ad un altro uomo, allora noto com'io mi sfugga.

Tutta la mia vita è attraversata dallo sforzo di comprendere me stesso; così per l'intera mia vita sono in cammino nel tentativo di darmi un nome. In cammino come anche per quanto concerne lo sforzo di realizzare me stesso; di diventare quello del quale esistono in me le potenzialità e che io ho il dovere d'essere ... E per quanto concerne l'altra origine del nome, che cioè l'essere che mi ama mi dicesse chi io sia, le cose vanno altrettanto male. Poiché, in primo luogo e specialmente, mi chiedo: l'altro mi ama davvero? Tanto che da ciò gliene derivi un'autentica visione e comprensione? O lui vuole qualcosa? Ha delle mire? Calcola? Il suo sguardo è inficiato da sfiducia, o gelosia, o avversione, o altro che lo possa accecare? Ma anche quand'egli abbia amore autentico, giunge questo davvero fino alla mia essenza? Anche qui la via da

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percorrere è lunga, e sempre avviene solo per approssimazione l'esser nominati dall'altro. Perfezione tuttavia sarebbe se venissero a coincidere il mio essere più intimo e il mio nome più proprio. Nel romanzo di Rudyard Kipling il giovane Kim siede presso un muro e dice a se stesso: «Io - Kim; io - Kim».

Egli percepisce come qualcosa entra sempre più in profondità, e vuoi raggiungere il punto dove nome ed essere s'identificano. Ma improvvisamente tutto si spezza; e si spezza tutte le volte ch'egli ci prova. Ma un vecchio bramino sta davanti a lui e gli fa cenno triste: «Sì, sì, lo so; non riesce.»

Il nome autentico è un traguardo che non viene mai raggiunto.

Ve ancora un'altra ragione per la quale nella nostra esistenza temporale non si giunge al nome autentico: esso dovrebbe esser proprio esclusivamente dell'uomo in questione, e dunque di ciascuno, e perciò per ciascuno esser dato una volta soltanto.

Ma proprio in tal modo sarebbe inutilizzabile quale strumento d'ordinamento nella società umana. Non vi sarebbe alcun ponte che da un nome conducesse all'altro. Noi vediamo dunque anche che i nomi di fatto impiegati sono convenzioni. Ognuno viene portato da molti, e creano distinzione soltanto aggiunte o unione con altri nomi.

Dunque giungiamo sorpresi, anzi sgomenti, al dato di fatto che non esiste il nome autentico nella nostra esistenza immediata. Se tuttavia consideriamo che cosa esso significhi per le diverse forme di comunità e società, allora percepiamo come in questo fatto s'esprima la problematicità della nostra esistenza.

Ora saremo meglio preparati alla comprensione

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della parola misteriosa della seconda lettera. Accostiamoci ancora una volta ad essa: «Chi ha orecchio, ascolti che cosa lo Spirito dice alle comunità: Al vincitore darò ... una pietra bianca, e sulla pietra è scritto un nome nuovo, che nessuno sa all'infuori di chi lo riceve». Il credente, che ha «vinto», ossia sopportato la tribolazione dei disagi del giorno e delle persecuzioni, in tal modo è pervenuto alla fedeltà; all'unione con la volontà di Dio, e proprio con ciò all'unione con Lui stesso. Passando dai veli di quest'esistenza all'eternità, perviene al cospetto di Dio: dunque di Colui il quale unico in sostanza realmente l'ama, lo conosce realmente e totalmente. Ma solo alla luce di questa conoscenza divina anche l'uomo conosce veramente se stesso. «Conoscerò interamente, come anch'io sono interamente conosciuto», dice Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (13, 12). Solo in Dio sta l'essenza d'ogni uomo. Soltanto nell'incontro con Lui l'uomo apprende chi sia, poiché solo Dio può dirglielo. Soltanto l'amore di Dio gli da la collocazione definitiva nel proprio se stesso. Così Dio è anche colui che gli rivolge il puro «tu». L'espressione di questo sapere che Dio ha di lui, e che egli in Dio acquisisce di se stesso, è il suo vero nome'.

Questo nome è il suggellamento d'un evento creativo: «Ecco faccio nuove tutte le cose», dice Dio sem-

1. Alcuni esegeti intendono il «nome nuovo» come riferito a quello di Cristo; così E. Lohmeyer (Die Offmbarvng desJohannes, 1926, p. 25) eJ. Behm (Dos New Testamene deutsch, voi. Ili, 1935, p. 307). Altri l'interpretano quale nome di colui che è giunto al compimento nell'eternità; così A. Wikenhauser, L'Apocalisse di Giovanni, Morcelliana, Broscia 1960, p. 63. La nostra interpreta-zione segue il secondo punto di vista.

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pre nell' Apocalisse (21, 5). Esso significa più che l'espressione di qualche cosa che c'è già; piuttosto rivela il compimento della grazia, e «grazia» significa che mi vien dato ciò su cui io non ho potere e a cui non ho diritto, ma che mi rende, esso soltanto, ciò che io desidero essere.

Nell'attimo in cui l'uomo giunge al cospetto del Dio della grazia. Questi porta a compimento in lui l'opera della creazione e della redenzione. Dio lo riconosce per quello che dovrà essere per l'eternità;

con atto d'amore lo eleva e accoglie nel suo vivere eterno. In questo nuovo e autentico «tu», che vige d'allora in poi tra Dio e lui, egli diviene il proprio «io» autentico: ciò viene espresso nel suo nome autentico ed etemo.

Questo nome è protetto. «Nessuno lo sa», solo Dio e lui - lui in Dio. L'elemento ultimo della persona e della sua unicità non può venir detto con concetti generali. Viene detto nell'amore di Colui dal quale quest'uomo è amato come nessun altro. Questo non significa presunzione, perché Dio ama ognuno come lui stesso, e quindi diversamente da come ami ogni altro, poiché Egli solo realizza interamente ciò ch'è persona. (Il Suo poter esserci per ciascuno come lui solo è una definizione profondissima della sua divinità), L'Apostolo non ci dice per niente se chi riceverà in siffatto modo il nome potrà a sua volta dire tale nome all'uomo ch'egli ama e in ciò rivelarglisi. Però forse possiamo supporre che l'esclusività della quale parla l'alta parola sia tale da esser data nella sua propria libertà.

Nella vita eterna s'adempie il senso della vita temporale, e dunque anche quello dell'amore terreno.

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Così non commetteremo un'arbitrio se diamo una continuazione alla parola giovannea circa il «nome nuovo, che nessuno sa, se non chi lo riceve» dicendo:

lo sa lui e colui al quale voglia dire il proprio nome. Poiché come deve altrimenti attuarsi ciò di cui dice ancora V Apocalisse, quando parla, in solenni immagini misteriose, della comunione dei santi tra loro? Quan-d'essa dice che la vita eterna è «città santa», «Gerusalemme celeste» (21, 10 ss.), ossia partecipazione reciproca dei redenti nell'ordine perfetto? E che è «canto di lode» (14, 2 ss.), ossia armonia della gioia delle «miriadi di miriadi»? E che sono «nozze» (21, 9; 19, 7), ossia unione vitale tra Dio e gli uomini, e degli uomini tra loro in Dio? Non dovrà forse realizzarsi là anche quel mistero, nel quale soltanto possiamo vedere il compimento della nostra esistenza personale:

che ciascuno sia interamente se stesso, inconfondibil-mente proprio e libero, ma al tempo stesso che ciascuno sia in comunione con tutti, e regni un donare e ricevere infinito?

Allora s'adempirà anche quell'altro mistero che intuiamo nell'esperienza dell'io: l'identità del nome e dell'essere. Il mio essere si dischiuderà perfettamente nella parola del mio chiamarmi; ma quest'ultimo non sarà una seconda realtà, bensì io stesso. Sarò nell'essere come persona nominata integralmente, nulla di me sarà più nascosto e nulla non chiaro; ma tutto ciò che il nome dice sarà reale, nulla sarà semplici parole, e nulla sarà vano.

Per quanto infine riguarda la «pietra bianca», di cui parla la citazione, questo è probabilmente un simbolo proveniente dal mondo dell'apocalittica veterotestamentaria, che l'Apostolo-Veggente fa proprio per

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esprimere che ciò ch'egli annunzia è un mistero: verità e adempimento di realtà intuite nel profondo, ma non raggiungibili a partire dall'uomo. Avviene del segreto di quella vicinanza, che Dio riserva alla sua creatura, quando da all'amore la sua serietà ultima. Così dunque anche tutto ciò che qui è stato detto va pronunziato soltanto con quel ritegno che s'addice al parlare d'un tale mistero.

3. Vicinanza e lontananza di Dio

In molteplici modi possono esprimersi i misteri della salvezza e le speranze di vita eterna: mediante il grido dell'annuncio, i comandamenti attraverso i quali l'uomo viene istruito, i concetti della teologia; ma ciò ch'è più vivo vien detto in immagini. Ciò non vuoi dire che allora avvenga in modo impreciso o frivolo. Delle immagini ci si può fidare, ma al modo loro proprio. Non si può volerle trasporre in concetti, bensì bisogna trattarle come esse richiedono: contemplare, percepire, vivere in esse.

Allora vien fatta giustizia anche a qualcosa che appartiene al più intimo della nostra essenza umana:

cioè che il parlare è solo una faccia di qualcosa di più ampio, la cui altra faccia si chiama silenzio. L'uomo ha bisogno della verità; vive d'essa, come del mangiare e del bere. La fa sua, rendendola comunicabile nella parola, ma anche intuendole tacitamente. Soltanto l'insieme di queste due modalità costituisce quell'intero che chiamiamo «conoscenza». E l'una sorregge l'altra: la presa di coscienza silenziosa si chiarisce nell'evidenza della parola, questa però si riaccerta conti-

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nuamente del suo senso nel silenzio intcriore. Questo assume particolare evidenza nelle asserzioni mediante immagini; perché il concetto cerca, dicendo, d'esaurire il significato, l'immagine invece bensì dice, ma al tempo stesso indica in dirczione dell'indicibile e così porta il silenzio nella parola stessa.

Si parli qui d'una di tali immagini, nel cui dire e tacere si mostra il mistero di Dio: della Sua lontananza e vicinanza. Suona di prim'acchito strano il parlare di lontananza o vicinanza in riferimento a Dio, poiché ovviamente per lui non esistono ne l'una ne l'altra, bensì Egli semplicemente «è». Se domandiamo: Che cosa «è»?, allora la prima risposta suona: Lui, Dio. Soltanto dopo, nella distanza dell'adorazione, si continua: il mondo è, e in esso io sono. Questo però, la realtà finita, è soltanto perché Egli la conserva nell'essere. La governa, ne è più profondamente all'interno di quanto essa possa mai diventarlo di se stessa. Purtutta-via la Rivelazione parla di lontananza e vicinanza.

Ciò che accade tra esseri umani, avviene tra i due poli della lontananza e vicinanza: trovare e perdere, adempimento e privazione, amore e fedeltà. Così la Rivelazione ha assunto come parabola quei due poli della vita, e vi ha collocato la notizia di ciò che avviene tra l'uomo e Dio.

Nella Prima lettera a Timoteo l'Apostolo esorta il suo discepolo alla fedeltà verso «il Rè dei rè, il Signore dei potenti, al quale soltanto appartiene l'immortalità; il quale abita in una luce alla quale nessuno ha accesso; che nessun uomo ha mai visto, ne può vedere» (6, 14-16).

In queste parole si fa tangibile la lontananza di Dio: la sua sacra inaccessibilità, che però non è un

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semplice esser lontano, bensì trasforma in adorazione lo sguardo rivolto all'Invisibile. Se Dio la fa percepire, allora questa è una modalità in cui Egli si dona, così come quando Egli fa sapere di trascendere ogni conoscenza ciò significa la più profonda presa di coscienza.

Però sempre la Rivelazione parla anche - e ciò ne costituisce propriamente la «buona novella» - della vicinanza di Dio. Per la prima volta questa è divenuta realtà quand'Egli ha creato il mondo.

Ma fermiamoci ora un momento. Ciò che fiacca la vita di fede è l'ascoltare, pronunziare, leggere costantemente le parole sacre. Così esse divengono polverose e vecchie; così colui al quale esse stanno a cuore deve continuamente ridar loro lucentezza e novità. Che Dio ha creato il mondo è un mistero, il mistero originario che circonda il tutto: com'è mai avvenuto, che Egli abbia fatto ciò? Egli non è certo un Dio dei miti, a cui occorra il mondo per poter lui stesso esistere! Zeus e Gaia e Poseidone: se sparisse il mondo essi non esisterebbero più. Tutta la magnificenza degli dèi dipende dal fatto che ci sono cielo, terra e mare; Dio non ha bisogno di queste cose. Il fatto che Egli, del quale è la pienezza dell'essere e della vita, abbia voluto che il mondo fosse, e con esso noi uomini - ciascuno di noi che riflettiamo su ciò - questo è un dato incomprensibile, davanti al quale nessuno spirito potrà mai inchinarsi abbastanza profondamente. Ma nel momento in cui Dio creò il mondo, gli era vicino, poiché esso sussiste solo a partire dalla sua vicinanza.

E ancor di più Egli ha voluto awicinarglisi, e cioè in una comunione d'amore. Questa è espressa dalla

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Bibbia con un'immagine fiorita, il «giardino», che «Dio piantò nel paese di Eden, che è verso oriente», il paradiso (Gn 2, 8). «Giardino» non è natura selvatica, nasce quando la natura diviene familiare e ambiente vitale dell'uomo. Così il giardino diviene l'immagine della confidenza alla quale Dio ammise gli uomini.

Nel giardino dell'inizio Dio ha dimorato coi suoi uomini. Infatti se più avanti nel testo si dice che «la sera, soffiando il vento fresco. Dio camminava nel paradiso» (Gn 3, 8) ed Egli chiamò gli uomini - come anche prima, così potremo continuare il pensiero, soleva fare - non è forse questa un'immagine della confidenza di Dio, inesauribile nella sua intima bellezza?

La sacra armonia viene però spezzata e nel racconto si dice: Dio «cacciò l'uomo fuori dal giardino» (Gn 3, 23). Questo «fuori» è la lontananza tra Lui e noi, creata dalla lacerazione della colpa. Essa dura a lungo, molto a lungo, finché il Suo amore non inizia di nuovo a crear vicinanza.

La storia dell'Antico Testamento è un'unico «venire» da parte di Dio. Di nuovo un'immagine, poiché sappiamo ch'Egli è il Presente per eccellenza, per il quale non c'è barriera ne distanza che debba superare muovendosi. Ma appena Lo pensiamo solo così, solo assoluto, va perduto tutto ciò che si chiama stona, mentre quest'ultima è la modalità del nostro sussistere. Entrando in questa storia Dio, dalla lontananza della sua adirata inaccessibilità, viene in una nuova vicinanza amorosa. Stringe col popolo che ha chiamato l'alleanza, per la quale questo diviene «il Suo popolo», ed Egli «il suo Dio». Egli vive con esso, cammina con esso, combatte con esso.

Se vogliamo comprendere l'Antico Testamento, ci

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occorre partire dall'esperienza che quegli uomini avevano dell'esser guidati e governati da Dio. Dev'esser stata eccezionalmente intensa. L'intera Legge dell'Antico Testamento in ultima analisi ha avuto il senso di rendere possibile ai credenti di vivere in questa vicinanza: ch'essi non ne abusassero in senso magico, ne per essa soccombessero sul piano religioso. Eppure il popolo da cattiva prova di sé e richiede un rè terreno, «come l'hanno tutù i popoli» (1 Sam 8, 4 ss.). E allora anche la maggior parte dei rè da cattiva prova di sé, perché non vogliono essere servitori di Dio, ma dominare per diritto proprio. Indifferenza e ribellione offuscano il sacro patto; allora si leva la profezia, e dalle parole di questa una nuova venuta, quella del Messia, con chiarezza viene invocata sempre più insistentemente, fino a che «il tempo è compiuto» (Me 1, 15), ed avviene il secondo evento impensabile, più grande ancora di quello costituito dalla creazione:

Dio si fa uomo.

Di nuovo dobbiamo ricordarci di quante volte abbiamo già udito e pronunziato questa frase; tante che non ci rende più nemmeno pensosi. «Dio si fa uomo»: è possibile? Ma Egli l'ha rivelato; dunque lo è. Ma quale realtà inconcepibile! E poi perché, perché? Certo, per redimerci; ma questa può essere solo mezza risposta. In lui stesso deve premere qualche cosa, che Lo porta sempre più vicino agli uomini. L'indica la parola «amore»; ma anche questa è parola misteriosa: che significa infatti amore, se qui è Dio che ama?

E ora Egli è con gli uomini. Uno di noi. E questa realtà è definitiva; infatti Egli non la revocherà mai. Se vogliamo vedere quanto grave possa diventare

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questo pensiero all'uomo preoccupato della libertà di Dio, ricordiamo allora che per gli gnostici Egli s'è fatto sì uomo; ma compiuta la sua opera sulla terra, si sarebbe sfilato dalla catena e sarebbe ritornato alla libertà del puro spirito. Invece noi lo sappiamo: Egli è rimasto uomo. Non appena appare ai suoi, il Risorto mostra a loro sulle mani e i piedi i segni delle ferite, i quali indicano la sua vita terrena. Egli s'è portato con sé nell'eternità la sua corporeità trasfigurata e, come Dio fatto uomo, s'è assise «alla destra del Padre». Non ci può essere, pensiamo, maggior vicinanza di questa; tuttavia si può dire una cosa ancora più grande: Egli vuole che noi L'accogliamo nella parte più viva della nostra vita; Egli vuoi esser per noi cibo e bevanda. Quando la madre fa nascere il bambino dal suo sangue e poi lo nutre al suo seno, essa mette dentro se stessa nella vita di lui; questo mistero ascende ora sin entro il divino: Dio da a noi Se stesso nel mistero dell'eucaristia. Potrebbe venire ancor più vicino? Solo infrangendo la nostra ottusità e toccandoci il cuore, pensiamo. E lo facesse! ...

Verrà però il momento che la sua vicinanza abbraccerà il mondo intero. Se vogliamo provare il giubilo di questo messaggio, leggiamo allora ciò che dice la Lettera ai Romani, nell'ottavo capitolo, w. 18-29, a proposito della speranza. Questa è l'attesa che un tempo tutto verrà assunto in Lui e non ci sarà più separazione alcuna; ne tra Lui e la realtà creata, ne tra le sue creature.

Il mistero della lontananza e vicinanza di Dio si ripete nell'esperienza del singolo. Ognuno certo diviene prima o poi consapevole di quanto sia meravigliosa la Sua vicinanza, e quanto pesante la Sua lontanan-

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za. Veramente non si può dire che cosa avvenga al di là dell'immagine, nella realtà di Dio; perché anche quando tutto pare vano, e lo spirito fatica a mettere insieme le parole della preghiera, Dio è presente: infatti noi sussistiamo solo attraverso il suo esserci. Nella vita degli eremiti egiziani del deserto si racconta di uno che dopo una lunga prova della lontananza domanda: «Signore, ma dov'eri in questo tempo terribile?». Dio risponde «Più che mai vicino a tè!».

Sempre Egli è vicino, essendo alla radice del nostro essere; parlando nel profondo della nostra coscienza. Tuttavia è palese che dobbiamo sperimentare il nostro rapporto con Dio tra i poli della lontananza e della vicinanza. Dalla vicinanza siamo fortificati, dalla lontananza messi alla prova. Quando si fa percepire la vicinanza di Dio è facile esser credenti; ma quan-d'Egli è lontano, allora viene il tempo per la fede pura, che non ha altro che la parola: «Non T'abbandono!».

Nella storia del mondo le cose non stanno diversamente. Un tempo il mondo era, così pare, pieno di Dio. Non che gli uomini fossero particolarmente buoni; ci fu ingiustizia e peccato come oggi. Tuttavia qualcosa era diverso: il bene fu fatto muovendo dalla vicinanza di Dio, e il male contro questa vicinanza, e perciò anche conversione e penitenza erano tanto profonde. Col passar del tempo tuttavia il cuore diviene sempre più freddo. Il mondo si riempie sempre più d'oggetti; l'ora è assillata da eventi sempre più violenti; ma l'esistere nel suo profondo si fa sempre più vacuo. Tanto vacuo, che un uomo, che era intelligente come pochi e confuso nell'intimo forse quan-t'altri mai, potè dichiarare che Dio «è morto». Parola

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tremenda! Nel modo in cui per lo più la si ripete si tratta solo di chiacchiere; ma chi l'ha detta per primo con essa ha espresso il sentimento dell'assenza di Dio, della solitudine dell'uomo in un cosmo totalmente estraneo. Da questo sarebbe potuta nascere in lui, che pur aveva avuto notizia della rivelazione, la fedeltà al Dio lontano; invece egli ha identificato il modo del suo sentire con la realtà, dicendo che Dio non c'è più.

Ora mezzo mondo lo riecheggia. Se però verrà il tempo - e verrà, dopo che l'oscurità sarà stata superata - che l'uomo domanderà a Dio: «Signore, allora dov'eri?», allora di nuovo udrà la risposta: «Più che mai vicino a voi!». Forse Dio è più vicino al nostro tempo glaciale che al barocco con lo sfarzo delle sue chiese, al medioevo con la dovizia dei suoi simboli, al cristianesimo dei primordi con il suo giovanile coraggio di fronte alla morte; solo noi non lo percepiamo. Però Egli attende che noi non diciamo: «non ne sentiamo la vicinanza, dunque non esiste Dio», bensì che noi Gli restiamo fedeli attraverso il tempo della lontananza. Da questo potrebbe sorgere una fede, non meno valida, anzi forse più pura, in ogni caso più intensa di quanto sia mai stata nei tempi della ricchezza intcriore.

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INDICE

CAPITOLO PRIMO Accettare se stessi ........... 7

Excursus, 31.

CAPITOLO SECONDO Conosce l'uomo solo chi ha conoscenza di Dio . . 35

1. L'uomo alla luce della Rivelazione, 35 - 2. Il nome dell'uomo, 56 - 3. Vicinanza e lontananza di Dio, 65.

 

 

 

 

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