ROMANO GUARDINI
ACCETTARE SE STESSI
MORCELLIANA
Titolo originale dell'opera:
R. Guardini, Die Annahme seiner selbst. Den Menschen
erkennt nur, wer von Goti weij!
© Matthias-GrùnewaId Verlag, Mainz 1987
traduzione di Giovanni Pontoglio
© 1992 Editrice Morcelliana via Gabriele Rosa 71 - 25121
Broscia
Prima edizione: marzo 1992
ISBN 88-372-1456-1
Tipolitografia La Nuova Cartografica S.p.A. - Brescia
CAPITOLO PRIMO ACCETTARE SE STESSI
Chiunque pensi sa che continuamente gli si presentano alla
mente cose che sembrano semplicissime, anzi banali, la cui apparente
banalità tuttavia è soltanto il rovescio della loro profondità e
ricchezza di significati. Questa semplicità può addirittura far velo
alla loro rilevanza.
Alla nostra attesa piace ricercare l'interessante e il
grandioso; ma Finché noi conserviamo questo desiderio, quant'è veramente
significativo si circonda del carattere della quotidianità e scompare
così dalla nostra vista. Chi pensa davvero deve imparare ad andar oltre
l'apparenza dell'ovvio e a immergersi nelle profondità abissali.
Prendiamo in considerazione una verità di questo genere,
e cioè quella che ci concerne più da vicino: il fatto che io sono
appunto quello che sono, che ciascuno di noi è se stesso.
Noi esprimiamo tale verità con la frase: «io sono per me
il dato per eccellenza»: ciò di cui m'è evidente che esso sia, che
costituisce il presupposto per tutto il resto, al quale tutto riferisco e
a partire dal quale m'accosto a tutto.
In tutto dunque presuppongo me stesso. Ogni asserzione che
pronunzio contiene, espressa o sottintesa, la parola «io». Ogni azione
che compio è sorretta
da «me». Ciò che avviene nella mia sfera vitale «mi»
investe. Io ci sono sempre: direttamente, in attività immediata,
incontro, venendo influenzato; o indirettamente, essendo investito il
«mio» ambiente, il «mio» paese, il «mio» mondo.
Così facendo posso allontanarmi sempre più dall'io
immediato. «Ambiente», s'è detto, «paese», «mondo»: sempre tuttavia
resta la relazione con me: è l'ambiente che mi circonda; il paese nel
quale vivo; il mondo al quale appartengo. Posso fare il tentativo di
trascendere me stesso e di parlare delle cose come se io non ci fossi.
Ciò va molto bene; è esercizio dello spirito che esso divenga capace di
prescindere da sé. Purtuttavia rimane il collegamento; perché sono pur
sempre io che cerco in modo tale di uscire dai confini di me stesso -
senza contare che però così facendo mi porto dietro me stesso e ogni
sguardo, anche il più semplice, ch'io rivolga su qualche cosa contiene
anche me stesso.
Così io sono il vivente polo opposto rispetto al mondo.
Questo esiste per me come mondo in cui vivo, che incontro, nel quale
agisco. Un mondo nel quale io non ci fossi è una pura idea-limite, che mi
dissuade dall'insuperbirmi; di pensarla davvero non sono capace ...
Tuttavia il dato di fatto è ancora più drastico: una volta che ci sono,
semplicemente non esiste un mondo nel quale io non ci sia. A chiunque
abbia un po' compreso quanto stupido sia insuperbirsi ciò suona strano;
ma è così. Per ciascuno «mondo» è il suo mondo, davvero non ce n'è
altro. Il mio io ha dunque il carattere dell'inevitabilità - si direbbe
quasi d'una specie di necessità. Solo «quasi»; e su che cosa significhi
questo «quasi» parleremo subito. Ma pur
sempre «quasi». E ciò che è presupposto dappertutto,
ciò che è nel mezzo di tutto, la realtà prossima, vicinanza sin entro
il più intimo: appunto «io».
Ora però dobbiamo parlare di quel «quasi», nel quale,
ammonitore, ci siamo or ora imbattuti; perché esso ci pone di nuovo in
questione il «dato», che di prim'acchito sembra tanto sicuro, del nostro
proprio se stesso: e in che misura l'uomo percepisca tale messa in
questione è un esame della vitalità spirituale di questo. Per me stesso
infatti io non sono solo evidente, ma anche strano, enigmatico, anzi
sconosciuto: al punto che possono accadere cose come queste: un giorno
guardo nello specchio e m'interrogo straniato - quant'è rivelatrice la
parola «straniato» -, toccato da estraneità, respinto da estraneità;
ma riflettiamo:
estraneità tra me e la mia stessa immagine! Io allora mi
domando: chi è mai questi? Lo specchio è certo una cosa strana. Le fiabe
sanno dirne cose misteriose;
e gli allievi delle fiabe, i poeti, hanno imparato da
quelle. Nello specchio si mostra come io, che sembravo essere tanto
solidamente ed esattamente una cosa sola con me, improvvisamente mi
contrappongo a me stesso, divento per me «oggetto» {ob-iectum:
posto di fronte*). Che significa allora questo: io sono io-stesso?' Non
dovrei dire con eguai diritto: io non so-
* II testo ha Gegen-Stand, ossia «oggetto»
evidenziando col trattino il senso etimologico «ciò che sta di fronte»,
che ho cercato di rendere col riferimento al latino (n.d.t.).
1. Nella poesia «Margareta» di Morike (lirico e
narratore tedesco dell'Ottocento postromantico) si legge:
«Potess'io, o anima, qual tu sei / afferrarti nel più
puro specchio, / tutto ciò che di tè unica è proprio / farti incontrare
qual cosa estranea! / Ricadrebbe solo da quest'occhio uno sguardo, / quale
ci colpi, nel proprio cuore -
9
no io, ma spero di diventare io? Io non mi possiedo, ma
sono sulla strada che conduce a me stesso? Io non mi conosco, ma tento di
conoscermi?
In un bei romanzo - uno di quelli che se non sono i più
alti per qualità, ma nei limiti del loro più modesto valore sono
perfetti -, e cioè nel Kim di Kipling, si narra d'un ragazzo di
nome Kimball. È orfano; figlio di padre irlandese e di madre indiana.
Talvolta lo coglie una sensazione strana. Allora si mette quieto a sedere
silenzioso e dice a se stesso: «Io, Kim ... Io, Kim ... Io, Kim ...»,
così facendo ha la sensazione che qualcosa s'addentri sempre più nel
profondo, verso una realtà ultima, indicibile; e se riuscirà ad
arrivarci, allora tutto è in ordine. Ma al penultimo istante sempre
qualcosa si spezza; egli trasalisce, e tutto è stato inutile. E un giorno
gli sta dinnanzi un vecchio asceta, che lo guarda e gli dice con un volto
triste: «Lo so, lo so ... E impossibile!». Che è? Che cosa voleva il
ragazzo? Di che cosa il vecchio, esperto d'esercizi intcriori, sapeva che
non riesce? Col proprio «nome» raggiungere il proprio «se stesso». Il
nome è il diventar dischiuso nella parola; l'essere saputo. Kim voleva
dunque che il suo essere e il suo saper circa se stesso divenissero una
cosa sola, e che così egli divenisse auto-evidente** a se
Colto da beati brividi, / timido ['avvicinavi all'immagine
senza nome, / come ad un enigma che implora d'esser sciolto, / che l'una
cosa nell'altra per sempre si placasse; / Ma ahi, non appena hai mezzo
riconosciuto tè stesso, / ti disconosci, e di sei già volto altrove!».
Sarebbe necessaria un'analisi molto puntuale per enucleare
la ricchezza di significati insita in questi versi. Vedi al riguardo
Guardi-ni, Gegenwart und Geheimnis. Eine Auslegung von fùnf Gedichten
Eduard Mòrikes, 1957, pp. 35 s.
** II testo ha selbst-verstdndiich: di per sé
l'aggettivo selbst-
10
stesso. Allora tutto sarebbe in ordine. Il fatto però
ch'egli cercasse ciò era un segno che non lo possedeva; e il fatto che
non ci riuscisse mai, che non potesse mai riuscirvi, era espressione del
suo scontrarsi col limite della sua possibilità, ossia con la sua
finitezza.
Presso molti popoli, specialmente nel Settentrione,
s'incontra un mito profondo, quello dello «spirito che segue». Secondo
tale mito l'uomo esiste una volta come è visibilmente, in carne ed ossa;
e inoltre esiste una volta ancora, e così egli è in modo autentico.
Quest'uomo autentico viene però sempre dietro l'uomo
immediato; perciò è chiamato spirito che segue. L'uomo immediato dunque
non vede quello autentico: egli percepisce solo che c'è, ma «dietro» di
lui, ossia nell'ambito di ciò che non si presenta. Una volta però questo
fa il giro, gli si para dinnanzi e lo guarda. Allora l'uomo immediato vede
quello autentico; vedendolo, egli viene a conoscenza di sé. Si potrebbe
dire, rifacendosi alla storia nel Kim: il suo io e il suo nome
divengono una cosa sola. Ma questo momento è la morte. Da ciò è sorta
poi la figura della Valchiria: nell'istante, in cui essa si fa incontro
all'uomo da lei eletto***, questi muore.
Vediamo quanto in ciò trova espressione: ciò che io
chiamo «io», è il mio dato. Ma non è nulla d'assoluto, bensì è
relativo e problematico.
Alcuni filosofi hanno tentato di togliere di mezzo
verstandiich
significa «ovvio», ma la sottolineatura della composizione rimanda al
significato etimologico: «comprensibile (verstandiich) da sé (selbst)»
(n.d.t.).
*** «Valchiria», ted. Walkùre dall'antico
nordico valkyria, è voce etimologicamente connessa con
«eleggere» (ted. kiiren) (n.d.t.).
11
questo dato di fatto. Pensiamo ad esempio alla dottrina
dell'identità propria dell'idealismo tedesco, la quale ha affermato che
il se stesso finito sarebbe soltanto la forma che cela quello infinito,
ossia l'Io di Dio. Ciò ha apparentemente un senso molto profondo, ma non
è affatto così. In primo luogo l'idea è errata; perché se io considero
onestamente me stesso, so precisamente di non essere assoluto; e che ogni
panteismo proviene da ebbrezza, da superbia. Ma l'idea è anche
superficiale; perché la profondità vera, tanto mirabile quanto
assillante, della nostra esistenza consiste proprio nel fatto che io sono
persona in quanto essere finito.
E un elemento di superiorità del nostro spirito
occidentale rispetto a quello asiatico, tendente al panteismo, il fatto
che gli sia relativamente facile tener ferma questa distinzione. Ancora
nel romanzo Kim si racconta un altro avvenimento: un asiatico vuole
mettere alla prova il ragazzo, per vedere se sia idoneo ad un qualche
compito pericoloso; allora lo semiipnotiz-za e gl'indica una brocca 11
vicino: «Vedi la brocca? Che ha una fessura? E che dalla fessura fluisce
fuori dell'acqua? Vedi come intorno ad essa si forma una pozzanghera?». E
il ragazzo già comincia a vedere la fessura e come ne fuoriesca l'acqua.
Ma qualche cosa in lui contraddice: «Ma non è vero!». E che cosa fa?
Forte della legittima difesa del suo spirito semieuropeo, il quale
s'accorge che l'asiatico deve averlo tratto in inganno, recita la tavola
pitagorica, e davanti al suo sguardo la brocca è di nuovo sana, e non
fluisce più acqua. L'uomo però dice: «Tu sei il primo che mi si sia
opposto! Vorrei sapere come hai fatto! Ma naturalmente non mi svelerai
ciò». Egli pensa che il ragazzo disponga d'una particolare virtù magica
di resi-
12
stenza, mentre questi non ha fatto altro che distinguere.
Sulla base della fermezza della propria affermazione spirituale di sé
egli ha constatato che due per due fa sempre solo quattro, sempre
realmente quattro; non cinque, non dieci, non cento e, soprattutto, non
infinito. Egli s'è sottratto all'inganno dell'infinito, di quello
cattivo, dove le distinzioni svaniscono e tutto può diventare tutto,
poiché nessun ente è davvero se stesso. Egli ha posto confini e così
facendo ha custodito il vero mistero dell'esistenza umana, mistero tanto
impenetrabile nella sua evidenza.
Sorge così l'interrogativo: in che modo io sono
io-stesso? E ora la proposizione «io sono per me il dato» assume un
senso nuovo.
In primo luogo significava: il mio esser-io è per me la
cosa ovvia, prima, il nucleo di tutto il resto. Tutto si riferisce a
questo io. Ciò che per me si chiama «mondo» è costruito a partire da
quello e mira a quello ... Ma ora significa anche: io non sono io per
essenza, bensì sono a me «dato». Dunque ho ricevuto me stesso.
Al principio della mia esistenza - intendendo il
«principio» non solo in senso temporale, bensì anche essenziale, quale
radice e ragione di essa - non sta una decisione d'essere presa da me
stesso. Tantome-no semplicemente ci sono, senza che necessiti d'alcuna
decisione d'essere. Tutto ciò è così soltanto in Dio.
Bensì al principio della mia esistenza sta un'iniziativa,
un Qualcuno, che ha dato me a me stesso.
In ogni caso sono stato dato, e dato come quest'individuo
determinato. Non semplicemente come uomo, ma come questo uomo:
appartenente a questo
13
popolo, a questo tempo, di questo tipo e con queste
attitudini. Fino a quelle ultime determinazioni, che semplicemente
esistono una volta soltanto e cioè in me; a quella peculiarità ultima
che fa sì che in tutto quanto faccio io riconosca me stesso, e la quale
s'esprime nel mio nome.
In tal modo tuttavia è posto anche un compito. E assai
grande; si può forse dire: quello che sta alla base di tutti i compiti
singoli.
Ho il dovere di voler essere quello che sono; davvero
voler esser io, e io soltanto. Devo collocare me nel mio me stesso, quale
esso è, e assumermi il compito che in tal modo m'è assegnato nel mondo.
È la forma fondamentale di tutto ciò che si chiama «vocazione» (Beruf);
perché a partire da ciò mi rivolgo alle cose, e dentro ciò le accolgo.
Esprimiamolo in forma negativa: non posso evitare questo
compito assegnatemi; per esempio fuggendo nella fantasia, e sognando
d'esser un altro: sono quello e quell'altro ... faccio quella e
quell'altra cosa ... ho questa e quella capacità ... faccio la tale e tal
altra parte ... Fino ad un certo punto tutto ciò è cosa innocente: così
ci si riposa dall'esser se stessi. Ma da lì in poi diventa pericolo di
fuggire da se stessi.
Nemmeno di fronte al male che è in me posso fuggire:
cattive attitudini, abitudini consolidate, colpe accumulate. Debbo
accettarle e riconoscerle: sono così ... ho fatto questo ... Non per
dispetto; quello non è accettazione, bensì ostinazione. Piuttosto nella
verità, perché solo questa fa superare il male: sono così, ma voglio
diventare diverso.
La forma estrema della fuga da sé è il suicidio. Non è
ozioso parlarne, perché esso diviene sempre
14
più uno dei grandi pericoli del nostro tempo. La fedeltà
cala; anche e proprio come fedeltà al proprio essere. Il sentimento che
l'esser-io sia un compito si indebolisce vieppiù, poiché scompare la
consapevolezza d'esser dati a se stessi. E poiché i modi di togliersi la
vita diventano sempre più semplici, il suicidio si fa sempre più facile
e banale.
S'è esaltato come uno dei vertici della fortezza
og-gettiva il saper farla finita senza tanto scalpore in un dato istante;
ma è davvero fortezza osare verso l'esterno qualcosa di pericoloso, senza
risponderne con se stessi? La pastiglia di cianuro di potassio in tasca
non cancella in verità l'autentico coraggio? Coraggio reale significa
sapere che si è collocati in un posto e non dal rispettivo grande o
piccolo comandante, bensì dal Signore dell'esistere, da Dio, e che
perciò non ce se ne deve andare finché non si sia chiamati da Lui
stesso. Soltanto questo conferisce serietà a qualsiasi fare e osare.
L'altro coraggio proviene dalla mancanza di rispetto verso di sé: sono
uno qualunque; se scompaio, ci sono altri. Come nel caso delle formiche
migra-trici: se se ne ammazza una col piede, cento corron dietro; se le si
schiaccia tutte, esiste ancora la specie;
e se la specie stessa s'estingue, in fin dei conti non è
nulla di veramente importante.
Il compito di esistere può farsi molto difficile. C'è la
rivolta contro il dover esser se stessi: perché mai devo? Ho forse
chiesto di essere? ... C'è la sensazione che non valga la pena d'esser se
stessi: che cosa me ne viene? Mi vengo a noia. Mi ripugno. Non ce la
faccio più a sopportare me stesso ... C'è la sensazione d'esser
ingannati riguardo a se stessi; d'esser imprigionati in se stessi: sono
soltanto così, eppur vorrei
15
essere di più. Ho solo questo talento, e ne vorrei di
maggiori, di più brillanti. Sempre devo fare lo stesso. Sempre urto
contro i medesimi limiti. Sempre commetto i medesimi errori, sperimento lo
stesso fallimento ...
Da tutto ciò può nascere una monotonia infinita;
un tedio terribile. Intere epoche ne furono
caratterizzate; e precisamente epoche d'altissima cultura. Pensiamo per
esempio al Settecento francese, nel quale la noia giocava un ruolo ancora
a stento comprensibile per noi; tanto che alcuni, circondati da un
mirabile raffinamento della forma, dei rapporti interpersonali, dell'arte,
del gusto di vivere, come disse Pascal «si disseccarono dal tedio».
Così l'atto dell'esser se stessi alla sua radice diviene
ascesi: debbo rinunziare al desiderio d'esser altrimenti da come sono o
addirittura un altro da quello che sono. Quanto insistente possa farsi
questo desiderio, lo possiamo cogliere dai miti e dalle fiabe, ricorrenti
presso tutti i popoli, e nei quali un uomo viene tramutato in un altro
essere: verso l'alto in un astro, verso il basso in un animale, o in un
mostro, o in una pietra ... Io debbo rinunciare ad avere talenti che mi
sono negati; debbo riconoscere i miei limiti e rispettarli. Ciò non
significa rinunzia alla tensione verso l'alto. Questa mi è permessa e
doverosa; ma lungo la linea di quanto m'è assegnato ... Però non devo
neppure lasciarmi prendere dal risentimento, da quell'atteggiamento che
rivela che non ho veramente accettato e veramente rinunciato, e che
consiste nel far male quanto m'è precluso.
Alla radice di tutto sta l'atto mediante il quale accetto
me stesso. Debbo acconsentire ad essere quello
16
che sono. Acconsentire ad avere quelle qualità che ho.
Acconsentire a stare nei limiti che mi sono tracciati.
Tutto ciò diviene particolarmente difficile, quando io
vengo a conoscenza non solo dei limiti, ma anche delle insufficienze e dei
difetti del mio essere: danni nella salute; disturbi nella struttura
psichica; oneri provenienti da genitori e antenati; tribolazioni dovute
alla situazione sociale e storica e così via. Perché tutto ciò?
Se partiamo da ciò possiamo bruscamente divenir coscienti
che l'assegnazione all'esistenza individuale non è penetrabile con
l'intelletto. Sono in grado di comprendere come questo o quel fatto mi sia
successo: per esempio non ero prudente e ho avuto un incidente subendo dei
danni. Ma con ciò è davvero tutto chiaro? Lo è appena si tratti d'un
altro. Le serie di pensieri: era imprudente, è stato investito e ora ha
una frattura ... oppure: i suoi genitori l'hanno educato così, e per ciò
si sono sviluppati questi difetti ... oppure: nei suoi antenati si sono
mostrate queste tare fisiche o spirituali, e sono passate in lui - queste
serie soddisfano l'interrogativo sul perché. Ma quando al posto della
parola «lui» va la parola «io», anche allora è sempre tutto chiaro?
Probabilmente sì, dal punto di vista biologico e psicologico; ma da
quello esistenziale? Nella comprensione vivente di me stesso? Non perde,
in verità, ogni spiegazione di questo genere, non appena si riferisce a
me, la sua ultima forza persuasiva? Ho avuto l'incidente: perché proprio
io dovevo averlo? I miei genitori hanno commesso questo e quell'errore
pedagogico: perché dovevano essere proprio i miei a commetterlo? I miei
17
antenati erano gravati in questo e quel punto: perché
proprio quelli da cui discendo io?
Alla domanda: perché io sono come sono? perché esisto
anziché non essere? - con le sue possibili prosecuzioni in tutte le
altezze, ampiezze e profondità della mia esistenza - non si da alcuna
risposta che parta dal mio essere immediato. Ma nemmeno dal mio ambiente;
anzi nemmeno dal mondo stesso.
Tutti i tentativi di spiegare me stesso a partire dai
presupposti nella comunità, nella storia, nella natura, sono equivoci.
Perché ciò cui rispondono queste «spiegazioni» sono interrogativi
concementi il contesto generale delle cause materiali, biologiche,
stori-che. Ma l'interrogativo di cui qui si tratta è tutt'altro. Esso è
rivolto a qualcosa che esiste solo una volta: ossia a me ... E non perché
io sia qualche cosa d'importante, di straordinario, bensì perché io sono
appunto io-stesso, e con questo cessa ogni collocazione nell'universale.
Alla domanda: perché proprio io debbo essere quello su cui s'attivano
questa e quell'influenza? non c'è risposta.
Io non so spiegare come io sia io-stesso; non so
comprendere perché io debba essere così o cosà; non posso dissolvere la
mia esistenza in qualche regolarità naturale o storica, perché essa non
è una necessità, bensì un dato di fatto; ma, al tempo stesso, «il»
dato di fatto per me decisivo. Esso è come è, e potrebbe anche esser
altrimenti. E, e potrebbe anche non essere. Eppure esso determina
dall'intimo l'intera mia esistenza.
Tutto ciò vuoi dire: io non sono in grado di spiegare me
stesso, ne di dimostrarmi, bensì debbo accettarmi. E la chiarezza e il
coraggio di quest'accettazio-ne costituiscono la base d'ogni esistere.
18
Non m'è possibile adempiere a quest'esigenza per via
puramente etica. M'è possibile soltanto a partire da qualcosa di più
alto: e con questo entriamo nel campo della fede.
Fede significa qui che comprendo la mia finitezza
prendendo le mosse dall'istanza suprema, dalla volontà di Dio.
Dio è reale e necessario. Egli è fondato in sé, ha
senso e non ha bisogno d'alcuna spiegazione. La spiegazione di Dio è Egli
stesso: Egli è tale perché è tale. Ed Egli semplicemente è perché è
Dio. Egli è colui che assolutamente si comprende da Sé**** - laddove
peraltro dobbiamo aggiungere che quel «Sé», della cui comprensione qui
si parla, è il Suo.
Questo Dio è il Signore; e lo è per essenza. Ciò
significa non solo che è Signore sul mondo, bensì anche e prima che è
Signore su se stesso. Egli riposa nella propria signoria. Questo inoltre
è veramente il nome ch'Egli s'è dato. All'inizio della storia sacra sta
la visione dell'Oreb. «Allora Mosè chiese: 'Io vengo dunque ai figli
d'Israele e dico loro: il Dio dei vostri padri mi manda a voi. Se ora mi
domanderanno: qual è il suo nome? che dovrò dir loro?' Dio parlò a
Mosè:
'Io sono VIo-sono\ Ed Egli disse: 'Così dirai ai
figli d'Israele: L,'Io-sono m'ha mandato a voi'» (Es 3, 13-14). Ma
che significa il nome che Dio qui si da?
In primo luogo: sono colui il quale è qui in realtà e
potenza, e ora comincio ad agire ... E poi significa:
non assumo alcun nome dal mondo, bensì l'ho in me stesso
... E nel più profondo significa: il mio nome è
**** II testo ha derabsolut Selbst-Verst&ndliche,
«l'assolutamente ovvio», cfr. la nota ** (n.d.t.).
19
il modo in cui sono Io-stesso. Solo Io sono così: in pura
necessità e perfetta libertà al tempo stesso.
E questo Dio che m'ha creato. Rimaniamo nel nostro
discorso: Egli è Colui il quale m'ha dato a me stesso. Con questo finisce
il nostro interrogarci. Porre domande ulteriori, per esempio perché m'ha
dato a me, e m'ha dato così come è quest'uomo, e oggi e qui?, non ha
alcun senso, perché mostrerebbe soltanto che non ho apprezzato che cosa
significa questa parola: «Dio». Rispondere che m'ha creato poiché va
bene così nella totalità del mondo, o perché in esso devo fare questo e
quest'altro, o perché ha senso che ci sia esistenza personale, non
significa di più, bensì di meno, che rispondere: perché Egli l'ha
voluto2.
Gli interrogativi dell'esistenza: perché io sono quello
che sono? perché mi succede quel che mi succede? perché m'è negato ciò
che m'è negato? perché io sono così come sono? perché semplicemente
sono piuttosto che non essere?, quest'interrogativi trovano risposta solo
in riferimento a Dio.
Dobbiamo peraltro aggiungere subito: purché questo
riferimento non venga solo pensato astrattamente, bensì sperimentato in
modo vivo, e nella misura in cui questo accada. E ciò può accadere.
Perché un'esperienza siffatta è sì grazia, tuttavia è promesso che
essa, «il buon dono» per eccellenza, è data a coloro che la chiedono
con serietà e nella pazienza del loro cuore e vi si sforzano nella
preghiera e nella meditazione.
Agli albori della filosofia occidentale emerge
continuamente l'interrogativo circa l'arche, il principio di
2. Per ciò occorre tuttavia anche che l'idea di Dio sia
piena e chiara. Vedasi al riguardo ['excursus al termine di questo
capitolo.
20
tutte le cose, e vi si danno risposte varie e profonde. Ma
ne esiste una sola che vi risponda davvero: rendersi conto religiosamente
che il mio principio sta in Dio. Per meglio dire: nella volontà di Dio,
rivolta a me, che io sia e che sia quello che sono. E religiosità
significa ricevere continuamente noi stessi da questa volontà di Dio.
Questo è 1'alpha e Y omega di tutta la sapienza,
il rifiuto della hybris, la fedeltà alla realtà, l'onestà e la
risolutezza dell'esser se stessi e con ciò la radice del carattere, È la
fortezza, che si presenta all'esistenza e appunto in ciò si rallegra di
quest'esistenza. È bene riaccertarsi sempre di questa Magna charta
dell'esistere.
Questo è probabilmente anche il luogo adatto per spendere
qualche parola su quell'elemento del quale oggi tanto si parla, seriamente
o no, cioè l'angoscia. Non intendiamo dire quella di cui esiste motivo
fin troppo fondato, cioè la sensazione d'una minaccia da parte della
situazione politica ovvero della stessa evoluzione culturale e sociale3.
Intendiamo piuttosto l'angoscia che non ha motivo determinato, bensì
nasce dalla condizione sempre data dell'esistenza. La filosofia degli
ultimi decenni vi vede l'esperienza di sé dell'essere finito come tale,
che si sente oppresso dal nulla. Essa sarebbe indissolubile dalla
coscienza d'essere, anzi identica a questa; essere significherebbe
es-ser-nell'angoscia.
E tempo di contraddire questa concezione. Ciò che esiste
in quanto finito non è affatto necessario
3. Cfr. a questo proposito R. Guardini, La fine
dell'epoca moderna-II potere, Morcelliana, Brescia 19892.
21
che esista nell'angoscia, bensì potrebbe esistere anche
nel coraggio e nella fiducia. Il fatto che la nostra esistenza abbia il
carattere dell'angoscia non costituisce un dato primario, bensì
secondario; infatti la finitezza che qui s'inquieta è colpevole essa
stessa della propria angoscia. E la finitezza ribelle, caduta
nell'abbandono appunto attraverso la propria ribellione. L'uomo al suo
inizio, la prima finitezza, si sapeva creato e collocato nella libertà
del proprio essere ad opera di Dio, il quale è il Veritiero e il
Benevolo.
Egli sapeva esser la propria libertà costituita nella
libera volontà di Dio; da ciò gli vennero diritto e potere d'andare
avanti nel proprio esistere. Questa finitezza fu vissuta quale felicità,
quale potenzialità capace d'ogni adempimento. In essa non v'era angoscia,
bensì coraggio e fiducia e gioia. Ne era espressione il paradiso.
L'angoscia giunse solo quando l'uomo si ribellò al suo
esser finito; quando pretese di non esser più immagine, bensì archetipo,
ossia d'essere infinito-assoluto. Così facendo egli rimase bensì finito,
perse però la connessione colla propria origine. Ora la fiducia si
capovolse in hybris, e il coraggio in paura. La finitezza, sino ad
allora vissuta quale pregio, gli divenne cosciente in termini di
problematicità; l'ampiezza smisurata del possibile divenne assenza di
luogo. Finché l'ateismo del tempo presente non creò attorno alla propria
finitezza il minaccioso vuoto, il nulla di cui si parla sino alla nausea,
il fantasma del Dio negato. Chi sta in questa situazione ha sì motivo di
provar angoscia; non tuttavia perché essa appartenga all'essenza della
finitezza, bensì perché lui, portando a compi-
22
mento l'eredità del peccato originale, s'è deciso per
l'esistenza insensata della mera finitezza.
Torniamo indietro: solo dall'acccttazione di sé parte una
via che conduca al vero futuro, per ciascuno al proprio. Poiché crescere
come uomini non significa voler uscire da se stessi. Comportarsi in modo
morale non vuoi dire rinunziare a sé. Dobbiamo criticare noi stessi, ma
in lealtà rispetto a ciò che Dio ha fondato in noi. E quanto al
pentimento, esso non deve mai diventare rinunzia a questo se stesso.
Comprendere il pentimento è essenziale per ogni comprensione più
approfondita dell'uomo, così come esercitarlo è essenziale per ogni
dirczione della propria vita, che deve condurci a passare tra gli abissi
della hybris da una parte e della disperazione dall'altra. Il
pentimento è una della più potenti forme d'espressione della nostra
libertà. In esso giudichiamo noi stessi e contro di noi ci poniamo dalla
parte del bene. Il pentimento non può far sì che l'accaduto non sia
accaduto; tentarlo sarebbe menzogna. Esso poggia piuttosto sulla verità,
cioè sulla comprensione che io ho realmente compiuto questo e
quest'altro. Questa verità diviene però punto di partenza d'un
comportamento nuovo, e così riceve un carattere nuovo. Definitiva la
nostra vita lo è soltanto dopo l'ultimo respiro; fino ad allora tutto
ciò che è accaduto, il peggio come il meglio, può venir eambiato nel
carattere, prendendo noi nuovamente posizione di fronte ad esso e
traendone le conseguenze possibili per noi. La nostra vita è allora ciò
in cui la trasforma questa presa di posizione. Tutto ciò peraltro non
significa che chi si pente getti via il proprio se stesso.
23
Non appena egli lo fa ciò non è più pentimento ma disperazione4.
Di fronte al disonore che l'uomo oggi s'arreca coi suoi
pensieri ed azioni vogliamo esprimere così il senso: dobbiamo pentirci di
ciò che di male abbiamo compiuto e di ciò che siamo diventati a causa di
tale male commesso, rispettando tuttavia ciò a cui prima e
fondamentalmente Dio ci ha creati. Il rispetto dell'uomo verso se stesso
abbisogna addirittura di venir riscoperto. Esso radica nella verità
ampiamente dimenticata che Dio stesso ci rispetta. L'uomo non viene dalla
natura, bensì dalla conoscenza e dall'amore, il che però significa dalla
responsabilità del Dio vivente. Un uomo che venisse solo dalla natura,
non potrebbe rispettarsi, così come non lo può un animale. Ed è
importante che impariamo il rispetto di sé, perché la storia
dell'umanità minaccia d'andare sempre più verso il disonorare l'uomo,
così come minaccia d'andare verso il suo annientamento, e l'una cosa
diviene possibile soltanto attraverso l'altra. La guerra moderna con le
sue armi non sarebbe possibile se nell'uomo non operasse la pulsione di
morte; e nessun totalitarismo {totalismus) avrebbe successo, se
qualcosa nell'uomo non acconsentisse al proprio di-sonoramento. Ma Dio non
ha creato l'uomo nel modo dei corpi celesti, ossia come oggetto; bensì
ponendolo quale suo tu e chiamandolo. Appunto in questo modo però Egli ha
fatto per l'uomo del rispetto la base del rapporto nel quale Egli l'ha
posto con se stes-
4. Non possiamo in questa sede addentrarci nel senso più
profondo del pentimento, nel suo riferimento alla potenza divina
dell'inizio, alla grazia e alla rinascita, concentrandosi tutto ciò nel
mistero della redenzione.
24
so. Così anche il giudizio che l'uomo esprime su di sé
non deve mai annullare il rispetto fondamentale ch'egli deve avere di
fronte a sé, e ciò per il fatto che Dio ha questo rispetto5.
E ancora: se sono dato a me stesso, allora proprio in ciò
m'è data anche la mia possibilità di vita; e se Colui il quale m'ha dato
a me è il Sapiente e il Benevolo, anzi addirittura, come dice Cristo, è
il mio Padre, allora, secondo la parola di Cristo stesso, Egli vuole che
io «viva, e viva in pienezza». Questa realizzazione della vita può
però essere soltanto la mia;
non quella d'un altro. La via ad ogni bene parte così
dalla mia impostazione essenziale, e la fortezza del-l'accettazione di sé
significa al tempo stesso fiducia in questa via.
Esser-io significa addirittura avere una via, quella che
conduce dall'io degl'inizi a quello del compimento. Essa può passare per
lunghi giri, attraverso tribolazioni e oscurità, può venir
apparentemente cancellata o coperta, ma c'è sempre, persino quando
conduce attraverso la morte. Non fa piacere dire cose simili: suonano
patetiche, e inoltre la coscienza obietta domandando se chi parla prenda
egli stesso questo sul serio. Alla fine però egli deve dire la verità
anche se non è capace di tenervi testa. La morte non è quanto annunciano
tutte le chiacchiere macabre che s'incontrano nella filosofia, nella
poesia e nell'arte: la via passa per essa.
Ma è vero questo se lo si osserva alla luce del mes-
5. La situazione a cui il totalitarismo porta l'uomo rende
esigenza urgente l'analisi dell'onore e dell'elaborazione d'un'etica
cristiana dell'onore, anche e proprio in rapporto con la coscienza del
peccato e l'esigenza dell'umiltà.
25
saggio cristiano? Questo parla d'una rottura originale da
parte dell'uomo, ci dice ch'egli non è in grado di trovar da sé la
salvezza, che tutto quanto conduce alla salvezza, redenzione, perdono,
santificazione, viene solo per grazia: non cancella tutto ciò quanto
abbiamo detto?
Tutto quanto conduce alla salvezza è grazia; ciò è
vero. Non dobbiamo però lasciarci confondere dai concetti. Esiste un modo
funesto di parlare del carattere di grazia proprio della vita nuova,
perché tale modo cancella la persona dell'uomo, così che questi viene
risucchiato nella condizione di redento come se fosse un oggetto privo di
volontà. Oppure lo lacera in due, e allora c'è un uomo, quello naturale,
malvagio, e accanto a lui un altro, quello chiamato e santificato dalla
grazia di Dio; e tra questi due non c'è passaggio ne in un senso ne
nell'altro. Ma non è così. Il Dio che redime è il medesimo Dio che
crea; e l'uomo, al quale egli dona la sua grazia, è il medesimo uomo
ch'è stato creato da Lui.
Certo è grazia udire il messaggio, credere in esso,
confidarsi con Dio e poter ricevere la nuova vita; colui al quale però
ciò avviene è l'uomo nella sua identità personale; col suo patrimonio
di qualità e forze, con le sue potenzialità e limiti. La vita nuova
nasce da un nuovo inizio; ma chi viene fatto nascere in quest'inizio è
appunto colui che era prima. Il vecchio e il nuovo, l'uomo decaduto e
quello redento sono uno e il medesimo essere. La vita nuova ha sì il
carattere che Paolo chiama l'«esser informati all'immagine di Cristo»,
ma chi è informato in tale modo è il medesimo uomo che prima è stato
nel disordine. Movendo dal proprio amore Dio lo rida a lui; ma tra il
secondo
26
dono e il primo c'è quella identità, ch'è significata
dalla parola «esser redenti».
Ma come si debbono interpretare queste cose? Esistono
diverse maniere d'interpretazione, e queste richiedono condizioni
differenti. Così c'è il semplice capire da parte dell'intelletto. Quando
si tratta per esempio d'un problema di matematica o di scienza esatta,
allora esamino che cosa sia presupposto, che cosa ne consegua, e giungo al
risultato: «E così». Qui il capire dipende da che io affronti la cosa
per il giusto verso, pensi chiaramente e non smetta prima d'averne
compenetrate le connessioni.
Un'altra maniera di comprendere si rivolge alla forma ed
essenza di qualcosa che esiste. Che cosa è questo, un albero? Questa cosa
qui, che sotto scende nella terra e sopra s'estende nello spazio; che se
ne sta silenzioso eppur vive, che è tanto possente e tanto misterioso?
Forse sto a lambiccarmi il cervello a lungo su questa cosa, ma d'un tratto
si dischiude e capisco «l'albero». Ciò ch'io allora comprendo deriva
dal-l'esser io colpito dall'essenza della cosa, dall'apparire chiaro del
suo senso, e fa sì che i dati di fatto empiricamente constatabili e
razionalmente comprensibili trovino la loro giusta valutazione.
Una terza forma si riferisce ad un uomo, sia della storia
sia del mio ambiente. Di lui forse non mi sono mai particolarmente reso
conto; o non l'ho compreso. Poi però ha avuto luogo un incontro, e m'è
entrato nello sguardo. C'era una simpatia, un guardarsi faccia a faccia, e
in ciò s'è dischiuso il sapere: «così sei tu dunque! Questo sei tu!».
Ma come è nel caso del proprio io?
Si dovrebbe pensare che qui le cose dovrebbero
27
esser le più semplici, poiché con esso abbiamo
costantemente a che fare. Non dobbiamo recarci in viaggio da qualche
parte, poiché è sempre qui. Non dobbiamo andare a estrarlo da qualche
nascondiglio, poiché è visibile allo sguardo intcriore. Non abbiamo
nemmeno bisogno d'allungare lo sguardo, perché siamo noi ciò che
vogliamo vedere.
Ma forse consiste proprio in questo il maggior ostacolo. E
proprio cosi: le persone con cui abbiamo quotidianamente a che fare ci
fanno meno impressione rispetto a qualcuno che incontriamo all'improvviso.
La vicinanza quotidiana è un velo che cela il peculiare. E quando non si
tratta più di persone con cui siamo insieme, ma il soggetto in questione
sono io stesso? Allora questa è distanza maggiore che se io dovessi
percorrere lunghe vie.
C'è un libro del filosofo Keyserling, nel quale egli
narra come ha fatto il giro del mondo per imparare a conoscere se stesso.
A dir il vero se s'è letto il libro ci si domanda s'egli ci sia riuscito,
riuscito meglio del povero Kim, che si sedette accanto ad un muro dicendo
dentro di sé: «io - Kim», e pensando che avrebbe raggiunto se stesso,
ma alla fine tutto era inutile ... C'è tuttavia un'altra descrizione
ancora, una molto celebre, di come uno cerchi di raggiungere la cosa più
vicina, e cioè se stesso, per la via più lontana:
la «Divina Commedia»6 di Dante. Ivi il
viaggio va dalla terra attraverso l'inferno con tutte le sue profondità,
attraverso il purgatorio passando per tutti i suoi gradini, ascendendo
attraverso le sfere celesti sino all'estasi ultima della visione di Dio.
Al termine però si
6. Cfr. R. Guardini,
Studi su Dante, Morcelliana, Brescia 19863.
28
legge come al viaggiatore viene rivelato il mistero di
Cristo, attraverso il quale la nostra essenza umana viene accolta
nell'esistenza del Figlio di Dio. Egli allora non solo comprende ciò che
sta al di là d'ogni realtà terrena, bensì anche se stesso. Dopo aver
conosciuto chi è Cristo, egli sa anche chi è Dante, e a questo punto
veramente tutto è a posto.
Questo è molto profondo, ma anche, se ci si riflette
correttamente, davvero ovvio.
Chi io sia lo comprendo solamente in ciò che sta al di
sopra di me. Anzi: in Colui che m'ha dato a me stesso. L'uomo non può
comprender sé a partire da se stesso. Agl'interrogativi dove compaiono la
parola «perché» e la parola «io»: perché io sono come sono? perché
posso aver solo ciò che ho, perché semplicemente sono anziché non
essere?, non si può dar risposta prendendo le mosse dall'uomo. Risposta
ad essi la da Dio solo.
E qui certo ci si fa vicino il significato dello Spirito
Santo, del quale è detto ch'è «lo Spirito della verità», che
«introduce a tutta la verità»; e poi che è lo Spirito d'amore. Esso
può insegnarmi a comprendere quella verità che nessuno può insegnarmi,
cioè quella di me stesso.
Ma come può farlo? Non mediante scienza, ne filosofìa,
bensì attraverso un prendere coscienza. Egli è l'interiorità di Dio.
Nello Spirito Santo Dio è Padre. Nello Spirito Santo Egli è Figlio.
Forse si può dire addirittura: nello Spirito Santo Dio è Dio. In Lui è
consapevole di se stesso, unanime con se stesso, beato di se stesso.
Questo Spirito può anche far sì che io prenda coscienza
di me. Ch'io misuri la distanza, sottilissima e
29
pur tanto profondamente separatrice, che sta tra me e
me-stesso; che io giunga alla pace con me. Perché è chiaro che in me non
c'è pace. Tutti quegli interrogativi, che contengono «perché» e
«io», sono espressione d'un profondo dissidio intcriore. Io sono in
disaccordo con me stesso; pertanto non so nulla su di me. I primi uomini
non accettarono se stessi nell'ora in cui furono messi alla prova, vollero
invece essere ciò che eternamente non potevano essere. Non vollero esser
immagine ma archetipo; non creati e dati da Dio, ma di essi stessi. Però
l'effetto fu che entrarono in disaccordo con la loro essenza, perdendo
attraverso ciò la conoscenza di se stessi. Il loro essere dimenticò il
proprio nome. D'allora in poi il nome e l'essere andarono l'uno in cerca
dell'altro senza più trovarsi. Nello Spirito Santo Cristo ha compiuto la
redenzione, la riconciliazione, la pace; con Dio, e in Dio con il proprio
sé. Lo Spirito Santo compie la redenzione nel credente. In essa Egli fa
sì che questi si accetti nella volontà di Dio, completamente, e così
diventi chiaro a se stesso. Queste due cose formano un tutt'uno, anzi sono
la stessa cosa. È davvero possibile esser a conoscenza di sé solo se ci
s'accetta davvero; e ci si può accettare davvero solo se si conosce
limpidamente se stessi. L'una cosa presuppone l'altra.
Quest'unità è amore. C'è sapere solo dove c'è amore.
Dell'uomo non c'è alcuna conoscenza fredda. Ne alcuna conoscenza nella
violenza. Bensì solo in quella magnanimità e libertà che si chiama
amore. Ma l'amore ha inizio in Dio: nel fatto ch'Egli mi ama e che io
divengo capace d'amarlo; e che Gli sono grato per il suo primo dono che
m'ha fatto, ossia: me stesso.
30
Excursus
Con quanto detto alle pagine 19-20 del testo tocchiamo una
miseria profonda e funesta della nostra cultura religiosa: intendendo la
parola nel suo senso più lato, quale pienezza di contenuto e quale forma
plasmata dell'esperienza, della conoscenza, del cuore, della lingua. Ossia
essa consiste nell'insufficienza della nostra idea di Dio.
Non appena si domanda a qualcuno: che cosa ti viene in
mente quando pensi a Dio? quale contenuto ha la parola «Dio» quando
l'adoperi nella preghiera o in un discorso serio?, allora di regola quegli
risponderà citando alcuni «attributi» di Dio. Dirà che Dio è
onnipotente, onnisciente, onnipresente, eterno; forse anche che è santo;
al massimo, che Egli è amorevole e vicino. Ma tutto finirà lì. In
verità il contenuto dell'idea di Dio dovrebbe essere inesauribile, e ciò
sarebbe anche possibile, se la formazione cristiana facesse quel che deve
fare. Esistono due direttrici per arrivare a dischiuderci il significato
della parola «Dio».
Una è la Sacra Scrittura. Qui però non conterebbe
enuclearne proposizioni che dicono qualcosa su Dio;
per esempio, ch'Egli è giusto e punisce il peccato;
ch'Egli è buono e si prende a cuore la miseria umana, e
simili. Piuttosto si tratterebbe d'interrogare in riferimento a Lui i
concreti eventi di racconti biblici. Per esempio: quando Saul fu eletto
rè, la cosa andò in questo e quel modo; egli s'è comportato in questa e
quella maniera; su ciò Dio ha dato questo e quel giudizio. Dunque: Dio è
Colui il quale agisce così. Da ciò la domanda: allora Egli chi è, e
come è? ... O l'eccezionale destino del profeta Elia, qual è narrato nei
li-
31
bri dei Rè, sino alla visione sull'Oreb. Dunque: Dio è
Colui che si manifesta così. Da ciò la domanda: allora chi è Lui?
com'è allora questo Dio?
Attraverso un'interpretazione di questo tipo da ogni
evento biblico sarebbe gettata luce su che cosa sia Dio. Il risultato
conterrebbe naturalmente i concetti tipici della teologia. Ma non si
fermerebbe a quelli, bensì entrerebbe nel concreto. Perché Dio è
concreto, si rivela nel concreto. La Rivelazione non è una dottrina
astratta, bensì un accadimento vivente e un annunzio attraverso tale
accadimento. In ogni suo luogo dunque si può dire: Dio è Colui che fa
così, o che ha questi sentimenti, come Egli vi si mostra.
Da ciò verrebbe un arricchimento delle asserzioni su Dio;
una differenziazione e uno sviluppo dei concetti già familiari. Ma allora
s'evolverebbe la intcriore «conoscenza di Dio»; la conoscenza di ciò
ch'Egli è, l'Unico, Irripetibile in etemo, Incatturabile in qualsia-si
definizione. Su questo non si potrebbe dir molto con concetti; tutt'al
più con un'immagine che accenna o con un racconto che dischiude. Ma
sarebbe pieno di vita; una conoscenza intcriore, quale l'acquisisce una
persona nel frequentare l'amico, quando essa vede che cosa questi faccia,
come si comporti, come egli sia.
Una seconda direttrice potrebbe essere la vita personale
di ciascuno. Quanto povera sia la nostra cultura religiosa può farcisi
spaventosamente chiaro se rinettiamo quanto poco siamo esercitati a
comprendere Dio partendo dalla nostra stessa vita, ovvero questa vita
prendendo le mosse dalla sua guida. L'esistenza cristiana dovrebbe pur
significare che siamo sorretti non soltanto da convinzione teorica, bensì
32
dalla viva coscienza che Egli guida la nostra vita. Ma
allora ogni evento conterrebbe un'automanifestazione di Dio e proprio in
tal modo una conoscenza di noi stessi. Fondandoci su questo potremmo dire:
sono nato in questo e questo modo, la mia vita ha questo determinato
corso. E allora: dunque Dio è così, come occorre che sia, se devono
esser possibili realtà quali io e questo mio esistere. Da ciò sorge
l'interrogativo: allora Egli chi e come è? ... Questa domanda richiede
ovviamente grande cautela, vigile onestà, sincera umiltà e il sentimento
d'autentico pentimento. Infatti devo conservare la consapevolezza di quel
fattore che continuamente s'immischia operando confusione e nascondendo la
Provvidenza di Dio, ossia il mio male. Tuttavia l'interrogativo è esatto
e richiesto, poiché in esso si compie la comprensione di Dio dall'autocomprensione
dell'uomo e viceversa.
33
CAPITOLO SECONDO
CONOSCE L'UOMO SOLO CHI HA CONOSCENZA DI DIO
1. L'uomo alla luce della Rivelazione
Mi son assunto l'incarico di dire qualche cosa intorno
all'immagine dell'uomo quale essa ci viene presentata dalla Rivelazione.
Vorrei porre all'inizio di queste riflessioni
un'interrogativo che forse vi sorprenderà, ma che continuamente mi
s'impone: e cioè se esista, o no, un'«immagine» dell'uomo, intendendo
con questo termine non già l'idea propria d'un'epoca storica o gruppo
sociale o d'una determinata professione, bensì quella dell'uomo stesso e
di per se stesso.
Sembra che non esista un'immagine così intesa, perché la
determinazione decisiva dell'uomo - dovremo ritornare più precisamente su
questo argomento - è quella dell'essere «a immagine di Dio». Di Dio
però non esiste «immagine».
E vero che si continua a parlare dell'immagine di Dio», e
con ciò si dicono certo cose esatte; ciò vale però solo se con questo
s'intendono determinate circostanze nelle quali Egli si manifesta o viene
pensato. Come quando parliamo dell'idea che di Dio si faceva il
cristianesimo antico, a differenza di quella dell'alto medioevo, o ancora
di quella del diciottesimo secolo.
35
Ma di Dio stesso non esiste immagine, poiché Egli
trascende qualsiasi possibilità d'una tale immagine. E sarebbe bene anche
a questo proposito riflettere sul primo comandamento, il quale vieta di
farsi di Lui un'immagine scolpita». Infatti non solo un'immagine prodotta
dall'arte ma anche una tracciata dai pensieri può limitare la Sua sovrana
grandezza o addirittura asservirla a qualche finalità intellettuale,
artistica o politica.
Se ora ci vien detto che l'uomo è «a immagine di Dio»,
allora questo ci suggerisce l'idea che con ciò si voglia anche
significare un riflesso della capacità di trascendere che Dio ha rispetto
a immagini e concetti. Entro i confini che gli traccia la finitezza anche
l'uomo è universale. Così il concetto d'immagine dell'uomo è esatto
solo fino ad un limite che non è affatto molto lontano.
Ammettiamo tuttavia questo concetto, e usiamolo quale
mezzo per rispondere a quest'interrogativo: co-m'è visto l'uomo dalla
Rivelazione?
Per entrare subito nell'intera tensione dell'interrogativo
vogliamo osservare alcune immagini caratteristiche che dell'uomo s'è
fatta l'età moderna.
Esiste l'immagine dell'uomo propria del materialismo,
sorta mentre si preparava la rivoluzione francese, sviluppatasi nel
diciannovesimo secolo e che oggi caratterizza il pensiero totalitario:
ciò ch'esiste secondo tale visione è soltanto la materia, ovvero
l'energia. Essa esisteva da sempre. A causa delle leggi della sua essenza
s'è messa in moto e dalla sostanza morta s'è formata la vita organica,
dalla vita organica quella psichica, e da quest'ultima quella spirituale.
Se fosse possibile spingersi fino alle ultime conseguenze, allo-
36
ra si potrebbe far derivare tutto dalle proprietà della
materia, così come il chimico fa originare un composto dai suoi elementi
e dalle condizioni dell'esperimento. Per il materialismo l'uomo non è che
una sostanza ad elevato grado di complessità.
A quest'immagine se ne contrappone un'altra, quella
idealistica, quale hanno sviluppata i grandi sistemi del tardo
diciottesimo e del diciannovesimo secolo.
Secondo quest'altra visione la realtà prima e autentica
è lo spirito, e precisamente quello assoluto, lo spirito universale.
All'inizio esso è vincolato e muto, ma vuoi divenir padrone di se stesso,
e così genera la materia. Avendo a che fare con questa da forma al mondo,
per giungere infine nell'uomo alla coscienza di se stesso. L'affermarsi
dello spirito eterno nell'uomo ne costituisce l'essenza e in ciò egli
trova il proprio senso.
Dalla conoscenza delle connessioni sociali è sorta
l'immagine sociologistica, pensata compiutamente dal comunismo. Essa dice:
di per sé il singolo non è nulla; è qualcosa solo a partire
dall'intero. Un pensiero, un'invenzione, un'opera, qualunque cosa esista
come relazione o realizzazione, acquista senso solamente quando la
comprendiamo a partire dalla struttura sociale. Quello che è realmente
esistente è la società; l'uomo singolo come pure la sua opera risultano
da quella. Così l'uomo è prodotto e organo della vita sociale,
altrimenti non è nulla.
A questa concezione s'oppone quella dell'individualismo:
veramente uomo secondo questa è solo il singolo; nella pluralità
scompare l'essenziale. Solo da singolo l'uomo ha coscienza e creatività;
solo come
37
tale ha responsabilità e dignità. Non appena vi siano i
molti, sorge la massa, che può soltanto esser oggetto:
materia per progetti e azioni del singolo.
Il determinismo vede compiersi ogni cosa secondo una
costrizione immutabile: in ogni luogo le cose vanno come sono costrette ad
andare. In ogni singolo processo s'esprime l'intero corso del mondo. La
libertà è un'illusione: è solo un modo particolare in cui le leggi del
mondo, che dominano ogni cosa, si fanno valere nell'uomo. Così anche
l'uomo stesso è un prodotto che sorge da necessità; e la sua vita è un
processo che si compie nella costrizione delle leggi universali.
L'esistenzialismo invece vede l'uomo perfettamente libero:
secondo questa concezione non esistono ordini che determinino la vita
dell'uomo; ma proprio per questo non ve n'è alcuno neppure su cui possa
appoggiarsi. Senza costrizione, ma anche senza punto d'appoggio, come
atomo di possibilità, egli è scagliato nel vuoto.
In ogni momento egli decide sul proprio agire con una
libertà sovrana, o per meglio dire inquietante. Egli si conferisce il
proprio senso da sé, anzi, egli determina il suo proprio essere. Così
nella misura in cui osa farlo, egli diviene uomo.
Qui abbiamo disegnato, semplificando all'estremo, sei
immagini. Una dice che l'uomo è materia, fin entro il suo nucleo, e
l'altra che è una forma dello spirito assoluto. Di nuovo una dice che
l'uomo non è altro che un momento nella totalità sociale, e l'altra che
è uomo solo se consiste in se stesso come ente personale. E ancora: da
una parte l'uomo è assorbito interamente dalla necessità delle leggi
universali, e
38
dall'altra: è assolutamente libero e padrone di se stesso
...
Le immagini che abbiamo tracciato costituiscono solo una
parte di quelle che sono apparse nella storia dell'autocomprensione umana;
ve ne sono ancora altre. Tuttavia quelle sei paiono essere sufficienti per
porre la domanda che sorge in noi di fronte a tale storia: di queste
immagini sempre l'una contraddice l'altra: come può essere? L'uomo non è
certo qualcosa che stia in un'area dell'universo irraggiungibilmente
lontana nello spazio o nel tempo. Egli è qui, semplicemente. È
addirittura il Vicino per eccellenza, ossia noi stessi. Come può sorgere
tale enormità di contraddizioni in ciò che si asserisce su di lui? E non
in ignoranti o incolti, bensì negli spiriti più forti; non in incerti
almanaccatori, ma in persone che si scambiano le proprie vedute e possono
aiutarsi reciprocamente nel cercare il vero?
Se è possibile che ciò che ciascuno di noi conosce per
più diretta esperienza, perché lo è egli stesso, perché lo sono padre,
madre, coniuge, figlio, amico, collega, se è possibile che ciò sia
giudicato in tale maniera, allora deve trattarsi di qualche cosa
d'eccezionale.
Il biologo Alexis Carrel scrisse un libro: L'uomo
questo sconosciuto. Il titolo suona un po' sensazionale, ma esprime
qualcosa che forse già ciascuno una volta ha pensato. Sembra
effettivamente che sia così: noi non sappiamo chi sia l'uomo - e quale
importanza avrebbe il fatto che non sappiamo chi siamo noi stessi! Com'è
possibile questo? La ragione non può stare solo nella difficoltà dei
problemi. Questi sono certo difficili a sufficienza, e talvolta si ha
l'impressione che
39
non se ne possa venire a capo. Ma già questo soltanto
causerebbe solo una ricerca instancabile; un avanzare graduale: pensiamo
per esempio alla strada che la fisica ha percorso nell'investigazione
della materia.
Dapprima c'era l'antica dottrina degli elementi;
poi si scoprirono gli atomi quale punto di materia privo
di qualità e struttura; e da lì si giunse al concetto moderno
dell'atomo, il quale rappresenta un intero mondo di relazioni e processi,
e chissà che cosa ancora si troverà. Qui abbiamo certo una sequenza di
tentativi e abbandoni; una molteplicità di ipotesi e teorie, ma tutto è
attraversato da una linea unitaria. Solo non molto tempo fa uno dei nostri
fisici, C.Fr. von Weizsàcker, ha sottolineato che è sbagliato dire che
la fisica atomica più recente capovolga i risultati di quella classica
che l'ha preceduta; piuttosto diciamo che essa li inserisce in
correlazioni più ampie. Ma se noi osserviamo da questo punto di vista le
risposte all'interrogativo circa l'essenza dell'uomo, vediamo in esse
tutt'altra immagine: non ogni volta il superamento d'una teoria inadeguata
ad opera d'una migliore, bensì contraddizioni inconciliabili; non una
linea, dalla quale sporgano vari gradini della ricerca, bensì una
confusione disperata.
Di più: ciò che qui si contrappone non sono solo
opinioni differenti, bensì princìpi totalmente diversi. La discussione
teorica è in realtà una battaglia, e vediamo come questa battaglia viene
condotta: per la vita e la morte, e lungo fronti, che corrono attraverso
il mondo intero. Questo dovrebbe aprirci gli occhi.
Che forse sia che la giusta conoscenza dell'uomo dipenda
da particolari condizioni? In ogni campo è così: la conoscenza d'un
oggetto richiede le sue con-
40
dizioni. Pensiamo ad esempio a owietà come queste:
non posso vedere un oggetto se manca la luce ... o non
noto qualcosa che ho davanti agli occhi perché la mia attenzione non è
rivolta ad essa ... anzi persino la cerco ma non la trovo, perché un
motivo qualsiasi nel mio inconscio vuole ch'essa non ci sia - in una
parola: pensiamo a tutto ciò che chiamiamo i presupposti concreti del
conoscere ... Non potrebbe dunque essere che la conoscenza dell'uomo si
raggiunga solo quando sono adempiute determinate condizioni?
E se è così - di che specie sono allora queste
condizioni? Il pensiero moderno interpreta l'uomo come un essere che si
sviluppa dalla propria natura, entra in relazione col mondo, vi crea la
propria opera; e poi, forse, ammette dietro la realtà immediata mondana
anche uno sfondo metafisico. Quest'ultimo però non è necessario. Se ciò
avvenga, e in che modo, è fatto soggettivo; questione d'esperienza e di
bisogno. E se accade, allora influenzerà l'atteggiamento e la vita
dell'interessato; ma non diversamente per esempio dal modo in cui questi
padroneggia un qualsiasi destino o da forma all'amore verso una persona.
La sua essenza come tale non ne viene toccata.
Ma è vero ciò? La relazione con Dio non ha piuttosto un
carattere speciale, a differenza da ogni altra relazione possibile?
Costituisce forse la sua giusta realizzazione appunto quel presupposto che
stiamo cercando, e dal quale dipende quanto l'uomo comprenda se stesso,
perché esso è intemo all'essenza dell'uomo? Non è da cercarsi qui la
ragione del sorprendente fatto che l'uomo moderno, con un'immenso
spiegamento di metodi e strumenti, scoperte, esperimenti e teorie, ponga
la domanda circa che co-
41
sa sia ciò ch'è dinnanzi ai suoi occhi, ossia egli
stesso, e quale risultato ne venga fuori un guazzabuglio di
contraddizioni?
Nel primo libro della Sacra Scrittura, Genesi, si
dice: «E Dio disse: 'Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra
somiglianzà, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul
bestiame, su tutte le bestie selvatiche, e su tutti i rettili che
strisciano sulla terra'. Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di
Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (1, 26-27). Secondo queste
parole l'uomo è ad immagine di Dio.
Questo vien detto prima di qualsiasi ulteriore asserzione
altrove fatta sull'uomo. Esso costituisce la determinazione fondamentale
della dottrina biblica sull'uomo ed è contenuto in ogni asserzione che
sia espressa sull'uomo in qualsiasi luogo.
Che significa questo? Un essere finito può essere simile
a Dio?
È evidente che qui si tratta di cosa misteriosa; infatti
proprio in questo punto s'inizia poi la tentazione. E questa ottiene che
nell'uomo la volontà d'essere a immagine di Dio si capovolga in quella
d'essergli uguale. Che significa allora quest'essere a immagine di Dio?
Una cosa può essere l'imitazione d'un'altra. Come quando
uno dice ad un artigiano di fargli un tavolo della stessa forma di quello
che lui gli mostra. Questa sarebbe una somiglianzà semplice, una copia.
Esistono però anche modalità più vive. Così per esempio si può dire
che un figlio è l'immagine dei suoi genitori. Allora questi ha qualità
che hanno anche i genitori;
in lui però esse si sono tradotte entrando a far parte
della sua personalità ... Che dire ora circa la somiglianzà con Dio?
42
Dio è assoluto, è essere tout court, è essenza,
vita, verità, beatitudine. Egli è in un modo che trascende ogni pensiero
e parola. Come può l'uomo, che è creato e quindi finito, essere immagine
di questa realtà immensa?
E purtuttavia è così, poiché lo dice Dio. Egli dice
persino che in quest'essere a sua immagine consiste l'essenza dell'uomo.
D'immagine nel senso di copia qui non si può parlare,
perché non esiste copia di Dio. Già ci avviciniamo se partiamo da quanto
abbiamo visto circa il rapporto tra genitori e figlio. Qui non si tratta
d'una copia, bensì d'una traduzione. I tratti essenziali dei genitori si
traducono nel carattere del figlio; così che questi rinascano come propri
del figlio, della sua personalità.
Possiamo forse andar più avanti mediante la riflessione
che segue: se noi guardiamo il volto d'una persona, vi vediamo che cosa
avvenga nella sua anima: rispetto, affetto, odio, paura. Di per sé non si
può vedere l'anima, poiché essa è ovviamente spirito. Essa però si
traduce nel corpo, divenendovi visibile. Il corpo dell'uomo: la figura, il
volto, l'espressione, il gesto, è la manifestazione della realtà
dell'anima; ciò significa però, che esso, pur con tutte la sue
differenza rispetto dall'anima, le è simile.
Su questa linea potremmo proseguire; ma sembra che siamo
già abbastanza vicini a quello che qui vogliamo intendere.
All'Inconcepibile, che tuttavia stabilisce la nostra essenza; a Quello
dobbiamo avvicinarci con timore, ma anche con fiducia: e cioè che Dio, se
è lecito dire così, traduce nella finitezza e fragilità della sua
creatura l'infinita pienezza e perfetta semplicità dell'immagine della
propria essenza.
43
Se è così, allora ciò significa però anche che
quest'essere a immagine di Dio pervade l'intero essere dell'uomo. Che esso
è qualcosa d'altrettanto preciso quanto misterioso: la forma fondamentale
nella quale esiste l'umano; il concetto-base, a partire dal quale soltanto
questo può essere compreso.
Al riguardo Agostino trova, all'inizio delle sue Confessioni,
l'espressione per sempre valida, quando dice: «Ci hai fatti per tè, o
Dio». Quest'affermazione non è intesa in senso entusiastico o
edificante, bensì in senso preciso. Dio ha posto l'uomo in una relazione
con sé, senza la quale quest'ultimo non può essere ne può venire
compreso. L'uomo ha un senso; questo però sta sopra di lui, in Dio. Non
si può comprendere l'uomo come figura chiusa che consista e viva in se
stesso, bensì egli esiste nella forma d'una relazione: a partire da Dio,
in vista di Dio. Questa relazione non è soltanto qualcosa che s'aggiunga
secondariamente alla sua essenza, come se questa potesse essere anche
prescindendovi, bensì l'essenza ha in tale relazione il suo fondamento.
L'uomo può porsi variamente in relazione con un proprio
simile: conoscenza, amicizia, aiuto o danno e così via. In tali relazioni
si dispiega la sua essenza, ma questa non consiste in esse. Egli resta
uomo anche se non conosce questa o quell'altra persona, o non l'aiuta.
Invece la relazione della quale stiamo parlando è d'altra natura. Un
ponte è l'arco, che il costruttore edifica da una sponda del fiume
all'altra. Non posso dire: il ponte può poggiare sull'altra riva, o anche
non farlo e restare pur sempre ponte. Questo sarebbe assurdo, poiché esso
è «ponte» soltanto nel suo innalzarsi da questa riva e poggiare su
quella di fronte.
44
Così possiamo in certo qual modo capire di che cosa qui
si tratti. L'uomo è uomo solo nella relazione con Dio. Il suo esser «da
Dio» e «per Dio» fonda la sua essenza.
Questo appare ancora più chiaro se consideriamo bene ciò
che differenzia l'uomo da tutte le altre creature terrestri: il suo essere
persona. Il fatto che l'uomo sia persona significa: egli ha un posto
proprio ove stare; è in grado d'agire per propria energia iniziale; e di
disporre di sé e delle cose. Alla domanda: chi ha fatto questo?, può e
deve dire: io, ed assumersene la responsabilità. Tale Dio l'ha creato. Ma
ciò non è avvenuto nel senso ch'Egli abbia plasmato l'uomo e l'abbia
posto in se stesso, bensì è successa una cosa di tutt'altra qualità:
Dio ha fatto dell'uomo il suo «tu» e gli ha dato la possibilità d'avere
a sua volta in Dio il suo «tu», quello vero. In questo rapporto tra un
io e un tu consiste la sua essenza. E solo per la ragione che Dio lo ha
fondato nella relazione io-tu con Sé che l'uomo può entrare in relazione
personale anche con altri uomini. Dire ad un altro: ti vedo ... t'onoro,
gli è possibile soltanto perché Dio gli ha concesso di dire a Lui, al
Signore: «Tu sei il mio creatore ... io Ti adoro».
Nella Rivelazione, decisiva per tutto quanto sarebbe
seguito, sul monte Oreb (Es 3) Dio appare a Mosè nel roveto ardente. Come
quest'ultimo chiede il Suo nome, Dio risponde: «Io sono colui che sono».
La frase è d'una profondità inesauribile. Egli dice: «Sono Colui che è
qui nella potenza e che agirà». Più in profondità: «Sono Colui che
non si fa dare alcun nome dal mondo, bensì posso venir nominato solo per
Mia iniziativa». Ancora più in profondità: «Sono Colui il quale
soltanto ha per essenza capacità e autorità di
45
dire: Io». In senso proprio solo Dio è «Io»,
Egli-stes-so. Quando noi diciamo «egli», possiamo intendere un uomo
qualsiasi; ma se lo pronunziamo assolutamente, dal profondo dello Spirito,
allora intendiamo Dio. Quando diciamo «Tu», possiamo in tal modo
rivolgerci ad un uomo; ma se lo pronunziarne assolutamente, con l'intero
nostro essere, volti all'aperto, allora noi chiamiamo Dio ... E questo Dio
che chiama l'uomo. E non solo nel senso che l'uomo già sia ed Egli
rivolga ora a lui la parola affinchè questi sappia o faccia qualcosa;
bensì Dio, chiamando l'uomo, lo fonda nell'essere, e in tal modo l'uomo
diviene persona. L'uomo ha consistenza nell'esser chiamato da Dio, e solo
così. Prescindendovi semplicemente egli non esiste. Se si potesse
staccare l'uomo da quest'essere chiamato, allora egli diverrebbe un
fantasma - no, diverrebbe nulla. E il tentativo di pensarlo lo stesso
sarebbe assurdità e ribellione.
Così l'uomo può essere compreso solo a partire da questo
dato. Non appena si cerca di farlo a partire da un altro luogo lo si
perde. Allora s'adopera certo ancora il termine «uomo», ma la sua
realtà non c'è più.
Nel mondo moderno si mostra una cosa singolare, che deve
sbigottire chiunque sia capace di vedere le cose essenziali. L'uomo - per
meglio dire, molti uomini, quelli che determinano il clima spirituale, si
staccano da Dio. Si dichiarano autonomi, ossia dotati di capacità e
autorità di darsi da se stessi la legge della propria vita.
Conscguentemente ciò significa anche la pretesa di potersi comprendere a
partire da se stessi. Quest'atteggiamento tende sempre più decisamente a
porre l'uomo come assoluto. Un filosofo della morale del nostro tempo ha
detto che l'uomo sareb-
46
be arrivato al punto di potere ora assumere su di sé le
qualità che finora, poiché non ancora maggiorenne, avrebbe trasferito in
un Dio. Onniscienza, onnipotenza, provvidenza e dirczione del destino
dovrebbero ora divenire qualità umane. Egli sarebbe maturo e in grado di
decidere ciò ch'è bene e ciò ch'è male;
ciò che deve volersi e ciò che non deve volersi.
Accanto a questa linea ne corre però anche un'altra. In
essa viene detto che l'uomo è un essere vivente come tutti gli altri. La
sua spiritualità risulterebbe dalla sfera biologica, e questa dalla
materia. In ultima analisi l'uomo non sarebbe altro che l'animale, solo ad
un livello di sviluppo superiore; un animale nien-t'altro che oggetto
materiale, solo con una struttura più complessa. Così l'uomo si dissolve
nella muta materialità.
Ciò non è rivelatore? Che entrambe queste risposte,
delle quali l'una elimina l'altra, vengano date nello stesso tempo e a
partire dalle stesse radici? Le due linee mostrano come l'uomo fraintenda
se stesso quand'abbandona il suo orientamento a Dio, il quale orientamento
fonda il suo essere. Sentite ora la serie delle contraddizioni che
seguono: l'uomo sperimenta la pienezza di potenza e significato del
conoscere e del creare. Egli si domanda come ciò vada interpretato, e
risponde: il mio spirito è lo spirito assoluto. Nel mio centro sono
identico a Dio. Anzi, sono io stesso ciò che prima, nella debolezza della
minorità, chiamavo «Dio» ... Ma lo stesso uomo dice anche: lo spirito
semplicemente non esiste. Ciò che si chiama spirito è un prodotto del
cervello; ma il cervello è un'articolazione superiore di ciò che già è
la morta materia.
E ancora: l'uomo diviene cosciente della potenza
47
della sua iniziativa, della propria energia iniziale: che
egli non è solo un passaggio delle catene di cause ed effetti che
attraversano il mondo, bensì ch'è capace di fare iniziare in se stesso
catene d'effetti. Così egli si domanda che cosa ciò significhi, e
risponde: libertà, assoluta, creativa, che produce le idee e le norme,
anzi il mondo stesso ... Il medesimo uomo dice però anche: parlare di
libertà è assurdo.
In verità esistono solo necessità. Nella sfera materiale
queste si chiamano «legge della natura»; in quella psichica
«pulsione»; in quella morale «movente» -tré nomi per indicare la
stessa cosa.
E ancora: l'uomo ha la consapevolezza, che da gioia, di
non essere soltanto un esemplare del proprio genere, bensì d'esistere in
sé come realtà unica, come lui-stesso. Così si domanda che cosa egli
sia, e la risposta suona: una persona, posta interamente su se stessa;
senza ordini che lo sorreggano ne norme che lo vincolino;
scagliato in qualche luogo, lasciato al destino, grandioso quanto
terribile, di dover decidere in ogni momento il proprio agire, anzi il
proprio essere ... Mentre l'altra risposta dice: l'opinione che l'uomo sia
persona è un'illusione. In realtà egli è solo un elemento
nell'universo; una cosa tra le altre cose; una cellula nello Stato. Di per
se stesso non ha alcun senso. Collocare la propria base in se stessi è
semplicemente delitto, sabotaggio. Egli deve venire assorbito nell'intero,
ed esser d'accordo a che vi venga sacrificato.
Così si potrebbe dire ancora molto, ma ben vediamo come
qui, attraverso sempre nuove variazioni, si compia sempre lo stesso
fenomeno: l'uomo fraintende se stesso cadendo in inesauribile errore. Ma
com'è possibile questo?
48
Abbandonato Dio, l'uomo s'è fatto incomprensibile a se
stesso. I suoi innumerevoli tentativi d'interpretare se stesso giocano
continuamente tra i due poli:
porsi come assoluto o rinunciare a se stesso; avanzare la
più alta rivendicazione di dignità e responsabilità, o esporsi ad
un'onta, che è tanto più profonda in quanto non viene più nemmeno
percepita.
Tanto l'uomo sa chi egli sia, quanto egli si comprende a
partire da Dio. Tuttavia per far questo egli deve sapere chi è Dio; e
può farlo solo accettando la Sua autotestimonianza.
Se egli si ribella a Dio, Lo pensa in modo errato, e
allora perde la conoscenza della propria stessa essenza. Questa è la
legge basilare di qualsiasi conoscenza dell'uomo. La prima ribellione a
Dio avvenne nel peccato originale. Fu commessa al principio, ed è per noi
enigma impenetrabile come ciò fosse potuto accadere. Da allora però
l'intera storia umana è sottoposta alle sue ripercussioni. Con questa
dottrina la Rivelazione si pone in contrasto di principio con ogni
naturalismo e ottimismo. Essa ci dice che l'uomo reale, la sua storia come
la sua opera, non hanno nulla a che fare con le concezioni moderne secondo
la quale egli, con un progresso sicuro, giungerebbe ad uno sviluppo sempre
più ricco di se stesso. Un uomo siffatto non esiste.
Il peccato originale consistette nel fatto che l'uomo non
volle più essere a immagine di Dio, bensì essere egli stesso archetipo:
sciente e potente come Dio. Così decadde dalla relazione con Dio. Il
ponte dava sul vuoto. La figura rovinava su se stessa, e nasceva l'uomo
perduto.
Di lunghi tratti della sua vita nel buio della perdi-
49
zione non sappiamo nulla. Forse un tempo saremo in grado
d'ascoltare che cosa dice su ciò l'arte dei tempi più antichi; forse
impareremo anche a interrogare al riguardo i reperti della paleontologia.
Fino ad ora non è accaduto nulla di tutto ciò; bensì domanda e risposta
sono poste a priori sotto il dominio dell'idea d'evoluzione, secondo la
quale ogni stadio più antico è sulla via che conduce ad uno superiore.
In verità quel buio non fu la fase precedente il passaggio alla chiarezza
della cultura, bensì il torpido turbamento dopo la caduta.
In questo stato l'uomo non sapeva più chi egli fosse, ne
in che consistesse il senso della propria vita. Nel mondo nordico si narra
la fiaba degli uomini ai quali il troll* ha colpito il cuore.
D'allora in poi essi più non sanno chi siano. Vanno alla ricerca di se
stessi e non si trovano. Questa è una parabola che esprime quello che
vogliamo dire: gli uomini non sapevano più chi erano, ne donde venivano,
ne dove andavano.
E tale situazione è rimasta a lungo, nonostante tutta la
grandezza delle realizzazioni e tutta la magnificenza delle opere di cui
è colma la storia. Se s'esaminano le risposte che l'uomo da
all'interrogativo circa la propria essenza - e non solo alcune, bensì
tutte;
non solo quelle audaci, ma anche quelle disperate;
non solo quelle nobili, ma anche quelle vili - lo si vede:
egli non sa chi sia. Solo che s'è a tal punto abituato a tale non sapere,
che quest'ultimo gli sembra esse-
* Nelle credenze popolari scandinave, abitante demoniaco
di boschi, montagne, luoghi solitari. Nelle fiabe i troll hanno la
parte dell'«orco» di altre tradizioni popolari europee (n.d.r.).
50
rè normale; che lo confonde con la problematica della
natura la quale vien risolta passo per passo dalla scienza; ch'egli ne va
addirittura fiero.
Questa è la seconda determinazione, che l'uomo apprende
dalla Rivelazione. La prima suonava: l'uomo è a immagine di Dio. La
seconda: egli è insorto contro il riferimento al proprio archetipo, senza
tuttavia poterlo eliminare. Così egli è divenuto immagine stravolta. E
siffatto stravolgimento fa sentire i suoi effetti in tutto, nel modo in
cui si comprende, in ciò che fa, in ciò che è.
Poi ebbe luogo la Rivelazione e redenzione. Essa s'è
svolta sulla linea sottile della storia veterotestamentaria ed è giunta a
compimento in Cristo. Da questa è stato detto all'uomo chi egli sia,
dicendogli chi è Dio. Conoscenza di Dio e conoscenza dell'uomo tornarono
a costituire un intero, e l'immagine ricevette di nuovo il suo senso.
Anzi in Cristo ascese ad altezza inconcepibile, poiché in
Lui la figura umana divenne mezzo dell'epifania nel mondo del Figlio
eterno di Dio: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14, 9). E nella fede e
nel battesimo l'uomo diviene partecipe di questo mistero. Nasce l'uomo
nuovo, che è «conformato all'immagine del Figlio (di Dio)» (Rm 8, 29).
Da questo punto l'uomo di nuovo potè comprendere se
stesso. Egli era come uno che tornasse in sé dopo una lunga fase
d'assenza. Se osserviamo come l'uomo abbia pensato, contemplato, creato
forme, quali siano stati ordinamenti e sapienza nei primi quindici secoli
dopo Cristo, allora vediamo come in essi dappertutto l'uomo s'inoltri fino
alle proprie radici. Ascendendo verso l'altezza di Dio, egli incontra
51
la propria verità. Apprendendo l'intimità di Dio, prende
coscienza della propria profondità. Intuendo la gloria di Dio, egli
comprende il proprio anelito. La scienza attuale non è capace di leggere
l'arte di quel tempo. Su dati di fatto, correlazioni, forme, stili essa sa
dire infinite cose: l'essenziale non lo vede: e cioè l'incontro dell'uomo
con se stesso nell'incontro con Dio, che si tratti ora della stessa figura
umana, o dello spazio modellato dall'uomo in chiese, palazzi, case;
del destino dell'uomo nella poesia e nel dramma, o della
vita del suo cuore nella musica.
Questa è la terza determinazione, che la Rivelazione da
per l'essenza dell'uomo. Essa suona così: Cristo ha assunto su di sé ed
espiato la colpa. Egli ha reso visibile in Se stesso l'immagine santa, e
l'uomo può ritornare integro mediante la fede, l'amore e l'obbedienza.
Nel corso d'una storia che avrebbe dovuto essere una
storia di comprensione sempre più profonda e d'una vita qualificata da
tale comprensione, giunse invece di nuovo la caduta. Non solo questo o
quel singolo individuo, bensì molti tra coloro che hanno influenza e
responsabilità si sono distaccati dalla Rivelazione. Ha avuto luogo un
immenso, esplosivo sviluppo nel campo delle realizzazioni artistiche,
poetiche e scientifiche, della costruzione statale e del dominio
scientifico e tecnico del mondo. Però in tutto questo accadeva una cosa
terribile: senz'accorgersi che stesse accadendo, anzi pensando di giungere
solo ora alla verità autentica, l'uomo ha cominciato a dimenticare di
nuovo chi egli stesso sia.
L'uomo abbandonava il suo essere per Dio e s'interpretava
quale essere naturale e autosuffìciente, e la sua opera come creazione
sovrana. In tal modo però
52
egli perdeva di vista il proprio vero essere, e parimen-ti
il vero senso del suo agire.
Prendete l'odierna scienza dell'uomo, quale s'esprime
nella medicina, psicologia del profondo, sociologia, storia: ritrovate voi
stessi in quanto essa dice? Se togliete la suggestione che la circonda, se
riflettete sul vostro sapere più intimo, allora avete la sensazione che
voi siate quell'essere del quale in essa si parla? Non assistete allo
spettacolo che vede l'uomo parlare di sé con possente dispendio di fatti
e metodi, e al tempo stesso sfuggire a se stesso? Oppure prendete lo Stato
moderno, con le sue così gigantesche realizzazioni d'ordinamento e
amministrazione:
avete la coscienza che siete voi stessi l'essere che in
esso da le leggi e le esegue, che governa ed è governato? Non si tratta
piuttosto di un apparato in movimento, che però alla fine cerca
d'afferrare il vuoto? Non è che lì un essere viene preso, inserito in
ordinamenti, utilizzato, anche abusivamente, per determinati scopi,
favorito e distrutto; e che quest'essere viene chiamato «uomo», ma in
realtà non è affatto l'uomo vero, bensì un essere spettrale intermedio
tra un semidio e una formica?
Esiste il fenomeno patologico della amnesia; non di rado
esso è subentrato in connessione con la guerra. Un uomo è vivo, fa
questo e quello, ma ha dimenticato chi egli sia. Così la sua esistenza è
priva di centro e d'unità. Qualcosa di simile, ma in proporzioni
terribili, è accaduto all'uomo moderno. Egli è come uno che abbia
scordato il proprio nome, poiché il suo nome è collocato nel nome di
Dio. Non è possibile dimenticare il nome del Dio vivente e conservare il
proprio nome, il senso e il cammino della propria vi-
53
ta. Ciò è non è più possibile di quanto Io sia che un
ponte resti nella sua collocazione se vi si toglie la sponda su cui
poggia. Siffatto uomo da prova d'un'attività febbrile. Realizza cose
immense, per trovare una conferma a se stesso. Egli prende il mondo nel
suo potere, per istituirlo quale opera propria. Ma in fondo non sa più
chi sia l'essere che fa ciò, ne donde venga, ne dove vada.
Che però questa condizione non resti limitata al piano
metafisico, bensì si ripercuota nella realtà della vita psichica come di
quella fisica, di quella individuale come di quella politica, di quella
economica come di quella culturale, è cosa che vede chiunque voglia
vedere.
Qui sono attive connessioni, l'individuazione delle quali
è compito del pensiero cristiano. Risulterà che attraverso il
guazzabuglio dei differenti contrasti politici, economici, culturali di
cui è pieno il mondo passano due grandi fronti, sui quali si decidono le
cose essenziali: quello dell'uomo che avanza la pretesa di comprendere a
partire da se stesso la propria esistenza e opera, e quello dell'altro
uomo, il quale riceve continuamente il proprio nome dal nome di Dio e il
proprio compito dal vero Signore.
Al che sorge tuttavia una domanda difficile: in che misura
questo avviene anche di fatto?
Quanti uomini afferrano la nuova possibilità, in che
misura lo fa l'umanità vista come insieme?
Più precisamente: quanti hanno udito e ascoltato il
messaggio, lo mettono veramente in pratica? Nietz-sche ha rinfacciato ai
cristiani di parlare sì di redenzione, ma di non aver l'aspetto di chi è
veramente redento. Ancora più radicalmente: anche coloro che
54
davvero lo prendono sul serio fanno la figura di redenti?
Appare in essi l'«uomo nuovo» che deve derivare dalla fede e dalla
carità? Si fa visibile quell'essere ad immagine di Dio che è stato
santificato in Cristo? Il messaggio dell'uomo nuovo, che nasce dalla
redenzione, non è solo un ideale?
La risposta l'ha data un uomo che sta alla fonte della
Rivelazione stessa, e cioè San Paolo. Egli ha conosciuto l'interrogativo
che è prodotto dalla contraddizione tra il contenuto della fede e la
realtà immediata. Il cristiano crede d'esser redento; crede che in lui si
sia destata la nuova essenza umana che parte da Dio; ma non si sente
subito confutato dall'esperienza del proprio essere? Paolo esprime ciò
mediante la sua dottrina dell'uomo «vecchio» e «nuovo», dell'uomo di
spirito e dell'uomo di carne. Con ciò egli non vuole affermare alcun
dualismo, non la contraddizione platonica tra spirito e corpo. Ciò
ch'egli chiama «carne», è l'uomo vecchio con corpo e anima; e ciò che
chiama «spirito» è l'uomo nuovo, che vive ancora in corpo e anima, ma
è redento. Tra i due c'è lotta incessante; e l'esistenza viene compresa
quale il compiersi di questa lotta. Certamente ci sono momenti nei quali
l'uomo «nuovo» prevale e diventa cosciente di sé; continuamente si fa
innanzi quello «vecchio» e lo cela.
Così il cristiano si trova nella difficile situazione di
dover sostenere ciò che egli propriamente è contro ciò che egli è non
essenzialmente ma con l'intensità più tangibile. Sempre rinasce il
dubbio: sono io davvero ciò che l'annuncio dice di me? E ogni volta il
problema deve venir risolto nel «nonostante» della fede, nella
«speranza contro la speranza» (Rm 4, 18).
55
Questa è la quarta cosa che la Rivelazione ci dice
sull'uomo: ciò che egli sarà una volta giunto alla realizzazione
dell'immagine autentica, sarà chiaro solo alla fine, dopo la risurrezione
e il Giudizio. Nel frattempo dura la lotta nel nascondimento, il divenire
nella continua contraddizione.
E proprio così: il cristiano deve credere nel proprio
esser cristiano. Nella propria autenticità contro la forza gigantesca del
non autentico. Si potrebbe dire che nel testo del Credo manchi un
articolo; questo potrebbe suonare così: credo nell'uomo, che è formato a
immagine di Cristo; che è in me, nonostante tutto, e che, nonostante
tutto, sta maturando in me.
2. Il nome dell'uomo .
Nella seconda delle sette lettere, che nell''Apocalisse
Cristo indirizza alle comunità della provincia d'Asia, c'è una
parola che tocca il lettore con tono misterioso. Suona così: «Chi ha
orecchio, ascolti che cosa lo Spirito dice alle comunità: Al vincitore
darò ... una pietra bianca, e sulla pietra è scritto un nome nuovo, che
nessuno sa all'infuori di chi lo riceve» (Ap 2, 17). La parola è
potente. Le risponde un movimento nella parte più intima di noi, un
intuire e un domandare. Veniamogli in aiuto, forse si dischiuderà il
senso della parola.
Che significa il nome nell'esistenza dell'uomo? Spesso
aiuta a comprendere la vita informarsi circa quanto le usanze, ma anche la
stregoneria e la magia, dicano su una cosa. Se noi imbocchiamo tali strade
secondarie, il nome ci viene incontro in molteplici modi.
56
C'è per esempio il solenne atto dell'imposizione del
nome, il cui significato va al di là del semplice modo in cui la famiglia
e la comunità prendono atto della nascita d'un essere umano. Essi ne
riconoscono l'esistenza, gli danno dignità e diritto, e gli attribuiscono
un posto nella struttura sociale.
Il nome, inoltre, può assumere un carattere speciale: il
nome onorifico, che viene dato ad una persona insigne; il vezzeggiativo,
donato dall'amore; il nomignolo, con cui il disprezzo bolla un uomo.
Talvolta esso giunge in una strana vicinanza al vivente
essere di chi lo porta. Chi usa il nome d'un uomo maledicendo, crede di
colpire costui stesso, così come una benedizione che includa un nome è
volta a render sicuro da pericoli chi lo porta, a renderlo fecondo e
felice. Il mago collega il nome con azioni ch'esprimono lesione o
distruzione, ed è convinto di poter in questo modo recare rovina e morte
alla persona significata.
Se esaminiamo il sentimento che vige in ciò e che, pur
con tutto il nostro illuminismo, percepiamo ancora in qualche modo anche
noi uomini odierni, allora vediamo come in questo senso s'avvicinino tra
loro il nome d'un uomo e la sua persona vivente, in dirczione d'un punto
dove, si pensa, divengano una cosa sola...
L'uomo è a immagine di Dio; perciò forse è lecito
rammentare il modo in cui la Sacra Scrittura parla del nome supremo, anzi
del «Nome» per antonomasia, Nella parola di questa infatti il Nome di
Dio s'identifica con il Santo-Esistente stesso. Così il Signore dice del
tempio: «Io ... là farò dimorare il mio Nome per sempre» (1 Rè 9, 3).
Ciò dunque non vuoi dire solo:
là lo si pronunzierà proclamandolo, celebrandolo,
57
pregandolo, bensì: il Nome di Dio diviene esso stesso la
santa realtà che viene incontro all'uomo che entra nel tempio ... Il
secondo comandamento del Decalogo, «Non abuserai del Nome di Dio, del tuo
Signore» (Es 20, 7), non presuppone soltanto che il nominare in modo
sconsiderato ed empio fa mancare il dovuto timore reverenziale, bensì che
così facendo il Santo stesso viene inserito in un contesto di parole e
pensieri profani ... Quando infine nel Salmo il credente dice: «II nostro
aiuto è nel Nome del Signore» (123 [124], 8), allora ciò non significa
soltanto ch'egli invoca Dio o s'assicura del suo aiuto, bensì il Nome è
esso stesso la vivente potenza di Dio, ed egli da essa avvolto e sorretto
va incontro al pericolo ... Ma lasciamo da parte questo mistero; è
dell'uomo infatti che vogliamo parlare.
Che vuoi dire dunque il nome dell'uomo? Mediante esso
l'essenza dell'uomo si dischiude nella parola.
Finché una cosa resta innominata, essa resta nel velo del
silenzio. Già il bambino tuttavia domanda:
«Questo che è?», e non solo perché vorrebbe sapere, ma
perché si sente in qualche modo inquietato dal-l'esser la cosa
sconosciuta. Se la madre risponde: «È neve», quell'essere bianco e
silenzioso perde la sua estraneità, e s'apre la via ed esso ... Nel mondo
antico quando una persona non familiare entrava in casa, veniva accolta
con cortesia, ma restava estranea; non si sapeva quale forza s'avvicinasse
nella sua persona. Poi gli si chiedeva il nome, e dopo che quegli l'aveva
detto era stabilita la relazione. Non solo perché ora si conosceva la
situazione, bensì perché dicendo il nome s'apriva lo spazio spirituale,
includendo l'ospitante come l'ospitato.
58
Mediante il nome l'uomo sta nella comunità; vi ha il
proprio posto, diritto e onore.
Quando il nome, anzi, diciamo più precisamente, quando il
mio nome sarebbe pieno ed esatto? Quando potrei essere del tutto d'accordo
con esso?
In primo luogo: se esso non suonasse indistinto, bensì
esprimesse veramente, in modo pieno ed esatto, la mia essenza. Però esso
dovrebbe anche esprimere la mia persona, così da essere il nome soltanto
mio e non quello d'un altro. In esso dovrebbe trovar sede la mia unicità.
Attraverso questo nome starei in uno spazio aperto, per il
bene, ma anche per il male. Detto col linguaggio del mago: ciascuno
potrebbe usarlo per benedirmi ma anche per maledirmi.
Così dovrebbe aggiungersi qualcosa: occorrerebbe che il
nome fosse protetto, conosciuto solo da coloro ai quali io mi sentissi
legato; conosciuto e aperto solo nella misura nella quale l'altro fosse
ben disposto verso di me, m'amasse; a meno che lo pronunciassi nella lotta
annunciando così all'altro l'avversione della mia più personale energia.
Ma come potrebbe nascere un nome siffatto?
Bisognerebbe ch'esso sorgesse dal mio più proprio intimo.
Dovrei essere io stesso a esprimere in esso la propria essenza.
Così esso sarebbe il dispiegamento verbale di ciò che
sono ... Tuttavia il nome potrebbe giungermi anche dal «di fuori»;
dall'uomo che mi sta vicino, che mi ama. Per lui il mio nome dovrebbe
essere la manifestazione e il dispiegamento di quel «tu» che io sono per
lui. Anche questo sarebbe necessario, poiché una visione precisa della
mia essenza non si dischiude a
59
me stesso, ma solo all'altro, a quell'altro che vede con
l'occhio dell'amore ... E entrambi dovrebbero incontrarsi: il nome che
viene dall'aio» e quello che viene dal «tu»; dalla manifestazione di
sé quello, dalla parola rivolta questo. Allora il nominare sarebbe
completo.
Ma se il mio nome deve scaturire dal mio sapere intorno a
me stesso, io mi conosco allora? Davvero ciò che sono mi è tanto
familiare da poter io farlo stare in una parola e sentirmi rivelato
mediante questa? Mi basta uno sguardo in me stesso per vedere che non è
così. Conosco singoli aspetti in me; altri mi sono sconosciuti.
Determinati ambiti del mio intimo mi sono aperti; altri restano celati. Se
tento di afferrare me stesso, per esempio al fine di fare chiarezza per
prendere una decisione, o per comunicarmi ad un altro uomo, allora noto
com'io mi sfugga.
Tutta la mia vita è attraversata dallo sforzo di
comprendere me stesso; così per l'intera mia vita sono in cammino nel
tentativo di darmi un nome. In cammino come anche per quanto concerne lo
sforzo di realizzare me stesso; di diventare quello del quale esistono in
me le potenzialità e che io ho il dovere d'essere ... E per quanto
concerne l'altra origine del nome, che cioè l'essere che mi ama mi
dicesse chi io sia, le cose vanno altrettanto male. Poiché, in primo
luogo e specialmente, mi chiedo: l'altro mi ama davvero? Tanto che da ciò
gliene derivi un'autentica visione e comprensione? O lui vuole qualcosa?
Ha delle mire? Calcola? Il suo sguardo è inficiato da sfiducia, o
gelosia, o avversione, o altro che lo possa accecare? Ma anche quand'egli
abbia amore autentico, giunge questo davvero fino alla mia essenza? Anche
qui la via da
60
percorrere è lunga, e sempre avviene solo per
approssimazione l'esser nominati dall'altro. Perfezione tuttavia sarebbe
se venissero a coincidere il mio essere più intimo e il mio nome più
proprio. Nel romanzo di Rudyard Kipling il giovane Kim siede presso un
muro e dice a se stesso: «Io - Kim; io - Kim».
Egli percepisce come qualcosa entra sempre più in
profondità, e vuoi raggiungere il punto dove nome ed essere
s'identificano. Ma improvvisamente tutto si spezza; e si spezza tutte le
volte ch'egli ci prova. Ma un vecchio bramino sta davanti a lui e gli fa
cenno triste: «Sì, sì, lo so; non riesce.»
Il nome autentico è un traguardo che non viene mai
raggiunto.
Ve ancora un'altra ragione per la quale nella nostra
esistenza temporale non si giunge al nome autentico: esso dovrebbe esser
proprio esclusivamente dell'uomo in questione, e dunque di ciascuno, e
perciò per ciascuno esser dato una volta soltanto.
Ma proprio in tal modo sarebbe inutilizzabile quale
strumento d'ordinamento nella società umana. Non vi sarebbe alcun ponte
che da un nome conducesse all'altro. Noi vediamo dunque anche che i nomi
di fatto impiegati sono convenzioni. Ognuno viene portato da molti, e
creano distinzione soltanto aggiunte o unione con altri nomi.
Dunque giungiamo sorpresi, anzi sgomenti, al dato di fatto
che non esiste il nome autentico nella nostra esistenza immediata. Se
tuttavia consideriamo che cosa esso significhi per le diverse forme di
comunità e società, allora percepiamo come in questo fatto s'esprima la
problematicità della nostra esistenza.
Ora saremo meglio preparati alla comprensione
61
della parola misteriosa della seconda lettera.
Accostiamoci ancora una volta ad essa: «Chi ha orecchio, ascolti che cosa
lo Spirito dice alle comunità: Al vincitore darò ... una pietra bianca,
e sulla pietra è scritto un nome nuovo, che nessuno sa all'infuori di chi
lo riceve». Il credente, che ha «vinto», ossia sopportato la
tribolazione dei disagi del giorno e delle persecuzioni, in tal modo è
pervenuto alla fedeltà; all'unione con la volontà di Dio, e proprio con
ciò all'unione con Lui stesso. Passando dai veli di quest'esistenza
all'eternità, perviene al cospetto di Dio: dunque di Colui il quale unico
in sostanza realmente l'ama, lo conosce realmente e totalmente. Ma solo
alla luce di questa conoscenza divina anche l'uomo conosce veramente se
stesso. «Conoscerò interamente, come anch'io sono interamente
conosciuto», dice Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (13, 12).
Solo in Dio sta l'essenza d'ogni uomo. Soltanto nell'incontro con Lui
l'uomo apprende chi sia, poiché solo Dio può dirglielo. Soltanto l'amore
di Dio gli da la collocazione definitiva nel proprio se stesso. Così Dio
è anche colui che gli rivolge il puro «tu». L'espressione di questo
sapere che Dio ha di lui, e che egli in Dio acquisisce di se stesso, è il
suo vero nome'.
Questo nome è il suggellamento d'un evento creativo:
«Ecco faccio nuove tutte le cose», dice Dio sem-
1. Alcuni esegeti intendono il «nome nuovo» come
riferito a quello di Cristo; così E. Lohmeyer (Die Offmbarvng
desJohannes, 1926, p. 25) eJ. Behm (Dos New Testamene deutsch,
voi. Ili, 1935, p. 307). Altri l'interpretano quale nome di colui che è
giunto al compimento nell'eternità; così A. Wikenhauser, L'Apocalisse
di Giovanni, Morcelliana, Broscia 1960, p. 63. La nostra
interpreta-zione segue il secondo punto di vista.
62
pre nell' Apocalisse (21, 5). Esso significa più
che l'espressione di qualche cosa che c'è già; piuttosto rivela il
compimento della grazia, e «grazia» significa che mi vien dato ciò su
cui io non ho potere e a cui non ho diritto, ma che mi rende, esso
soltanto, ciò che io desidero essere.
Nell'attimo in cui l'uomo giunge al cospetto del Dio della
grazia. Questi porta a compimento in lui l'opera della creazione e della
redenzione. Dio lo riconosce per quello che dovrà essere per l'eternità;
con atto d'amore lo eleva e accoglie nel suo vivere
eterno. In questo nuovo e autentico «tu», che vige d'allora in poi tra
Dio e lui, egli diviene il proprio «io» autentico: ciò viene espresso
nel suo nome autentico ed etemo.
Questo nome è protetto. «Nessuno lo sa», solo Dio e lui
- lui in Dio. L'elemento ultimo della persona e della sua unicità non
può venir detto con concetti generali. Viene detto nell'amore di Colui
dal quale quest'uomo è amato come nessun altro. Questo non significa
presunzione, perché Dio ama ognuno come lui stesso, e quindi diversamente
da come ami ogni altro, poiché Egli solo realizza interamente ciò ch'è
persona. (Il Suo poter esserci per ciascuno come lui solo è una
definizione profondissima della sua divinità), L'Apostolo non ci dice per
niente se chi riceverà in siffatto modo il nome potrà a sua volta dire
tale nome all'uomo ch'egli ama e in ciò rivelarglisi. Però forse
possiamo supporre che l'esclusività della quale parla l'alta parola sia
tale da esser data nella sua propria libertà.
Nella vita eterna s'adempie il senso della vita temporale,
e dunque anche quello dell'amore terreno.
63
Così non commetteremo un'arbitrio se diamo una
continuazione alla parola giovannea circa il «nome nuovo, che nessuno sa,
se non chi lo riceve» dicendo:
lo sa lui e colui al quale voglia dire il proprio nome.
Poiché come deve altrimenti attuarsi ciò di cui dice ancora V
Apocalisse, quando parla, in solenni immagini misteriose, della
comunione dei santi tra loro? Quan-d'essa dice che la vita eterna è
«città santa», «Gerusalemme celeste» (21, 10 ss.), ossia
partecipazione reciproca dei redenti nell'ordine perfetto? E che è
«canto di lode» (14, 2 ss.), ossia armonia della gioia delle «miriadi
di miriadi»? E che sono «nozze» (21, 9; 19, 7), ossia unione vitale tra
Dio e gli uomini, e degli uomini tra loro in Dio? Non dovrà forse
realizzarsi là anche quel mistero, nel quale soltanto possiamo vedere il
compimento della nostra esistenza personale:
che ciascuno sia interamente se stesso,
inconfondibil-mente proprio e libero, ma al tempo stesso che ciascuno sia
in comunione con tutti, e regni un donare e ricevere infinito?
Allora s'adempirà anche quell'altro mistero che intuiamo
nell'esperienza dell'io: l'identità del nome e dell'essere. Il mio essere
si dischiuderà perfettamente nella parola del mio chiamarmi; ma
quest'ultimo non sarà una seconda realtà, bensì io stesso. Sarò
nell'essere come persona nominata integralmente, nulla di me sarà più
nascosto e nulla non chiaro; ma tutto ciò che il nome dice sarà reale,
nulla sarà semplici parole, e nulla sarà vano.
Per quanto infine riguarda la «pietra bianca», di cui
parla la citazione, questo è probabilmente un simbolo proveniente dal
mondo dell'apocalittica veterotestamentaria, che l'Apostolo-Veggente fa
proprio per
64
esprimere che ciò ch'egli annunzia è un mistero: verità
e adempimento di realtà intuite nel profondo, ma non raggiungibili a
partire dall'uomo. Avviene del segreto di quella vicinanza, che Dio
riserva alla sua creatura, quando da all'amore la sua serietà ultima.
Così dunque anche tutto ciò che qui è stato detto va pronunziato
soltanto con quel ritegno che s'addice al parlare d'un tale mistero.
3. Vicinanza e lontananza di Dio
In molteplici modi possono esprimersi i misteri della
salvezza e le speranze di vita eterna: mediante il grido dell'annuncio, i
comandamenti attraverso i quali l'uomo viene istruito, i concetti della
teologia; ma ciò ch'è più vivo vien detto in immagini. Ciò non vuoi
dire che allora avvenga in modo impreciso o frivolo. Delle immagini ci si
può fidare, ma al modo loro proprio. Non si può volerle trasporre in
concetti, bensì bisogna trattarle come esse richiedono: contemplare,
percepire, vivere in esse.
Allora vien fatta giustizia anche a qualcosa che
appartiene al più intimo della nostra essenza umana:
cioè che il parlare è solo una faccia di qualcosa di
più ampio, la cui altra faccia si chiama silenzio. L'uomo ha bisogno
della verità; vive d'essa, come del mangiare e del bere. La fa sua,
rendendola comunicabile nella parola, ma anche intuendole tacitamente.
Soltanto l'insieme di queste due modalità costituisce quell'intero che
chiamiamo «conoscenza». E l'una sorregge l'altra: la presa di coscienza
silenziosa si chiarisce nell'evidenza della parola, questa però si
riaccerta conti-
65
nuamente del suo senso nel silenzio intcriore. Questo
assume particolare evidenza nelle asserzioni mediante immagini; perché il
concetto cerca, dicendo, d'esaurire il significato, l'immagine invece
bensì dice, ma al tempo stesso indica in dirczione dell'indicibile e
così porta il silenzio nella parola stessa.
Si parli qui d'una di tali immagini, nel cui dire e tacere
si mostra il mistero di Dio: della Sua lontananza e vicinanza. Suona di
prim'acchito strano il parlare di lontananza o vicinanza in riferimento a
Dio, poiché ovviamente per lui non esistono ne l'una ne l'altra, bensì
Egli semplicemente «è». Se domandiamo: Che cosa «è»?, allora la
prima risposta suona: Lui, Dio. Soltanto dopo, nella distanza
dell'adorazione, si continua: il mondo è, e in esso io sono. Questo
però, la realtà finita, è soltanto perché Egli la conserva
nell'essere. La governa, ne è più profondamente all'interno di quanto
essa possa mai diventarlo di se stessa. Purtutta-via la Rivelazione parla
di lontananza e vicinanza.
Ciò che accade tra esseri umani, avviene tra i due poli
della lontananza e vicinanza: trovare e perdere, adempimento e privazione,
amore e fedeltà. Così la Rivelazione ha assunto come parabola quei due
poli della vita, e vi ha collocato la notizia di ciò che avviene tra
l'uomo e Dio.
Nella Prima lettera a Timoteo l'Apostolo esorta il
suo discepolo alla fedeltà verso «il Rè dei rè, il Signore dei
potenti, al quale soltanto appartiene l'immortalità; il quale abita in
una luce alla quale nessuno ha accesso; che nessun uomo ha mai visto, ne
può vedere» (6, 14-16).
In queste parole si fa tangibile la lontananza di Dio: la
sua sacra inaccessibilità, che però non è un
66
semplice esser lontano, bensì trasforma in adorazione lo
sguardo rivolto all'Invisibile. Se Dio la fa percepire, allora questa è
una modalità in cui Egli si dona, così come quando Egli fa sapere di
trascendere ogni conoscenza ciò significa la più profonda presa di
coscienza.
Però sempre la Rivelazione parla anche - e ciò ne
costituisce propriamente la «buona novella» - della vicinanza di Dio.
Per la prima volta questa è divenuta realtà quand'Egli ha creato il
mondo.
Ma fermiamoci ora un momento. Ciò che fiacca la vita di
fede è l'ascoltare, pronunziare, leggere costantemente le parole sacre.
Così esse divengono polverose e vecchie; così colui al quale esse stanno
a cuore deve continuamente ridar loro lucentezza e novità. Che Dio ha
creato il mondo è un mistero, il mistero originario che circonda il
tutto: com'è mai avvenuto, che Egli abbia fatto ciò? Egli non è certo
un Dio dei miti, a cui occorra il mondo per poter lui stesso esistere!
Zeus e Gaia e Poseidone: se sparisse il mondo essi non esisterebbero più.
Tutta la magnificenza degli dèi dipende dal fatto che ci sono cielo,
terra e mare; Dio non ha bisogno di queste cose. Il fatto che Egli, del
quale è la pienezza dell'essere e della vita, abbia voluto che il mondo
fosse, e con esso noi uomini - ciascuno di noi che riflettiamo su ciò -
questo è un dato incomprensibile, davanti al quale nessuno spirito potrà
mai inchinarsi abbastanza profondamente. Ma nel momento in cui Dio creò
il mondo, gli era vicino, poiché esso sussiste solo a partire dalla sua
vicinanza.
E ancor di più Egli ha voluto awicinarglisi, e cioè in
una comunione d'amore. Questa è espressa dalla
67
Bibbia con un'immagine fiorita, il «giardino», che «Dio
piantò nel paese di Eden, che è verso oriente», il paradiso (Gn 2, 8).
«Giardino» non è natura selvatica, nasce quando la natura diviene
familiare e ambiente vitale dell'uomo. Così il giardino diviene
l'immagine della confidenza alla quale Dio ammise gli uomini.
Nel giardino dell'inizio Dio ha dimorato coi suoi uomini.
Infatti se più avanti nel testo si dice che «la sera, soffiando il vento
fresco. Dio camminava nel paradiso» (Gn 3, 8) ed Egli chiamò gli uomini
- come anche prima, così potremo continuare il pensiero, soleva fare -
non è forse questa un'immagine della confidenza di Dio, inesauribile
nella sua intima bellezza?
La sacra armonia viene però spezzata e nel racconto si
dice: Dio «cacciò l'uomo fuori dal giardino» (Gn 3, 23). Questo
«fuori» è la lontananza tra Lui e noi, creata dalla lacerazione della
colpa. Essa dura a lungo, molto a lungo, finché il Suo amore non inizia
di nuovo a crear vicinanza.
La storia dell'Antico Testamento è un'unico «venire» da
parte di Dio. Di nuovo un'immagine, poiché sappiamo ch'Egli è il
Presente per eccellenza, per il quale non c'è barriera ne distanza che
debba superare muovendosi. Ma appena Lo pensiamo solo così, solo
assoluto, va perduto tutto ciò che si chiama stona, mentre quest'ultima
è la modalità del nostro sussistere. Entrando in questa storia Dio,
dalla lontananza della sua adirata inaccessibilità, viene in una nuova
vicinanza amorosa. Stringe col popolo che ha chiamato l'alleanza, per la
quale questo diviene «il Suo popolo», ed Egli «il suo Dio». Egli vive
con esso, cammina con esso, combatte con esso.
Se vogliamo comprendere l'Antico Testamento, ci
68
occorre partire dall'esperienza che quegli uomini avevano
dell'esser guidati e governati da Dio. Dev'esser stata eccezionalmente
intensa. L'intera Legge dell'Antico Testamento in ultima analisi ha avuto
il senso di rendere possibile ai credenti di vivere in questa vicinanza:
ch'essi non ne abusassero in senso magico, ne per essa soccombessero sul
piano religioso. Eppure il popolo da cattiva prova di sé e richiede un
rè terreno, «come l'hanno tutù i popoli» (1 Sam 8, 4 ss.). E allora
anche la maggior parte dei rè da cattiva prova di sé, perché non
vogliono essere servitori di Dio, ma dominare per diritto proprio.
Indifferenza e ribellione offuscano il sacro patto; allora si leva la
profezia, e dalle parole di questa una nuova venuta, quella del Messia,
con chiarezza viene invocata sempre più insistentemente, fino a che «il
tempo è compiuto» (Me 1, 15), ed avviene il secondo evento impensabile,
più grande ancora di quello costituito dalla creazione:
Dio si fa uomo.
Di nuovo dobbiamo ricordarci di quante volte abbiamo già
udito e pronunziato questa frase; tante che non ci rende più nemmeno
pensosi. «Dio si fa uomo»: è possibile? Ma Egli l'ha rivelato; dunque
lo è. Ma quale realtà inconcepibile! E poi perché, perché? Certo, per
redimerci; ma questa può essere solo mezza risposta. In lui stesso deve
premere qualche cosa, che Lo porta sempre più vicino agli uomini.
L'indica la parola «amore»; ma anche questa è parola misteriosa: che
significa infatti amore, se qui è Dio che ama?
E ora Egli è con gli uomini. Uno di noi. E questa realtà
è definitiva; infatti Egli non la revocherà mai. Se vogliamo vedere
quanto grave possa diventare
69
questo pensiero all'uomo preoccupato della libertà di
Dio, ricordiamo allora che per gli gnostici Egli s'è fatto sì uomo; ma
compiuta la sua opera sulla terra, si sarebbe sfilato dalla catena e
sarebbe ritornato alla libertà del puro spirito. Invece noi lo sappiamo:
Egli è rimasto uomo. Non appena appare ai suoi, il Risorto mostra a loro
sulle mani e i piedi i segni delle ferite, i quali indicano la sua vita
terrena. Egli s'è portato con sé nell'eternità la sua corporeità
trasfigurata e, come Dio fatto uomo, s'è assise «alla destra del
Padre». Non ci può essere, pensiamo, maggior vicinanza di questa;
tuttavia si può dire una cosa ancora più grande: Egli vuole che noi
L'accogliamo nella parte più viva della nostra vita; Egli vuoi esser per
noi cibo e bevanda. Quando la madre fa nascere il bambino dal suo sangue e
poi lo nutre al suo seno, essa mette dentro se stessa nella vita di lui;
questo mistero ascende ora sin entro il divino: Dio da a noi Se stesso nel
mistero dell'eucaristia. Potrebbe venire ancor più vicino? Solo
infrangendo la nostra ottusità e toccandoci il cuore, pensiamo. E lo
facesse! ...
Verrà però il momento che la sua vicinanza abbraccerà
il mondo intero. Se vogliamo provare il giubilo di questo messaggio,
leggiamo allora ciò che dice la Lettera ai Romani, nell'ottavo
capitolo, w. 18-29, a proposito della speranza. Questa è l'attesa che un
tempo tutto verrà assunto in Lui e non ci sarà più separazione alcuna;
ne tra Lui e la realtà creata, ne tra le sue creature.
Il mistero della lontananza e vicinanza di Dio si ripete
nell'esperienza del singolo. Ognuno certo diviene prima o poi consapevole
di quanto sia meravigliosa la Sua vicinanza, e quanto pesante la Sua
lontanan-
70
za. Veramente non si può dire che cosa avvenga al di là
dell'immagine, nella realtà di Dio; perché anche quando tutto pare vano,
e lo spirito fatica a mettere insieme le parole della preghiera, Dio è
presente: infatti noi sussistiamo solo attraverso il suo esserci. Nella
vita degli eremiti egiziani del deserto si racconta di uno che dopo una
lunga prova della lontananza domanda: «Signore, ma dov'eri in questo
tempo terribile?». Dio risponde «Più che mai vicino a tè!».
Sempre Egli è vicino, essendo alla radice del nostro
essere; parlando nel profondo della nostra coscienza. Tuttavia è palese
che dobbiamo sperimentare il nostro rapporto con Dio tra i poli della
lontananza e della vicinanza. Dalla vicinanza siamo fortificati, dalla
lontananza messi alla prova. Quando si fa percepire la vicinanza di Dio è
facile esser credenti; ma quan-d'Egli è lontano, allora viene il tempo
per la fede pura, che non ha altro che la parola: «Non T'abbandono!».
Nella storia del mondo le cose non stanno diversamente. Un
tempo il mondo era, così pare, pieno di Dio. Non che gli uomini fossero
particolarmente buoni; ci fu ingiustizia e peccato come oggi. Tuttavia
qualcosa era diverso: il bene fu fatto muovendo dalla vicinanza di Dio, e
il male contro questa vicinanza, e perciò anche conversione e penitenza
erano tanto profonde. Col passar del tempo tuttavia il cuore diviene
sempre più freddo. Il mondo si riempie sempre più d'oggetti; l'ora è
assillata da eventi sempre più violenti; ma l'esistere nel suo profondo
si fa sempre più vacuo. Tanto vacuo, che un uomo, che era intelligente
come pochi e confuso nell'intimo forse quan-t'altri mai, potè dichiarare
che Dio «è morto». Parola
71
tremenda! Nel modo in cui per lo più la si ripete si
tratta solo di chiacchiere; ma chi l'ha detta per primo con essa ha
espresso il sentimento dell'assenza di Dio, della solitudine dell'uomo in
un cosmo totalmente estraneo. Da questo sarebbe potuta nascere in lui, che
pur aveva avuto notizia della rivelazione, la fedeltà al Dio lontano;
invece egli ha identificato il modo del suo sentire con la realtà,
dicendo che Dio non c'è più.
Ora mezzo mondo lo riecheggia. Se però verrà il tempo -
e verrà, dopo che l'oscurità sarà stata superata - che l'uomo
domanderà a Dio: «Signore, allora dov'eri?», allora di nuovo udrà la
risposta: «Più che mai vicino a voi!». Forse Dio è più vicino al
nostro tempo glaciale che al barocco con lo sfarzo delle sue chiese, al
medioevo con la dovizia dei suoi simboli, al cristianesimo dei primordi
con il suo giovanile coraggio di fronte alla morte; solo noi non lo
percepiamo. Però Egli attende che noi non diciamo: «non ne sentiamo la
vicinanza, dunque non esiste Dio», bensì che noi Gli restiamo fedeli
attraverso il tempo della lontananza. Da questo potrebbe sorgere una fede,
non meno valida, anzi forse più pura, in ogni caso più intensa di quanto
sia mai stata nei tempi della ricchezza intcriore.
72
73