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EDIZIONE ITALIANA A CURA DEL « CENTRO DI STUDI FILOSOFICI DI GALLARATE 

ROMANO GUARDINI

ANSIA PER L'UOMO

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera:

Sorge um den Menschen - Band I © Werkbund Verlag - Wiirzburg 1958 Traduzione dal tedesco di Albino Babolin

by Morcelliana, Brescia, 1970

Tipografia « La Nuova Cartografica » - Broscia 1970

PREMESSA

II titolo del libro è scelto di proposito. Dei discorsi, conferenze e articoli che vi sono riuniti nessuno è nato in forma di una trattazione, cioè da una problematica puramente teoretica, ma i problemi furono indicati all'autore da avvenimenti e necessità dell'attualità, e i vari contributi sono tentativi di vederci più chiaro. Contengono molti elementi di critica alla civiltà e cultura presente; anche questa critica però è determinata non da punti di vista puramente di filosofia della cultura, bensì da un'ansia, avvertita sempre più fortemente, per l'uomo, che non fu mai minacciato più direttamente di oggi. Dal problema se l'uomo, nel processo sempre più rapidamente svolgentesi dello sviluppo scientifico, tecnico, sociologico, possa rimanere nel senso, in cui il concetto trova la sua determinazione nella parola di Dio e nell'onore umano. La questione si fa tanto più urgente, in quanto dappertutto è operante un concetto che rende ciechi al carattere reale del divenire storico, quello cioè del progresso. Secondo esso il procedere del pensare, dell'agire, dell'organizzare si compie con necessità inferiore, e più precisamente esso avanza verso ciò che è sempre migliore e più perfetto. Questa fede — giacché quel che sostiene il pensiero non è una visione intellettiva, ma una volontà — dissimula i pericoli che risultano dallo sviluppo della civiltà e cultura.

Il carattere dei saggi seguenti comporta pure che parecchi pensieri ricorrano in essi alquanto spesso. La trattazione scientifica d'un argomento non lo permetterebbe; non appena essa abbia constatato ed

espresso qualcosa, il suo passo successivo porta più avanti. Qui si tratta pero ài motivi di fondo delia-nostra situazione storica, sperimentati vitalmente dall'ansia per l'uomo, il quale in larga misura sembra non vedere dove conduca ciò che fa. Pertanto non è assolutamente possibile fare in modo che questi motivi non siano ripresi continuamente e non vengano illustrati a partire, di volta in volta, da diversi contesti dell'esperienza.

I

« ANSIA PER L'UOMO »

1. - La preoccupazione per l'uomo si esprime in una domanda, di cui non si sa se possa avere risposta.

Nel corso del tempo e attraverso i luoghi della terra i popoli della storia hanno costruito l'opera dell'uomo: un insieme incalcolabile di conoscenze, fatti e strutture, con cui si è preso possesso della natura, rendendola utile ai bisogni dell'uomo ed espressione della sua vita interiore.

Quest'opera è stata sempre compiuta dal singolo. Ma ognuno entra anche nella situazione di lavoro, che hanno lasciata coloro che hanno vissuto prima di lui;

egli assume il risultato del loro lavoro e con ciò Ì motivi, che l'hanno mosso, e i problemi, attorno ai quali si sono affaticati, così come egli da parte sua trasmette alle generazioni seguenti la sua opera e il suo pensiero. In questo modo egli sta nel contesto d'un creare più generale e si può parlare di un'opera dei gruppi sociali, dei popoli, e infine dell'umanità.

Il singolo, nel produrre questa cultura oggettiva, sviluppa insieme i suoi talenti individuali e realizza il senso della sua personale esistenza. Nel divenire, nel costituirsi della sua opera diviene egli stesso, quello che egli può e deve essere — nella misura in cui la sorte gli accorda il suo favore. Ma qui sorge la domanda: come stanno fra loro queste due linee dell'agire o del divenire?

La concezione ottimistica risponde: ognuno si realizza, nell'altro. Mentre l'uomo compie la sua parte nell'opera dell'umanità, egli realizza se stesso — d'altra parte l'opera di tutti è tanto più ricca, quanto più pienamente essa esprime il significato della vita dei

singoli operanti. Il contesto oggettivo dell'universale conoscere, operare e configurare e quello soggettivo del divenire personale corrono, è vero, su piani differenti, ma sono sempre ordinati fra di loro, si reggono vicendevolmente, an2Ì sono in fondo identici: una sola storia.

Questa la visione che domina largamente il nostro tempo. Ma di fronte ad essa si erge il dubbio se essa sia giusta. Il mito ha pensato diversamente;, e altrettanto la saggezza dell'antichità e del medioevo, e un'inquietudine nel profondo della nostra coscienza rende il dubbio tanto più urgente, quanto più si prolunga.

2. - Mi ricordo la conferma, che sentii spaventato, quando lessi l'opinione cautamente espressa da uno dei nostri più eminenti" fisici, che cioè non è sicuro che la linea direttiva della scienza corra parallela a quella della felicità umana. Poiché, realmente, che cosa potrebbe garantire un tale parallelismo? Dove dovrebbe essere il centro, che accordi fra loro i due cammini dell'esistenza?

In mezzo all'esaltazione sulle ultime enormi realizzazioni della scienza e della tecnica, che hanno conquistato le energie atomiche, sorge la domanda se queste energie — come in generale le energie della natura conquistate — possano essere anche ordinate, cioè possano essere introdotte nella vita degli uomini e rese utili alla loro crescita e sviluppo. E, se ciò deve esser possibile, in quale modo? La risposta affermativa potrebbe suonare solo: per opera dello stesso uomo, che le ha liberate, in quanto egli sottopone la loro attuazione al senso della sua esistenza, alla regola del ragionevole, del giusto e del conveniente.

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Ciò sembra a prima vista convìncente; ma subito sorgerebbe di nuovo e più incalzante la domanda:

ma l'uomo stesso è ordinato? Possiede quella « giustizia » esistenziale —- prendendo la parola nel grande significato platonico -—, che lo renda capace di trattare ogni essere, come lo richiede la sua natura, e quindi padroneggiare gli impulsi della brama di domìnio e di potenza, brama inerente alla cultura e civiltà? Capace di divenire tanto più sovrano nella visione, sicuro nel giudizio, prudente nella ponderazione e nell'ordinamento, quanto maggiori sono le energie che giungono a sua disposizione?

L'ottimista risponde di sì, perché l'uomo è ragionevole e buono. Ma lo è realmente e semplicemente? Così ragionevole e così buono da rimanere padrone delle energie continuamente crescenti, degli impulsi sempre più largamente invadenti? E che pensare di ciò che in lui è ancora manifestamente non ragionevole, non buono, e sulla cui potenza di distruzione gli ultimi quindici anni hanno dato le più serie lezioni a chiunque voglia essere ammaestrato?

3. - La risposta affermativa cerca di sostenersi dicendo: non il singolo, ma la collettività è ragionevole, buona, capace di ordinare 'l'esistenza. Questa poi non. deve essere intesa come folla, come la somma di tutti i singoli, ma in senso sostanziale come « il tutto », cioè lo Stato. La vecchia dottrina della divinità dello Stato, proseguita oltre Hegel fino a Marx, proclama che questo può ciò che non può il singolo uomo, e neppure molti individui, anzi neppure la collettività di tutti. In esso opera un'oggettiva potenza di ragione, che è all'altezza del compito di dominare il caos delle forze della cultura.

Ma è ciò vero? Oppure è un'illusione? Un surrogato

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dell'antica fede nel governo divino del mondo? È pur vero che lo « Stato » è nient'altro più che « l'uomo », solo nell'aspetto del suo contesto sociologico — ma allora in questo Stato non devono valere, come le sue forze di ordine, così anche quelle del disordine, della patologia e della malvagità? Che anzi esse acquistano una nuova forma minacciosa per il fatto che il suo modo di intendere se stesso non riconosce più alcuna istanza sopra di sé?

E se nel corso della storia, a poco a poco divergono le due linee: quella della vita e quella della prestazione effettuata, quella della realizzazione personale e quella dell'opera oggettiva? La cultura o.ggettiva ha la sua logica: la connessione che unisce un problema teoretico con quello che lo precede e con quello che lo segue, fa risultare una possibilità tecnica da quella realizzata prima e che prepara la seguente. Ma questa logica non è solo statica, un rapporto stabile di fondazione, ma anche dinamica, per il fatto stesso che è sensibile e operante nello spirito vivente, nella volontà e nella energia creativa dell'uomo. Essa non solo ordina, ma spinge avanti. E se la sua energia e la sua dirczione solo fino adesso avessero appunto corrisposto ancora a quella del divenire umano?

Se ciò che noi abbiamo riguardato come crisi storica dello sviluppo umano e perciò come difficoltà passeggere, fosse stato in realtà annuncio di un disastro definitivo? Per il fatto, cioè, che l'opera dell'uomo fosse diventata autonoma per la forza del suo movimento immanente? Cominciasse. a passare oltre, al di sopra dell'uomo? E l'uomo trovasse motivo di temere della sua propria opera?

4. - Non credo che tale dubbio possa essere eliminato col giudizio, che si sia pessimisti. Invece, certo

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la situazione è questa: colui che non la sente è ottuso di fronte ad una domanda, che l'ora gli rivolge. E sembra che ci sia motivo per la preoccupazione e che tale sarà il caso, poiché non si vede che si sviluppi una seria etica dell'uso della potenza, una. scienza sul retto dominio della natura, una difesa cosciente ed efficace contro la coazione della cultura oggettiva, un'ascosi dell'istinto che spinge alla cultura o civiltà.

Dovunque si sente il vecchio, frivolo ottimismo, secondo il quale nonostante tanti malanni tutto, già, andrà bene. Ma, se si domanda chi si preoccupi che ciò anche accada, non si riceve di regola alcuna risposta. Se pure succede di ottenerne una per forza, allora ci si imbatte nella rappresentazione di quella « natura », in cui si è volatilizzata la fede cristiana nella provvidenza. Essa presta- garanzia per l'ordine. a meno che non sorga l'antitesi di questa fiducia:

cioè il cinismo che tutto alla fine debba pure andare una volta in rovina.

.Ma comunque stia la situazione rispetto a questi problemi di filosofia della cultura, in ogni caso sarebbe tempo che la tecnica — prendendo la parola per tutto ciò che l'uomo « fa » — uscisse fuori dalla fase dell'adolescenza di cui essa è ancora in ampia misura prigioniera. Con ciò non si intende che i suoi metodi siano immaturi; essi sono certamente di una esattezza degna di ammirazione. Si intende piuttosto che essa debba alla fine entrare in quella maggiore età, che non guarda solo l'oggetto di cui direttamente si tratta, ma anche l'insieme della vita, in cui esso è situato.

Sarebbe tempo che la teoria e la prassi della pedagogia assumessero il compito che finora hanno trascurato, cioè l'educazione al giusto uso della potenza;

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alla responsabilità dell'uomo per ciò che egli può — già del giovane, ma soprattutto dell'adulto. Se è permessa una parola un po' patetica: è tempo che sia formata un'arte di governo dell'esistenza, la quale sappia che, nonostante tutte le automazioni, l'essenziale, cioè l'ordinamento dell'esistenza, deve essere attuato dall'uomo stesso.

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II

LA CULTURA COME OPERA E COME MINACCIA *

Avvertenza.

Anzitutto brevemente un accordo circa i concetti che

verranno usati in queste considerazioni. Il termine « cultura », che viene di continuo ripetuto, designa tutto ciò che l'uomo fa, plasma e crea. Analogamente « natura » intende ciò che è senza che l'uomo nulla vi abbia modificato.

Ma è senz'altro chiaro che questa natura già contiene un elemento di cultura. Poiché essa è quella sfera che l'uomo incontra e percepisce; nel cui quadro egli inserisce i presupposti del suo vedere e del suo comprendere. E, se l'uomo stesso nella sua prima datità, nel suo essere corporeo-spirituale, nel modo come emerge dalla nascita e dall'ereditarietà, può

* Le idee <li questo saggio furono esposte nella primavera del 1957 in occasione della fondazione dell'Accademia cattolica bavarese e della Settimana delle Università all'università di Colonia. La conferenza appare qui riveduta e con qualche sviluppo in più.

Il libro di robert jungk citato a p, 41 ha per titolo: Roller als tausend Sonne, Stuttgart 1956 (trad. ital. Gli apprendisti stregoni, Torino 1958). Dopo aver finito il mio studio per la conferenza, conobbi i due scritti di joachim bodamer: Der Weg wr Askese, Hamburg 1955 e 'Der Mann von beute, Stuttgart 1956, come pure il libro di gunther anders, Die Antiquiertheit des Menschen, Munchen 1956, che vorrei qui segnalare al lettore. Quasi contemporaneamente alla conferenza qui pubblicata Helmut Scheisky a Monaco ha parlato su Die Zukunft geistiger Fùhrungsschichten e vi ha sviluppato le idee d'una ascesi capace di prendere in mano il corso ormai senza bussola della tecnica.

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essere considerato come « natura », questa implica già in linea di principio il momento dello spirito nella libertà dell'uomo, la quale non è « natura », ma « storia ». Viceversa però, anche ogni fenomeno di cultura contiene un elemento di natura, in quanto in esso l'uomo afferma e plasma ciò che esiste senza di lui.

Noi abbiamo dunque da fare con concetti approssimati, i quali, a seconda del contesto in cui si adoperano, hanno significati proporzionalmente diversi.

Attraverso tutta l'esistenza umana corre un moto 'che va dalla natura alla cultura. Ma questo moto viene vissuto in una maniera piena di contraddizioni. Da una parte tutto ciò che da questo moto risulta è ovunque contrassegnato da accentuazioni di valore positive. È l'opera dell'uomo quella secondo la cui ricchezza ed incisività noi valutiamo tanto i singoli quanto la situazione storica di volta in volta reale. Dall'altra parte l'uomo prova nei suoi riguardi ogni volta una inquietudine, che è tanto maggiore quanto più alta è l'opera. Ciò si rivela in certe figure miti-che, come in Prometeo. Egli appare come portatore di cultura tout court; ma subisce un destino che, oltre ad essere tragico, ha pure il carattere della colpa. Pure il concetto dell'azione prometeica, così significativo per l'uomo moderno, non potrebbe essere originario. Per i Greci Prometeo, il rapitore del fuoco, era pure sempre anche un empio.

La coscienza dell'ambiguità della cultura appartiene alla sua stessa essenza. Nella forma più tenue tale coscienza sembra ritrovarsi là dove l'uomo è costretto ad operare per emergere da impellenti pericoli naturali. Ma essa cresce con la sicurezza della sua posizione. Non appena la cultura diviene molto ricca,

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tende pure a divenire un attentato a tale sicurezza e stimola il ritorno alla « natura »: un'esigenza che però non potrà avere adempimento, non essendoci ritorni nella storia.

La situazione oggi è che forze naturali di grandezza enorme pervengono nelle mani dell'uomo, ed egli le adopera per opere che non molto tempo fa parevano utopie. Ma questo stesso uomo esperimenta un'ansia e un'oppressione di coscienza in misura inaudita finora.

1. - II procèsso creatore ài cultura.

Il nucleo del processo da cui nasce la cultura consiste di due momenti che non possono essere risolti l'uno nell'altro, ma che si condizionano a vicenda.

Il primo è quell'atto nel quale l'uomo esce dal contesto della natura e assume distanza nei riguardi della realtà naturalmente data. Tale atto significa qualcosa d'altro dall'atto, ad esèmpio, dell'uccello rapace che sale in alto per poter bene osservare il campo nel cui raggio si muove la preda. Questa distanza sta all'interno dei rapporti naturali; quella invece di cui parliamo realizza il dato di fatto che l'uomo non si risolve nella natura, ma sta in essa e insieme fuori di essa. Il suo luogo ontologico è il confine della natura. Questo suo stare sul confine egli lo realizza nell'atto culturale e in esso si fa libero per un comportamento che non è possibile all'animale. La premessa per tutto ciò si chiama « spirito ». È lo spirito che sta sul confine, conferisce il punto d'appoggio, rende possibile il porsi di fronte.

H secondo momento è quell'atto con cui l'uomo va verso la natura e l'afferra. Quest'atto non è un revo-

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care la distanza assunta prima, ma diviene possibile solo in forza sua. Giacché anche in questo andare all'assalto della natura si verifica qualcosa di diverso da quanto avviene quando l'aquila si getta sulla preda o raccoglie il materiale per la costruzione del nido. Simili operazioni si compiono per essa nel contesto diretto del comportamento naturale. Ciò che l'uomo fa presuppone quel distacco che è possibile soltanto in forza dello spirito.

In quest'atto l'uomo considera il suo oggetto, lo comprende, lo valuta, lo plasma. L'animale non comprende, ne valuta, ne plasma, ma si orienta, sente ciò che è vantaggioso o dannoso, afferra o si difende. Questo fare è dotato di un senso; ma il senso non viene posto dall'animale, bensì si esplica anonimamente in lui come significato naturale. Nell'uomo la realizzazione del significato discende dalla sua personale iniziativa, dalla sua conoscenza e decisione;

due cose possibili unicamente perché là c'è un'istanza che crea il distacco: lo spirito.

La differenza si mostra proprio là dove il fare dell'uomo resta in svantaggio rispetto a quello dell'animale, cioè nella possibilità di sbagliare. A parte il breve periodo in cui l'animale è giovane e non del tutto sicuro nella sua funzione, esso non sbaglia. Quando il suo atto risulta falloso, non si tratta d'un errore, ma è segno che il suo organo ha un difetto; un segno di .deficiente adattamento alla vita, che da ultimo porta l'animale alla sua fine. Soltanto l'uomo può sbagliare, perché egli vive in modo decisivo da un centro che non si risolve nel contesto della natura, dallo spirito. L'errore è altrettanto spiritualmente. condizionato quanto il comportamento giusto.

Unicamente sulla base della descritta distanza si rende possibile anche l'autentica vicinanza all'oggetto,

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L'animale sta in un contesto che non lo lascia sfuggire mai. Perciò non esiste per esso ne la vera lontananza, ne la vera vicinanza. L'uomo entra di fronte alla cosa nella libertà della distanza; di lì egli può, in eguale libertà, entrare di fronte alla cosa in una vicinanza di affermazione, di simpatia e di responsabilità, che non esiste per l'animale.

Lo svolgimento dei due atti può avere gradi diversis-simi di chiarezza e di intensità. Esso può sprofondare apparentemente nel comportamento naturale, come nel caso delle operazioni del sentimento o dell'abitudine; ma può anche esperire le potenti accentuazioni ascensionali, che hanno luogo nei fenomeni culminanti della cultura.

Tale svolgimento costituisce il nucleo del comportamento umano. Esso si da, non appena si può parlare d'un uomo in modo netto. La teoria, secondo cui dall'animale più semplice corre fino all'uomo una linea evolutiva continua, è una pura ipotesi; anzi una ipotesi deviante, perché sottrae l'elemento decisivo ai concetti che interpretano l'esistenza. In che modo si debba pensare l'origine dell'uomo, è una questione a sé. Sembra che essa non si possa porre ne scientificamente, ne filosoficamente, ma soltanto teologicamente.

2. - II carattere esistenziale dell'opera iella cultura.

Abbiamo così determinato il carattere esistenziale dall'atto e dell'opera di cultura. L'una e l'altro si fondano sulla libertà in cui l'uomo considera, comprende e giudica, si pone i suoi scopi ed elegge i mezzi per realizzarli. Già la più semplice delle figure, che egli delinea sulla parete della sua caverna, emerge da una

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visione spirituale, la quale a sua volta presuppone la distanza di cui s'è detto. Dalla pittura delle caverne un processo continuo conduce alle più elevate creazioni artistiche; ed al contrario, nessun processo del genere conduce dalle forme più differenziate nel regno dei cristalli o dei fiori ai più semplici disegni delle caverne. Fra gli uni e le altre c'è un salto qualitativo, che solo lo spirito può compiere. Ma da questa sua specifica qualità l'opera di cultura viene anche immediatamente minacciata. Il fare dell'animale viene ipso facto garantito dalla necessità naturale che lo vincola. Le esigenze della sua crescita e della sua autoconservazione si esprimono negli istinti che segnano la dirczione e i confini del suo comportamento. Invece la libertà, con cui l'uomo esce dal contesto della natura, lo colloca nel pericolo. Certo egli pure ha istinti e tanto più forti quanto più si trova vicino alla natura:

impulsi che impongono una dirczione, che mettono in guardia, che spingono a moderarsi e via dicendo. Ma anch'essi stanno entro il campo della sua libertà e vengono di continuo influenzati e turbati da essa. E quanto più è forte nel corso della storia l'espansione della libertà, tanto più insicuro diventa l'istinto.

Di più ancora, nell'uomo istinti diversi possono entrare in contraddizione reciproca, e vi entrano di fatto tanto più quanto più avanza lo sviluppo culturale:

pensiamo all'istinto del piacere che s'impone anche contro gli allarmi dell'istinto di conservazione. Nasce di qui un disordine il quale ha un carattere ben diverso da quello dell'insicurezza che indica che una specie animale va degenerando. È un disordine che si comprende unicamente per il fatto che la vita dello uomo si attua dal centro della libertà, al punto che l'uomo può sostenere un disordine che farebbe perire l'animale.

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La possibilità di sbagliare è dunque essenziale all'uomo perché egli è libero. Lo si può addiritura definire come quell'essere che può sbagliare: certo perché egli può anche, nella libertà, eleggere il giusto. All'essenza della cultura appartiene la possibilità di fraintendere il rapporto di causa e di effetto; di conferire forme false a una certa materia; di sovvertire degli ordi-.namenti. Nascono di qui tutti quei fenomeni di cultura errata di cui è piena la storia. Ma questi fenomeni si riflettono sull'esistenza dell'uomo e insidiano lui -stesso: per mezzo di falsi modi di vivere, di mancanze del necessario, di disordini sociali e così via.

Il pericolo della cultura viene dunque dallo stèsso centro da cui viene la possibilità della cultura.

3. - Le epoche della storia.

Se noi, da questo punto di vista, gettiamo uno sguardo sulla storia, potremo, io credo, delineare tré epoche di carattere diverso e di lunghezza assai ineguale. Al principio sta la cultura primitiva. Dunque quella che la scienza legge dai resti archeologici; ma che si può ancora incontrare presso popoli che chiamiamo primitivi.

Il momento della libertà è già presente ed operante anche in essa. Il più semplice utensile e la più elementare decorazione già lo contengono. In tale livello incidono però anche numerosi e forti aspetti di garan-. zia: il singolo sta nel fitto tessuto di totalità sociali;

le tradizioni hanno potenza; la vita è inalveata dappertutto nella sfera magico-religiosa;, i processi vitali stessi corrono in gran parte secondo forme ritmico-simboliche: tutti aspetti che garantiscono il divenire vitale e inducono l'osservatore ad adoperare il termi-

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He di « popoli allo stato di natura ». La denominazione sarebbe fondamentalmente falsa, giacché sulla base di essa il .gruppo umano in questione viene posto sulla stessa linea d'una colonia zoologica. Ma essa avrebbe ragione nel senso che l'atto dell'emancipazione dalla natura non oltrepassa un certo vicino limite e il legame con essa rimane invece assai stretto ed efficace. Ciò conferisce alla vita degli uomini primitivi quel carattere di « naturalità » e di sicurezza, di « copertura » che alle generazioni tardive appare spesso così invidiabile.

La seconda epoca noi la vogliamo designare provvisoriamente come l'epoca « umana » (humane). Ci riserviamo a più tardi la critica a questo termine, subito non è possibile. Ad ogni modo essa si estende dallo inizio d'una chiara coscienza della storia fino all'irrompere della scienza e della tecnica, preparato nel corso dell'età moderna e compiutosi al principio del secolo XIX.

La sua estensione nel tempo è dunque assai lunga. Essa si articola nei modi più vari: secondo i popoli e i paesi, la scala storica, gli stili, eccetera. Ma, nonostante le diversità, essa manifesta un carattere unico che l'attraversa tutta; quello che ci fa sentire che in essa l'uomo era più se stesso che nella nostra epoca: e che pur nelle forme più differenziate di soddisfacimento dei bisogni, di ordine sociale, di conoscenza e di arte, egli vi esisteva più armonico e più vicino alla natura di quanto noi siamo.

Questo carattere sembra emergere da una determinata proporzione che vi si aveva fra la distanza verso la natura e la libertà operativa che ne conseguiva da una parte, e la vicinanza verso la stessa natura e la garanzia in essa implicita dall'altra. L'uomo in questa

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epoca sì allontana dalla natura solo fino al punto che possa ancora sentire ovunque gli ordini naturali; e la sua azione viene ancora delimitata di continuo dal senso di ciò che la minaccia e di ciò da cui ci si deve difendere.

Per ciò poi che concerne le sue attività culturali, esse sono essenzialmente praticate sia per mezzo dell'immediata prestazione dei sensi, sìa per mezzo della mano e di strumenti.

In seguito questa proporzione va perduta e inizia una terza epoca, quella in cui noi siamo. La scienza e la tecnica rendono possibile disporre della natura in modo che non sembra più avere radicalmente confini. Indicazioni e allarmi del sentimento immediato si attenuano. La libertà si trasforma in arbitrio.

Si distinguono varie tappe in questo processo. Prima la scoperta e il dominio dell'energia a vapore ed elettrica per cui energie di entità mai prima conosciuta passano a disposizione dell'uomo. Poi la scoperta delle materie sintetiche, la quale ha reso la funzionalità tecnica indipendente dalle evenienze naturali ed ha insegnato l'adattamento del materiale allo scopo di volta in volta prefisso. Più oltre viene l'automazione la quale trasforma la sede e il processo di produzione in una macchina in sé conclusa e che funziona da .se stessa. La fisica e la tecnica infine dell'energia atomica amplificano in maniera incalcolabile il campo della libera posizione e realizzazione di qualsiasi fine.

Non ci è possibile avvertire se e come questa epoca verrà risolta in un'altra ancora. A meno che si prenda in considerazione la possibilità che i momenti negativi in essa, di cui subito parleremo, conducano a una fine degenerativa o catastrofica, o si riesca a non

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vedere nell'idea d'uno stato di perfezione più d'una vuota utopia.

4. - Lo sganciamento dalla base naturale.

Il tema di queste riflessioni ci propone anzitutto la questione in che modo l'uomo venga sganciato in questa evoluzione dalla base naturale. Per una risposta io allineo, uno accanto all'altro, alcuni fenomeni. Tuttavia la lista non ha la pretesa d'essere completa ne di costituire un coerente complesso logico-genetico. .L'uomo dell'epoca anteriore era determinato dai dati immediati della natura, dalla materia, dalle sue forme, dai suoi processi. Nell'atto dell'incontro con questa natura e del suo possesso, essi gli somministravano materiale per la sua opera; gli indicavano la dirczione in cui essa doveva muoversi e tracciavano i confini del suo raggio d'azione. Il fenomeno fondamentale del fare culturale era lo strumento, la sua costruzione ed uso. Ciò che reggeva lo strumento erano i sensi e la mano. Poi la scienza esatta, in modo sempre più deciso, penetrò oltre i dati immediati della realtà verso i dati elementari. La tecnica incominciò a realizzare di lì i suoi obiettivi. Nacque la macchina e sviluppò una sempre maggiore perfezione.

A questo punto i sensi e la mano perdono di importanza. L'uomo entra in rapporto, al di là dei dati immediati della natura, con la realtà elementare. Costruisce un mondo di realtà intermedie: un mondo di segni, di calcoli, di apparecchiature, e si immerge sempre più in esso. Questo mondo non è naturale ma ar-. tificiale. Esso non sussiste di per sé, non si svolge per impulsi naturali, ma deve di continuo esser creato e mantenuto in atto dall'uomo. L'uomo perciò non

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può lasciarlo affidato a se stesso, ma deve di continuo preoccuparsi di esso e viene da esso afferrato sempre più. Uno stato di crescente arbitrarietà — ma senz'altro anche di crescente tensione — nasce di qui. Un sentimento che prima era appartenuto all'utopia determina ora sempre più la coscienza dell'uomo che vive con realistica obiettività: il sentimento che egli possa porsi i suoi scopi come vuole e che sia in grado di approntarsi ogni volta i mezzi necessari alla loro realizzazione. Ma con questo egli perde quella calma che prima il corso della natura conferiva all'uomo che viveva in essa. I dati immediati della realtà naturale perdono la loro importanza delimitatrice ma anche rassicurante; l'uomo diviene sempre più teso e minacciato.

Da tutto ciò insorge la domanda che cosa sarà di lui. Reggerà alla sua propria tecnica? Il mondo delle macchine non gli imporrà un'esistenza che a lungo andare non potrà sopportare? Maturerà l'uomo in modo ontologicamente adeguato a questa sua opera che si espande sempre più rapidamente? O crollerà sotto di .essa? _

Un altro fenomeno. Se si confronta l'atteggiamento di fondo del nostro tempo con quello del tempo pre-_ cedente, sembra che nel nostro il sentimento come tale declini. La differenza non è del genere di quella che passa, ad esempio, fra l'epoca dello Sturm unì Drang e quella dell'illuminismo. Ma piuttosto un raffreddamento della vita del sentimento e del cuore, che si verifica dappertutto in misura crescente: nel rapporto con la natura, con gli altri uomini, con il destino, con i valori dello spirito e via dicendo. È chiaro che questo fenomeno è connesso con la struttura

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tecnico-razionale dell'epoca, e così pure col gran numero degli uomini e degli avvenimenti.

La si può caratterizzare ottimisticamente, e si dice allora che l'uomo moderno è realista. Gli impulsi e le remore del sentimento non potrebbero che nuocere nell'attuale situazione; dovrebbero perciò venire repressi. Ma, se si riflette quale ruolo rappresenta nell'economia inferiore dell'uomo l'intima commozione dello spirito; che essa è il modo con cui egli partecipa immediatamente all'esistenza; che è il peso esistenziale che tiene desto il movimento della sua vita:

a riflettere a tutto ciò si resta preoccupati. Nella misura in cui quest'uomo diviene intellettualmente e tecnicamente più capace di movimento e di potenzialità operativa, si assottiglia il processo della sua vita come tale. Le sue radici si indeboliscono. Egli diventa inseribile ad arbitrio...

Si pensa allora al mito di Anteo, il figlio della Terra, che non poteva essere mai dominato fino a quando egli riusciva a mantenere il contatto con la madre. Allora Eracle lo sollevò in alto e lo sgozzò là in aria.

In connessione con tutto ciò sta la crescente perdita di contatto fra uomo e uomo. Educatori e medici hanno constatato che l'uomo moderno si fa sempre più isolato. Tale isolamento si distingue essenzialmente dall'individualismo del primo Ottocento. Allora l'espansione della sfera individuale era qualcosa di indubbiamente positivo; ma l'individuo, in questa sua accentuazione, trovava facilmente anche il rapporto con gli altri uomini: si veda la cultura, allora assai sviluppata, del cameratismo, dell'amicizia, dtì0.'eros, delle relazioni d'autorità, eccetera. Ma l'isolamento di cui stiamo parlando è soltanto il rovescio della medaglia rispetto alla massa, in cui il singolo, gli innumerevo-

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li singoli, sono soli. Giacché che dona la comunione non è l'addizione di molti individui, ma il contesto vivente delle organiche strutture di gruppo. La « massa » è il grande numero di individui privi di contatto, i quali, proprio per la loro povertà di relazioni, si lasciano facilmente e arbitrariamente ammassare.

Sempre l'isolamento, e per la stessa ragione, è ciò che rende possibile l'organizzazione, che ha anzi bisogno di essa. Allo stesso modo che, viceversa, le varie organizzazioni di genere professionale, sociale, politico sono interessate a che i contatti naturali non abbiano una grande forza vincolante e costruttiva, poiché in tal modo il singolo prende radice e diviene capace di opposizione. La tendenza ai poteri totalitari — la quale, l'avvertiamo o no, percorre tutto il nostro mondo — presuppone l'individuo senza contatti, la « polvere umana ». Soprattutto sono la crisi della famiglia, l'attenuazione dei vincoli coniugali, l'indebolimento del rapporto genitori-figli, che fungono qui da causa e da effetto insieme.

Il fenomeno viene acuito dal fatto che la sfera privata viene sempre più annullata. Sempre meno si sente l'esigenza che il singolo e la famiglia devono avere la possibilità di vivere in sé e per sé. È in atto una generale pubblicizzazione dell'esistenza. Stampa, radio, televisione, lo spirito e la tecnica dell'informazione: tutto questo rappresenta pure qui, insieme, la causa e l'effetto.

Ciò che allora crolla non è trascurabile. Dappertutto la sfera pubblica penetra nella privata; dappertutto viene dato in pasto al pubblico ciò che invece dovrebbe essere protetto contro la pubblicità. Non intendiamo nulla di sentimentale;, la nostra ansia ha per oggetto la conservazione in salute delle radici vitali. In

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una pubblicizzazione che vada oltre una certa misura l'esistenza umana, come essa è, non può fiorire. Essa si altera, e la domanda ora è quale specie d'uomo possa nascere di qui. Questo in ogni caso si può dire, che l'uomo viene così standardizzato e diviene sempre meno capace di opporsi alle tendenze totalitarie. Ci sarebbe ancora molto da dire su questa linea. Chi .persegue i vari fenomeni della cultura sotto questa angolazione, arriverà a stabilire che l'allontanamento dalla base immediata della natura si dilata sempre più.

Ciò non significa nulla di fondamentalmente nuovo. Si intensifica qualcosa che è dato fin dal principio. Questa intensificazione si attua però in una misura è con una incisività che porta alla sua fase critica dò che si chiama cultura.

5. - Cultura umana e non-umana.

Il carattere delta cultura, che consegue dalle presupposizioni ricordate, viene sentito assai vivamente da coloro le radici della cui formazione affondano nel tempo anteriore alla seconda o perfino alla prima guerra mondiale: con tale vivezza che essi sono inclini a designare l'epoca passata come quella « umana » (humane). Ciò è avvenuto dapprima anche in queste nostre considerazioni. Ma ora dobbiamo con maggior precisione esaminare l'uso di questo termine.

« Umano » significa, nel nostro caso, genuina umanità per distinzione da un'umanità violenta e resa artificiosa. In tal modo la formula contiene anche il giudizio che quella fase culturale, di cui parliamo, là odierna, non sia/più realmente conforme all'essenza dell'uomo.

Colui che sente che in essa naufragano valori ed ordi-

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ni con i quali egli è cresciuto, ha naturalmente il diritto personale di reagire in questo modo. Ma, se ciò che importa è di conquistare un punto fermo da cui sia possibile un giudizio storicamente e filosoficamen-te valido, questo diritto si deforma in ingiustizia. Poiché allora il concetto dell'uomo —- non escluso lo influsso della formazione umanistica — viene identificato con determinate categorie e fasi storiche del comportamento umano. Ora questo è falso, perché l'umano non è senz'aitro identico ali' ' umano ' nel senso descritto. Anche colui che penetra al di là delle proposizioni finora valide nello spazio dell'arbitrario, è uomo. Forse dobbiamo addirittura dire che egli realizza l'umano in un modo assai ardito e grande; certo anche assai rischioso.

Non è 'lecito circoscrivere l'umano a una fase storica e. tanto meno a un certo popolo o paese. Anzi non sarà neppure lecito legarlo alla terra, poiché l'uomo, per distinzione dall'animale legato al suo ambiente o mondo circostante sempre ben determinato, è rapportato alla totalità del mondo. Certamente ha anche egli il suo ambiente ed è, in date circostanze, molto fortemente vincolato ad esso; ma questi vincoli sono soltanto relativi. Essi possono essere infranti da singoli o da gruppi sociali o da movimenti storici. L'interesse oggi così specifico ai rapporti con lo spazio cosmico ne è certo soltanto un sintomo.

Nell'epoca che sta davanti a noi e della quale noi non sappiamo affatto in quale destino sfocerà, l'uomo realizza una nuova forma della sua umanità. Tanto più egli deve sapere chiaramente che, in vista di tanto, non basta conquistare nuove energie o penetrare, semplicemente superando distanze, in nuove zone della terra o del cielo; egli deve per questo elaborare anche un ethos nuovo corrispondente. Ma non possiamo far-

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ci illusioni: d'un simile ethos non si può per ora neppure parlare. A guardar bene, si possono notare avvii ad esso; ma su più ampio raggio storico esso non è ancora efficace. Ciò che finora si trova è, nei casi favorevoli, un uomo che sta ontologicamente nelle antiche strutture ed esperimenta di continuo la situazione conflittuale di non venire a capo delle nuove misure, dei nuovi compiti e dei nuovi rischi; in casi sfavorevoli, un uomo in cui l'atteggiamento antico è crollato ma non ne esiste ancora uno nuovo e il cui fare è guidato unicamente dall'impulso della conoscenza, dal piacere dell'esperimento, dal desiderio di vantaggi e di poteri. L'espressione più forte di tale situazione è rappresentata da quella radicale e spavalda incoscienza che si è manifestata negli avvenimenti politici degli ultimi decenni.

6. - Chance e insidia della nostra epoca.

Il senso d'un'epoca di cultura, non si fonda in ultima analisi nel fatto che in essa l'uomo pervenga a un sempre più elevato benessere e a un sempre più grande dominio della natura, ma nel fatto che egli riesca a realizzare di volta in volta la forma di esistenza e l'atteggiamento umano ed etico che la storia via via postula. Il mondo esiste due volte. Anzitutto come semplicemente dato (gegeben), come natura; poi come un compito affidato (aufgegeben), cioè come compendio o sintesi di ciò che nasce dall'incontro dell'uomo con la natura. Dai fatto dunque che egli veda questa 'natura, la comprenda, la esperisca nel suo valore, domini i suoi problemi etici e la plasmi così in un tutto in cui si manifesti in modo caratteristico una determinata possibilità umana.

Presupposto per la forma del mondo che ora preme

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per essere realizzata è l'immensa libertà che è concessa oggi all'uomo. Ma questa è congiunta indissolubilmente con un altrettanto immenso rischio. È come un simbolo il fatto che le scoperte e le conquiste più feconde si siano sviluppate e continuino a svilupparsi per gran parte in connessione con la guerra. Senza una simile connessione, la fisica e la tecnica atomica a-vrebbero percorso di certo un'altra via. Le chances del costruire più audace e del distruggere più radicale non sono mai state così intimamente unite nella coscienza generale.

La cultura non è una specie di organismo oggettivo che stia in se stesso a guisa d'una cosa, ma è nel contempo e in ogni suo punto una compagine esistenziale, ossia è il mondo dell'esistenza dell'uomo che la crea e che vive in essa. Il criterio, a cui dev'essere commisurata, è dunque non solo la questione di che cosa essa realizzerà per voi, ma anche il problema di che cosa farà dell'uomo. Ciò vale non solo per l'ordine dell'economia e del benessere, ma anche per lo Stato, l'arte, anzi per la stessa scienza. Noi lo dimentichiamo facilmente. L'idea moderna dell'autonomia dei settori culturali ci ha resi ciechi verso importanti collegamenti.

La questione è tanto più pressante, in quanto il divenire delle forme culturali avanza sempre più rapidamente. A questo proposito, l'immagine largamente affermata d'un moto sempre ascendente in valore quale si esprime nel concetto dell'evoluzione s'incrocia con un'altra opposta: quella d'un progressivo declino. Alla prima appartengono gli ottimismi, le teorie del progresso e del glorioso futuro; alla seconda il Sentimento che le cose non vadano come devono andare e che tutto sia incamminato verso una catastrofe, E faremo bene a tener presente che non sono

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gli spiriti più profondi quelli che si professano fedeli all'immagine ottimistica.

Con il lavoro della cultura l'uomo si assicura contro i pericoli della natura e s'impadronisce di questa per i suoi scopi. Ciò significa che egli conquista una potenza sempre maggiore. Ora la potenza non è un valore per sé. Il suo valore viene definito soltanto, dalla domanda: potenza per che cosa? Un osservatore dallo sguardo più profondo ha però l'impressione che alla questione non venga risposto con chiarezza; che anzi essa non venga neppure posta correttamente. Per ciò egli ha lo strano presentimento che quella potenza non venga in fondo neppure più regolata dall'uomo, ma che questi entri sempre più nella funzione d'un semplice generatore o trasformatore di energia. Che l'uomo non sia più il vero soggetto di potenza, ma il passaggio d'un anonimo fiume di idee, scoperte, costruzioni. Anzi quell'osservatore non può far a meno di pensare che l'uomo attuale, nel fondo, sia d'accordo con tale sua funzione; che egli si senta addirittura bene in essa, dal momento che essa lo sgrava della sua responsabilità.

Tutto ciò si mostra in due concetti che hanno raggiunto ora un'importanza normativa. Il primo è quello del « processo ». Cioè l'uomo vede se stesso e il proprio fare secondo l'immagine d'un evento in cui le singole fasi scaturiscono di necessità dalle precedenti. Lo altro concetto è però quello del « progresso ». Esso cerca di conferire significato al concetto di « processo », affermando che quest'ultimo va con tutta sicurezza verso il meglio. Quanto più intensamente e più lungamente il processo è in corso, tanto più ricca, libera, tanto più degna dell'uomo diviene l'esistenza.

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Tutta questa concezione può assumere carattere diverso. Così, per esempio, l'individualismo liberale è dell'opinione che l'elemento operante sia la spontaneità del singolo. Quanto maggiore è l'abbandono fiducioso con cui questi si esplica, tanto più feconda per tutti sarà la risultante. Il totalitarismo, al contrario, afferma che il vero motore del progresso sia u-na necessità operante nel complesso della storia, la quale si esprime in forma normativa nello Stato. Quanto più integrale sarà da parte dello Stato l'iniziativa, tanto più sicuramente la storia porterà verso Y optimum universale. Queste idee costituiscono per una buona parte le secolarizzazioni della dottrina cristiana della Provvidenza. Esse hanno assunto largamente il carattere di motivazioni acritiche, anzi inconscie; tanto più forte è di conseguenza la loro influenza.

Se vedo giusto, si comincia a intuire che tali concezioni sono false. Anzitutto dal punto di vista della stessa oggettiva opera di cultura. Se da questa si isola una singola linea — ad esempio, un determinato problema tecnico, un determinato metodo terapeutico — allora risulta chiaro un progresso verso il meglio. Ma, se si assume la cultura nella sua totalità, se si osserva come un elemento incida su ogni altro, allora si vede che ogni volta un vantaggio in un senso viene pagato con una perdita in un altro senso. Cosicché la domanda se questa totalità si muova verso il meglio o verso il peggio resta senza risposta.

Ancora più problematica si fa la questione, non appena ci si domanda che cosa risulterà da tutto ciò a proposito dell'uomo. Allora si vede che la specializzazione sempre più universalmente richiesta restringe la personalità; che là dove si raggiunge una certa universalità, non si tratta d'una totalità reale, ma d'una spe-

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eie di dilettantismo, che il perfezionamento degli strumenti e apparati tecnici indebolisce gli organi umani vivi; e che i movimenti di ritorno alla natura rendono stravaganti. Anzi si vede che, come per controgioco verso l'ansia per l'uomo, viene diffusa la teoria — un'idea a cortocircuito che la scienza non deve occuparsi dei valori, ma unicamente ricercare, indifferente ai risultati; che l'arte esiste solo per se stessa . e che non le deve importare un'influenza sull'uomo;

che le strutture della tecnica sono opera del superuomo e che vivono d'un diritto loro proprio; che la politica realizza la potenza dello Stato e che non ha bisogno di preoccuparsi della dignità, ne della felicità nella vita dell'uomo, e via dicendo.

Le concezioni sopra nominate sono in fondo tentativi di giustificare la profonda anarchia che domina nella attività culturale. Ciò può — apparentemente — funzionare fino a quando ancora esistono uno spazio neutrale e riserve inutilizzate. Ma la nostra situazione è diventata a tal punto acuta, e le energie che sono in gioco sono cresciute a tal punto, che l'individualismo è manifestamente alla fine; ma il totalitarismo, nonostante la sua momentanea elevata congiuntura, è in fondo esso pure alla fine.

7. - Che cosa deve succedere.

Tutto questo significa che ciò che importa non è lo scoprire soluzioni migliori in questo o quell'altro senso, o non è l'organizzare in modo più finalistico il tessuto dei vari fenomeni. Deve avvenire qualcosa di più radicale. La totalità dell'esistenza, la vita e l'opera dell'uomo, devono essere viste in modo nuovo, sottoposte a giuste misure di valore e ordinate in modo corrispondente all'essenza propria.

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I miei uditori s'aspetteranno che la conclusione d'una conferenza apporti a tal riguardo, qualcosa da prendere sul serio. Posso soltanto offrire accenni, allusioni da esperienze personali, che vuoi dire ristrette. Ma queste — mi permettano di parlare con tutta chiarezza — mi portano a pensare che l'uomo attuale non è ancora idoneo a un simile nuovo vedere, valutare e ordinare; non è ancora capace di ridurre sotto la sua forza le potenze culturali tendenti all'anarchia, Affinchè egli possa farsi capace a tale compito, si devono creare presupposti che stanno al di fuori delle competenze specifiche. Il centro della coscienza culturale deve essere collocato più in profondo, nell'interiorità dell'uomo, affinchè quegli atti elementari del comportamento culturale, di cui si è parlato, possano essere compiuti in modo nuovo. II responsabile deve farsi capace di vedere ciò che si verifica, sulla base di criterii i quali lo rendano indipendente da abitudini tradizionali di pensiero; e di riportarsi grazie a questa capacità di visione, dal caos culturale in cui viviamo, in una libertà che sia adeguata al suo livello.

Ciò che intendo, vorrei esprimerlo per mezzo di due concetti che suscitano entrambi scandalo; meglio, si spera che suscitino scandalo. Giacché ogni istanza davvero attivante rompe l'abitudine e desta anzitutto reazione.

Primo. La nostra vita culturale ha bisogno d'un elemento contemplativo o meditativo. Questo elemento è andato perduto nel corso degli ultimi secoli a causa dello sviluppo sempre più rapido dei popoli occidentali verso il razionalismo e l'attivismo. In tal modo essi sono divenuti disarmati di fronte alla logica propria e specifica dei problemi scientifici e tecnici.

Il termine « contemplativo » qui non ha niente a

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che fare con il misticismo, ma è altrettanto realistico che pratico. Esso intende che nella vita dell'uomo moderno, soprattutto di quello che porta responsabilità ed effettua decisioni, deve essere introdotto un quid che si può descrivere all'incirca nel modo seguente. Deve costituirsi una autentica interiorità, la quale possa contrastare le tendenze esteriorizzanti e dissipanti del tempo. Il nucleo personale deve poter sperimentare un consolidamento che gli consenta ogni volta di puntare in forza d'una coscienza della verità su prese di posizione che siano più forti di quelle degli slogans e della propaganda. Poggiando là dentro, l'atto che crea la distanza — e non solo rispetto alla natura, ma anche all'ambiente, alle condizioni dell'epoca e deS.a società, alle convenzioni e alle tradizioni d'ogni specie — potrà acquisire la forza capace di opporsi ed imporsi realmente. A questo riguardo si può ricordare che le convenzioni nel giudicare cose dello spirito possono essere assai più tenaci delle convenzioni sociali. Egli perverrà così alle condizioni di poter vede-. rè in modo nuovo ciò che avviene, di poterlo giudicare giustamente e di penetrare fino in fondo con il suo sguardo nelle evidenze ed ovvietà apparenti, cristallizzatesi dappertutto.

Non si tratta dunque d'un comportamento specificamente religioso, ma di qualcosa che appartiene alla totalità della vita umana. Si tratta, se si vuole, di una « meditazione culturale ». Le riflessioni e le operazioni culturali si muovono di regola soltanto entro il settore speciale corrispondente della scienza, della tecnica, dell'economia, della politica, ecc. Esse sono condizionate dal principio del risparmio di energia e si trattengono perciò il più possibile nei binari direzionali abituali. Allo stesso modo che solo forze dello spirito, caratterizzate dal loro oggetto, entrano in

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azione: intelligenze, progettazioni, attività tecniche, organizzazioni economiche.

Le zone più profonde, l'umana e viva partecipazione ai problemi, la serietà della persona e la sua responsabilità vengono il più possibile messe fra parentesi, e ciò poi viene giustificato solitamente come « realismo », come « oggettività ». Per mezzo della meditazione tutto l'uomo entrerebbe nella riflessione, allo stesso modo che essa presenterebbe ai suoi occhi tutto intero il contesto significativo dei contenuti di riflessione. ' ' .

Per esempio, l'uomo responsabile potrebbe riflettere se sia esatto che i fenomeni scientifici, tecnici, politici formino un processo svolgentesi di necessità, e che perciò essi debbano andare come vanno. Gli potrebbe risultare chiaro che in questo caso si è insinuato, con i più vari travestimenti, il momento pseudoreligioso del fatum, esercitando la sua efficacia in modo acritico. Egli potrebbe, in un simile ritorno in. se stesso, domandarsi: ma è proprio vero? Esiste proprio questo processo, la cui concezione domina apertamente il pensiero marxista e segretamente anche il don-marxista? E potrebbe avvenire che dapprima solo uomini singoli e che poi uomini sempre più numerosi riconoscano che non è vero affatto. Se egli, per esempio, considerasse dalla sua interiorità la collusione in cui sono finite col trovarsi le ricerche della fisica atomica con i motivi e i metodi deMa guerra, vedrebbe che quella specie di magico « dover - essere - per necessità » 'non c'era; che esistevano vere possibilità di diverso genere; che da più parti, anche da parte degli scienziati, sono state commesse colpe reali e foriere fatalmente di vaste conseguenze, colpe che poi si è voluto coprire con il dogma della necessità politico-militare. Oppure: egli potrebbe ri-

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mettere in questione il principio che il « benessere » sia realmente il massimo valore nella struttura intrinseca dello Stato. L'uomo moderno propende verso tale opinione. Ma è giusta? Giusta anche qualora si dimostrasse che il crescente benessere si può raggiungere soltanto per mezzo di complessi di leggi e di poteri, di controlli e di costrizioni, che indeboliscono l'autonomia della persona e sotterrano la serietà della sua responsabilità vitale? Egli potrebbe porsi la questione apparentemente così antisociale se un po' di benessere di meno e un po' di autoresponsabilità di più non sarebbero forse qualcosa di meglio che non il crescente standard di vita e una progressiva perdita di libertà da maggiorenni. Una vera meditazione, che rovesciasse l'incantesimo delle opinioni correnti e che penetrasse nell'essenza delle cose, potrebbe aprire gli occhi anche su questo campo. Un uomo con simili convinzioni potrebbe porsi in contrasto con la totalizzazione della vita insinuantesi, che si afferma ovunque in forza dell'apparato statale, una totalizzazione che in questo o in quel particolare viene sempre giustificata da eccellenti punti di vista, ma che alla lunga altera il carattere stesso della res publica, la quale dev'essere per l'appunto un ordine di persone sottoposto ai criteri di valore della libertà e della responsabilità.

In che modo una simile meditazione sulle realtà culturali si debba imparare ed esercitare senza che abbia a degenerare nel vezzo esoterico di far misteri o in artificiosità riformistiche, è una questione a parte. Occuparsene sarebbe un compito assai serio della formazione degli adulti. Soprattutto ci sarebbe da stare attenti che su questo nuovo settore non sorga un'impresa, un'azienda: serie di conferenze, settimane di lavoro, libri e libretti e articoli, in cui la nuova tro-

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vata venga ridotta a un motivo di sensazione. No, ma la questione deve essere considerata seriamente; la questione in che modo si arriva alla vera conoscenza, una conoscenza cioè che non generi soltanto esattezze intellettuali, ma che entri nelle essenze e crei una serietà la quale è qualcosa di più che soltanto og-gettività.

Il secondo concetto è strettamente connesso con quanto si è già detto: è l'ascesi. Essa è, per l'uomo colto moderno, un orrore; espressione di una ostilità contro la vita di derivazione metafisica o perfino sacrale. In realtà, anche qui qualcosa è andato perduto, e l'uomo moderno è divenuto di conseguenza più debole. L'uomo attuale e futuro ha da fare con energie di dimensioni enormi. È esposto a rischi e pericoli di proporzione totale. Ora la sua situazione non è dominabile da parte d'un atteggiamento spirituale relativistico. Questo crea una specie d'uomo che è forte quanto alle posizioni di problemi scientifici e tecnici, ma che è fiacca come personalità. In questo uomo si vanno obnubilando la distinzione fra giusto e ingiusto, il rapporto fra l'utile e il rispetto per l'uomo, la distinzione di livello fra essenziale e accidentale. L'uomo diviene inerme verso la tendenza del divenire culturale e nasconde la sua debolezza dietro il principio della inevitabilità del processo.

L'uomo deve imparare un'altra volta a mirare a posizioni assolute, deve farsi di nuovo capace di formarsi un vero giudizio circa le realtà della vita culturale e di mantenerlo fermo, deve prendere posizione e perseverarvi lottando. Tutto ciò non cammina da sé, gli atti relativi devono essere sviluppati; ma quello che rende possibile ciò è appunto l'ascesi: una autodisciplina, la quale limita l'eccesso delle pretese di vita,

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riduce nella misura conveniente l'esorbitanza del consumo e del godimento, spezza la dittatura dell'ambizione e della sete di guadagno; e tutto ciò non per ostilità contro la vita, ma per una volontà di vita più libera e valida.

Senza pericolo di esporsi al sospetto dell'autocelebra-zione, possiamo dire che nel nostro tempo esistono possibilità del tutto nuove per una grandezza dell'agire e dell'essere. Ma la « grandezza » non è un fatto quantitativo, bensì è una questione di valori inferiori, una questione di libertà e di stile. Ora la grandezza non è mai nata dalla condiscendenza verso l'istinto. Così l'idea dell'ascesi si approfondisce, e insorgono questioni che probabilmente riusciranno di tono molto reazionario a un ascoltatore moderno. Per esempio: una conoscenza, che viene conquistata, deve proprio essere senz'altro resa generalmente accessibile? Così afferma una regola della moderna attività scientifica; ma è giusta questa regola? Non vi si traveste forse un ottimismo razionalistico, secondo cui ogni verità scientifica, è sempre di vantaggio? Uno scienziato del nostro tempo ha detto che noi cominciamo ad avvertire che la linea della conoscenza scientifica non coincide di necessità con quella dell'autentico progresso umano. Non insorgono da ciò problemi della saggezza? Della coscienza che ogni conoscenza ha effetti, e che perciò bisogna concedere all'uomo tempo di maturare in conformità alla conoscenza conquistata finora? Che esiste una grande differenza se un'idea viene pensata da uno spirito abituato alla scienza, o se essa viene diffusa al pubblico, dove avrà conseguenze di natura assai diversa? Ma tutto ciò presuppone la capacità di tacere; e questo vuoi dire, dati i casi, di rinunciare a precedenza, a prestigio, a guadagno.

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L'opinione comune è convinta che la serie folle delle scoperte tecniche sia senz'altro un progresso. Una più profonda riflessione non potrebbe cogliere .la falsità d'una simile opinione? Novità tecniche debbono pur di necessità venire eleborate umanamente; ma per questo ci vuole tempo. Non è dunque una vera incon-scienza — per omettere giudizi ancora più duri — il realizzare una novità tecnica dopo l'altra? Accanto a una economia della realtà materiale, non c'è forse anche una economia della realtà umana? Non abbiamo forse semplicemente capitolato davanti alle costrizioni dei problemi tecnici e non consentiamo forse una corsa selvaggia a questo nostro continuo scoprire e costruire? In rapporto con l'arma atomica si è parlato d'una « tentazione della tecnica ». È una e-spressione assai felice per indicare la violenza che nasce dalla possibilità di far sì che qualcosa funzioni. Il libro di Robert Jungk sul destino degli « apprendisti stregoni », scopritori della bomba atomica, parla in modo inquietante del mo'do come la coscienza morale abbia ceduto a questa tentazione, e come questo crollo sia stato coperto con le parole del progresso, della necessità militare, del valore futuro delle applicazioni pacifiche, eccetera. Il libro dello Jungk è un tentativo serio; un tentativo da portare avanti con ogni sforzo.

Queste questioni segnano a dito i veri problemi etici del nostro tempo. Essi sono più importanti e, in quanto nascosti, più incidenti di tante questioni sociali o economiche, che hanno già trovato i loro termini e il loro piano di discussioni. Ma la loro ' soluzione, nel più profondo, non dipende da considerazioni intellettuali, bensì da atteggiamenti del carattere, i quali non esistono evidentemente ancora: dalla capacità di penetrazione e di visione complessiva da'l-

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l'alto, di giudizio e d'inserimento in ordine, di saggezza e di moderazione; cose tutte conseguibili unicamente con quella disciplina ulteriore che si chiama appunto « ascesi ».

Io so ciò che vi si può obiettare. È facile quanto un gioco infantile rendere ridicolo quanto abbiamo detto; quasi vorrei dire: tanto più facile quanto più uno è superficiale. In realtà, queste considerazioni sono realistiche in alto grado, giacché esse provengono dall'ansia per quell'essere che in ultima analisi regge tutto il resto, cioè per l'uomo e per la sua personale integrità. Che cosa serve tutta la tecnica se l'uomo diviene sempre più povero di sostanza umana e sempre più debole nella sua libertà?

È qui che si adottano le decisioni storiche supreme. Non c'è decisione dell'O.N.U., non c'è controllo internazionale che risulti efficace, anzi che possa venire a capo anche solo degli astuti giochi diplomatici, se le condizioni d'una reale efficienza non vengono create qui.

Noi cominciamo a guardare all'India con esitante speranza. Ci domandiamo se di lì non possa derivare alla politica mondiale un fattore nuovo, il quale potrebbe valere di più che semplicemente un nuovo centro di interesse, di più che un'altra tecnica di trattativa. Ci si domanda se là non vi si elabori un atteggiamento, quello che è cominciato con Gandhi, il quale fu deriso come un pazzo, ma che ha creato la libertà dell'India. La novità in questo sarebbe però che degli uomini prendono possesso della scienza e della tecnica e che pensano e agiscono sulla base di un umanesimo più completo di quello dell'esteriorizzato ed eccitato Occidente; e più completo di quello orientale, quando questo somma insieme idee occidentali con il disprezzo asiatico dell'uomo.

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L'UOMO INCOMPLETO E LA POTENZA * III

I. - La sottomissione della natura.

1. - Noi vogliamo affrontare questo nostro problema in modo da renderci anzitutto consapevoli del rapporto in cui l'uomo primitivo si ritrovava in ordine al mondo. Sarà un tentativo appena possibile a noi moderni così ricchi di conoscenze e di tecniche;

ma è almeno un tentativo da fare, perché soltanto su questo sfondo la questione si può chiarire.

L'uomo primitivo si vede circondato da una natura che non comprende. Perciò arrivano da essa su di lui angustie in numero incalcolabile. L'inclemenza dei fenomeni atmosferici è aspra e terribile e le catastrofi naturali sconvolgenti. Solo con molta fatica egli riesce a procurarsi il cibo e il vestito. Il mondo animale, che lo circonda, .gli è minaccioso e ostile, e molte e gravi sono le malattie che lo colpiscono. Contro tutto ciò egli ha da opporre nell'ordine naturale delle cose una organizzazione difensiva di gran lunga insufficiente, giacché non può disporre ne della velocità dell'animale, ne dei suoi strumenti naturali di lotta; la sua stessa posizione eretta gli procura a tutta prima più pericolo che vantaggio.

Diciamolo con più precisione: egli non è appunto un

• Questi pensieri sono stati sviluppati la prima volta in una conferenza tenuta dall'autore alla sessione annuale dell'Unione degli addetti alle ferriere tedesche nel 1955 a Dùsseldorf. Essi furono in seguito riveduti e corretti e sviluppati ulteriormente. Ma si conservò il tono e la forma della conferenza, dato che erano in stretto rapporto con il modo della trattazione.

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animale, bensì qualcosa di più e di diverso, cioè un uomo, ma proprio per questo esposto al pericolo più di qualsiasi animale, il quale si trova del tutto inserito adeguatamente nel suo ambiente per mezzo dei suoi organi e istinti. Già nell'uomo primitivo vive, benché ancora legato, lo spirito. Lo spirito creerà, in un lasso di tempo inconcepibilmente breve rispetto ai periodi dell'evoluzione biologica, la cultura. Ma all'inizio e paragonato alla sicurezza dell'animale perfettamente inserito nel suo ambiente, lo spirito stesso agisce in stato di pericolo. Infatti la ricettività verso le impressioni e le reazioni contro di esse, gli atti difensivi e aggressivi, le misure con le quali egli si regge contro i condizionamenti dell'ambiente e si procura il proprio mantenimento e la propria sicurezza: tutto ciò è nell'efficienza dello spirito meno immediato, meno sicuro e preciso che nell'animale. Ciò che in seguito conferirà all'uomo la sua immensa superiorità sull'animale, è al principio un ostacolo.

L'uomo primitivo deve avere perciò sofferto terribilmente di indigenze e di tribolazioni penose. Inoltre angosciose paure inimmaginabili di fronte alle potenze della natura che egli non capiva. Di più ancora:

paure che, in conseguenza della sua grande ma spiritualmente ancora oscura e torbida esperienza religiosa, assumevano forme di spaventosità demoniaca. Parecchi elementi tenebrosi nelle profondità del nostro inconscio attuale discendono da quell'epoca ^ cupa \

Tuttavia l'uomo si accinge alla difesa; e la prima arma che rivolge contro la natura è l'esperienza. Da

1 Non ho bisogno di sottolineare che qui non si parla affatto di evoluzionismo. Tutto il complesso dei concetti di creazione, stato originario, ribellione originaria ed eredità del peccato originario, è rimasto fuori della considerazione.

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incontri vari con gli orsi delle caverne egli sa che se si comporta così e così, può salvarsi. Se egli si colloca in una certa dirczione del vento, riesce a ingannare l'animale. Se taglia a nuoto obliquamente il fiume, la corrente lo aiuta. In tal modo egli accumula esperienze su esperienze e impara. E impara precisamente in forza dello spirito. Non dovremmo lasciarci suggestionare da teorie che tentano di comprendere il divenire culturale dell'uomo per mezzo di concetti naturalistici; essi non fanno che rendere il processo incomprensibile. L'uomo impara in un modo diverso dall'animale, perché egli sta nel mondo diversamente da esso. La sua posizione verso l'ambiente a lui circostante è determinata a priori dallo spirito, positivamente e negativamente. Egli dunque impara; il suo comportamento diviene più sicuro; il risultato più facile. Trasmette ciò che ha imparato ai suoi figli, e questi cominciano con chances migliori. In questo lo aiuta ciò che noi chiamiamo « istinto »:

lo spontaneo sentimento con cui egli penetra nel mondo; il senso dei pericoli e della difesa da essi;

l'immediata sensibilità a cose che corrispondono ai suoi bisogni. Sarebbe molto interessante la questione della distinzione del fenomeno dell'istinto nell'uomo e nell'animale, e dei rapporti dell'atto istintivo con lo spirito, il capire e il programmare; ma qui non possiamo affrontarla.

2. - Ben presto inizia la creazione dello strumento. L'uomo avverte che fa di più se percuote qualcosa con una pietra invece che con il pugno; e di più ancora se la, pietra viene affilata; ancora di più se lega la pietra affilata a un bastone. Aumenta così la sua capacità di affrontare un pericolo o di conquistare l'oggetto d'un desiderio.

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Lo strumento semplice rimane entro il quadro delle funzioni corporee; ma l'uomo trova dell'altro. Egli fa per esempio l'esperienza che gli è possibile ordinare pezzi di legno e pietre in un insieme in cui l'animale viene preso: la trappola. Oppure scopre che la penosa fatica del mulino a mano può venire eliminata con il far girare la pietra per mezzo della corrente d'acqua: il mulino. Ciò vuoi dire che egli impara a captare le energie della natura e a guidarle in modo che ne risultino certi effetti corrispondenti alle sue intenzioni: l'apparecchio; un complesso obiettivo e strutturato per mezzo del quale le forze della natura vengono costrette a determinate prestazioni da lui vellute.

Dal processo dell'esperienza, dalla sicurezza dell'istinto, dall'abilità nel disporre e nel coordinare i materiali e le energie scoperte, sorge il mondo delle tecniche con cui l'uomo si difende dalla natura o se ne impadronisce. Ma ciò che dona a tutto questo contesto il suo proprio autentico significato è che l'uomo in tutto ciò non soltanto conserva nella memoria constatazioni casuali, ma che egli intende spiritualmente i processi: è che egli scopre regole per la loro effettuazione; riconosce i motivi per cui questo va così e non altrimenti, e via dicendo. Tutto ciò, nel corso della storia, porta a poco a poco alla conoscenza esatta della natura e delle sue leggi.

3. - In tal modo l'uomo si fa sempre più decisamente signore della natura. Qui si rende efficiente un principio che vogliamo chiamare legge della duplicità (Zweiseifigkeif). Quando io alzo una pietra per lanciarla, il sollevamento del suo peso mi affatica. Se io acquisto qualsiasi cosa, la devo conservare e difendere; anzi, la semplice realtà di fatto del-

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l'avere altera in qualcosa il mio atteggiamento. Ciò vuoi dire: l'uomo non può mai esercitare un'azione senza sperimentare egli stesso' una contro-azione. In tutto ciò che fa, qualcosa viene fatto a lui. Tutte le volte che afferra qualcosa, viene egli stesso afferrato. Da tutto questo insieme si forma un quadro dinamico di enorme complessità: i bisogni vitali trovano soddisfazione; le disposizioni psico-spirituali si evolvono;, il contenuto di valore dell'esistenza aumenta. Si compone quell'insieme molteplice d'aspetti e di significati in cui s'intrecciano in unità la realtà ogget-tiva e quella personale, e che chiamiamo « cultura ». In essa l'uomo supera anche quell'esperienza sconvolgente e deprimente di cui abbiamo parlato: il senso d'essere in balìa della natura, la paura angosciosa davanti alla natura. Quanto maggiore il nostro potere su di essa, tanto più ricca è l'esistenza, tanto più libero il sentimento vitale, tanto minore la paura.

II. - La problematica della potenza.

1. - Ora, è proprio questa la formula piena dell rapporto dell'uomo e della natura? La mentalità che anima l'età moderna annuisce. La possiamo formulare nel modo seguente. Il corso della storia importa un costante progresso verso una sempre più perfetta signoria sulle cose. In questo modo gli uomini vengono sempre più garantiti contro i pericoli; i loro bisogni vengono sempre meglio soddisfatti e possono così sempre più raffinarsi; la vita della personalità umana si espande; cresce la felicità dell'esistenza. In questo risiede il significato della storia. « Storia » significa progresso in senso puro e semplice. È vero tutto dò?

È vero fino a quando l'uomo può anche personal-

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mente elaborare la materia del mondo di cui viene in possesso. Fino a quando dunque, per mezzo della contro-azione che si riverbera su di lui da quanto egli ha afferrato, cresce la salute del suo corpo, la forza d'esperienza del suo spirito, la nobiltà etica della sua persona. ' Ma il passato e il presente ci dicono che tutto ciò non si è sempre verificato, ne sempre si verifica. Che invece hanno luogo 'di continuo sovrasaturazioni, in cui l'uomo non riesce più a rielaborare in modo corretto la materia del mondo conquistata. Nell'eccedenza del possesso, egli non riconosce più un ordine dei valori in modo da orientarvi il proprio agire;

non ha coscienza chiara della dirczione della sua attività costruttiva o distruttiva; soggiace alla pressione delle situazioni materiali, sociali, politiche, come pure delle mode culturali.

Certo, l'uomo con il suo crescente potere sulla natura diviene più sicuro, più libero e creativo; ma soltanto fino a tanto che può rispondere giustamente alla domanda decisiva che suona: « Potere: a che scopo? ». Giacché il potere riceve la sua caratterizzazione unicamente da ciò che si fa con esso.

Ma l'uomo con il suo potere fa ciò che con esso deve fare? L'esperienza d'ogni giorno e la storia mostrano che questo non è sempre il caso; che l'uomo può fare con la sua potenza anche le cose più folli, deleterie e malvage.

Si risponde, è vero, che esiste pure ciò che si chiama ragione e moralità. Senza dubbio, ma ragione e moralità sono sostenute dalla libertà, e lo devono essere, altrimenti non sarebbero che una pura funzione, e la libertà non può venire garantita.

Oppure ci si rimette all'influsso dell'educazione. La educazione è certamente molto importante;, e in real-

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tà i credenti della fede nel progresso ripongono una fiducia addirittura religiosa nelle varie attività pedagogiche circa piccoli e adulti, singoli e collettività. Essi sono convinti che la vera educazione volgerà ogni cosa verso il sempre meglio. Ciò che si deve dire al riguardo è ovvio. La prospettiva è, nel suo nucleo, altrettanto discutibile come quella del progresso incessante. Giacché l'uomo nella sua profondità vive di decisione, e questa è libera. La storia comincia di nuovo in ognuno. L'idea dell'educazione è falsa, .se questa si considera come un elemento del progresso sicuro. L'autentica pedagogia dev'essere concepita e strutturata in ordine alla libertà e perciò alle possibilità tragiche dell'agire umano, dei singoli, dei gruppi e della totalità.

Ma si penetra nel nocciolo del problema e ci si domanda: che cosa si esprime nella decisione della libertà? Che cosa la determina? La risposta sarà allora: la mentalità, l'orientamento spirituale (Gesin-nung) dell'uomo. E per ciò che attiene a questa sies-sa, non si arriverà a dire molto di più che: « Sei pure tu stesso un uomo. Guarda dentro di tè ». Ma sarà ben utile, a chiarimento di ciò che significa mentalità dell'uomo, mettere nel conto i nostri ultimi quarant'anni con la loro incommensurabile incoscienza morale e con la loro inconcepibile follia.

Alla luce di tale intuizione non è per nulla unicamente uno stimolo alla tranquillità, il fatto che la potenza dell'uomo sulla natura — e su se stesso — aumenta costantemente e con ritmo sempre più veloce. Con tanta velocità e vastità che si può constatare spesso un sentimento degno di nota e singolare: quello che l'uomo possa radicalmente tutto. O se questo può suonare esorbitante, si potrà dire: può tutto ciò che gli pare e piace.

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Naturalmente egli s'imbatte ovunque in limiti, e una catastrofe dopo l'altra lo ammonisce. Tuttavia il sentimento di fondo è quello e dice: purché noi indaghiamo abbastanza a lungo, esperimentiamo con sufficiente precisione, allineiamo esperienze accanto ad esperienze, allora potremo tutto ciò che vorremo!

2. - Siamo così arrivati ad accostare quello che costituisce il pericolo della potenza. Esso consiste anzitutto nel fatto che la potenza mette bensì l'uomo in grado di sottoporsi la natura, ma essa è pure un mezzo che egli è in grado di volgere contro gli altri uomini per dominarli, danneggiarli o annientarli. Gli altri uomini possono essere un popolo straniero, e l'uso della potenza si identificherà allora con la guerra, con la oppressione o la eliminazione. Ma potrebbero essere anche il proprio popolo, o un gruppo in esso, o singoli cittadini, e l'azione consisterà allora nella rivoluzione, nella dittatura, nella spogliazione dei diritti in campo economico-sociale, nella concorrenza, nei lavori forzati, nello sfruttamento, nei campi di concentramento, e così via.

E che cosa decide a scatenare fatti di tal genere? L'uomo stesso: di volta in volta quello che ha la mano sulle leve. Un luogo comune, vero? Ma io credo che non è poco essere capaci di riflettere sui luoghi comuni. Ciò che questi dicono sono le verità di fondo che reggono l'esistenza,

Ciò che allora importa è fino a qua! punto l'uomo che ha la mano sulle leve riconosce norme che stanno al disopra dell'istinto della potenza, al di sopra dello Stato, al di sopra del popolo, anche nelle condizioni di estrema emergenza. Fino a qual punto egli è capace di riconoscere l'imperativo di quelle norme nelle situazioni date, e fino a qual punto è

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forte abbastanza da renderle efficienti contro gli impulsi anche più evidenti violenti e pressanti di natura politica, economica, sentimentale. Ma gli avvenimenti degli ultimi decenni ci hanno insegnato che cosa ciò concretamente significa: presso noi tedeschi e presso gli altri popoli; presso tutti, nessuno escluso, anche se i programmi possono essere molto convincenti e gli slogans molto efficaci.

Ma poi ancora un ulteriore quesito si fa chiaro: i pericoli della potenza concernono soltanto gli altri? Già Socrate avrebbe detto: « Amico mio, tu dimentichi colui che nel caso dell'abuso ci perde più di tutti, cioè colui che esercita la potenza! ». E all'obiezione che costui saprà pure difendersi, quell'antico saggio avrebbe risposto: « II pericolo non arriva a lui da fuori; contro un simile pericolo ce l'avrebbe fatta. Esso viene da dentro; da lui stesso. La potenza tende a un sempre più incisivo uso di sé; cioè verso quell'uso che disprezza ogni norma ad essa superiore. Allora chi soccombe a tale tendenza crede di dominare sugli altri; in realtà è lui stesso che viene dominato, e precisamente dalla sua propria potenza ».

Ciò che istiga l'uomo alla conquista e all'uso della potenza sono infatti non soltanto scopi ch'egli si proponga di realizzare una volta raggiunta una capacità di disporre di uomini e di cose, ma è un istinto che cerca la potenza per se stessa; che ne gode emarginando e scavalcando ogni scopo.

Ora, gli istinti hanno nell'uomo la tendenza a sot-trarsi al contesto significativo della vita, ad autonomiz-zarsi e a perdere infine il senso e la misura. Nello animale l'istinto singolo è inserito nel tutto, è rapportato con gli altri animali e controllato nella sua misura e nella sua direzione. Non appena esso ha raggiunto l'adempimento previsto, si placa. All'essenza

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dell'uomo appartiene lo spirito, e nello 'spirito la libertà. In lui gli istinti raggiungono una ampiezza, una profondità, una forza, anzi persino una libertà, che negli animali non hanno. Ma proprio per questo essi perdono quella sicurezza che viene conferita dai controlli delle leggi naturali. Essi corrono il pericolo di uscire dalla connessione con il tutto, di evadere nello smisurato, di farsi insensati e di rivoltarsi contro la propria stessa vita. Ciò che allora insorge è a tal punto assurdo, distruttivo e maligno che risulta incomprensibile e si parla di demoniaco. Noi non abbiamo che da pensare a figure della storia degli ultimi decenni per avere l'incarnazione di tutto ciò. La potenza è costruttiva finché colui che la possiede sta nell'ordine dell'esistenza. Finché in lui l'istinto della potenza resta inserito nel tutto e viene controllato quanto alla sua misura e alla sua direziono. Finché egli ha l'occhio attento al sistema compensato in cui ogni impulso in un determinato punto opera alterazioni in un altro e ogni valore conquistato viene pagato con la perdita d'un altro. Finché si riconosce responsabile del fatto che il diritto si adempia e che l'istinto della potenza resti subordinato a quest'imperativo del diritto.

Se tutto ciò non si avvera, la potenza conquistata attraverso così lunghi sforzi allo scopo di promuovere la vita, si rivolta contro di essa.

III. - L'incompletezza dell'uomo attuale.

1. - L'uomo moderno ha sviluppato copiosamente quelle doti che erano necessarie per creare ciò che noi chiamiamo scienza e tecnica. È derivata di lì una ricchezza immensa di beni e di strumenti e con essi una enorme potenza sulla vita. Ma quest'uomo ha

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l'e condizioni umane necessario per dominare tutto ciò, in modo che ne nasca una vera cultura? Un ordine in cui l'uomo possa vivere in quanto uomo nella libertà e nella dignità?

Posta la domanda in forma ancora più radicale: possiede tutte quelle attitudini e quelle forze che appartengono all'essenza piena dell'uomo? Quando l'uomo dell'epoca moderna realizzò i successi immensi degli ultimi cinque secoli, ha però subito un mutamento. Determinate qualità in lui si sono fatte più forti, fini, esatte, ma determinate altre più deboli, ottuse e insicure. Capacità e atteggiamenti necessari, quando si deve parlare dell'uomo completo, sono andati perduti. L'uomo è diventato « incompleto ».

Cerchiamo di fare una piccola ricognizione della situazione.

2. - L'uomo è un essere parlante. Egli possiede la nobile capacità della parola, con la quale entra in dialogo con l'altro e gli esprime ciò che sa e raggiunge così, insieme con l'altro, la comunità nella verità. Questa parola è piena quando emerge da un vedere, sapere, intuire reale. Ma ciò si verifica soltanto quando in questo stesso uomo c'è anche il tacere. E « tacere » significa non soltanto qualcosa di negativo, il fatto che non dica appunto niente, ma qualcosa di positivo in alto grado: una calma inferiore, una distesa e sciolta vitalità e profondità. Pensate alla ricchezza che si sente in vetta a una montagna solitària; o a quella pacifica pienezza che si ha in compagnia d'un amico quando si instaura quel buon silenzio, in cui si è vicini l'uno all'altro assai più che fra tante parole.

Non abbiamo che da guardarci in giro nel mondo che ci circonda per vedere in quale terribile misura

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questo silenzio sia scomparso e .scompaia sempre più;

quanto sopravvento abbiano le chiacchiere e come sempre più aumenti il rumore. Di fuori e, prima, dentro; giacché lo stato intcriore anche di quelli che tacciono è spesso tutt'altro che silenzio; è piuttosto una intcriore produzione di parole, che solo casualmente non esce fuori. E come se non ci fossero abbastanza chiacchiere immediate [dell'uomo d'oggi, quest'uomo si fabbrica anche l'esercito delle macchine parlanti!

Non occorre così un dono speciale d'osservazione per avvertire che la parola diviene sempre più inconsistente, più a buon mercato; perde di serietà, di profondità e di pienezza umana, senza parlare dell'imbarbarirsi della stessa lingua come tale.

L'uomo è attivo, si spinge avanti, lotta, conquista, lavora, plasma. Diventa padrone delle cose, architetto, governatore, legislatore del mondo. Ma appartiene alla vita del medesimo uomo anche la capacità di riposare. E una vera quiete non significa soltanto qualcosa di negativo: che uno non faccia esattamente niente, ma significa piuttosto il polo opposto del fare, come il silenzio è il polo opposto della parola. La quiete è un altro modo di vivere, vibrante in se stesso, altrettanto intenso del fare, solo diverso. E soltanto da questa quiete l'atto riceve la sua freschezza, la sua sicurezza, la novità e la creatività.

Ancora non c'è dubbio alcuno che il riposo scompare sempre più. Un paragone per esprimere quanto intendiamo: l'arte antica conosceva l'immagine dell'uomo immobile raccolto in se stesso, si pensi alle statue dell'arte egizia o romana. Quale quiete in esse! E per la verità non in conseguenza del fatto che quegli artisti non fossero in grado di rappresentare azioni, ma perché essi volevano raffigurare qualcosa

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d'altro: la calma presenza dell'uomo; di tutto l'uomo, del suo corpo e del suo spirito. Confrontate con esse le immagini artisdche del Rinascimento: le figure rappresentate non possono spesso più restare realmente sedute — per non parlare assolutamente più di un autentico troneggiare — ma esse si sono soltanto brevemente assise 'fra un'azione e l'altra, si alzeranno ben presto in piedi per iniziare una nuova azione.

Proprio della vita umana è anche l'atto che si espande dall'intimità: il moto verso l'altro, la mira verso l'incontro con uomini e cose. In questo egli esperisce ciò che è a lui straniero, da prova di se Stesso a suo riguardo, lo penetra e lo assimila.

Ma lo stesso uomo può anche ritornare in se stesso;

essere presso di sé, intimo a se stesso, padrone del proprio mondo inferiore. Anche questo non significa semplicemente il fatto che non vi è presente un altro con cui aver da fare, ma qualcosa di positivo: l'essere uno e solo; uno in sé in quanto vivente polo opposto del Tutto. Là dentro l'uomo porta ciò che ha preso fuori; ne rende conto a se stesso, se ne appropria, e ne nasce quello che noi chiamiamo la ricchezza cosmica (Weltreichfum) d'una personalità. Un'altra volta, dobbiamo dire che la capacità del ritorno nell'intimità, nella solitudine con se stessi decresce progressivamente. Sempre di più l'uomo è « di fuori ». Sempre più spesso insieme con gli altri. Sempre di più egli si pubblicizza; mostra e viene mostrato, in adunanze e interviste, nei giornali, nella radio, nella televisione, ecc. La sfera privata si attenua sempre di più; la casa perde d'importanza a vista d'occhio. Sempre più crudo si delinea nell'immagine caratteristica del nòstro tempo un elemento che

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non si può che designare con il termine di perdita del pudore.

Non è forse questo essere'sempre-fuori, questa sempre crescente sparizione della zona -Ulteriore la responsabile maggiore del fatto che l'uomo moderno può essere così facilmente regolato dalla propaganda, coinvolto nelle organizzazioni e — a dispetto di tanto parlare di democrazia — dominato dallo Stato e dalle autorità?

L'uomo ha la potente quanto misteriosa capacità del conoscere. Egli può assumere in sé ciò che è e tra-durlo in quella forma di possesso che si chiama « sapere ». Può, oltre a ciò, penetrare con il suo sentimento, con la sua vita, le cose fattesi a lui intellettualmente coscienti e spingersi fino a ciò che si chiama « comprendere », dove l'essenza delle cose si fa chiara, il significato si schiude e lo spirito-esperisce il potere di signifìcanza dell'esistente.

Ma si crederà, io spero, a uno che da più di trent'an-ni insegna all'università e che vi dice: il sapere, il possesso e il dominio intellettuale cresce e in misura così enorme che termalmente sconvolge — il problema dell'università e della formazione professionale che si fa sempre più impellente ha anzi qui in gran parte le sue radici — ma quel fatto profondo che emerge da un'intima penetrazione vitale, il comprendere le essenze, l'intendere nella sintesi, l'esperienza del significato diminuiscono. Tutto ciò si può conquistare infatti soltanto nel rapporto interiore della contemplazione; e la contemplazione ha bisogno di silenzio, di calma, di raccoglimento. Il sapere cresce, ila verità decresce.

Con tutto ciò s'innesta un'altra cosa. L'uomo può distinguere: fra giusto e ingiusto, valido e non valido, importante e irrilevante, capitale e accessorio,

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mezzo e scopo. Egli può non soltanto verificare dò che è, ma esperire il suo valore, prendere posizione a suo riguardo, affermarlo o respingerlo. In verità egli è in grado di fare tutto ciò soltanto se possiede la chiarezza su che cosa significa vita giusta, quali siano i suoi ordinamenti e dove si trovi il suo significato.

Ma questa chiarezza scompare rapidamente, perché essa presuppone concentrazione. La massa dei fenomeni sopraffa la capacità della distinzione. Il cumulo delle eccitazioni rende incapaci di vedere ciò che sta in profondità. Il chiasso della réclame, le chiacchiere dei giornali e della radio confondono il senso inferiore. Diventa sempre più difficile all'uomo contemporaneo vedere la gerarchla dei valori, distinguere fra mezzi e fini, sostanziale e accidentale, e arrivare all'autentico giudizio.

Abbiamo tracciato solo un rapido schizzo. Ma dovremmo aver chiarito almeno questo: che ci troviamo davanti a due parallele, a due forme fondamentali del vivere umano, a due maniere di umano comportamento, di fronte al mondo e a se stessi.

Chiamiamole con una antica definizione: atteggiamento attivo e contemplativo. Il primo è quello in cui l'uomo esce da se stesso nelle cose. Egli si prefigge uno scopo, attacca e viene con ciò stesso attaccato dall'oggetto in forza della legge della correlazione. Il secondo invece cerca il proprio centro;

prende saldamente posizione in esso; consegue distanza dalle cose ed è libero a loro riguardo.

Il primo comportamento nell'ultimo mezzo millennio impronta la vita dell'uomo moderno in misura sempre crescente. L'altro gli diviene estraneo, perde di valore e di vigore. Ma la conseguenza è che diminui-

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sce sempre più la capacità dell'uomo di stare In se stesso, di prendere posizione, di .giudicare; la capacità di vedere le cose dall'alto, di penetrare fino al significato, di creare ordine. La conseguenza è che egli di giorno in giorno si getta con sempre meno riguardo in balìa di ciò che lo circonda.

IV. - II compito.

1. - Siamo giunti così al punto che qui veramente ci importa. Mentre i .risultati tecnici' e scientifici dell'uomo moderno aumentavano in misura gigantesca, si immeschiniva una parte del suo essere. Diventava incompleto. Ciò ha potuto apparire per lungo tempo irrilevante. Potè perfino apparire che questo uomo tutto attività rappresentasse una nuova forma evolutiva. Egli si è così creato un nuovo mito: quello dell'uomo « faustiano » o « 'prometeico » o in qual-siasi modo sia stato chiamato il personaggio tutto eccitazione che imperversa sulla scena della vita. Si è escogitata un'etica in cui il lavoro divenne l'uno e il tutto, un'etica con la quale il totalitarismo si è costruito un intero sistema politico-sociale, anzi una religione. Colui però che vede chiaro ne rimane profondamente inquieto: e proprio di fronte a ciò che quest'uomo può compiere.

Egli si domanda: è davvero anche in grado di reggervi? È maturo per tutto ciò? È in grado di legare le potenze liberate? E non solo tecnicamente con gli strumenti relativi, ma umanamente? In modo che la sua prestazione resti opera dell'uomo libero e non una creazione da termiti? In modo che essa possa creare un futuro e non andare incontro a una catastrofe? Oppure egli non ha forse messo in movimento qualcosa di cui non è più il padrone? Una

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macchina di cui egli è divenuto lo schiavo affinchè

abbia a funzionare?

La risposta sembra sia che l'uomo moderno, quale egli è, non è in grado di padroneggiare i pericoli che insorgono dallo sviluppo culturale degli ultimi secoli per la sua 'vita esteriore e contro la sua intcriore integrità e sanità e ciò perché egli non è un uomo completo, ma incompleto.

Perché egli non possiede più quella distanza dagli immediati processi dei laboratori, delle aziende e degli uffici, che è necessaria per comprendere nessi e connessioni di tanta portata; perché non vede più i criteri secondo cui devono essere giudicate realtà dalle quali domani dipenderà semplicemente l'esistenza di tutti; perché non dispone più di quella libertà intcriore che sarebbe adeguata alla folla immensa dei problemi, dei moventi, degli interessi e dei processi organizzativi che sono ormai in movimento.

Non occorre che io sottolinei che con tutto ciò non si deve affatto esprimere un giudizio sul fatto della scienza e della tecnica. Non si mette affatto in discussione che l'ingegnere o l'economista del nostro tempo sia capace delle decisioni corrispondenti al suo campo specifico. Ciò di cui si tratta è altra cosa, è la sfera umana. In essa i problemi tecnici e scientifici non possono essere risolti unicamente da punti di vista produttivi o economici, giacché essi si agitano nella totalità dell'esistenza e là è in questione l'uomo. Ma l'uomo con il suo destino è davvero presente alla coscienza di coloro che determinano il corso dell'evoluzione tecnico-scientifica?

A furia di realizzazioni si è perso di vista colui che le realizza. In ordine alla specificità dei singoli pro-

cessi il fenomeno può risultare primitivo in ordine all'uomo. A suo riguardo si va da lungo tempo perpetrando un pericoloso sfruttamento intensivo (Raubbau). Ora questo fatto deve influire anche nella produzione stessa. La cosa diventa chiara non appena noi guardiamo non soltanto a questo o a quel settore singolo, ma al loro complesso: come quel tutto in cui l'uomo esiste, la cultura. Chi è vigilmente sensibile, sa che quel tutto non s'accorda con questa cultura, e tutto il parlare che si fa di universale progresso è un rischioso autoinganno. In realtà ciò che esiste, è una massa in continuo crescendo di strumenti tecnici, di materiali, di processi, di prodotti, i quali non si ritrovano affatto in reciproca armonia, non sono affatto ordinati a vicenda secondo veri criterii di valore e d'importanza come esigerebbe "il concetto d'autentica cultura. Dappertutto ci si imbatte nel superfluo, nel contraddittorio, nell'insensato, nel nocivo; interi settori della .tecnica e della economia sarebbe meglio che non ci fossero o ci sono in modo del tutto sproporzionato: i metodi per suscitare, anzi per imporre con la suggestione bisogni che assumono non raramente forme pericolose. Insomma, in qualunque modo questa realtà di fatto si voglia esprimere, 'è chiaro che nel quadro stupefacente d'una così precisa ricerca scientifica e d'una così esatta tecnicizzazione domina un elemento del caos, per non dire dell'anarchia, che nasce dall'uomo. O per dir meglio: nasce dal fatto che viene a mancare il rapporto con l'uomo. Ed è proprio questa anarchia quella che conferisce all'idea della pianificazione generale per opera dello Stato costrittivo una forza suggestiva pericolosa.

Può suonare strano in faccia ai suoi stupendi risultati dire che ila tecnica è da un punto di vista etico e

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umano ancora nella sua fase adolescente. È tempo che essa diventi matura, e ciò vuoi dire che riconosca i suoi fondamenti umani e che assuma al riguardo le propria responsabilità.

2. - Ma in che cosa dovrebbe consistere il compito? In questo: che l'uomo impari a padroneggiare non /soltanto le energie della natura, ma anche la propria potenza; impari a inserire con ordine nell'esistenza umana quel processo tecnico che avanza spesso in forme disumane e che si realizza ancora unicamente dalla logica intera dei propri problemi e procedure specifiche e settoriali. Consiste nel superare l'assurdità con cui la dinamica della ricerca, della produzione e dell'organizzazione cammina senza che ci si interroghi su che cosa ne risulterà per colui che deve sussistere in essa, cioè per lui stesso, l'uomo.

Ma per tutto ciò si richiede una superiorità. Una chiarezza dello sguardo che sappia distinguere fra scopo e mezzo, importante e irrilevante, giusto ed erroneo, bene e male. Una capacità di scelta, di decisione sulla base dei significati delle cose, in modo che si sappia se qualcosa, sia pure interessante o vantaggioso, possa essere fatto quando v'è altro di più essenziale.

Tutto questo è possibile solo a chi possieda un sapere circa i contesti dell'esistenza e una capacità di sguardo che colga ciò che avviene altrove, mentre qui succede questo e quest'altro, e si senta responsabile in proposito. Chi sappia contrastare le eccitazioni emotive, non escluso lo stimolo del guadagno, non escluso quello della potenza, non escluso quello dello sperimentalismo e del nuovo a tutti i costi. Una superiorità che in ultima analisi si fonda — non ci si spaventi del termine così svalutato dalla borghesia

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del secolo 'passato — su una ascesi. In una rivista di tecnica tempo fa veniva citata con plauso una frase di Arnold Gehien: « II rapporto fra la scienza, l'applicazione tecnica e lo sfruttamento industriale è da lungo tempo es'so stesso una sovrastruttura, esso stesso automatizzato ed eticamente del tutto indifferente. Una modificazione profonda è concepibile quasi unicamente se si affrontano i termini estremi: la volontà di sapere come punto di partenza o la volontà di consumo come termine di arrivo del processo. In ambedue i casi l'ascetica, se da qualche parte facesse la sua apparizione, sarebbe il segnale d'una nuova epoca » 2.

Idee quanto mai significative nella 'nostra epoca su-pertecnica! Il futuro dell'umanità dipende realmente dal fatto se l'uomo saprà procurarsi la capacità di dominare l'istinto della potenza e del guadagno per mezzo della rinuncia e dell'autosuperamento. Ci sarebbe in proposito da dire assai di più di quanto qui si possa.

3. - Sembra però che il tipo dominante oggi dell'uomo attivo non sia idoneo a un simile dominio. Non intendiamo con questo nulla di moralistico, come se questo tipo d'uomo non fosse abbastanza disinteressato o coscienzioso o altro, ma intendiamo qualcosa che appartiene alla psicologia del rapporto col mondo, e dunque alla questione in quale rapporto l'uomo moderno si trovi verso il mondo e se egli

2 Soziaipsychologische Probleme de'r industriellen Gesellschaft, Tùbingen 1949, citato nel saggio di W. berkefeld, Techni-scher fortschritt unii kulturelle Anpassung, in « Der Inge-nieur der Deutschen Bundespost », 4, 41.

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non si ritrovi in una relazione tale da rendergli impossibile il dominio del compito di cui si tratta.

Sarà bene a questo punto riflettere sopra un fatto fondamentale. Alla base d'ogni comportamento umano verso la sua opera sta l'atto con cui l'uomo prende distanza dalla realtà data e immediata. La cultura comincia non con l'andare verso le cose, ma con il ritrarsi da esse. Conoscere, valutare, decidere, plasmare e produrre creativamente: tutto ciò ha come presupposto primo quella distanza che rende possibile la libertà del movimento dello spirito. Ma la situazione dell'uomo contemporaneo sembra precisamente consistere nel fatto che egli ha perduto, in una misura di cui solo lentamente ci si può render conto reale, quella distanza. Ciò non significa soltanto quello che si potrebbe rinfacciare a uomini di ogni tempo: che essi si sono lasciati sopraffare dagli istinti, che si sono perduti nelle cose, o qualcosa di simile, ma significa assai di più. Le immense attuazioni dell'età moderna lo hanno come risucchiato in se stesse. Egli si è gettato in balìa delle conseguenze dei problemi scientifici, dei compiti tecnici, degli sviluppi sociali e politici, perché sono caduti in lui gli atteggiamenti della libertà intcriore che lo potevano abilitare a una resistenza.

Esistono a favore di tale impressione, a prescindere dalla sfera pratica immediata, sintomi ideali importanti. L'idea .moderna del progresso anzitutto, la quale non significa nient'altro che la sanzione apposta alla logica immanente alla cultura e civiltà. Strettamente in rapporto con essa sta l'idea evoluzionistica secondo cui i processi 'sia biologici sia storico-culturali derivano per necessità interna da un primo principio. Questo trova la sua espressione nel concetto

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moderno dello Stato, secondo il quale lo Stato realizza la sintesi di tutta l'esistenza, e non ha esso stesso istanze che lo superino. A livello metafisico, tutto si fonda sul monismo moderno che concepisce il mondo come il tutto unico esistente, fondato unicamente in se stesso e da se stesso evolventesi. Il Dio della Rivelazione, invece, che sta sovranamente di fronte al mondo da lui creato e che con la sua chiamata fonda l'uomo nella sua libertà personale, viene negato. Questo Dio viene o eliminato ateisticamente, o immanentizzato nel mondo in quanto elemento misterioso non più operante. Nella filosofia si afferma la tendenza sempre più forte a rigettare la contrapposizione fondamentale fra soggetto e oggetto e a porre in suo luogo una dialettica dell'autoillumina-zione e autorealizzazione, e via dicendo.

Pur con tutta la precauzione postulata da un giudizio di così vasta portata, bisogna dire, io credo, che lo uomo moderno ha perduto la distanza verso il mondo. Ma proprio per questa ragione egli è in tal misura caduto in balìa della logica e della dialettica interne del mondo, che lo rendono incapace di andare incontro al mondo come sarebbe conveniente.

In un contesto diverso da questo ho cercato di esporre come l'uomo oggi sia entrato attraverso una specie di processo a spirale della storia a livello « superiore » in 'una situazione di significato che corrisponde a quella delle epoche primitive 3. Allora egli si vedeva costituito di fronte a una natura incompresa e perciò strapotente che incombeva su di lui caoticamente da ogni dirczione; se non voleva soccombervi,

3 Das Ende der Neuzeit, Wurzburg 19597, p. 95 ss. e Die Macht, ivi I9605, p. 55 ss. (cfr. tr. it. La fine dell'epoca moderna, Broscia I9602 e II potere, Brescia, 19632, p. 52 ss.).

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doveva attraverso lunghi e penosi sforzi affermarsi contro di essa, comprenderla e ridurla in un ordine, e cioè ricavare la cultura dal caos. Nel corso di tale creazione culturale, però, le idee e le scoperte, i materiali a disposizione, le forme della loro elaborazione, i problemi e le possibilità, i poteri e i desideri sono diventati infiniti. L'elemento fondamentale della cultura, l'ordine, esprimentesi nelle relazioni dei mezzi ai fini, delle misure e dei livelli, si è sempre più attenuato, e ne è nato un nuovo caos, il quale ora non deriva dalla natura non dominata, ma dall'opera stessa dell'uomo. Una massa infinita di materiale culturale, la quale corrisponde a un'altra egualmente caotica massa di motivi, di idee, di concezioni, ecc. L'uomo moderno si trova in tal modo davanti a una scelta, la quale, dopo una serie di centinaia di migliala d'anni, è di nuovo quella dei primordi: o egli cade in balìa dell'elemento selvaggio — quello della cultura questa volta — lasciandosi assorbire dalle sue concatenazioni di motivo, dal groviglio dei suoi problemi, dal vortice delle sue attività, oppure egli si conquista di contro ad essa una solidità e la porta a una relazione dotata di senso nei riguardi della propria umana esistenza. Ciò che più importa non sono dunque le riforme che si possono instaurare qui o là, ma una base nuova e una libertà nuova che rendano l'uomo capace di cogliere con lo sguardo ciò che è; di rendersi sensibile al reale carattere dei processi in corso; di distinguere ciò che è valido o non valido, e di spaventarsi dell'assurdità che mette l'uomo in balìa delle sue stesse creazioni tecniche. Dunque un compito che per la sua grandezza corrisponde a quello dei primordi dell'umanità, che anzi forse lo supera, dato che il nuovo caos ha in sé un carattere maligno del tutto diverso.

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E così noi ci troviamo di fronte alla questione quali presupposti si debbano creare per superare tali problemi.

Abbiamo visto che l'attivismo dell'uomo moderno ha fiaccato in lui sempre più l'elemento contemplativo e che egli, proprio per questo, è caduto in balìa della sua opera. Perciò egli può riconquistare la nuova sicurezza, la libertà del vedere e del fare unicamente se rafforza in se stesso quell'elemento: se impara di nuovo a tacere; a raccogliersi;, a padroneggiare se stesso;

a prendere distanza; a vedere il senso dei fenomeni;

a decidere non per la pressione dei vantaggi e degli slogans, ma sulla base dell'essenza delle cose, e via dicendo. 'Solo allora potrà compiere quella rivoluzione che è il suo compito.

Con una sconvolgente assenza di intuizione, il concetto di rivoluzione viene collegato con tutto ciò che si chiama esplosione di potenza tecnico-economico-po-litica. Ma la « rivoluzione » può acquisire un senso positivo soltanto se essa infrange l'ordine apparente che ruba all'uomo la sua libertà e gli paralizza la vita, allo scopo di rendere possibile un'esistenza che sia degna di lui. Qui però il concetto di rivoluzione si accoppia con una schiavitù che è ben più pericolosa di quella esterna: con la caduta intcriore in balìa alla logica della potenza e della tecnica. Si devono allora aprire gli occhi affinchè possano vedere ciò. Dobbiamo compiere una autentica re-voluzione, una svolta nel conoscere e nel valutare che cancelli tutti i verdetti stabiliti: « Questo non va..., non può essere,.., questo contraddice al progresso ». Certo che va; certo che può essere; in nessun modo contraddice al progresso — ma ora dobbiamo completare — a quello vero! Ma per tutto ciò è idoneo soltanto colui

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che ha i presupposti necessari: la libertà, il coraggio, la distanza, l'iniziativa. È di questo che qui si parla.

Da tutto ciò discendono compiti etici di grande peso. L'uomo moderno è evaso dalla responsabilità nei riguardi della totalità dell'esistenza. Egli si è dedicato alle singole responsabilità di natura scientifica, artistica, politica, tecnica in modo tale che ha dimenticato quella per la vita in genere.

Ben si capisce che qui si tratta di qualcosa del tutto diversa da quella psicotecnica con cui i moderni « ingegneri della psiche » influenzano l'atteggiamento inferiore dei lavoratori affinchè il loro rendimento sia ancora più preciso, rapido e migliore. Con queste cose l'uomo verrà spinto ancora più profondamente nel caos. Si tratta del contrario: di prendere distanza da ogni prestazione immediata, allo scopo di poter vedere se essa sta nel giusto rapporto con la natura umana.

Allo stesso modo che nella citata autodisciplina non si tratta di ciò che Max Weber ha chiamata la moderna ascesi del lavoro, cioè di quell'atteggiamento che sacrifica, immettendole nella prestazione, ogni energia, salute, pace, gioia, umanità, 'ma si tratta un'altra volta del suo contrario: d&l superamento della costrizione al lavoro e della brama di rendimento per amore dell'uomo.

4. - Allo scopo di illuminare l'urgenza del problema da un altro lato non ancora abbastanza, a me pare, considerato, mi si consenta di esprimere un'idea che da qualche tempo mi perseguita.

L'Europa e l'America o, con un termine sommario, la razza bianca ha già perduto in fondo la posizione privilegiata che possedeva rispetto agli altri popoli

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in seguito alla sua superiorità tecnica, e andrà perdendola anche praticamente sempre più e più rapidamente. Popoli asiatici e africani entrano nell'agone del divenire mondiale. Ma in essi è ancora assai forte una componente dell'essenza umana che da noi si è rattrappita. Anzitutto perché essi, come gli africani, stanno ancora in un rapporto vivente con la natura;

l'efficacia della musica e del teatro su di loro, un'efficacia non solo incantatrice ma feconda, ne è una prova. Inoltre anche perché, come i grandi popoli asiatici, posseggono una cultura spirituale antichissima;

una tradizione del raccoglimento, della meditazione e dell'approfondimento intcriore che è ancora senz'al-tro efficace. Essi sono ancora « completi ». Ora, se questi popoli si affermano nella scienza e nella tecnica — il che già stanno facendo con grande abilità e rapidità — i popoli bianchi hanno ragione di porsi in allarme.

Senza dubbio, in questa passione di trasformazione, essi perderanno molto della loro eredità spirituale. Ma attitudini così antiche e sviluppate fino alle dette possibilità, anzi realtà, non scompaiono troppo in fretta, anche a prescindere dal fatto che quei popoli proseguiranno là dove noi ci siamo fermati e affronteranno i problemi dell'aspetto umano-spirituale nell'esistenza moderna con una capacità di esperienza di cui noi non disponiamo più. È dunque probabile che essi entrino nella nuova fase evolutiva muniti di chances che noi ci siamo già giocate; che ad essi risulteranno ovvie cose che noi ci dovremmo riconquistare a fatica. Di qui essi potrebbero accaparrarsi una superiorità, la quale non consisterà proprio nel fatto che le loro macchine saranno più raffinate e le loro bombe più terribili, ma nel fatto che, al confronto, saranno uomini completi, o quantomeno più

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completi. La sovrana scioltezza con cui essi hanno condotto le loro trattative in recenti conferenze internazionali dovrebbe renderci -molto pensosi.

5. - Ho avvertito fin dall'inizio che le nostre considerazioni non potevano che essere sommarie quanto alla varietà dei punti di vista e alla loro profondità. Ma il risultato sarebbe già notevole se potessero rendere sensibile l'urgenza del problema. Alla fine, tuttavia, sarà bene sfiorare almeno la questione circa le possibilità di soluzione.

È chiaro che per tutto ciò non è possibile offrire indicazioni realizzabili senz'altro. Bisognerà piuttosto applicare anche qui quello spirito d'indagine realistica e imperturbabile che ha impregnato le prestazioni scientifiche dell'età moderna. Quando in un processo tecnico appaiono passi falsi, ci si domanda dove stiano le cause e quali misure siano necessarie per ovviare all'inconveniente. La stessa cosa deve ripetersi nelle nostre questioni. È ovvio che vi si manifesteranno complessi problemi di grande .ampiezza e profondità. Ma i problemi ci sono per essere risolti.

Qui non possiamo entrare in forme particolari d'osservazione e d'ipotesi eventualmente necessario. Mi si consenta tuttavia di accennare a qualche possibilità che ci viene offerta dalle esperienze del passato. Che cosa direste, per esempio, se io facessi la proposta di programmare una volta all'anno qualcosa di simile a quel che si chiama « esercizi spirituali »? Ossia:

ritirarsi in un luogo adeguato all'uopo; un luogo silenzioso e dove, senza concessioni alla moda moderna della discussione,.. si possa ascoltare qualcuno che sappia dire qualcosa d'utile dell'uomo e dei problemi della sua vita?

Non intendo con questo nulla di ecclesiasticamente

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definito, ma qualcosa che ci riguarda tutti. Ui^occa-sione per ascoltare e riflettere quando una persona sia in ordine o quando abbia imboccato strade false;

per riflettere quali attitudini e possibilità ci siano in lei e quali siano state sviluppate o siano rimaste mortificate. Sarebbe inoltre un'occasione per imparare come ci si rifaccia calmi e ci si distenda; come ci si raccolga intimamente e si divenga aperti e attenti. In tale situazione di intcriore ricettività acquisterebbero rilievo idee essenziali: attinte da scritti di spiriti saggi, dalle opere dei poeti, dalla Bibbia. È possibile che in questo modo certi blocchi e grovigli in cui ci si agita spesso inutilmente abbiano a sciogliersi, o che ci si aiuti a non esserne poi più così facilmente irretiti. E possibile che in questi giorni le realtà della propria vita ci appaiano più limpide, più esatte, sotto prospettive migliori e in rapporti più completi di quanto solitamente non siano. È possibile che là certe cose che ci assillavano l'esistenza si mostrino in tut-t'altra luce, in modo da intuire che ci si era lasciati sopraffare da pseudonecessità.

Non sarebbe per avventura questa una via, una fra le altre, per giungere a una « completezza »• umana un poco maggiore?

Gli orgogliosi del proprio realismo rideranno forse d'una simile proposta. Un cinese intelligente, però, io credo che non riderebbe. Mi hanno informato che in un congresso internazionale — se ben ricordo a Ox-ford — dopo appena i primi giorni un gruppo di studenti asiatici hanno detto che sarebbero ripartiti. Alla domanda sul perché, avrebbero risposto: « Perché voi non siete capaci di meditare! ». Essi avevano ben presto intuito che nell'andamento intellettualistico dei nostri congressi scientifici, nei quali discorsi gran-dinano da tutte le parti sugli uditori; la cui tecnica

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è" perfetta quando le relazioni sono il più possibile numerose, il più possibile brevi, e dai più possibili punti di vista; dove si discute alla svelta, polemicamente e bene spesso senza ordine intrinseco: avevano dunque subito capito questi uomini formati spiritualmente in tradizioni antichissime che in occasioni simili non si poteva ricavare nulla di veramente essenziale. Giacché l'essenziale, la conoscenza della verità, ha presupposti d'altro genere: quelli appunto che si definiscono con il termine « meditazione ». Gente come questa non avrebbe di sicuro riso d'una proposta come la mia. Piuttosto essi si sarebbero meravigliati che gli Europei e gli Americani trattino da parecchio tempo oramai cose così esplosive quali sono la scienza e la tecnica, ma che non abbiano ancora avvertito quel che di catastrofico ne può derivare; che non si diano ancora preoccupazione alcuna sul da farsi affinchè il catastrofico venga ovviato e si attui ciò che è giusto.

Un'altra proposta potrebbe essere che chiunque abbia caro che durante i sei giorni del lavoro non soltanto sia mantenuta in attività l'azienda e guadagnato del denaro, ma venga fatto il giusto lavoro al servizio delle giuste cose, dovrebbe adoperarsi affinchè la sua domenica sia un giorno di reale riposo. E dunque non un giorno di assillanti spassi e d'industria del piacere, ma un giorno in cui abbia i suoi diritti l'altra parte dell'essere: le energie del silenzio, del raccoglimento, della profondità ulteriore. In modo che nel suo spazio giungano ad esprimersi le realtà che solo là si fanno chiare: l'ordine dell'esistenza, la distinzione fra valido e discutibile, fra diritto e storto.

Solo così la settimana diventerebbe piena. « Una settimana » significa, non soltanto sei giorni di lavoro più un settimo in cui non si lavora, affinchè nel

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giorno seguente si ricominci a lavorare! Pensarla così sarebbe esattamente quella che è stata definita la ascesi del lavoro, in cui il lavoro diviene un idolo della vita, magari pure con un idolo secondario, il divertimento, che regnerebbe la domenica e che a modo suo assillerebbe proprio come il lavoro.

Ciò che è « una settimana » risulta chiaro soltanto dal punto di vista dell'uomo che pensa giusto: cioè una unità ritmica nel contesto della sua vita e durante la quale egli diviene pienamente se stesso e ricco di valore: sei giorni nella fatica dei quali l'uomo costruisce la sua opera, quella che gli è stata affidata quando « Dio l'ha creato a propria immagine e somiglianzà »; capace di dominare sul mondo e di portare responsabilità a riguardo del mondo. Ma, inoltre, un settimo durante il cui riposo appare nella sua chiarezza che l'opera dell'uomo ha un significato soltanto se è inserita nell'ordinamento dell'opera di Dio; e la sua signoria pure soltanto se esercitata nella grazia dell'autentico Signore. Il rivivere continuo questa verità fondamentale in un ritmo di continuo ritornante: questa è la settimana. Anzi potrei arrivare perfino alla proposta che l'uomo sovraoccupato tenti di risparmiarsi ogni giorno un quarto d'ora di silenzio. È nota la leggenda di Anteo, il figlio della terra contro cui combatteva Eracle e che questi non riusciva a bloccare mai, fino a quando notò che il suo rivale acquisiva energia nuova ogni volta che toccava terra. • Allora egli lo sottrasse dal contatto con il suolo ori-' ginario e lo strozzò in aria, nell'elemento senza luogo. È una leggenda assai significativa che ricorda come esista un fondo originario dell'energia; e che esso giace nella profondità, nella libertà inferiore.

Chi è di continuo in faccende non ha bisogno di intraprendere nulla di speciale in questo quarto d'ora.

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Solo lasciar perdere i pensieri che hanno rapporto con gli affari e gli uffici; liberarsi e farsi tranquillo in se stesso, e là, a seconda dei presupposti delle proprie personali convinzioni, introdurre qualcosa di buono. Potrà essere una riproduzione d'arte: una sola contemplata in pace; non un volume da sfogliare! Potrà essere una poesia o una frase dal Tao-fe-king o dalle Massime e riflessioni di Goethe; o francamente anche una parola della Sacra Scrittura, e con essa solo ciò che è autenticamente sostanziale.

Se costui farà così prima di andare in ditta o, nel caso che allora non lo possa, di sera dopo aver firmata l'ultima lettera, allora questo quarto d'ora impiegato con costanza eserciterà una incidenza sommessa, ma assai reale sul suo tempo successivo. E tutto ciò avrà il suo valore chissà dove e chissà quando, forse in occasioni senza connessione affatto con tali momenti,

6. - Non è facile per me esprimere proposte di tal genere davanti a voi. Voi avete da fare con realtà di gran mole; voi realizzate rapporti e combattete battaglie il cui campo è grande quanto la terra. Perciò io temo che, anche se non ridete, vi meraviglie-rete almeno che di fronte ai problemi su cui dovete di continuo decidere, le cose, diciamo, « innocue » che io dico abbiano un'importanza.

Ma lasciate che in tutta schiettezza vi confidi una cosa. Ho letto vari libri che trattano della crisi della nostra attuale situazione umano-culturale, ho sentito varie conferenze e avuto vari colloqui in tema. Ma non ho ricavato l'impressione che tutto ciò apportasse circa il nocciolo della questione qualcosa di meglio di quanto ho detto. Una volta messe da parte le formule specialistiche, le statistiche e le erudizio—

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m, quanto restava mi è apparso per lo più addirittura di scarsa entità, davvero.

Ma a parte ciò, se voi ripercorrete a ritroso le indagini scientifiche, le costruzioni tecniche, le intraprese e le organizzazioni economiche fin là donde sono partite, a che cosa arriverete? All'uomo; ai dati fondamentali della sua essenza. I risultati di cui è pieno il nostro tempo sono a tal punto grandi che l'osservatore ha facilmente l'impressione che essi corrano in se stessi come un mondo chiuso, condotto da una superiore razionalità. In realtà tutto, anche le decisioni « più realistiche », ci riconduce a un momento in cui l'uomo era solo con la sua intelligenza, la sua volontà e la sua coscienza, e si domandava: che cosa è giusto? Oppure un momento simile è mancato, e allora appunto questa mancanza fu l'inizio, e da questo principio è derivata l'assenza di significato che ha caratterizzato la sua attività.

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IV PER UNA TEOLOGIA DEL MONDO

Non è facile rispondere alla domanda sul come si presenti il mondo nella coscienza del cristiano. Infatti l'idea stessa di mondo è assai complessa nella coscienza comune, perché contiene residui non ancora realmente armonizzati di un lungo sviluppo storico. Per l'uomo poi che crede nella rivelazione biblica, si aggiunge un'altra difficoltà. Da un lato egli partecipa della mentalità del suo tempo, assorbita attraverso la scuola e sempre rinnovata attraverso la vita sociale;

dall'altra la sua fede è determinata dalle idee della Sacra Scrittura, che sebbene differiscano da quella mentalità su punti decisivi, tuttavia investono ogni realtà con una nuova caratterizzazione. Queste due prospettive soltanto raramente sono confluite in una unità realmente riflessa. Per lo più sono giustapposte, in piani artificialmente distinti, a meno che una non solleciti l'altra fino a produrre la crisi.

Ora, per avere una visione più chiara del problema, vorrei tentare di tracciare le linee principali, sulle quali si è sviluppata l'idea di mondo.

I. - Sviluppo storico del concetto di mondo.

1. - Per non andare troppo lontano, questo sviluppo dovrebbe iniziare con la coscienza mitica.

Ad essa manca il concetto di natura, come lo conosciamo noi, perché ignora sia energie empiricamente constatate sia leggi esatte, che la determinano. In compenso però scopre in ogni realtà mondana una dimensione più di quelle che vi scopriamo noi. Que-

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sto mondo, infatti, da una parte è empìricamente afferrabile, dall'altra è. una realtà misteriosamente religiosa. Ciò che avviene nel mondo— processi astronomici e atmosferici, ritmi vitali, avvenimenti storici, ecc. — risulta da un continuo accordarsi e combattersi di potenze religiose. Potenze e azioni che trovano la loro espressione sia nelle forme (Gesfalten) delle divinità, semidivinità ed esseri demoniaci, sia nelle opere che compiono e nei fatti che sperimentano, cioè nei miti.

Il mondo dei miti viene formato dalle diverse condizioni del paese, del popolo, della storia, ma anche dall'attività creatrice del singolo. Le loro idee sono in continuo movimento. Così da una iniziale, confusa molteplicità di divinità si costituisce ordinatamente ma lentamente una gerarchla, che culmina in un essere supremo: Osiris, Zeus, ecc. Poi sopraggiungono idee sintetizzatrici di natura etico-metafisica, che attraversano tutta la struttura: idee dell'ordine, della giustizia e così via.

Da tutto ciò emerge laboriosamente l'idea di una divinità suprema che trova la sua espressione teoretica nei concetti, formulati dalla filosofia classica da Par-menide a Piotino, di Essere puro, di sommo Bene, di Origine di tutto, di Nous, di Sovra-Uno, ecc. Tuttavia non si riesce ad afferrare la pura assolutezza, perché a tal fine l'Ente supremo doveva essere svincolato da ogni dipendenza dal mondo. Ciò non avvenne, e pertanto la divinità rimase sempre legata al mondo.

L'idea di mondo dunque nell'antichità è quella di un universo, caratterizzato religiosamente, che abbraccia semplicemente tutto, anche la divinità. Non c'è in rapporto ad esso alcuna vera trascendenza. Tutti i tra-scendimenti, intrapresi dal mito o dalla filosofia, si

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svolgono nell'ambito della totalità del mondo.

A questo tutto appartiene anche l'uomo. Egli viene dal tutto e con la morte ritorna al tutto. Manca dunque, nonostante tutti gli slanci teoretici della filosofia classica e la profondità della sapienza ellenistica, il presupposto per un vero intendimento personalistico dell'io perché questo è possibile soltanto sulla base del rapporto con un Dio veramente trascendente e personale.

2. - Con la rivelazione biblica, la sovranità assoluta di Dio diventa chiara. Egli possiede in se stesso la pienezza della vita, della conoscenza, del bene e della felicità, anzi quella della fecondità e della comunione, cosicché l'annunzio dell'esistenza delle Tré Persone divine costituisce la suprema garanzia del fatto che Egli non ha bisogno del mondo.

Egli ha creato questo mondo in perfetta libertà, senza alcun .archetipo ideale o materia preesistente. E alla domanda perché l'ha fatto, non c'è che una risposta, il cui motivo si fece pienamente evidente per la prima volta nella persona di Cristo, cioè l'amore. Dunque il mondo non è « natura », ma « opera ». La sua perfezione non riposa su cause, in qualche modo, mitiche o metafisiche, ma sulla sapienza di Dio e sulla Sua potenza creatrice. Il mondo è autentica realtà, ma creata. Ne appartiene a se stesso, ne è autonomo, ma è proprietà di Dio.

L'uomo è parte di questo mondo. E all'uomo convergono e nell'uomo trovano il proprio vertice tutte le realtà. L'uomo, unico fra tutti gli esseri, non è situato in un piano speciale, ma è in relazione fin da principio con la totalità. Così può acquisire un rapporto con ogni elemento d'essa. Tuttavia non si risolve nel mondo. Come persona fu chiamato da Dio all'esisten-

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za e per conseguenza egli rimane in rapporto immediato con Lui. L'uomo poi, pienamente libero rispetto al mondo come a se stesso, può violare l'ordine di esso e di sé, riconoscerlo, prendere decisioni, possederlo e dargli forma.

La rivelazione parla ampiamente dell'inizio di tutta la storia. L'uomo doveva vivere questo rapporto con Dio, come il punto sostanziale della propria esistenza e così incontrare {'Begegnung) il mondo. Fondandosi su questo continuo incontro con il primo mondo immediatamente dato da Dio, l'uomo doveva costruirne un secondo: il mondo pensato, valutato, formato dall'opera dell'uomo.

L'espressione di questo stato era il Paradiso, terrestre. In esso doveva svilupparsi tutto ciò che si chiama « vita » e attuarsi tutto ciò che si chiama « civiltà ». Entrata però in un rapporto obbedienziale con il Signore della creazione, l'opera dell'uomo diveniva una pura continuazione di quella divina: un regno di libertà e di santità.

Lo stato, come tale, non era di natura, ma di grazia e di libertà. Così fu posto in quella prova riferita dal Genesi. L'uomo invece si ribellò e pretese un dominio assoluto su se stesso e sul mondo. Ed infranse la vera struttura della sua esistenza, cioè il rapporto obbedienziale della creatura al Creatore. Questa rottura causò un disordine, che da allora s'affermò in tutto e continua ad affermarsi nella natura e nell'opera dell'uomo.

Così incomincia la storia. Essa dunque non consiste in un'evoluzione derivata da presupposti naturali, ma al suo inizio sta un fatto. È vero che ci sono diverse linee interpretative degli sviluppi biologici e culturali. A ciò che stabilisce l'indagine scientifica, non attenta la Rivelazione. Tuttavia la Rivelazione dice

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l'ultima parola e cioè che all'inizio della storia, il vero elemento decisivo non consiste in una differenziazione della struttura dell'uomo o del suo rapporto con l'ambiente, ma in un fatto liberamente voluto, e la decisione, consumata con questo fatto, determina tutto ciò che segue.

La Rivelazione dice ancora che Dio non ha permesso che da questa decisione scaturisse la rovina definitiva dell'uomo, ma piuttosto una nuova iniziativa della libertà di Dio, che doveva superare quella decisione e il suo carattere morale, cioè il peccato: la Redenzione. E questa Redenzione, dopo una lunga preparazione storica, è divenuta realtà con l'Incarnazione di Dio in Cristo, la cui esistenza santa doveva svolgersi nel mondo sconsacrato, attraverso un destino preparato dal mondo medesimo. Così Dio ha inserito entro la storia antica l'inizio d'una nuova. E da questo" inizio, con i « materiali » del mondo durato finora, doveva nascere un mondo nuovo: quello che Cristo chiama « regno di Dio ».

Il cristiano sa ora che il mondo è determinato da u-na duplice modalità.

Prima di tutto e in modo radicale il mondo è opera di Dio, e come tale, buono e amato da Lui. A questo mondo appartiene, come esistente, anche l'uomo. Però ogni incontro dell'uomo con il mondo, come con se stesso, porta con sé quel carattere di colpa e .di ribellione, che deriva dal primo fatto. Il credente vive bene nel piano della Redenzione e porta in se stesso con la grazia il nuovo principio, di cui parlavamo. Tuttavia il turbamento dell'ordine rimane e conserva piuttosto un altro carattere e viene superato da una nuova possibilità: l'uomo nella sequela del Redentore deve di continuo vincere la tentazione di peccare nuovamente e deve fare del disordine, con la

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sofferenza da esso causata, un elemento di espiazione e di perfezionamento morale. ' Da questi due momenti risulta una contraddizione, che appartiene alla natura della nostra esistenza. Ineliminabile nel tempo, essa sarà vinta soltanto nella eternità; sempre operante nel corso della storia, continuamente turba il rapporto dell'uomo con il mondo, come con se stesso.

3. - Nel medioevo, con la Rivelazione della sovranità di Dio e dell'immediato rapporto dell'uomo con Lui, viene superata in linea di principio la concezione mitica del mondo ed inizia il lavoro per una nuova inter-pretazione. Nasce così la visione di un mondo disincantato in virtù della parola della Rivelazione, dal quale spariscono divinità e fatalità divine in modo da rendere libero lo sguardo sulla realtà.

La capacità dell'esperienza religiosa è però straordinariamente forte e percepisce vitalmente ogni cosa come impregnata di mistero. Si aggiunga che non è ancora scoperto il concetto moderno di realtà empirica e di legge ordinatrice di natura. È necessario dunque un grande sforzo dello spirito e del cuore per superare anche concretamente gli influssi postumi del rapporto mitico con il mondo. Dappertutto gioca la fantasia. Questa relazione con il mondo è molto acritica e le possibilità della superstizione sono grandi.

Dalla mentalità delle popolazioni europee in via di. formazione il pensiero acquista una solida forza architettonica. La trascendenza di Dio costituisce il punto d'appoggio per la costruzione integrale del mondo. Nasce così l'idea di un mondo gerarchicamente formato, la cui base è sulla terra, e il cui vertice è in Dio. Questo mondo è finito: « cosmo ». Dappertutto si riscontrano, da una parte, come dati di fatto, la

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condizione della realtà in quanto fondamentalmente creata e sostenuta da Dio; dall'altra, la grandezza, bellezza e pienezza ideale della sua opera, sentita ed esperimentata in modo possente, tanto da fare di ogni elemento del mondo un simbolo dell'eterno.

Nello stesso tempo, la coscienza della caduta originale, come stato del mondo, esercita un forte influsso. Potenti passioni agiscono sull'uomo medioevale e la sua fantasia è grande. Egli sente nel modo più penetrante il pericolo di perdersi nel mondo. Forme di una radicale separazione dal mondo coesistono con quelle di un intenso godimento mondano. Così nella idea medioevale di mondo risulta una tendenza dualistica — talvolta così forte — da sembrare che il mondo venga percepito come qualche cosa che non è creato da Dio, ma da una potenza malvagia e per sedurre l'uomo.

4. - Nel corso del sec. XIV incomincia l'età moderna. La considerazione simbolica del mondo viene eliminata da una critica oggettivistica. L'osservazione, lo esperimento e l'interpretazione dissolvono l'idea medioevale di un mondo religiosamente ordinato ed e-merge invece la concezione di un mondo « naturale », scientificamente comprensibile e tecnicamente dominabile.

Un sentimento dell'infinitezza dell'esistere distrugge l'antica visione di mondo come cosmo, cioè di forma limitata e strutturalmente armonica. Il mondo viene visto come infinito: in senso dimensionale, come insieme del sistema terrestre, che si estende indefinitamente; in senso genetico come complesso di eventi, i cui inizi retrocedono sempre più, mentre il fine si proietta in un avvenire sempre più lontano.

Nella misura in cui cresce la significanza del mondo,

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il sentimento della realtà e dell'autonomia di Dio impallidisce. Il processo si compie su due linee.

Sulla prima, Dio viene inserito nel mondo. Nasce il moderno monismo, che Lo concepisce come fondo originario e anima del mondo, come forza motrice-e senso progressivamente rivelantesi della storia. Il divino assume sempre più le strutture del mondo fino a diventare la « natura divina » della filosofia classico-romantica, cioè fino alla identificazione.

Sulla seconda, il mondo viene sempre più esclusivamente inteso come complesso di energie empiricamente determinate e di leggi razionalmente comprensibili. Secondo questa teoria, una realtà divina è qualcosa di assolutamente estraneo al mondo, anzi un non senso, che deve essere eliminato. Così la intese il moderno positivismo. Secondo questo, il mondo è autos'uf-ficiente. Non necessita di alcun principio diverso da se stesso, che renda il mondo intelligibile ed aiuti lo uomo nella sua esistenza. La religiosità appare come qualche cosa di ostile, che impedisce all'uomo di spiegare le sue possibilità proprie. :

Negli ultimi decenni, i contributi apportati dalla scienza e dalla tecnica sono saliti incalcolabilmente. Una realistica volontà di potenza viene rivolta a raggiungere il dominio assoluto sulla natura e sull'uomo stesso. Nei sistemi totalitari questa volontà si unisce all'assolutismo di Stato; pone l'ateismo come principio politico e interpreta ogni religiosità come forza nemica.

5. - Ciò per quanto riguarda gli elementi dominanti la coscienza moderna del mondo. Ma si trovano resti anche del passato.. . .

L'elemento mitico è scomparso come fattore storico determinante, ma non è spento. Esso piuttosto vive

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ampiamente nel subcosciente dell'uomo, donde esercita un continuo influsso sul sogno, sulle nevrosi e sulle psicosi.

Anche il rapporto simbolico-costruttivo col mondo continua ad operare, in quanto è caratteristico dello uomo che usa in modo spontaneo i sensi. Infatti se l'uomo • del nostro tempo guarda ingenuamente il mondo, lo vede secondo lo schema tolemaico; lo vede in rappresentazioni simboliche, se lo considera come artista e poeta.

Rimane però il fatto più importante, che in ultima a-naiisi effettivamente Dio esiste e soltanto Egli è potente. Parimenti sussiste un altro fatto importante, che l'uomo è creato, e la sua persona esiste unicamente in virtù ;d'una immediata chiamata all'essere da parte di Dio. Da ciò nasce una situazione, i cui effetti non sono ancora prevedibili. La coscienza dominante tenta di negare, di rimuovere, anzi di distruggere la realtà di Dio e il rapporto dell'uomo con Lui. Così a lungo andare, la realtà di Dio e della Sua voce, che si rivolge alla persona, dovrebbe diventare elemento patogeno. La natura dell'uomo però non può lasciarsi ridurre ad una struttura positivistica. Anche nell'uomo contemporaneo non credente, l'inconscio dovrebbe ribellarsi alla coscienza ufficiale e al suo orientamento, come gli si presenta da parte della cultura comune e dallo Stato. Le perturbazioni e le distruzioni nascenti da ciò determineranno intrinsecamente l'avvenire. . a

Per quanto riguarda l'uomo credente, ?g|§Ji convinto che Dio esiste. In rapporto a Lui, sentala sicurezza della libertà e della responsabilità della*||?opria persona. Da questa coscienza però si differenzia tutto ciò che ha in comune con la propria epoca non credente. Queste due strutture psicologiche, con le loro

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rappresentazioni del mondo e con le loro ordinatrici, non costituiscono un'unità. Tanto meno, in quanto l'esperienza religiosa, percezione immediata della dimensione numinosa del mondo, nel corso del tempo moderno, è divenuta sempre più tenue, e per diverse ragioni.

La prima è la tecnicizzazione e. la razionalizzazione dell'esistenza, che spinge sempre più in una sfera puramente intimistica e soggettiva la religiosità e rende il mondo sempre più profano. L'arte — soprattutto la musica — porta ancora un momento del mistero dell'esistenza nella coscienza. Ma ciò rimane un momento estetico, scisso dalla quotidianità e non legato ad alcuna presa di posizione di fronte al mondo. Un'altra ragione risiede nella storia spirituale del cristianesimo. Il protestantesimo, dopo aver posta la certezza religiosa nel rapporto individuale con la Bibbia, e per conseguenza nell'esperienza personale, diventò sempre più decisamente soggettivista. Al posto della immedesimazione intenzionale con la realtà og-gettiva, pone l'esperienza come stato emozionale; al posto della verità valida in se stessa, l'autenticità del sentimento personale. Per questo motivo la Chiesa cattolica divenne diffidente verso l'elemento unicamente esperienziale e scorse in esso un pericolo per la verità divina. Lo respinse dalla pedagogia religio-.. sa e fondò tutto sull'autorità, obbedienza e conoscenza razionale. In tal modo l'esperienza venne scoraggiata e cessò in larga misura di essere il momento de'11'accertamento inferiore, che pure sarebbe dovuta essere.

Finalmente l'ultima ragione. La coscienza medioevale di un mondo turbato viveva sotto l'influsso della sua forte attitudine emozionale, tanto intensa quanto o-scura. La violenza del sentimento è diminuita, Tut-

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tavìa agirà ancora molto, per esempio, sulle moderne correnti pessimistiche: noia del mondo, disperazione dell'esistenza, ecc. Da ciò la tendenza a vedere il mondo come qualche cosa di ambiguo, anzi di demoniaco. A questo modo di vedere si contrappone la grande esperienza della scienza e tecnica moderna, che mostrano il mondo come realtà giusta e piena di immense possibilità. Da qui scaturisce una contraddizione, che non raggiunge l'unità. Nell'uomo credente, da una parte si esprime in un sentimento che stacca il mondo da Dio, cosicché bisognerebbe liberarsi dal mondo e abbandonarlo alla propria corruzione. Dall'altra sbocca nel pericolo di sentire il messaggio cristiano come superato e perciò, allontanandosene, rivolgersi al mondo.

Queste contraddizioni non sono ancora consumate. Anzi ci si domanda se sia possibile addirittura concepire una possibile unità. In ogni caso fanno sì che oggi non esista l'idea di un mondo unitario, cristiano. Questo fatto è operante dappertutto e mina la sicurezza della fede.

II - II compito del cristiano d'oggi vivente nel mondo.

1. - Con l'età moderna si inizia quel processo che noi chiamiamo la secolari2zazione del cristianesimo. Esso consiste nel fatto che i concetti scaturiti dalla Rivelazione: di Dio, di creazione, di peccato dell'uomo, di Redenzione, di salvezza, incominciano ad oscillare. Non esiste più il carattere specificamente soprannaturale del vero contenuto della Rivelazione e prevalgono le analogie naturali. Per esempio, al posto della vera Redenzione subentra il miglioramento progressivo delle condizioni di civiltà; al posto della gra-

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zia l'esperienza vissuta soggettiva; al posto della resurrezione e della vita eterna uno stato ideale terreno.

Senonché oggi si diffonde l'idea che un cristianesimo così volatilizzato non abbia alcun senso. Semmai ciò sembrava avvenire quando le guide culturali del mondo erano nelle mani del relativismo e del liberalismo e quando l'ateismo aveva ancora il carattere di una irreligiosità o « libero pensiero » individuale.

Invece da alcuni decenni è entrato in una fase aggressiva e si è unito a tortissime potenze politiche. La volontà di distruggere non soltanto il cristianesimo, ma anche ogni forma di religione è diventato fattore politico di massima potenza. Perciò sarà chiaro che soltanto una coscienza cristiana, formata dagli autentici 'presupposti cristiani, può opporre una resistenza.

Però è anche chiaro come sia pericolosa una valuta-zione quasi dualistica del mondo. Quando la coscienza comune era ancora credente e aveva la forza di ordinare il mondo, le correnti dualistiche potevano a-vere un significato ascetico ed essere intese come volontà di dedizione incondizionata a Dio. Ciò non sembra più possibile. Oggi sembra delinearsi un orientamento a riconoscere il mondo come è: cioè opera di dìo;| e come tale, secondo la narrazione genesiaca della creazione, ripetuta per sette volte, buona, molto buona, amata da Lui e affidata all'uomo (Gen. 1, 3-31).

Dunque deve svilupparsi qualche cosa che fu da lungo tempo trascurata, e per una certa trascuratezza della fede: cioè una responsabilità proprio da parte dell'uomo credente per il mondo. Egli non deve più considerarlo come spazio, nel quale dovrebbe soltanto « guardarsi dal peccare » e « fare il proprio do-

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vere » in un senso astratto, ma deve sapere che è vocato in missione cristiana per « custodire e coltivare » il mondo nella sua natura e nel suo valore (Gen. 2, 15).

E ciò tanto più, quanto più chiaro diventa in quale enorme pericolo camina il mondo per il titanismo contemporaneo. Il possesso del mondo, la capacità di dare ad esso una forma secondo la propria scienza, sono sempre stati sentiti sia come compito sia come tentazione di 5/3pK. Ma tutto rimaneva custodito da ordinamenti che l'uomo non poteva abolire. Il suo fare consisteva nel lavorare con le sue forze naturali sui dati immediati, senza però riuscire a penetrare negli elementi costitutivi. Proprio questo tuttavia è avvenuto. Scienza e tecnica sono ora in grado di intaccare la struttura fondamentale del mondo. Gli effetti che possono produrre sono così grandi da compromettere d'ora in poi l'esistenza umana semplicemente.

Si trattava di una « omissione » del cristiano, ma la parola non è adeguata: noi dobbiamo capire che si tratta di una vera colpa. Il cristiano ha abbandonato, a lungo, il mondo a se stesso, cioè all'incredulo e alla sua volontà di dominio. L'incredulo però non è in grado di amministrarlo rettamente. La logica immanente nell'evoluzione della potenza della scienza, della tecnica e della politica, lo spinge in una zona di pericolo, dove è possibile lo sfacelo. Le forze che sarebbero sufficienti a tenere in ordine la sua capacità, non scaturiscono dalla scienza, ne dalla tecnica. Non derivano neppure dall'autonomia etica del singolo, e tanto meno da una presunta sovrana sapienza dello Stato.

Che il singolo non sia capace di dominare lo sviluppo anonimo della civiltà, sembra essere dimostrato dal

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corso della storia. Perciò il movimento totalitario che si diffonde sulla terra attende ogni salvezza dallo Stato. E allo Stato viene attribuita una sapienza e una forza ordinatrice, che potrebbe essere attribuita alla Chiesa, se essa fosse santa non soltanto nel suo fondamento mistico, ma anche nella sua concreta realtà. I prossimi decenni tuttavia mostreranno che lo Stato, di fronte agli impulsi della natura umana e alle conseguenze della civiltà « oggettivistica », non può fare, in sostanza, più del singolo.

Le vere possibilità salvatrici risiedono nella coscienza dell'uomo, unito a Dio vitalmente. Dunque anche la fede — come la non-fede — diventa un fattore storicamente decisivo.

2. - Si dovrebbe riconoscere qualche cosa ancora. La nostra coscienza di Dio e del suo rapporto con il mondo è soprattutto determinata dal concetto filoso-fico di assoluto, come è venuto formandosi sotto lo influsso della filosofia greca e del razionalismo e idealismo moderno. Secondo questa teoria, Dio è quell'essere che — se così si può dire — è consolidato e ratificato nella sua assolutezza, ma dall'assolutezza è anche necessitato. Di fronte a Lui sta il mondo, come realtà finita. Il suo rapportarsi al mondo passa sopra una sua distinzione anch'essa assoluta e assume facilmente un carattere soltanto intenzionale e irreale. È sufficiente pensare al deismo che presenta Dio precisamente come creatore e ordinatore del mondo, ma poi lo ricaccia dal mondo e consegna quest'ultimo completamente nelle mani dell'uomo.

La Rivelazione parla diversamente. Già il fatto che Dio crei il mondo simpliciter, e ponga il finito vicino a sé, è un mistero. Ciò vuoi dire che Dio realizza nel mondo immagini e imitazioni del suo essere;

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cioè Egli ha inserito e abbandonato, per così dire, nel finito il suo onore, anzi, in un certo senso, se stesso. Ma come può Egli fare simili cose? La nostra domanda poi cresce di interesse se teniamo presente la libertà umana, a cui Dio, creandola, ha dato la possibilità di opporsi anche a Lui. E cresce ancora, se pensiamo che Dio, nonostante la colpa e la sua perversa fecondità, non lascia naufragare il mondo, ma lo sostiene, rimanendo fedele a coloro che non sono fedeli:

fedeltà che rischia di essere pericolo di scandalo infine dinanzi al fatto centrale del cristianesimo, cioè all'Incarnazione.

Che Dio arrivi ad una unione personale con la creatura finita, con la natura umana e questa unione sia mantenuta per l'eternità; che Egli, santità nella sua assolutezza inerme, per così dire, esponga se stesso alle terribili possibilità di una storia sconsacrata, tutto ciò ha un influsso determinante a sua volta sulla idea di Dio stesso.

Questo dice — ciò che la religione cristiana ha sempre conosciuto — che Dio non è soltanto l'essere assoluto della filosofia, ma, molto più, il Dio vivente, che si è « impegnato » nel mondo finito. È chiaro che il concetto di amore di Dio — come fa la teologia influenzata dal razionalismo — non può essere inteso soltanto come amore di benevolenza e di previdenza, ma bisogna ammettere il fatto, inaccessibile ad ogni naturale induzione, che Dio ama il mondo « sul serio » e permette al mondo di diventare così importante per Lui da unirsi alla creatura con una unione personale.

Il cristiano dunque è chiamato ad accordarsi con questa intenzione di Dio. La situazione storica in genere e lo stadio, nel quale sono arrivate la potenza dello uomo e le possibilità di distruzione, costringono il

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cristiano a sottopórre ad un serio esame il suo rappòrto con il mondo. Finora l'etica cristiana ha riconosciuto i compiti nel mondo, però non ha capito sufficientemente che il mondo, come tale, è dato come compito e oggetto di cristiana responsabilità.

Forse un giorno la salvezza del mondo nel senso più elementare — salvezza dallo sfacelo — dipenderà dall'ipotesi che il cristiano prenda il mondo sotto la sua responsabilità e sia pronto ad impegnarsi per esso. Talvolta mi viene un pensiero che suona pressapoco così: un giorno il mondo dovrà finire; l'esistenza umana è, in ogni modo, limitata nella sua durata; la cosa più importante è che l'uomo si rivolga a Dio con fede, con preghiera e con l'amore, e poi lasci andare il mondo per quella strada su cui deve pure andare. Ciò sembrerebbe pio e saggio. È però una profonda tentazione che proviene da quelle potenze mal-vage, che vogliono togliere dalle mani di Dio il mondo.

La tentazione sentita finora arrivava fino a ciò: a far apparire il mondo così bello e il dominio su esso così allettevole, che l'uomo dimenticava Dio; ma la nuova tentazione spinge l'uomo, forse, a pensare che per salvarsi debba abbandonare il mondo e consegnarlo in balia dei miscredenti.

È vero invece che un nuovo compito diventa chiaro:

c'è da salvare l'opera di Dio. Salvarla dal pericolo che la potenza dell'uomo cada nella mani della ^p" e della follia e distrugga la vita sulla terra. L'uomo dunque non può capire il dovere morale, se dice: « Io devo guardarmi dal peccato », ma se dice: « Io devo preoccuparmi che il mondo diventi ciò che deve essere ». Da questo punto di vista tutto un complesso di valori e di compiti diventa evidente. Questa complessità però può essere afferrata soltanto quando

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ogni segreto dualismo viene superato e diventa chiaro che Dio ha affidato il suo mondo all'uomo. È ovvio che accanto a questa prospettiva nasce anche un pericolo: di poter essere del mondo in una nuova maniera, cioè sotto il pretesto della responsabilità. Ma l'esistenza ha sempre avuto la caratteristica di poter essere tratta e verso il bene e verso il male.

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L'ATEISMO E LA POSSIBILITÀ DELL'AUTORITÀ

I. - L'essenza dell'autorità.

1. - II termine « autorità » viene usato con significati molto diversi. Si dice, per esempio, che un maestro non ha autorità nella sua scuola; che uno scienziato è un'autorità in un determinato campo d'indagine ecc. Perciò è necessario chiarire il concetto e chiedo il vostro consenso per poterlo fare in modo preciso, forse un po' pedante. Attraverso quest'analisi precisa del fenomeno risulterà però che il tema stesso della mia comunicazione * trova la sua quasi completa trattazione. Infatti che cosa significhi l'ateismo per la-possibilità d'una vera autorità, apparirà chiaro nella misura in cui si manifesterà la natura dell'autorità stessa.

La nostra indagine procederà per modum eliminatio-nis. Autorità, nel senso più generale, significa una istanza capace di vincolare l'iniziativa di un vivente. Definizione evidentemente troppo vasta. Il proprietario di un cane ben addestrato, per esempio, può comandare e l'animale obbedirà. L'uomo è capace di

* II testo fu presentato al XVI Convegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate 1961; ma qui è stato rielaborato.

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vincolare l'iniziativa del cane; non si tratta però di vera autorità, dato che l'iniziativa, a cui il comando si impone, è quella di un animale. Il cane è entrato in un rapporto coll'uomo simile a quello che unisce il membro d'un branco — per esempio di lupi — allo animale-guida: la sua iniziativa biologica più debole si è subordinata a quella più forte. Il fenomeno dell'autorità in senso proprio è però essenzialmente umano.

Se un uomo, tisicamente forte, costringe un altro, più debole, a seguire una via che questi non vorrebbe, e-videntemente non si tratta di un atto di autorità ma di costrizione fisica.

Perché si possa parlare di vera autorità, l'uomo, a cui è rivolto l'atto obbligante, ne deve esser partecipe con la propria iniziativa intcriore.

Un fatto analogo avviene nelle varie forme di costrizione psichica. Se una persona energica intimidisce un'altra di carattere debole sino a farle fare quello che non vorrebbe, anche in questo caso non possiamo parlare di autorità.

Tanto meno nelle molteplici forme di seduzione, la cui tecnica consiste nel portare l'altro, attraverso passaggi insensibili, dove si vuole. Altrettanto bisognerebbe dire della demagogia, che non sollecita la libera decisione degli uditori ma li porta a reagire passivamente nel modo voluto. La forma più evidente di questo tipo di vincolo psicologico è la suggestione ipnotica. Essa desta sì l'iniziativa ma questa subisce una tale coazione che quando uno riprende la propria coscienza non si sente autore di quanto ha fatto. Non è dunque possibile parlare di autorità, se il vin-

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colo subito abolisce la libertà del soggetto. Al contrario: per essere vera autorità, essa deve rivolgersi alla libertà come tale.

Inoltre: per poter vincolare legittimamente la libertà, il contenuto dell'ordine impartito deve essere moralmente buono. Ma con ciò unicamente si da già autorità?

D'altra parte non chiunque .ricordi ad un altro un dovere morale, ha autorità. Per averla, deve occupare una posizione speciale dell'esistenza di colui, a cui parla. Cioè deve trovarsi all'origine della vita di costui: per esempio essere suo padre o sua madre. Questo lo rende responsabile verso la vita del figlio e conferisce alla sua parola il carattere d'autorità, e non ristretto ad un compito specifico, come sarebbe quello d'un infermiere, ma in una forma generale, data dall'obbligo di provvedere allo sviluppo ed alla educazione di questa nuova vita. È la delega, in certo modo, di pieni poteri per un'iniziativa creativa, definibile di volta in volta dalle necessità della stessa nuova vita.

2. - La forma più semplice, in cui l'uomo percepisce il vincolo alla propria libertà, e quella emergente dal bene stesso, quando cioè ne riconosce la validità e sente che ha l'obbligo di volerlo e di farlo; e questo non per un fine estrinseco ma perché il bene è valido in se stesso e perciò obbliga in coscienza.

Questa istanza, da cui promana l'obbligazione, il « bene » ovvero la sua più precisa definizione in virtù dell'esigenza posta dal singolo momento — sono au-

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tonta? Ancora no; ne il bene in generale, ne alcuna idea etica in particolare, ne l'esigenza della situazione lo sono. Appena riconosciuti, vincolano immediatamente la libertà. Perché siano autorità, manca loro un elemento essenziale, e cioè la concretezza: là realtà empirica.

Ora nella vita di ogni giorno si dice, per esempio: il professore X è un'autorità in materia di malattie di cuore; ciò che egli afferma suole decidere ogni discussione. La sua competenza ha dunque un carattere di concretezza, perché è rappresentata da tale persona; di valore morale, perché fondata sulle sue specifiche conoscenze. Il suo giudizio vincola dunque la coscienza d'un medico, che cura un caso studiato dal tale professore, finché non si presentino nuove ragioni per scegliere un'altra via. Si può dire che il professore abbia autorità nel senso stretto della parola? Ancora no. L'eminente specialista, come tale, non obbliga, ma la sua parola ha valore per la sua esperienza e i suoi studi, un valore grande quanto le ragioni, che possono essere addotte.

Analoga è la situazione, quando una persona esercita un influsso morale non soltanto con la parola e la forza dei suoi argomenti ma con il proprio essere, in quanto cerca sinceramente di realizzare lei stessa ciò che dice, con la forza sollecitante e affascinante della propria personalità. Si può dire che essa stessa è una autorità nel vero senso del termine? No, nemmeno in questo caso. Ciò che vincola la coscienza della persona che sente la sua influenza, è l'evidenza morale di ciò che afferma o rappresenta.

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3. - Quando dunque si può parlare di autorità in senso stretto e proprio?

Prima condizione : quando ciò che esige, vincola la libertà di chi ode: cioè quello che esige è moralmente positivo; anzi, più, è essenziale per il sorgere ed il divenire della vita umana.

Seconda condizione: quando l'istanza che pone la richiesta è concreta, realtà umana; quando sta visibilmente nella storia, come uomo singolo o come istituzione.

Di tali autorità nell'ordine naturale ne esistono due. La prima è rappresentata dai genitori che sono aucto-res vitae, fonte dell'esistenza del figlio; perciò responsabili della sua sicurezza, del suo sviluppo fisico, morale ed intellettuale, della sua preparazione per la vita futura.

Il loro ordine è per il figlio non soltanto un consiglio, un esempio, un aiuto pedagogico, ma bensì un vincolo obbligante in coscienza. Naturalmente va soggetto alla critica morale. Se impone qualcosa che sia illecito ovvero assurdo, l'ordine perde la forza obbligante. D'altra parte non è necessario che il figlio, data la sua età, esamini l'eticità di ciò che i genitori affermano; nel contesto di tutto ciò che è vita giovane, in formazione, è addirittura meglio che egli non esamini, ma ubbidisca con fiducia.

Autorità ed obbedienza sono una forma di realizzazione del bene, richiesta dal fatto che l'uomo entra in vita ancora inetto e l'ordine morale gli si presenta incarnato negli autori della sua vita. Con questo si deve affermare però anche che l'autorità dei genitori ha il compito di rendersi superflua, cioè di non ostacolare,

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bensì di incoraggiare, risvegliare, acci coscientemente formare la crescente capacità nel figlio di autodetermi-aarsi moralmente.

La seconda forma naturale di autorità è lo Stato. Anch'esso risiede all'origine della vita, perché il bambino •non entra nell'esistenza come essere isolato, ma come membro di un contesto sociale, che, secondo la situazione storica in cui si presenta, è diversamente esteso, variamente differenziato e di diversa forma sociologica. Lo Stato, d'accordo coi genitori, ha il compito di ordinare quella vita, che continua a rinnovarsi dalle energie vitali del popolo.

Doveri e competenze dello Stato si definiscono nella legge. Questa obbliga ogni suo membro. Anche qui il potere obbligante non risiede soltanto nell'evidenza di ciò che ordina, altrimenti basterebbe la legge morale, ma lo Stato è anche autore di quell'obbligazione, che si realizza nei singoli avvenimenti, elementi ordinativi e via dicendo, dell'esistenza sociale.

Il diritto dello Stato di emanare leggi trova i suoi limiti nel fatto che i suoi mèmbri non sono individui di una colonia d'animali, bensì uomini, perciò persone esistenti in libertà e responsabilità propria. Lo Stato ha diritto — e dovere — di limitare la libertà dell'individuo e del gruppo, solo in quanto sia necessario per rendere possibile la maggior libertà di tutti. Anzi è compito dell'autorità dello Stato di incoraggiare e sviluppare l'autodeterminazione del singolo e dei gruppi.

Nei singoli casi l'iniziativa dello Stato è subordinata alla critica morale. Una legge che contraddica l'ordine etico è nulla. Se ordina qualcosa di nocivo, nasce

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del pari la possibilità della critica, solo occorre un procedimento oggettivamente ordinato, perché ciò sia lecito.

Da queste due forme fondamentali di autorità derivano poi quelle altre, secondarie, che sono necessa-rie per proteggere, sviluppare ed ordinare le diverse forme della vita sociale: l'autorità nell'amministrazione, nella giustizia e nella difesa, nell'educazione pubblica e così via: autorità delegata nei suoi diversi gradi, che riceve la propria autorizzazione dallo Stato e dai genitori, ed è tenuta a renderne conto.

4. - Nella nostra analisi del fenomeno « autorità »

• manca però ancora un elemento. È quello inteso quando per esempio il quarto comandamento fa dovere al figlio di « onorare il padre e-la madre ». Non solo di ubbidire alla parola di quelli che sono aucto-res della sua vita; neppure solo di esser loro riconoscente per i loro aiuti, o di avere rispetto per la loro

-anzianità, o di esprimere la fiducia che risulta dal rapporto tra le generazioni. Nel contesto del Decalogo il termine « onorare » significa invece, che il figlio avverte nei genitori un elemento che trascende le relazioni finora analizzate. Perciò quando uno si ribella ai genitori, non lede soltanto un ordine immanente, ma manca contro qualcosa che ha un carattere religioso.

I genitori come tali non sono soltanto persone che adempiono nella vita del figlio determinate funzioni e hanno perciò per lui un'importanza speciale, e, per poterlo compiere in modo efficace, hanno un peso e un'importanza particolari derivanti dall'ci.px1? della

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vita, ma rappresentano un'istanza che sta al di sopra di lui, conferiscono presenza a Dio come creatore di ogni vita, auctor vitae assoluto.

La coscienza di questa rappresentanza è storicamente tanto più forte quanto più ritorniamo addietro. I genitori — in special modo il padre — hanno sempre avuto un grande potere religioso, originariamente addirittura magico. Nel corso del tempo questo andò scemando; ma un nucleo è ancora vivo, opera par-ticolarmente nell'istruzione religiosa e costituisce l'elemento centrale del fenomeno dell'autorità.

Lo sviluppo storico produce la consapevolezza che tale potere ha i suoi limiti, e precisamente quel diritto proprio, che si fa sempre più chiaro, del figlio e della personalità del giovane. I genitori debbono sapere che si trovano di fronte a una libertà in formazione, e non solo debbono circoscriverla, in ragione dell'ordine, ma anche, per esso, promuoverla, fino al giorno in cui la loro autorità cessi in senso assoluto e il giovane assuma responsabilità su di sé.

Finché però in genere viene avvertita l'autorità dei genitori, viene sentito in esso anche tale elemento trascendente.

Lo stesso elemento si trova corrispondentemente anche nel fenomeno dello Stato.

Ha conseguito la sua caratterizzazione più vigorosa nell'antica idea del rè, che in verità era non solo il capo dello Stato, come oggi viene inteso, nel senso funzionale della parola, ma figlio di una divinità, o particolarmente istruito e protetto da essa; membro d'unione fra il terreno ed il divino; simboli: la corona, lo scettro, il manto regale, lo esprimono. L'at-

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teggiamento dovutogli era una riverenza religiosa, e mancargli costituiva il crimen laesae majestatis.

Nel corso della storia anche questo elemento andò perdendo la sua importanza fino a scomparire quasi completamente nello Stato razionalizzato del nostro tempo. Ne rimane però ancora un resto in certi concetti, come quello di sovranità, nel senso che ha il giuramento.

Anche lo Stato rappresenta la sovranità divina. In ultima istanza avviene per questa rappresentanza che l'uomo, il quale è persona, gli riconosca l'autorizzazione a regolare secondo un ordine la vita del cittadino dello Stato, che è persona. Parimenti è in ultima analisi questa valenza religiosa a rendere efficaci per la coscienza, al di là del vantaggio e della pena, le leggi.

II. - II significato della fede in Dio per la possibilità dell'autorità.

1. - L'analisi del fenomeno ha preparato la risposta al problema di quel che significhi l'ateismo per la possibilità di un'autorità. Le autorità autentiche — quella dei genitori verso i figli e quella dello Stato verso i cittadini come pure le forme secondarie, derivate dalle predette —, ricevono la loro sanzione definitiva da quell'elemento di rappresentatività descritto sopra.

Il detentorc dell'autorità — padre, capo dello Stato, maestro della scuola e così via — è in grado di obbligare, se ha viva coscienza che rappresenta in qualche modo, la sovranità divina. Nell'epoca moderna l'idea di autonomia ha ottenuto

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un'importanza sempre maggiore. L'individuo esige il diritto di vivere secondo il proprio giudizio morale. La scienza si fonda esclusivamente sulla ricerca critica. Anche gli altri campi della cultura — quello politico, economico, artistico, militare e così via — esigono la loro specifica autonomia. Dappertutto l'ambito di vita e di cultura di cui si tratti si scioglie dal contesto religioso.

Contemporaneamente diminuiscono — sia come causa che effetto del fatto predetto — l'esperienza religiosa, la percezione diretta della realtà di Dio, della sua potenza creativa e del suo governo sul mondo. L'esistenza come totalità si stacca dal suo contesto religioso, e nasce un mondo puramente terrestre. Perciò non è se non logico che l'autorità non sia più fondata in Dio, ma sia intesa come istanza puramente umana.

Lo Stato, perciò, è concepito come quell'ordinamento che il popolo autonomo da a se stesso. In principio — per esempio nella rivoluzione francese — il concetto di popolo sovrano conserva ancora un certo carattere religioso ma poi, a poco a poco, va perdendolo ed alla fine non esprime che l'insieme degli uomini appartenenti ad un paese, la cui vita comune è ordinata secondo criteri razionali.

Lo Stato allora è l'integrazione delle diverse funzioni necessarie per la sicurezza, il benessere, la cultura dello stesso popolo. Il carattere obbligante dei suoi provvedimenti — della legge — è fondato ora solamente sulla necessità ed utilità di queste funzioni, ovvero sulla volontà del popolo di condurre una vita in cui sono necessarie tali funzioni.

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Il significato dei genitori subisce un mutamento analogo. L'esperienza mostra che la condotta dei figli va perdendo sempre più l'atteggiamento propriamente riverenziale verso i genitori, e che essi sono inclini da parte loro a considerare genitori e famiglie come un contesto di funzioni d'utilità, cui essi stessi si contrappongono col diritto a un'indipendenza sempre maggiore. Lo scetticismo di fronte allo Stato e alla famiglia forma le radici di un atteggiamento, che poi si riproduce in tutte le forme di sovra- e subordinazione nella vita sociale e culturale.

Nel corso di questo sviluppo la coscienza del .senso dell'autorità svanisce. Il senso della parola slitta sempre più verso ciò che abbiamo designato come forme improprie: l'influenza di una personalità eminente, il • peso dell'esperienza e della capacità in un qualche settore operativo, l'influsso di doti demagogiche — basta che pensiamo soltanto all'esperienza degli ultimi quindici anni.

L'autorità autentica è giudicata segno di arretratezza dello sviluppo morale, pretesa di gruppi reazionari e così via.

In questo contesto si deve rivedere però anche il significato quasi magico che ha per l'uomo d'oggi la pubblicità. Pensiamo al modo in cui si indaga sulla sua opinione, come fosse una reviviscenza dell'oracolo dell'antichità, e a fenomeni quali la congiuntura economica, la moda e via dicendo.

2. - Qual è dunque la risposta al problema delle nostre riflessioni? L'esistenza di Dio e la fede in Lui, la coscienza della

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sua assoluta autorità, tanto in chi comanda come in chi obbedisce, sono elementi di base, perché sia possibile vera autorità umana. Possibile cioè non solo nel senso di una funzione sociologica, ma anche in quello d'un elemento dell'esistenza umana, indispensabile nella realtà.

Nella misura in cui svanisce la fede in Dio, il rapporto con Lui, sentito in modo reale e vivo, decade la vera autorità. Subentrano insensibilmente, dapprima forme attenuate che poi trapassano sempre più in funzioni di carattere razionale, e scompaiono concetti di reverenza, dovere, colpa, punizione, espiazione e così via.

Scompare anche la forza vincolante diretta dell'ordine statale e familiare. Al posto della vera autorità statale subentra la forza della polizia, e, come ultima conseguenza, la dittatura, che non concede libertà alcuna ma impone con la violenza l'adempimento della propria volontà. .

Nei singoli poi, in cui l'ordine statale non ha più radici religiose, prende forma un'anarchia potenziale che può attuarsi ogni momento. Da qui il concetto della « rivoluzione perenne » come elemento permanente della storia politica, necessario per bilanciare il dominio dello Stato.

Nella famiglia il processo decorre inversamente. Padre e madre non sanno più opporre nulla alla crescente scepsi della gioventù. Sono scoraggiati e sentono che il loro essere puramente umano non ha successo contro l'anarchia inferiore. Così, in fondo, abbandonano la loro posizione e la famiglia crolla dall'interno.

Allora non è che una conseguenza della condizione

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esistente il fatto che lo Stato intervenga. Esso non vede nella famiglia che la condizione biologico-socio-logica previa necessaria perché siano generati e curati i bambini, e non appena possibile, la prende sotto la sua guida.

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VI LA FEDE NEL NOSTRO TEMPO

Premessa.

I pensieri sviluppati qui — poco tempo fa presentati alla radio bavarese — hanno concluso un ciclo inteso a rispondere alla questione del come l'uomo della nostra presente situazione culturale-politica, si presenti alla considerazione di volta in volta da punti di vista diversi. Se si prescinde dall'ampiezza dell'oggetto, il problema delle conferenze precedenti appariva chiaro.

Per la mia non era senz'altro il caso, giacché in essa non si trattava solo di descrivere la struttura fisicospirituale o la ricettività religiosa dell'uomo d'oggi, ma io dovevo parlare anche da teologo. Ciò significava che io dovessi chiedermi come si atteggi l'uomo odierno verso la Rivelazione biblica, cui so di essere obbligato, e come sia suscettible d'essere interpellato da essa —• a distinzione, poniamo, dell'uomo anteriore alle trasformazioni apportate dalle grandi guerre e dalle ultime avanzate scientifico-tecniche.

Per chiarire meglio il problema, in primo luogo si è dovuto dire — in termini i più brevi possibili, ma tuttavia sufficienti — che cosa contenga allora questa rivelazione. Gli ascoltatori hanno dovuto così sorbirsi pure una piccola esposizione teologica, che sarà utile anche al lettore.

La Rivelazione dice dunque: il mondo non è una realtà semplicemente data, che l'uomo interroghi con la sua indagine senza per altro essere 'sicuro se mai ne intenderà il senso, anzi se essa ne abbia in assoluto

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uno. Dietro di lui stanno Invece una sapienza e una bontà dirette a lui;, il Dio vivente, che in sé non ha bisogno d'un mondo, ma l'ha creato affinchè esso esista e dispieghi la ricchezza delle sue possibilità.

Questo Dio ha testimoniato se stesso nelle esperienze e nelle intuizioni religiose naturali dell'umanità. L'ha fatto in maniera normativa nelle rivelazioni quali si vanno estendendo attraverso la storia dell'Antico e del Nuovo Testamento. La risposta dell'uomo ad esse è la fede.

Il creatore ha posto il suo mondo nelle mani dell'uomo, affinchè vi abiti, vi svolga la sua opera ed edifichi il regno di Dio. All'inizio di tutta la storia tuttavia v'è un atto, con cui l'uomo si è ribellato contro Dio e ha guastato e corrotto il proprio rapporto col mondo.

Nondimeno dalla profondità della libertà divina è scaturita una seconda iniziativa, grande quanto quella della creazione, anzi più grande ancora: Dio ha assunto su di sé la responsabilità per la colpa ed è entrato nella storia. Ha creato un nuovo inizio dell'esistenza: la redenzione, attuata mediante l'incarnazione del Figlio suo, la vita, l'insegnamento e il destino di Gesù Cristo.

Da allora attraverso il primo mondo, generato dalla colpa e sconvolto, dalla fede nell'inizio redentivo scaturisce la genesi di un nuovo mondo. Tra loro si svolge una contesa permanente, anzi una lotta. Essa costituisce il senso intimo della storia, ma la speranza cristiana si indirizza verso la vittoria del mondo nuovo, verso l'avvento del regno di Dio.

Il problema che si deve porre è dunque il seguente:

in che modo l'uomo d'oggi è toccato dal messaggio cristiano? È capace di comprenderlo? È disposto ad

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accettarlo nella sua vita? Il suo comportamento a questo riguardo è forse diverso da quello, ad esempio, dell'uomo all'inizio del secolo? Oppure, ancor più, le modificazioni intervenute nel frattempo hanno esercitato su di lui una tale influenza da escludere addirittura per lui, come si va dicendo, ogni capacità e disposizione alla fede in senso assoluto? Questo è il problema che ci poniamo.

Non intendiamo qui parlare di quelle resistenze che la Rivelazione in quanto tale incontra in ogni uomo. La Rivelazione vuole invero redimere l'uomo, cioè trarlo dallo stato di disordine e di autodecadimento in cui si trova. Ma con ciò propone una scelta, anzi la scelta decisiva. Il « cristianesimo » non è la religiosità di un'epoca culturale o di un tipo psicologico tra altri; non esistono cristiani « di nascita », ma in ognuno la chiamata della Rivelazione attraversa tutto un insieme di disposizioni e di condizioni previe. La fede esige sempre la metànoia, cioè la trasformazione dell'uomo, .dei suoi sentimenti e dei..suoi .pensieri. Questo vale per l'uomo d'oggi come per l'uomo dei secoli passati..

La questione che ci poniamo è diversa: si tratta di precisare i particolari presupposti, contrastanti o favorevoli, che il messaggio cristiano trova nell'uomo odierno a differenza dell'uomo delle epoche precedenti.

Si è affermato che questi presupposti, considerati globalmente e a lunga scadenza, sono assolutamente negativi, vale a dire che la fede cristiana non ha più alcun avvenire. L'affermazione non è nuova; chi conosce un poco la storia, sa anche che essa è già stata frequentemente enunciata.

Ma chi conosce qualche cosa dell'essenza della Rivelazione cristiana e delle esigenze che essa pone agli

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uomini, sa pure che quella affermazione è una componente essenziale della situazione in cui si viene a trovare colui che è chiamato: sempre la Rivelazione è « sorpassata », sempre è inattuale, perché il suo contenuto è eterno, e l'uomo di ogni ora della storia cerca di evitarlo col dichiarare che essa ha avuto valore ieri, e che oggi, cioè nel momento della decisione, essa non vale più. Ma la Rivelazione cammina con la storia; così quella stessa affermazione assume di volta in volta contenuto storico diverso ed esige risposte diverse: le quali presuppongono la descrizione dei vari modi con cui le varie epoche si situano davanti alla Rivelazione.

I. -L'ateismo.

L'attuale situazione religiosa differisce profondamente da quelle passate per il fatto che oggi l'ateismo ha conseguito un'affermazione mondiale.

Ateismo significa un rifiuto fondamentale del Dio che si manifesta nella Rivelazione biblica; e, inoltre, di ogni realtà divina in qualsiasi modo concepita. Esso non è sorto soltanto in tempi recenti; la sua storia ha radici molto remote. Ma, mentre ancora intorno al 1900 chi vi aderiva veniva a trovarsi in una posizione più o meno isolata, ora esso è diventato, per così dire, abile alla vita sociale; ha acquistato una nuova coscienza dì sé, anzi ha raggiunto nel comunismo le dimensioni di una potenza mondiale dotata di tortissima volontà offensiva. Ciò ha gravemente pregiudicato non solo l'esistenza ma anche il prestigio della fede nella Rivelazione ed ha inoltre reso assai pericoloso in ampie zone della terra scegliere e professare pubblicamente questa fede.

Ma d'altra parte, grazie all'ateismo, l'interpretazione

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cristiana dell'uomo e del mondo diviene assai più sicura di sé. Nuovi problemi, è vero, sono sorti per la teologia, suscitati dalle conoscenze scientifiche che hanno ripresentato il problema della definizione dei confini tra animale e uomo, tra organico e spirituale, tra incosciente e cosciente; suscitati dalle conquiste della ricerca storica e sociologica, come pure dalle trasformazioni della realtà economica e politica, ecc. Ciò nonostante il credente consapevole avverte il senso di una nuova libertà. La mentalità meccanicistica dominante verso la fine del secolo scorso, che, consapevolmente o no, usava l'immagine della macchina come schema per la sua concezione del mondo, costituiva un grande ostacolo al pensiero cristiano; ora essa è per gran parte scomparsa. Il pensiero odierno sa che la qualità non può essere ridotta a quantità, come sa che la capacità di comprendere non è riducibile alla funzione meccanica; sa che lo spirito è una realtà e che la persona è fondamentale per la comprensione dell'esistenza, ecc. In tal modo sono sorte relazioni che appaiono favorevoli al contenuto della Rivelazione, delle quali non è ancora possibile valutare la portata. Anzi l'apertura che ne deriva è così grande e così fortemente sentita che si può talvolta parlare di un « entusiasmo » del pensiero ispirato alla fede — con tutti i pericoli che un tale stato d'animo comporta per la nettezza delle distinzioni.

Nell'evoluzione storica della nostra società l'ateismo è venuto a trovarsi specialmente vicino al tipo, oggi sempre più diffuso, dell'« uomo tecnico ». Si va formando l'opinione che tutto può essere « fatto »; che dappertutto « le cose vanno anche senza Dio »; che anzi la vera espansione dell'uomo come pure il suo più elevato rendimento, si realizzeranno su raggio uni-

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versale una volta che sia rimosso l'ostacolo dei vincoli trascendenti. Tutto ciò pone indubbiamente il cristiano davanti ad una difficile prova; ma è pure altrettanto indubbio che ciò contribuisce a chiarire l'atteggiamento religioso complessivo.

Ora che sono caduti tutti 'gli impedimenti esterni da parte di determinate autorità e istituzioni cristiane;

ora che giganteschi sistemi politici hanno avocato a sé ogni potere e deposto ogni senso di responsabilità verso una più elevata istanza, nella volontà di plasmare tutta l'esistenza umana secondo punti di vista puramente terreni, si potrà veder chiaro se senza Dio l'uomo saprà essere realmente uomo. È questa la più terribile avventura che sia mai stata osata. Ma i sacrifici che essa finora è costata, le violenze compiute contro la natura umana e gli attentati perpetrati alla sua dignità costituiscono un passivo che nessun progresso tecnico-economico e sociale potrà mai compensare. Per di più, la psicologia ha dimostrato che ogni autentica esigenza psicologica che non trova adempimento, genera malattia. Così apparirà chiaro che cosa provocherà alla fine la distruzione dell'istinto più profondo dell'uomo — e noi non vogliamo dimenticare che il tentativo non è ancora giunto molto lontano dal suo inizio.

Ma prescindendo da questo, la comparsa dell'ateismo comporta anche una decisiva chiarificazione nello stesso campo religioso. Finora l'ateismo era una potenza sotterranea, nascosta sotto l'indifferenza dei socialmente .svantaggiati o sotto lo scetticismo dei circoli dirigenti della società e della cultura. Ora si è manifestato apertamente e obbliga alla decisione, e la cristianità che nasce ora da tale decisione sa quali sono il contenuto genuino e i criteri autentici della propria fede.

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Allo stesso risultato porta il fatto che l'ateismo dissolve il sincretismo, a cui ha condotto la secolarizzazione operata sul cristianesimo dall'epoca moderna e che ha sbiadito le verità cristiane, ne ha attenuati i valori e resi inautentici gli atteggiamenti. Simili mezze misure non resisteranno davanti alla chiara negazione dell'ateismo. Anche questo impone una decisione, nella quale il messaggio cristiano riconquisterà il suo autentico significato.

II. - La finitezza del mondo.

Un ulteriore aspetto che modifica oggi la situazione della fede è il fatto che nella coscienza dell'uomo attuale il mondo si fa di nuovo finito.

All'inizio dell'epoca moderna la ricerca scientifica stabiliva che le opinioni medioevali circa l'estensione del cosmo e della storia erano errate. Tanto lo spazio quanto il tempo, così il sistema astronomico come la durata del divenire cosmico acquistavano misure immense. Anzi, nel sentimento degli uomini di allora il mondo assumeva il carattere dell'infinito. Una vera e propria ebbrezza d'infinito era allora esplosa, la quale, psicologicamente parlando, sembrava non lasciar più nessuno spazio per il Dio personale della Rivelazione e nessuna possibilità sperimentale al sentimento che il mondo è creazione. Il panteismo dell'età moderna fu un tentativo della religiosità che volle salvare l'idea di Dio, trasponendo Dio stesso nella intcriore sfera del mondo e vedendone in Lui l'« anima » o il « fondamento originario ».

Oggi noi assistiamo al fatto sorprendente che la scienza verifica, in senso tanto macroscopico quanto

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microscopico, sempre nuove e più grandi dimensioni; il nostro senso del mondo è posto dinanzi a spazi, tempi, masse, velocità, che l'epoca moderna non poteva, all'inizio, neppure immaginare, tuttavia noi non sentiamo più il mondo come infinito. Che esso sia finito non è imposto al nostro intelletto soltanto da considerazioni fisiche e astronomiche, ma ne abbiamo la percezione immediata. Per la genesi, ad esempio, dell'esistenzialismo francese si possono addurre cause varie; ma esso rappresenta sicuramente un tentativo di venire a capo di questo sentimento della finitezza e delle crisi personali che da esso derivano. Concetti come quelli di « nulla attivo », di « radicale essere-esposto », di « libertà assoluta », ecc., non avrebbero potuto ancora formarsi dall'esperienza esistenziale degli anni intorno al 1900.

Questa nuova situazione apre la possibilità di cogliere interiormente la verità di quell'affermazione religiosa che regge tutte le altre: che cioè il mondo è creato e che la potenza creatrice si chiama « Dio ». La « chance » psicologica di riconoscere il creatore del mondo e di entrare in esistenziale rapporto con Lui, è oggi incomparabilmente maggiore di quanto essa non fosse a partire dalla metà del secolo scorso. A questo fatto sembra collegarsene un altro: insegnando che l'uomo è sì nel mondo ma che in pari tempo, e attraverso esso, sta come persona in immediata relazione con Dio, la Rivelazione s'incontra con un elemento vitale della nostra attuale auto-esperienza.

Se oggi il pensiero cristiano si accerta della spiritualità dell'anima, non lo fa tanto partendo dal concetto di una sostanza immateriale, quanto piuttosto da quello della personalità, vale a dire, della liber-

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tà e della responsabilità. In esatta corrispondenza con l'intensificazione del mondo esteriore, materiale e biologico, anche il mondo interiore si approfondisce. Come si rende sempre più evidente la potenza della materia grazie alle ricerche della fisica e alle conquiste della tecnica, così si fa pure evidente, come in controgioco, la densità di essere e di azione della persona.

La passione di risolversi nel Tutto, con cui il sentimento dell'era moderna ha risposto alla schiacciante infinità del mondo, non appartiene più all'esperienza interiore del nostro tempo. Per quanto il mondo sia grande, per quanto le sue leggi siano cogenti, la persona si esperimenta nei suoi confronti come libera. Ma questo non sulla base di chissà quali proprietà metafisiche, ma in forza del suo rapporto con Dio. La maggiore o minore consapevolezza di tale rapporto dipende anzitutto dalla risolutezza del sentimento che il singolo ha di sé e dall'attenzione che egli rivolge alla sua vita interiore. Ma parlando in generale, sembra che, nell'esperienza religiosa, alla nebulosità del panteismo e alle astrazioni dell'idealismo sottentri il rapporto lo-Tu con Dio.

A questo contribuiranno anche le violenze dell'ateismo politico. Non c'è bisogno di mettere in rilievo quanti valori religiosi siano franati e possano ancora rovinare per le sue aggressioni. Ma esso costringerà pure alla riflessione sulle realtà essenziali della esistenza, di cui la più profonda è appunto il rapporto lo-Tu con Dio: sia pure attraverso il riconoscimento che l'immediatezza del rapporto con Dio costituisce il sostegno decisivo per opporsi alla statalizzazione dell'uomo. Nella storia dello spirito non sono stati molti i fenomeni così impressionanti co-

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me questa silenziosa lotta che percorre oggi il mondo per l'indipendenza della persona. In ultima analisi è dell'uomo che si decide nella lotta per Dio;

il credente acquista la consapevolezza che egli, credendo, combatte per la libertà e per la dignità dell'uomo.

III. - Rapporti tra confessioni religiose.

Strettamente connesso con quanto andiamo dicendo è pure il cambiamento che si va operando nei reciproci rapporti tra le confessioni cristiane, ed anche tra la fede biblica e la religiosità dei popoli noncristiani.

Per quanto riguarda le confessioni cristiane, nonostante i molti contatti individuali, fino alla prima guerra mondiale le loro reciproche relazioni furono del tutto negative. Ma questa situazione ha subito un mutamento così notevole che deve essere considerato un sintomo di vasta importanza. Si ridesta un forte interesse per gli altri, diverso nei singoli casi, ma sempre determinante per l'atteggiamento generale. Si diffonde una disposizione a comprendere, una volontà di porre come punto di partenza della discussione non ciò che divide, ma ciò che è comune. Si è fatta molto profonda la consapevolezza che le divisioni della cristianità non sono soltanto una sciagura, ma una colpa di cui tutti hanno da sentirsi responsabili. Non si possono più liquidare le questioni col dire, gli uni: « Quelli là sono eretici »; e gli altri: « Quelli là sono mezzo pagani ». La situazione viene, in misura sempre maggiore, determinata non dall'accusa contro gli altri, ma dal sentimento di un corso storico colpevolmente

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tragico per tutti, le cui conseguenze devono essere affrontate e risolte in. comune.

È importante a questo proposito il modo in cui ciò avviene. Ancora sul finire del secolo scorso e sul principio di questo, tali sforzi avrebbero dato un risultato di valore assai relativo. L'avvicinamento sarebbe stato semmai tentato con l'assumere le affermazioni della Rivelazione in un senso soggettivo o simbolico, e con il risolvere le differenze in un « pres-sapoco » non vincolante. Oggi invece si manifesta in modo inconfondibile una volontà di andare alla sostanza della propria rispettiva posizione; di cogliere nella loro essenzialità pensieri, valori e motivi; di vedere chiaramente e decisamente le differenze. Così si fa evidente che non si tratta solamente di una miglior forma di convivenza, ma anche e soprattutto di pervenire tutti insieme alla verità. Perciò tutto si compie in una serietà mai prima esistita.

È chiaro che a questo riguardo l'offensiva dell'ateismo esercita come una pressione sulle frontiere, che stimola il processo. I seguaci di Cristo sentono direttamente la solidarietà che li unisce nel pericolo. Essa è simile a quella che negli anni del nazismo diede alle diverse confessioni cristiane la consapevolezza di trovarsi di fronte non solo ad un rivale, ma ad un nemico comune, la cui minaccia era ben più radicale dei loro interni contrasti. Forse proprio allora si è verificata sul piano storico la prima tangibile modificazione dei rapporti tra le confessioni; ora la situazione ritorna in forma più pressante ed anzi si presenta in modo più globale.

I fedeli cristiani sanno ancora di avere un nemico comune, deciso a ogni violenza e ad ogni disonestà. Ciò li costringe ad acquisire la coscienza di che cosa

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sia il « cristianesimo » e perché si debba lottare per esso. Ciò appunto è occasione però anche per indagare l'essenzialità di questo elemento cristiano, giacché partendo da posizioni annacquate non si può condurre una lotta.

Nella misura in cui si compie questa decisione per l'essenziale, il credente si fa pure capace di scorgere quanto v'è di positivo nell'ateismo come fenomeno storico. Non di soggiacere alla sua violenza, ne alla suggestione della sua propaganda — cosa che avviene tanto più facilmente, quanto meno sono chiare le proprie concezioni e quanto più deboli le prese di posizione esistenziali — ma di capire come si sia formato; quali energie siano operanti in esso; quali realtà del mondo e della società esso colga meglio. E, soprattutto, quali ingiustizie, quali errori e quali omissioni da parte cristiana l'abbiano provocato, poiché è sempre anche una colpa della fede, che deve sentirsene responsabile di fronte all'incredulità.

Anche nelle relazioni che intercorrono tra le confessioni cristiane e quella giudaica, fatti storici recenti vanno di pari passo con chiarificazioni all'interno dell'ambito spirituale. Senza voler ricercare gli oscuri e torbidi moventi, che hanno condotto all'orribile tentativo di distruggere il popolo ebraico come tale, si potrà in ogni caso dire che tutte le ingiustizie, che nel corso della storia sono state commesse contro questo popolo, si sono raccolte e sono sfociate nel tentativo di sterminio nazionalsocialista. Ciò deve indurre ogni uomo capace di riflessione profonda a domandarsi in che rapporto egli stesso si trovi di fronte ai pensieri e ai motivi che portarono a quel folle proposito. La fondazione dello Stato di Israele sembra l'espressione rappresentativa delta nuova situazione.

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Ma anche alcuni fatti nuovi della coscienza cristiana coincidono con i fatti esterni che abbiamo ora ricordato. Per molto tempo l'Antico Testamento non ha avuto importanza essenziale per la teologia cristiana, ma fu piuttosto considerato come una pura preparazione al Nuovo Testamento. La conseguenza fu che l'Antico Testamento fu trattato, sotto vari aspetti, come una parte della storia generale delle religioni. Ma da qualche tempo si nota un cambiamento. Appare ora evidente quale importanza abbia l'Antico Testamento per la intelligenza del Nuovo. Così, ad esempio, la libertà dell'atteggiamento cristiano si fonda nel superamento inferiore del mito, della metaSsica autonoma e dello statalismo antico;

ma questo superamento si è compiuto fondamentalmente nell'Antico Testamento: processo grandioso! Parimenti il messaggio vetero-testamentario della creazione, dell'amore di Dio per essa e del compito che questo amore pone al credente, avrà un peso decisivo nel futuro approfondimento del rapporto cristiano col mondo. E su tale argomento ci sarebbe ancora parecchio da dire.

Tutto ciò corre parallelo agli avvenimenti esterni prima menzionati e fa sì che il credente cristiano si accosti alla religiosità dell'Antico Testamento con nuovo interesse e nuova disposizione intcriore. Una prova concreta può essere vista nell'importanza che hanno acquistato la figura e l'opera di Martin Buber. Esse non rivelano soltanto una grande personalità, ma l'interpretazione ebraica dell'esistenza, in quanto tale, nel dialogo del pensiero europeo.

Questo stesso contesto conduce ancora più oltre. Sono di nuovo processi storico-politici che si collegano con processi spirituali, e precisamente quelli

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che conducono a modificare i rapporti tra la coscien-2a biblica in genere e la religiosità degli altri popoli che si nutre ad altre fonti.

La situazione storica generale è rappresentata oggi dagli spostamenti che sommariamente indichiamo come « crisi del colonialismo ». Anche qui si prende coscienza delle ingiustizie accumulate per secoli,. commesse dai popoli bianchi contro i popoli africani ed asiatici, benché, francamente, non si possa dimenticare o misconoscere quanto s'è compiuto di positivo, come fa la propaganda comunista. Ma, pur prescindendo dal fatto che quel comportamento era in se stesso anticristiano, la serie di quei torti pesa egualmente sulla nostra responsabilità religiosa, per la ragione che essi — non certo intenzionalmente, ma di fatto — hanno coinciso con il messaggio cristiano; poiché insieme con i conquistatori sono appunto arrivati i missionari, ed era inevitabile che questi, anche con la sola presenza, apparissero sostenitori dell'azione di quelli. Però un vero difetto della stessa predicazione cristiana sta nel fatto che essa non ha rispettato abbastanza la serietà e il valore proprio della religiosità extra-biblica, cosicché sotto molti aspetti il messaggio cristiano dovette apparire una divulgazione di cultura europea. E un messaggio religioso, finché non include un profondo rispetto per la convinzione di chi è chiamato ad accoglierlo ne aderisce ai suoi contenuti di coscienza, non può essere realmente costruttivo.

Il fatto che la religiosità dell'indiano, del cinese, dell'africano, nonostante la chiara visione e gli sforzi di illuminati precursori, non sia stata presa sul serio dai portatori del messaggio cristiano, corrisponde esattamente al modo non impegnativo, estetizzante e « alla moda » con cui l'europeo colto d'allora

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si occupava del mito. L'interesse per il mito non .era quello che si ha per una verità esistenziale, non era che una pura ricerca di scienza delle religioni o un'estetizzante simbolistica del mondo.

Anche su questo punto le cose vanno cambiando. Già il fatto che i popoli ex-coloniali si affrancano con la violenza di un'alluvione, sollecita una revisione. Per non parlare della necessità politica di rendersi conto della mentalità dei popoli extraeuropei in un modo dettato non tanto dalla coscienza del portatore di cultura o dall'interesse dello scienziato, quanto dalla considerazione che si deve a chi è un partner sul terreno della politica mondiale. Ciò vale anche per quanto riguarda il fatto religioso;, quello di cui oggi si tratta è un dialogo tra i popoli del mondo sulla verità. Così il credente che vive della Rivelazione biblica è invitato a considerare seriamente in un modo nuovo la religiosità che si alimenta da altre fonti. Egli è esposto all'impeto di concezioni straniere, soprattutto asiatiche, e deve saper entrare nel loro dialogo. E lo farà non solo difendendosi o discutendo, ma conoscendo sempre più profondamente il contenuto di verità che è in ognuna.

Quali saranno gli effetti tangibili di questo dialogo non è ancora possibile prevedere; in ogni caso è assai importante per il teologo domandarsi che cosa succederà, quando il contenuto della Rivelazione cristiana verrà meditato da spiriti che vengono da un mondo di così profonde esperienze religiose e che si sono formati a una così antica saggezza. A chi afferma che la coscienza del futuro unico popolo della terra sarà una coscienza incredula, si può così contrapporre una prognosi del tutto diversa; vale a dire, che sorgerà una coscienza mondiale cristiana di nuova profondità ed ampiezza.

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Riguardo poi alle numerose perdite, che il cristianesimo ha subito, causa i suoi propri errori ed insufficienze, e causa la violenza e la propaganda dei suoi •nemici, esso riconoscerà la realtà della oggettiva situazione, anche ciò che in essa è dovuto a sua colpa, e se ne assumerà le conseguenze. Ma allora gli spazi ancora vuoti diverranno territori di un nuovo, anche se faticoso avanzamento. Tutte le diagnosi d'una morte del cristianesimo commettono l'errore di considerare Gesù Cristo e la sua opera come un semplice fenomeno culturale e di limitare il proprio giudizio ad un periodo di tempo troppo breve. Ma invece Gesù Cristo è il Figlio di Dio, ed a Lui appartengono i tempi. E il cristiano ha imparato a pensare in termini di secoli.

IV. - Responsabilità per il mondo.

Il grande progresso delle scienze naturali ha determinato una spinta altrettanto potente in tutto ciò che si chiama tecnica, intendendo il termine nel senso ampio d'ogni forma d'elaborazione della materia del mondo. Esso ha creato l'impressione che ogni compito sia assolvibile, che tutto possa esser fatto. Così l'uomo di oggi non vede soltanto davanti a sé compiti giganteschi, ma in lui si è destata una volontà, e, si può forse dire, un'ebbrezza d'essere capace di tutto. Tutto l'interesse è, così, rivolto al mondo. Ci si forma l'idea che se una cosa non è scienza, non è sena;

se non è tecnica, non vale la pena di applicarvisi; e nasce il pericolo che possa estinguersi il senso per il trascendente, per Dio e per il suo Regno. Nessuno potrà negare che questo pericolo si è ampiamente ve-rificato, in connessione con quanto abbiamo detto riguardo all'ateismo di cui si è parlato.

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Tutti i grandi impulsi della storia sono però plurivalenti; anche e specialmente in rapporto al fatto religioso. L'élan scientifico-tecnico del nostro tempo può eliminare il senso religioso; ma può anche donargli una consistenza nuova.

Se noi esaminiamo il sentimento degli impegni morali proprio delle epoche passate, giungeremo — forse meravigliati, forse anche spaventati — a un'importante constatazione: il cristiano anteriore al 1900 ha ben poco sentito, come cristiano, una responsabilità per il mondo, per il mondo delle cose. Il suo senso del dovere si rivolgeva ad alcuni valori nel mondo: era un senso determinato dalle esigenze che nascevano dalla società umana e dagli impegni professionali; di fronte al mondo come tale, alla terra come realtà fondamentale dell'esistenza, non sentiva alcun dovere. (In quale misura tale sentimento consistesse di motivi universali-etici, non possiamo approfondire. Esso fu operante comunque in misura assai limitata, altrimenti la terra e la sua vita avrebbero un aspetto diverso).

Ma dobbiamo essere più precisi: il cristiano concepiva volentieri il mondo delle cose e la sua opera su di esso come ciò che, di fronte al fatto propriamente religioso, è « profano ». Che il mondo anche come tale rechi un carattere religioso, che come opera di Dio gli sia affidato, ed egli ne sia responsabile — responsabile che si operi rettamente con esso — per quel che riesco a vedere, non l'ha realmente sentito. È un sintomo assai significativo, per la situazione della fede nel nostro tempo, che tale sentimento cominci, come sembra, a manifestarsi. Si fa strada l'idea — in molti forse non ancora, ma tutti gli impulsi di portata storica sono all'inizio operanti solo in un piccolo numero di persone — che il mondo come tale

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non ha soltanto un valore economico o culturale, ma è prezioso in ordine a Dio; non natura anonima, non terra di nessuno del tutto disimpegnata, ma nobile opera del Creatore che Egli ha affidata all'uomo. L'uomo di oggi capisce di potere usare la potenza che gli deriva dalla scienza e dalla tecnica non solo per entrare nel giusto rapporto con la terra, ma anche per nuocere alla vita della terra o addirittura per distruggerla tutta. E ciò non sarebbe soltanto una catastrofe economica o una rovina d'ogni civiltà, ma un'ingiustizia religiosa, un delitto sacrilego.

D'altra parte l'uomo attuale non è più sicuro se la liberazione sempre più, rapida di energie finora vincolate possa essere contenuta dalla scienza e dalla tecnica entro limiti di sicurezza vitale, o se debba necessariamente proseguire per intima logica fino in fondo, sopravanzando ogni ragionevole saggezza. Si pone così il problema se esista una garanzia per un buon uso delle terribili energie.

Inoltre all'uomo d'oggi dovrebbe ormai risultare chiaro dopo tanti fatti di barbarie, di ^pis patologica e di orribile freddezza dell'uomo per l'uomo, che egli non è affatto quell'essere ordinato, buono, anzi sempre proteso al meglio come lo concepiva l'ottimistica fede del progresso; che agiscono invece in lui impulsi che possono trascinarlo a tutti gli abusi della propria potenza. Egualmente l'uomo d'oggi riconosce che la terra non costituisce quella stabile base della sua esistenza, come l'aveva considerata fino a poco tempo fa; ma che invece cose, valori, ordinamenti in essa esistenti, ed anzi il mondo terrestre come totalità, possono essere radicalmente minacciati.

Da tutto ciò emerge un sentimento nuovo: l'uomo capisce d'essere responsabile per la terra. Che egli

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la deve, anzi, salvare, dal momento che ogni progresso della conoscenza e del potere riduce sempre più la sicurezza di quanto prima era ovvio ed evidente'.' Così l'esistenza come totalità viene a trovarsi in uno stato di suspense sconosciuto finora: ciò che sembrava fermamente garantirla, si discopre invece come ciò che precisamente la rende problematica in un modo sempre più radicale.

Ma il fatto che il mondo stesso in quanto tale venne sentito non come un impegno religioso, ma piuttosto come « mondano », separato dalla vita propriamente religiosa, e come religiosamente indifferente, anzi pericoloso, ebbe cattive conseguenze per la stessa vita religiosa: essa perse di realtà, di motivi concreti. Essa si ritirò come in disparte, nel puro intcriore, nel puro « spirituale », e non di rado divenne un affare di specialisti. Essa perse in larga misura quel contenuto che per esempio rende i Salmi così realistici:

la gioia dell'esistenza e la cura per essa. Proprio questo va cambiando, e ciò in accordo ancora una volta con un cambiamento storico, più precisamente con una modificazione nella situazione esistenziale dell'uomo, ai cui effetti nessuno si può sottrarre.

È evidente che a tale situazione piena di pericoli per l'esistenza non possono trovare un rimedio ne le considerazioni dell'intelletto sistematico ne le invenzioni della tecnica intesa a prevenire i rischi. Non vi è qui una foolproof. Contro il pericolo insorgente da quello che è il carattere fondamentale della situazione odierna, si può soltanto invocare un'istanza che non si risolva direttamente nel contesto del mondo, ma che sia capace di sollevarsi su di esso, e ciò è possibile solamente alla persona in quella libertà e in quella responsabilità che nascono dall'immediato rapporto

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con Dio. Un Dio però che non sia un'idea astratta o un nebuloso enigma del mondo, ma che sia veramente il Creatore e il Signore sovrano e personale (nel senso assolutamente originario del termine) dell'essere.

I pericoli dell'inesorabile sviluppo tecnico-scientifico impegnano a tal punto l'uomo che un senso nuovo di responsabilità si va affermando, elementi della personalità cristiana prima assopiti si vanno ridestando e nuove forze e capacità inventive devono essere suscitate. Come ciò debba verificarsi, in qual modo queste forze e capacità nuove si incontreranno con gli anonimi impulsi della volontà di potenza, dell'istinto del guadagno, della sete d'avventura, della voglia di fare e d'osare tutto, è un problema a parte. I problemi etici e pedagogici della potenza — intendendo il termine- nel senso vasto di capacità di conquista e di dominio — sono stati appena posti. Altrettanto poco quanto quelli d'una teologia della potenza. Definire la potenza come qualcosa di radicalmente cattivo sarebbe un errore, e, nell'attuale situazione, ancora assai più pericoloso.

Nel Genesi l'uomo è concepito come simile a Dio; e tale somiglianzà consiste nella capacità di signoreggiare sul mondo (Gen. 1, 26-27). Signoreggiare, beninteso, nel senso giusto. Dio è il Signore del mondo per essenza, perché ne è il Creatore; l'uomo è creatura "di Dio, e perciò signore per grazia. Perciò il suo dominio è essenzialmente dipendente da quello divino, e il peccato originale è quel delitto che si ribella a tale fondamentale rapporto e che proprio per questo genera anche quel disordine, che colpisce rovinosamente la stessa essenza dell'uomo. Di qui nasce il compito di ripensare in forme nuove l'essenza e la responsabilità dell'uomo nel mondo e di formulare

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doveri, di cui non è dato ancora di vedere la portata. E con questo lo stesso atteggiamento religioso riceverà un nuovo contenuto. Il pericolo di concepire la religione come un esercizio appartato di « virtuosi » specialisti è così più facilmente superato e la religiosità viene riallacciata al destino del mondo di Dio.

V. - II carattere della fede del nostro tempo.

Qualche osservazione ancora su quello che sarà il carattere spirituale, la colorazione psicologica della fede dell'epoca nuova. Si tratta naturalmente solo d'uno schizzo che avrà certamente bisogno di molti correttivi.

L'essenza della fede è sempre la medesima: l'uomo riconosce che Dio, l'assoluto Indipendente, ha annunciato nel mondo la sua verità, alla quale l'uomo risponde con l'obbedienza dello spirito. Egli sente così che nella Rivelazione si manifestano valori essenziali per il significato supremo dell'esistenza, anzi per la sua salvezza: sono i valori salvifici che l'uomo afferma come grazia e obbligazione. Sente che gli è stata posta un'esigenza assolutamente non deducibile da una logica della vita puramente naturale, ma che tuttavia è valida per se stessa, ed egli la riconosce. Sente che il Dio vivente lo chiama alla comunione con Sé ed egli segue questa chiamata fiducioso e fedele. Tutto questo forma il nucleo della fede per o.gni situazione sia storica sia individuale. Il problema è in che forma psico-spirituale si attuerà questa fede.

La primitiva età cristiana risponde alla Rivelazione con animo giovanilmente gioioso, accettando senz'al-tro tutto ciò che consegue all'atto della fede, ma conservando nello stesso tempo nell'espressione e

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nell'atteggiamento l'antica misura classica. Così sorge quella meravigliosa freschezza e arditezza e insieme quella nobiltà che spirano dalle antiche testimonianze.

I grandi santi del deserto gettano via da sé in dedizione ardente tutto ciò che non è Dio, per spezzare l'incantesimo dell'antica cultura decadente ed attuare la fede con tutto il proprio essere.

Il Medioevo innalza sulla base della verità rivelata, con l'aiuto di idee della civiltà classica e con le esperienze dei grandi mistici, unite ad una inesauribile forza simbolica, l'edificio della sua visione religiosa del mondo... Nel Rinascimento — che non fu, come vorrebbe l'opinione corrente, soltanto un rinnovamento del sentimento pagano del mondo — i nuovi impulsi di sviluppo della personalità e di conquista del mondo vengono assunti nella coscienza cristiana e fusi con i pensieri della comunione con Dio, della professione come incarico divino e della diffusione della fede in tutto il mondo. Nel Saracco, ultima unitaria cultura europea, la fede si dispiega in forma trionfale. Non soltanto nell'architettura e nell'arte figurativa, ma anche nel comportamento inferiore dei credenti lo spirito barocco fa sentire la sua presenza: e al di là del suo fasto non si deve dimenticare ne il fervore dei mistici ne il grande lavorìo teologico del tempo.

La fede cristiana dell'età dell''Illuminismo accoglie in sé un'esigenza, diffusa allora in tutta l'Europa, di razionale chiarezza e di controllo e verifica morale della vita, dando origine ad un atteggiamento proteso alla conquista di -una conoscenza sempre più precisa. Agli elementi negativi di tale atteggiamento freddamente razionale e moralizzante si oppone il Romanticismo. Nella sua religiosità si rivelano di nuovo le forze fondamentali dell'anima, il sentimen-

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to della storia e il simbolismo, che danno alla fede calore e profondità. Diversa ancora si presenta la seconda metà del XIX secolo con il suo positivismo predominante nella scienza e nella tecnica. La sua fede è ardua e faticosa, perché essa deve affermarsi contro un'aspra critica e deve compiere un duro lavoro sui suoi propri fondamenti concettuali.

Un nuovo carattere, così io penso, avrà la fede che si manifesterà nel prossimo futuro. Descriverla non è facile. Forse ci riusciremo meglio se partiremo dagli aspetti critici che la fede dovrà affrontare.

Il primo di tali aspetti è l'intensa volontà di conoscenza scientifica, con la sua pretesa di formare la base di ogni fenomeno culturale veramente serio. Si sviluppa di qui una tendenza che relativizza tutto e uno scetticismo verso ogni affermazione che trascenda l'immediata realtà dell'esperienza, ma inoltre, per strano contrasto, anche una notevole inclinazione a superstizioni, a saggezze pseudomistiche, a esoterismo. Il credente del nostro tempo sa che ogni affermazione cristiana dev'essere difesa di fronte alla problematica scientifica, ed è preparato a ciò. Ma egli conosce anche la propensione della scienza — come pure della ideologia politica — ad oltrepassare la propria competenza, e non è disposto a concederle autorità là dove essa non ne ha alcuna. Egli avverte che le molte forme di professione religiosa e di opera volta a dar forma al mondo generano un senso di relativismo, e sente l'impegno di vincere questo senso. È consapevole che tutte le cose umane sono storiche, soggette cioè al flusso del tempo, ma tanto più nettamente distingue il carattere assoluto delle verità centrali della Rivelazione.

Si può così concludere che la fede da praticarsi oggi

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è una fede non ingenua, ma riflessa, sottoposta ad un costante esame criticò. Una « fede contestata », che deve continuamente accertare il proprio fondamento, e disfarsi magari del vario e del bello per attenersi soltanto all'essenziale. Una fede che sempre di nuovo si rizza contro il dubbio. Intendiamo con ciò non un credere inautentico che passa sopra ai problemi, ma quella caratteristica forma di fede che il cardinal Newman ha definita quando disse che « credere » significa « poter sostenere il dubbio ».

Il secondo aspetto critico, più grave, è quel raffreddamento emotivo dell'uomo d'oggi che nessun attento osservatore vorrà negare. Esso interessa tutta la nostra attuale civiltà; e non è ancora dato di vedere quali saranno le sue conseguenze. In ogni caso è avvertibile dappertutto. Un'epoca dedita come la nostra alla conoscenza razionale, all'esame critico, alla precisione tecnica, diventa fredda. Anche le catastrofi, a cui è esposta, avvengono in modo che la regolazione interna della storia riduce la sensibilità dell'uomo, la sua capacità di subire esperienze vitali, a limiti sopportabili.

Ciò vale anche per il sentimento religioso. Le esperienze che lo nutrono sono rare e difficili. Nel lavoro educativo si fanno, è vero, sforzi per sviluppare e formare la capacità d'esperienza religiosa vitale. Ma i risultati lasciano ancora a desiderare. Tuttavia è da congetturare che gli elementi decisivi della fede non consisteranno nell'esperienza vitale, ma nella consapevolezza dello spirito e nell'impegno personale. La fede sarà, in misura elevata, fedeltà. La povertà psicologica, che essa ora denuncia in confronto alla religiosità di tempi passati, sarà compensata da una purezza e da una serietà più grandi.

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Infine una delle caratteristiche più inquietanti del nostro tempo è l'indebolimento della forza di resistenza della persona. Oggi ciò che decide sono per gran parte gli effetti culturali di massa: i gruppi sociali, i movimenti a ondata della moda e della propaganda, le forze di suggestione dei grandi numeri, ecc. Invece la capacità di stare per se stessi e per la propria causa, la capacità di sostenere la solitudine della propria convinzione, diminuisce. Non senza motivo si è parlato del nostro tempo come del « secolo del tradimento ».

Anche questo avrà i suoi effetti in campo religioso. Ciò renderà la fede più difficile, essa dovrà, per usare una parola di Kierkegaard, « esercitarsi » nella fedeltà al sì pronunciato. Perciò la fede sarà più ardua di quanto non sia mai stata, ma, proprio per questo, anche più nobile e più pura.

Gli scettici diranno che queste nostre prognosi sono illusorie. Diranno che la fede cristiana non ha più la forza per un'impresa quale noi supponiamo. Le conseguenze degli inconvenienti, errori, negligenze di cui s'è parlato, non potrebbero più essere rimediate, da mutamenti o da rinnovamenti, ma sarebbero sintomi d'un definitivo sfacelo. Del resto l'uomo d'oggi avrebbe ormai storicamente trasceso lo stadio della fede: non la vuole più ne potrebbe volerla.

Siffatte interpretazioni fanno a tutta prima impressione. In realtà si basano su una visione non obiettiva, nascono da una pregiudiziale, dalla tesi cioè che l'impulso cristiano — pensiero, etica, interpretazione della vita, atteggiamento psicologico — sia un fatto puramente storico sottoposto alle medesime condizioni d'ogni altro fatto. A una tale visione, che ordina gli avvenimenti del passato come i fatti del presente

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verso una « fine », se ne può contrapporre però un'altra. Anch'essa vede gli aspetti negativi e impara a vederli con sempre maggiore acutezza attraverso l'autocritica cristiana dappertutto ormai in atto. Ma essa è anche certa che la Rivelazione si realizza bensì nella storia, ma ha la sua origine nella sovranità di Dio. Così le prognosi di decadenza e di fine, che possono essere valide per altre correlazioni storiche, non sono applicabili ad essa.

La fede sa che gli errori passati hanno le loro conseguenze e che devono essere scontati. Gli spazi dell'incredulità tuttavia, che per questo si formano,, saranno, come si è detto, anche gli spazi di un nuovo annunzio e di un nuovo avanzamento. Sorge così l'altra prospettiva, quella positiva della fiducia. Essa ha fondamenti migliori della prima, la quale nel corso della storia è stata altre volte riproposta, ma -ogni volta contraddetta da una sempre rinnovata realtà.

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VII LIBERTÀ

Siamo riuniti * per commemorare gli uomini e le donne che sedici anni fa hanno subito un così duro destino per il loro popolo e il loro paese. Vogliamo dimostrare loro l'onore che loro spetta riflettendo sull'alto valore di cui furono solleciti, la libertà.

Pronunciando questa parola, noi intendiamo - designare, un diritto fondamentale dell'uomo che ha raggiunto la sua maturità. Non vogliamo qui esprimere quei magnanimi sentimenti che possono, scaturire da un'esperienza vissuta della libertà; intendiamo piuttosto parlare di essa, considerando con serena ponderazione come la vita umana è strutturata, come prospera o patisce danno.

Questo ci porta di conseguenza ad un esame impe gnativo di noi stessi e alla constatazione che la libertà non è ritenut-a un valore molto elevato nell'apprezzamento dell'attuale generazione. I partigiani dei regimi totalitari la definiscono un « pregiudizio borghese », un pretesto per evitare di compiere quel grande dono di sé che solo può condurre il popolo, tutto unito, alla sua più alta prova fattiva. Quelli pò;

che se ne professano assertori si trovano spesso dinanzi all'inquietante interrogativo, se la libertà sia una esigenza che scaturisce da quanto vi è di più profondo nella loro personalità..., se l'uomo d'oggi sappia veramente che cosa è libertà..., se questa parola, che

* Questa conferenza fu tenuta il 19 luglio 1960 all'« Akade-mie fur politische Bildung in Tutzing » aell'« Alte Rathaus » di Monaco, in commemorazione dei cospiratori per l'attentato a Hitler del 20 luglio 1944.

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dovrebbe essere una delle più .forti della nostra lingua, non vada in realtà perdendo il suo significato. Penso che a coloro che per la libertà hanno osato e sofferto un simile esame sia più gradito che non le espressioni di entusiasmo e gli elogi. Esso infatti conduce a rendersi conto della realtà, chi la realtà vuole veramente raggiungere.

Che cosa significa dunque essere libero? Quando sono libero?

Quando nella mia patria posso andare dove voglio, fare quello che con coscienza illuminata ritengo giusto, conformare la mia vita alle esigenze della mia personalità. Quando posso essere come sono e nessuno, ne superiore ne gruppo sociale ne singolo ne Stato, può legittimamente impedirmi di essere tale:

e questo perché non sono affatto una pura individualità biologica ma una persona umana padrona di se stessa e dotata di responsabilità e dignità proprie.

Ma subito sorge un'obiezione: ciò non vale incondizionatamente! Tu non puoi fare quello che ti piace se altri ne riportano danno;, tu non puoi ordinare la tua vita alla tua maniera, se ciò facendo turbi l'ordine della comunità. Perciò dobbiamo precisare: io sono libero quando posso fare senza impedimento quello che è conforme alla mia natura di uomo, finché con la mia azione non ledo l'uguale diritto dell'altro. Nei singoli casi sorgeranno talora questioni e difficoltà, ma il principio è sostanzialmente chiaro. Su questa costante e autentica applicazione riposa interamente l'esistenza stessa del mondo occidentale, la grandezza e la ricchezza di valori della nostra storia trimillena-ria. Si potrebbe esporre questa storia partendo dal rapporto che l'uomo occidentale è riuscito a stabilire con la libertà.

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La libertà non sì attua spontaneamente, ma deve essere voluta. Fondata nella natura dell'uomo, maturata attraverso la storia, garantita dall'ordinamento della comunità, essa è però anche compito e opera di ciascuno. Non esiste una libertà passiva; non nel senso dell'essere personale, perché essa è espressione dello spirito, ed esso si dimostra attraverso l'atto vivo; ma neppure nel senso dell'ordinamento esterno, perché anche la più libera costituzione, se non è vissuta e osservata, rovina.

Ma tralasciamo queste considerazioni generali e vediamo se noi raggiungiamo in realtà quei punti nei quali la libertà diventa veramente qualche cosa di reale. Perché, — permettetemi di ricordarlo ancora una volta, — esistono seri motivi per dubitare se l'uomo d'oggi voglia davvero essere libero, se, cioè, egli per libertà intenda qualche cosa di più che la pura possibilità di attendere ai propri affari e di abbandonarsi al proprio piacere senza esserne in alcun modo impedito. Perciò dobbiamo porre il problema d'essa già in modo tale da potere affrontare la dura serietà degli uomini e delle donne del 20 luglio 1944.

Il problema si pone dunque in questi termini: che avviene veramente quando un uomo, un uomo maggiorenne, una donna adulta vogliono veramente essere liberi?

Innanzi tutto quest'uomo esige il diritto di avere proprie convinzioni personali. Con ciò intendo dire la facoltà di pensare come gli sembra giusto sul senso della propria esistenza; di giudicare, secondo le esigenze di verità della propria coscienza, la vita e la morte, il lavoro e la proprietà, la famiglia e lo Stato, e così pure qualsiasi altro grande problema dell'esistenza. La facoltà di dire la propria idea e di vivere

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conformemente ad essa, entro i limiti che proteggono l'uguale diritto degli altri. E ancor di più: c'è libertà quando non solo il singolo può comportarsi in questo modo, ma anche la comunità stessa considera tale comportamento come giusto e bello e se lo attende da lui.

Ma per poter pretendere il rispetto della propria convinzione, per poter richiedere la facoltà di vivere conformemente ad essa, è necessario che tale convinzione esista realmente. ^Libertà non è il diritto alla mancanza di idee o alla indifferenza di fronte alle varie opinioni, essa si fonda su un rapporto autentico con la verità.

Si comprenda bene il mio pensiero. Non parlo di un determinato contenuto della convinzione, di una visione del mondo o di una concezione politica piuttosto di un'altra, ma della reale esistenza di quell'atteggiamento mentale "che si chiama « convinzione »;

e, precisando meglio, della coscienza che la verità esiste, di una volontà di trovarla e di un proposito serio di rimanerle fedeli una volta che si sia riconosciuta.

Può certamente accadere che per qualcuno, in un momento particolare della propria evoluzione spirituale, diventi discutibile ciò che fino allora era stato considerato vero. Può essere che ad un altro sembri necessario rifiutare ciò che i suoi genitori hanno ritenuto vero. Un terzo ignora forse assolutamente dove debba riporre l'ultimo significato dell'essere e rimane perplesso davanti agli enigmi dell'esistenza. Per poter però parlare in maniera attendibile della libertà, essi devono almeno sapere che cosa essa sia, sentire come assillante il problema del senso della vita. Devono preoccuparsi di questo; ne possono considerare più importante di questo qualsiasi cosa della vita

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privata di ogni giorno o qualsiasì cosa capace di eccitare l'opinione pubblica.

Soltanto tale serietà conferisce alla richiesta di libertà il peso personale, che fa della richiesta stessa qualche cosa di più che una semplice pretesa di seguire il capriccio del proprio pensiero o di poter ripetere quello che fu detto dal collega d'ufficio. Se manca questa serietà la richiesta diventa vuota. Allora, al posto della convinzione, con la forza di carattere che la sostiene, subentra la casualità delle opinioni del giorno, finché la mancanza di un atteggiamento inferiore assume una tale estensione che la violenza politica, la dottrina del partito e le prescrizioni dello Stato possono penetrare nel profondo e stabilire: tu devi pensare questo! Allora l'uomo è già reso schiavo, per bene che vadano i suoi affari e imponenti che siano le sue attuazioni sul piano scientifico e tecnico.

Poniamoci una ulteriore domanda, senza indugiare su concetti generali, ma attenendoci alla realtà:

quando sono libero?

Quando posso scegliere la professione che corrisponde alle mie esigenze naturali. La professione è il punto di intersezione tra l'esistenza individuale e quella collettiva; è il posto in cui il singolo si trova in rapporto con il tutto sociale e il tutto sociale vive dell'opera del singolo. Questo posto devo poterlo scegliere io stesso, nessuna istanza di nessun genere può altrimenti impormelo.

La stessa parola che si usa in tedesco per dire professione, cioè Beruf, manifesta di che si tratta. Beruf significa l'attività alla quale sono chiamato dalla mia natura (omettiamo la questione se tale chiamata venga ancora da più lontano). Naturalmente si danno in

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ciò gradazioni di diversa chiarezza e intensità. Fortunato colui che può dire: so di aver talento per questo; mi sento spinto a questo; questo e nient'al-tro deve essere il compito della mia vita. La propria chiamata può attenuarsi in un giudizio di questo genere: nell'ambito delle possibilità che mi sono date, questo corrisponde maggiormente alle mie attitudini. Fino ad essere formulata secondo il punto di vista di prima evidenza, ma molto reale: in questo modo posso mantenere me e la mia famiglia nella maniera più decorosa.

Libertà significa che io posso scegliere la mia attività secondo tali criteri, nella misura in cui la situazione data rende possibile una scelta. Ne consegue perciò che lo Stato deve fare tutto quanto sta in suo potere per favorire la formazione, allargare le possibilità di scelta e avvicinare quanto più possibile, con indicazioni e suggerimenti, la scelta stessa alle condizioni reali.

Simili richieste hanno però un senso soltanto se esiste una vera volontà di impegnarsi nella professione e non semplicemente la brama di guadagnare rapidamente del denaro, di raggiungere presto la sicurezza, di poter lavorare il meno possibile per i propri svaghi.

In altre parole: la libertà della professione e del lavoro presuppone la serietà dell'impegno professionale; presuppone che l'uomo maturo sappia che egli occupa, in rapporto, di stretta connessione col tutto sociale, un posto che non ha solo un significato per lui ma anche per tutti gli altri. Tale libertà è reale nella misura in cui chi la pretende sente la responsabilità della cosa e il gusto della buona prestazione.

Nella misura in cui questo rapporto vien meno, l'uomo si pone nelle condizioni che un regime totalitario

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gli tolga la libertà della scelta professionale e gli imponga un determinato lavoro. Prima muore la libertà intcriore di lavoro e di professione; poi, quando ciò è avvenuto, succede l'asservimento esterno.

Forse alcuni obietteranno: « Qui si fa della morale ». Lasciamo da parte la parola « morale », che può non piacere; diciamo invece: « etica ». Allora la risposta viene naturale: certamente, questo di cui parliamo è Vethos della libertà. E non soltanto perché obbliga la coscienza, ma anche perché questo solo rende possibile la libertà.

Per avvicinarci ancor più alla realtà: qui tocchiamo uno dei punti dove volere morale e crescita vitale coincidono, dove la diminuzione della responsabilità intacca le radici stesse della vita.

Ecco un altro di questi punti: libertà significa che l'uomo adulto può costruire la propria famiglia secondo la voce del suo cuore e il giudizio della sua coscienza. Basta ripensare ai dodici anni della violenza nazista per vedere in quale terribile modo questo diritto fondamentale possa venire effettivamente leso.

L'uomo deve scegliere la donna che gli è diventata cara; la donna l'uomo che ama e apprezza. Ne leggi razziali ne misure economiche possono immischiarsi in questo diritto. I figli devono appartenere in primo luogo ai genitori e solo in secondo luogo allo Stato;

per quanto riguarda la loro educazione devono decidere innanzi tutto i genitori e soltanto dopo, in accordo con questi, le pubbliche istanze. La casa deve essere riservata alla famiglia come ambiente della sua vita privata, finché nessun pericolo per l'ordine pubblico autorizza l'autorità a penetrarvi.

In una parola: libertà significa che l'uomo adulto ha la possibilità di costituire secondo la propria coscien-

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za quella cellula fondamentale di ogni comunità umana che si chiama famiglia; di sviluppare quella forma elementare di ogni civiltà che si chiama comunità domestica, nel modo che egli ritiene giusto, cioè senza la preoccupazione che lo Stato, il partito o qualche altro distrugga dal di fuori quello che egli in casa costruisce.

Però qui dobbiamo ancora renderci conto che la richiesta di questa libertà ha in sé un nocciolo di realtà solo se dietro di essa c'è qualche cosa di più di una pura avventura erotica o un ordinamento giuridico, cioè una decisione di persona a persona che è fondamento di fedeltà e origine di una comunità di vita;

se i genitori sanno che in ogni figlio c'è un destino umano che è stato loro affidato e si sforzano di dare a ciascuna delle loro creature quella formazione della coscienza e quell'orientamento sostanziale della vita su cui esse potranno in seguito costruire la loro esistenza. Tutto ciò deve essere realmente voluto con disciplina e sacrificio. Se questo non si verifica, la famiglia diventa quella labile entità che spesso è purtroppo. Che cosa potrebbe allora significare il diritto alla propria libertà? La facoltà di fare tutto ciò che a uno garba?

Si crea allora una situazione che richiede per forza l'intervento della pubblica autorità. Si continua a parlare di totalitarismo incombente, ma nessun evento si compie solo unilateralmente. La violazione totalitaria del matrimonio è possibile soltanto se il soggetto vivente della libertà, l'uomo adulto, da lungo tempo ha perduto la volontà di costituire una comunità fondata sulla mutua fedeltà, di mantenere l'unità della famiglia, di dare alla sua casa una struttura viva.

Non ha alcun senso pretendere la libertà « da » qualche realtà a noi esterna, se prima non si è compresa

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e voluta la libertà « per » una realtà che ci tocca intimamente, cioè per i grandi valori dell'esistenza personale. Non ha alcun senso pretendere la libertà di scegliere l'amore ed esigere l'intangibilità della casa, se uomo e donna non conoscono prima la responsabilità di questa scelta e della fedeltà alla comunità matrimoniale e non sono disposti a soddisfarne gli obblighi.

Ogni diritto poggia su un valore nel quale è fondato e che esso protegge. Se questo valore (nel nostro caso la libertà di avere una propria convinzione, di scegliere la propria professione e di formare come meglio si crede una propria famiglia) non è più sentito e voluto, allora cade il diritto corrispettivo.

I diritti che sono fondati nella natura personale dell'uomo, e perciò significano non soltanto diritto ma anche dovere, permangono naturalmente anche se il valore da essi difeso non è più vissuto dal singolo.

Il diritto alla libertà è uno di questi. Il singolo non solo può ma anche deve farlo valere, e non perché è un individuo molto dotato, o ha un'alta posizione sociale, o possiede un temperamento attivo, ma perché è uomo. Questo diritto non si estingue, se egli diventa indifferente dinanzi al contenuto della libertà; ma rimane come dovere imposto alla sua coscienza e rende testimonianza contro di lui. La pretesa del rispetto di tale diritto perde tuttavia la dignità di una evidenza personale come pure la forza d'urto di una affermazione umana, appena dietro tale richiesta non c'è più la serietà dell'esistenza.

Chi parla di valori che in lui non sono più vivi finisce col distruggere anche quanto gli rimane di essi come residuo della sua esperienza. Bisogna stare perciò attenti quando uno vuoi parlare di libertà.

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C'è un modo di farlo che addirittura la distrugge, perché ne falsifica il significato; così ad esempio quando la volontà totalitaria di potere ne inverte il senso con la menzogna. Non vogliamo neppure dimenticare che questa menzogna trova facile accesso nell'uomo, non appena l'uomo lascia che la sua volontà di libertà perda di serietà. Allora egli si getta in braccio alla dittatura, che lo alleggerisce da ogni responsabilità.

C'è però anche un altro modo di parlare della libertà:

quello di farlo con frasi poco aderenti alla realtà, per finalità retoriche, o per propaganda politica. Anche questo modo distrugge la libertà, perché dietro a quelle frasi non ci sta più nulla. Le parole hanno perduto o.gni significato e ogni serietà e possono perciò essere falsate da qualsiasi ingannevole forma. Chi non vuole seriamente la libertà, deve tacere su di essa. È l'ultimo servizio che egli può renderle.

Permettetemi di fare ancora un passo avanti: che cosa dobbiamo dire in questo contesto di quella libertà, l'« accademica », che l'Università (ricercatori, docenti e studenti) suole pretendere? Che cosa significa essa propriamente?

Tanto le sue forme istituzionali quanto le sue esterne manifestazioni hanno subito modifiche nel corso dei secoli, ma la radice è rimasta identica: essa si trova nel diritto e nel dovere di ricercare la verità scientificamente, cioè con rigore e con la proprietà di metodo di volta in volta adeguata. Diritto e dovere si fondano su una gerarchla di valori, al cui vertice sta appunto la verità: la verità per se stessa e, parimenti, per l'importanza che essa ha per la vita e l'operare umano.

Libertà dunque significa poter ricercare questa verità;

e a quale mostruosità si arriva quando ciò non è più

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possibile ce l'hanno mostrato i dodici anni di dittatura nazista.

Libertà significa inoltre poter dire questa verità; e ciò partendo direttamente dalla realtà, senza preoccupazioni, ma allo stesso tempo sotto il suo rigoroso dettato.

Quanto tutto questo sia meraviglioso, lo abbiamo provato nei primi semestri accademici dopo la fine della guerra. Ricordo ancora molto come allora i professori a Tubinga frequentassero reciprocamente le lezioni gli uni degli altri per sentire come procedeva il discorso quando uno parlava prendendo come unico punto di partenza la realtà oggettiva.

Questo per quanto riguarda la ricerca e l'insegnamento; ma altrettanto vale per gli studenti. Dal loro punto di vista, libertà accademica significa che per la frequenza all'Università non dovrebbero essere poste altre condizioni se non quelle che, come tali, pone la cosa stessa. Cioè che uno possa lavorare nel ramo che egli sceglie; ascoltare il docente di cui ha fiducia;

crescere nella scienza mantenendo quell'atteggiamento che è determinato dalle esigenze della ricerca della verità, senza essere costretto da finalità esterne ad esse contrastanti.

Da tutto ciò nasce un'atmosfera che è possibile soltanto a condizione che venga riconosciuta questa priorità della verità scientifica; libertà da ogni intervento esterno, per essere tanto più rigorosamente vincolati dall'interno.

Questa atmosfera svanisce, se uno Stato totalitario prescrive alla ricerca i suoi oggetti o addirittura i suoi risultati, impone agli studiosi il ramo a cui devono applicarsi e ne sorveglia il lavoro, sottrae con pretese politiche, militari, economiche tempo ed ener-

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gie. Ciò è evidente; ma questa atmosfera svanisce anche se, pur rimanendo esternamente le possibilità di decisione e di movimento, il nucleo spirituale si dissolve. L'Università e il tipo di vita che in essa si realizza si fondano sul principio della ricerca e della conoscenza, dell'insegnamento e dell'apprendimento. Appena la pienezza dei valori e la forza obbligante della pura verità non vengono più esperite, tutto si trasforma in una istruzione professionale che permette l'acquisizione di un diploma: cosa certo importante, ma di livello inferiore a ciò che era prima.

Ci imbattiamo di nuovo nello stesso rapporto fondamentale: anche in questo caso la libertà vive di una esperienza di valori che la sorregge, della rigorosità dell'obbligo che da questi consegue e della serietà con cui tale obbligo viene rispettato.

Le forme nelle quali psicologicamente può avere luogo tale esperienza possono essere diverse. Prima degli ultimi rivolgimenti che hanno fatto vacillare il mondo, tutto era più facile e naturale. La situazione economica era tranquilla e sicura; i grandi numeri non avevano fatto ancora sentire il loro effetto che oggi rende tutto più difficile. Certamente non è falso elogio il dire che l'Università antica riteneva che il lavoro dovesse essere determinato più dalla volontà di conoscere che dalla prospettiva dell'avanzamento professionale. Oggi è in corso una profonda trasformazione economica, sociale, spirituale che non può essere impedita. Se però la serietà o meglio la passione del conoscere non ritorna a guidare il lavoro nell'Università, la libertà accademica perde ogni significato e al suo posto subentrano il regolamento imposto dall'esterno e la tutela. Giacché quale scopo possono avere il mantenimento della facoltà di scelta personale e un movimento spirituale spontaneo, se in definitiva

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l'elemento decisivo è l'utile? Questo viene infatti garantito nel modo migliore da una pianificazione quanto più è -possibile completa.

Quando si parla di libertà, si pensa normalmente alla 'libertà politica, cioè, nella nostra situazione storica, alta sua forma democratica. Ma che cos'è la democrazia nella sua essenza, la democrazia genuina, non quella della propaganda?

È la forma di ordinamento politico più esigente e per ciò stesso più esposta ai pericoli di ogni altra, cioè quella che risulta continuamente dal libero gioco di forze tra persone aventi uguali diritti. Il compito di costruirla è paurosamente grande, perché non sono molti quelli che ne colgono veramente la natura.

Democrazia non è uno stato di cose, in cui ogni opinione può pretendere di imporsi e ogni interesse può considerarsi come affare di Stato, ma significa in primo luogo e soprattutto che ciascuno sa di essere responsabile dei destini dello Stato e di non poter rinunciare a questa responsabilità, ma di doverla costantemente esercitare: ed egli la esercita effettivamente di continuo, voglia o non voglia, col suo modo di comportarsi di fronte al bene e di fronte al male. Detto più semplicemente: lo Stato è quello che il singolo, ogni singolo in particolare lo fa. Ciò implica una grande serietà di comportamento, perché ciascuno sa certo anche — o almeno lo dovrebbe sapere — quello che può e quello che non può. Su questa serietà si fonda la libertà democratica.

Abbiamo visto che la democrazia è quell'ordinamento politico che nasce dalla responsabilità dei singoli. Ora dobbiamo determinare ulteriormente questa affermazione: dei singoli che hanno tra di loro relazioni di reciproco rispetto. Ancor più: ciascuno dei quali

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può fidarsi degli altri, perché sa che tutti vogliono il bene comune; lo vogliono effettivamente e non soltanto dicono di volerlo. La democrazia è tanto più reale quanto più questo comportamento è operante.

Parecchi uomini d'oggi si sono formati ancora al tempo dell'individualismo. Hanno sperimentato quel sentimento profondo per cui il singolo si riteneva « metro » dell'esistenza: pensiamo solo alla violenta formula di Max Stirner, per il quale la vera realtà era « l'individuo e la sua proprietà » (1845). Perciò fu per essi una vera svolta decisiva quando riconobbero:

io non sono solo in questo mondo; c'è anche l'altro. Ed egli esiste con diritto uguale al mio, cosicché l'esistenza politica si fonda sul mio accordo con lui. Tale accordo non esige l'uguaglianza delle opinioni, perché noi possiamo avere diversi punti di vista, ma la uguaglianza delle istanze fondamentali: l'onore e il bene comune.

E ancora non si tratta soltanto di questo singolo che mi sta vicino, ma dei molti; si tratta degli innumerevoli gruppi, strati, tendenze;, si tratta, ancor più, del tutto: popolo, paese, cultura nella sua varietà e insieme unità. La democrazia si fonda su una coscienza che si diffonde in questo tutto, non per dominarlo o per esserne dominata (questa sarebbe la falsa forma di democrazia propria del totalitarismo), ma per penetrarlo, per sentire la sua vita, per costruire il suo ordinamento di volta in volta, di incontro in incontro, come continua risultante di molte energie individuali. Si parla spesso di democrazia come se fosse una facile arte, un semplice calcolo di maggioranze. In verità la vita democratica è difficile, perché non è mai sicura. Le manca ciò che sosteneva le strutture dello Stato conservatore: il radicamento in tradizioni ormai diventate sacre, in comportamenti che emergevano dal-

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le profondità dell'inconscio. Democrazia è equilibrio, ma in continuo divenire; perciò richiede vigilanza, disinteresse e disciplina.

Da tutto questo trae incremento la libertà. Senza questo essa è disordine, che soltanto la tattica e la polizia impediscono d'irrompere nel caos o di capovolgersi in dittatura.

Ci sarebbe ancor molto da dire sulla libertà perché essa è un comportamento di tutto l'uomo e ha riferimento con tutto ciò che costituisce il suo essere. Ma è necessario limitare il campo delle nostre considerazioni; perciò parleremo ancora soltanto della richiesta di una forma di libertà, riguardo alla quale regna una grande confusione di idee e una prassi fattasi selvaggia e con l'andar del tempo pericolosa: la libertà d'informazione.

Tale forma di libertà è strettamente connessa con ì'ethos della democrazia e, più precisamente, con un fattore essenziale per la democrazia stessa, cioè il pubblico e l'opinione pubblica. Se la forma democratica dello Stato si basa sulla responsabilità e sulla cooperazione dei singoli, questi debbono allora avere la possibilità di informarsi di ciò che avviene nella vita sociale, politica, culturale della comunità, e di dare a loro volta quelle informazioni che ritengono necessario. Appena questa possibilità viene limitata, il singolo che è conscio della propria responsabilità si sente minacciato nella sua libertà.

Esiste però una mutua relazione tra la sfera di dominio pubblico con le sue pretese, da una parte, e quella di dominio privato con le sue esigenze, dall'altra. Le pretese della prima, che vengono soddisfatte mediante un sistema assai diffuso di osservazione e di informazione, crescono continuamente. Si forma il

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sentimento che il pubblico abbia il diritto di venire a conoscere tutto e che quindi possa penetrare in ogni campo, anche il più delicato, protetto finora dal rispetto, dalla delicatezza e dal pudore. La pretesa di informazione diventa sempre più scopertamente una pretesa di sensazione: quanto più il fatto è di carattere privato tanto più urgente è il desiderio di cono-scerlo. . .

Su questa strada la pubblicità non solo trascende i suoi limiti, ma sta degenerando in se stessa. La sfera di dominio pubblico e quella di dominio privato non sono affatto indipendenti tra loro. La sfera pubblica è un campo d'incontro tra uomini, ciascuno dei quali vive anche in una sfera privata. Se questa viene danneggiata, non aumenta perciò stesso la capacità di tale campo di adempiere alla sua funzione. Piuttosto esso diventa qualche cosa di caotico, aperto a tutti gli impulsi della brutalità e della demagogia. La sfera di dominio pubblico come elemento indispensabile della vita democratica ha bisogno della sfera di dominio privato 'non solo per il suo decoro, ma anche per la sua efficienza nel vero senso del termine: come pure, reciprocamente, la sfera privata oggi non può essere in nessun modo un incapsulamento individualistico, ma deve stare in contatto con la sfera pubblica. Il significato di libertà della pubblicità si fonda sull'autonomia di giudizio e sulla sicurezza della decisione con cui prende posizione: qualità che allignano sul terreno indipendente e rispettato della sfera di dominio privata.

I nuovi mezzi d'informazione non hanno generalmente ancora trovato un loro ethos, anzi procedono piuttosto in modo sfrenato, danneggiando l'organismo della società democratica. È necessario che essi sviluppino una sensibilità capace di avvertire quando una

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informazione è non soltanto giusta, ma anche ragionevole e conveniente: una sensibilità dunque per la sfera opposta a quella pubblica. Rispettare la sfera privata non significa distruggere la libertà d'informazione, ma porre ad essa i limiti salutari.

Il pubblico ha diritto di sapere quali delitti siano avvenuti per poter formulare in tal modo un giudizio sulla situazione morale in genere. Però è cosa del tutto diversa, se l'informazione è fatta con tale larghezza e maniera che le notizie agiscono come stimolo alla criminalità. Che il foto-reporter offra la visione dei fatti del giorno, è giusto; se egli però, riproducendo una disgrazia, fotografa una donna che piange sulla morte di suo marito, allora tanto il fotografo quanto chi osserva la fotografia superano i limiti del conveniente. Certamente si possono riprodurre avvenimenti religiosi;, ma è indelicato, anzi irriverente, fotografare uomini che stanno pregando, in modo tale che si possa penetrare nel loro intimo. Non occorre poi parlare di quei servizi (sempre più numerosi), che non mirano affatto a soddisfare le vere esigenze delle comunità, ma del tutto semplicemente la ricerca di sensazione sessuale.

Se la libertà d'informazione pretende di continuare a svilupparsi in questo senso, essa non può più essere presa sul serio. Il genere di protesta che si leva appena qualcuno accenna ad opporsi a simile abbrutimento, mostra di quale specie sono i motivi in gioco.

Qualcuno avrà forse avuto l'impressione che queste mie considerazioni siano « accademiche » e che, in un momento in cui urgono i più attuali problemi, riguardino inutili distinzioni teoriche. Questo però sarebbe fraintendere, perché il discorso riguarda pro-

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prio cose che debbono essere comprese e volute, se l'attenzione a'U'« attualità », comunque si possa chiamare, non deve impedire di cogliere il nucleo centrale di quegli stessi problemi.

Il problema della libertà in qualsiasi forma appaia, cioè come libertà di convinzione e della sua attuazione nella società, di scelta della professione e del lavoro, della famiglia, della casa e della sfera privata, o come libertà della esistenza personale dell'uomo nella democrazia e libertà dell'opinione pubblica, riceve sempre il suo vero significato soltanto dai fondamenti di ciascuna di queste esigenze. La volontà di libertà, la forza di raggiungerla e di affermarla hanno naturalmente molteplici radici: l'istinto naturale di indipendenza, il coraggio, la posizione sociale privilegiata, la tradizione storica e altro ancora. Questi elementi però non sono determinanti, e in ogni caso non a lungo andare. Da essi deriva unicamente un non so che di psicologico che resta pur sempre relativo. Il comportamento di chi vuole veramente la libertà si fonda su qualche cosa di incondizionato e importa la coscienza sia di diritti sia di doveri. Di questo abbiamo tentato di parlare esponendo le nostre considerazioni.

Credo che se gli uomini e le donne, di cui oggi celebriamo la commemorazione, fossero stati uditori qui, avrebbero dato il loro assenso. Infatti l'orientamento spirituale, da cui scaturì la loro azione, non era quello di rivoluzionari e sovvertitori di costituzioni, ma la serietà di persone che in ore difficili avevano preso seriamente contatto con le radici stesse dell'esistenza.

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Vili

PLURALITÀ E DECISIONE Avvertenza.

Mi è stato richiesto di dire che cosa s'aspetta il teologo dalla università popolare. Il termine mi sollecita a fare una precisazione. Io devo parlare come teologo; ciò vuoi dire come un uomo che ha da esporre la Rivelazione biblica e da rispondere sulla base di essa ai problemi dell'esistenza. Ora non posso naturalmente avere la pretesa di parlare anche in nome dei teologi protestanti ed ebrei. Tuttavia il mio desiderio è quello di farlo in modo che essi possano concordare con quanto dirò.

Anche il pensatore che non pensa in categorie bibli-che dovrebbe reputare degno d'essere ascoltato ciò che dice il teologo, meglio ancora dovrebbe poter riguardarlo come giusto. Partirò quindi dalla realtà umana-storica; in tal modo ciascun uditore sarà in grado di sottoporlo ad esame e di farsene un giudizio.

Infine, quando il teologo deve dire ciò ch'egli si attende dall'università popolare, ciò significa due cose: ciò che egli spera da essa ma anche ciò che per essa teme. Deve parlare delle possibilità positive che vede in essa, ma anche degli effetti negativi che deriverebbero da una erronea concezione dei suoi compiti. Le due cose sono strettamente collegato;

prego perciò di voler comprendere la seconda sulla base della prima.

Come si vede, il mio compito non è semplice. Dal problema teoretico stesso, come pure dalla situazione

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attuale insorgono difficoltà non esigue. Spero tuttavia di poter dire qualcosa di utile; e non ho certo bisogno di sottolineare che non sarà affatto qualcosa di esauriente ne di definitivo, ma semplicemente un apporto a problemi che molti sentono.

I. -L'idea dell'università popolare ieri.

In vista d'una comprensione della situazione attuale si farà bene a partire dalla questione di che cosa l'università popolare si proponesse di ottenere alle origini e come in seguito si sia sviluppata.

Consentitemi di iniziare con un ricordo. Dopo che il ministero della cultura nazionalsocialista abolì la mia cattedra alla università di Berlino, io vissi nel villaggio svevo di Mooshausen, non lungi da Mem-mingen. Là nell'autunno del 1945, alla fine della guerra, smontò da una piuttosto malconcia motocicletta un giovane signore e chiese di parlarmi. Era Otto Aicher, a molti noto a causa dell'HochschuIe fur Gestaltung di Ulma, che egli aveva richiamata in vita con un gruppo di amici e che ha assunto poi uno sviluppo così fecondo. Dopo breve presentazione dichiarò: « Signor professore, bisogna fare qualcosa! ». Sul « che » non occorse discutere; sul « che cosa » in fondo, neppure; in questione era soltanto il « come ». Cominciammo con conferenze varie, da cui poi, sostenuta dal dinamismo del sindaco di Ulma d'allora Scholl, fiorì quella università popolare. Ciò che vi succedeva si chiarisce nel modo migliore se dico che la mia prima conferenza tenuta nella chiesa di Ulma dedicata a Martin Luterò aveva per tema:

La verità. Per illuminare lo stato d'animo che allora dominava posso aggiungere che, quando in quell'autunno fui chiamato all'università di Tubinga, capi-

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tava che qualche professore andasse ad ascoltare qualche suo collega per sentire che suono avesse un discorso aperto, responsabile e fondato sulla realtà, dopo tanta menzogna e imbarbarimento spirituale. Questo era dunque quello che « bisognava fare »:

bisognava creare una sede dove si dicesse e si ascoltasse la verità. L'università popolare di Ulma è nata da questo atteggiamento inferiore, ed è divenuta un bell'esempio di quanto il coraggio spirituale e una seria volontà di lavoro può realizzare.

10 non posso entrare a parlare nei particolari della evoluzione storica dell'università popolare, non avrei nulla di nuovo da dirvi. Ciò che la sostenne, fu la realtà di fatto che nell'età moderna la scienza è divenuta il fondamento della coscienza del mondo e la base del rapporto pratico con esso, ossia della tecnica. Un secondo elemento era la volontà democratica, per la quale qualcosa di così importante non doveva rimanere il privilegio d'un solo strato della società, ma tutti vi dovevano avere parte: sia all'arricchimento culturale che la scienza e la tecnica donano, sia alla potenza che comunicano.

Quanto poi alla forma: in cui doveva realizzarsi questa partecipazione, c'era davanti .ai nostri occhi già

11 modello — come Io stesso nome già lo dice — appunto •l'« università »; giacché si trattava appunto di una aspirazione alla formazione culturale che, per distinzione dalla scuola specializzata, doveva volgersi fondamentalmente alla totalità dello scibile. D'altra parte, doveva esserci pure qualcosa di adattato, di mediativo, perché vi si dovevano presupporre non le condizioni culturali del lavoro universitario, ma quelle della generalità, dunque a un di presso quello che stanno fra la scuola media e l'università vera

e propria.

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A questo punto si rivelò subito ufi perìcolo a voi ben noto. Tutti voi avete da lottare contro di esso. La quantità dello scibile e dell'interessante è grande;

sempre nuovi settori si schiudono; all'interno dei singoli settori un problema ne suscita un altro; e così lo sforzo di chi insegna e di chi impara assume troppo facilmente un carattere di multiformità, anzi di caoticità. Insorse il problema in che modo tutta questa molteplicità varia si debba ridurre all'ordine;

e questa è appunto una delle questioni radicali dell'università moderna. Il tentativo di raggiungere quest'ordine per derivazione dalle varie materie costituisce per gran parte la storia interna dell'università popolare. Senza dubbio questa storia interna mostra pure che a partire unicamente dai materiali scientifici non si trova un punto di vista autenticamente ordinatore, giacché ogni elemento conoscibile porta con sé l'attrattiva d'essere conosciuto. Ed anche questo è in analogia con le nostre università, in cui il carattere dell'universale perde sempre più quello di una totalità formata per assumere quello della quan-titatività.

Apparve, così, chiaro che il punto di vista ordinatore doveva essere trovato nell'uomo. Si trattava d'un sapere che doveva servire a formare la vita. Tale punto di vista raggiunse così la sua formulazione quando si disse che, pur con tutta l'obbligazione scientifica imposta dalla oggettività delle cose, quello che importava in ultima analisi non era la scienza diluita, ma che l'uditore — e prima di lui l'insegnante — intendesse se stesso nel proprio rapporto verso l'ora storica presente, verso la società e la cultura che lo circondava, infine verso il mondo m genere. Fu una buona ed illuminante determinazione.

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Ma con dò noi stiamo di nuovo davanti a un problema, e così essenziale e importante che c'è rischio che l'attività d'una vera università popolare minacci di naufragare e di diventare semplicemente una tradizione di scienza. Nel compito sopra descritto si tratta infatti non solo d'una questione di selezione e di esposizione metodicamente corretta, ma d'una questione d'interpretazione e di valutazione.

In ambedue i casi si tratta insomma della verità. Qui, sia uditori sia insegnanti devono situarsi in quell'accordo che si fonda sulla comune volontà deU? verità. Ora « verità » qui non significa soltanto, come nelle scienze specializzate, obbligazione che viene dall'oggetto, dalla cosa — sia che si tratti di oggetti della natura o della storia, sia della cultura — ma significa anche la giustezza dell'interpretazione della esistenza; l'intelligenza dell'uomo reale; il giusto rapporto fra l'uomo e la realtà oggettivamente esplorata. E così noi ci troviamo davanti a quel problema che siamo soliti designare con il termine di Welfan-schauung.

Il termine è problematico. Chi volesse raccontare la storia di questa problematicità dovrebbe raccontare quattro secoli di storia dello spirito. Una storia che coincide quasi con quel processo in cui la fede nella rivelazione biblica e l'interpretazione dell'esistenza sulla base di essa non furono più sentite come universalmente valide e in luogo d'una certezza divinamente fondata subentrarono le visioni soggettive del mondo; Le quali visioni poi divennero sempre più indeterminate: si smarrì sempre più quello che è un vero carattere impegnativo di verità, decisivo per l'esistenza.

Ma che cosa significa questo per la nostra questione?

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II. - La pluralità.

Se colui che, venendo dal caos odierno delle posizioni spirituali, guarda al Medioevo — supposto però che egli non rechi con sé pregiudizi cristalizzati — ne riceve soprattutto un'impressione: quella d'una grande unità. Il mondo spirituale vi è definito dalla Rivelazione. Un ordine che si esprime nella Chiesa che plasma tutti i settori della vita culturale. Nel campo politico operano potenti concezioni unitarie, soprattutto quella del regno o dell'impero. Uno stile artistico unitario pur nelle sue varie fasi storielle dona il sentimento d'un cosmo ben delineato e colmo in ogni suo punto di significazione simbolica, che regge e guida i singoli individui.

Certo, se l'osservatore giunge a conoscere più da vicino quest'epoca abbracciamo quasi un millennio, vede anche la molteplicità che ovunque s'afferma: le caratteristiche delle varie popolazioni, le tensioni sociali, gli influssi dell'Oriente. Egli vede le numerose correnti spirituali, come pure i molteplici impulsi religiosi, morali, politici, e via dicendo. Ma resta sempre dominante l'impressione d'una grande unità che impronta non solo esteriormente ma anche inte-riormente tutte le varietà, a tal punto che queste varietà costituiscono proprio gli elementi costruttivi d'una totalità certo spesso pericolante, ma di continuo riaffermantesi. Compagini quali le cattedrali, le somme scolastiche, la struttura del cosmo della Divina Commedia, il ciclo temporale della Legenda aurea sono documenti impressionanti di quella coscienza di totalità.

Nel Rinascimento questa unità comincia a sgretolarsi. Da non dimenticare che il Rinascimento inizia già

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nel XIV secolo, mentre il Medioevo da parte sua continua ancora a lungo. Le distinzioni dunque si accentuano. Politicamente parlando, sono diversità razziali e d'altro genere che portano alla formazione degli Stati nazionali. Sociologicamente è il fiorire di una borghesia cittadina che spezza la gerarchla dell'Impero, fino allora dominante. Spiritualmente è la scienza, in quanto lo scienziato acquista coscienza del carattere oggettivo delle cose ed esige metodi critici corrispondenti di volta in volta alla sua ricerca. Religiosamente sono le divergenze quanto all'inter-pretazione della Rivelazione cristiana e le fratture della loro espressione ecclesiale.

Nell'atteggiamento personale dell'uomo si afferma il sentimento atto a cogliere le diversità della vita individuale, il quale fonda la pretesa di una libertà personale di movimento. Si sviluppa quel criterio che noi designiamo come autonomia spirituale-personale. Significa che le normatività oggettive del pensiero, del sentimento, dell'azione lentamente retrocedono e che s'impone un'esigenza di prese di posizione individuali rispetto al mondo e alla propria attività. Il criterio d'un vincolo oggettivo viene lentamente sostituito con quello dell'autenticità personale; quello d'una verità universalmente valida con quello della propria convinzione, e così via. Ciò vuoi dire: al posto d'una unità gerarchicamente costituita subentra la pluralità.

I valori che qui si scoprono, i modelli della perfezione umana che vi si configurano, le esperienze che vi si compiono e le passioni che le reggono si sintetizzano nei significati della parola « libertà ».

Le radici, da cui tutto ciò si sviluppa, sono diverse. Primo, il senso rinascimentale del pregio di ciò che

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si chiama « personalità », specie della grande personalità geniale; il senso delle ricche possibilità della vita e dell'attività umana che vi si rinvengono. D'ora in poi libertà significa che tali possibilità possono realizzarsi senza ostacoli. Secondo è il carattere « categoriale » che la persona, il suo essere e agire, ora portano, ossia la distinzione normativa che corre fra la « persona » da una parte e l'energia di natura e l'individualità biofisica dall'altra. Libertà significa che questo carattere riceva spazio; che la persona non venga mai costretta, ne ridotta a mezzo per un fine, ma che venga rispettata nella sua dignità e responsabilità. Un terzo elemento non ancora abbastanza valutato è di natura religiosa. Deriva dal concetto della libertà cristiana, il quale afferma che l'uomo creato da Dio è la sua immagine ed attinge di qui la sua propria dignità; che egli sta con Dio in un rapporto che lo congiunge a Lui oltre ogni altro rapporto naturale immediato;, che l'uomo redento è liberato dalla schiavitù del male. Il carattere religioso di questa concezione soggiace in seguito indubbiamente a una sempre progressiva attenuazione e secolarizzazione, quali si esprimono, per esempio, nelle commistioni fra il concetto della grandezza cristiana, della santità, e quello della grandezza naturale, della genialità.

Tutto ciò — e dell'altro ancora — si fonde con le. istanze culturali e politiche di cui si è parlato, e crea l'idea di libertà che pervade efficacemente tutta .l'età moderna.

Il processo avanza con impeto crescente, come sappiamo. Raggiunge il suo primo vertice nel «liberalismo »: già il termine lo manifesta. S'intende con esso non tanto, e in senso stretto, una ideologia politica, quanto un atteggiamento umano-culturale d'ordine generale: quello precisamente che riconosce valore

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veramente vincolante unicamente a quanto può derivare da una verità stabilita con metodo scientifico o da una necessità sociale determinante. Invece tutto ciò che si chiama interpretazione dell'esistenza — e dunque la comprensione delle norme etiche, l'interesse a ciò che si verifica nell'incontro fra persone umane, la definizione dei significati della storia, della religione, infine in genere dell'esistenza — viene riguardato dal liberalismo come una questione della esperienza vissuta e del giudizio personali. Il criterio di misura della sua validità è allora l'autenticità dell'atteggiamento spirituale inferiore, l'intensità dell'esperienza in questione, la convinzione con cui sono assunte le prese di posizione.

Nasce di qui una varietà nelle visioni del mondo, la quale, come non potrebbe essere diversamente, esce dall'intimità verso le sfere della vita esterna e vi genera tutta una molteplicità di forme culturali, sociali, politiche. Fin dove arriva l'« interpretazione », la determinazione di significato — e arriva assai lontano — ora la struttura della vita non è più unitaria, ma pluralistica.

Tuttavia i diversi individui e gruppi vivono entro lo stesso spazio, entro gli stessi contesti culturali. Si richiede perciò un ordine il quale consenta non solo un diritto di vita alle varie tensioni discendenti da tale pluralismo, ma le faccia convergere in un rapporto il più possibile fecondo nella sua varietà. Ciò ha luogo per mezzo del principio democratico.

Esso afferma: l'esistenza si fonda su una pluralità di persone, sulla varietà delle loro concezioni, dei loro impulsi sociali e culturali. Questa molteplicità è giustificata e può dimostrare il proprio diritto per mezzo d'una condotta di vita e d'una prestazione di lavoro

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autodeterminante. Perciò una unità può realizzarsi sempre unicamente per mezzo d'un lavoro d'insieme altrettanto libero. Perciò ognuno deve riconoscere l'altro, consentirgli spazio, rispettare la sua convinzione in quanto tale, anche quando non la condivide, ed essere disposto ad entrare, ovunque è possibile, in cooperazione con lui.

Democratica è anche la fiducia che su tale base sia possibile una unità, è vero, sempre minacciata, ma anche sempre ricreata; come pure un ethos poggian-te su una esperienza e una saggezza conquistate in comune. Ne consegue una educazione all'autodisciplina, alla comprensione, al libero lavoro d'insieme;

tutto ciò porta verso un modello complessivo di valido umanesimo, di cui propriamente si dovrebbe parlare assai più di quanto non si faccia ancora.

III. - Crisi e rovesciamento.

È chiaro che da una simile situazione si sviluppano tensioni, anzi contrasti numerosi. La forma di vita •liberale-democratica potrebbe apparire dotata di senso e realizzabile finché nella pluralità ancora vivono, provenienti dal passato, concezioni sufficientemente comuni del giusto, dell'obbligante, del valido; motivi sufficientemente efficaci, capaci di far convergere i molti. La pluralità poggerebbe su un sottofondo non ulteriormente esplicato, in parte perfino inconscio, ma storicamente efficace e potrebbe così operare come principio fecondatore.

Tutto ciò si farebbe problematico quando il processo della individualizzazione raggiungesse gli strati fondamentali della personalità. Questo stadio trovò, a livello teoretico-filosofico, la sua espressione nella filosofia vitalistica (Lebensphilosophie). S'intende con

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questo nome una mentalità che vede nella « vita » il valore supremo, la vita la cui espansione e sviluppo sta nel sentire, pensare, agire, creare. Per essa i valori della verità, del bene, del giusto, del bello sono forme previe e irradiazioni della realtà autentica, della vita. Tutti i valori in ordine ad essa si relati vizzano. Un pronunciamento filosofico è vero, un modo di agire è moralmente buono, un'opera d'arte è bella, un ordine sociale è giusto, se e in quanto essi rendono la vita, la personalità vivente, più ricca, forte, libera. Ma dal momento che la vita è ogni volta la vita del singolo o del gruppo, ed ognuno ha il suo proprio carattere, qui non esiste più una norma oggettiva. Esistono probabilità, saggezze, contributi: in definitiva, ognuno sta per sé e decide per sé. Ciò considerato, chiunque sia adulto pretende per sé una libertà illimitata e sente come illegittima qualsiasi norma che miri ad imporsi a lui con la pretesa di validità oggettiva.

La situazione a questo punto diviene critica. Anzitutto perché le prese di posizione sulle quali si fonda la comprensione dell'esistenza devono contenere una decisione intcriore, una autovincolazione di giudizio e di coscienza morale, se devono poter realmente reggere un'esistenza personale. Ma a tanto non arriva più tale soggettività. Una convinzione può rapportarsi soltanto alla verità e alla validità. Ciò che quella soggettività può produrre è soltanto una opinione, spesso nient'altro che il sentimento di qualcosa d'interessante. Così la base spirituale dell'esistenza va perduta. Vi si aggiunge una seconda cosa. Le convinzioni circa il senso dell'esistenza, i giudizi al riguardo di ciò che è buono, giusto, di ciò che è, in una parola, valido, non costituiscono affatto come uno spazio a sé, isolato nella vita dell'uomo,

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il quale quanto al resto, accanto a quelle, realizzerebbe le proprie relazioni verso gli altri uomini, i vari ordini della vita nella famiglia, nella professione, nello Stato, eccetera, ma esse sono per buona parte contenuto appunto di questa vita che egli vive con gli altri. Di continuo egli porta ciò che ritiene per vero oltre se stesso negli altri, ne fa il fondamento del suo parlare ed agire. Di continuo egli fa dipendere la sua vita non solo individua, ma anche sociale dalla prospettiva di ciò che ritiene buono;

cerca di realizzare insieme con gli altri quanto egli considera opera di cultura. In tal modo, egli sente di continuo il bisogno di comunione non soltanto quanto alla realtà esteriore, utilitaria, realistica, ma anche in tutto ciò che rappresenta il mondo dei valori. Ma come è possibile che si formi una comunione, se le posizioni personali sono divergenti nel modo che abbiamo descritto? Si costituirà una situazione in cui è impossibile che si formino relazioni spirituali più profonde, oppure quando si sono formate, dovranno crollare sotto qualsiasi pressione d'una certa forza.

A questo punto, noi c'imbattiamo in eventi storici che, per l'ampiezza del loro campo, per la forza degli impulsi operativi e la grandezza delle loro conseguenze, non ci permettono di trascurarli. È il totalitarismo post-età-moderna quale si esprime nel fascismo, nel nazionalsocialismo e nel comunismo.

Questi fenomeni sono semplicemente passi del corso storico come esso si va realizzando dal Rinascimento •in poi, oppure significano una frattura con l'atteggiamento anteriore, e precisamente nel senso di una critica oggettiva ad esso, se così si può dire? Sono una fase ulteriore dell'età moderna, oppure conducono verso un'epoca che non ha ancora un nome?

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Lasciamo da parte per un istante la questione se e fino a qua! punto essi siano anche conseguenze di realtà empiriche, e dunque, per esempio, del fatto che il raggio di ampiezza della terra si va riducendo, le nazionalità si accostano le une alle altre, la popolazione cresce rapidamente e dappertutto sorge la massa, i compiti del dominio del mondo aumentano di continuo, la vita diviene sempre più uniforme a causa della tecnica, eccetera. Noi percorriamo per ora la linea spirituale che ha portato al relativismo. Come si è avanzato ulteriormente in essa?

Noi l'abbiamo visto. L'uomo della fine del secolo XIX e dell'inizio del XX non conosce più in larga misura valori assoluti, perciò neppure universalmente vincolanti. Tutto si è fatto relativo per lui. Noi non intendiamo con questo, sia detto un'altra volta, la scienza esatta, ne i compiti altrettanto esatti d'ordine tecnico o sociale o altri ancora, ma ciò che abbiamo chiamato l'interpretazione dell'esistenza. Questo però agisce già direttamente in molti settori della vita, mediatamente e spesso in modo decisivo in tutti. L'uomo medio attuale non conosce più criteri oggettivi per i quali gli possa risultare chiaro ciò che è valido. L'unica norma è la misura del potenziamento della vita, che con esperienza autentica perviene alla coscienza e che si esprime in parole e in opere degne di fede.

Tutto ciò cammina e si regge — anche questo è già stato detto —, nonostante crescenti difficoltà, fino a quando nel complesso della vita esistono, superstiti dal passato, ancora idee e sentimenti di dò che è obbligante per tutti in comune, degno di venerazione, conveniente e condegno. Ma nella misura in cui questi si sfaldano, nella misura in cui la vita religiosa si ritira unicamente nella sfera inferiore, soggettiva,

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e spesso si rende sensibile proprio per questo solo nella sfera estetica, specie musicale, simili influenze cessano. Anzi persino il principio che solo la vita e la sua intensificazione sia l'istanza unicamente normativa entra in crisi, giacché ci si domanda se la vita sia davvero da intensificare, e insorge il senso dell'assurdo d'ogni sforzo a tal fine. La poesia e l'arte del nostro tempo rivelano questa situazione in un modo che non può sfuggire a nessuno il quale non voglia non vedere.

In quest'ora storica si va costituendo una nuova formula: ciò che importa, ciò che rende la vita degna d'essere vissuta, è la totalità dell'esistenza: naturalmente parlando, il popolo; sociologicamente, la società; politicamente, lo Stato. Ora l'energia che crea questa totalità è il potere o la potenza.

Non possiamo qui occuparci della questione in che modo il potere sia divenuto una ideologia, in che modo esso si sia servito di altre idee per esprimersi, pensiamo alla concezione fascista sull'eredità dell'antica Roma, o a quella nazista delle razze nobili e al loro diritto di prelazione su tutta la terra, o agli impulsi che si sviluppano dagli sforzi per portare al dominio quanti finora sono stati spogliati dei loro diritti, e via dicendo. A noi interessa per ora solo questo:

che la interpretazione della libertà in senso soggettivistico, la perdita di contenuti oggettivi a causa della relativiz-?azione di tutti i valori, la pluralità inferiormente non vincolata dei molti impulsi e punti di vista determineranno inevitabilmente una situazione di scetticismo, di inconsistenza, anzi in definitiva di vuoto intcriore, nella quale il messaggio del potere. della potenza, penetrerà come l'unico valore stabilizzante. E questa idea del potere non è altro che

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l'attivazione della concezione vitalistica. La « vita >•> 'non è capace di azione. Non è ne precisa ne attiva. Nell'idea del potere essa acquista forma dura ed agonistica: diviene politica. Noi pensiamo al fatto che il più forte profeta del primato della vita, Friedrich Nietzsche, ha predicato la potenza come il valore massimo che giustifica ogni altro valore, definendolo la chiave della comprensione dell'esistenza.

Se il totalitarismo è entrato in questo modo sulla scia della fede liberale nella vita ed ha eretto la potenza a valore che giustifica tutto — anche il delitto! — ha fatto poi la stessa cosa con l'altro dogma liberale, cioè con 'l'idea del progresso. Come motivo di propulsione essa vive non più soltanto in Europa, ma è passata al totalitarismo comunista, dove essa forma la base per la comprensione della storia non solo, ma anche semplicemente dell'etica.

IV. -L'università popolare oggi e domani.

Tutto questo complesso fenomeno interessa anche la università popolare? Non c'è bisogno di tanto argomentare per dimostrare che la interessa, ed anzi nel nucleo stesso dei suoi compiti. Si può perfino dire che si deciderà della sua giustificazione dall'interrogativo se l'università popolare dominerà questo problema. Anzitutto per la ragione che il fenomeno determina tutta la nostra situazione storica e determinerà nelle sue irradiazioni politiche il nostro futuro. Perciò l'università popolare, se intende prendersi sul serio, non può disinteressarsene. Gli insegnanti devono sforzarsi di comprenderlo e attirare gli alunni a collaborare a tale comprensione.

Ma questo non basta, giacché l'università popolare non è una società di studi applicata a una conoscenza

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solo teoretica, bensì ha il carattere d'una sede di formazione. E non solo come aggiuntivo alla teoria, considerata come la cosa principale, ma questo carattere le è essenziale. Ricordo quello che ho detto all'inizio di queste considerazioni: l'università popolare non deve solo aiutare i suoi uditori a riconoscere le realtà di fatto e i rapporti, ma a riconoscere anche se stessi nelle realtà di fatto e nei rapporti del mondo.

Bisogna dire di più ancora. L'università popolare non ha soltanto carattere privato, neppure nei suoi compiti educativi. È qualcosa di diverso da quanto avviene quando, per esempio, delle persone impegnate in una riforma di vita si raccolgono per approfondire i fondamenti del loro programma, ma essa ha acquisito senz'altro un carattere ufficiale. Questo è chiaro anche solo per il numero degli alunni e per l'appoggio dell'autorità.

Perciò essa è, in ragione della sua più intima essenza, obbligata allo studio dei problemi sopra esposti, ed è responsabile del fatto e del come essa lo fa. Giacché con gli eventi, di cui s'è detto, la stessa storia impartisce un insegnamento di tale forza, di tale profondità e radicalità che ci si può solo meravigliare che esso venga così poco capito. Ma forse è proprio la grandezza del fenomeno che gli impedisce di farsi cosciente.

Vediamo ancora una volta con precisione quale è il nucleo di questo insegnamento. La pretesa del singolo di formarsi sul mondo e su se stesso una propria opinione;, la sua esigenza di sottoporre ad esame i valori che devono essere validi per la sua vita e di crearsi per mezzo del suo giudizio la norma della sua esistenza: tutto ciò ha iniziato ad affermarsi al principio dell'età moderna e ad affermarsi via via

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sempre più incisivamente. La libertà verso tutto ciò si è imposta nel mondo occidentale come il fondamento di tutta la comprensione della vita. Nella misura in cui ciò si verificava, fu rimessa in questione la validità generale e la forza obbligante oggettiva delle norme che definiscono la vita filosofica, morale, artistica, economica, poiché il principio della libertà consente sì una discussione, ma non qualsiasi specie di azione normativa.

L'uno può certo dire all'altro: « Quello che tu dici è falso », ma non può impedirgli di ritenerlo giusto e di adoperarsi perché altri lo riconoscano. Di fronte a un'opinione qualsiasi, egli potrebbe ancora dichiarare: « La verità è un'altra, così e così », ma dovrebbe espressamente o implicitamente aggiungere: « per quello che pare a me ».

E dovrebbe fare in modo da rendere operante questa formula delimitante non solo di fronte all'altro, ma anche per sé. Ciò vuoi dire che egli non può mai arrivare a una convinzione in senso genuino, esistenziale.

Questo processo andò avanti sempre più. Nacque il pluralismo di cui s'è parlato. Per assumere la responsabilità, a suo riguardo, di fronte alle esigenze dei valori, anzi per potere anche solo, nel caso di coscienze più sensibili, sopportare tale responsabilità, la coscienza moderna operò al tempo stesso una relativizzazio-ne dei valori. Tutto ebbe valore solo fino a un certo punto, solo in un certo modo, sotto certi rispetti; io ultima analisi solo per colui che di volta in volta parla; anzi in fondo, e sulla base dei criteri propriamente legittimi, veramente neanche per lui. Tutto il processo sfociò in quello che noi chiamiamo nichilismo moderno.

S'aggiunsero poi tutti quei fattori di cui abbiamo appe-

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Ha parlato. In prima linea la massificazione dell'esistenza, la quale ridusse la forza psicologica obbligante dei valori. Giacché quanto più frequentemente si parla d'un valore, quanto più persone si riferiscono ad esso, tanto più debole si fa il sentimento della sua forza spiritualmente vincolante. Da non dimenticare il raffreddarsi generale del sentimento: una delle più inquietanti realtà di fatto del nostro tempo. Impallidiscono di conseguenza i valori, incapaci di attivare quel centro interiore di cui parla Kierkegaard quando dice che la verità può essere realizzata soltanto « nella passione »: nella passione della serietà. Esiste ancora oggi questa serietà? Non il rigore scientifico o tecnico o politico, ma la serietà spirituale? Altri elementi simili ancora, e si è arrivati a quella situazione definita « nichilistica ».

Tutto ciò fece sì che il pluralismo non solo crebbe, ma assunse un carattere negativo, cioè quello dell'ottusità a riguardo delle distinzioni, quello dell'indifferenza verso le contraddizioni, del disimpegno delle affermazioni e delle proclamazioni. Ciò che dice Mar-gret Boveri nei suoi quattro volumi circa il « tradimento nel XX secolo », ha valore anche per il nostro assunto. La responsabilità nel giudizio: « Questo è vero, questo è falso; questo è buono, questo è cattivo; questo è umano, questo non è già più umano »;

l'intima fedeltà per ciò che si è affermato e riconosciuto, tutto ciò divenne sempre più dubbio. S'introdusse una situazione di arbitrio. Il principio democratico, che attribuisce anche all'altro lo stesso proprio diritto, divenne non soltanto una specie di generale tolleranza, ma passò nel sentimento che dice: « Chissà, forse anche lui ha ragione; forse anche così va bene », e infine: « in fondo, invero, è tutto indifferente ». Si arrivò così alla situazione in cui ascendendo dalle

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profondità inferiori suonò l'ora del totalitarismo. E sotto il nome di totalitarismo bisogna intendere non soltanto una forma politica, ma tutto un atteggiamento, tutto un modo di concepire esteriormente e inferiormente l'esistenza umana. Il totalitario potrebbe dire: « Vedete? in fondo voi non avete convinzione di sorta! Peggio ancora, voi non credete neppure che sia possibile una vera convinzione! Che cosa vi manca allora se non una forza d'ordine? La libertà? È forse qualcosa di più che un arbitrio? Noi siamo liberi. Noi abbiamo una unica grande idea. La nostra libertà è " in " questa, non di fronte a questa. È la idea vera, perché essa esprime l'essenza reale dell'uomo, il vero significato della storia. Nella misura in cui ci doniamo ad essa, diventiamo liberi. E se noi rendiamo innocuo ciò che voi pensate, non è mancanza di libertà, ma è il modo di agire del medico che libera il malato della sua malattia e lo porta alla salute ».

La linea, di cui abbiamo parlato, porta così alla crisi più profonda proprio quell'idea, quell'impulso, nel cui nome l'età moderna ha vissuto e lavorato. E noi facciamo di continuo l'esperienza di come proprio coloro che sostengono l'evoluzione spirituale — gli « intellettuali »: artisti, scrittori, sociologi, ecc. — cedano alla forza attrattiva di quell'idea; cedano fino alla totale mancanza di istinto. Noi esperiamo vitalmente la terribile realtà di fatto che una potenza politica, rinnegatrice della libertà, venga sentita come allettante da parte di coloro che in Europa si sollevano proprio in nome della libertà contro ogni genere di norma etica, culturale, religiosa.

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V. - E che cosa faremo ora?

Consentitemi di supporre per una volta che voi, miei ascoltatori, avete potuto concordare con i miei pensieri. Naturalmente in un'analisi di simili complessi pensieri non è mai possibile una totale concordanza;

si sarà sempre dell'opinione che questo o quel fatto non è stato considerato, che questo o quel rapporto dev'essere visto diversamente, e via dicendo. Ma supponiamo che nelle grandi linee e nell'insieme voi concordiate. Allora probabilmente direte: « Bene; ma ora che si può fare? Che cosa deve fare — dal momento che si tratta di essa — l'università popolare? » A tale domanda io dovrei — come sempre per argomenti così profondi e ampi — rispondere: « Qui non esistono ricette liscie liscie ». Dunque, che cosa? Permettetemi di rispondere con uno schizzo breve — molto breve — di un'epoca che rappresenta in parte un parallelo della nostra situazione. Naturalmente non un'uguaglianza, giacché la storia non si ripete. Tuttavia vi si può apprendere qualcosa anche per noi. Si tratta precisamente dell'epoca in cui l'età aurea di Atene finì: il tempo della guerra del Peloponneso, durata quasi 30 anni, dal 431 al 404, causa d'una distruzione radicale. In essa è esploso il vizio originario dei Greci, che è il versante negativo della loro originaria forza, dell'emulazione: cioè l'incapacità di trovare un ordine comune e di lavorare in concordia. I migliori erano caduti, il paese era devastato, la popolazione ridotta, le antiche capacità finite. Ancora più in profondità arrivavano le distruzioni religiose. L'antica religione mitica in cui si radicava tutto ciò che si chiamava tradizione: relazioni di rispetto, cri-teri del giusto e del degno, ordini della vita individuale e sociale, tutto questo si era disintegrato in uno

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scetticismo generale, anzi in una generale indifferenza. Quanto poi alla vita dello spirito, essa stava nelle mani di gente, il cui nome era divenuto la designazione d'un'esistenza senza sostanza, dei sofisti. Causa loro, i valori spirituali erano stati sostituiti da quelli materiali. Verità, moralità, diritto non avevano più peso; ciò che valeva era il piacere, la ricchezza, il prestigio, il potere. La vita intellettuale si risolveva in un indefinito discutere e analizzare. Importante restava, in una comunità culturale così fortemente costruita sulla parola, come l'ateniese, la tecnica di farsi politicamente strada con l'arte della parola. Una brutta epoca, caratterizzata da nomi quali Gorgia, Callide, Prodico, Protagora.

E allora avvenne qualcosa di grande, di misterioso, come misteriosa è sempre l'apparizione d'un uomo grande che cambia un'epoca. Fu Socrate. Un uomo coraggioso, che amava la sua città e i suoi cittadini, soprattutto la gioventù. Egli cominciò a porsi dei problemi. Suo stimolo una insaziabile fame di conoscenza: somigliava ai sofisti nella voglia di conversazione e di discussione. Ma più in profondità c'era in lui qualcos'altro che in essi non c'era: una esperienza primordiale. Era la profonda certezza che la verità esisteva, la verità circa l'uomo, lo Stato, l'esistenza, e che si poteva conoscerla; la certezza che il bene esisteva e che l'uomo poteva trovarlo e farlo, e in tal modo realizzare il significato della sua esistenza.

Tutto ciò si operò in lui non a scuola o fra libri, ma per mezzo d'un ininterrotto dialogo con gli altri, in casa, nelle strade, nei ginnasi; con giovani e con anziani, con semplici e con raffinati, guidato dalla volontà incrollabile di non consentire mai che penetras-

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sero nel discorso soluzioni apparenti, idee superficiali o false.

Quest'uomo non ha mai scritto nulla. Ma ebbe la fortuna di avere uno scolaro superiore a lui stesso: Plafone, poeta, filosofo, aristocratico della migliore cultura. Egli visse otto anni nel gruppo di Socrate e nei suoi libri ha fatto del singolare personaggio del suo maestro il rappresentante d'ogni ricerca e d'ogni cognizione, l'incarnazione della coscienza della verità. Tutte le sue opere, fino all'ultima, i Nomoi, le Leggi, sono dialoghi di Scorate con altre varie persone, le quali vogliono conoscere la verità e conferire una forma giusta alla propria vita; e perfino colui che guida il dialogo di quest'ultima opera, l'innominato « Ateniese », è un'eco di Socrate.

La figura di Socrate e quella di Fiatone si sono per noi a tal punto inviluppate reciprocamente, l'elemento platonico e quello socratico vi si confondono a tal punto, che soltanto in qualche tratto riusciamo a distinguerli.

In che consiste il loro messaggio? Che cosa, al di là d'ogni distinzione, li-congiunge?

Anzitutto la grande esperienza che esiste un incondizionato, una validità universale e che la si può conoscere. Questo Assoluto, mai relati vizzabile, è « il Bene », 1' 'a-'/affov. Il termine non significa affatto un concetto astratto, ma una realtà. Più esattamente:

una sovrarealtà; ciò che fonda ogni realtà e ogni significato. Diciamolo con più chiarezza: è Dio. In un passo mirabile della Repubblica, l'opera più grande di Plafone, Socrate conduce il giovane Glauco su questa vetta, gli mostra sotto il simbolo del sole — il potente sole greco — come il bene più alto e il vero e il divino sono identici, e il giovane ascoltatore

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stupisce: « Quale sublime magnificenza indichi mai, o Socrate! ». Ecco la realtà più grande. Non denaro, non potenza, non piacere, ma ciò che vale per se stesso e che deve essere voluto per se stesso. E a colui che ascolta viene ribadito: Questo bene altissimo può essere conosciuto, può essere raggiunto, se l'uomo vi si impegna con tutta la sua serietà. Il Fedone, il dialogo che riferisce dei colloqui svoltisi il giorno alla fine del quale Socrate dovrà bere il veleno, è un'unica assicurazione in tal senso.

C'è inoltre un'altra cosa strettamente connessa con la prima. Esiste una conoscenza delle cose; dell'uomo e della vita umana;, delle sue norme e dei suoi valori. Non solo opinioni, non solo punti di vista, che si eliminano a vicenda, ma verità. Ogni esistente, o-gni rapporto di vita porta in sé una forma significativa: la sua essenza, la sua idea, che lo colloca in relazione con l'Assoluto, con il Bene supremo. Non si può e non è lecito perciò parlare arbitrariamente delle cose. Questa è debolezza di spirito, imbarbarimento; è, in definitiva, tradimento. Le cose hanno la loro verità. Vita spirituale vuoi dire percepire il richiamo di questa verità, decidersi all'obbedienza nei suoi riguardi e andarne in cerca. Chi cerca, per esprimerci come Kierkegaard, nella passione della serietà, esperisce, per così dire, quell'urto di significato, nel quale non è lui nella sua soggettività che decide ciò che deve aver valore, ma è l'esistente stesso che lo chiama e che lega il suo spirito nell'obbedienza: la verità.

Questo è ciò che rende perenne l'azione spirituale socratico-platonica.

In seguito sono sorti innumerevoli altri problemi filosofici; il modo di porre i problemi e di risolverli è

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cambiato; si sono imposte critiche anche su Plafone.

Ma resta per sempre qualcosa di fondamentale: che esiste l'Assoluto, il Vero e il Bene, che li si può, che anzi li si deve conoscere ed esperire; che in ogni cosa si cela la sua propria verità, una verità di cui noi non possiamo disporre come vogliamo, ma che ci vincola tutti nell'obbedienza verso l'esigenza inerente nel suo significato; e che essa può e deve essere conosciuta.

Ecco quanto io ho da rispondere alla domanda posta. Niente che sia alla mano. Non una indicazione immediata di ciò che bisogna fare. Ma voi conoscete la parola di Ranke: noi non facciamo storia per diventare prudenti per la prossima volta, ma saggi per sempre. Noi abbiamo di fronte due nemici. Da una parte una volontà di libertà che tende a sgusciare di mano a se stessa, che diviene soggettivismo e che disintegra ogni validità; dall'altra una volontà d'ordine che dispera della libertà e che si proietta nella violenza.

Non la libertà è nemica; essa ci è stata affidata, un frutto non più soggetto a perdita, combinato di volontà e di destino. Tanto meno ci è nemica la necessità d'una norma obbligante e vincolante. Dobbiamo ritrovare il rapporto con essa, se non vogliamo che tutto si sfaldi. Entrambe le cose sono essenziali. In che modo tutto questo debba essere l'obiettivo dell'università popolare è un compito che tocca a tutti noi.

Ma si è risposto in tal modo alla domanda rivolta al « teologo »? Io credo di sì, poiché egli è obbligato dalla sua professione a ricercare come i vari fattori

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della vita si innestino l'uno nell'altro e come essi debbano con misura rapportarsi a vicenda, se la totalità, se cioè l'uomo dovrà restar salvo.

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IX

IL DIRITTO DELLA VITA UMANA IN FORMAZIONE *

Avvertenza.

Sono stato invitato dai medici a contribuire da parte mia a illuminare la questione di cui ormai molti si sono occupati e che è sfociata nella discussione sul paragrafo 218 del codice penale. Ho riflettuto a lungo circa una mia adesione o no all'invito. È facile obiettare che una simile questione appartiene agli specialisti, ai medici, ai sociologi, ai giuristi. Ma poi mi apparve chiaro quanto realmente la questione oltrepassasse da ogni lato i confini dei problemi specifici, perché concerneva tutto il complesso rapporto del singolo verso la società, concerneva anzi il carattere fondamentale dell'esistenza umana in genere. Da questo punto di vista ognuno ha il diritto di prendere posizione a suo riguardo, e tanto più chi, in quanto filosofo e teologo, è per sua vocazione rivolto ai problemi generali dell'esistenza. Questo mio apporto si manterrà lontano da qualsiasi asserzione che presupponga conoscenze specifiche. Qualora mi riferissi a problemi biologici, lo farò unicamente per quel tanto che ciò sarà possibile a una considerazione filoso-fica dei fenomeni.

Il mio discorso si rivolge a una larga cerchia di lettori; perciò rinuncerà ai punti di vista strettamente cristiani. Il mio presupposto è unicamente il rispet-

* Questa comunicazione apparve la prima volta presso il Rai-ner-Verlag Hermann Leins, Stuttgart und Tùbingen. Qui si ripubblica per gentile concessione dell'editore.

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to dell'uomo e la responsabilità per la sua dignità. Il mio proposito inoltre sarà di vedere, là dove emergeranno delle esigenze, anche le conseguenze, e non soltanto le prossime e più vistose, ma anche quelle che stanno in profondità e che solo lentamente affiorano nel tessuto dell'esistenza.

I. - 11 problema e la norma.

La questione che qui ci occupa è, nella sua forma più generica, la seguente: è lecito distruggere la vita che sta maturando nel grembo materno?

Essa insorge anzitutto dal fatto che si tratta bensì della vita d'un essere individuo, ma quest'essere ha influsso su altri individui e su gruppi interi: e dunque anzitutto sulla sua madre e poi sulla famiglia e sul suo popolo. È possibile dunque che l'esistenza di quest'essere rappresenti un pericolo per la madre, la famiglia, la società. È lecito ovviare a tale pericolo con la soppressione?

La questione ha però anche altri addentellati. L'individuo umano viene concepito senza sua volontà; il suo sviluppo dipende, una volta nato, dalla madre e in seguito dalla famiglia e dalla società. Perciò costoro che hanno rapporto con il suo costituirsi, i genitori e lo Stato soprattutto, sono responsabili di lui. Non dovrebbero allora rappresentare in certe circostanze l'interesse di quest'essere non ancora autonomo anche contro la sua propria presenza fisica? Se essi hanno capito che per questa creatura umana futura la vita sarà una sventura, non dovrebbero difenderla da essa?

Questi problemi c'erano già prima, ma si erano come da sé risolti per lungo tempo nella fede in una Provvidenza divina universale. Essi si acuirono quan-

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do molti smarrirono la coscienza di tale Provvidenza e giunsero all'idea che l'uomo sia il solo responsabile della propria esistenza, il solo suo padrone. Avvenne inoltre che solo nel corso di questa stessa evoluzione la tecnica medica e sociale creasse i presupposti che resero possibile un trattamento metodico al riguardo. E infine avvenne che nelle dimensioni di massa dell'esistenza moderna il sentimento che la vita umana sia radicalmente intangibile, sentimento fino a ieri efficace, si attenuasse sempre più.

La situazione esterna diviene poi assai grave; entrano in crisi l'alimentazione, l'abitazione, l'educazione, la sistemazione, l'assistenza e la cura medica. Quei problemi assumono così un'intensità minacciosa. E ciò tanto più in quanto la prassi politica e l'educazione popolare del recente passato rinnegano radicalmente la dignità umana personale, alleandosi con tutto ciò che c'è nell'uomo di violento. Questi fatti hanno esercitato un influsso profondo sul sentimento e sul giudizio comune, ed è bene — vogliamo accennarvi subito — non essere personalmente toccati da questo influsso, quando si vogliano discutere senza troppa precipitazione questioni quali le nostre.

A mano a mano che l'uomo usciva dalla barbarie, si affermò sempre più evidente il principio che dice:

non è lecito attentare alla vita umana, fino a quando qualcuno non ha commesso delitti passibili secondo il diritto vigente di pena capitale, oppure fino a quando qualcuno ci aggredisce e noi non possiamo difenderci se non uccidendo l'aggressore. Viene per terzo il caso della guerra. Ma a questo proposito si va manifestando da una generazione in qua una crisi sempre più profonda. Diviene sempre più chiaro che la guerra, secondo le forme che assume in conseguenza

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della tecnica, è ben diversa da quella a cui si collegavano finora gli ovvi valori della fedeltà alla patria, dell'onore, del coraggio e della prontezza al sacrificio. Perciò il diritto di uccidere in guerra non risulta affatto altrettanto indiscutibile quanto prima.

Da tali punti di vista deriva che non è lecito distruggere la vita del bambino nel grembo della madre, giacché egli ne ha commesso un delitto, ne ha costretto altri all'estrema legittima difesa. Tuttavia è possibile che la vita della madre sia a tal punto minacciata dal bambino che se ne deriva per « indicazione medica » un diritto a sacrificare la vita del bambino; ma noi non vogliamo occuparci di questa particolare questione. A noi interessa qui non la indicazione medica, ma quella « sociale ».

Coloro che ritengono giustificata l'indicazione sociale dicono: la vita umana in formazione si trova in immediato rapporto con la vita della famiglia e della collettività, viene influenzata da essa e a sua volta la influenza. Questo rapporto può farsi a tal punto sfavorevole che diviene lecito proteggere sia la famiglia sia il bambino dalle sue conseguenze, è lecito cioè uccidere il bambino.

Non vogliamo delineare la realtà della situazione attuale, la cui gravita supera qualsiasi altra di cui la Europa abbia memoria1. L'autore può ben sperare che il lettore vorrà credere che anche senza tale delineazione egli ne è consapevole e che riconosce il dovere di fare tutto il possibile per rimediarvi. Chi cerca di mantenere chiara la sua coscienza circa le questioni che qui si discutono deve sottolineare quanto

1 Oggi, cioè in anni di inumano bisogno dopo la seconda guerra. Frattanto la situazione economico-sociale, almeno in Europa, si è mutata. Ma quanto alla questione fondamentale nulla è mutato.

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ora s'è detto semplicemente per non risultare disumano. È invero molto facile aizzare la fantasia e il sentimento contro chiunque sostenga l'intoccabilità della norma. La propaganda di anni fa per la cosiddetta « eutanasia » e per i suoi efletti è ancora nella nostra memoria. Ma si tratta in fondo di chiederci con la maggiore schiettezza e accuratezza possibile che cosa sia giusto.

È lecito dunque uccidere un essere umano che non ha commesso delitti, ne ha perpetrato aggressioni, ma che con la sua esistenza è una minaccia, diciamo pure, una estrema minaccia per l'esistenza altrui?

Non appena si comincia a vedere in elementi negativi motivi sufficienti per attentare alla vita umana, non è più possibile porre in modo convincente dei limiti.

Tale esperienza si è sempre imposta e diviene oggi soprattutto impellente. Durante l'età moderna e soprattutto nelle ultime generazioni il freno di immediata efficacia sulla vita istintiva e affettiva, cioè il timore religioso, si è fatto sempre meno incisivo; i princìpi puramente etici e perfino sociali vacillano e cedono a più forti pressioni vitali. In tal modo l'uomo è diventato molto « realistico » non solo a riguardo delle cose ma anche degli altri uomini, il che vuoi dire, incline a considerarli come cose sottostanti ai punti di vista dell'utilità. Vi si aggiunge quanto abbiamo già indicato: che il nostro tempo fa sì che il singolo si risolva sempre più nella massa. La unicità singolare (Einmaligkeit) quale proprietà essenziale d'ogni persona umana non esiste più nella coscienza di molti. Più o meno chiaramente, più o meno confessatamente incide su tutti il sentimento che gli uomini siano talmente numerosi che il singolo non abbia più importanza.

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E da non dimenticare un dato assai oscuro e fatale:

che una educazione e una prassi penetrate fino negli atteggiamenti di fondo e sei anni di guerra orrenda hanno scatenato uno spirito omicida che a tutt'og-gi non è stato ancora domato. Noi non possiamo perciò se non affermare con chiarezza e decisione la norma morale secondo la quale non è lecito uccidere nessuna vita umana se ciò non è giustificato dalla legge penale o dalla legittima difesa.

II. - Obiezioni.

Ma si potrebbe replicare che anche su piano umano ed etico si da una evoluzione. E perciò non si dovrebbero erigere princìpi assoluti, ma bisognerebbe cercare a seconda delle nuove situazioni norme nuove. Allora la buona volontà troverà con il tempo anche la giusta strada. Dobbiamo allora entrare con più precisione nell'essenza della nostra questione.

È da sottolineare anzitutto che un intervento è sempre un intervento (Eingriff). L'esperienza dimostra che esso non è affatto quella piccolezza che spesso viene supposta, ma che è una minaccia reale per la salute fisica. Questa pericolosità è tanto più grande quanto più sfavorevoli sono lo stato generale della madre e le possibilità di nutrimento, di riposo e di cure. Dunque la stessa situazione che dovrebbe provare il diritto della indicazione sociale rappresenta nello stesso tempo un'obiezione contro di essa.

Meno esattamente ancora della pericolosità fisica si suole valutare la pericolosità spirituale. La vita umana in formazione nel grembo materno è qualcosa di ben diverso da una qualsiasi escrescenza la cui eliminazione sarebbe un alleggerimento. Quella vita

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sì trova nella più intima relazione con l'essere della donna e con Yethos della sua esistenza. Il corpo e la anima della donna sono orientali ad essa e preparano l'essenza della madre. L'intervento spezza dunque uno sviluppo a cui partecipa tutta la vita fisica, spirituale e il carattere della madre. Sorprende e sconvolge vedere come tutto ciò venga preso alla leggera: da certe donne e soprattutto dagli uomini i quali sono inclini a misconoscere il contesto in cui si trovano i vari processi della vita femminile sia tra loro sia rispetto all'insieme. Per trovare un parallelo nell'uomo, si dovrebbe pensare a un intervento che annientasse l'opera in cui egli avesse impegnato e compromesso tutto se stesso.

Bisognerebbe avvertire inoltre che esistono non soltanto gli efletti apertamente verificabili, ma anche quelli inconsci: le ferite inferiori del fondo dell'animo, le quali spesso non appaiono chiare neppure a colui che ne è stato ferito, e tuttavia pongono in crisi tutta la sua struttura intima; gli aggravi della coscienza vitale che irresistibilmente eseguono l'autopunizione, e spesso in situazioni e occasioni che paiono assai lontane da quell'evento. Certe improvvise me-lanconie, certo incomprensibile spezzarsi dell'iniziativa vitale, certe apparentemente immotivate insicurezze nel rapporto con il proprio ambiente, qualora venissero attentamente esaminate nella loro linea a ritroso, condurrebbero fino a qualcuna di queste ingiustizie commesse contro le radici della vita, per ragionevoli e pressanti che fossero apparsi i motivi a favore di quanto s'era fatto.

Si potrà obiettare a tutto ciò, lo vediamo bene, che esistono pericoli anche là dove l'intervento non si e-segue, pericoli fisici e spirituali. La questione dunque non è ancora decisa con i motivi ora citati.

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Un peso maggiore potrebbe avere il richiamo a un altro pericolo. Secondo l'opinione dei suoi sostenitori, la indicazione sociale fonderebbe il diritto di uccidere la vita umana in formazione, quando dalla sua nascita derivassero svantaggi gravi per la sua famiglia e per il bambino stesso. Ma il principio, una volta ammesso, si fermerebbe alla .indicazione « sociale »? Negli anni scorsi non se ne è forse rivelata già un'altra, e cioè la indicazione « politica »? Non era allora stato dichiarato dalla istanza massima che fa ed esegue la legge, cioè dallo Stato, che era di pertinenza sua di decidere se una persona appartenente alla sua sfera di potere potesse conservare la vita o perderla? E non perché essa avesse commesso un delitto, anzi neppure perché la sua esistenza rendesse intollerabile l'esistenza di altri, ma semplicemente perché appariva indesiderabile allo Stato in conseguenza di certi precisi attributi, per esempio, la sua appartenenza a un determinato popolo. Tutto questo sembra uscire dalle pagine d'un utopico romanzo del terrore. È stato invece teoria e prassi ufficiale durante lunghi dodici anni. Da una simile concezione potrebbe essere ricavata senz'altro la conseguenza che lo Stato ha il diritto di decidere di quali bambini possa essere portata a termine la gravidanza e di quali no. E chi potrà dire fin dove l'avvenire arriverà avanzando su questa dirczione? Quale popolo potrà ancora apparire indesiderato a qualche Stato?

Non appena in tali questioni crolla il principio assoluto e al suo posto si colloca un giudizio pratico di utilità o di nocività, tutto sdrucciola. Può essere proclamata una « indicazione » dopo l'altra e per ognuna ci saranno a disposizione lunghe serie di convincenti motivi, senza nulla dire delle tecniche dell'esecuzione. Ma tutto ciò significa che il pensiero etico

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con la sua distinzione fra giusto e Ingiusto capitola davanti alla « vita » e ai suoi scopi, così come essa s'incarna nello Stato.

III. - II punto di vista decisivo.

La risposta definitiva sta nel richiamo alla realtà di fatto che « la vita in gestazione » è una creatura umana. Ora, non è lecito uccidere una creatura umana, a parte la legittima difesa e l'ordine del diritto. Il motivo sta nella dignità della sua persona.

L'uomo è intangibile non perché vive ed ha perciò un « diritto alla vita ». Anche l'animale avrebbe un tal diritto, anch'esso vive e, se si confronta un bell'animale vivo nella libera natura con un essere umano malato e colpito dal destino, l'animale può apparire perfino più vivo. Ma la vita dell'uomo è intangibile perché egli è persona.

La persona è la capacità di autopossesso e di autoresponsabilità; attitudine alla vita nella verità e nell'ordine morale. Essa non è di natura psicologica ma esistenziale. Fondamentalmente essa non dipende ne dall'età, ne dallo stato fisico-psichico, ne dalle capacità, ma dall'anima spirituale propria d'ogni uomo. La personalità può essere inconsapevole come nell'uomo che dorme; tuttavia essa c'è e dev'essere rispettata. Essa può essere non ancora evoluta come nel bambino;

tuttavia già postula la protezione morale. È perfino possibile che essa non venga neppure all'atto, mancando le condizioni psico-fisiche, come nel folle o nello idiota; ma l'uomo civile si distingue dal barbaro per .il fatto che egli la rispetta anche sotto tali spoglie. Così essa può esistere anche nascosta come nell'embrione, ma vi è già insediata e ha il suo diritto.

Questa personalità dona all'uomo la sua dignità. Es-

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sa lo distingue dalla cosa e lo costituisce soggetto. U-na cosa ha bensì consistenza, ma non consistenza autonoma; ha bensì effetti, ma non responsabilità; bensì valore, ma non dignità. Si tratta qualcosa come cosa quando la si possiede, la si adopera e infine quando la si distrugge, il che però vuoi dire, quanto alla vita, la si uccide. Il divieto di uccidere l'uomo rappresenta il culmino supremo del divieto di trattarlo come cosa. Viceversa era un fatto del tutto conseguenziale che lo Stato, allo stesso modo che la sua concezione del mondo rinnegava la dignità spirituale della persona e considerava l'uomo come un puro individuo della specie o come un elemento del complesso sociale, pretendesse anche il diritto di ucciderlo qualora ciò corrispondesse ai suoi scopi.

{ II rispetto dell'uomo in quanto persona appartiene "( a quei postulati che non è lecito discutere. La dignità, ma anche il benessere, anzi in definitiva la consistenza dell'uomo dipendono da questa non discutibilità. Se quel rispetto viene rimesso in questione, tutto slitta nella barbarie. Incalcolabili sono ancora le minacce che incombono sulla vita e sull'anima dello uomo, se egli verrà esposto senza la protezione di quel rispetto al potere dello Stato moderno e alle sue tecniche.

Di qui consegue anche la risposta alla asserzione di continuo rinnovata che la donna ha il diritto di disporre liberamente del proprio corpo; e che perciò le è lecito desiderare che le venga modificato quello stato del suo corpo che si chiama gravidanza per mezzo di operazioni utili allo scopo. Ma il bambino non è semplicemente « corpo della madre »; non è soltanto una sua parte, come un organo o una malformazione, ma è invece una creatura umana in formazio-

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fìe. Con questa realtà di fatto viene espressa l'essenza più intima della maternità e, in quanto riferita alla maternità, l'essenza femminile in genere. Essere madre non significa « generare la vita » — questo lo fa anche l'animale — ma significa « donare la vita a una creatura umana ». Ora una creatura umana è persona, dapprima assopita, poi lentamente emergente; in tal modo cresce in un immediato rapporto | di vita con la madre un essere che le è sottratto, quan-1 to alla sua più intima determinazione. Si fonda in ' questo la grandezza, ma anche il lato tragico della maternità. Il bambino è unito nel modo più profondo alla madre e costituisce insieme con essa un unico circolo vitale. Il bambino tuttavia non si risolve in esso, ma sta simultaneamente, fin dal primo istante della sua esistenza, in immediato rapporto con l'esistenza, con le norme assolute, con Dio.

Sulla maternità sono stati profusi torrenti di sentimentalismi; e con preferenza da quelli che, quando i loro interessi ve li spingevano, erano capaci di trascurare senza scrupolo alcuno proprio la dignità e i diritti della maternità. Già le inflessioni linguistiche con cui si soleva — e ancora si suole — parlare di tali cose dovrebbero rendere perplessi. Chi parla in questi modi non è genuino. I consensi e le glorificazioni che vi si esprimono sono di genere isdntivo-senti-mentale e possono ad ogni momento rovesciarsi nel loro contrario: in disistima, abuso, anzi crudeltà, poiché ciò che in tali cose è unicamente determinante, cioè la persona della donna e del bambino, vi è irreperibile. Ma è qui che si decide del carattere della maternità. Anzi è qui che ancora prima si decide il rapporto verso il proprio corpo. Non è vero che la donna ha semplicemente « diritto di disporre del proprio corpo », come egualmente neppure l'uomo. Essi

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hanno questo diritto di fronte alle pretese altrui, di fronte alle pretese dello Stato, ma non assolutamente, poiché il corpo loro non è un corpo semplicemente animale, ma un corpo umano e, anche di fronte alla volontà del suo proprietario, sta sotto la tutela di quelle norme che determinano l'esistenza personale. Ma questo aspetto del problema non può questa volta occuparci. Quanto ora ci importa è che il bambino nel grembo della madre, da un lato le appartiene e vive di lei, dall'altro le è sottratto, giacché egli sta sotto la legge della propria personalità, ancora addormentata bensì ma già data. La madre non è la _p adrona della vita che si vien formando in lei, ma questa vita le è affidata. Perciò non ha su di essa _essen2Ìalmente_diritti _maggiori di quanto ne abbia un uomo sopra l'altro uomo.

Un esempio parallelo assai pertinente dimostra di che cosa realmente si tratta. L'asserzione che il bambino nel grembo della madre è semplicemente una parte del suo corpo sta sulla stessa linea dell'asserzione che l'uomo nello Stato è semplicemente una parte del | tutto statale. La mentalità che permette alla madre i di disporre del bambino che vive in lei deve consentire anche allo Stato di disporre dell'individuo che gli appartiene. Ora, contro di ciò insorge l'orrore proprio dell'uomo del nostro tempo: l'orrore d'essere offerto in_balia d'una istanza che rinnega il suo auto-diritto in quanto persona, _il suo rapporto con le supreme norme, la sua relazione immediata con Dio;

dell'istanza che afferma che egli è in tutto e per tutto una sua parte e che egli ha soltanto per suo tramite un rapporto con Resistenza, e che per esercitare que-_sta_sya pretesa di potere dispone d'una potenza sempre più grande e d'una tecnica sempre più sicura. E tutto ciò non soltanto contro la volontà del singolo

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ma anche, per mezzo della suggestione e della propaganda, nell'intimo del singolo, a tal punto che il giudizio di colui che viene sopraffatto capitola davanti al sopraffattore e crea la teoria per giustificare il crimine.

Infine non vogliamo dimenticare quanto segue. Se si riconosce ai genitori il diritto di far uccidere, sulla base all'« indicazione sociale », la loro creatura in formazione, a tale diritto deve corrispondere fondamentalmente dall'altra parte un dovere, quello cioè di eseguire l'uccisione. Lo Stato non può affidare l'esecuzione dell'intervento alla iniziativa privata per gli enormi inconvenienti che ne conseguirebbero. Se dunque :

lo Stato dichiara che in determinate condizioni di necessità i genitori possono desiderare la interruzione della gravidanza, deve anche provvedere che ciascuno . nel caso la esegua come di fatto si deve. Il medico [ singolo può rifiutarsi; ma se si verifica il caso limite { che tutti i medici disponibili si rifiutano, lo Stato ' deve procedere alla costrizione, j Ora i casi limite sono rivelatori di ciò che avviene di norma e che normalmente non viene avvertito. Noi siamo precisamente arrivati alla conseguenza che — come negli ultimi oscuri dodici anni — un uomo è condotto dallo Stato nella situazione di compiere ciò che per la sua coscienza è un delitto o di perdere la sua professione e il suo lavoro: una delle peggiori forme di distruzione sociale che possa concepirsi.

IV. - Una nuova obiezione.

Ma insorge contro quanto è stato fin qui esposto una obiezione importante che noi dobbiamo discutere affinchè non venga di nuovo tutto rimesso in questione.

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L'obiezione dice: l'uccisione della vita in formazione negli sviluppi di questo scritto è stata collocata sotto le norme che hanno valore per l'uomo. Ma il frutto nel grembo materno è davvero un uomo?

Che lo sia negli ultimi mesi del suo sviluppo non dovrebbe essere discutibile. Sarebbe assai primitivo affermare che lo diventa soltanto nell'istante in cui si stacca dal grembo materno. La psicologia è in grado di penetrare, per le vie dell'inconscio, perfino nella vita psichica del bambino non ancora nato, e la pedagogia parla d'una educazione prenatale. Ma è uomo anche l'embrione fin dal primo istante del suo sviluppo? Oppure lo diventa in un momento da determinarsi con precisione fra la concezione e la nascita, in modo che, dal punto di vista della nostra questione, l'importante è di determinare con precisione questo momento per poter eseguire l'intervento senza scrupoli morali?

È stato detto che il germe nel suo primo tempo, nei primi cento giorni circa, non è ancora un essere distinto, ma — e con questo riprendiamo da altra angolazione un pensiero già sopra cominciato — è una struttura che appartiene del tutto all'organismo materno. Ma non appena si considera senza pregiudizio tale asserzione, si vede subito che essa non è un postulato dell'oggetto in se stesso, ma che vi accede da fuori, da motivi che dipendono da determinati interessi vitali. E si vede inoltre che alla base dell'asserzione sta una concezione del tutto meccanicistica del vivente.

Quale sarebbe la risposta che verrebbe data a chi affermasse che una certa pianta sarebbe data come tale soltanto quando il carattere dell'albero spicca chiara-

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mente? O a chi affermasse che un animale, il cui sviluppo si svolge al di fuori dell'organismo materno, un pesce per esempio, è questo pesce soltanto quando ha le pinne e la coda e il resto che appartiene alla sua , forma caratteristica? La risposta sarebbe che affermazioni simili sono assurde, poiché la particolare forma di esistenza del vivente consiste precisamente nel fatto che esso emerge da un principio semplice, cioè dalla divisione di una cellula ovvero dalla fusione di due ;

cellule e realizza una serie di trasformazioni fino al \ pieno sviluppo morfologico, per arrivare poi da que- ' sto punto, attraverso forme varie di irrigidimento e di decadenza, alla morte. I singoli stadi — e questo è l'essenziale — non si accumulano come dall'esterno, ma costituiscono un tutto, una Gestalt nel più rigoroso senso della parola. Ciò che noi chiamiamo organismo ha, dai punti di vista che qui c'interessano, due forme fenomeniche. Anzitutto quella consistente nella contemporaneità in cui diverse strutture, a cominciare dalle molecole di albumina fino agli organi più complicati, si compongono in una struttura generale:

chiamiamola la Gestalt di struttura. La seconda consiste nella continuità in cui i diversi stadi, attraverso cui è passato o ha da passare l'individuo, a cominciare dalla forma primigenia della cellula originaria che si divide o delle cellule seminali dei genitori che si uniscono fino alla completa maturità e all'estrema disintegrazione, pure compongono una struttura generale; detto con più precisione, ogni fase è ordinata al tutto della serie evolutiva: chiamiamola Gestalt del divenire. Questa Gestalt del divenire è esattamente necessaria e per l'essere vivente in questione altrettanto caratteristica quanto la Gestalt di struttura, ed è egualmente impossibile cancellare una fase da quella quanto un membro da questa. Le due forme, quel-

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la di struttura e quella del divenire, sono l'una all'altra congiunte. Più precisamente: esse sono la stessa cosa, appunto l'organismo, là in rapporto allo spazio, qui in rapporto al tempo. Le due cose formano un'unità che non può essere spezzata, perché ogni elemento è determinato dal tutto e viceversa il tutto abbisogna d'ogni singolo elemento. « L'albero » è quel complesso che sta nella contemporaneità dello spazio, articolato in radici, tronco, rami e foglie; ma è anche quella serie di fasi che sta nella continuità del tempo ed è composta del seme, del germoglio, dell'albero adolescente e del grande albero evoluto; sempre esso stesso in ogni sua fase, realizzato completamente soltanto nella serie completa fino all'estremo morire delle radici. Asserire dunque che l'essere in questione comincia ad essere se stesso soltanto quando ha attraversato un certo numero di forme evolutive, sarebbe dunque piatto meccanicismo, giacché in tal modo, in luogo della totalità vivente, si porrebbe una somma di frammenti. Chi ha capito che cos'è un « organismo », non potrà che dire che l'essere vivente in questione comincia con la divisione delle prime cellule o con la fusione delle cellule genitali.

Questo vale anche per l'uomo. L'arco della Gestalt del suo divenire comincia con la fusione delle cellule genitali, culmina nella maturità morfologica e dura fino alla morte. Egli è dunque già un uomo nell'istante della concezione, come pure ancora lo è nell'ultimo istante dell'agonia. Pensare diversamente non è logicamente possibile.

Se a tutto ciò si obietta come, allora, già le prime fasi dello sviluppo possano portare il peso spirituale della dignità umana, bisogna un'altra volta rispondere che questo è materialismo, un pensare quantitativo in luogo d'un autentico pensare qualitativo,

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Giacché già le prime cellule contengono tutta la potenzialità d'ordine della vita seguente; contengono la possibilità di tutte quelle forme che emergono non solo nel corso dell'evoluzione embrionale, ma anche di quella che segue alla nascita attraverso la fanciullezza, la maturità e la decadenza. Affinchè dalla quantità 2 esca la quantità 5, occorre aggiungere 3, altrimenti rimane 2. Affinchè però dallo stadio primo dell'organismo escano gli altri stadi, non occorre nessuna aggiunta, ma soltanto uno sviluppo: tutto il seguito è già potenzialmente presente.

La concezione meccanicistica non può rendere giustizia all'essenza della vita, perché essa la considera come una giustapposizione esteriore, come una macchina. Ma essa implica inoltre un forte pericolo a riguardo della comprensione dei valori, il pericolo cioè di restare sotto l'influsso del quantum, sia della massa, sia della quantità. Chi pensa a questo modo vedrà tanto meno l'uomo nell'embrione quanto minore è la sua entità quantitativa e quanto minore è la differenziazione dello stadio evolutivo che lo concerne. Proprio per questo egli troverà sempre meno ostacoli ad attentare alla sua vita.

Inoltre non possiamo dimenticare che questo modo di concepire ha altre conseguenze ancora. Detto in termini generali, esso pensa che l'essere uomo non sia un carattere essenziale, ma qualcosa che si da in un grado più o meno grande, e precisamente nella misura in cui lo stadio evolutivo in questione s'avvicina a un optimum, al livello più alto di ricchezza di forme e di energia di vita. Ma una graduatoria s'impone così non soltanto nello sviluppo embrionale finora trattato, bensì anche in altri punti del contesto vitale. La distanza dall 'optimum può essere conside-

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rata a ritroso in ordine al principio, e allora la conseguenza suona: quanto più precoce è lo stadio dello sviluppo embrionale, tanto meno si avrà l'uomo. Ma la graduatoria può essere considerata anche in dirczione opposta, in ordine alla fine, e allora la conseguenza sarà: quanto più oltre si trova lo stadio dello sviluppo rispetto al livello massimo già raggiunto, quanto più vecchio in senso specifico diviene l'individuo, tanto meno dunque egli è uomo. Anzi la « distanza » dall''optimum può imporsi anche a causa di tutte quelle incidenze negative che si chiamano malattia, debolezza e disgrazia, e allora si trarrà questa conseguenza: quanto più un individuo è malato o debole o in qualsiasi modo menomato, tanto meno egli potrà rivendicare per sé il carattere di autentica umanità.

Dipende allora soltanto dal modo in cui si applicano i criteri per giungere a dichiarare « indicata » non soltanto la eliminazione delle forme degeneri embrionali, ma anche di quelle postnatali. E sarà necessario ricordare un'altra volta che la teoria e la prassi del passato recente ha dedotto anche realmente una simile conseguenza e in tutta consapevolezza quando si eresse l'orribile principio della « vita indegna di vivere ». Vittime d'una simile concezione sono stati anzitutto i malati e i deboli di mente, sarebbero seguiti i malati incurabili — a meno che non siano di fatto già seguiti — e poi i vecchi e gli inabili al lavoro avrebbero chiuso la fila. Ma in tal modo sarebbe stata definitivamente abbondonata la sfera d'un'esistenza umanamente degna, giacché una mentalità che pensa così è barbarie nuda e cruda.

In realtà la concezione, la morte, la crescita, la decadenza, la fanciullezza, la vecchiaia, la salute e la malattia appartengono tutte a quel « tutto » che si chia-

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ma « l'uomo ». Esse sono elementi della sua esistenza complessiva, poiché quest'esistenza non è soltanto natura, ma anche storia. Non ha soltanto uno sviluppo, ma anche un destino. In essa si verificano non soltanto avanzamenti, ma anche resistenze e crisi, vittorie e sconfitte, superamenti ed espiazioni. E la malattia coraggiosamente sopportata, l'incapacità di agire da cui scaturiscono la bontà, la saggezza e la maturità, sono molto più « degne di vivere » d'una salute che rende brutali e d'un attivismo che esteriorizza del tutto la vita.

Chi pensa con logica conseguenziale non può se non dire che l'uomo esiste fin dal suo primo istante del suo sviluppo, e cioè dall'unione delle cellule genitali nell'uomo reale e autentico. In conseguenza di ciò tutti gli stadi del suo divenire stanno sotto le norme che hanno valore per l'uomo.

Anzi si può dire anche più incisivamente: se qualcuno, proprio dal fatto che la somiglianzà umana esteriore dell'embrione diminuisce sempre più negli stadi anteriori, si sentirà indotto a non considerarlo più come una creatura umana, o qualcuno invece si sentirà indotto dalla sua vigile coscienza a. proteggere la sua ancora velata umanità, di qui si misura la genuina maturità morale.

L'inerme è affidato al forte, e nel fatto che questi adopera la sua superiorità a proteggerlo sta la distinzione tra forza e violenza. Questa cura acquista un carattere decisivo per tutta l'esistenza quando si esercita là dove si tratta della vita in formazione. Perciò noi restiamo sempre commossi dalla capacità di immolare se stessa da parte della vera madre al servizio di questo compito. Allo stesso compito serve il padre quando difende la madre e il bimbo che si forma in lei. Ad esso serve anche il medico che è in

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grado di vedere l'uomo anche là dove lo sguardo non esperto ancora non lo vede e che si trasforma in suo avvocato contro tutte le considerazioni d'utilità ab exteriori.

Abbiamo espresso in questo modo qualcosa che definisce Yethos più profondo del medico. Il vecchio maestro della pedagogia Hermann Nohi ha definito una volta l'educatore come quell'uomo che sostiene e rappresenta il significato della gioventù contro tutte le pretese di potere della società, e francamente anche contro i suoi propri stati istintivi. Vale anche per il medico qualcosa di analogo. Egli rappresenta il diritto dell'uomo malato contro la brutalità del sano. E rappresenta il diritto dell'uomo in formazione contro l'egoismo dell'adulto, anche di quell'egoismo che viene dal bisogno. Occorre per questo una incorruttibilità che si fonda su una visione chiara dell'essenza dell'uomo e dell'incondizionata obbligazione verso la sua dignità. Il medico sa più di tutti sul dolore. Ma sa pure che il dolore umano è ben diverso da quello dell'animale, perché l'uomo è persona insop-primibile nella sua dignità spirituale e non rappresentabile da altri nella sua eterna responsabilità. Questo dato di fatto è normativo per l'atteggiamento del medico. A lui è stato affidato lo stato infermo o inerme del singolo non soltanto come fenomeno psicofisico o come elemento del benessere generale, ma come contenuto della persona, della sua consistenza e della sua garanzia. Perciò egli non potrà mai agire come se essa non ci fosse; il suo dovere anzi è quello di difenderla nella sfera della sua esistenza anche contro motivi che sono bensì buoni per se stessi, ma che devono restare subordinati a valori superiori, soprattutto all'intangibilità della persona.

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V, - II principio fondamentale e la necessità (Noi}.

Ma non abbiamo, in queste nostre considerazioni, perduto di vista il bisogno di molti, un bisogno grande al punto che non si vede neppure più in che modo possano riuscire a vivere? Io non lo credo, giacché ci sono due modi di soccorrere le pene umane.

Il primo è senz'altro comprensibile. Consiste nel lenire le pene e nell'allontanare le loro cause immediate. L'altro non è subito così evidente, ma è egualmente importante, anzi anche più importante. Consiste nel-l'aiutare l'uomo in modo che egli conservi una visione globale della vita, un sentimento che colga ciò che è essenziale in essa, un intuito che avverta le distinzioni assolute, e che, fondato su questi punti di vista, egli si sostenga di fronte a ciò che gli avviene di penoso. Per quanto sia importante il primo modo, quando esso contraddice al secondo diviene nocivo. Chi ha liberato una famiglia da nuove restrizioni nelle sue possibilità d'esistenza e di sostentamento uccidendo una vita in formazione ha per il momento aiutato; ma, a lungo andare e visto il fatto nel suo insieme, egli ha reso più profonda la loro situazione negativa. Ha fatto come chi per riscaldare la casa si serve delle travi che la sostengono. per lì ci si riscalda, ma poi la casa crolla.

Nel problema che qui ci occupa s'incrociano le questioni più diverse: giuridiche, economiche, sociali, psicologiche, e da non dimenticare quelle del più duro bisogno individuale e generale. Queste questioni sono così impellenti che viene di continuo la tentazione di dire che occorre rimediare subito e che tutto il resto è indifferente. Tale sentimento è comprensibile ed anche realmente stimabile, tuttavia è nel torto.

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Bisogna che attraverso il groviglio delle idee e dei

pareri risulti chiaro che in ultima analisi si tratta d'un'unica questione. Essa porta, oltre il problema particolare da cui noi siamo partiti, a quello essenziale e fondamentale, e suona così: l'uomo appartiene a se stesso o alla famiglia e allo Stato, oppure sta sotto la sovranità d'una Istanza assoluta, la cui norma trascende i desideri personali e le esigenze sociali?

Se vale l'asserzione prima, l'uomo resta allora in balìa di se stesso, in balìa dei suoi eventuali desideri, bisogni e pensieri;, ed egualmente in balìa della situazione sociale o della sua espressione di potenza, lo Stato. Ma entrambi, individuo e Stato, troveranno sempre motivi — e spesso ottimi, convincenti, ma penultimi o terzultimi e perciò, in ordine al tutto, falsi

— per conferire a quello che vogliono il carattere della unica decisione giusta. Ne abbiamo fatta l'esperienza.

Se invece vale la seconda asserzione, c'è allora di fronte ai desideri e alle pressioni dell'individuo, come pure di fronte alle suggestioni della situazione sociale e alla potenza dello Stato, una barriera assoluta. Questa barriera non proibisce soltanto, ma anche protegge: protegge sia l'uomo sia lo Stato — quanto v'è d'autentico nell'uomo e d'autentico nello Stato

— dalle deviazioni che da essi stessi possono emergere. Tale protezione viene da una norma, e ogni norma obbliga. Essa esige così in certe circostanze sacrifici, pesanti soprattutto per quelli che non intendono perché li debbano fare, o per quelli che hanno l'impressione che una certa norma protegga solo determinati gruppi, che sia l'espressione d'una giustizia di classe e via dicendo. In realtà, essa significa la difesa dell'uomo in assoluto come tale.

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Esiste una logica della scienza, ma esiste anche una logica dell'esistenza. La prima sta alla luce del giorno, come quando essa dice che una pietra, essendo attirata dalla forza di gravita verso il centro della terra, non si può muovere verso l'alto. La seconda è più difficile da comprendere, ma è inesorabile quanto la prima. Essa afferma che operazioni eticamente false, per utili che appaiano, alla fine risultano cata-strofiche. Mentire può essere utile una volta, dieci, cento, volte, ma in ultima analisi il mentire elimina qualcosa su cui si fonda la vita, e cioè elimina nel proprio intimo la stima di sé e nel rapporto con gli altri la fiducia. È un danno contro il quale non si da rimedio. Questa conseguenza è inesorabile altrettanto quanto la legge di gravita. Una logica di questo genere domina anche nel nostro caso. C'è nell'uomo qualcosa che per sua stessa essenza non può essere toccato: l'altezza della persona vivente. Motivi importanti si possono presentare per attentarvi ciononostante; anzi, essi possono farsi così impellenti che colui che viene a contrastarli può apparire un dottrinario senza cuore. E tuttavia: se vi si cede, la fine sarà la distruzione; e distruzione proprio di quello che si doveva salvare.

Si reclama il diritto per l'intervento di cui qui si è trattato in vista della libertà e della possibilità di espansione della vita stessa: ma il bilancio finale sarà l'esposizione della vita in balìa dell'egoismo del singolo o degli scopi dello Stato. Ed è tempo, è urgente tempo che impariamo a vedere le conseguenze. Noi abbiamo appunto fatto esperienza che cosa significa quando si concede prima questo e poi quello e poi quell'altro, ogni volta con la giustificazione che non è possibile altrimenti, ogni volta con la tranquillante idea che non si arriverà di certo al peggio: e il peg-

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gio è arrivato d'un tratto. Ogni violazione della persona, soprattutto quando è compiuta con la sanzione della legge, prepara lo Stato totalitario, e respingere questo ma accettare quello non parla a favore ne d'un chiaro pensiero, ne d'una vigile coscienza.

C'è del resto, nel chiaro principio fondamentale, anche un aiuto pratico immediato. Medici esperti dicono che il medico che si rifiuta per motivi medici di attentare alla vita in formazione diventa più acuto osservatore e inventore ed è poi in grado di risolvere felicemente casi che parevano senza via d'uscita. Qualcosa d'analogo vale anche nel nostro caso.

Problemi come quelli che abbiamo trattati devono essere considerati in ordine alla totalità e alla durata dell'esistenza della famiglia e del popolo, altrimenti non si fa che un lavoro di rattoppo. Ma non ci può essere dubbio che una concezione come quella che afferma la « indicazione sociale » paralizza le forze del carattere e l'iniziativa della vita. Se, al contrario, i genitori sono persuasi che ogni vita umana sta fin dalla sua origine sotto la legge morale che ne vieta l'uccisione, questa persuasione li renderà più coscienziosi, più pronti al sacrificio e più vigorosi nell'azione. In questo sta, visto in ordine al tutto e alla durata, il che vuoi dire dal punto di vista davvero sociale, l'aiuto che importa soprattutto dare e ricevere.

Concludendo, ho ancora da dire un'ultima cosa. I fautori della « indicazione sociale » dichiarano con questo stesso che degli uomini avrebbero a tal punto scarsezza di alimento, di alloggio e di possibilità vitali che vite umane in formazione dovrebbero essere soppresse, qualora altrimenti le misure di sussistenza per i già viventi dovessero farsi ancora più anguste. Ma questo significa che l'ordine economico-sociale è sovvertito dalle fondamenta.

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Prima che lo Stato, a rimedio di tale situazione di disordine, passi ad attentare alla vita umana; prima di incoraggiare le madri a desiderare l'uccisione del loro bambino nel loro grembo o anche prima di permetterlo unicamente, dovrebbe esaminare — con tutta la serietà della coscienza — se non abbia fatto tutto — realmente tutto — ciò che è possibile per restaurare un ordine autentico. Allora si arriverà senza dubbi al risultato che se lo Stato vuole, realmente vuole, non sarà necessario uccidere affinchè si possa vivere. Sarà necessario soltanto agire e saper compiere dei sacrifici.

Ci sarebbe molto da dire in proposito: se questa responsabilità sia anche di fatto vista e assunta in pieno; se essa venga applicata realmente e in modo corrispondente nell'utilizzazione del pubblico denaro, nell'amministrazione degli alimenti e degli alloggi e via dicendo. Ma sarebbe l'argomento d'un nuovo discorso. A noi importava per ora l'elemento fondamentale; e il fondamentale non è, come credono certi presunti « pratici », teoria superflua, ma chiarificazione e conferma del « fondamento » su cui tutto poggia, anche la pratica retta.

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LA DOMENICA: IERI, OGGI E SEMPRE

Avvertenza.

La domenica non è soltanto un fatto dell'uomo individuo, della sua anima religiosa e del suo bisogno di riposo, ma della comunità, più esattamente, dell'ordine comunitario. Se la domenica non resta più inserita in quest'ordine, essa perde non soltanto la dignità che da quel rapporto le deriva, ma sarà anche distrutta dagli interessi e dalle trascuratezze a cui essa è d'inciampo.

La domenica fu sempre insidiata da interessi vari. La fede e la responsabilità per la sanità religiosa d'un popolo hanno sempre dovuto lottare a favore della santificazione della domenica, e il risultato di questa lotta ha sempre rappresentato un metro per misurare la sanità religiosa. Essa entrò in stadio critico quando l'ordine cristiano non venne più considerato valido per la generalità, e questa gli divenne straniera o perfino ostile. Nel frattempo si sono invece sviluppate forme dell'economia determinate unicamente da punti di vista tecnico-economici, sulla base dei quali l'ordine cristiano della vita apparve sorpassato, anzi d'ostacolo. Oggi quindi la questione è se la parte cristiana della popolazione senta la propria fede come abbastanza importante da costringere la tecnica e l'economia a rispettare i propri punti di vista. Che un rispetto di questo genere sia possibile, non si discute. Ammesso che la conservazione della domenica apporti vantaggi decisivi di ordine industriale o tecnico-commerciale, si troverebbe senza alcun

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dubbio un modo per assicurarla. Il problema è quindi in definitiva se la parte credente della popolazione sarà decisa a mantenere un ordine che ha, da millenni, improntato la vita umana, o se si lascerà indurre a sacrificarlo per ragioni di natura puramente terrena — punti di vista al riguardo che sono ancora senz'altro fluidi e che possono ancora modificarsi a dispetto di tutte le affermazioni dottrinarie.

I. - Vita e ritmo.

Per arrivare a garantire una base di partenza nell'essenziale dei problemi odierni, vogliamo anzitutto acquisire coscienza del significato religioso della domenica e della sua evoluzione nel corso della storia. Ma questo problema dev'essere anticipato da un altro: se cioè questo significato non preesista già in fase preparatoria nel corso naturale della vita.

Il vivente non emerge come qualcosa di già definitivo, ma come un germe, il quale poi con il tempo si sviluppa nella sua forma caratteristica per mezzo d'un'evoluzione spontanea e dei vari influssi dell'ambiente. Ora questa crescita non procede alla rinfusa, bensì s'adegua a una legge Ulteriore del tempo, legge che si esplica in un mutarsi e in un ripetersi di processi, ossia in un ritmo della vicenda vitale. Il fondamento di questo ritmo è formato dal moto della terra nel suo rapporto con quello del sole e della luna. Consegue di qui — condeterminata da condizioni naturali climatiche e d'altro genere — una periodicità di fasi d'intensità della luce e del calore, nel cui ordine è vissuto lo svolgimento della vita.

Il massimo dei ritmi compresi in questa periodicità è l'anno: dunque il mutamento provocato dall'influs-

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so del sole che a partire dalla sua posizione più bassa all'orizzonte nell'inverno, attraverso la sua pozione più alta nell'estate, perviene di nuovo alla posizione più bassa. Il ritmo più piccolo è il giorno:

il mutamento che subisce l'intensità della luce e del calore a partire dalla mezzanotte, attraverso il mezzogiorno, di nuovo fino alla mezzanotte. Il terzo di questi ritmi è determinato non dal sole ma dalla luna e va dalla luna nuova, attraverso la luna piena, di nuovo alla luna nuova. È il mese, dodicesima parte dell'anno.

Ora appare tuttavia che la nostra vita non può semplicemente superare un periodo lungo come quello dal giorno al mese senza una ulteriore divisione del tempo. Questa viene definita non dai ritmi delle sfere celesti ma da un confluire della forza spirituale ordi-natrice dell'uomo con esigenze biologiche e psicologiche: la settimana. Lo si può chiamare ritmo culturale, per distinzione da quelli naturali.

Abbiamo così definito i fondamenti della domenica. Essa ritorna circa quattro volte nel corso di un mese e indica il tempo della distensione richiesto dai ritmici bisogni della vita. Durante il giorno le energie umane sono assorbite dall'opera e dalla vita. La notte apporta l'interruzione e il riposo, dovrebbe quantome-no apportarli se i costumi culturali non lo rovinano e non rovesciano il giorno e la notte. Ma la tensione dei singoli è tale che ad essa non si può del tutto porre rimedio mediante la notte. Rimane un residuo che giorno per giorno cresce e che richiede un più profondo riequilibrio. Questo si attua con il fatto che dopo una serie di sei giorni resta a disposizione non una sola notte ma una intera unità di ventiquattro ore, nella misura in cui anche qui non rimane ancora

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un residuo di tensione che esiga un riequilibrio definitivo nella forma delle vacanze.

In ogni caso si dimostra che il giorno del riposo è di importanza fondamentale per la salute del corpo, per la capacità di prestazione dello spirito e per l'equilibrio della vita intera. Si tratta d'un ordine che non si può violare senza conseguenze fatali per il singolo e per la società. Quanto al tentativo di sostituire la settimana di sette giorni con un'altra forma di suddivisione, si parlerà ancora con maggior precisione più oltre.

II. - II giorno del Signore nello stato primordiale dell'uomo.

Il giorno del riposo ha ricevuto dalla Rivelazione un carattere religioso; è diventato il « Giorno del Signore ». Come tale, esso ha attraversato ima storia che noi vogliamo a gran tratti raccontare.

L'Antico Testamento ha parlato spesso e ih forma assai incisiva del « sabato ». Lo ha santificato per mezzo d'un severo comandamento ed ha regolato la sua esecuzione con un complesso di leggi assai particola-reggiate. Questa legislazione ha già tutta una storia dietro di sé, la quale non viene precisamente raccontata, ma può e deve essere desunta da quello che i primi capitoli della Genesi dicono circa lo stato originario dell'uomo, cioè circa il Paradiso terrestre. Là risulta che il giorno sacro sta in stretto rapporto con l'essenza dell'uomo.

Quando il pensiero cristiano s'interroga sul Paradiso terrestre, lo fa non al modo come si parla del mito dell'età dell'oro o della fiaba del paese dei balocchi. Cerca di comprendere, sulla base della Rivelazione, quale forma vi assumesse l'esistenza umana prima che la ribellione contro Dio compisse la sua devasta-

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zione. Si può affermare che in questo modo il pensiero si sforza di capire l'idea che Dio ha dell'uomo e della sua esistenza. Tale idea ha una funzione indispensabile in ordine alla comprensione dell'uomo come è ora. L'interpretazione corrente parte dalla tesi che l'uomo deve essere compreso sulla base degli stessi presupposti degli altri esseri; che la sua struttura è, sì, più complicata ed ha una più lunga storia dietro di sé, ma che in ultima analisi e radicalmente si può far derivare, come tutti gli altri esseri, dalla natura universale. Ma, nonostante l'esattezza di molti particolari, il risultato complessivo mostra che questa tesi è falsa. L'osservatore che si è conservato lo sguardo limpido non ammetterà mai d'essere quella cosa che gli viene indicata dal modello dell'uomo dell'antropologia naturalistica. Giacché, dietro l'uomo come è oggi, sta anzitutto lo spirito il quale non può essere mai derivato da una natura. Ma poi quest'essere caratterizzato dallo spirito e chiamato « uomo » ha, prima di entrare nella storia diretta in corso oggi, un'altra storia anteriore dietro di sé. Essa non si potrà certo documentare con tombe e resti archeologici;, però uno studio vero e penetrante del suo stato personale e sociale urta in elementi i quali dicono che l'uomo, come già ce lo mostrano le fasi storiche più antiche da noi raggiungibili, ha già vissuto un'altra storia, la quale non ha soltanto il carattere della caducità e temporaneità, ma quello della perdizione. Questa « meta-storia » viene in luce per la prima volta solo con la Rivelazione, là dove essa descrive in quale condizione si trovasse l'uomo nell'origine. Ciò che è inteso dal concetto biblico dell'Eden, è questa condizione.

L'uomo è creato come immagine di Dio. Alla domanda in che cosa consista questa divina somiglianzà, l'An-

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tico Testamento non da risposte teoretiche, ma dice che l'uomo è simile a Dio perché può esercitare dominio sul mondo (Gen. 1, 26). Tale dominio non è sovrano ma concesso: l'uomo domina come rappresentante di Dio. Questo si esprime, fra l'altro, nella divisione del tempo che viene impartita all'attività umana. Il primo e secondo capitolo della Genesi — un poema didattico che non ha niente a che fare con i problemi scientifici dell'origine del mondo e della vita, ma che svolge idee unicamente religiose — dicono nella forma d'un'immagine che Dio, come un grande architetto, ha compiuto l'opera della sua creazione in sei giorni, e che al settimo ha riposato. Allo stesso modo l'uomo doveva aver cura per sei giorni del giardino dell'Eden, che vuoi dire del mondo esistente nella pace della grazia e nell'amore di Dio, ma al settimo giorno doveva riposarsi. In tal modo il ritmo di cui abbiamo parlato, la legge della settimana, viene radicato nei fondamenti della creazione. Esso appare da una parte come una legge di natura che emerge dall'essenza della vita da Dio creata; ma dall'altra anche come una legge religiosa che subor-diria l'esercizio del dominio da parte dell'uomo alla volontà dell'autentico Signore.

Nello stato originario, il riposo del settimo giorno significa dunque qualcosa di diverso dall'ordine proprio dell'Antico Testamento. Là il lavoro non è ancora un gioco come qui. Ciò che l'uomo fa nei sei giorni di lavoro è esercizio di dominio; d'un dominio che sta nell'accordo con la volontà di Dio e perciò anche con le leggi della natura. Egli compie la sua opera con la gloria del creare e in mezzo a cose e a energie che si adeguano facilmente alla sua volontà1. La

1 Per avere un'idea di ciò che questo significa basta solo ren-207

esistenza nel Paradiso terrestre non era ne quella d'un bambino che gioca, ne quella d'un beniamino delle fate. L'uomo doveva creare una cultura la cui ricchezza e la cui grandezza è per noi inimmaginabile; e partendo da una natura che armonizzava con la sua volontà, perché egli stesso era in armonia con la volontà di Dio.

Non aveva in tal modo nessun bisogno di quella liberazione dal giogo del lavoro cui aspiriamo noi.

Il giorno del Signore gli apportava anzitutto quella regolare rinnovazione delle sue energie di cui si è parlato. A prescindere da ciò il giorno del Signore lo invitava a deporre la corona del suo dominio davanti a Dio. Nasceva un silenzio, un respiro grande e solenne in cui si innalzava la maestà del vero Signore. Il sabato primordiale era il giorno in cui l'uomo diceva a Dio: « Non io sono il Signore, ma Tu. Ciò che io ho fatto non è la mia opera autonoma, ma un servizio della Tua ». Il contenuto del sabato primordiale era adorazione e giubilo, verità e sacra bellezza. Così il ritmo della settimana aveva un carattere del tutto diverso da quello che ebbe poi: quello che sta fra il dominio e l'adorazione; fra l'elaborazione crea-trice del mondo e la sua offerta a Dio.

Il Paradiso terrestre non ha niente a che vedere con le interpretazioni storico-filosofiche e psicologiche con le quali l'età moderna ne distrugge l'essenza, e non parliamo delle sozzure con cui una sedicente arte e letteratura lo macchiano. Il Paradiso terrestre era

dersi conto quanto inutile fatica verrebbe eliminata se nella nostra situazione attuale sparisse il male con tutte le sue conseguenze individuali, collettive, presenti ed ereditarle, senza parlare degli ostacoli che le cose, mosse dall'inconscio, oppongono all'agire dell'uomo.

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uno stato pieno di vita, di serietà, di gioia e di nobiltà. Non riusciremo mai a pensare il primo uomo grande abbastanza; raggiante della potenza che Dio gli aveva donato sulle sue creature. Ma egli non era un essere naturale, bensì persona con tutta la responsabilità d'una persona. Perciò egli non poteva semplicemente esserci e lasciarsi vivere, ma doveva decidere se volere usare del suo dominio secondo la sua verità, ossia in obbedienza al vero Signore, oppure in contrasto con Lui.

In che cosa consistesse la prova, che cosa volesse dire propriamente l'albero della conoscenza, non possiamo qui discutere 2. In ogni caso tutti i tendenziosi simbolismi che cercano di intenderlo come un'espressione della maturità della volontà, della libertà della conoscenza, della maturità sessuale, eccetera, sono falsi. L'albero non era altro che un segno della sovranità di Dio a riguardo della quale l'uomo doveva decidere. L'uomo doveva realizzare ogni « conoscenza del bene e del male », dunque ogni forma e ogni misura della sua propria espansione, ma nell'obbedienza verso Colui che era semplicemente il Bene, anzi il Santo, e che l'aveva fatto suo proprio rappresentante. Ma l'uomo non ha obbedito. Ha voluto dominare nel modo che appartiene solo a Dio. Perciò Jna perduto la propria superiorità e l'ordine della vita è stato così sconvolto.

III. - II giorno del Signore nell'Antico Testamento.

Comparve allora ciò che l'Antico Testamento chiama il « lavoro ». Prima esso era l'uso del dominio, com-

2 Cfr. in proposito R. guardimi, Der Anfang aller Dinge, Wùrzburg 1961.

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piuto con energie delle quali noi non abbiamo più l'idea, in un rapporto con la natura che ci è altrettanto inafferrabile e che nella nostra immaginazione degrada continuamente nel mito o nella fiaba: era un regnare e un creare in una regale libertà, benedetto dalla pienezza della riuscita. Ora tutto muta, e comincia il lavoro come lo conosciamo. Quali siano le forze di ricerca, di realizzazione, di coraggio e di rinuncia che lo sostengono, non occorre qui esporre. Basta solo ricordarlo, affinchè ciò che segue non finisca con l'assumere la forma del pessimismo. Ma all'essenza del lavoro umano appartengono elementi e aspetti su cui il culto del lavoro dell'età moderna volentieri sorvola.

Anzitutto vi inerisce un che di anti-libero. Il lavoro è un giogo. Nella Genesi si legge: « Perciò la terra sarà a causa tua maledetta. Con fatica ne trarrai il nutrimento tutti i giorni della tua vita. Spini e cardi ti germoglierà e tu mangerai l'erba dei campi. Con il sudore della tua fronte mangerai il pane, finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto. Infatti sei polvere e in polvere ritornerai » (3, 17-19), L'antichità ha sentito fortemente questo carattere. Per essa il lavoro era un peso e una vergogna. L'uomo autentico, libero, non lavorava. Egli foggiava la sua personalità, viveva la vita dello Stato, faceva la guerra e godeva. Il lavoro egli lo imponeva agli schiavi, nella mira di liberarsi così dal giogo. In realtà era il tentativo di esimersi dal comune destino umano, ma il tentativo si ripercuoteva su di lui; giacché insorgeva da esso quella altera pretesa all'eccezione, quella durezza e freddezza di sentimento che — con tutta la sua cultura, saggezza e nobiltà — sono tipiche dell'uomo dell'antichità classica.

L'uomo cristiano ha altri sentimenti. Alla scuola della

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Rivelazione, egli ha scoperto Yethos del lavoro e onora il lavoro. Ma nell'età moderna egli è largamente caduto — esasperando assurdamente questo insegnamento — in balìa del lavoro e ne ha fatto una religione. Lo ha avvolto di convenzioni sleali di cui nulla sapeva l'antichità. Queste convenzioni hanno cioè coperto l'aspetto penitenziale che esiste in ogni lavoro, giacché il lavoro è anche questo: espiazione per la ribellione dell'uomo contro il Signore del mondo. Egli ha convertito il lavoro in un elemento fondamentale dell'esistenza; lo ha celebrato e divinizzato, e il lavoro fu inserito così in una luce ambigua in cui non si riuscì più a distinguere fra il vero e il falso. Divenne allora facile forzare con menzogne l'uomo a immergersi in ogni loro lavoro servile; ed è nata così una schiavitù dell'uomo lavoratore più profonda e più rigorosa di quella dell'antichità.

Gli ultimi decenni che si trovano « in mezzo ai tempi », hanno smascherato, insieme con altri, \ anche quest'inganno. L'uomo che ha sperimentato il lavoro forzato degli Stati totalitari sa quanto falsa fosse la teoria del lavoro come fondamento di tutti i valori. Ma anche la mente di chi è rimasto politicamente libero si è illimpidita. Egli sente che il lavoro non è affatto quel valore che tutto integra come pensava l'età moderna; sa che nel lavoro c'è qualcosa che non è in ordine, che esso, anche in regime democratico, si esegue inevitabilmente a spese della libertà, perché esiste nel lavoro come tale una logica della costrizione. Giacché, quale differenza c'è in fondo fra le terribili fatiche che dovevano sopportare uomini, donne e bambini nella libera Inghilterra durante. la prima fase — una ben lunga fase — dell'industrializzazione, e le fatiche a cui gli imprenditori romani obbligavano gli schiavi nella costruzione

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del sistema di canalizzazione di Roma? E come stanno le cose con la tanto conclamata intraprendenza dei managers dei nostri giorni? Da che cosa dipende? Semplicemente dall'ambizione, dal dinamismo e dalla sete di guadagno propri d'una educazione eticamente manchevole? Non c'è forse una linea continua che da certi vistosi esempi al limite conduce al modo in cui deve lavorare chiunque è impiegato nell'economia e nell'industria, se vuole non solo conservare il proprio posto ma avanzare in una carriera? Questa sti-.;

molazione o pungolamento viene a tutti imposto dal carattere d'un contesto tecnico-economico di lavoro, che non è più regolato dall'uomo stesso, ma che si svolge sotto la ferrea legge d'una sua propria logica oggetti va.

Ma il passo citato della Genesi esprime anche il secondo aspetto che oscura il lavoro: una estrema inutilità. Nessun inno al progresso e alla cultura elimina dal mondo la realtà di fatto che lo sforzo dell'uomo — un'altra volta visto in chiarezza e nella sua totalità — sta legato a una intima infecondità. Si consideri quale capitale di qualità, di energia, di fatica e di sacrificio l'uomo ha speso per conoscere la natura, conquistarla, plasmarla, e si misurino al paragone i veri risultati; si misuri soprattutto al paragone quanta fame, quante malattie, quanta miseria e barbarie imperversano ancora, sulla terra. Allora non sarà più così facile affermare che lavoro e risultato stanno in regolare rapporto 3. E le stesse grandi e splendide

3 Si farà bene a rendersi conto che la percezione di queste realtà storiche è guastata dalle teorie che dominano oggi circa l'uomo e la sua storia. Esse dicono che al principio c'è un'esistenza umana che non si distingue affatto da quella animale, ma che è esposta a tutte le forme di bisogno, di

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opere dell'uomo davanti a cui l'osservatore resta a bocca aperta, che cosa hanno costato? Non soltanto di mezzi, ma di energie umane, di fatiche, di privazioni? Se noi al pensiero dei templi, delle piramidi, dei castelli, dei canali, delle fabbriche industriali pensiamo insieme anche tutta l'oppressione degli inermi che la loro costruzione ha richiesta, le privazioni dei miseri con le quali tutte queste imprese sono state pagate, comprendiamo meglio che cosa significhino gli « spini » e i « cardi » della Genesi. Le correnti concezioni storiche valutano il corso del destino umano e dell'opera umana dal punto di vista della riuscita. Esse tracciano la linea della vicenda da un punto culminante all'altro. Ma bisognerebbe integrare questo metodo inoltre con la esposizione dei fallimenti: la storia di tutto ciò che già nel suo germe venne distrutto; di ciò che non ha potuto essere portato a termine; di ciò di cui, pur portato a termine, si è abusato e fatto spreco; e ancora tutte le devastazioni

pericolo, di danno. In seguito inizia una penosa ascesa, durante tempi lunghissimi, che nei vari gruppi della popolazione terrestre procede fra condizioni spesso assai sfavorevoli e che subisce ogni specie di contraccolpi in regresso. Si ha così la formula che spiega apparentemente ogni disarmonia fra gli sforzi umani e i loro risultati, che anzi autorizza all'esaltazione di tali risultati. Ma queste teorie sono false. L'inizio della storia non suppone un'esistenza animale appena superata, ma una storia già avvenuta: la ribellione contro Dio e lo stato di sconvolgimento dell'essere umano che ne è conseguito. (In che modo sia da intendere questo fatto in senso biogenetico è una questione a sé, che qui non possiamo discutere). Occorre un lungo sforzo per vedere quanto il naturalismo moderno e la sua antivalenza, l'idealismo, abbiano contraffatto fino alle radici ultime, l'intelligenza dell'esistenza umana.

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assurde, le disperazioni, le irrimediabili catastrofi4. Soltanto allora avremmo l'immagine esatta di un lavoro così incomprensibilmente idolatrato. Anche su questo punto l'antichità era più leale di noi. Non ha parlato troppo di progresso e di cultura; in ogni caso non più che della transitorietà e del peso dell'esistenza.

Ora il giorno del Signore assume un carattere nuovo:

quello che s'incontra nell'Antico Testamento. Diventa quel giorno in cui l'uomo può respirare e liberarsi dal giogo del lavoro; può dimenticare l'inutilità del suo sforzo e semplicemente vivere, sicuro che Dio ha cura di lui.

E si rivela la profonda umanità dell'antico ordine di vita nel fatto che non solo il libero, ma anche lo schiavo viene incluso in questo riposo, non soltanto l'uomo ma anche l'animale. Tutti dovevano sentire lo stato in cui li aveva collocati la colpa comune;

ma inoltre tutti dovevano vivere il sabato come giorno della liberazione. Quale saggezza e quale bontà parlano da sentenze quali: « Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavorerai sei giorni e farai tutto il tuo lavoro, ma il settimo giorno è il giorno di riposo per il Signore, tuo Dio. Non fare in esso

4 Si veda a questo riguardo l'inquietante libro di josuè de castro, Géographie de la faim, Paris 1949. La sua introduzione comincia così: « L'oggetto di questo libro è piuttosto scabroso, anzi pericoloso. Lo è fino al punto che la nostra civilizzazione lo ha dichiarato tabù ». Perciò è compromettente parlarne, a tal punto che « la bibliografia sul tema della fame è d'una incredibile scarsezza, quando il nostro tempo offre a chi vuole scrivere e pubblicare ogni possibilità ». Ciò si riferisce alla storia presente, la quale, senza contare la preistoria, ripercorre un passato culturale di oltre cinque millenni.

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lavoro alcuno, ne tu, ne il tuo figlio, ne la tua famiglia, ne il tuo servo, ne la tua serva, ne il tuo bestiame, ne il forestiero che è dentro le tue porte, poiché in sei giorni il Signore fece il cielo e la terra, il mare e tutto quello che è in essi, ma il settimo giorno riposò. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e l'ha santificato » (Ex. 20, 8-11). E ancora; « In sei giorni farai il tuo lavoro, ma il settimo giorno cesserai, affinchè possano riposarsi il tuo bue e il tuo asino e possano riprendere fiato il figlio della sua serva e il forestiero » (ibid. 32, 12)5. Che cosa è dunque il sabato? Anzitutto il giorno del riposo, senza cui l'uomo diviene disumano, per creativo e avanzato nella civiltà che egli sia. Ma Dio si fa garante che, nonostante questo riposo, l'uomo avrà ciò di cui la sua vita ha bisogno.

Inoltre è il giorno di cui l'uomo diviene consapevole della sua dignità: che egli nonostante tutto è creatura di Dio; immagine di Dio e da Dio conservato in vista della futura redenzione.

Infine è quel giorno in cui l'uomo deve pensare & Dio in modo speciale, dato che negli altri giorni le preoccupazioni dell'esistenza glielo fanno così facilmente dimenticare.

5 L'idea del giorno della sacra libertà è profonda al punto che si sviluppa nel comandamento dell'anno sabbatico: « Per sei anni tu devi seminare il tuo campo e mietere i tuoi frutti; ma nel settimo tu devi lasciarlo intatto. I poveri del tuo popolo devono nutrirsi di esso, e ciò che ne rimane devono mangiarlo gli animali selvatici. Lo stesso tu devi fare con la tua vigna e con il tuo olivete » (Ex. 23, 10-11). L'idea è d'una magnanimità e d'una saggezza sublimi, anche se — si vorrebbe quasi dire: evidentemente — non sia stata eseguita.

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IV. - II giorno del Signore nel Nuovo Testamento.

Come si configura il giorno del Signore nell'ordine cristiano? Il Figlio dell'eterno Padre, obbediente alla Sua volontà, si è fatto uomo. Uno di noi, « eguale a noi in tutto ». Egli ha assunto il mondo nella sua esistenza. Senza peccato quanto a Sé, si è esposto alla condizione che viene dal peccato e l'ha sofferta in Sé in tutto e per tutto. Dal fondo di quest'esistenza. Egli ha amato il Padre con amore perfetto e con questo a-more ha riconvertito a Dio il mondo che, per citare un'idea di Agostino, « precipita via da Dio verso il nulla ». Ciò che in questo mondo si è operato nello spirito, nel cuore e nell'amore di Gesù, è la salvezza essenziale, ipso facto data con l'esistenza dell'Uomo-Dio. Invece la forma storica che essa deve raggiungere, dipende dal modo in cui gli uomini riceveranno l'inviato di Dio. Conforme al loro comportamento, Egli andrà incontro alla volontà del Padre. Gesù non ha fatto nulla per influenzare la presa di posizione dell'uomo, niente che andasse oltre la pura predicazione della verità di Dio, la dimostrazione del Suo amore, l'irradiazione della Sua santità. Niente di violento, di suggestionante, di tattico o di astuto. Egli si è mantenuto disposto a tutto ciò che da parte degli avvenimenti dell'ora a Lui s'imponeva. Ciò che avvenne fu il rifiuto dell'uomo.

Il popolo dell'A'llean2a avrebbe dovuto accoglierlo;

allora la redenzione si sarebbe verificata nella fede e nell'amore degli uomini. Sarebbe un valutare troppo meschinamente tutto ciò che significò l'infinito dolore intcriore di Gesù nell'esperienza del mondo diviso da Dio se si pensasse che non sarebbe sufficiente ad espiare il peccato del mondo. Ma gli uomini « non

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10 hanno accolto » (Io. 1, 11). Essi Gli hanno negato la fede, si sono a Lui opposti, ed Egli ha accettato allora il destino che ne conseguiva. Perciò Egli è morto, e la morte divenne la forma definitiva in cui si è compiuta la redenzione. Egli fu poi deposto nella tomba, ma al terzo giorno, il giorno dopo il sabato pasquale, risorse dai morti.

Cristo ha fondato la nuova esistenza. Con Lui comincia l'esistenza cristiana. Essa consiste nella partecipazione al suo rapporto con il Padre; nella partecipazione, in virtù della grazia, alla sua conoscenza, al suo amore e alla sua obbedì enza.

Questa azione salvatrice di Cristo trova il suo segno memoriale nella struttura della settimana. Per un tempo piuttosto lungo, il sabato rimane valido come giorno di riposo; ma accanto ad esso si afferma, « come primo dopo il sabato », quel giorno in cui si celebra la memoria della resurrezione. Poi i due significati vengono a coincidere. Nasce il « Giorno del Signore », del Salvatore glorificato, come noi oggi lo conosciamo, e costituisce, secondo l'ordine liturgico,

11 primo giorno della settimana cristiana, dopo il quale i seguenti vengono contati come secondo, terzo, quarto, eccetera.

Il momento del riposo, il respiro dal peso del lavoro e la libertà per Dio sono rimasti. Ma vi si è aggiunto qualcosa di nuovo: la domenica è divenuta il ricordo della resurrezione di Cristo. Come solennità liturgica esplicita questa memoria viene celebrata con la Pasqua, la prima domenica dopo la luna piena di primavera. Il suo contenuto forma, se ben compreso, la quintessenza della fede cristiana: la vittoria dell'amore di Dio sul peccato e sulla morte e, in questa vittoria, la rivelazione di che cosa è Dio. In tal modo la Pasqua è, in senso assoluto, la festa cristiana. Essa

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percorre l'anno intero in quanto ritorna in ogni domenica. Ogni domenica è Pasqua.

Con la redenzione anche il lavoro assume però un carattere nuovo. I suoi compiti naturali rimangono, e rimane anche ciò che dobbiamo sopportare come conseguenza del peccato originale. Ma ci viene manifestato il mistero della Provvidenza, la quale fa di tutto ciò che ci avviene, un elemento componente del grande processo della rigenerazione. Perciò il lavoro non è più quel!'affannarsi per la vita e per l'opera su cui grava la maledizione, ma anche la forma in cui, giorno dopo giorno, attraverso ogni attività e ogni fatica, matura l'uomo plasmato secondo il modello di Cristo. In tal modo il lavoro acquista una ricchezza di valore, una dignità e una fiducia nuove;

e una nuova gioia, ulteriore e superiore a quella che nasce dall'uso delle nostre forze, dalla sottomissione del mondo, dalla riuscita dell'opera. È la gioia per il formarsi del « ciclo nuovo e della terra nuova » di cui parla l'Apocalisse e, prima ancora, l'ottavo capitolo della lettera Ai Romani: ossia la gioia per la creazione rigenerata dalla redenzione e dalla fede.

Nel giorno del Signore, il cristiano si libera dal lavoro e in questa libertà deve farsi più consapevole della sua esistenza redenta. Perciò l'importanza di questo giorno è tanto grande. Se il credente non lo vive più in conformità al suo significato, la realtà che passa sommerge la sua coscienza dell'eterno: la coscienza di Dio, ma anche della sua propria più profonda essenza. Giacché egli non deve credere soltanto a Dio, ma anche a ciò che egli stesso è in forza della redenzione. Questa sua essenza viene di continuo coperta dalla vita quotidiana: immeschinita dalle sue debolezze, intorbidita dai suoi errori, compromessa nella

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sua dignità dal male. Alla domenica invece il sapete del cristiano circa la sua propria essenza deve approfondirsi e consolidarsi in modo sempre rinnovato. Se la domenica non suscita più in lui i suoi richiami, quel sapere sparisce dalla coscienza.

L'esperienza lo dimostra. Già il credente è di continuo tentato, e per i più vari motivi, a fare del giorno sacro un giorno di lavoro; tanto più ciò vale per l'uomo religiosamente indefinito o indifferente. Imprenditori e mercanti, contadini e operai dichiarano che la produzione ha bisogno della domenica e che i clienti dovrebbero poter fare acquisti anche di domenica. Circa le insidie speciali insorgenti dalla situazione tecnica del nostro tempo si parlerà più oltre ancora e con maggior precisione. Da molte parti si preme aftinché la domenica venga economicamente "utilizzata, e la regola cristiana appare così come un assurdo, spreco. Ma tutto ciò rivela anzitutto una grande miopia; .giacché, se la domenica è quel giorno che la considerazione dei ritmi della vita naturale ha indicato, quel giudizio è falso. Con il lavoro continuato va perduta quella che è stata definita « la pausa creatrice », lo sciogliersi e il distendersi inferiore, e la vita come la produzione ne risentono. Ma dietro questo falso calcolo sta il calcolo maligno: l'istinto dell'uomo ostile alla fede sa che, se si riesce a sradicare la domenica, l'uomo perde l'ancora religiosa ed è così esposto a cadere in balìa dei poteri economici e politici.

V. - II giorno del Signore nell'eternità.

La teologia degli ultimi decenni si è fatta attenta circa un elemento dell'esistenza cristiana, che prima non veniva certo negato, ma che era scarsamente con-

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siderato, cioè la dimensione escatologica. Gli ^arct — le « ultime cose » : morte, resurrezione, giudizio ed eternità — erano stati per lungo tempo visti unicamente come conclusione della vita e del mondo, conclusione di cui si doveva parlare in determinate situazioni. Ma ora si è riconosciuto che essi non stan-. no semplicemente alla fine, bensì che, come è sempre il caso di ogni conclusione viva, incidono su tutto il percorso della realtà anteriore;, che non si compie dapprima l'esistenza terrena e poi viene la morte, e che dopo di questa comincia l'eternità, ma che già adesso, nel tempo, v'è l'eternità.

Questa invero non costituisce una sfera arcana, in cui l'uomo entri dopo la morte, come pure il tempo non è un alveo preesistente, in cui poi scorra la sua vita terrena. Ma il « tempo » è lo stato in cui si trova la vita storica o correlativamente lo stato che la vita crea; l'« eternità » invece è il modo secondo cui Dio vive, e nel quale la sua grazia immette l'uomo. Nella misura in cui questi, credendo e agendo, realizza ciò, già si sviluppa in lui l'eternità. Già durante la vita terrena si forma in lui quell'uomo che un giorno egli dovrà essere. Paolo ha più di tutti annunciato questa verità. Egli ha parlato in un modo penetrante e consolante del modo in cui nell'uomo credente viene generata la nuova vita che cresce verso l'eternità:

« Ignorate forse che quanti siamo stati battezzati in . Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Mediante il battesimo nella sua morte siamo stati seppelliti con lui affinchè, come Cristo risuscitò dai morti per la gloria del Padre, così anche noi vivessimo di vita nuova» (Rom. 6, 3-4). E: « Noi tutti, che a viso scoperto riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine, di gloria in gloria, come dallo Spirito del Si-

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gnore » (2 Cor. 3, 18). E ancora: « Per questo non ci perdiamo d'animo, ma anche se il nostro uomo esteriore va deperendo, quello interiore però si rinnova di giorno in giorno. Difatti il momentaneo e leggero peso della nostra tribolazione ci procura un infinitamente maggior peso di gloria, perché noi non miriamo alle cose visibili ma a quelle invisibili: le visibili infatti sono temporanee, le invisibili eterne (...), di modo che se uno è in Cristo, è una creatura nuova:

le cose vecchie sono passate, ecco che sono sorte cose nuove » (2 Cor. 4, 16-18 e 5, 17). Secondo questo insegnamento, l'esistenza del cristiano sta nel tempo, ma porta già in sé l'eternità. Questo vale anche per il giorno del Signore. Esso addita dietro di sé e dice:

Cristo è risorto, e nella sua resurrezione si è compiuta la redenzione. Ma esso addita anche avanti a sé e dice: nella resurrezione di Cristo è stata fondata anche la nostra e quella del mondo; tutto ciò che, attraverso la catastrofe e il giudizio, deve divenire « eterno ». Poiché neppure il mondo delle cose è semplicemente « natura », in modo che solo dopoché il loro tempo si sia compiuto, debbano seguire la fine e il giudizio, e dopo tutto questo si innalzi ciò che Giovanni chiama « il ciclo nuovo e la terra nuova ». Questo mondo nuovo invece è già fin d'ora in formazione, all'interno del vecchio. Nel capitolo Vili della lettera Ai Romani, Paolo scrive: « Poiché io stimo che le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili con la gloria che sarà per noi manifestata. Infatti la creazione aspetta con ansia la manifestazione dei figli di Dio, perché, se la creazione fu sottoposta alla vanità non di sua volontà, ma a causa di colui che ve la sottopose, fu però nella speranza, perché la creazione stessa sarà liberata dalla servitù della corruzione, per avere parte alla libertà della gloria dei figli

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di Dio ». Nel?'Apocalisse infine si legge: « Ed io vidi un cielo nuovo e una terra nuova. Poiché il delo primo e la terra prima erano passate, e il mare (antico) non è più» (21, 1).

Si apre così lo sguardo verso il giorno del Signore dell'eternità. Come tutto ciò che appartiene all'eternità, esso è un mistero; tuttavia è possibile, con re-verenza e con cautela, asserire qualcosa di esso.

Gli ultimi capitoli dell''Apocalisse parlano del mondo risorto: del cielo nuovo e della nuova terra, e dell'uomo in essi. Tale stato si esprime con l'immagine della Gerusalemme nuova; della santa città che sale dalla terra, risultato della sua lunga storia; ma che insieme, anzi prima, « discende », come un dono e una grazia (21, 1-2); « formatasi dall'alto », « nata da Dio », come dice il Vangelo di Giovanni (8, 23-47). Questa Gerusalemme nuova viene descritta in un modo che supera ogni umana visione: è lunga quanto larga ed alta, dunque un cubo; ma simultaneamente una « città » con strade e piazze, e il « fiume di Dio » la attraversa. È dura come un diamante, ma è nello stesso tempo « la sposa », che nella sua trasfigurata bellezza va incontro all'« Agnello ». Il mondo nella sua pienezza, ma generato nuovo da Dio (21, 5), e proprio per questo divenuto del tutto se stesso (21, 10-22).

Questo mondo non si trova più nella condizione della storia, ma in quella dell'eternità. Non può più dire a Dio sì ed anche no, ma soltanto sì. Ciò che dice no è «fuori», reietto ed eliminato (22,, 15). La libertà è completa;, non più la possibilità, data con la storia, di scegliere fra il bene e il male, ma un puro risolversi nel bene. Nel nuovo mondo non c'è più il velame delle cose terrene. Le relazioni non vanno più,

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come qui, da una chiusa segretezza a un'altra, ma tutto è aperto e manifesto. Ognuno è congiunto con o-gni altro nell'unità dell'identico amore, e ognuno vive in ogni altro per il fatto che, come dice la prima lettera Ai Corinti, « Dio è tutto in tutto » (15, 28). Di questa santa città ci si dice che non ha più templi (21, 22). Non c'è più bisogno di templi e non possono neppure più esistere i templi. Il tempio c'è sulla terra; l'edificio di legno e di pietra, come luogo che la religiosità ha riserbato per le realtà sacre. Qui il tempio può esserci, perché le cose stanno disposte e distinte nello spazio, e c'è bisogno del tempio, perché in questo mondo ci sono anche i luoghi profani, anzi dissacrati. Ma quando la « realtà prima » e la sua ingiustizia è « passata », quando Dio « ha fatto tutto nuovo » (21, 4-5) ed Egli è « tutto in tutto », allora non può più essere! un tempio particolare, perché tutto è « tempio ».

Non si potrà anche dire, in corrispondenza, che non ci sarà più neppure uno speciale giorno sacro? Esso aveva significato finché il ritmo della vita avanzava nel tempo; allora ai giorni del servizio per il mondo poteva seguire ogni volta il giorno sacro in cui esprimere l'apertura umana a Dio. E l'uomo aveva bisogno di esso perché senza questo giorno riservato, difeso da divini comandamenti e da ordini sociali, l'esistenza mondana avrebbe inghiottito l'uomo. Ma ora c'è l'eternità, puro essere della creatura in Dio; perciò un giorno del Signore distinto dai giorni dell'uomo non avrebbe più ne senso, ne possibilità. Come il « tempio » si è fatto identico con la spazia'lità della creazione assunta nell'eternità, così il « giorno del Signore » è divenuto identico con la sua temporalità assunta nell'eterno.

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VI. - II giorno del Signore e l'uomo moderno.

Noi abbiamo tentato nelle pagine precedenti una teologia della domenica. Dobbiamo ora parlare dei problemi psicologici e sociologici ad essa connessi.

Si potrebbe opinare che in vista di ciò fosse superfluo quanto è stato detto. Ma chi ha capito qualcosa dell'essenza delle realtà vive, sa che esse sono costruite non solo dal basso verso l'alto, bensì anche — anzi in modo decisivo — dall'alto verso il basso. È cominciata, per esempio, una fase tutta nuova e altamente feconda di ricerca sull'uomo e sulle sue malattie, quando si riconobbe fino a qual punto la sua salute e la sua malattia dipenda dallo stato della sua psiche e del suo spirito. Era perciò importante riflettere che cosa sia la domenica sulla base della Rivelazione, prima di poterci domandare in che rapporto essa stia con i problemi attuali del lavoro del nostro tempo: un tempo in cui il « giorno del Signore » è divenuto sempre più la « fine settimana », o addirittura il « tempo libero »; destinato a che le forze del lavoratore si rinnovino in esso e le sue necessità umane e culturali siano soddisfatte.

Ora noi dobbiamo entrare nella considerazione dei problemi che insorgono quando l'idea del giorno del Signore diviene norma obbligante. Questa norma ha due aspetti.

Primo: un aspetto individuale. Essa esige dal credente che egli non lavori in uno dei sette giorni della settimana. Ma il « lavoro », come vedemmo, non è soltanto « peso » da portare per le necessità della vita, ma è anche « opera » e dunque qualcosa che interessa l'uomo, suscita la sua forza indagativa e crea-trice e porta perciò un carattere positivo; senza con-

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tare che il lavoro arreca guadagno e potenza ed eleva così il livello economico-sociale.

Chi non lavora rinuncia quindi al risultato che viene dal lavoro. Le sue entrate e perciò la sua sicurezza economica, come pure le sue possibilità di godere la vita diminuiscono. Egli rinuncia inoltre all'elemento della prestazione e della creazione che intensifica la .vita, per riposare. Il riposo è un valore immediatamente sentito dall'uomo stanco: egli sente che le tensioni si sciolgono, che le forze si rifanno, che il rapporto con l'esistenza ritorna aperto e gioioso. Ma il riposo è anche un disvalore nel senso che chi riposa •non ha appunto nulla da fare. Questa impressione è tanto più deprimente quanto più l'uomo in questione è attivo, ed è diventata del tutto intollerabile da quando l'attivismo moderno ha distrutto la capacità d'essere tranquillamente con se stessi. Vuoto, noia, impazienza sono le pericolose conseguenze. L'antipuritanesimo anglosassone è una prova di quanto esse possano divenire fatali.

Se poi si risponde che la giornata domenicale ha pure i suoi aspetti allegri — ci si occupa di cose belle, si sta in compagnia, ci si diverte, e via dicendo — uno sguardo alla realtà dimostra come ben presto il riposo ristoratore ed allietante si trasformi in un'« impresa » a rovescio. Senza dire del lavoro follemente pungolato cui debbono sobbarcarsi gli addetti all'indù-^ stria del divertimento 6.

e Se si vuole proprio ragionare socialmente, bisogna considerare non soltanto quelli che escono in automobile dalle città, che mangiano e che bevono, che si godono i vari spettacoli, .ma anche i molti che devono tormentarsi per tutto ciò. E da non dimenticare in proposito che costoro esperiscono nel loro .pubblico l'uomo non proprio dal suo lato migliore, ma in uno stato di dissipazione, di sensualità e di scontentezza. Ogni

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La norma della domenica ha un secondo aspetto: quello di avere non solo un'importanza individuale ma anche sociale. Non soltanto il singolo ma anche la comunità deve riposare. Il riposo deve diventare uno stato di distensione e di libertà che avvolge l'individuo e che dona alla sua vita un altro carattere. Anzi, uno stato di solennità ufficiale che viene incontro all'individuo come un compito, in quanto la realtà comunitaria come tale onora Dio.

Ma di qui sorgono nuovi problemi. Anzitutto problemi in cui quanto è stato or ora detto si traduce in dimensione sociale. Non appena l'atteggiamento spirituale d'un villaggio, d'una città, d'un territorio non è più capace di autentico riposo e sente questo riposo solo in forma negativa, come assenza di attività che non eccita il suo interesse, insorgono tensioni inferiori, quali quelle che si mostrano ora nelle società puritane: noia collettiva e, nascente da questa, collettiva opposizione; ipocrisia e una intossicazione insinuante che può sfogarsi nelle forme passionali più preoccupanti.

Insorge di qui la vivissima questione che cosa l'uomo moderno — soprattutto quello che non ha più convinzioni religiose e a cui mancano i significati che ne conseguono e gli atti religiosi del culto che riempiono il tempo domenicale — che cosa farà quest'uomo

servizio che venga offerto all'uomo, perché la sua fatica venga giustificata, deve avere un senso genuino. Ora c'è gran motivo di dubitare che i superaffaticati addetti al traffico, gli impiegati nei ristoranti e negli stadi, i suonatori e i comici riescano a sentire nel loro lavoro un senso che vada oltre il guadagno materiale; che tutto il loro agitarsi confuso non generi piuttosto un sentimento di squallore e di disprezzo. Anche questo appartiene al fenomeno e non vi sarà rimediato con il giorno libero che poi si concede loro.

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del tempo libero. Se la questione non trova una risposta autentica, ossia illuminante, traducibile nella realtà dell'uomo medio, il tempo libero non sarà che un tempo vuoto con tutte le conseguenze derivanti. Un tempo di cattivo umore e di dissipazione che si scarica nell'alcool e nel ballo o in uno sport la cui chiassosa eccitazione distrugge ogni elemento del riposo. Senza dire del fatto che lo sport oggi è diventato anch'esso in gran parte una industria. • Perciò la questione in che modo il lavoratore possa avere più tempo libero senza nuocere all'economia cede il passo, anche nelle discussioni serie sulla organizzazione della settimana lavorativa, alla questione che cosa egli debba fare di questo tempo libero che gli si concede, senza che esso debba sfociare in una generale industria del divertimento. E aggiungiamo:

senza che la universale motorizzazione debba distruggere gli ultimi resti di pace e di freschezza della natura.

VII. - L'esigenza d'ella settimana lavorativa « scorrente » (gleiten'd).

Altri problemi sorgono per l'influenza che la domenica, in quanto giorno del riposo ufficialmente garantito, esercita sulla comune vita tecnico-economica.

Nel tempo pretecnico il processo produttivo poteva essere senz'altro interrotto; con la tecnica non è più così. I suoi processi si svolgono in contesti oggetti-vi, che non possono essere interrotti senza che ne nascano perdite considerevoli. Essi si protendono su estensioni di tempo che non possono più essere sintonizzate con i ritmi naturali sopra descritti, ma seguono una loro propria logica. Ciò ha indotto a porsi la questione in che modo la domenica possa essere

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conservata come tempo ufficiale di riposo dal lavoro, senza che debba arrecare all'industria perdite che essa non è in grado di sopportare.

Le rotture, che ne conseguono alla regola della domenica, potrebbero essere considerate come eccezioni più o meno frequenti, sulla regolazione delle quali si dovrebbe cercare un accordo. Tutta diversa sarebbe invece la questione, se il processo produttivo si articolasse in modo che la domenica in quanto norma del riposo scomparisse. Verso questo limite sembra premere l'automazione del lavoro nella tecnica e nell'economia, automazione che si sta affermando in forma sempre più vasta. I costi dei complessi macchinari necessari allo scopo sono così alti, che queste macchine devono lavorare senza sosta se si vuole che siano redditizie.

Ora si potrebbe rispondere che dovrebbe pur essere possibile organizzare il lavoro in modo che la domenica possa restare di regola il giorno del riposo. Si adduce come argomento a favore .il fatto che l'esperienza ha mostrato che la serie continua di sei giorni di lavoro supera la capacità media di prestazione, e che perciò si fanno ovunque sforzi per poterli ridurre a cinque. Anche questo dovrebbe essere fatto in accordo con la regola domenicale nel senso che il fine settimana venga allungato d'un giorno. Il lavoratore a-vrebbe allora a sua disposizione il sabato e la domenica, e perciò tempo in abbondanza per il suo riposo e per la sua cultura. Ciò sarebbe una facilitazione anche per le donne che lavorano, che, oltre al loro normale lavoro, hanno da aggiungere anche quello per la casa e la famiglia.

Ma di qui nasce una nuova e grave difficoltà: ci si domanda cioè, se il lavoratore medio sia in grado di fare dei suoi giorni liberi qualcosa di più che un tempo

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di spreco di denaro e di energìe vitali, o di più che un tempo di vuoto e di noia. Da come stanno le cose tutto ciò risulta discutibile assai, nonostante tutti i tentativi di creare forme corrette di sollievo e di possibilità culturali, così discutibile che molti sono del parere di dover evitare i due giorni di riposo consecutivi.

Deriva di qui il piano della settimana lavorativa «scorrente»: essa dovrebbe constare di cinque giorni, dopodiché dovrebbe seguire un giorno libero, dopo del quale ricominciare la serie dei cinque giorni lavorativi. Ciò significa che dei giorni di riposo risultanti solo uno ogni sette cadrebbe in giorno di domenica. In tal modo scomparirebbe per i lavoratori la domenica come normativo giorno di riposo. E non occorre pensarci tanto per vedere che essa scomparirebbe anche per l'insieme della società, in quanto il suo senso degli ordinamenti resta determinato dal ritmo lavorativo della maggioranza.

È ovvio controreplicare che pure il tempo lavorativo potrebbe essere accorciato in modo che in luogo delle regolari otto ore avesse a durare solo sette. Ciò è in armonia con l'esperienza secondo cui nell'ultima delle otto ore la capacità di lavoro s'attenua fino a un minimum. Contro ciò sta il desiderio dei lavoratori di avere libera non solo l'ultima stanca ora della giornata, ma inoltre anche tutto un giorno libero più frequente, cosicché la conseguenza, anche da questo punto, dovrebbe condurre alla settimana lavorativa « scorrente ».

Ma quando si afferma che in tal modo la domenica come regola non resta compromessa, nel senso che si tratterebbe solo di norme eccezionali che facilitano casi particolarmente difficili, anche la memoria più debole si ricorda dove portino le eccezioni e le re-

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gelazioni per particolari necessità. L'una sì tira dietro l'altra, finché si costituisce una situazione/in cui al legislatore non rimane altro che legalizzarla.

Vi si aggiunge un'altra conseguenza assai notevole. Quando più mèmbri della stessa famiglia lavorano, la settimana scorrente diviene per tutti attuale conforme al genere del loro lavoro. Ma dal momento che questa « settimana » si orienta secondo le esigenze delle varie aziende, si verificherà senz'altro il caso che nella stessa famiglia diverse persone avranno diversi giorni di riposo. Non occorre chissà quale intelligenza per immaginare quale confusione nascerà per un ordine familiare già vacillante per altre ragioni. Non si potrà più parlare d'una comunità del riposo, del sollievo, della festa. La polverizzazione dell'esistenza farà un passo in avanti che non sarà più possibile riequilibrare, e il totalitarismo di Stato da parte sua si sarà avvicinato d'un altro passo decisivo. O la verità non è forse che una inconscia intenzione mira in tutto ciò a disintegrare sempre più la famiglia, affinchè la organizzazione, in definitiva lo Stato, siano gli unici vincoli dell'uomo-massa, ormai svincolato quanto a tutto il resto?

In ogni caso è senz'altro chiaro che tutto questo processo sarà un mezzo magnifico in mano a tutti gli avversari dell'ordine cristiano per sconvolgerlo in uno dei suoi più centrali punti d'appoggio. Mezzo tanto più benvenuto in quanto vi si evita l'impressione dell'anticristianesimo e vi si rappresentano apparentemente solo esigenze umane e di ragionevolezza tecnico-economica.

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Vili. - La « necessità » del processo tecnico.

Queste ed altre simili istanze sembrano fare della settimana tradizionale e della domenica qualcosa che non è più possibile, in senso tecnico ed economico, , mantenere e che perciò sono sorpassate. Dobbiamo perciò rendere ai punti di vista che si propongono tutto il diritto che si meritano, affinchè il nostro dissenso possa davvero cogliere l'essenziale.

Si rileva frequentemente l'opinione che le conseguenze ricordate, derivate dallo sviluppo moderno, siano inevitabili. Si tratterebbe d'un elemento del grande processo dell'evoluzione che ora sarebbe entrato nella fase tecnica, contrastare il quale sarebbe un nonsenso. Bisogna rispondere che la concezione d'un processo che avanza di necessità è semplicemente falsa. Quest'idea si è formata anzitutto nel pensiero idealistico, che concepì tutta la storia come un processo del genere. In modo sintomatico, essa è stata assunta anche dal pensiero materialistico e domina oggi il mondo concettuale del comunismo, in cui ogni persona perspicace riconosce il nemico di tutto ciò che costituisce il senso della nostra storia. In esso l'antico antagonismo dell'Asia contro l'Europa raggiunge una forma nuova e assai minacciosa. A dispetto di fenomeni parziali apparentemente contradditori, il comunismo non è europeo. È la forma moderna del dispotismo asiatico. È ora ormai che l'europeo se ne renda conto. E riconosca che l'idea del processo necessariamente verificantesi è uno dei mezzi più forti della propaganda comunista. Essa insinua cioè all'avversario il sentimento che egli si trovi su postazioni perdute, giacché l'ordine materialistico del mondo avanzerebbe inesorabilmente.

Questa suggestione dev'essere spezzata. La storia uma-

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na non è un processo, ma una serie di decisioni personali. Certo, all'interno di tutto il contesto storico ci sono processi;, ma essi vengono posti in atto da fatti che nascono dalla libertà. Ciò vale anche per il problema che ci occupa. Non è vero che la messa da parte dell'antico ordine di vita contenente la domenica debba venire di necessità. Essa viene solo perché è voluta. Ed essa viene voluta se certi determinati motivi derivanti da certe concezioni del mondo vi imprimeranno la loro spinta.

Si risponderà che qui non si tratta di filosofie e di concezioni del mondo (Weltanschauungen), ma di realtà di fatto. I modi in cui i processi della produzione e del consumo ora vanno articolandosi sono tali che la domenica non può più essere mantenuta.

Ci si consenta di invitare colui che pensa così a porsi la seguente domanda. Ammesso che la conservazione della domenica garantisse importanti vantaggi tecnici ed economici, le capacità di invenzione e di organizzazione ovunque operanti nel nostro mondo non riusciranno a trovare presto una via per ottenerli, a dispetto di tutte le difficoltà? Bisogna essere leali ed ammettere che non si tratta affatto di impossibilità, ma di difficoltà magari notevoli, tuttavia superabili:

certo superabili solo qualora si riesca a vedere il valore di ciò di cui si tratta.

IX. - La fede cristiana è sorpassata?

Si obietterà contro quando andiamo dicendo che il fattore religioso ha perduto il carattere di validità universale. Che esso è una volta per tutte una questione di valutazione privata e di bisogno personale. Perciò l'ordine della vita culturale non può più essere religiosamente determinato. Per quanto poi con-

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cerne la domenica, essa si fonda su una Rivelazione, a cui la maggioranza della popolazione non crede più. Anzi per quelli stessi che confessionalmente vi aderiscono non si tratta più d'una vera convinzione, ma della conservazione d'una tradizione che va sempre più impallidendo.

Anzitutto una cosa: il numero di quelli che credono alla Rivelazione è assai maggiore di quanto qui venga supposto. Certamente molti si allontanano da essa;

in cambio però la fede cristiana si desta in nuove forme presso altri in numero crescente; e secondo il principio della formazione d'elite, c'è da sperare che da costoro irradierà un'influenza che oggi non è anco-'ra possibile prevedere. Il cristianesimo è abituato all'affermazione che lo dichiara in procinto di scomparire. Essa appartiene all'inventario degli slogans storici. Uno slogati molte volte circolato e molte volte smentito.

Ma poi c'è un'altra cosa da considerare. Se il giorno del riposo dev'essere ciò che intende la sua essenza, non può semplicemente consistere nel fatto che in esso non si lavora. Questo non basta a conferirgli quella validità che giustifica e garantisce alla lunga la cessazione del lavoro. E tanto meno basta il fatto che in esso avvengano cose che servono al sollievo e alla gioia o che arricchiscono culturalmente. E un'altra volta non basta che in esso si sviluppi un sentimento della comunità fra coloro che riposano, dopo che sono stati anteriormente nella comunità del lavoro. Tutto ciò rimane in una sfera empirica. Occorre di più. Un riposo autentico ha sempre avuto una dimensione che trascende l'empirico. Essa fu sempre improntata dal carattere della festa, e la « festa » è un fenomeno religioso.

Ora, nell'Occidente la festa religiosa fu per duemila

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anni sostanziata dalla fede cristiana. Gli esperimenti nazionalsocialisti hanno dimostrato quale vacua faccenda siano le feste che si fanno sulla base di programmi. La parte del mondo segnata dal cristianesimo, vale a dire in ogni caso l'Europa e l'America, ha le proprie radici nel cristianesimo; e queste radici sono, a dispetto delle defezioni, vive ancora. Sarebbe dunque un esperimento assai rischioso distruggerle. Quello che si è raggiunto in Russia con la violenza e con la propaganda, io non sono in grado di valutarlo. Ancora più difficile è la questione di che cosa avverrà in Africa e in Asia. Ma di questo per ora non c'importa. Il mondo occidentale deve pure porsi nella propria tradizione, altrimenti perde la sua base.

Faranno perciò bene gli avversar! dell'ordine domenicale a rendersi conto di tutto ciò che quanto a concezioni storicamente operanti, a valori di rispetto e di fiducia, a rapporti d'ogni genere dei sentimenti sta connesso con quell'ordine ed esercita ancora influsso perfino là dove la fede cristiana è scomparsa. I chirurghi si guardano bene dal lacerare connessioni di organi delle quali non sanno quale sia l'influsso. Se la domenica sarà eliminata, magari pure sulla base di gravi considerazioni tecniche ed economiche, si noterà con spavento dopo qualche tempo quali perdite ne siano risultate. Facciamo un solo esempio. Se qualche decennio fa qualcuno avesse detto che le fabbriche non devono versare le loro scorie nei fiumi, perché ne sarebbero venuti danni immensi, lo si sarebbe preso per un reazionario, un csteta, un romantico. Si sarebbe risposto che si trattava di dure necessità, davanti alle quali dovevano ovviamente cedere cose come la pulizia delle acque fluviali. Oggi ci troviamo davanti a una situazione pressoché disperata. Si rico-

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nosce che i fiumi sono qualcosa di più che semplicemente dei corsi d'acqua navigabili, che sono le vive arterie dell'organismo geografico-culturale d'un paese, anzi d'un intero complesso di paesi. Di essi uno scienziato ha detto or non è molto: « I nostri fiumi sono diventati delle cloache ». Anche nel nostro caso vale la stessa cosa. La domenica non è soltanto una istituzione sociale che diviene inessenziale di fronte a « necessità » d'ordine tecnico-economico, ma è un organo importante nell'insieme della vita umana; un organo d'importanza vitale anche per quelli che non riconoscono più il suo contenuto cristiano.

X. - La domenica e la completezza dell'uomo.

Il problema della domenica è connesso con un problema che interessa le radici della nostra esistenza T. Nasce dalla realtà di fatto che l'uomo moderno ha pagato le enormi realizzazioni scientifiche e tecniche degli ultimi secoli con perdite della cui portata ci rendiamo sempre più drasticamente conto; egli è diventato un attivista. Si è a lungo considerato quest'attivismo come un passo avanti verso valori vitali superiori e verso più serie responsabilità morali. Ma a un numero sempre crescente di persone ormai risulta chiaro quanto c'è di falso in una simile opinione. Senza dubbio molto di grande è stato conquistato, ma anche molto di importante è andato perduto: tutto ciò precisamente che va sotto nome di « valori contemplativi », le forze del silenzio e del raccoglimento, del sapere profondo che affiora dal fondo dell'anima, del

7 Cfr. in proposito i due contributi: L'uomo incompleto e la potenza e La cultura come opera e come minaccia, in questo volume.

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sentimento capace di cogliere Indicazioni e moniti che salgono da zone ben più ulteriori della pura ragione o della pura utilità. L'uomo moderno ha perduto di profondità in ogni suo punto. La sua vita si assottiglia sempre più; il suo istinto si fa sempre più debole. Così egli si perde sempre più nel contesto delle apparecchiature tecniche che riempiono il suo mondo. La stessa cosa vale di fronte alla potenza dello Stato. Tutto il mondo è attraversato da una tendenza totalitaria, non solo il mondo comunista, ma anche quello libero, solo che qui essa assume un carattere diverso. Basti solo ricordare l'apparato statale che invade sempre più le sfere vitali dell'uomo; la stampa che domina le idee, i giudi2Ì, le prese di posizione della gente; l'impronta sul sentimento vitale e sul gusto operata dal cinema, dalla radio e dalla televisione; la avanzante pubblicizzazione della vita che distrugge la sfera privata. Contro tutto ciò l'uomo moderno diviene sempre più debole, perché in lui s'attenua sempre più la forza ferma della persona, che sta nella sua anima profonda, la capacità d'essere padrone di se stesso, il rapporto con i valori assoluti che gli conferiscono solidità.

Una autentica pedagogia ha perciò il grave compito di recuperare gli antichi valori. A tale scopo è della massima importanza garantire lo spazio in cui sia possibile un'esistenza disinteressata, liberamente riposante in se stessa, e per questo esiste anzitutto la domenica. Essa non è soltanto assenza dal lavoro e possibilità di distensione ma è « festa »; un momento della vita in cui si presenta la sovranità di Dio e rende libero l'uomo. Se la domenica scompare, si avrà un ulteriore e decisivo passo avanti verso l'esteriorizzazione della esistenza. Ma la perdita di sostanza umana, l'inde-

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bolimento dell'autentica forza umana creatrice di storia, non potranno essere equilibrati da vantaggi tecnici ed economici. Anche coloro per i quali il nucleo cristiano della domenica non ha più validità dovrebbero prendere in considerazione questi aspetti e vedere la domenica non soltanto da prospettive tecniche o formali-neutrali, ma da più profonde prospettive.

Se poi si afferma che nel giorno del riposo « scorrente » ci si può pure approfondire religiosamente, si può rispondere unicamente che chi parla in questo modo non conosce ne l'essenza dell'uomo, ne quella della domenica. Costui crede davvero che si possa sostituire l'altezza del giorno del Signore, nella sua validità di ormai più di tremila anni, con un termine cronologico che, a comando d'un modernissimo utilitarismo, salta da un giorno della settimana all'altro? E l'anima dell'uomo obbedirà a una simile confezione tecnico-economica per « approfondirsi religiosamente » in essa? Solo il Signore di tutti i giorni può fondare il suo giorno e conferirgli quella sacralità che l'interiorità umana disposta alla fede sa percepire, e da cui attingono anche quelli che non credono in Lui — in una misura di cui non sono consapevoli.

C'è ancora una considerazione da fare simile a questa. Si è soliti dire che l'uomo moderno non ha bisogno di una religione. Ciò che per gli antichi era la religione, per l'uomo moderno è il lavoro, il progresso culturale-politico e la natura.

L'età moderna ha dimenticato qualcosa, di profondamente elementare. Tutti gli elementi dell'esistenza •— cose, azioni, relazioni, ordinamenti — acquistano il loro pieno significato solo quando essi toccano, al di là del loro immediato contenuto, la dimensione reli-

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glosa. La realtà non è che l'uomo sia finito in se stesso, e che egli inoltre, quando ne sente il bisogno, possa entrare in un rapporto religioso, ma l'esistenza diviene completa solo nella sfera religiosa. La magnificenza delle culture antiche dipendeva dal fatto che esse possedevano questa dimensione. E non solo perché possedevano templi e sedi artistiche, ma perché tutta la loro vita conteneva questo elemento. Sarebbe, per esempio, nient'altro che inconsistente estetismo quello di apprezzare l'arte greca senza vedere che l'arte greca era tutta percorsa da energie religiose. Il compiersi d'un'opera, il culmine d'un incontro, la riuscita d'un'azione era qualcosa che in definitiva si adempiva nella sfera religiosa. Walter F. Otto nel suo libro Gli Dèi della Grecia ha detto cose decisive al riguardo. Ma questo vale non solo per la civiltà greca, bensì per tutte le civiltà; vale per il Medioevo e vale ancora per l'età moderna fino all'irruzione del positivismo e del materialismo europeo. Da allora la esistenza si è rivolta definitivamente verso la pura realtà mondana.

La stessa cosa di deve dire quanto alla natura. Il rapporto genuino con la natura non consiste nel sentire che aria buona c'è e che bei paesaggio ci sta davanti; senza parlare della barbarie che si riversa in essa dalle città nei giorni di libertà da lavoro e che trasforma prati e boschi in una riserva di rifiuti e in un concerto di transìstor. Il vero rapporto consiste nell'incontro profondo dell'uomo, per esempio, con l'albero che nella natura vive silenzioso, con il monte che s'innalza nel ciclo, con il fiume che scorre limpido. Se dovrà ancora esistere la « natura » — quanto ciò sia ancora possibile non sappiamo — essa potrà emergere unicamente da una profondità umana

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che dev'essere essa stessa un'altra volta ridestata e sviluppata.

In ultima analisi tutto il problema si riassume nella questione della posizione del singolo o del gruppo, o dell'indirizzo a cui egli appartiene, a riguardo dell'ordine di vita cristiana. Se si acuisce l'orecchio sulle ragioni fondanti con cui la domenica viene dichiarata sorpassata, si nota che il motivo più profondo è la indifferenza, anzi l'ostilità contro il cristianesimo. Allora occorre che i difensori della domenica si liberino dalle loro illusioni, ed altrettanto che gli oppositori siano leali e che non si trincerino con le loro ultime motivazioni dietro altre penultime. Le difficoltà che stanno contro la conservazione della domenica possono essere vinte, se lo si vuole seriamente. Invincibili esse diventano solo con la segreta volontà che esse debbano essere invincibili, aftinché il giorno del Signore appaia sorpassato, clericalmente reazionario, nemico del progresso.

Allora non resta che la lotta. I cristiani fanno bene a farsi idee chiare sulla situazione. Si dirà in giro che essi sono dei nostalgici; che sono degli interessati per ragioni segrete o che sono perfino pagati da questi o da quelli; che non hanno sensibilità per i lavoratori e avanti così per tutta una serie di falsificazioni di motivi, quali emergono da sempre. In realtà si tratta di qualcosa di assolutamente decisivo, ed essi non possono essere teneri. Essi lottano anche per quelli contro cui debbono lottare, perché ciò che deve essere salvato da loro è l'uomo.

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XI. - Un problema di coscienza.

Alla fine bisogna che diciamo, anzi che domandiamo, una cosa ancora, e che lo facciamo in tutta lealtà e

libertà.

L'insegnamento della Chiesa e l'educazione etico-religiosa ha realmente fatto in questo campo tutto ciò che avrebbe dovuto fare? Più precisamente: il dovere della santificazione della festa non è stato troppo unilateralmente posto sotto le prospettive del comando e del divieto?

Ovviamente dietro il giorno del Signore sta il terzo comandamento. La domenica — come abbiamo detto — ha non solo da esercitare importanti influssi, ma inoltre sta su di essa il carattere della sovranità, e questa trova la sua espressione nel comandamento:

« Ricordati di santificare il giorno del Signore ». Questo è vero e non deve essere in alcun modo rimesso in discussione. Ma la predicazione e l'insegnamento si sono anche sufficientemente sforzati di far emergere i veri valori della domenica e di esperii in modo persuasivo? Il giorno del Signore è stato posto realmente in relazione con l'uomo moderno e con la sua vita come essa è, in modo che egli si sentisse compreso e vedesse l'aiuto che di lì a lui discendeva? O non doveva forse percepire nel precetto domenicale qualcosa che derivava da tempi passati e che veniva imposto al suo? La dottrina e la prassi della domenica si sono abbastanza sforzate di mostrare come si potesse riempire la domenica di momenti e di valori validi e fecondi di gioia? O non venne forse il credente messo unicamente di fronte al comandamento, cosicché le sue capacità inventive e creatrici vennero bloccate, cosicché la domenica ha finito con l'essere appresa come qualcosa di essenzialmente negativo?

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Il lettore comprende certamente che non intendiamo fare solo della critica. Chi si è trovato personalmente ad affrontare tale compito, sa quanto è difficile creare un vincolo vitale fra il carattere festivo della domenica e la media delle condizioni reali. Questi problemi dovrebbero stimolare a un autoesame, senza di cui la lotta per la domenica risulterà, alla lunga, vana.

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XI

IL SANTO NEL MONDO * I. - II fondamento.

La maggior parte dei giorni del calendario portano nomi di personalità della storia cristiana. Questi personaggi, che possiedono un particolare carattere di venerazione, di ammonimento e nello stesso tempo di promessa, sono i santi. Incontriamo le loro figure nell'arte cristiana. Essi compaiono nelle leggende e nella poesia. E noi stessi portiamo i loro nomi. Ma che sorta di gente sono? Che cosa è un santo?

Per uno che abbia appena qualche familiarità con loro, la risposta non è difficile. « II primo e il più grande comandamento » è già espresso nell'Antico Testamento. Cristo poi l'ha nuovamente confermato:

« Amerai il Signore Iddio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze » (Deut. 6, 5; Mt. 22, 37). Un santo è un uomo, a cui Dio ha concesso di prendere perfettamente sul serio questo comandamento; di penetrarlo profondamente e di impegnare tutto nella sua realizzazione. Dunque qualche cosa di grande; anzi qualche cosa di terribile. Perché, che cosa succede ad un uomo che vi si impegna? Così si comprende il profondo rispetto e

* La conferenza fu trasmessa il 6 gennaio 1956 alla radio bavarese. È stata poi ampliata e correlativamente stesa con maggior precisione, ma per l'essenziale è rimasta immutata. Prego però il lettore di prenderla non come un saggio, ma come un cenno, dato in discorso vivo, di qualcosa che mi sembra importante per la nostra situazione. Con dò si avverta anche che i concetti esposti hanno bisogno di controllo e di approfondimento ulteriore e quindi sono affidati alla partecipazione dei lettori.

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tè nel realizzare il giusto ordinamento del possesso, una autonomia ragionevole, una naturale e legittima unione dei due sessi e anzi, partendo di là, tutte le e-sigenze d'una cultura autentica. Ma tutto questo, in fondo, non può essere adempiuto che nello stesso spirito e da quelle medesime energie, da cui sono mossi coloro che hanno vissuto nella rinuncia e nella abnegazione.

Vili. - II mondo temporale ed eterno.

Il credente, che si volge con reale volonterosità al compito, di cui si parlava, esperimenta in quale situazione si trovi l'esistenza. Gli risulta chiaro che cosa sia la storia reale: non un processo naturale, in cui si svolga anzitutto l'evoluzione del contesto cosmico, poi, su di un piano nuovo, quella del contesto biolo-. gico e infine di quello umano culturale, bensì una storia personale, i cui elementi caratterizzanti si chiamano libertà, decisione, responsabilità, colpa, destino. Egli esperisce inoltre come ogni realtà umana sia fatta confusa e torbida fino al fondo, e quale resistenza opponga alla volontà di fare rottamente le cose. Infatti la confusione non è della specie della situazione caotica propria d'uno stadio iniziale, in cui materia ed energie si incrociano e si intersecano ancora informi, o di quella propria del periodo d'un sovvertimento, in cui gli antichi ordinamenti sono scossi e non appaiono ancora chiari i nuovi. La ribellione perpetrata contro Dio ha invece lacerato l'esistenza strappandola dalle sue condizioni fondamentali, e non si può più eliminare la distruzione che ne è venuta. Certo l'amore di Dio ha operato la redenzione ma essa non ha abolito la condizione come tale, ma l'ha riconciliata con l'espiazione e l'ha sollevata a un nuovo inizio. Parten-

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do da esso, la situazione dev'essere vinta mediante la « buona battaglia » della grazia; è però questo un compito, che si pone a nuovo in ciascun credente singolo, addirittura a ogni ora della sua vita.

Anzi egli incontra il dato di fatto che nell'esistenza non v'è solo il disordine fattuale, ma anche quello voluto, la cecità mantenuta di proposito. Basta che pensiamo alla situazione di vita di Cristo: alla muraglia di volontà di potenza, di accecamento e di menzogna che si è innalzata attorno a Lui, e contro cui la sua verità vivente non è riuscita ad aver successo — perché Egli non poteva abolire la libertà, in virtù della quale soltanto può compiersi l'azione che riscatta e salva.

Questa esperienza preclude al cristiano l'ottimismo del progresso della cultura e civiltà, ma anche la sua forma dissimulata: dove il lavoro autonomo della cultura fallisce, sarebbe possibile quello in cui operi la grazia della redenzione; ne addurrebbe la prova il santo. Chi ha volontà di vedere, scorge come stanno le cose, Se gli dovessero rimanere ancora illusioni, sarebbero distrutte radicalmente da ciò che Cristo ha detto sull'ultima fase della storia.

Dall'altra parte però al cristiano è interdetto anche quel pessimismo, che butta a mare il mondo come assolutamente malvagio e in perdizione, perché contraddice l'opera della creazione,come anche la gesta redenti va di Dio. Il cristiano non ha il diritto di dire: gli uomini sono cattivi, la società è corrotta, ogni sforzo è senza speranza, perché egli deve amare il mondo e rimanergli fedele.

Amare il mondo non nel senso in cui san Giovanni glielo proibisce, quando scrive: « Non vogliate amare il mondo, ne le cose che sono nel mondo » (1 Io. 2, 15); ma nel senso espresso dal medesimo apostolo:

« Infatti Dio ha talmente amato il mondo da dare il

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Suo Figliuolo unigenito, affinchè chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna » (Io. 3, 16). Il cristiano condivide questo amore; sebbene il disordine del mondo lo tocchi in modo diverso dal pessimista non credente, che lo respinge tra ciò che è corrotto e perduto. Il cristiano — e di conseguenza il santo, più profondamente di qualsia'si altro — soffre con il mondo nel suo torbido sconvolgimento; perché non è solo suo, ma perché è il mondo di Dio.

Pessimismo e ottimismo sono prospettive errate per venire a capo della situazione dell'esistenza. L'uno come l'altro fuggono la realtà: il primo, perché si rifugia in una condanna del mondo; il secondo in una trasfigurazione. Sono tutte e due forme illusorie. I santi vogliono la verità. Vogliono vedere ciò che è. Ora la buona volontà, dinanzi ad una situazione reale, apre loro gli occhi.

Essi perseverano nella loro fedeltà al mondo. Ma se essi ne hanno la forza non è perché pensino che il mondo entrerà nell'ordine, purché soltanto ci si impegni laboriosamente e per lungo tempo. Non possono eliminare la sua condizione turbata, ma solo accoglierla in un amore più grande. Forse i loro sforzi dapprima devono addirittura passare attraverso l'insuccesso, perché devono riprodurre il destino di Cristo. I santi però lo assumono e vi resistono. Ciò che essi fanno, ha un carattere misteriosamente duplice: da una parte si occupano del mondo reale, del suo effettivo disordine, e con una sincerità e con una imperturbabilità superiore a qualsiasi altro riformista; dall'altra sanno che quello che fanno non si traduce in risultati tangibili, ma è semplicemente inserito nel piano di Dio a noi sconosciuto. Ed Egli lo utilizza là, dove vuole: forse addirittura soltanto nel suo giudizio e nella nuova creazione.

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Ritornando a ciò che abbiamo detto prima: che la via della santità consiste nel voler fare, ad ogni momento, ciò che è bene, ci sembrerà nuovamente, quanto sia difficile seguirla. Sappiamo sempre ciò che è bene?

Non capita spesso che il gioco dei diversi fattori renda la visione incerta? Noi allora mettiamo questo:

quando vuoi sapere ciò che si deve fare, bisogna che tu sia veramente pronto a vederlo; e a farlo subito dopo che tu l'abbia visto. Ma per arrivare a questa disposizione, la via è lunga. Si è quasi tentati di dire, che è infinita; perché dietro ogni resistenza superata, ne scaturiscono incessantemente delle nuove.

La confusione anzi è qualche volta così grande da domandarsi che cosa sia bene. Sembra talvolta vedere erigersi non il male contro il bene, ma il giusto contro il giusto, il bene contro il bene, in modo che si è costretti ad accontentarsi di probabilità e a restare m una situazione senza via d'uscita. Si può avere l'impressione che la ricerca di ciò che è il bene sia una lotta senza speranza. L'angoscia, che ne risulta, è conosciuta da tutti quelli che tribolano nel mondo reale. Tuttavia non bisogna cedere.

Il carattere dell'esistenza, come qui appare, non è sufficientemente espresso con la parola « tragico ». È quello che vuoi dire san Giovanni, quando scrive che « tutto » nel mondo non è che illusione e disordine di passioni (1 Io. 2, 16). La rovina dei migliori, le grandi occasioni mancate, l'insuccesso dei tentativi per fare qualche cosa di perfetto: sono altrettanti segni oscuri dimostrativi. Ma anche qui colui che ha una visione cristiana, non ha il diritto di rifugiarsi in apparenti giustificazioni e in speciose teorie; ma deve •;< credere, sperando contro ogni speranza » [Rom. 4, 18), e per il resto, invocare la giustizia di Dio.

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L'opera del cristiano trascende le dimensioni del mondo. Egli è continuamente portato ad esperimentare la impossibilità di ottenere la vittoria in questo « eone » nella lotta tra la « salvezza » e la « tenebra ».

Così dunque lo sforzo, che costituisce la via alla santità, deve orientarsi verso l'ai di là della storia. Ciò che è bene, non sarà definitivamente realizzato che -dal Giudizio. Ma questo comprenderà tutto ciò che è stato fatto con fede nel tempo per costituire il punto di partenza della grazia finale. Secondo san Matteo, la formula del Giudizio sarà questa: « In verità vi dico, che tutte le volte che avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi tra i miei fratelli, l'avete fatto a me » (Mi. 25, 40). Forse possiamo scorgere anche un altro senso: « Tutto ciò che avete fatto a questo mondo che mi appartiene, l'avete fatto a me ». Il Redentore terrà conto di queste azioni nella sua seconda creazione per farle partecipare alla formazione di questo mondo, finalmente divenuto per sempre tale quale deve essere.

Tutto ciò avrà mostrato quanto l'idea della santità, che noi abbiamo qui delineata, sia lontana dall'avere per scopo unicamente il risultato nel mondo. Il santo ne è così lontano che non può essere assolutamente compreso che nella prospettiva della fede.

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XII

MICKEY MOUSE E COMPAGNI Una lettera.

Caro amico! Il nostro colloquio di ieri è terminato in una vera confusione. Ma anche era ben difficile che potesse andare diversamente, quando persone di così diversi modi di pensare parlano fra loro di un argomento così aggrovigliato, come l'arte modernissima. Uno ha veduto in essa un'apertura verso l'arte assoluta; un altro qualcosa che non è più affatto « arte », ma una ricerca, sulla « cifra » dell'esistenza; un terzo ha parlato di lavoro e affari; e un quarto era entusiasta del fatto che la nostra odierna società di consumi fosse costretta a trovare bello un tale nonsenso e a pagarlo caro. Come poteva allora aver luogo anche solo un'intesa?

Pure ora tuttavia non voglio cavar fuori alcuna linea comune, ma solo esprimere un pensiero che mi inquieta.

Negli ultimi tempi io avevo molto riflettuto su ciò, quanto non solo differenti, ma anche contraddittorie siano le risposte che vengono date alla domanda che cosa sia propriamente l'uomo. Ciò sembra tanto più sorprendente, in quanto non si tratta affatto di qualcosa di estraneo e lontano, ma di ciò che è più vicino e più familiare, cioè di noi stessi. Quale strano problema deve pur essere l'uomo, se di lui possono esser date determinazioni così radicalmente contraddittorie fra loro, come per esempio quella dell'idealismo tedesco, che vede nell'uomo l'espressione storica dello spirito assoluto, e quella del materialismo, che

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dice esso essere alla fine nient'altro che animale e pietra! È comprensibile che un essere come l'uomo, così ricco e che si trova in così profondo movimento, possa presentare aspetti diversi — ma contraddizioni, e così clamorose, come quella citata?

Così io potevo giungere solo allo stesso risultato di Pascal, quando nelle sue Pensées dice che la dottrina rivelata del peccato originale e del disordine da esso causato nell'essere umano non può essere intesa con la ragione; ma che senza di essa l'esistenza umana sarebbe ancora molto più inintelligibile. Giacché il disordine è penetrato non solo nelP agire e nel comportamento, ma anche nel pensiero. Per questo mi sembra che anche l'arte nuovissima sia istruttiva in proposito. Essa sembra mostrare che l'uomo si sia smarrito anche su se stesso. Non solo — come nella pittura di Georg Grosz — vede il male nell'uomo, la fredda crudeltà, la perdita di genuini criteri, ma anche perde affatto di vista l'uomo. C'è stata sempre la caricatura, che caratterizza l'uomo contraffacendolo;

come anche il tentativo di mostrarlo nella prospettiva, delle sue realizzazioni più sublimi, come nei ritratti dei santi — e non sono da dimenticare quegli artisti che, come Goya, rappresentano l'uomo quando di lui si è impossessato 'il demoniaco. Ma che cosa avviene quando un Picasso fa a pezzi il suo volto e rimette assieme le parti in modo che ne risulta non solo un uomo svelato nella sua terribilità, ma un essere del tutto diverso? O quando altera talmente il rapporto fra testa e corpo, mano e braccio, da sembrare di vedere una bestia dei tempi preistorici? Questa è una risposta alla domanda sull'uomo, che non solo paria della contraffazione dell'immagine divina, ma anche la distrugge completamente.

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Ciò che un uomo come Picasso fa in grande forma, con mezzi che provocano sempre nuova impressione con la loro violenza e la loro qualità artistica, torna di nuovo in modo quotidiano e ordinario nelle figure, con cui il cinema, i giornali, la pubblicità e perfino i libri per bambini parlano dell'uomo.

Quando anni fa nacque Mickey Mouse (Topolino) e si mise in movimento nei films di Walt Disney — il piccolo folletto, che pure era ancora così vicino allo uomo, adirato o allegro, per il quale sembrava non esserci la legge del peso — noi abbiamo riso. Ma a poco a poco ci accorgemmo che sotto i sentimenti, che vi si esprimevano, non c'era mai l'amorevolezza, mai la bontà. Anche gli gnomi delle fiabe sono esseri, che per così dire stanno sull'orlo dell'umano, ma essi accanto al loro gusto per il disordine, hanno anche idee beneficile, a volte soccorrono nel bisogno, accomodano ingiustizie. Mickey Mouse non fa mai questo; è solo malvagità, e il riso a cui eccita, in fondo, non è buono.

Poi sono venuti fuori altri esseri simili; esseri che rassomigliavano ad anitre o a scimmie o a insetti, ma erano sempre riferiti alla fondamentale figura umana. All'opposto son venute fuori immagini di uomini con teste gigantesche e minuscoli piedini;, altri, nei quali c'era solo il ventre e il capo piccolo come uno spillo; esseri, la cui testa consisteva solo del naso e della bocca e così via. Ormai il mondo figurativo del nostro ambiente è pieno di questa genia, e noi tolleriamo ciò non solo davanti al nostro sguardo indifferente di uomini. adulti, ma anche davanti agli occhi vulnerabili dei nostri bambini. Essi si abituano a vedere l'essere umano tramutato in figure, che lo pervertono nei lineamenti dei coboldi.

Come spiega Lei questo fatto? Non mostra esso

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che l'uomo non sa più a che punto sta con se stesso? Non solo è enigmatico a sé, ma è smarrito intorno a se stesso? Anzi, che ha timore di sé? Queste figure vengono da una profondità, cui l'uomo si è abbandonato in balìa.

Lei, caro amico, è pedagogo; non crede che l'educatore avrebbe ragione di occuparsi molto seriamente di questo fenomeno?

Cordialmente suo Romano Guardini.

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XIII

EUROPA - REALTÀ E COMPITO* Altezza reale! Signore e signori!

Il conferimento del premio Erasmo significa per me un alto onore vivissimamente sentito — ed inoltre una conferma particolare, della quale dirò subito qualcosa di più preciso.

Ma prima di tutto prego la Vostra Altezza reale quale presidente della fondazione del Praemium Era-smianum, come pure il suo Consiglio d'amministrazione, di voler gradire i miei più cordiali ringraziamenti.

L'onore ricevuto significherà per me l'obbligo di continuare nelle mie sollecitudini per la formazione di una viva coscienza europea.

Non è facile dire qualcosa degno di essere ascoltato sull'idea dell'Europa, dopo che tanto di significativo ne è stato detto a voce e per iscritto. Permettetemi di prendere l'avvio dalla mia propria esperienza. Quando si è vecchi, è permesso farlo, purché ci si preoccupi di non diventare pedanti...

I miei genitori erano italiani e patrioti appassionati. Un'impresa economica condusse mio padre in Germania; ma anche là cercò di lavorare per la sua terra, con l'adempiere i compiti consolari affidatigli con un interessamento che andava molto oltre la misura del dovere. Quando venimmo in Germania, io ero nella prima infanzia. In casa si parlava italiano; ma la lingua della scuola e della formazione spirituale fu il te-

'" Discorso dopo il conferimento del Praemium Erasmianum a Bruxelles il 28 aprile 1962,

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desco. Questo ebbe il sopravvento, e non poteva essere diversamente, come la lingua, con la quale mi pervennero il sapere e la conoscenza della vita. Più tardi fu anche la lingua delle università che frequentai e nelle quali cominciò a spiegarsi la mia personale attività creativa spirituale.

Da tutta questa situazione sorse un conflitto profondamente sentito, quando alla semplice bramosia di sapere sopravvenne il problema della professione. E precisamente con la domanda in quale terra dovesse essere esercitata questa professione; giacché « professione » è per lo più congiunta con esami, abilitazioni, in breve, con un contesto sociale, e si riferisce perciò ad una terra determinata. Dal punto di vista intellettuale, io dovevo esercitare questa professione in Germania, poiché la mia formazione e la mia idea della vita erano tedesche; io pensavo in tedesco, giacché si pensa pure in una lingua. D'altra parte, però, era sempre viva la mia unione con l'Italia, che per i miei genitori era la patria e perciò la terra in cui, secondo il loro pensiero, doveva vivere e lavorare il loro figlio.

Ciò è avvenuto molto tempo fa, più che un mezzo secolo. Perciò non so se un giovane di oggi sentirebbe la questione, come l'ho sentita io. Probabilmente no, poiché da allora sono avvenute molte cose — fuori nel grande mondo, con guerre, espulsioni e fughe, ma anche all'interno, col mutare dei pensieri e dei sentimenti. In ogni caso una volta il legame alla propria terra, con tutto ciò che si chiama onore e dovere patriottico, era molto forte; perciò quando mi si affacciò l'idea europeistica, ciò significò per me la possibilità di una conveniente soluzione del conflitto.

Ora io potevo abbandonare la cittadinanza italiana e assumere quella tedesca, senza rompere la fedeltà,

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giacché ciò avveniva in un contesto che'abbracciava entrambi i terrkori e che si chiama « Europa ». Io ho compiuto il passo verso la Germania nella coscienza di essere europeo. Certamente anche l'essere europeo aveva le sue difficoltà. Talvolta sorgevano situazioni, nelle quali non si poteva chiarire senz'altro il proprio comportamento. Altre, che mettevano in imbarazzo la coscienza e il sentimento. Ricordo solo la situazione della guerra e precisamente della prima guerra mondiale, nella quale il nazionalismo era ancora molto vivo, anzi per qualche rispetto era innalzato fino al suo culmine. Tuttavia l'idea di un'Europa ha tenuto duro.

Perdonate che abbia parlato così a lungo di cose personali; volevo dire con quanto significativo per me debba essere ora il conferimento del Premio Era-smo. Esso rappresenta la conferma di un'idea che molto presto è diventata operante nella mia vita.

Negli anni 1956-1960 è apparso un lavoro interessante: 11 tradimento nel secolo XX di Margret Boveri. Non ho alcun giudizio sui suoi fondamenti oggettivi;

in ogni caso è un libro molto abile e parla da una profondità maggiore di quella cui da accesso il semplice sapere. Cioè quando in esso si parla di « tradimento », ciò non deve nascondere il fatto, che in fondo si tratta della fedeltà. Io so che a questa parola si attacca ogni sorta di sentimentalismo; so anche che se ne è molto abusato, 'spesso proprio da coloro che non esercitavano essi .stessi alcuna fedeltà, pure avevano bisogno di gente su cui far conto. Ma ci deve essere fedeltà; l'onore dell'uomo dipende dal fatto che ci sia qualcosa per cui egli è pronto ad impegnarsi realmente — ciò in cui sono le sue radici: la patria e la comunità della vita.

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Ma, d'altra parte, noi viviamo l'ora storica, m cui si allentano i confini di quell'ambito, in cui ancora quaranta o cinquant'anni fa si radicava la fedeltà, cioè le nazioni. Lo spazio in cui l'uomo esiste diventa più grande. Già il giovane impara oggi, pur vivendo nelle diverse parti della terra, a pensare globalmente. Già egli sente che ciò che avviene nella sua città esercita il suo influsso in tutte le città; che ciò che riguarda la sua terra concerne anche tutte le terre. Dove egli avverta questa relazione con tutta la terra, è una questione della sua situazione di vita: nella scienza o nella tecnica, nell'arte o nella politica o economia — ma in qualche luogo egli sente l'appello alla vastità terrestre e, se è di mente sveglia, anche una responsabilità per essa.

Il filosofo Georg Simmel nella sua sociologia ha sostenuto l'affermazione che, quando in un determinato ambito ci sono una quantità di piccole formazioni sociali, di caso in caso chiuse in se stesse, allora si contrappongono fra loro dapprima con la diffidenza e il sospetto, poi con l'ostilità. Invece il rigore di questo isolamento si allenta nella misura in cui diventa manifesta una più ampia coesione, che dall'esterno esercita su di esse una pressione. Questo accade oggi rispetto alle nazioni. Esse appaiono come parti dei continenti, dai quali cominciano ad uscire le iniziative decisive. E già diviene manifesta una coesione ancora più grande, cioè lo spazio terrestre come un tutto — per il fatto stesso che viene in considerazione anche quell'ambito che circonda la terra, cioè lo spazio cosmico. Non solo in un senso teoretico, ma come qualcosa che riguarda la nostra vita — così reale che, per fare un esempio, i mezzi informativi si creano punti d'appoggio nello spazio cosmico, per poter lavorare meglio sulla terra.

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Ma nello stesso momento sorge per il singolo la questione; posso io esistere direttamente nello spazio del continente? La sopranazionalità è compaginata in modo, che io possa trovare in essa anche patria e onore? Dov'è lo spazio per la fedeltà, come polo contrapposto alla vastità dell'espansione e della grande responsabilità?

Qui la nazione consegue un nuovo significato. C'è una maniera di sentirsi continentali, anzi globali, che può essere interessante, ma che rende l'uomo senza patria e che non basta ad un più profondo appello del senso d'onore. Da questa sorge il cosmopolita, come quell'uomo che in nessun luogo risponde con la sua vita, perché egli può andarsene altrove egualmente bene. In maniera normale la nazione rappresenta il luogo del radicamento vitale — tuttavia non nella sua precedente forma chiusa, ma così che essa sia coordinata insieme con le altre nazioni nel continente; forma di vivere caratteristica satura di storia, ma che rappresenta un organo nel contesto più vasto. Da essa abbiamo l'europeo olandese, belga, francese, tedesco. . .

Noi siamo abituati a considerare l'Europa come una parte del mondo e perciò a metterla in una serie di formazioni così immense, come l'America, l'Asia, l'Africa — è giustificato ciò? Questa piccola penisola del colosso asiatico?

Come risposta a questa domanda ci si potrebbe dapprima appellare alla grandezza della sua popolazione, appena venga considerata come un tutto; alle sue prestazioni riunite economiche, industriali, scientifiche, artistiche. Sono certamente aspetti importanti;

ma gli altri continenti hanno riserve in spazio ancora inutilizzato, in tesori della natura non ancora aperti,

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un potenziale di futuro aumento di popolazione, e una volontà di progresso scientifico e tecnico, che dovrebbe diminuire ogni anno più l'importanza delle cifre dell'Europa. .C'è una prestazione assegnata in modo speciale all'Europa e che potrebbe essere certamente compiuta anche da altre parti del mondo, ma non con una tale, diciamo intrinseca, competenza?

Potrei cercare la risposta da un problema, che mi agita da lungo tempo e che senza dubbio è familiare anche a voi.

La questione se la ricerca 'scientifica avanzerà non è un problema;, in essa opera un così forte impulso intrinseco, che essa va avanti come da se stessa. Il medesimo si può dire della tecnica; essa si sviluppa con consequenzialità da se stessa. Da scienza e tecnica risulta un potere dell'uomo sulla natura — e sullo stesso essere dell'uomo, in quanto anch'egli è natura vivente —, potere che cresce in tempi sempre più rapidi. Ciò significa un progredire verso un'indipendenza sempre maggiore e una più ampia relazione con il mondo. E se definiamo l'essenza dell'uomo in accordo col Genesi come capacità di dominio sul mondo (Gen. 1, 26), allora l'aumento del potere significa un progresso verso una più piena autorealizzazione dell'uomo.

Questo pare chiaro a prima vista. Ma il problema, che deve occupare nel modo più serio ognuno a cui esso si affaccia, suona: basta già questa formula da sola? Non equipara essa in maniera troppo semplice l'aumento quantitativo del potere con la crescita esistenziale dell'uomo? In quale rapporto sta alla lunga il crescere del potere con l'umanità dell'uomo?

Sarà bene ricordarsi di una legge fondamentale della filosofia della cultura: che non c'è alcuna azione che

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vada in una sola dirczione, ma ogni azione ha due lati. Potere è possibilità di agire; ma ogni azione che io esercito provoca un'azione contraria, che si dirige sopra me stesso. Già il solo fatto di avere potere, la possibilità di esercitarlo, esercita un influsso su di me: lo stimolo a tradurlo in atto, il quale stimolo cresce fino alla coazione, anzi alla ossessione demoniaca; la responsabilità che esso mi impone perciò, se e come io l'usi, e così via.

Può il potere crescere con qualsiasi rapidità e a qualsiasi altezza e l'uomo rimane uomo in senso pieno?

A questa domanda, noi pensiamo dapprima a ciò che chiamiamo danni della cultura: ai pregiudizi che soffrono corpo e spirito sotto i passi falsi e l'eccesso dello sviluppo culturale — fenomeni, che hanno dato motivo a riflessioni pensose, fin da quando si danno culture e civiltà superiormente sviluppate.

Più importante, e altrettanto preoccupante, è il fatto che il sempre crescente sviluppo scientifico e tecnico stacca sempre più l'uomo dalla natura. La « natura » è ciò che v'è « di per sé », ciò che si svolge per impulsi immanenti; si rinnova continuamente per la propria fecondità. « Cultura » invece è ciò che l'uomo produce e mantiene in essere. Quanto più ampiamente cresce la potenza dell'uomo, tanto più egli emigra dalla natura nella cultura — ma ciò significa, in un mondo, in uno stato, che non sono cresciuti da sé e garantiti da un ordinamento interno, ma sono fatti da lui, perciò hanno il carattere dell'arbitrarietà • e con ciò del rischio. Il mito di Atlante ne affronta uno nel senso che è condannato a sostenere la volta celeste. Egli non può camminare libero sotto di essa,

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ma gli è accollata come un carico; se egli cessa di sostenerla, quella crolla.

Dov'è il limite oltre il quale il carico schiaccia il portatore?

Ma allora: lo stesso esser potente, l'uso della potenza in quanto tale deve esser attuato spiritualmente, con responsabilità personale. Può l'uomo esercitare ed esser responsabile di una potenza grande a piacere? È giusto vederlo sotto la figura di un essere che a poco a poco possa raggiungere Dio? che progressivamente assumerà lui stesso persino le azioni che la fede religiosa prima ascriveva a Dio? Le cose stanno come pensa l'ateismo postulatorio, cioè che l'uomo è l'onnipotenza potenziale e che si realizza, sulla base dell'evoluzione necessaria, nella misura in cui acquista ed esercita potenza? Insieme con la potenza crescente, crescerà anche nella stessa misura la capacità di abbracciare con lo sguardo il suo campo e i suoi effetti, d'accordare questi ultimi fra loro e di creare una totalità stabile? Oppure l'aumento della potenza lo conduce in campi sempre più pericolosi? « Essere » è un verbo; esistere è un atto; esistere come uomo è un'operazione. Questa operazione racchiude in sé il momento del possesso della potenza, dell'esercizio d'essa, della responsabilità per essa:

può l'atto esistenziale dell'uomo sostenere una potenza grande a piacere? Oppure si da per lui la possibilità — e con ciò il pericolo — del sovraccarico esistenziale?

Alla considerazione della storia dello spirito nell'età moderna continua ad impormisi il pensiero che tale sovraccarico sia già sopravvenuto, e precisamente sotto la pressione dell'idea di autonomia. Questa sorge nel Rinascimento. L'autoscoperta dell'uomo, l'espe-

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rìenza vitale di ciò che è umanamente originale, la coscienza della libertà e della forza creativa — tutti quei momenti, che inondarono l'inizio dell'età moderna con una così violenta piena di vita, crebbero fino al sentimento che l'uomo sia misura di se stesso e del suo agire, signore del suo essere.

Non è allora strano che all'altezza di questa coscienza, nel totalitarismo, la volontà di libertà si trasformi nell'abbandono di se stessa in una pretesa necessità del movimento storico e nello Stato come sua espressione e mandatario? Così radicalmente, che l'au-toaffermazione dell'individualità e quella dei suoi diritti appaiono come delitto contro l'opera della comunità unica importante, come « sabotaggio »? Non appare allora la figura dell'uomo sovraccaricato che rinuncia a se stesso?

Qualcosa di corrispondente, così si pensa, potrebbe ripetersi di nuovo e in misura maggiore. Così che la crescita della potenza abbia luogo troppo rapidamente;. l'essere vivente dell'uomo non sia ancora cresciuto al livello d'essa — forse nella maniera, in cui un giovane non può ancora portare quella misura di potenza e responsabilità, di cui è all'altezza uno più maturo, e soffre danno, se gli è richiesta troppo presto?

Ma allora, oltre a ciò e adesso in senso propriamente filosofico, si chiede: ci sono forse affatto per gli uomini limiti della capacità di potenza, oltrepassare i quali deve necessariamente condurre verso l'autodistruzione? Se la potenzialità, la possibilità di divenire dell'uomo non è fondata in una forma essenziale, il che però significa, chiusa in una misura? Perciò il suo superamento dovrebbe condurre ad una distruzione della forma e con ciò nel caos? Ma l'uomo,

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non essendo un essere naturale, ma caratterizzato dallo spirito, cioè libero, potrebbe anche far saltare questa misura?

Tutto ciò significa che l'uomo porta in sé la possibilità del tragico. Il mito lo sa — e il cammino della storia 'non è così fatto, che questa possibilità diventa manifesta dappertutto a chi vuole vedere?

Quando noi parliamo della potenza che l'uomo odierno possiede già in misura così enorme ma inoltre sempre più rapidamente crescente, pensiamo involontariamente alla potenza sulla natura. Ma non dobbiamo dimenticare che essa è anche potere dell'uomo sugli altri uomini — e con ciò dell'uomo sopra se stesso. .

Quanto sia grande la potenza, sì presenta alla coscienza massimamente là dove essa distrugge. Noi d'oggi abbiamo vissuto l'avvenimento, in cui la possibilità di distruzione divenne pienamente patente, quando fu lanciata la bomba atomica ad Hiroshima. Avviene in realtà sempre nella storia che le nuove realtà siano dapprima quasi amorfe, solamente presagite, avvertite. Poi avviene qualcosa, per cui ciò che prima era indeterminato prende forma, diventa esprimibile. Ciò è avvenuto con la bomba atomica. Il nostro quadro esistenziale è d'ora in avanti quello dell'uomo, che dispone di questa bomba e con essa può in certa misura distruggere se stesso, cosa che prima non si sarebbe potuta pensare.

Certamente, con le forze in essa operanti, l'uomo può realizzare cose immense; anche ciò ci è divenuto chiaro in questi anni. Egli ha messo la mano sulle energie del cosmo. Può aprirsi il cammino nello spazio cosmico. Ma ciò che lo porta alla più acuta coscienza della sua potenza è la nuova mostruosa possibilità di distruggere.

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E, oltre la bomba atomica, non vogliamo dimenticare quell'altra possibilità di esercizio di potere, che parimente è stata conquistata in questi anni, cioè quella di penetrare nell'atomo umano, nell'individuo, nella personalità. (Le parole « atomo » e « individualità » nel loro senso fondamentale significano lo stesso, cioè quel che è « non-divisibile »). Non si parla molto di questo; ma gli è che con i mezzi, che psicologia e chimica mettono in mano, non solo possono essere vinti disturbi finora inattaccabili, ma anche può essere forzata la parte più intima dell'uomo. Per questo è stata trovata una parola che suona innocente — come se ci si vergognasse di ciò che significa —, il «lavaggio del cervello». È possibile cambiare in un uomo contro la sua volontà la maniera con cui egli vede sé e il mondo; le misure, con cui egli misura il bene e il male; la condizione che egli come persona ha in se stesso. Questa possibilità è stata attuata e sarà attuata sempre di nuovo — anzi essa, come sollecitazione e propaganda, gioca già un ruolo nel vivere che si dice del « mondo libero », ruolo che è tutt'al-tro che esente da perplessità e riserve.

Anche questa è una forma del potere umano, più sottile, meno drammatica, ma forse ancor più minacciosa che quella della bomba atomica.

Il fenomeno dovrebbe essere esaminato da molti lati. Si troverebbero forme sempre più forti e più precise, del come l'uomo possa impadronirsi dell'uomo: rendersi soggetti i suoi pensieri, guidare i suoi desideri, determinare le sue norme di misura, penetrare nell'inconscio dell'altro e di lì comandare il suo agire conscio.

Tutto ciò significa possibilità di influsso, che prima non si potevano sospettare. Per ottenere un paragone,

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possiamo pensare che prima di un periodo relativamente breve passava ancora come illecito adoperare i cadaveri umani per scopi di studio. Tanto grande era la soggezione di fronte all'intangibilità dell'uomo, che la ricerca anatomica potè nascere solo con notevole pericolo per colui che l'esercitava.

La potenza è un fenomeno che ha scosso l'uomo antico. « Si danno molte cose spaventevoli, ma nessuna più spaventevole dell'uomo », dice il coro neìì'Anti-gone di Sofocle. La potenza dell'uomo è qualcosa di ben diverso dall'energia della natura o dalle forze degli animali. Le energie della natura possono essere enormi, ma esse corrono nella necessità assoluta delle loro leggi e possono essere esattamente calcolate. La forza degli animali è già diversa; non è determinabile matematicamente, perché è vita e gli atti vitali sorgono da un punto originario che alla fine non è esprimibile razionalmente. Nell'uomo poi si aggiunge qualcosa di completamente nuovo. La sua azione forse non è semplicemente più forte di quella delle energie della natura — in generale rimane addirittura al di sotto, persino quando è potenziata dagli strumenti della chimica, fisica e tecnica fino a prestazioni sempre più grandi. Ma nell'uomo l'energia, la propria, come quella che prende dalla natura, entrano nel campo della libertà. E la libertà, nonostante tutto ciò che pensa il determinismo meccanicistico, è pure appunto libertà, cioè sovranità di decisione. Mentre l'uomo prende sempre più in suo dominio la natura, egli trasporta nel campo della libertà le energie che nel regno inanimato sono legate da leggi razionali, presso gli animali s'inalveano negli ordinamenti delle loro funzioni vitali. Ma ciò significa che egli le sottomette ad un principio che fondamentalmente non

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è calcolabile. Ancor più, anzi: a un principio, in cui influisce tutto ciò che si dice cuore umano — prendendo la parola nel senso ampio, che ha in un Agostino o in Pascal. Il mondo intero viene qui sotto un'istanza, della quale è impossibile dire come ne disporrà.

Attraverso il loro impiego si compie la storia e dò si chiama destino: ascesa e declino, salvezza e disgrazia. Dov'è l'ordine in cui l'uso della potenza adempie il suo significato? •

Credo di non giudicare ingiustamente, se penso che il problema non è stato ancora visto in tutta la sua serietà, anzi nemmeno affrontato. Ma chi è chiamato a porlo e ad avvicinarsi ad una soluzione? Con ciò noi ritorniamo alla nostra questione .

Non sembra che sia l'America, come continente, quella a cui è affidato questo compito. La storia di questa grande terra è ancora troppo breve per questo;

essa è cominciata insieme col sorgere della scienza e tecnica moderna. Inoltre il suo orientamento spirituale — se è permesso un giudizio così generale — è ancora in ampia misura legato troppo strettamente alla fede in un progresso universale e sicuro. Certamente, la questione è sentita da singole personalità o circoli, ma essi sono ritenuti piuttosto come outsiders.

Neppure l'Asia, credo, lo sarà. Certo la sua storia è antichissima; ma essa sembra separarsi da questo passato e precipitarsi sulle nuove possibilità con una sollecitudine di impressionante rapidità.

Certamente è prematuro parlare dell'Africa in questo contesto. Frattanto il suo incontro con scienza e tecnica sembra piuttosto creare, nel senso di una genuina

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cultura, confusione, che portare promozione e avanzamento.

Credo che qui ci sia un compito che è affidato par-ticolarmente all'Europa.

Richiamiamoci il fatto che la sua storia, prolungata per oltre tremila anni, conduce con andamento ininterrotto fino al più recente sviluppo di scienza e tecnica. Essa non ci si è gettata dentro con un salto, ma l'ha prodotta; e così ha avuto anche il tempo per abituarvisi.

Ma, di più e di maggiore importanza: essa ha avuto tempo per perdere le illusioni. Non sbaglio certo se penso che all'Europa autentica è estraneo l'ottimismo assoluto, la fede nel progresso universale e necessario. I valori del passato sono ancora in essa così viventi che le permettono di sentire che cosa sta in gioco. Essa ha già visto rovinare tanto di irrecuperabile; è stata colpevole di tante lunghe .guerre omicide, da essere capace di sentire le possibilità creatrici, ma anche il rischio, anzi la tragedia dell'umana esistenza. Nella sua coscienza c'è certamente la forma mitica di Prometeo, che porta via il fuoco dall'Olimpo, ma anche quella di Icaro, le cui ali non resistono alla vicinanza del sole e che precipita giù. Conosce le irruzioni della conoscenza e della conquista, ma in fondo non crede ne a garanzie per il cammino della storia, ne a utopie sull'universale felicità del mondo. Essa ne sa troppo.

Perciò io credo che il compito affidato all'Europa, compito il meno sensazionale di tutti, ma che nel profondo conduce all'essenziale, sia la critica della 'potenza. Non critica negativa, ne paurosa ne reazionaria; tuttavia ad essa è affidata la cura per l'uomo, perché essa ne ha provato la potenza non come ga-

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ranzia di sicuri trionfi, ma come destino che rimane indeciso dove condurrà.

L'Europa è vecchia. Prima sembrava che il carattere della vecchiaia fosse marcato più fortemente sul volto dell'Asia — una volta, quando ancora si parlava della sua intemporalità. Oggi essa sembra rinnegare la sua vecchiaia e sorgere ad una nuova gioventù, certamente grandiosa, ma anche pericolosa. L'Europa ha creato l'età moderna; ma ha tenuto ferma la connessione col passato. Perciò sul suo volto, accanto ai tratti della creatività, sono segnati quelli di una millenaria esperienza. Il compito riservatele, io penso, non consiste nell'accrescere la potenza che viene dalla scienza e dalla tecnica — benché naturalmente farà anche questo — ma nel domare questa potenza. L'Europa ha prodotto l'idea della libertà — dell'uomo come della sua opera —; ad essa soprattutto in-. comberà, nella sollecitudine per l'umanità dell'uomo, pervenire alla libertà anche di fronte alla sua propria opera.

Anzi, l'Europa sarà capace anche di porre la domanda se sia permesso in assoluto all'uomo esercitare il potere sull'altro uomo. L'altro uomo, che non è una cosa, ma un io, una persona. Una domanda tardiva, che si formula chiaramente solo quando molta storia è stata vissuta. Nell'Europa l'uomo si è caricato di un'incalcolabile colpa verso l'uomo, ha prodotto incommensurabili sventure; deve anche vedere come, d'altra parte sia stata usata all'uomo un'impensabile violenza, sulla base delle possibilità da esso create — perciò egli ha la premessa per porre questa domanda; e non solo come problema teoretico, ma come questione della condotta di vita reale.

Forse è possibile fare un cenno sulla dirczione verso

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cui la risposta potrebbe andare. Vi sono due maniere in cui può essere esercitata la potenza rispetto all'uomo. Una è quella del dominio. Essa caratterizza la storia passata ed è legittima finché la forma di dominio di volta in volta presente esprime una realtà metafisica, una « maestà ». Dove ciò accade, ha il carattere della grandezza, della rappresentazione simbolica. Allora l'uomo che esperimenta il dominio, lo sente come giusto. Lo vive con una parte del suo essere, che anela ad un farsi presente dell'Alto. Ma non appena non esperimenta più questa presenza, il suo diritto non è più credibile, allora dal puro dominio si passa ad avere la violenza, contro cui si ribella il senso della libertà.

Ma c'è anche un'altra forma di esercitare il potere, quella del servizio. Con ciò non si intende la subordinazione del più debole; questo servizio al contrario è questione della forza, che si sente responsabile per la vita — per tutto ciò che si chiama vivere: uomo, popolo, cultura, ordine del paese e della terra. Tutto ciò — sia detto ancora una volta — non nell'impotenza della debolezza, ma nella superiorità della forza; legittimato parimenti per incarico divino, ma in una maniera che non esprime « maestà », bensì — se è lecito richiamare in onore questa parola proibita — « umiltà ». Forza di servizio, che vuole che le cose della terra divengano giuste. In questa forma di esercizio della potenza non c'è splendore ne sublimità, ma semplice realistica oggettività. Però forse è ciò che propriamente intende la rivoluzione ribollente dovunque, poiché anche l'uomo d'oggi vuole un ordine valido sotto cui stia la potenza — ma un ordine che serva. Riconoscere e realizzare questo potrebbe essere parimenti compito dell'Europa — della stessa

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Europa, che tante volte ha esercitato il potere e ha

rivendicato una maestà ormai svuotata. Ma se si obietta che ciò sia un'utopia morale, ricordiamoci quante utopie siano diventate prototipi di realtà.

Senza dubbio, l'Europa del mandato per la quale abbiamo parlato ancora non c'è. Si parlava di una legge, secondo cui la pressione marginale esistente intorno ad un certo campo sociologico fa sì che i territori particolari situati in questo campo si saldino insieme. Oltre a ciò, però, non dobbiamo dimenticare che la parola « legge » si può usare solo in un senso improprio nei confronti degli eventi storici. Non è una espressione di necessità, ma una forma di divenire dotata di significato. Il vedere nella storia un processo che scorra con necessità in determinate forme, è un errore fatale. La storia non è un processo naturale, ma un divenire umano, che non si compie da se stesso, ma deve essere voluto.

« Europa » è un fatto politico, economico, tecnico — ma soprattutto una 'disposizione di spirito, un sentimento. Al formarsi di questo sentimento si oppongono forti impedimenti. Nella mentalità primitiva — che però influisce fin nel nostro attuale presente — vale la formula: ciò che è altro, forestiero è la realtà perversa, minacciosa, anzi nemica. Questa formula di psicologia della cultura ha trovato anche un'applicazione politica teoretica: secondo essa, lo Stato è la formazione che può avere nemici. Anche amici;, ma soprattutto nemici. La formula ci ricorda quanto forti siano le resistenze contro un avvenimento quale la formazione di un sincero sentimento europeo, e quante ancora saranno.

Per parlare solo di un compito in cui si rende mani-

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festa la grandezza di dò che deve essere realizzato:

il formarsi dell'Europa presuppone che ciascuna delle sue nazioni ripensi la sua storia e che intenda il suo passato in relazione al costituirsi di questa grande forma vitale. Ma quale misura di autosuperamento e di autoapprofondimento significa ciò!

C'è nella storia un esempio che ci può mettere in guardia e mostrare quanto poco ciò sia naturale e quanto pericolo vi sia di sbagliare. Noi portiamo in noi, come elemento della nostra formazione l'idea dell'antica cultura greca, e non ho bisogno di spendere molte parole sul suo valore formativo. Pure non bisogna dimenticare una cosa che i grecofili volentieri trascurano: cioè che i greci hanno fallito di fronte al più alto compito loro proposto, cioè la creazione di uno Stato che abbracciasse insieme la ricchezza vitale 'di tutte le razze. L'impulso fondamentale dei greci così creativo, cioè il senso agonistico, non ha permesso che giungessero a questo; così essi hanno perso il momento storico e sono stati degli stranieri, i romani, che hanno creato una specie di unità, una unità nella assenza di libertà.

Anche l'Europa può mancare la sua ora. Ciò significherebbe che un'unità sarebbe realizzata non come passo verso il vivere libero, ma come un cadere nella comune servitù.

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INDICI

INDICE DEI TERMINI

Adorazione, 208. Alleanza (fra Dio e il suo popolo), 216. Amore (amore di Dio), 77,

89 s., 119, 141, 207, 216 s.»

223, 244, 246 s., 249 s.,

250, 251, 254, 262 s., 264,

266 s. Anarchia, 104. Archetipo (ideale), 77. Arte, 22, 31, 34, 84, 164, 208,

238, 271, 272. Ascesi (ascetico), 39, 40, 42,

62, 67, 71, 86. Assoluto (Bene), 172-174. Ateismo (ateistico), 64, 82, 86,

93 ss., 100, 110 ss., 117 s.,

122, 287; (a. politico), 115;

(a. postulatorio), 282. Attivismo, 35, 66, 195, 225,

235. Autonomia, 157, 265, 282, 283;

(cultura autonoma), 262. Autorità, 56, 84, 93 ss., 103,

104, 129, 166, 245. Azione, 55.

Bene 91, 95 ss., 145, 161, 171 ss., 222, 252, 259 s., 268 s,, 285; (Sommo B.), 76; (B. platonico), 174; (b. comune), 146, 209.

Benessere, 38, 263.

Bibbia (Sacra Scrittura), 70, 73, 75, 84; (categoria biblica), 151; (concetto biblico), 206.

Bomba atomica, 284, 285.

Carattere, 41.

Chiesa, 88, 156.

Civiltà, 7, 11, 13, 63, 78, 130, 238, 281.

Collettività, 11, 49, 180.

Comunione, 27, 162, 247; (e. con Dio), 127 s.

Comunismo (comunista), 110, 120, 162, 165, 231, 236.

Comunità, 134 ss., 140 s., 147, 202, 226, 230, 233, 244, 264, 277.

Confessione (religiosa) 117 s.

Conoscenza, 39.

Contemplazione (contemplativo), 35, 56, 57, 66.

Convinzione, 136. '

Coscienza, 17, 22, 36, 48, 59, 74 s., 81, 86 ss.., 94 ss., 101 s., 113, 120 s., 134 ss., 139 ss., 153, 167, 180, 189, 201, 218 s., 244, 248, 258, 277, 283; (e. morale), 41, 161; (e. mitica), 75, 283.

Cosmo (cosmico), 80 s., 113, 156, 265, 278, 284.

Creatore (Dio), 78, 124 S.

Creazione, 78, 85 s., 108, 113 s., 119, 207, 218, 221, 223, 252, 266 s., 269.

Crisi (del colonialismo) 120;

(crisi culturale), 73.

Culto, 226, 246. Cultura, 7, 9, 11, 13, 15 ss.,

21, 28 ss., 33 s., 39, 47, 53, 59 s.., 63 s., 68, 102,

295

112, 120 ss., 128, 146, 155 ss., 162, 172, 204, 208 ss., 214, 232, 246, 255, 258, 262 s., 280 s., 292; (filosofia della e.), 7, 13; (attività culturale), 23, 103.

Deismo, 88. Demagogia (demagogico), 94,

•^103, 148. Democrazia (democratico), 145

ss., 150, 153, 159 s., 168,

211. Destino, 25, 174, 195, 210,

-213, 265, 287. Determinismo meccanicistico,

286.

Dialettica, 64. Dialogo (interreligioso), 121,

171 ss.

Dimensione escatologica, 220. Diritto, 52, 150, 171, 185,

290; (d. della vita umana

in formazione), 177 ss. Disciplina (autodisciplina),

39.

Dittatura, 104, 142, 147. Dogma, 37. Dolore, 196. Domenica, 202 ss. Dovere, 150, 189, 240, 249,

251, 253, 258 s., 263, 275.

Educazione (educatore), 48-

49, 139, 179, 182, 196,

212, 240, 274. Ente Supremo, 76. Eros, 26.

Escatologia, 220. Esercizi spirituali, 69. Esistenza (esistenziale), 9 ss.,

14, 19, 21, 26 ss., 47, 50, 52, 59 ss., 65, 68, 71, 77, 80 ss., 84 ss., 91, 95, 98, 115, 119, 125 ss., 135 ss., 137, 140 s., 150, 155, 161 s., 165 s.; (e. umana) 169, 171, 177 s., 178 s., 181, 184, 191, 195 ss., 206, 215, 217 ss., 221, 223, 225, 237 s., 254, 266 ss.; (e. cristiana), 257; (esistenzialismo francese), 257.

Esperienza (e. umana, e. religiosa), 8, 35, 44 ss., 68, 80, 84, 96, 101, 115, 130, 141, 159 ss., 171 s., 182, 216, 228 s., 252, 275, 289.

Essenza (e. dell'uomo), 34, 53, 68, 74, 126, 183, 196, 219; (e. delle cose), 38 s., 56, 66; (e. della vita), 193, 207, 224.

Essere (e. umano, e. delle

cose), 11, 15, 21, 40 s., 42, 53, 58, 71, 104, 135 s., 178 ss., 183, 190 ss., 213 n., 272; (e. assoluto), 89.

Eternità, 80, 220-223.

Ethos, 29, 139, 147, 148, 160, 183, 196, 211, 260, 263.

Ètica, 13, 48, 58, 60 s., 67, 90, 96 ss., 98, 131, 165, ,181, 184; (problema etico), 30, 41; (autonomia etica), 87; (norma etica), 159, 169; (piano etico), 182.

Europa, 169, 180, 254, 275 ss., 288 ss.; (coscienza eu-ropeistica), 275.

Evoluzione (evoluzionismo),

296

31, 44, 63, 78, 87, 19ì 203, 282; (e. spirituale), 169.

Famiglia, 139-140.

'Fatum, 37.

Fede, 12 s., 49, 75, 85 s., 88, 90, 104, 108 ss., 113, 116 s. 123, 127 ss., 202, 216 ss., 233 s., 244 ss., 254 s., 260, 269; (f. nel progresso), 287 s.

Fedeltà, 277.

Filosofia vitalistica, 160-161.

Finalismo (finalistico), 34.

Fine, 65.

Fisica, 23, 31, 37, 115, 286.

Giudizio, 39, 269. Giustizia, 11, 76, 198.-Grandezza, 40. Grazia, 78, 85 s., 126, 127,

207, 217, 220 ss., 248,

261 s., 266, 269. Guerra, 31, 179-180.

Idealismo (idealistico), 88, 115, 213, 231, 271.

Ideologia, 158, 164.

Illuminismo, 25, 128.

Immanenza, 64.

Incarnazione, 79, 89.

Indicazione sociale, 180, 182, 184, 189, 200.

Individuo (individualismo, individualizzazione), 26 s., 34, 146, 160, 194, 255; individualismo liberale, 33 ss.

Integrità (dell'uomo), 42, 59.

Interiorità, 35, 36 s.

Isolamento (dell'uomo), 26 ss.

Istinto, 20, 40, 45 s., 51 s., 236.

Laicato (laico), 257 ss., 261 s. Lavoro, 58, 72, 207, 209 ss.,

218, 224 s., 237. Legge, 38, 52, 75, 80, 98, 101, 102, 115, 182 ss., 184, 200, 203, 207, 212, 245, 280, 291; (1. della correlazione), 57; (1. della duplicità), 46. Liberalismo, 86, 158 s., 258. Libertà (liberazione), 16 ss., 31, 35, 38, 40, 42, 48 s., 52 s., 59, 63 s., 65 s., 72, 77 ss., 83, 89, 95 ss., 100, 108, 114-116, 119, 125, 133 ss., 148 ss., 157 ss., 167, 174, 199, 209 s., 211, 214, 215 n., 217 s., 221 s., 232, 254 ss., 260, 264 ss., 286, 289, 292. Luogo comune, 50.

Male, 91, 145, 158, 208 n.,

209, 219, 222, 258 s., 259,

268, 272, 285. Marxismo (marxista), 37. Massa, 26, 27, 131, 163, 181,

230.

Materialismo, 192, 271 s. Maternità, 187. Medico, 196. Medioevo, 10, 80 ss., 128,

156, 238, 255. Meditazione (culturale), 35,

36-s., 68, 71. Messaggio cristiano, 108 s.,

120. Metastoria, 206.

297

Miracolo, 256.

Misticismo, 36.

Mito, 10, 26, 58, 76, 80 ss., 119 s., 170, 205, 246, 255, 258, 284, 288; (figura mitica), 16; (concezione mitica), 80.

Mondo, 75 ss., 89 ss., 107 s., 123, 125, 127, 166, 186, 207, 216 ss., 222, 231, 251, 254, 258 s., 260 ss., 267 ss.

Monismo, 64, 82.

Moralità, 48, 171; (moralistico), 62; (dovere morale), 95; (ordine morale), 97;

(situazione morale), 149.

Morte, 77, 191 s., 194, 217, 220, 246.

Natura, 9 ss., 18 ss., 32 ss., 43 ss., 61, 64 s., 77, 112, 134, 206 s., 221, 237 s., 255 ss. 262, 281, 286; (ordine naturale), 23; (concetto naturalistico), 45; (n. personale), 141.

Nazione, 279.

Nazismo (nazista), 117 s., 139, 143, 164.

Necessità, 37.

Nichilismo (nichilistico), 168.

Norma (morale), 51, 174, 182, 187, 198, 224, 226, 262, 285.

Nous, 76.

Ontologia (ontologico), 30. Organismo, 31, 191 s. (o.

geografico-culturale), 235. Ottimismo, 263, 266, 267,

288.

Panteismo, 113 s.

Paradiso terrestre, 208-209, 258, 261.

Pasqua, 217 s.

Patologia, 12.

Peccato (originale), 79, 90, 126, 216, 218, 247, 272.

Pedagogia, 13, 49, 190, 236, 274.

Persona (personale, personalità), 33, 37 ss., 47, 55, 77, 96, 100, 114 ss., 125 ss., 131, 133 ss., 140, 158, 161, 179, 185 ss., 188, 191, 199, 200, 209 s., 236, 243, 253 s., 287, 289.

Pessimismo, 266 s.

Fiatone (platonico), 11.

Politica (politico), 34, 36 s., 42, 51, 111, 121, 156 ss., 165 s., 256; (ideologia p.), 136; (violenza p.), 137;

(propaganda p.), 142.

Positivismo, 82 s., 129, 238, 258.

Potenza, 13, 32, 34, 47 ss., 61, 66, 86, 89 s., 124, 126, 153, 164 s., 169, 198, 266, 281 ss., 289 s.

Potere, 38, 48, 65, 112, 142,

164. 171, 184, 188, 196, (Potere come servizio), 290. Problema (teoretico), 12. Processo, 32, 37, 39, 46, 62 ss., 158, 167, 231 s.; (pr. storico politico), 119; (pr. spirituale), 119. Progresso, 7, 31, 32, 33, 40 s., 47 ss., 60, 63, 66, 124,

165. 212, 214, 237 ss., 263, 266, 280, 287. Protestantesimo, 84.

298

Provvidenza, 13, 33, 178, •

218. Psicologia (psicologico), 94,

109 ss, 131, 144, 168, 190,

197, 208, 285 (ps. della

cultura), 291. Pubblicizzazione dell'esistenza,

27, 28, 55, 103, 148, 236.

Ragione, 48.

Razionalismo, 88, 89.

Realismo, 37.

Redenzione, 79, 108, 215 ss., 217, 218, 221, 262, 265 s.

Regno di Dio, 79, 108, 122, 246.

Relativizzazione dei valori, 117.

Religione (religioso, religiosità), 58, 76, 111 s., 116, 120 ss-, 124 ss., 130, 159, 211, 223, 260; (storia delle religioni), 119; (vita religiosa), 163, 263.

Res publica, 38.

Responsabilità, 14, 37 ss., 61, 67, 72, 83, 86, 90 s., 98 s., 115, 123, 125 s., 138 s., 145 ss., 158, 167, 196, 201 s., 253, 260 s., 265, 282; (autoresponsabilità), 38, 185.

Resurrezione, 86, 217, 221.

Rinascimento, 128, 157, 282.

Riposo, 225, 226, 233.

Rivelazione, 64, 75, 77 ss., 80, 85 ss. 107, 110 ss., 117, 121, 127 ss, 132, 151, 156 s., 205 s., 211, 224, 253.

Rivoluzione (rivoluzionario), 66, 150; (r. perenne), 104.

Romanticismo, 128.

Sacerdozio (dei laici), 260.

Salvezza, 85 s, 127.

Santità (santo), 78, 89, 158, 216, 243 ss., 245, 248, 257, 264, 267 ss., 269.

Sapere, 56.

Scienza (scientifico), IO, 21 ss, 31, 34 ss., 39, 52, 59, 62, 68 s., 70 s., 82, 85 s., 102, 113 s., 122 ss., 129, 143, 153 ss-, 280; (sviluppo scientifico), 7, 199; (attività scientifica), 40.

Secolarizzazione (del cristianesimo), 33, 85 ss., 113.

Sensibilità, 45.

Sentimento, 25, 50 s., 56, 84 s., 109, 124, 130, 148, 161, 168, 233 s,, 276. s., 283, 291.

Servizio, 290.

Simbolo (simbolismo), 83, 128, 290.

Simbolo (simbolistico), .121.

Sincretismo, 113.

Società (sociale), 36, 112, 118, 150, 154, 164, 177 s., 196; (s. dei consumi), 271;

(s. democratica), 148, 197, 205, 225, 229.

Sociologia (sociologico, sociologo), 7, 12, 11, 117, 278.

Speranza, 42, 18, 221, 266, 268, 269.

Sperimentalismo, 61.

Spirito (dell'uomo), 17 s., 20, 26, 36, 44 s., 52, 63, 115, 135, 206, 224, 256;

(storia dello sp.), 155; (sp. assoluto), 271.

299

Stato, 11 s., 31 ss., 38, 50, 56, 60, 64, 82 s, 87 s., 98 s., 105, 134 s., 137 ss., 143 ss., 147, 162, 164, 171, 178, 184 ss., 186 ss., 198 s., 201, 210, 230, 236, 245, 254, 283, 291 s.; (St. di Israele), 118.

Storia (storico, divenire st., situazione st.), 10, 12, 16 s., 21 s., 29, 33, 47 s., 52, 64, 78 ss., 88, 97, 100, 108 ss., 118, 123, 130, 132, 155, 159, 165 ss., 169, 195, 203, 206, 213 n., 214 n., 222, 231, 237, 249, 254, 265 s., 279, 287, 291 s.

Struttura, 25, 30, 34, 38, 76, 79, 183; (str. della vita), 159, 190 s.; (str. fisicospirituale), 107; (str. dello Stato), 146.

Tacere, 53, 66.

Tecnica, 10, 13, 22 ss., 31, 34, 36 s., 39, 41 s., 43, 52, 59 ss., 65 s., 68, 71, 82, 85, 87, 122, 124 ss., 129, 153, 163, 168, 171, 181, 186, 188, 202, 227 s., 280; (sviluppo t.), 7; (funzionalità t.), 23; (problema t.), 33, 35; (apparato t.), 34.

Tempio, 223 ss.

Tempo, 220, 223.

Teologia (teologo), 119, 121, 128, 151, 177; (t. della potenza), 126; (t. della domenica), 224.

Totalitarismo, 33 s., 58, 82, 140, 146, 162, 165, 169, 200, 230, 236, 283; (potere, regime totalitario), 27 s., 133, 139.

Trascendenza (trascendente), 76, 100.

Umanesimo, 42, 160; (formazione umanistica), 29. Umanità, 9, 28, 62, 108. Umiltà, 290.

Università, 56, 142 ss.. Università popolare, 151 ss.,

165 ss. Utopia, 24, 25, 288, 291.

Valore, 28, 30, 34, 38, 40,

47, 57, 72, 87, 90, 124, 133 s., 141 s., 144, 157, 162, 165 ss., 173, 186, 190 ss., 211, 232 ss., 235 s., 254, 263, 288.

Verità, 36, 40, 50, 53, 56, 71, 117, 121, 127, 135, 142 s., 152 s., 155, 157 ss., 161, 171, 173 ss., 208 ss., 216, 246, 248, 261;

(coscienza della verità), 172 s.

Vita (processo vitale), 21.

Vitalismo (vitalistico), 160, 165.

Vita inferiore, 9.

Volontà, 7, 12, 74, 104, 209, 216, 251; (volontà di Dio), 207 s., 262.

300

INDICE DEI NOMI

Agnese (S.), 247. Agostino (S,), 216, 248, 287. Aicher O., 152. Anders G, 15.

Anselmo di Canterbury (S.), 147.

Benedetto (S.), 248. Berkefeld W., 62. Bodamer J., 15. Bonifado (S.), 248. Boveri M., 168, 277. Buber M., 119.

Callide, 171. Cecilia (S.), 248. Chiara (S.), 247. Costantino, 247. Cunegonda (S.), 248.

De Castro J., 214.

De Caussade J., 249, 250.

Disney W., 273.

Elisabetta di Turingia (S.),

248. Erasmo di Rotterdam, 275.

Francesco d'Assisi (S.), 247. Francesco Saverio (S.), 248.

Gandhi M.K., 42.

Gtìhlen A., 62.

Gesù Cristo, 77, 216, 220, 221, 243, 244, 246, 248, 256, 257, 263, 266.

Giovanni (S.), 222, 254, 264,

266, 268. Goethe J.W, 73. Goya, 272. Gorgia, 171. Grosz G., 272.

Hegel G.W.F., 11. Ignazio di Antiochia (S.),

247. Ignazio di Loyola (S.), 248.

Jungk R., 15, 41. Kierkegaard S., 131, 168.

Leins H., 177.

Luigi di Francia (S.), 248.

Luterò M,; 152.

Marx K., 11.

Newman J.H., 130. Nicola di Flue (S.), 248. Nohi H., 196. Notburga (S.), 248.

Otto W.F., 238.

Paolo (S.), 220, 244, 245. Parmenide, 76. Pascal B., 272, 287. Patrizio (S.), 248. Perpetua (S.), 247. Picasso P., 272, 273.

301

Pietro (S.), 260, 261. Fiatone, 172, 174. Piotino, 76. Predico, 171. Protagora, 171.

Ranke L. von, 174.

Sebastiano (S.), 248. Scheisky, H., 15. SchoU, A., 152.

Simmel, G., 278. Socrate, 51, 171-173. Sofocle, 286. Stefano (S.), 247. Stirner, R., 146.

Timoteo (S.), 244. Tommaso d'Aquino (S.), 247.

Weber, M-, 67. Vincenzo De' Paoli (S.), 248.

302

INDICE

Premessa ........ Pag. 7

I - « Ansia per l'uomo » ...» 9

II - La cultura come opera e come

minaccia . . . . . . » 15

III - L'uomo incompleto e la potenza . » 43

IV - Per una teologia del mondo . . » 75

V - L'ateismo e la possibilità dell'autorità ........ 93

VI - La fede nel nostro tempo . . » 107

VII - Libertà ...... •a, 133

Vili - Pluralità e decisione . . . » 151

IX - II diritto della vita umana in formazione ...... » 177

X - La domenica: ieri, oggi e sempre » 202

XI - II santo nel mondo . . . . » 243

XII - Mickey Mouse e compagni . . » 271

XIII - Europa - Realtà e compito . . » 275 Indice dei termini . . . . . . » 295

Indice dei nomi ....... 300

 

 

 

 

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