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EDIZIONE ITALIANA A CURA DEL « CENTRO DI STUDI FILOSOFICI
DI GALLARATE
ROMANO GUARDINI
ANSIA PER L'UOMO
MORCELLIANA
Titolo originale dell'opera:
Sorge um den Menschen - Band I © Werkbund Verlag -
Wiirzburg 1958 Traduzione dal tedesco di Albino Babolin
by Morcelliana, Brescia, 1970
Tipografia « La Nuova Cartografica » - Broscia 1970
PREMESSA
II titolo del libro è scelto di proposito. Dei discorsi,
conferenze e articoli che vi sono riuniti nessuno è nato in forma di una
trattazione, cioè da una problematica puramente teoretica, ma i problemi
furono indicati all'autore da avvenimenti e necessità dell'attualità, e
i vari contributi sono tentativi di vederci più chiaro. Contengono molti
elementi di critica alla civiltà e cultura presente; anche questa critica
però è determinata non da punti di vista puramente di filosofia della
cultura, bensì da un'ansia, avvertita sempre più fortemente, per l'uomo,
che non fu mai minacciato più direttamente di oggi. Dal problema se
l'uomo, nel processo sempre più rapidamente svolgentesi dello sviluppo
scientifico, tecnico, sociologico, possa rimanere nel senso, in cui il
concetto trova la sua determinazione nella parola di Dio e nell'onore
umano. La questione si fa tanto più urgente, in quanto dappertutto è
operante un concetto che rende ciechi al carattere reale del divenire
storico, quello cioè del progresso. Secondo esso il procedere del
pensare, dell'agire, dell'organizzare si compie con necessità inferiore,
e più precisamente esso avanza verso ciò che è sempre migliore e più
perfetto. Questa fede — giacché quel che sostiene il pensiero non è
una visione intellettiva, ma una volontà — dissimula i pericoli che
risultano dallo sviluppo della civiltà e cultura.
Il carattere dei saggi seguenti comporta pure che parecchi
pensieri ricorrano in essi alquanto spesso. La trattazione scientifica
d'un argomento non lo permetterebbe; non appena essa abbia constatato ed
espresso qualcosa, il suo passo successivo porta più
avanti. Qui si tratta pero ài motivi di fondo delia-nostra situazione
storica, sperimentati vitalmente dall'ansia per l'uomo, il quale in larga
misura sembra non vedere dove conduca ciò che fa. Pertanto non è
assolutamente possibile fare in modo che questi motivi non siano ripresi
continuamente e non vengano illustrati a partire, di volta in volta, da
diversi contesti dell'esperienza.
I
« ANSIA PER L'UOMO »
1. - La preoccupazione per l'uomo si esprime in una
domanda, di cui non si sa se possa avere risposta.
Nel corso del tempo e attraverso i luoghi della terra i
popoli della storia hanno costruito l'opera dell'uomo: un insieme
incalcolabile di conoscenze, fatti e strutture, con cui si è preso
possesso della natura, rendendola utile ai bisogni dell'uomo ed
espressione della sua vita interiore.
Quest'opera è stata sempre compiuta dal singolo. Ma
ognuno entra anche nella situazione di lavoro, che hanno lasciata coloro
che hanno vissuto prima di lui;
egli assume il risultato del loro lavoro e con ciò Ì
motivi, che l'hanno mosso, e i problemi, attorno ai quali si sono
affaticati, così come egli da parte sua trasmette alle generazioni
seguenti la sua opera e il suo pensiero. In questo modo egli sta nel
contesto d'un creare più generale e si può parlare di un'opera dei
gruppi sociali, dei popoli, e infine dell'umanità.
Il singolo, nel produrre questa cultura oggettiva,
sviluppa insieme i suoi talenti individuali e realizza il senso della sua
personale esistenza. Nel divenire, nel costituirsi della sua opera diviene
egli stesso, quello che egli può e deve essere — nella misura in cui la
sorte gli accorda il suo favore. Ma qui sorge la domanda: come stanno fra
loro queste due linee dell'agire o del divenire?
La concezione ottimistica risponde: ognuno si realizza,
nell'altro. Mentre l'uomo compie la sua parte nell'opera dell'umanità,
egli realizza se stesso — d'altra parte l'opera di tutti è tanto più
ricca, quanto più pienamente essa esprime il significato della vita dei
singoli operanti. Il contesto oggettivo dell'universale
conoscere, operare e configurare e quello soggettivo del divenire
personale corrono, è vero, su piani differenti, ma sono sempre ordinati
fra di loro, si reggono vicendevolmente, an2Ì sono in fondo identici: una
sola storia.
Questa la visione che domina largamente il nostro tempo.
Ma di fronte ad essa si erge il dubbio se essa sia giusta. Il mito ha
pensato diversamente;, e altrettanto la saggezza dell'antichità e del
medioevo, e un'inquietudine nel profondo della nostra coscienza rende il
dubbio tanto più urgente, quanto più si prolunga.
2. - Mi ricordo la conferma, che sentii spaventato, quando
lessi l'opinione cautamente espressa da uno dei nostri più eminenti"
fisici, che cioè non è sicuro che la linea direttiva della scienza corra
parallela a quella della felicità umana. Poiché, realmente, che cosa
potrebbe garantire un tale parallelismo? Dove dovrebbe essere il centro,
che accordi fra loro i due cammini dell'esistenza?
In mezzo all'esaltazione sulle ultime enormi realizzazioni
della scienza e della tecnica, che hanno conquistato le energie atomiche,
sorge la domanda se queste energie — come in generale le energie della
natura conquistate — possano essere anche ordinate, cioè possano essere
introdotte nella vita degli uomini e rese utili alla loro crescita e
sviluppo. E, se ciò deve esser possibile, in quale modo? La risposta
affermativa potrebbe suonare solo: per opera dello stesso uomo, che le ha
liberate, in quanto egli sottopone la loro attuazione al senso della sua
esistenza, alla regola del ragionevole, del giusto e del conveniente.
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Ciò sembra a prima vista convìncente; ma subito
sorgerebbe di nuovo e più incalzante la domanda:
ma l'uomo stesso è ordinato? Possiede quella « giustizia
» esistenziale —- prendendo la parola nel grande significato platonico
-—, che lo renda capace di trattare ogni essere, come lo richiede la sua
natura, e quindi padroneggiare gli impulsi della brama di domìnio e di
potenza, brama inerente alla cultura e civiltà? Capace di divenire tanto
più sovrano nella visione, sicuro nel giudizio, prudente nella
ponderazione e nell'ordinamento, quanto maggiori sono le energie che
giungono a sua disposizione?
L'ottimista risponde di sì, perché l'uomo è ragionevole
e buono. Ma lo è realmente e semplicemente? Così ragionevole e così
buono da rimanere padrone delle energie continuamente crescenti, degli
impulsi sempre più largamente invadenti? E che pensare di ciò che in lui
è ancora manifestamente non ragionevole, non buono, e sulla cui potenza
di distruzione gli ultimi quindici anni hanno dato le più serie lezioni a
chiunque voglia essere ammaestrato?
3. - La risposta affermativa cerca di sostenersi dicendo:
non il singolo, ma la collettività è ragionevole, buona, capace di
ordinare 'l'esistenza. Questa poi non. deve essere intesa come folla, come
la somma di tutti i singoli, ma in senso sostanziale come « il tutto »,
cioè lo Stato. La vecchia dottrina della divinità dello Stato,
proseguita oltre Hegel fino a Marx, proclama che questo può ciò che non
può il singolo uomo, e neppure molti individui, anzi neppure la
collettività di tutti. In esso opera un'oggettiva potenza di ragione, che
è all'altezza del compito di dominare il caos delle forze della cultura.
Ma è ciò vero? Oppure è un'illusione? Un surrogato
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dell'antica fede nel governo divino del mondo? È pur vero
che lo « Stato » è nient'altro più che « l'uomo », solo nell'aspetto
del suo contesto sociologico — ma allora in questo Stato non devono
valere, come le sue forze di ordine, così anche quelle del disordine,
della patologia e della malvagità? Che anzi esse acquistano una nuova
forma minacciosa per il fatto che il suo modo di intendere se stesso non
riconosce più alcuna istanza sopra di sé?
E se nel corso della storia, a poco a poco divergono le
due linee: quella della vita e quella della prestazione effettuata, quella
della realizzazione personale e quella dell'opera oggettiva? La cultura
o.ggettiva ha la sua logica: la connessione che unisce un problema
teoretico con quello che lo precede e con quello che lo segue, fa
risultare una possibilità tecnica da quella realizzata prima e che
prepara la seguente. Ma questa logica non è solo statica, un rapporto
stabile di fondazione, ma anche dinamica, per il fatto stesso che è
sensibile e operante nello spirito vivente, nella volontà e nella energia
creativa dell'uomo. Essa non solo ordina, ma spinge avanti. E se la sua
energia e la sua dirczione solo fino adesso avessero appunto corrisposto
ancora a quella del divenire umano?
Se ciò che noi abbiamo riguardato come crisi storica
dello sviluppo umano e perciò come difficoltà passeggere, fosse stato in
realtà annuncio di un disastro definitivo? Per il fatto, cioè, che
l'opera dell'uomo fosse diventata autonoma per la forza del suo movimento
immanente? Cominciasse. a passare oltre, al di sopra dell'uomo? E l'uomo
trovasse motivo di temere della sua propria opera?
4. - Non credo che tale dubbio possa essere eliminato col
giudizio, che si sia pessimisti. Invece, certo
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la situazione è questa: colui che non la sente è ottuso
di fronte ad una domanda, che l'ora gli rivolge. E sembra che ci sia
motivo per la preoccupazione e che tale sarà il caso, poiché non si vede
che si sviluppi una seria etica dell'uso della potenza, una. scienza sul
retto dominio della natura, una difesa cosciente ed efficace contro la
coazione della cultura oggettiva, un'ascosi dell'istinto che spinge alla
cultura o civiltà.
Dovunque si sente il vecchio, frivolo ottimismo, secondo
il quale nonostante tanti malanni tutto, già, andrà bene. Ma, se si
domanda chi si preoccupi che ciò anche accada, non si riceve di regola
alcuna risposta. Se pure succede di ottenerne una per forza, allora ci si
imbatte nella rappresentazione di quella « natura », in cui si è
volatilizzata la fede cristiana nella provvidenza. Essa presta- garanzia
per l'ordine. a meno che non sorga l'antitesi di questa fiducia:
cioè il cinismo che tutto alla fine debba pure andare una
volta in rovina.
.Ma comunque stia la situazione rispetto a questi problemi
di filosofia della cultura, in ogni caso sarebbe tempo che la tecnica —
prendendo la parola per tutto ciò che l'uomo « fa » — uscisse fuori
dalla fase dell'adolescenza di cui essa è ancora in ampia misura
prigioniera. Con ciò non si intende che i suoi metodi siano immaturi;
essi sono certamente di una esattezza degna di ammirazione. Si intende
piuttosto che essa debba alla fine entrare in quella maggiore età, che
non guarda solo l'oggetto di cui direttamente si tratta, ma anche
l'insieme della vita, in cui esso è situato.
Sarebbe tempo che la teoria e la prassi della pedagogia
assumessero il compito che finora hanno trascurato, cioè l'educazione al
giusto uso della potenza;
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alla responsabilità dell'uomo per ciò che egli può —
già del giovane, ma soprattutto dell'adulto. Se è permessa una parola un
po' patetica: è tempo che sia formata un'arte di governo dell'esistenza,
la quale sappia che, nonostante tutte le automazioni, l'essenziale, cioè
l'ordinamento dell'esistenza, deve essere attuato dall'uomo stesso.
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II
LA CULTURA COME OPERA E COME MINACCIA *
Avvertenza.
Anzitutto brevemente un accordo circa i concetti che
verranno usati in queste considerazioni. Il termine «
cultura », che viene di continuo ripetuto, designa tutto ciò che l'uomo
fa, plasma e crea. Analogamente « natura » intende ciò che è
senza che l'uomo nulla vi abbia modificato.
Ma è senz'altro chiaro che questa natura già contiene un
elemento di cultura. Poiché essa è quella sfera che l'uomo incontra e
percepisce; nel cui quadro egli inserisce i presupposti del suo vedere e
del suo comprendere. E, se l'uomo stesso nella sua prima datità, nel suo
essere corporeo-spirituale, nel modo come emerge dalla nascita e
dall'ereditarietà, può
* Le idee <li questo saggio furono esposte nella
primavera del 1957 in occasione della fondazione dell'Accademia cattolica
bavarese e della Settimana delle Università all'università di Colonia.
La conferenza appare qui riveduta e con qualche sviluppo in più.
Il libro di robert jungk citato a p, 41 ha per titolo: Roller
als tausend Sonne, Stuttgart 1956 (trad. ital. Gli apprendisti
stregoni, Torino 1958). Dopo aver finito il mio studio per la
conferenza, conobbi i due scritti di joachim bodamer: Der Weg wr Askese,
Hamburg 1955 e 'Der Mann von beute, Stuttgart 1956, come pure il
libro di gunther anders, Die Antiquiertheit des Menschen, Munchen
1956, che vorrei qui segnalare al lettore. Quasi contemporaneamente alla
conferenza qui pubblicata Helmut Scheisky a Monaco ha parlato su Die
Zukunft geistiger Fùhrungsschichten e vi ha sviluppato le idee d'una
ascesi capace di prendere in mano il corso ormai senza bussola della
tecnica.
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essere considerato come « natura », questa implica già
in linea di principio il momento dello spirito nella libertà dell'uomo,
la quale non è « natura », ma « storia ». Viceversa però, anche ogni
fenomeno di cultura contiene un elemento di natura, in quanto in esso
l'uomo afferma e plasma ciò che esiste senza di lui.
Noi abbiamo dunque da fare con concetti approssimati, i
quali, a seconda del contesto in cui si adoperano, hanno significati
proporzionalmente diversi.
Attraverso tutta l'esistenza umana corre un moto 'che va
dalla natura alla cultura. Ma questo moto viene vissuto in una maniera
piena di contraddizioni. Da una parte tutto ciò che da questo moto
risulta è ovunque contrassegnato da accentuazioni di valore positive. È
l'opera dell'uomo quella secondo la cui ricchezza ed incisività noi
valutiamo tanto i singoli quanto la situazione storica di volta in volta
reale. Dall'altra parte l'uomo prova nei suoi riguardi ogni volta una
inquietudine, che è tanto maggiore quanto più alta è l'opera. Ciò si
rivela in certe figure miti-che, come in Prometeo. Egli appare come
portatore di cultura tout court; ma subisce un destino che, oltre
ad essere tragico, ha pure il carattere della colpa. Pure il concetto
dell'azione prometeica, così significativo per l'uomo moderno, non
potrebbe essere originario. Per i Greci Prometeo, il rapitore del fuoco,
era pure sempre anche un empio.
La coscienza dell'ambiguità della cultura appartiene alla
sua stessa essenza. Nella forma più tenue tale coscienza sembra
ritrovarsi là dove l'uomo è costretto ad operare per emergere da
impellenti pericoli naturali. Ma essa cresce con la sicurezza della sua
posizione. Non appena la cultura diviene molto ricca,
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tende pure a divenire un attentato a tale sicurezza e
stimola il ritorno alla « natura »: un'esigenza che però non potrà
avere adempimento, non essendoci ritorni nella storia.
La situazione oggi è che forze naturali di grandezza
enorme pervengono nelle mani dell'uomo, ed egli le adopera per opere che
non molto tempo fa parevano utopie. Ma questo stesso uomo esperimenta
un'ansia e un'oppressione di coscienza in misura inaudita finora.
1. - II procèsso creatore ài cultura.
Il nucleo del processo da cui nasce la cultura consiste di
due momenti che non possono essere risolti l'uno nell'altro, ma che si
condizionano a vicenda.
Il primo è quell'atto nel quale l'uomo esce dal contesto
della natura e assume distanza nei riguardi della realtà naturalmente
data. Tale atto significa qualcosa d'altro dall'atto, ad esèmpio,
dell'uccello rapace che sale in alto per poter bene osservare il campo nel
cui raggio si muove la preda. Questa distanza sta all'interno dei rapporti
naturali; quella invece di cui parliamo realizza il dato di fatto che
l'uomo non si risolve nella natura, ma sta in essa e insieme fuori di
essa. Il suo luogo ontologico è il confine della natura. Questo suo stare
sul confine egli lo realizza nell'atto culturale e in esso si fa libero
per un comportamento che non è possibile all'animale. La premessa per
tutto ciò si chiama « spirito ». È lo spirito che sta sul confine,
conferisce il punto d'appoggio, rende possibile il porsi di fronte.
H secondo momento è quell'atto con cui l'uomo va verso la
natura e l'afferra. Quest'atto non è un revo-
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care la distanza assunta prima, ma diviene possibile solo
in forza sua. Giacché anche in questo andare all'assalto della natura si
verifica qualcosa di diverso da quanto avviene quando l'aquila si getta
sulla preda o raccoglie il materiale per la costruzione del nido. Simili
operazioni si compiono per essa nel contesto diretto del comportamento
naturale. Ciò che l'uomo fa presuppone quel distacco che è possibile
soltanto in forza dello spirito.
In quest'atto l'uomo considera il suo oggetto, lo
comprende, lo valuta, lo plasma. L'animale non comprende, ne valuta, ne
plasma, ma si orienta, sente ciò che è vantaggioso o dannoso, afferra o
si difende. Questo fare è dotato di un senso; ma il senso non viene posto
dall'animale, bensì si esplica anonimamente in lui come significato
naturale. Nell'uomo la realizzazione del significato discende dalla sua
personale iniziativa, dalla sua conoscenza e decisione;
due cose possibili unicamente perché là c'è un'istanza
che crea il distacco: lo spirito.
La differenza si mostra proprio là dove il fare dell'uomo
resta in svantaggio rispetto a quello dell'animale, cioè nella
possibilità di sbagliare. A parte il breve periodo in cui l'animale è
giovane e non del tutto sicuro nella sua funzione, esso non sbaglia.
Quando il suo atto risulta falloso, non si tratta d'un errore, ma è segno
che il suo organo ha un difetto; un segno di .deficiente adattamento alla
vita, che da ultimo porta l'animale alla sua fine. Soltanto l'uomo può
sbagliare, perché egli vive in modo decisivo da un centro che non si
risolve nel contesto della natura, dallo spirito. L'errore è altrettanto
spiritualmente. condizionato quanto il comportamento giusto.
Unicamente sulla base della descritta distanza si rende
possibile anche l'autentica vicinanza all'oggetto,
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L'animale sta in un contesto che non lo lascia sfuggire
mai. Perciò non esiste per esso ne la vera lontananza, ne la vera
vicinanza. L'uomo entra di fronte alla cosa nella libertà della distanza;
di lì egli può, in eguale libertà, entrare di fronte alla cosa in una
vicinanza di affermazione, di simpatia e di responsabilità, che non
esiste per l'animale.
Lo svolgimento dei due atti può avere gradi diversis-simi
di chiarezza e di intensità. Esso può sprofondare apparentemente nel
comportamento naturale, come nel caso delle operazioni del sentimento o
dell'abitudine; ma può anche esperire le potenti accentuazioni
ascensionali, che hanno luogo nei fenomeni culminanti della cultura.
Tale svolgimento costituisce il nucleo del comportamento
umano. Esso si da, non appena si può parlare d'un uomo in modo netto. La
teoria, secondo cui dall'animale più semplice corre fino all'uomo una
linea evolutiva continua, è una pura ipotesi; anzi una ipotesi deviante,
perché sottrae l'elemento decisivo ai concetti che interpretano
l'esistenza. In che modo si debba pensare l'origine dell'uomo, è una
questione a sé. Sembra che essa non si possa porre ne scientificamente,
ne filosoficamente, ma soltanto teologicamente.
2. - II carattere esistenziale dell'opera iella
cultura.
Abbiamo così determinato il carattere esistenziale
dall'atto e dell'opera di cultura. L'una e l'altro si fondano sulla
libertà in cui l'uomo considera, comprende e giudica, si pone i suoi
scopi ed elegge i mezzi per realizzarli. Già la più semplice delle
figure, che egli delinea sulla parete della sua caverna, emerge da una
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visione spirituale, la quale a sua volta presuppone la
distanza di cui s'è detto. Dalla pittura delle caverne un processo
continuo conduce alle più elevate creazioni artistiche; ed al contrario,
nessun processo del genere conduce dalle forme più differenziate nel
regno dei cristalli o dei fiori ai più semplici disegni delle caverne.
Fra gli uni e le altre c'è un salto qualitativo, che solo lo spirito può
compiere. Ma da questa sua specifica qualità l'opera di cultura viene
anche immediatamente minacciata. Il fare dell'animale viene ipso facto
garantito dalla necessità naturale che lo vincola. Le esigenze della sua
crescita e della sua autoconservazione si esprimono negli istinti che
segnano la dirczione e i confini del suo comportamento. Invece la
libertà, con cui l'uomo esce dal contesto della natura, lo colloca nel
pericolo. Certo egli pure ha istinti e tanto più forti quanto più si
trova vicino alla natura:
impulsi che impongono una dirczione, che mettono in
guardia, che spingono a moderarsi e via dicendo. Ma anch'essi stanno entro
il campo della sua libertà e vengono di continuo influenzati e turbati da
essa. E quanto più è forte nel corso della storia l'espansione della
libertà, tanto più insicuro diventa l'istinto.
Di più ancora, nell'uomo istinti diversi possono
entrare in contraddizione reciproca, e vi entrano di fatto tanto più
quanto più avanza lo sviluppo culturale:
pensiamo all'istinto del piacere che s'impone anche contro
gli allarmi dell'istinto di conservazione. Nasce di qui un disordine il
quale ha un carattere ben diverso da quello dell'insicurezza che indica
che una specie animale va degenerando. È un disordine che si comprende
unicamente per il fatto che la vita dello uomo si attua dal centro della
libertà, al punto che l'uomo può sostenere un disordine che farebbe
perire l'animale.
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La possibilità di sbagliare è dunque essenziale all'uomo
perché egli è libero. Lo si può addiritura definire come quell'essere
che può sbagliare: certo perché egli può anche, nella libertà,
eleggere il giusto. All'essenza della cultura appartiene la possibilità
di fraintendere il rapporto di causa e di effetto; di conferire forme
false a una certa materia; di sovvertire degli ordi-.namenti. Nascono di
qui tutti quei fenomeni di cultura errata di cui è piena la storia. Ma
questi fenomeni si riflettono sull'esistenza dell'uomo e insidiano lui
-stesso: per mezzo di falsi modi di vivere, di mancanze del necessario, di
disordini sociali e così via.
Il pericolo della cultura viene dunque dallo stèsso
centro da cui viene la possibilità della cultura.
3. - Le epoche della storia.
Se noi, da questo punto di vista, gettiamo uno sguardo
sulla storia, potremo, io credo, delineare tré epoche di carattere
diverso e di lunghezza assai ineguale. Al principio sta la cultura
primitiva. Dunque quella che la scienza legge dai resti archeologici; ma
che si può ancora incontrare presso popoli che chiamiamo primitivi.
Il momento della libertà è già presente ed operante
anche in essa. Il più semplice utensile e la più elementare decorazione
già lo contengono. In tale livello incidono però anche numerosi e forti
aspetti di garan-. zia: il singolo sta nel fitto tessuto di totalità
sociali;
le tradizioni hanno potenza; la vita è inalveata
dappertutto nella sfera magico-religiosa;, i processi vitali stessi
corrono in gran parte secondo forme ritmico-simboliche: tutti aspetti che
garantiscono il divenire vitale e inducono l'osservatore ad adoperare il
termi-
21
He di « popoli allo stato di natura ». La denominazione
sarebbe fondamentalmente falsa, giacché sulla base di essa il .gruppo
umano in questione viene posto sulla stessa linea d'una colonia zoologica.
Ma essa avrebbe ragione nel senso che l'atto dell'emancipazione dalla
natura non oltrepassa un certo vicino limite e il legame con essa rimane
invece assai stretto ed efficace. Ciò conferisce alla vita degli uomini
primitivi quel carattere di « naturalità » e di sicurezza, di «
copertura » che alle generazioni tardive appare spesso così invidiabile.
La seconda epoca noi la vogliamo designare
provvisoriamente come l'epoca « umana » (humane). Ci riserviamo a
più tardi la critica a questo termine, subito non è possibile. Ad ogni
modo essa si estende dallo inizio d'una chiara coscienza della storia fino
all'irrompere della scienza e della tecnica, preparato nel corso dell'età
moderna e compiutosi al principio del secolo XIX.
La sua estensione nel tempo è dunque assai lunga. Essa si
articola nei modi più vari: secondo i popoli e i paesi, la scala storica,
gli stili, eccetera. Ma, nonostante le diversità, essa manifesta un
carattere unico che l'attraversa tutta; quello che ci fa sentire che in
essa l'uomo era più se stesso che nella nostra epoca: e che pur nelle
forme più differenziate di soddisfacimento dei bisogni, di ordine
sociale, di conoscenza e di arte, egli vi esisteva più armonico e più
vicino alla natura di quanto noi siamo.
Questo carattere sembra emergere da una determinata
proporzione che vi si aveva fra la distanza verso la natura e la libertà
operativa che ne conseguiva da una parte, e la vicinanza verso la stessa
natura e la garanzia in essa implicita dall'altra. L'uomo in questa
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epoca sì allontana dalla natura solo fino al punto che
possa ancora sentire ovunque gli ordini naturali; e la sua azione viene
ancora delimitata di continuo dal senso di ciò che la minaccia e di ciò
da cui ci si deve difendere.
Per ciò poi che concerne le sue attività culturali, esse
sono essenzialmente praticate sia per mezzo dell'immediata prestazione dei
sensi, sìa per mezzo della mano e di strumenti.
In seguito questa proporzione va perduta e inizia una
terza epoca, quella in cui noi siamo. La scienza e la tecnica rendono
possibile disporre della natura in modo che non sembra più avere
radicalmente confini. Indicazioni e allarmi del sentimento immediato si
attenuano. La libertà si trasforma in arbitrio.
Si distinguono varie tappe in questo processo. Prima la
scoperta e il dominio dell'energia a vapore ed elettrica per cui energie
di entità mai prima conosciuta passano a disposizione dell'uomo. Poi la
scoperta delle materie sintetiche, la quale ha reso la funzionalità
tecnica indipendente dalle evenienze naturali ed ha insegnato
l'adattamento del materiale allo scopo di volta in volta prefisso. Più
oltre viene l'automazione la quale trasforma la sede e il processo di
produzione in una macchina in sé conclusa e che funziona da .se stessa.
La fisica e la tecnica infine dell'energia atomica amplificano in maniera
incalcolabile il campo della libera posizione e realizzazione di qualsiasi
fine.
Non ci è possibile avvertire se e come questa epoca
verrà risolta in un'altra ancora. A meno che si prenda in considerazione
la possibilità che i momenti negativi in essa, di cui subito parleremo,
conducano a una fine degenerativa o catastrofica, o si riesca a non
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vedere nell'idea d'uno stato di perfezione più d'una
vuota utopia.
4. - Lo sganciamento dalla base naturale.
Il tema di queste riflessioni ci propone anzitutto la
questione in che modo l'uomo venga sganciato in questa evoluzione dalla
base naturale. Per una risposta io allineo, uno accanto all'altro, alcuni
fenomeni. Tuttavia la lista non ha la pretesa d'essere completa ne di
costituire un coerente complesso logico-genetico. .L'uomo dell'epoca
anteriore era determinato dai dati immediati della natura, dalla materia,
dalle sue forme, dai suoi processi. Nell'atto dell'incontro con questa
natura e del suo possesso, essi gli somministravano materiale per la sua
opera; gli indicavano la dirczione in cui essa doveva muoversi e
tracciavano i confini del suo raggio d'azione. Il fenomeno fondamentale
del fare culturale era lo strumento, la sua costruzione ed uso. Ciò che
reggeva lo strumento erano i sensi e la mano. Poi la scienza esatta, in
modo sempre più deciso, penetrò oltre i dati immediati della realtà
verso i dati elementari. La tecnica incominciò a realizzare di lì i suoi
obiettivi. Nacque la macchina e sviluppò una sempre maggiore perfezione.
A questo punto i sensi e la mano perdono di importanza.
L'uomo entra in rapporto, al di là dei dati immediati della natura, con
la realtà elementare. Costruisce un mondo di realtà intermedie: un mondo
di segni, di calcoli, di apparecchiature, e si immerge sempre più in
esso. Questo mondo non è naturale ma ar-. tificiale. Esso non sussiste di
per sé, non si svolge per impulsi naturali, ma deve di continuo esser
creato e mantenuto in atto dall'uomo. L'uomo perciò non
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può lasciarlo affidato a se stesso, ma deve di continuo
preoccuparsi di esso e viene da esso afferrato sempre più. Uno stato di
crescente arbitrarietà — ma senz'altro anche di crescente tensione —
nasce di qui. Un sentimento che prima era appartenuto all'utopia determina
ora sempre più la coscienza dell'uomo che vive con realistica
obiettività: il sentimento che egli possa porsi i suoi scopi come vuole e
che sia in grado di approntarsi ogni volta i mezzi necessari alla loro
realizzazione. Ma con questo egli perde quella calma che prima il corso
della natura conferiva all'uomo che viveva in essa. I dati immediati della
realtà naturale perdono la loro importanza delimitatrice ma anche
rassicurante; l'uomo diviene sempre più teso e minacciato.
Da tutto ciò insorge la domanda che cosa sarà di lui.
Reggerà alla sua propria tecnica? Il mondo delle macchine non gli
imporrà un'esistenza che a lungo andare non potrà sopportare? Maturerà
l'uomo in modo ontologicamente adeguato a questa sua opera che si espande
sempre più rapidamente? O crollerà sotto di .essa? _
Un altro fenomeno. Se si confronta l'atteggiamento di
fondo del nostro tempo con quello del tempo pre-_ cedente, sembra che nel
nostro il sentimento come tale declini. La differenza non è del genere di
quella che passa, ad esempio, fra l'epoca dello Sturm unì Drang e
quella dell'illuminismo. Ma piuttosto un raffreddamento della vita del
sentimento e del cuore, che si verifica dappertutto in misura crescente:
nel rapporto con la natura, con gli altri uomini, con il destino, con i
valori dello spirito e via dicendo. È chiaro che questo fenomeno è
connesso con la struttura
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tecnico-razionale dell'epoca, e così pure col gran
numero degli uomini e degli avvenimenti.
La si può caratterizzare ottimisticamente, e si dice
allora che l'uomo moderno è realista. Gli impulsi e le remore del
sentimento non potrebbero che nuocere nell'attuale situazione; dovrebbero
perciò venire repressi. Ma, se si riflette quale ruolo rappresenta
nell'economia inferiore dell'uomo l'intima commozione dello spirito; che
essa è il modo con cui egli partecipa immediatamente all'esistenza; che
è il peso esistenziale che tiene desto il movimento della sua vita:
a riflettere a tutto ciò si resta preoccupati. Nella
misura in cui quest'uomo diviene intellettualmente e tecnicamente più
capace di movimento e di potenzialità operativa, si assottiglia il
processo della sua vita come tale. Le sue radici si indeboliscono. Egli
diventa inseribile ad arbitrio...
Si pensa allora al mito di Anteo, il figlio della Terra,
che non poteva essere mai dominato fino a quando egli riusciva a mantenere
il contatto con la madre. Allora Eracle lo sollevò in alto e lo sgozzò
là in aria.
In connessione con tutto ciò sta la crescente perdita di
contatto fra uomo e uomo. Educatori e medici hanno constatato che l'uomo
moderno si fa sempre più isolato. Tale isolamento si distingue
essenzialmente dall'individualismo del primo Ottocento. Allora
l'espansione della sfera individuale era qualcosa di indubbiamente
positivo; ma l'individuo, in questa sua accentuazione, trovava facilmente
anche il rapporto con gli altri uomini: si veda la cultura, allora assai
sviluppata, del cameratismo, dell'amicizia, dtì0.'eros, delle
relazioni d'autorità, eccetera. Ma l'isolamento di cui stiamo parlando è
soltanto il rovescio della medaglia rispetto alla massa, in cui il
singolo, gli innumerevo-
26
li singoli, sono soli. Giacché dò che dona la
comunione non è l'addizione di molti individui, ma il contesto vivente
delle organiche strutture di gruppo. La « massa » è il grande
numero di individui privi di contatto, i quali, proprio per la loro
povertà di relazioni, si lasciano facilmente e arbitrariamente ammassare.
Sempre l'isolamento, e per la stessa ragione, è ciò che
rende possibile l'organizzazione, che ha anzi bisogno di essa. Allo stesso
modo che, viceversa, le varie organizzazioni di genere professionale,
sociale, politico sono interessate a che i contatti naturali non abbiano
una grande forza vincolante e costruttiva, poiché in tal modo il singolo
prende radice e diviene capace di opposizione. La tendenza ai poteri
totalitari — la quale, l'avvertiamo o no, percorre tutto il nostro mondo
— presuppone l'individuo senza contatti, la « polvere umana ».
Soprattutto sono la crisi della famiglia, l'attenuazione dei vincoli
coniugali, l'indebolimento del rapporto genitori-figli, che fungono qui da
causa e da effetto insieme.
Il fenomeno viene acuito dal fatto che la sfera privata
viene sempre più annullata. Sempre meno si sente l'esigenza che il
singolo e la famiglia devono avere la possibilità di vivere in sé e per
sé. È in atto una generale pubblicizzazione dell'esistenza. Stampa,
radio, televisione, lo spirito e la tecnica dell'informazione: tutto
questo rappresenta pure qui, insieme, la causa e l'effetto.
Ciò che allora crolla non è trascurabile. Dappertutto la
sfera pubblica penetra nella privata; dappertutto viene dato in pasto al
pubblico ciò che invece dovrebbe essere protetto contro la pubblicità.
Non intendiamo nulla di sentimentale;, la nostra ansia ha per oggetto la
conservazione in salute delle radici vitali. In
27
una pubblicizzazione che vada oltre una certa misura
l'esistenza umana, come essa è, non può fiorire. Essa si altera, e la
domanda ora è quale specie d'uomo possa nascere di qui. Questo in ogni
caso si può dire, che l'uomo viene così standardizzato e diviene sempre
meno capace di opporsi alle tendenze totalitarie. Ci sarebbe ancora molto
da dire su questa linea. Chi .persegue i vari fenomeni della cultura sotto
questa angolazione, arriverà a stabilire che l'allontanamento dalla base
immediata della natura si dilata sempre più.
Ciò non significa nulla di fondamentalmente nuovo. Si
intensifica qualcosa che è dato fin dal principio. Questa
intensificazione si attua però in una misura è con una incisività che
porta alla sua fase critica dò che si chiama cultura.
5. - Cultura umana e non-umana.
Il carattere delta cultura, che consegue dalle
presupposizioni ricordate, viene sentito assai vivamente da coloro le
radici della cui formazione affondano nel tempo anteriore alla seconda o
perfino alla prima guerra mondiale: con tale vivezza che essi sono inclini
a designare l'epoca passata come quella « umana » (humane). Ciò
è avvenuto dapprima anche in queste nostre considerazioni. Ma ora
dobbiamo con maggior precisione esaminare l'uso di questo termine.
« Umano » significa, nel nostro caso, genuina umanità
per distinzione da un'umanità violenta e resa artificiosa. In tal modo la
formula contiene anche il giudizio che quella fase culturale, di cui
parliamo, là odierna, non sia/più realmente conforme all'essenza
dell'uomo.
Colui che sente che in essa naufragano valori ed ordi-
28
ni con i quali egli è cresciuto, ha naturalmente il
diritto personale di reagire in questo modo. Ma, se ciò che importa è di
conquistare un punto fermo da cui sia possibile un giudizio storicamente e
filosoficamen-te valido, questo diritto si deforma in ingiustizia. Poiché
allora il concetto dell'uomo —- non escluso lo influsso della formazione
umanistica — viene identificato con determinate categorie e fasi
storiche del comportamento umano. Ora questo è falso, perché l'umano non
è senz'aitro identico ali' ' umano ' nel senso descritto. Anche colui che
penetra al di là delle proposizioni finora valide nello spazio
dell'arbitrario, è uomo. Forse dobbiamo addirittura dire che egli
realizza l'umano in un modo assai ardito e grande; certo anche assai
rischioso.
Non è 'lecito circoscrivere l'umano a una fase storica e.
tanto meno a un certo popolo o paese. Anzi non sarà neppure lecito
legarlo alla terra, poiché l'uomo, per distinzione dall'animale legato al
suo ambiente o mondo circostante sempre ben determinato, è rapportato
alla totalità del mondo. Certamente ha anche egli il suo ambiente ed è,
in date circostanze, molto fortemente vincolato ad esso; ma questi vincoli
sono soltanto relativi. Essi possono essere infranti da singoli o da
gruppi sociali o da movimenti storici. L'interesse oggi così specifico ai
rapporti con lo spazio cosmico ne è certo soltanto un sintomo.
Nell'epoca che sta davanti a noi e della quale noi non
sappiamo affatto in quale destino sfocerà, l'uomo realizza una nuova
forma della sua umanità. Tanto più egli deve sapere chiaramente che, in
vista di tanto, non basta conquistare nuove energie o penetrare,
semplicemente superando distanze, in nuove zone della terra o del cielo;
egli deve per questo elaborare anche un ethos nuovo corrispondente.
Ma non possiamo far-
29
ci illusioni: d'un simile ethos non si può per ora
neppure parlare. A guardar bene, si possono notare avvii ad esso; ma su
più ampio raggio storico esso non è ancora efficace. Ciò che finora si
trova è, nei casi favorevoli, un uomo che sta ontologicamente nelle
antiche strutture ed esperimenta di continuo la situazione conflittuale di
non venire a capo delle nuove misure, dei nuovi compiti e dei nuovi
rischi; in casi sfavorevoli, un uomo in cui l'atteggiamento antico è
crollato ma non ne esiste ancora uno nuovo e il cui fare è guidato
unicamente dall'impulso della conoscenza, dal piacere dell'esperimento,
dal desiderio di vantaggi e di poteri. L'espressione più forte di tale
situazione è rappresentata da quella radicale e spavalda incoscienza che
si è manifestata negli avvenimenti politici degli ultimi decenni.
6. - Chance e insidia della nostra epoca.
Il senso d'un'epoca di cultura, non si fonda in ultima
analisi nel fatto che in essa l'uomo pervenga a un sempre più elevato
benessere e a un sempre più grande dominio della natura, ma nel fatto che
egli riesca a realizzare di volta in volta la forma di esistenza e
l'atteggiamento umano ed etico che la storia via via postula. Il mondo
esiste due volte. Anzitutto come semplicemente dato (gegeben), come
natura; poi come un compito affidato (aufgegeben), cioè come
compendio o sintesi di ciò che nasce dall'incontro dell'uomo con la
natura. Dai fatto dunque che egli veda questa 'natura, la comprenda, la
esperisca nel suo valore, domini i suoi problemi etici e la plasmi così
in un tutto in cui si manifesti in modo caratteristico una determinata
possibilità umana.
Presupposto per la forma del mondo che ora preme
W
per essere realizzata è l'immensa libertà che è
concessa oggi all'uomo. Ma questa è congiunta indissolubilmente con un
altrettanto immenso rischio. È come un simbolo il fatto che le scoperte e
le conquiste più feconde si siano sviluppate e continuino a svilupparsi
per gran parte in connessione con la guerra. Senza una simile connessione,
la fisica e la tecnica atomica a-vrebbero percorso di certo un'altra via.
Le chances del costruire più audace e del distruggere più
radicale non sono mai state così intimamente unite nella coscienza
generale.
La cultura non è una specie di organismo oggettivo che
stia in se stesso a guisa d'una cosa, ma è nel contempo e in ogni suo
punto una compagine esistenziale, ossia è il mondo dell'esistenza
dell'uomo che la crea e che vive in essa. Il criterio, a cui dev'essere
commisurata, è dunque non solo la questione di che cosa essa realizzerà
per voi, ma anche il problema di che cosa farà dell'uomo. Ciò vale non
solo per l'ordine dell'economia e del benessere, ma anche per lo Stato,
l'arte, anzi per la stessa scienza. Noi lo dimentichiamo facilmente.
L'idea moderna dell'autonomia dei settori culturali ci ha resi ciechi
verso importanti collegamenti.
La questione è tanto più pressante, in quanto il
divenire delle forme culturali avanza sempre più rapidamente. A questo
proposito, l'immagine largamente affermata d'un moto sempre ascendente in
valore quale si esprime nel concetto dell'evoluzione s'incrocia con
un'altra opposta: quella d'un progressivo declino. Alla prima appartengono
gli ottimismi, le teorie del progresso e del glorioso futuro; alla seconda
il Sentimento che le cose non vadano come devono andare e che tutto sia
incamminato verso una catastrofe, E faremo bene a tener presente che non
sono
?1
gli spiriti più profondi quelli che si professano fedeli
all'immagine ottimistica.
Con il lavoro della cultura l'uomo si assicura contro i
pericoli della natura e s'impadronisce di questa per i suoi scopi. Ciò
significa che egli conquista una potenza sempre maggiore. Ora la potenza
non è un valore per sé. Il suo valore viene definito soltanto, dalla
domanda: potenza per che cosa? Un osservatore dallo sguardo più profondo
ha però l'impressione che alla questione non venga risposto con
chiarezza; che anzi essa non venga neppure posta correttamente. Per ciò
egli ha lo strano presentimento che quella potenza non venga in fondo
neppure più regolata dall'uomo, ma che questi entri sempre più nella
funzione d'un semplice generatore o trasformatore di energia. Che l'uomo
non sia più il vero soggetto di potenza, ma il passaggio d'un anonimo
fiume di idee, scoperte, costruzioni. Anzi quell'osservatore non può far
a meno di pensare che l'uomo attuale, nel fondo, sia d'accordo con tale
sua funzione; che egli si senta addirittura bene in essa, dal momento che
essa lo sgrava della sua responsabilità.
Tutto ciò si mostra in due concetti che hanno raggiunto
ora un'importanza normativa. Il primo è quello del « processo ». Cioè
l'uomo vede se stesso e il proprio fare secondo l'immagine d'un evento in
cui le singole fasi scaturiscono di necessità dalle precedenti. Lo altro
concetto è però quello del « progresso ». Esso cerca di conferire
significato al concetto di « processo », affermando che quest'ultimo va
con tutta sicurezza verso il meglio. Quanto più intensamente e più
lungamente il processo è in corso, tanto più ricca, libera, tanto più
degna dell'uomo diviene l'esistenza.
32
Tutta questa concezione può assumere carattere diverso.
Così, per esempio, l'individualismo liberale è dell'opinione che
l'elemento operante sia la spontaneità del singolo. Quanto maggiore è
l'abbandono fiducioso con cui questi si esplica, tanto più feconda per
tutti sarà la risultante. Il totalitarismo, al contrario, afferma che il
vero motore del progresso sia u-na necessità operante nel complesso della
storia, la quale si esprime in forma normativa nello Stato. Quanto più
integrale sarà da parte dello Stato l'iniziativa, tanto più sicuramente
la storia porterà verso Y optimum universale. Queste idee
costituiscono per una buona parte le secolarizzazioni della dottrina
cristiana della Provvidenza. Esse hanno assunto largamente il carattere di
motivazioni acritiche, anzi inconscie; tanto più forte è di conseguenza
la loro influenza.
Se vedo giusto, si comincia a intuire che tali concezioni
sono false. Anzitutto dal punto di vista della stessa oggettiva opera di
cultura. Se da questa si isola una singola linea — ad esempio, un
determinato problema tecnico, un determinato metodo terapeutico — allora
risulta chiaro un progresso verso il meglio. Ma, se si assume la cultura
nella sua totalità, se si osserva come un elemento incida su ogni altro,
allora si vede che ogni volta un vantaggio in un senso viene pagato con
una perdita in un altro senso. Cosicché la domanda se questa totalità si
muova verso il meglio o verso il peggio resta senza risposta.
Ancora più problematica si fa la questione, non appena ci
si domanda che cosa risulterà da tutto ciò a proposito dell'uomo. Allora
si vede che la specializzazione sempre più universalmente richiesta
restringe la personalità; che là dove si raggiunge una certa
universalità, non si tratta d'una totalità reale, ma d'una spe-
33
eie di dilettantismo, che il perfezionamento degli
strumenti e apparati tecnici indebolisce gli organi umani vivi; e che i
movimenti di ritorno alla natura rendono stravaganti. Anzi si vede che,
come per controgioco verso l'ansia per l'uomo, viene diffusa la teoria —
un'idea a cortocircuito — che la scienza non deve occuparsi dei
valori, ma unicamente ricercare, indifferente ai risultati; che l'arte
esiste solo per se stessa . e che non le deve importare un'influenza
sull'uomo;
che le strutture della tecnica sono opera del superuomo e
che vivono d'un diritto loro proprio; che la politica realizza la potenza
dello Stato e che non ha bisogno di preoccuparsi della dignità, ne della
felicità nella vita dell'uomo, e via dicendo.
Le concezioni sopra nominate sono in fondo tentativi di
giustificare la profonda anarchia che domina nella attività culturale.
Ciò può — apparentemente — funzionare fino a quando ancora esistono
uno spazio neutrale e riserve inutilizzate. Ma la nostra situazione è
diventata a tal punto acuta, e le energie che sono in gioco sono cresciute
a tal punto, che l'individualismo è manifestamente alla fine; ma il
totalitarismo, nonostante la sua momentanea elevata congiuntura, è in
fondo esso pure alla fine.
7. - Che cosa deve succedere.
Tutto questo significa che ciò che importa non è lo
scoprire soluzioni migliori in questo o quell'altro senso, o non è
l'organizzare in modo più finalistico il tessuto dei vari fenomeni. Deve
avvenire qualcosa di più radicale. La totalità dell'esistenza, la vita e
l'opera dell'uomo, devono essere viste in modo nuovo, sottoposte a giuste
misure di valore e ordinate in modo corrispondente all'essenza propria.
34
I miei uditori s'aspetteranno che la conclusione d'una
conferenza apporti a tal riguardo, qualcosa da prendere sul serio. Posso
soltanto offrire accenni, allusioni da esperienze personali, che vuoi dire
ristrette. Ma queste — mi permettano di parlare con tutta chiarezza —
mi portano a pensare che l'uomo attuale non è ancora idoneo a un simile
nuovo vedere, valutare e ordinare; non è ancora capace di ridurre sotto
la sua forza le potenze culturali tendenti all'anarchia, Affinchè egli
possa farsi capace a tale compito, si devono creare presupposti che stanno
al di fuori delle competenze specifiche. Il centro della coscienza
culturale deve essere collocato più in profondo, nell'interiorità
dell'uomo, affinchè quegli atti elementari del comportamento culturale,
di cui si è parlato, possano essere compiuti in modo nuovo. II
responsabile deve farsi capace di vedere ciò che si verifica, sulla base
di criterii i quali lo rendano indipendente da abitudini tradizionali di
pensiero; e di riportarsi grazie a questa capacità di visione, dal caos
culturale in cui viviamo, in una libertà che sia adeguata al suo livello.
Ciò che intendo, vorrei esprimerlo per mezzo di due
concetti che suscitano entrambi scandalo; meglio, si spera che suscitino
scandalo. Giacché ogni istanza davvero attivante rompe l'abitudine e
desta anzitutto reazione.
Primo. La nostra vita culturale ha bisogno d'un
elemento contemplativo o meditativo. Questo elemento è andato perduto nel
corso degli ultimi secoli a causa dello sviluppo sempre più rapido dei
popoli occidentali verso il razionalismo e l'attivismo. In tal modo essi
sono divenuti disarmati di fronte alla logica propria e specifica dei
problemi scientifici e tecnici.
Il termine « contemplativo » qui non ha niente a
55
che fare con il misticismo, ma è altrettanto realistico
che pratico. Esso intende che nella vita dell'uomo moderno, soprattutto di
quello che porta responsabilità ed effettua decisioni, deve essere
introdotto un quid che si può descrivere all'incirca nel modo
seguente. Deve costituirsi una autentica interiorità, la quale possa
contrastare le tendenze esteriorizzanti e dissipanti del tempo. Il nucleo
personale deve poter sperimentare un consolidamento che gli consenta ogni
volta di puntare in forza d'una coscienza della verità su prese di
posizione che siano più forti di quelle degli slogans e della propaganda.
Poggiando là dentro, l'atto che crea la distanza — e non solo rispetto
alla natura, ma anche all'ambiente, alle condizioni dell'epoca e deS.a società,
alle convenzioni e alle tradizioni d'ogni specie — potrà acquisire la
forza capace di opporsi ed imporsi realmente. A questo riguardo si può
ricordare che le convenzioni nel giudicare cose dello spirito possono
essere assai più tenaci delle convenzioni sociali. Egli perverrà così
alle condizioni di poter vede-. rè in modo nuovo ciò che avviene, di
poterlo giudicare giustamente e di penetrare fino in fondo con il suo
sguardo nelle evidenze ed ovvietà apparenti, cristallizzatesi
dappertutto.
Non si tratta dunque d'un comportamento specificamente
religioso, ma di qualcosa che appartiene alla totalità della vita umana.
Si tratta, se si vuole, di una « meditazione culturale ». Le riflessioni
e le operazioni culturali si muovono di regola soltanto entro il settore
speciale corrispondente della scienza, della tecnica, dell'economia, della
politica, ecc. Esse sono condizionate dal principio del risparmio di
energia e si trattengono perciò il più possibile nei binari direzionali
abituali. Allo stesso modo che solo forze dello spirito, caratterizzate
dal loro oggetto, entrano in
36
azione: intelligenze, progettazioni, attività tecniche,
organizzazioni economiche.
Le zone più profonde, l'umana e viva partecipazione ai
problemi, la serietà della persona e la sua responsabilità vengono il
più possibile messe fra parentesi, e ciò poi viene giustificato
solitamente come « realismo », come « oggettività ». Per mezzo della
meditazione tutto l'uomo entrerebbe nella riflessione, allo stesso modo
che essa presenterebbe ai suoi occhi tutto intero il contesto
significativo dei contenuti di riflessione. ' ' .
Per esempio, l'uomo responsabile potrebbe riflettere se
sia esatto che i fenomeni scientifici, tecnici, politici formino un
processo svolgentesi di necessità, e che perciò essi debbano andare come
vanno. Gli potrebbe risultare chiaro che in questo caso si è insinuato,
con i più vari travestimenti, il momento pseudoreligioso del fatum,
esercitando la sua efficacia in modo acritico. Egli potrebbe, in un simile
ritorno in. se stesso, domandarsi: ma è proprio vero? Esiste proprio
questo processo, la cui concezione domina apertamente il pensiero marxista
e segretamente anche il don-marxista? E potrebbe avvenire che dapprima
solo uomini singoli e che poi uomini sempre più numerosi riconoscano che
non è vero affatto. Se egli, per esempio, considerasse dalla sua
interiorità la collusione in cui sono finite col trovarsi le ricerche
della fisica atomica con i motivi e i metodi deMa guerra, vedrebbe che
quella specie di magico « dover - essere - per necessità » 'non c'era;
che esistevano vere possibilità di diverso genere; che da più parti,
anche da parte degli scienziati, sono state commesse colpe reali e foriere
fatalmente di vaste conseguenze, colpe che poi si è voluto coprire con il
dogma della necessità politico-militare. Oppure: egli potrebbe ri-
37
mettere in questione il principio che il « benessere »
sia realmente il massimo valore nella struttura intrinseca dello Stato.
L'uomo moderno propende verso tale opinione. Ma è giusta? Giusta anche
qualora si dimostrasse che il crescente benessere si può raggiungere
soltanto per mezzo di complessi di leggi e di poteri, di controlli e di
costrizioni, che indeboliscono l'autonomia della persona e sotterrano la
serietà della sua responsabilità vitale? Egli potrebbe porsi la
questione apparentemente così antisociale se un po' di benessere di meno
e un po' di autoresponsabilità di più non sarebbero forse qualcosa di
meglio che non il crescente standard di vita e una progressiva
perdita di libertà da maggiorenni. Una vera meditazione, che rovesciasse
l'incantesimo delle opinioni correnti e che penetrasse nell'essenza delle
cose, potrebbe aprire gli occhi anche su questo campo. Un uomo con simili
convinzioni potrebbe porsi in contrasto con la totalizzazione della vita
insinuantesi, che si afferma ovunque in forza dell'apparato statale, una
totalizzazione che in questo o in quel particolare viene sempre
giustificata da eccellenti punti di vista, ma che alla lunga altera il
carattere stesso della res publica, la quale dev'essere per
l'appunto un ordine di persone sottoposto ai criteri di valore della
libertà e della responsabilità.
In che modo una simile meditazione sulle realtà culturali
si debba imparare ed esercitare senza che abbia a degenerare nel vezzo
esoterico di far misteri o in artificiosità riformistiche, è una
questione a parte. Occuparsene sarebbe un compito assai serio della
formazione degli adulti. Soprattutto ci sarebbe da stare attenti che su
questo nuovo settore non sorga un'impresa, un'azienda: serie di
conferenze, settimane di lavoro, libri e libretti e articoli, in cui la
nuova tro-
38
vata venga ridotta a un motivo di sensazione. No, ma la
questione deve essere considerata seriamente; la questione in che modo si
arriva alla vera conoscenza, una conoscenza cioè che non generi soltanto
esattezze intellettuali, ma che entri nelle essenze e crei una serietà la
quale è qualcosa di più che soltanto og-gettività.
Il secondo concetto è strettamente connesso con quanto si
è già detto: è l'ascesi. Essa è, per l'uomo colto moderno, un orrore;
espressione di una ostilità contro la vita di derivazione metafisica o
perfino sacrale. In realtà, anche qui qualcosa è andato perduto, e
l'uomo moderno è divenuto di conseguenza più debole. L'uomo attuale e
futuro ha da fare con energie di dimensioni enormi. È esposto a rischi e
pericoli di proporzione totale. Ora la sua situazione non è dominabile da
parte d'un atteggiamento spirituale relativistico. Questo crea una specie
d'uomo che è forte quanto alle posizioni di problemi scientifici e
tecnici, ma che è fiacca come personalità. In questo uomo si vanno
obnubilando la distinzione fra giusto e ingiusto, il rapporto fra l'utile
e il rispetto per l'uomo, la distinzione di livello fra essenziale e
accidentale. L'uomo diviene inerme verso la tendenza del divenire
culturale e nasconde la sua debolezza dietro il principio della
inevitabilità del processo.
L'uomo deve imparare un'altra volta a mirare a posizioni
assolute, deve farsi di nuovo capace di formarsi un vero giudizio circa le
realtà della vita culturale e di mantenerlo fermo, deve prendere
posizione e perseverarvi lottando. Tutto ciò non cammina da sé, gli atti
relativi devono essere sviluppati; ma quello che rende possibile ciò è
appunto l'ascesi: una autodisciplina, la quale limita l'eccesso delle
pretese di vita,
39
riduce nella misura conveniente l'esorbitanza del consumo
e del godimento, spezza la dittatura dell'ambizione e della sete di
guadagno; e tutto ciò non per ostilità contro la vita, ma per una
volontà di vita più libera e valida.
Senza pericolo di esporsi al sospetto dell'autocelebra-zione,
possiamo dire che nel nostro tempo esistono possibilità del tutto nuove
per una grandezza dell'agire e dell'essere. Ma la « grandezza » non è
un fatto quantitativo, bensì è una questione di valori inferiori, una
questione di libertà e di stile. Ora la grandezza non è mai nata dalla
condiscendenza verso l'istinto. Così l'idea dell'ascesi si approfondisce,
e insorgono questioni che probabilmente riusciranno di tono molto
reazionario a un ascoltatore moderno. Per esempio: una conoscenza, che
viene conquistata, deve proprio essere senz'altro resa generalmente
accessibile? Così afferma una regola della moderna attività scientifica;
ma è giusta questa regola? Non vi si traveste forse un ottimismo
razionalistico, secondo cui ogni verità scientifica, è sempre di
vantaggio? Uno scienziato del nostro tempo ha detto che noi cominciamo ad
avvertire che la linea della conoscenza scientifica non coincide di
necessità con quella dell'autentico progresso umano. Non insorgono da
ciò problemi della saggezza? Della coscienza che ogni conoscenza ha
effetti, e che perciò bisogna concedere all'uomo tempo di maturare in
conformità alla conoscenza conquistata finora? Che esiste una grande
differenza se un'idea viene pensata da uno spirito abituato alla scienza,
o se essa viene diffusa al pubblico, dove avrà conseguenze di natura
assai diversa? Ma tutto ciò presuppone la capacità di tacere; e questo
vuoi dire, dati i casi, di rinunciare a precedenza, a prestigio, a
guadagno.
40
L'opinione comune è convinta che la serie folle delle
scoperte tecniche sia senz'altro un progresso. Una più profonda
riflessione non potrebbe cogliere .la falsità d'una simile opinione?
Novità tecniche debbono pur di necessità venire eleborate umanamente; ma
per questo ci vuole tempo. Non è dunque una vera incon-scienza — per
omettere giudizi ancora più duri — il realizzare una novità tecnica
dopo l'altra? Accanto a una economia della realtà materiale, non c'è
forse anche una economia della realtà umana? Non abbiamo forse
semplicemente capitolato davanti alle costrizioni dei problemi tecnici e
non consentiamo forse una corsa selvaggia a questo nostro continuo
scoprire e costruire? In rapporto con l'arma atomica si è parlato d'una
« tentazione della tecnica ». È una e-spressione assai felice per
indicare la violenza che nasce dalla possibilità di far sì che qualcosa
funzioni. Il libro di Robert Jungk sul destino degli « apprendisti
stregoni », scopritori della bomba atomica, parla in modo inquietante del
mo'do come la coscienza morale abbia ceduto a questa tentazione, e come
questo crollo sia stato coperto con le parole del progresso, della
necessità militare, del valore futuro delle applicazioni pacifiche,
eccetera. Il libro dello Jungk è un tentativo serio; un tentativo da
portare avanti con ogni sforzo.
Queste questioni segnano a dito i veri problemi etici del
nostro tempo. Essi sono più importanti e, in quanto nascosti, più
incidenti di tante questioni sociali o economiche, che hanno già trovato
i loro termini e il loro piano di discussioni. Ma la loro ' soluzione, nel
più profondo, non dipende da considerazioni intellettuali, bensì da
atteggiamenti del carattere, i quali non esistono evidentemente ancora:
dalla capacità di penetrazione e di visione complessiva da'l-
41
l'alto, di giudizio e d'inserimento in ordine, di saggezza
e di moderazione; cose tutte conseguibili unicamente con quella disciplina
ulteriore che si chiama appunto « ascesi ».
Io so ciò che vi si può obiettare. È facile quanto un
gioco infantile rendere ridicolo quanto abbiamo detto; quasi vorrei dire:
tanto più facile quanto più uno è superficiale. In realtà, queste
considerazioni sono realistiche in alto grado, giacché esse provengono
dall'ansia per quell'essere che in ultima analisi regge tutto il resto,
cioè per l'uomo e per la sua personale integrità. Che cosa serve tutta
la tecnica se l'uomo diviene sempre più povero di sostanza umana e sempre
più debole nella sua libertà?
È qui che si adottano le decisioni storiche supreme. Non
c'è decisione dell'O.N.U., non c'è controllo internazionale che risulti
efficace, anzi che possa venire a capo anche solo degli astuti giochi
diplomatici, se le condizioni d'una reale efficienza non vengono create
qui.
Noi cominciamo a guardare all'India con esitante speranza.
Ci domandiamo se di lì non possa derivare alla politica mondiale un
fattore nuovo, il quale potrebbe valere di più che semplicemente un nuovo
centro di interesse, di più che un'altra tecnica di trattativa. Ci si
domanda se là non vi si elabori un atteggiamento, quello che è
cominciato con Gandhi, il quale fu deriso come un pazzo, ma che ha creato
la libertà dell'India. La novità in questo sarebbe però che degli
uomini prendono possesso della scienza e della tecnica e che pensano e
agiscono sulla base di un umanesimo più completo di quello
dell'esteriorizzato ed eccitato Occidente; e più completo di quello
orientale, quando questo somma insieme idee occidentali con il disprezzo
asiatico dell'uomo.
42
L'UOMO INCOMPLETO E LA POTENZA * III
I. - La sottomissione della natura.
1. - Noi vogliamo affrontare questo nostro problema in
modo da renderci anzitutto consapevoli del rapporto in cui l'uomo
primitivo si ritrovava in ordine al mondo. Sarà un tentativo appena
possibile a noi moderni così ricchi di conoscenze e di tecniche;
ma è almeno un tentativo da fare, perché soltanto su
questo sfondo la questione si può chiarire.
L'uomo primitivo si vede circondato da una natura che non
comprende. Perciò arrivano da essa su di lui angustie in numero
incalcolabile. L'inclemenza dei fenomeni atmosferici è aspra e terribile
e le catastrofi naturali sconvolgenti. Solo con molta fatica egli riesce a
procurarsi il cibo e il vestito. Il mondo animale, che lo circonda, .gli
è minaccioso e ostile, e molte e gravi sono le malattie che lo
colpiscono. Contro tutto ciò egli ha da opporre nell'ordine naturale
delle cose una organizzazione difensiva di gran lunga insufficiente,
giacché non può disporre ne della velocità dell'animale, ne dei suoi
strumenti naturali di lotta; la sua stessa posizione eretta gli procura a
tutta prima più pericolo che vantaggio.
Diciamolo con più precisione: egli non è appunto un
• Questi pensieri sono stati sviluppati la prima volta
in una conferenza tenuta dall'autore alla sessione annuale dell'Unione
degli addetti alle ferriere tedesche nel 1955 a Dùsseldorf. Essi furono
in seguito riveduti e corretti e sviluppati ulteriormente. Ma si conservò
il tono e la forma della conferenza, dato che erano in stretto rapporto
con il modo della trattazione.
43
animale, bensì qualcosa di più e di diverso, cioè un
uomo, ma proprio per questo esposto al pericolo più di qualsiasi animale,
il quale si trova del tutto inserito adeguatamente nel suo ambiente per
mezzo dei suoi organi e istinti. Già nell'uomo primitivo vive, benché
ancora legato, lo spirito. Lo spirito creerà, in un lasso di tempo
inconcepibilmente breve rispetto ai periodi dell'evoluzione biologica, la
cultura. Ma all'inizio e paragonato alla sicurezza dell'animale
perfettamente inserito nel suo ambiente, lo spirito stesso agisce in stato
di pericolo. Infatti la ricettività verso le impressioni e le reazioni
contro di esse, gli atti difensivi e aggressivi, le misure con le quali
egli si regge contro i condizionamenti dell'ambiente e si procura il
proprio mantenimento e la propria sicurezza: tutto ciò è nell'efficienza
dello spirito meno immediato, meno sicuro e preciso che nell'animale. Ciò
che in seguito conferirà all'uomo la sua immensa superiorità
sull'animale, è al principio un ostacolo.
L'uomo primitivo deve avere perciò sofferto terribilmente
di indigenze e di tribolazioni penose. Inoltre angosciose paure
inimmaginabili di fronte alle potenze della natura che egli non capiva. Di
più ancora:
paure che, in conseguenza della sua grande ma
spiritualmente ancora oscura e torbida esperienza religiosa, assumevano
forme di spaventosità demoniaca. Parecchi elementi tenebrosi nelle
profondità del nostro inconscio attuale discendono da quell'epoca ^ cupa
\
Tuttavia l'uomo si accinge alla difesa; e la prima arma
che rivolge contro la natura è l'esperienza. Da
1 Non
ho bisogno di sottolineare che qui non si parla affatto di evoluzionismo.
Tutto il complesso dei concetti di creazione, stato originario, ribellione
originaria ed eredità del peccato originario, è rimasto fuori della
considerazione.
44
incontri vari con gli orsi delle caverne egli sa che se si
comporta così e così, può salvarsi. Se egli si colloca in una certa
dirczione del vento, riesce a ingannare l'animale. Se taglia a nuoto
obliquamente il fiume, la corrente lo aiuta. In tal modo egli accumula
esperienze su esperienze e impara. E impara precisamente in forza dello
spirito. Non dovremmo lasciarci suggestionare da teorie che tentano di
comprendere il divenire culturale dell'uomo per mezzo di concetti
naturalistici; essi non fanno che rendere il processo incomprensibile.
L'uomo impara in un modo diverso dall'animale, perché egli sta nel mondo
diversamente da esso. La sua posizione verso l'ambiente a lui circostante
è determinata a priori dallo spirito, positivamente e negativamente. Egli
dunque impara; il suo comportamento diviene più sicuro; il risultato più
facile. Trasmette ciò che ha imparato ai suoi figli, e questi cominciano
con chances migliori. In questo lo aiuta ciò che noi chiamiamo «
istinto »:
lo spontaneo sentimento con cui egli penetra nel mondo; il
senso dei pericoli e della difesa da essi;
l'immediata sensibilità a cose che corrispondono ai suoi
bisogni. Sarebbe molto interessante la questione della distinzione del
fenomeno dell'istinto nell'uomo e nell'animale, e dei rapporti dell'atto
istintivo con lo spirito, il capire e il programmare; ma qui non possiamo
affrontarla.
2. - Ben presto inizia la creazione dello strumento.
L'uomo avverte che fa di più se percuote qualcosa con una pietra invece
che con il pugno; e di più ancora se la, pietra viene affilata; ancora di
più se lega la pietra affilata a un bastone. Aumenta così la sua
capacità di affrontare un pericolo o di conquistare l'oggetto d'un
desiderio.
45
Lo strumento semplice rimane entro il quadro delle
funzioni corporee; ma l'uomo trova dell'altro. Egli fa per esempio
l'esperienza che gli è possibile ordinare pezzi di legno e pietre in un
insieme in cui l'animale viene preso: la trappola. Oppure scopre che la
penosa fatica del mulino a mano può venire eliminata con il far girare la
pietra per mezzo della corrente d'acqua: il mulino. Ciò vuoi dire che
egli impara a captare le energie della natura e a guidarle in modo che ne
risultino certi effetti corrispondenti alle sue intenzioni: l'apparecchio;
un complesso obiettivo e strutturato per mezzo del quale le forze della
natura vengono costrette a determinate prestazioni da lui vellute.
Dal processo dell'esperienza, dalla sicurezza
dell'istinto, dall'abilità nel disporre e nel coordinare i materiali e le
energie scoperte, sorge il mondo delle tecniche con cui l'uomo si difende
dalla natura o se ne impadronisce. Ma ciò che dona a tutto questo
contesto il suo proprio autentico significato è che l'uomo in tutto ciò
non soltanto conserva nella memoria constatazioni casuali, ma che egli
intende spiritualmente i processi: è che egli scopre regole per la loro
effettuazione; riconosce i motivi per cui questo va così e non
altrimenti, e via dicendo. Tutto ciò, nel corso della storia, porta a
poco a poco alla conoscenza esatta della natura e delle sue leggi.
3. - In tal modo l'uomo si fa sempre più decisamente
signore della natura. Qui si rende efficiente un principio che vogliamo
chiamare legge della duplicità (Zweiseifigkeif). Quando io alzo
una pietra per lanciarla, il sollevamento del suo peso mi affatica. Se io
acquisto qualsiasi cosa, la devo conservare e difendere; anzi, la semplice
realtà di fatto del-
46
l'avere altera in qualcosa il mio atteggiamento. Ciò vuoi
dire: l'uomo non può mai esercitare un'azione senza sperimentare egli
stesso' una contro-azione. In tutto ciò che fa, qualcosa viene fatto a
lui. Tutte le volte che afferra qualcosa, viene egli stesso afferrato. Da
tutto questo insieme si forma un quadro dinamico di enorme complessità: i
bisogni vitali trovano soddisfazione; le disposizioni psico-spirituali si
evolvono;, il contenuto di valore dell'esistenza aumenta. Si compone
quell'insieme molteplice d'aspetti e di significati in cui s'intrecciano
in unità la realtà ogget-tiva e quella personale, e che chiamiamo «
cultura ». In essa l'uomo supera anche quell'esperienza sconvolgente e
deprimente di cui abbiamo parlato: il senso d'essere in balìa della
natura, la paura angosciosa davanti alla natura. Quanto maggiore il nostro
potere su di essa, tanto più ricca è l'esistenza, tanto più libero il
sentimento vitale, tanto minore la paura.
II. - La problematica della potenza.
1. - Ora, è proprio questa la formula piena dell rapporto
dell'uomo e della natura? La mentalità che anima l'età moderna annuisce.
La possiamo formulare nel modo seguente. Il corso della storia importa un
costante progresso verso una sempre più perfetta signoria sulle cose. In
questo modo gli uomini vengono sempre più garantiti contro i pericoli; i
loro bisogni vengono sempre meglio soddisfatti e possono così sempre più
raffinarsi; la vita della personalità umana si espande; cresce la
felicità dell'esistenza. In questo risiede il significato della storia.
« Storia » significa progresso in senso puro e semplice. È vero tutto
dò?
È vero fino a quando l'uomo può anche personal-
47
mente elaborare la materia del mondo di cui viene in
possesso. Fino a quando dunque, per mezzo della contro-azione che si
riverbera su di lui da quanto egli ha afferrato, cresce la salute del suo
corpo, la forza d'esperienza del suo spirito, la nobiltà etica della sua
persona. ' Ma il passato e il presente ci dicono che tutto ciò non si è
sempre verificato, ne sempre si verifica. Che invece hanno luogo 'di
continuo sovrasaturazioni, in cui l'uomo non riesce più a rielaborare in
modo corretto la materia del mondo conquistata. Nell'eccedenza del
possesso, egli non riconosce più un ordine dei valori in modo da
orientarvi il proprio agire;
non ha coscienza chiara della dirczione della sua
attività costruttiva o distruttiva; soggiace alla pressione delle
situazioni materiali, sociali, politiche, come pure delle mode culturali.
Certo, l'uomo con il suo crescente potere sulla
natura diviene più sicuro, più libero e creativo; ma soltanto fino a
tanto che può rispondere giustamente alla domanda decisiva che suona: «
Potere: a che scopo? ». Giacché il potere riceve la sua
caratterizzazione unicamente da ciò che si fa con esso.
Ma l'uomo con il suo potere fa ciò che con esso deve
fare? L'esperienza d'ogni giorno e la storia mostrano che questo non è
sempre il caso; che l'uomo può fare con la sua potenza anche le cose più
folli, deleterie e malvage.
Si risponde, è vero, che esiste pure ciò che si chiama
ragione e moralità. Senza dubbio, ma ragione e moralità sono sostenute
dalla libertà, e lo devono essere, altrimenti non sarebbero che una pura
funzione, e la libertà non può venire garantita.
Oppure ci si rimette all'influsso dell'educazione. La
educazione è certamente molto importante;, e in real-
48
tà i credenti della fede nel progresso ripongono una
fiducia addirittura religiosa nelle varie attività pedagogiche circa
piccoli e adulti, singoli e collettività. Essi sono convinti che la vera
educazione volgerà ogni cosa verso il sempre meglio. Ciò che si deve
dire al riguardo è ovvio. La prospettiva è, nel suo nucleo, altrettanto
discutibile come quella del progresso incessante. Giacché l'uomo nella
sua profondità vive di decisione, e questa è libera. La storia comincia
di nuovo in ognuno. L'idea dell'educazione è falsa, .se questa si
considera come un elemento del progresso sicuro. L'autentica pedagogia
dev'essere concepita e strutturata in ordine alla libertà e perciò alle
possibilità tragiche dell'agire umano, dei singoli, dei gruppi e della
totalità.
Ma si penetra nel nocciolo del problema e ci si domanda:
che cosa si esprime nella decisione della libertà? Che cosa la determina?
La risposta sarà allora: la mentalità, l'orientamento spirituale (Gesin-nung)
dell'uomo. E per ciò che attiene a questa sies-sa, non si arriverà a
dire molto di più che: « Sei pure tu stesso un uomo. Guarda dentro di
tè ». Ma sarà ben utile, a chiarimento di ciò che significa mentalità
dell'uomo, mettere nel conto i nostri ultimi quarant'anni con la loro
incommensurabile incoscienza morale e con la loro inconcepibile follia.
Alla luce di tale intuizione non è per nulla unicamente
uno stimolo alla tranquillità, il fatto che la potenza dell'uomo sulla
natura — e su se stesso — aumenta costantemente e con ritmo sempre
più veloce. Con tanta velocità e vastità che si può constatare spesso
un sentimento degno di nota e singolare: quello che l'uomo possa
radicalmente tutto. O se questo può suonare esorbitante, si potrà dire:
può tutto ciò che gli pare e piace.
49
Naturalmente egli s'imbatte ovunque in limiti, e una
catastrofe dopo l'altra lo ammonisce. Tuttavia il sentimento di
fondo è quello e dice: purché noi indaghiamo abbastanza a lungo,
esperimentiamo con sufficiente precisione, allineiamo esperienze accanto
ad esperienze, allora potremo tutto ciò che vorremo!
2. - Siamo così arrivati ad accostare quello che
costituisce il pericolo della potenza. Esso consiste anzitutto nel fatto
che la potenza mette bensì l'uomo in grado di sottoporsi la natura, ma
essa è pure un mezzo che egli è in grado di volgere contro gli altri
uomini per dominarli, danneggiarli o annientarli. Gli altri uomini possono
essere un popolo straniero, e l'uso della potenza si identificherà allora
con la guerra, con la oppressione o la eliminazione. Ma potrebbero essere
anche il proprio popolo, o un gruppo in esso, o singoli cittadini, e
l'azione consisterà allora nella rivoluzione, nella dittatura, nella
spogliazione dei diritti in campo economico-sociale, nella concorrenza,
nei lavori forzati, nello sfruttamento, nei campi di concentramento, e
così via.
E che cosa decide a scatenare fatti di tal genere? L'uomo
stesso: di volta in volta quello che ha la mano sulle leve. Un luogo
comune, vero? Ma io credo che non è poco essere capaci di riflettere sui
luoghi comuni. Ciò che questi dicono sono le verità di fondo che reggono
l'esistenza,
Ciò che allora importa è fino a qua! punto l'uomo che ha
la mano sulle leve riconosce norme che stanno al disopra dell'istinto
della potenza, al di sopra dello Stato, al di sopra del popolo, anche
nelle condizioni di estrema emergenza. Fino a qual punto egli è capace di
riconoscere l'imperativo di quelle norme nelle situazioni date, e fino a
qual punto è
50
forte abbastanza da renderle efficienti contro gli impulsi
anche più evidenti violenti e pressanti di natura politica, economica,
sentimentale. Ma gli avvenimenti degli ultimi decenni ci hanno insegnato
che cosa ciò concretamente significa: presso noi tedeschi e presso gli
altri popoli; presso tutti, nessuno escluso, anche se i programmi possono
essere molto convincenti e gli slogans molto efficaci.
Ma poi ancora un ulteriore quesito si fa chiaro: i
pericoli della potenza concernono soltanto gli altri? Già Socrate avrebbe
detto: « Amico mio, tu dimentichi colui che nel caso dell'abuso ci perde
più di tutti, cioè colui che esercita la potenza! ». E all'obiezione
che costui saprà pure difendersi, quell'antico saggio avrebbe risposto:
« II pericolo non arriva a lui da fuori; contro un simile pericolo ce
l'avrebbe fatta. Esso viene da dentro; da lui stesso. La potenza tende a
un sempre più incisivo uso di sé; cioè verso quell'uso che disprezza
ogni norma ad essa superiore. Allora chi soccombe a tale tendenza crede di
dominare sugli altri; in realtà è lui stesso che viene dominato, e
precisamente dalla sua propria potenza ».
Ciò che istiga l'uomo alla conquista e all'uso della
potenza sono infatti non soltanto scopi ch'egli si proponga di realizzare
una volta raggiunta una capacità di disporre di uomini e di cose, ma è
un istinto che cerca la potenza per se stessa; che ne gode emarginando e
scavalcando ogni scopo.
Ora, gli istinti hanno nell'uomo la tendenza a sot-trarsi
al contesto significativo della vita, ad autonomiz-zarsi e a perdere
infine il senso e la misura. Nello animale l'istinto singolo è inserito
nel tutto, è rapportato con gli altri animali e controllato nella sua
misura e nella sua direzione. Non appena esso ha raggiunto l'adempimento
previsto, si placa. All'essenza
n
dell'uomo appartiene lo spirito, e nello 'spirito la
libertà. In lui gli istinti raggiungono una ampiezza, una profondità,
una forza, anzi persino una libertà, che negli animali non hanno. Ma
proprio per questo essi perdono quella sicurezza che viene conferita dai
controlli delle leggi naturali. Essi corrono il pericolo di uscire dalla
connessione con il tutto, di evadere nello smisurato, di farsi insensati e
di rivoltarsi contro la propria stessa vita. Ciò che allora insorge è a
tal punto assurdo, distruttivo e maligno che risulta incomprensibile e si
parla di demoniaco. Noi non abbiamo che da pensare a figure della storia
degli ultimi decenni per avere l'incarnazione di tutto ciò. La potenza è
costruttiva finché colui che la possiede sta nell'ordine dell'esistenza.
Finché in lui l'istinto della potenza resta inserito nel tutto e viene
controllato quanto alla sua misura e alla sua direziono. Finché egli ha
l'occhio attento al sistema compensato in cui ogni impulso in un
determinato punto opera alterazioni in un altro e ogni valore conquistato
viene pagato con la perdita d'un altro. Finché si riconosce responsabile
del fatto che il diritto si adempia e che l'istinto della potenza resti
subordinato a quest'imperativo del diritto.
Se tutto ciò non si avvera, la potenza conquistata
attraverso così lunghi sforzi allo scopo di promuovere la vita, si
rivolta contro di essa.
III. - L'incompletezza
dell'uomo attuale.
1. - L'uomo moderno ha sviluppato copiosamente quelle doti
che erano necessarie per creare ciò che noi chiamiamo scienza e tecnica.
È derivata di lì una ricchezza immensa di beni e di strumenti e con essi
una enorme potenza sulla vita. Ma quest'uomo ha
52
l'e condizioni umane necessario per dominare tutto ciò,
in modo che ne nasca una vera cultura? Un ordine in cui l'uomo possa
vivere in quanto uomo nella libertà e nella dignità?
Posta la domanda in forma ancora più radicale: possiede
tutte quelle attitudini e quelle forze che appartengono all'essenza piena
dell'uomo? Quando l'uomo dell'epoca moderna realizzò i successi immensi
degli ultimi cinque secoli, ha però subito un mutamento. Determinate
qualità in lui si sono fatte più forti, fini, esatte, ma determinate
altre più deboli, ottuse e insicure. Capacità e atteggiamenti necessari,
quando si deve parlare dell'uomo completo, sono andati perduti. L'uomo è
diventato « incompleto ».
Cerchiamo di fare una piccola ricognizione della
situazione.
2. - L'uomo è un essere parlante. Egli possiede la nobile
capacità della parola, con la quale entra in dialogo con l'altro e gli
esprime ciò che sa e raggiunge così, insieme con l'altro, la comunità
nella verità. Questa parola è piena quando emerge da un vedere, sapere,
intuire reale. Ma ciò si verifica soltanto quando in questo stesso uomo
c'è anche il tacere. E « tacere » significa non soltanto qualcosa di
negativo, il fatto che non dica appunto niente, ma qualcosa di positivo in
alto grado: una calma inferiore, una distesa e sciolta vitalità e
profondità. Pensate alla ricchezza che si sente in vetta a una montagna
solitària; o a quella pacifica pienezza che si ha in compagnia d'un amico
quando si instaura quel buon silenzio, in cui si è vicini l'uno all'altro
assai più che fra tante parole.
Non abbiamo che da guardarci in giro nel mondo che ci
circonda per vedere in quale terribile misura
53
questo silenzio sia scomparso e .scompaia sempre più;
quanto sopravvento abbiano le chiacchiere e come sempre
più aumenti il rumore. Di fuori e, prima, dentro; giacché lo stato
intcriore anche di quelli che tacciono è spesso tutt'altro che silenzio;
è piuttosto una intcriore produzione di parole, che solo casualmente non
esce fuori. E come se non ci fossero abbastanza chiacchiere immediate
[dell'uomo d'oggi, quest'uomo si fabbrica anche l'esercito delle macchine
parlanti!
Non occorre così un dono speciale d'osservazione per
avvertire che la parola diviene sempre più inconsistente, più a buon
mercato; perde di serietà, di profondità e di pienezza umana, senza
parlare dell'imbarbarirsi della stessa lingua come tale.
L'uomo è attivo, si spinge avanti, lotta, conquista,
lavora, plasma. Diventa padrone delle cose, architetto, governatore,
legislatore del mondo. Ma appartiene alla vita del medesimo uomo anche la
capacità di riposare. E una vera quiete non significa soltanto qualcosa
di negativo: che uno non faccia esattamente niente, ma significa piuttosto
il polo opposto del fare, come il silenzio è il polo opposto della
parola. La quiete è un altro modo di vivere, vibrante in se stesso,
altrettanto intenso del fare, solo diverso. E soltanto da questa quiete
l'atto riceve la sua freschezza, la sua sicurezza, la novità e la
creatività.
Ancora non c'è dubbio alcuno che il riposo scompare
sempre più. Un paragone per esprimere quanto intendiamo: l'arte antica
conosceva l'immagine dell'uomo immobile raccolto in se stesso, si pensi
alle statue dell'arte egizia o romana. Quale quiete in esse! E per la
verità non in conseguenza del fatto che quegli artisti non fossero in
grado di rappresentare azioni, ma perché essi volevano raffigurare
qualcosa
54
d'altro: la calma presenza dell'uomo; di tutto l'uomo, del
suo corpo e del suo spirito. Confrontate con esse le immagini artisdche
del Rinascimento: le figure rappresentate non possono spesso più restare
realmente sedute — per non parlare assolutamente più di un autentico
troneggiare — ma esse si sono soltanto brevemente assise 'fra un'azione
e l'altra, si alzeranno ben presto in piedi per iniziare una nuova azione.
Proprio della vita umana è anche l'atto che si espande
dall'intimità: il moto verso l'altro, la mira verso l'incontro con uomini
e cose. In questo egli esperisce ciò che è a lui straniero, da prova di
se Stesso a suo riguardo, lo penetra e lo assimila.
Ma lo stesso uomo può anche ritornare in se stesso;
essere presso di sé, intimo a se stesso, padrone del
proprio mondo inferiore. Anche questo non significa semplicemente il fatto
che non vi è presente un altro con cui aver da fare, ma qualcosa di
positivo: l'essere uno e solo; uno in sé in quanto vivente polo opposto
del Tutto. Là dentro l'uomo porta ciò che ha preso fuori; ne rende conto
a se stesso, se ne appropria, e ne nasce quello che noi chiamiamo la
ricchezza cosmica (Weltreichfum) d'una personalità. Un'altra
volta, dobbiamo dire che la capacità del ritorno nell'intimità, nella
solitudine con se stessi decresce progressivamente. Sempre di più l'uomo
è « di fuori ». Sempre più spesso insieme con gli altri. Sempre di
più egli si pubblicizza; mostra e viene mostrato, in adunanze e
interviste, nei giornali, nella radio, nella televisione, ecc. La sfera
privata si attenua sempre di più; la casa perde d'importanza a vista
d'occhio. Sempre più crudo si delinea nell'immagine caratteristica del
nòstro tempo un elemento che
55
non si può che designare con il termine di perdita del
pudore.
Non è forse questo essere'sempre-fuori, questa sempre
crescente sparizione della zona -Ulteriore la responsabile maggiore del
fatto che l'uomo moderno può essere così facilmente regolato dalla
propaganda, coinvolto nelle organizzazioni e — a dispetto di tanto
parlare di democrazia — dominato dallo Stato e dalle autorità?
L'uomo ha la potente quanto misteriosa capacità del
conoscere. Egli può assumere in sé ciò che è e tra-durlo in quella
forma di possesso che si chiama « sapere ». Può, oltre a ciò,
penetrare con il suo sentimento, con la sua vita, le cose fattesi a lui
intellettualmente coscienti e spingersi fino a ciò che si chiama «
comprendere », dove l'essenza delle cose si fa chiara, il significato si
schiude e lo spirito-esperisce il potere di signifìcanza dell'esistente.
Ma si crederà, io spero, a uno che da più di trent'an-ni
insegna all'università e che vi dice: il sapere, il possesso e il dominio
intellettuale cresce e in misura così enorme che termalmente sconvolge
— il problema dell'università e della formazione professionale che si
fa sempre più impellente ha anzi qui in gran parte le sue radici — ma
quel fatto profondo che emerge da un'intima penetrazione vitale, il
comprendere le essenze, l'intendere nella sintesi, l'esperienza del
significato diminuiscono. Tutto ciò si può conquistare infatti soltanto
nel rapporto interiore della contemplazione; e la contemplazione ha
bisogno di silenzio, di calma, di raccoglimento. Il sapere cresce, ila
verità decresce.
Con tutto ciò s'innesta un'altra cosa. L'uomo può
distinguere: fra giusto e ingiusto, valido e non valido, importante e
irrilevante, capitale e accessorio,
56
mezzo e scopo. Egli può non soltanto verificare dò che
è, ma esperire il suo valore, prendere posizione a suo riguardo,
affermarlo o respingerlo. In verità egli è in grado di fare tutto ciò
soltanto se possiede la chiarezza su che cosa significa vita giusta, quali
siano i suoi ordinamenti e dove si trovi il suo significato.
Ma questa chiarezza scompare rapidamente, perché essa
presuppone concentrazione. La massa dei fenomeni sopraffa la capacità
della distinzione. Il cumulo delle eccitazioni rende incapaci di vedere
ciò che sta in profondità. Il chiasso della réclame, le chiacchiere dei
giornali e della radio confondono il senso inferiore. Diventa sempre più
difficile all'uomo contemporaneo vedere la gerarchla dei valori,
distinguere fra mezzi e fini, sostanziale e accidentale, e arrivare
all'autentico giudizio.
Abbiamo tracciato solo un rapido schizzo. Ma dovremmo aver
chiarito almeno questo: che ci troviamo davanti a due parallele, a due
forme fondamentali del vivere umano, a due maniere di umano comportamento,
di fronte al mondo e a se stessi.
Chiamiamole con una antica definizione: atteggiamento
attivo e contemplativo. Il primo è quello in cui l'uomo esce da se stesso
nelle cose. Egli si prefigge uno scopo, attacca e viene con ciò stesso
attaccato dall'oggetto in forza della legge della correlazione. Il secondo
invece cerca il proprio centro;
prende saldamente posizione in esso; consegue distanza
dalle cose ed è libero a loro riguardo.
Il primo comportamento nell'ultimo mezzo millennio
impronta la vita dell'uomo moderno in misura sempre crescente. L'altro gli
diviene estraneo, perde di valore e di vigore. Ma la conseguenza è che
diminui-
57
sce sempre più la capacità dell'uomo di stare In se
stesso, di prendere posizione, di .giudicare; la capacità di vedere le
cose dall'alto, di penetrare fino al significato, di creare ordine. La
conseguenza è che egli di giorno in giorno si getta con sempre meno
riguardo in balìa di ciò che lo circonda.
IV. - II compito.
1. - Siamo giunti così al punto che qui veramente ci
importa. Mentre i .risultati tecnici' e scientifici dell'uomo moderno
aumentavano in misura gigantesca, si immeschiniva una parte del suo
essere. Diventava incompleto. Ciò ha potuto apparire per lungo tempo
irrilevante. Potè perfino apparire che questo uomo tutto attività
rappresentasse una nuova forma evolutiva. Egli si è così creato un nuovo
mito: quello dell'uomo « faustiano » o « 'prometeico » o in qual-siasi
modo sia stato chiamato il personaggio tutto eccitazione che imperversa
sulla scena della vita. Si è escogitata un'etica in cui il lavoro divenne
l'uno e il tutto, un'etica con la quale il totalitarismo si è costruito
un intero sistema politico-sociale, anzi una religione. Colui però che
vede chiaro ne rimane profondamente inquieto: e proprio di fronte a ciò
che quest'uomo può compiere.
Egli si domanda: è davvero anche in grado di reggervi? È
maturo per tutto ciò? È in grado di legare le potenze liberate? E non
solo tecnicamente con gli strumenti relativi, ma umanamente? In modo che
la sua prestazione resti opera dell'uomo libero e non una creazione da
termiti? In modo che essa possa creare un futuro e non andare incontro a
una catastrofe? Oppure egli non ha forse messo in movimento qualcosa di
cui non è più il padrone? Una
58
macchina di cui egli è divenuto lo schiavo affinchè
abbia a funzionare?
La risposta sembra sia che l'uomo moderno, quale egli è,
non è in grado di padroneggiare i pericoli che insorgono dallo
sviluppo culturale degli ultimi secoli per la sua 'vita esteriore e contro
la sua intcriore integrità e sanità e ciò perché egli non è un uomo
completo, ma incompleto.
Perché egli non possiede più quella distanza dagli
immediati processi dei laboratori, delle aziende e degli uffici, che è
necessaria per comprendere nessi e connessioni di tanta portata; perché
non vede più i criteri secondo cui devono essere giudicate realtà dalle
quali domani dipenderà semplicemente l'esistenza di tutti; perché non
dispone più di quella libertà intcriore che sarebbe adeguata alla folla
immensa dei problemi, dei moventi, degli interessi e dei processi
organizzativi che sono ormai in movimento.
Non occorre che io sottolinei che con tutto ciò non si
deve affatto esprimere un giudizio sul fatto della scienza e della
tecnica. Non si mette affatto in discussione che l'ingegnere o
l'economista del nostro tempo sia capace delle decisioni corrispondenti al
suo campo specifico. Ciò di cui si tratta è altra cosa, è la sfera
umana. In essa i problemi tecnici e scientifici non possono essere risolti
unicamente da punti di vista produttivi o economici, giacché essi si
agitano nella totalità dell'esistenza e là è in questione l'uomo. Ma
l'uomo con il suo destino è davvero presente alla coscienza di coloro che
determinano il corso dell'evoluzione tecnico-scientifica?
A furia di realizzazioni si è perso di vista colui che le
realizza. In ordine alla specificità dei singoli pro-
cessi il fenomeno può risultare primitivo in ordine
all'uomo. A suo riguardo si va da lungo tempo perpetrando un pericoloso
sfruttamento intensivo (Raubbau). Ora questo fatto deve influire
anche nella produzione stessa. La cosa diventa chiara non appena noi
guardiamo non soltanto a questo o a quel settore singolo, ma al loro
complesso: come quel tutto in cui l'uomo esiste, la cultura. Chi è
vigilmente sensibile, sa che quel tutto non s'accorda con questa cultura, e
tutto il parlare che si fa di universale progresso è un rischioso
autoinganno. In realtà ciò che esiste, è una massa in continuo
crescendo di strumenti tecnici, di materiali, di processi, di prodotti, i
quali non si ritrovano affatto in reciproca armonia, non sono affatto
ordinati a vicenda secondo veri criterii di valore e d'importanza come
esigerebbe "il concetto d'autentica cultura. Dappertutto ci si
imbatte nel superfluo, nel contraddittorio, nell'insensato, nel nocivo;
interi settori della .tecnica e della economia sarebbe meglio che non ci
fossero o ci sono in modo del tutto sproporzionato: i metodi per
suscitare, anzi per imporre con la suggestione bisogni che assumono non
raramente forme pericolose. Insomma, in qualunque modo questa realtà di
fatto si voglia esprimere, 'è chiaro che nel quadro stupefacente d'una
così precisa ricerca scientifica e d'una così esatta tecnicizzazione
domina un elemento del caos, per non dire dell'anarchia, che nasce
dall'uomo. O per dir meglio: nasce dal fatto che viene a mancare il
rapporto con l'uomo. Ed è proprio questa anarchia quella che conferisce
all'idea della pianificazione generale per opera dello Stato costrittivo
una forza suggestiva pericolosa.
Può suonare strano in faccia ai suoi stupendi risultati
dire che ila tecnica è da un punto di vista etico e
60
umano ancora nella sua fase adolescente. È tempo che essa
diventi matura, e ciò vuoi dire che riconosca i suoi fondamenti umani e
che assuma al riguardo le propria responsabilità.
2. - Ma in che cosa dovrebbe consistere il compito? In
questo: che l'uomo impari a padroneggiare non /soltanto le energie della
natura, ma anche la propria potenza; impari a inserire con ordine
nell'esistenza umana quel processo tecnico che avanza spesso in forme
disumane e che si realizza ancora unicamente dalla logica intera dei
propri problemi e procedure specifiche e settoriali. Consiste nel superare
l'assurdità con cui la dinamica della ricerca, della produzione e
dell'organizzazione cammina senza che ci si interroghi su che cosa ne
risulterà per colui che deve sussistere in essa, cioè per lui stesso,
l'uomo.
Ma per tutto ciò si richiede una superiorità. Una
chiarezza dello sguardo che sappia distinguere fra scopo e mezzo,
importante e irrilevante, giusto ed erroneo, bene e male. Una capacità di
scelta, di decisione sulla base dei significati delle cose, in modo che si
sappia se qualcosa, sia pure interessante o vantaggioso, possa essere
fatto quando v'è altro di più essenziale.
Tutto questo è possibile solo a chi possieda un sapere
circa i contesti dell'esistenza e una capacità di sguardo che colga ciò
che avviene altrove, mentre qui succede questo e quest'altro, e si senta
responsabile in proposito. Chi sappia contrastare le eccitazioni emotive,
non escluso lo stimolo del guadagno, non escluso quello della potenza, non
escluso quello dello sperimentalismo e del nuovo a tutti i costi. Una
superiorità che in ultima analisi si fonda — non ci si spaventi del
termine così svalutato dalla borghesia
61
del secolo 'passato — su una ascesi. In una rivista di
tecnica tempo fa veniva citata con plauso una frase di Arnold Gehien: «
II rapporto fra la scienza, l'applicazione tecnica e lo sfruttamento
industriale è da lungo tempo es'so stesso una sovrastruttura, esso stesso
automatizzato ed eticamente del tutto indifferente. Una modificazione
profonda è concepibile quasi unicamente se si affrontano i termini
estremi: la volontà di sapere come punto di partenza o la volontà di
consumo come termine di arrivo del processo. In ambedue i casi l'ascetica,
se da qualche parte facesse la sua apparizione, sarebbe il segnale d'una
nuova epoca » 2.
Idee quanto mai significative nella 'nostra epoca
su-pertecnica! Il futuro dell'umanità dipende realmente dal fatto se
l'uomo saprà procurarsi la capacità di dominare l'istinto della potenza
e del guadagno per mezzo della rinuncia e dell'autosuperamento. Ci sarebbe
in proposito da dire assai di più di quanto qui si possa.
3. - Sembra però che il tipo dominante oggi dell'uomo
attivo non sia idoneo a un simile dominio. Non intendiamo con questo nulla
di moralistico, come se questo tipo d'uomo non fosse abbastanza
disinteressato o coscienzioso o altro, ma intendiamo qualcosa che
appartiene alla psicologia del rapporto col mondo, e dunque alla questione
in quale rapporto l'uomo moderno si trovi verso il mondo e se egli
2 Soziaipsychologische
Probleme de'r industriellen Gesellschaft, Tùbingen 1949, citato nel
saggio di W. berkefeld, Techni-scher fortschritt unii kulturelle
Anpassung, in « Der Inge-nieur der Deutschen Bundespost », 4, 41.
62
non si ritrovi in una relazione tale da rendergli
impossibile il dominio del compito di cui si tratta.
Sarà bene a questo punto riflettere sopra un fatto
fondamentale. Alla base d'ogni comportamento umano verso la sua opera sta
l'atto con cui l'uomo prende distanza dalla realtà data e immediata. La
cultura comincia non con l'andare verso le cose, ma con il ritrarsi da
esse. Conoscere, valutare, decidere, plasmare e produrre creativamente:
tutto ciò ha come presupposto primo quella distanza che rende possibile
la libertà del movimento dello spirito. Ma la situazione dell'uomo
contemporaneo sembra precisamente consistere nel fatto che egli ha
perduto, in una misura di cui solo lentamente ci si può render conto
reale, quella distanza. Ciò non significa soltanto quello che si potrebbe
rinfacciare a uomini di ogni tempo: che essi si sono lasciati sopraffare
dagli istinti, che si sono perduti nelle cose, o qualcosa di simile, ma
significa assai di più. Le immense attuazioni dell'età moderna lo hanno
come risucchiato in se stesse. Egli si è gettato in balìa delle
conseguenze dei problemi scientifici, dei compiti tecnici, degli sviluppi
sociali e politici, perché sono caduti in lui gli atteggiamenti della
libertà intcriore che lo potevano abilitare a una resistenza.
Esistono a favore di tale impressione, a prescindere dalla
sfera pratica immediata, sintomi ideali importanti. L'idea .moderna del
progresso anzitutto, la quale non significa nient'altro che la sanzione
apposta alla logica immanente alla cultura e civiltà. Strettamente in
rapporto con essa sta l'idea evoluzionistica secondo cui i processi 'sia
biologici sia storico-culturali derivano per necessità interna da un
primo principio. Questo trova la sua espressione nel concetto
$3
moderno dello Stato, secondo il quale lo Stato realizza la
sintesi di tutta l'esistenza, e non ha esso stesso istanze che lo
superino. A livello metafisico, tutto si fonda sul monismo moderno che
concepisce il mondo come il tutto unico esistente, fondato unicamente in
se stesso e da se stesso evolventesi. Il Dio della Rivelazione, invece,
che sta sovranamente di fronte al mondo da lui creato e che con la sua
chiamata fonda l'uomo nella sua libertà personale, viene negato. Questo
Dio viene o eliminato ateisticamente, o immanentizzato nel mondo in quanto
elemento misterioso non più operante. Nella filosofia si afferma la
tendenza sempre più forte a rigettare la contrapposizione fondamentale
fra soggetto e oggetto e a porre in suo luogo una dialettica dell'autoillumina-zione
e autorealizzazione, e via dicendo.
Pur con tutta la precauzione postulata da un giudizio di
così vasta portata, bisogna dire, io credo, che lo uomo moderno ha
perduto la distanza verso il mondo. Ma proprio per questa ragione egli è
in tal misura caduto in balìa della logica e della dialettica interne del
mondo, che lo rendono incapace di andare incontro al mondo come sarebbe
conveniente.
In un contesto diverso da questo ho cercato di esporre
come l'uomo oggi sia entrato attraverso una specie di processo a spirale
della storia a livello « superiore » in 'una situazione di significato
che corrisponde a quella delle epoche primitive 3. Allora egli
si vedeva costituito di fronte a una natura incompresa e perciò
strapotente che incombeva su di lui caoticamente da ogni dirczione; se non
voleva soccombervi,
3 Das Ende der Neuzeit, Wurzburg 19597,
p. 95 ss. e Die Macht, ivi I9605, p. 55 ss. (cfr.
tr. it. La fine dell'epoca moderna, Broscia I9602 e II
potere, Brescia, 19632, p. 52 ss.).
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doveva attraverso lunghi e penosi sforzi affermarsi contro
di essa, comprenderla e ridurla in un ordine, e cioè ricavare la cultura
dal caos. Nel corso di tale creazione culturale, però, le idee e le
scoperte, i materiali a disposizione, le forme della loro elaborazione, i
problemi e le possibilità, i poteri e i desideri sono diventati infiniti.
L'elemento fondamentale della cultura, l'ordine, esprimentesi nelle
relazioni dei mezzi ai fini, delle misure e dei livelli, si è sempre più
attenuato, e ne è nato un nuovo caos, il quale ora non deriva dalla
natura non dominata, ma dall'opera stessa dell'uomo. Una massa infinita di
materiale culturale, la quale corrisponde a un'altra egualmente caotica
massa di motivi, di idee, di concezioni, ecc. L'uomo moderno si trova in
tal modo davanti a una scelta, la quale, dopo una serie di centinaia di
migliala d'anni, è di nuovo quella dei primordi: o egli cade in balìa
dell'elemento selvaggio — quello della cultura questa volta —
lasciandosi assorbire dalle sue concatenazioni di motivo, dal groviglio
dei suoi problemi, dal vortice delle sue attività, oppure egli si
conquista di contro ad essa una solidità e la porta a una relazione
dotata di senso nei riguardi della propria umana esistenza. Ciò che più
importa non sono dunque le riforme che si possono instaurare qui o là, ma
una base nuova e una libertà nuova che rendano l'uomo capace di cogliere
con lo sguardo ciò che è; di rendersi sensibile al reale carattere dei
processi in corso; di distinguere ciò che è valido o non valido, e di
spaventarsi dell'assurdità che mette l'uomo in balìa delle sue stesse
creazioni tecniche. Dunque un compito che per la sua grandezza corrisponde
a quello dei primordi dell'umanità, che anzi forse lo supera, dato che il
nuovo caos ha in sé un carattere maligno del tutto diverso.
65
E così noi ci troviamo di fronte alla questione quali
presupposti si debbano creare per superare tali problemi.
Abbiamo visto che l'attivismo dell'uomo moderno ha
fiaccato in lui sempre più l'elemento contemplativo e che egli, proprio
per questo, è caduto in balìa della sua opera. Perciò egli può
riconquistare la nuova sicurezza, la libertà del vedere e del fare
unicamente se rafforza in se stesso quell'elemento: se impara di nuovo a
tacere; a raccogliersi;, a padroneggiare se stesso;
a prendere distanza; a vedere il senso dei fenomeni;
a decidere non per la pressione dei vantaggi e degli slogans,
ma sulla base dell'essenza delle cose, e via dicendo. 'Solo allora potrà
compiere quella rivoluzione che è il suo compito.
Con una sconvolgente assenza di intuizione, il concetto di
rivoluzione viene collegato con tutto ciò che si chiama esplosione di
potenza tecnico-economico-po-litica. Ma la « rivoluzione » può
acquisire un senso positivo soltanto se essa infrange l'ordine apparente
che ruba all'uomo la sua libertà e gli paralizza la vita, allo scopo di
rendere possibile un'esistenza che sia degna di lui. Qui però il concetto
di rivoluzione si accoppia con una schiavitù che è ben più pericolosa
di quella esterna: con la caduta intcriore in balìa alla logica della
potenza e della tecnica. Si devono allora aprire gli occhi affinchè
possano vedere ciò. Dobbiamo compiere una autentica re-voluzione, una
svolta nel conoscere e nel valutare che cancelli tutti i verdetti
stabiliti: « Questo non va..., non può essere,.., questo contraddice al
progresso ». Certo che va; certo che può essere; in nessun modo
contraddice al progresso — ma ora dobbiamo completare — a quello vero!
Ma per tutto ciò è idoneo soltanto colui
66
che ha i presupposti necessari: la libertà, il coraggio,
la distanza, l'iniziativa. È di questo che qui si parla.
Da tutto ciò discendono compiti etici di grande peso.
L'uomo moderno è evaso dalla responsabilità nei riguardi della totalità
dell'esistenza. Egli si è dedicato alle singole responsabilità di natura
scientifica, artistica, politica, tecnica in modo tale che ha dimenticato
quella per la vita in genere.
Ben si capisce che qui si tratta di qualcosa del tutto
diversa da quella psicotecnica con cui i moderni « ingegneri della psiche
» influenzano l'atteggiamento inferiore dei lavoratori affinchè il loro
rendimento sia ancora più preciso, rapido e migliore. Con queste cose
l'uomo verrà spinto ancora più profondamente nel caos. Si tratta del
contrario: di prendere distanza da ogni prestazione immediata, allo scopo
di poter vedere se essa sta nel giusto rapporto con la natura umana.
Allo stesso modo che nella citata autodisciplina non si
tratta di ciò che Max Weber ha chiamata la moderna ascesi del lavoro,
cioè di quell'atteggiamento che sacrifica, immettendole nella
prestazione, ogni energia, salute, pace, gioia, umanità, 'ma si tratta
un'altra volta del suo contrario: d&l superamento della costrizione al
lavoro e della brama di rendimento per amore dell'uomo.
4. - Allo scopo di illuminare l'urgenza del problema da un
altro lato non ancora abbastanza, a me pare, considerato, mi si consenta
di esprimere un'idea che da qualche tempo mi perseguita.
L'Europa e l'America o, con un termine sommario, la razza
bianca ha già perduto in fondo la posizione privilegiata che possedeva
rispetto agli altri popoli
67
in seguito alla sua superiorità tecnica, e andrà
perdendola anche praticamente sempre più e più rapidamente. Popoli
asiatici e africani entrano nell'agone del divenire mondiale. Ma in essi
è ancora assai forte una componente dell'essenza umana che da noi si è
rattrappita. Anzitutto perché essi, come gli africani, stanno ancora in
un rapporto vivente con la natura;
l'efficacia della musica e del teatro su di loro,
un'efficacia non solo incantatrice ma feconda, ne è una prova. Inoltre
anche perché, come i grandi popoli asiatici, posseggono una cultura
spirituale antichissima;
una tradizione del raccoglimento, della meditazione e
dell'approfondimento intcriore che è ancora senz'al-tro efficace. Essi
sono ancora « completi ». Ora, se questi popoli si affermano nella
scienza e nella tecnica — il che già stanno facendo con grande abilità
e rapidità — i popoli bianchi hanno ragione di porsi in allarme.
Senza dubbio, in questa passione di trasformazione, essi
perderanno molto della loro eredità spirituale. Ma attitudini così
antiche e sviluppate fino alle dette possibilità, anzi realtà, non
scompaiono troppo in fretta, anche a prescindere dal fatto che quei popoli
proseguiranno là dove noi ci siamo fermati e affronteranno i problemi
dell'aspetto umano-spirituale nell'esistenza moderna con una capacità di
esperienza di cui noi non disponiamo più. È dunque probabile che essi
entrino nella nuova fase evolutiva muniti di chances che noi ci
siamo già giocate; che ad essi risulteranno ovvie cose che noi ci
dovremmo riconquistare a fatica. Di qui essi potrebbero accaparrarsi una
superiorità, la quale non consisterà proprio nel fatto che le loro
macchine saranno più raffinate e le loro bombe più terribili, ma nel
fatto che, al confronto, saranno uomini completi, o quantomeno più
68
completi. La sovrana scioltezza con cui essi hanno
condotto le loro trattative in recenti conferenze internazionali dovrebbe
renderci -molto pensosi.
5. - Ho avvertito fin dall'inizio che le nostre
considerazioni non potevano che essere sommarie quanto alla varietà dei
punti di vista e alla loro profondità. Ma il risultato sarebbe già
notevole se potessero rendere sensibile l'urgenza del problema. Alla fine,
tuttavia, sarà bene sfiorare almeno la questione circa le possibilità di
soluzione.
È chiaro che per tutto ciò non è possibile offrire
indicazioni realizzabili senz'altro. Bisognerà piuttosto applicare anche
qui quello spirito d'indagine realistica e imperturbabile che ha
impregnato le prestazioni scientifiche dell'età moderna. Quando in un
processo tecnico appaiono passi falsi, ci si domanda dove stiano le cause
e quali misure siano necessarie per ovviare all'inconveniente. La stessa
cosa deve ripetersi nelle nostre questioni. È ovvio che vi si
manifesteranno complessi problemi di grande .ampiezza e profondità. Ma i
problemi ci sono per essere risolti.
Qui non possiamo entrare in forme particolari
d'osservazione e d'ipotesi eventualmente necessario. Mi si consenta
tuttavia di accennare a qualche possibilità che ci viene offerta dalle
esperienze del passato. Che cosa direste, per esempio, se io facessi la
proposta di programmare una volta all'anno qualcosa di simile a quel che
si chiama « esercizi spirituali »? Ossia:
ritirarsi in un luogo adeguato all'uopo; un luogo
silenzioso e dove, senza concessioni alla moda moderna della
discussione,.. si possa ascoltare qualcuno che sappia dire qualcosa
d'utile dell'uomo e dei problemi della sua vita?
Non intendo con questo nulla di ecclesiasticamente
69
definito, ma qualcosa che ci riguarda tutti. Ui^occa-sione
per ascoltare e riflettere quando una persona sia in ordine o quando abbia
imboccato strade false;
per riflettere quali attitudini e possibilità ci siano in
lei e quali siano state sviluppate o siano rimaste mortificate. Sarebbe
inoltre un'occasione per imparare come ci si rifaccia calmi e ci si
distenda; come ci si raccolga intimamente e si divenga aperti e attenti.
In tale situazione di intcriore ricettività acquisterebbero rilievo idee
essenziali: attinte da scritti di spiriti saggi, dalle opere dei poeti,
dalla Bibbia. È possibile che in questo modo certi blocchi e grovigli in
cui ci si agita spesso inutilmente abbiano a sciogliersi, o che ci si
aiuti a non esserne poi più così facilmente irretiti. E possibile che in
questi giorni le realtà della propria vita ci appaiano più limpide, più
esatte, sotto prospettive migliori e in rapporti più completi di quanto
solitamente non siano. È possibile che là certe cose che ci assillavano
l'esistenza si mostrino in tut-t'altra luce, in modo da intuire che ci si
era lasciati sopraffare da pseudonecessità.
Non sarebbe per avventura questa una via, una fra le
altre, per giungere a una « completezza »• umana un poco maggiore?
Gli orgogliosi del proprio realismo rideranno forse d'una
simile proposta. Un cinese intelligente, però, io credo che non riderebbe.
Mi hanno informato che in un congresso internazionale — se ben ricordo a
Ox-ford — dopo appena i primi giorni un gruppo di studenti asiatici
hanno detto che sarebbero ripartiti. Alla domanda sul perché, avrebbero
risposto: « Perché voi non siete capaci di meditare! ». Essi avevano
ben presto intuito che nell'andamento intellettualistico dei nostri
congressi scientifici, nei quali discorsi gran-dinano da tutte le parti
sugli uditori; la cui tecnica
70
è" perfetta quando le relazioni sono il più
possibile numerose, il più possibile brevi, e dai più possibili punti di
vista; dove si discute alla svelta, polemicamente e bene spesso senza
ordine intrinseco: avevano dunque subito capito questi uomini formati
spiritualmente in tradizioni antichissime che in occasioni simili non si
poteva ricavare nulla di veramente essenziale. Giacché l'essenziale, la
conoscenza della verità, ha presupposti d'altro genere: quelli appunto
che si definiscono con il termine « meditazione ». Gente come questa non
avrebbe di sicuro riso d'una proposta come la mia. Piuttosto essi si
sarebbero meravigliati che gli Europei e gli Americani trattino da
parecchio tempo oramai cose così esplosive quali sono la scienza e la
tecnica, ma che non abbiano ancora avvertito quel che di catastrofico ne
può derivare; che non si diano ancora preoccupazione alcuna sul da farsi
affinchè il catastrofico venga ovviato e si attui ciò che è giusto.
Un'altra proposta potrebbe essere che chiunque abbia caro
che durante i sei giorni del lavoro non soltanto sia mantenuta in
attività l'azienda e guadagnato del denaro, ma venga fatto il giusto
lavoro al servizio delle giuste cose, dovrebbe adoperarsi affinchè la sua
domenica sia un giorno di reale riposo. E dunque non un giorno di
assillanti spassi e d'industria del piacere, ma un giorno in cui abbia i
suoi diritti l'altra parte dell'essere: le energie del silenzio, del
raccoglimento, della profondità ulteriore. In modo che nel suo spazio
giungano ad esprimersi le realtà che solo là si fanno chiare: l'ordine
dell'esistenza, la distinzione fra valido e discutibile, fra diritto e
storto.
Solo così la settimana diventerebbe piena. « Una
settimana » significa, non soltanto sei giorni di lavoro più un settimo
in cui non si lavora, affinchè nel
71
giorno seguente si ricominci a lavorare! Pensarla così
sarebbe esattamente quella che è stata definita la ascesi del lavoro, in
cui il lavoro diviene un idolo della vita, magari pure con un idolo
secondario, il divertimento, che regnerebbe la domenica e che a modo suo
assillerebbe proprio come il lavoro.
Ciò che è « una settimana » risulta chiaro soltanto
dal punto di vista dell'uomo che pensa giusto: cioè una unità ritmica
nel contesto della sua vita e durante la quale egli diviene pienamente se
stesso e ricco di valore: sei giorni nella fatica dei quali l'uomo
costruisce la sua opera, quella che gli è stata affidata quando « Dio
l'ha creato a propria immagine e somiglianzà »; capace di dominare sul
mondo e di portare responsabilità a riguardo del mondo. Ma, inoltre, un
settimo durante il cui riposo appare nella sua chiarezza che l'opera
dell'uomo ha un significato soltanto se è inserita nell'ordinamento
dell'opera di Dio; e la sua signoria pure soltanto se esercitata nella
grazia dell'autentico Signore. Il rivivere continuo questa verità
fondamentale in un ritmo di continuo ritornante: questa è la settimana.
Anzi potrei arrivare perfino alla proposta che l'uomo sovraoccupato tenti
di risparmiarsi ogni giorno un quarto d'ora di silenzio. È nota la
leggenda di Anteo, il figlio della terra contro cui combatteva Eracle e
che questi non riusciva a bloccare mai, fino a quando notò che il suo
rivale acquisiva energia nuova ogni volta che toccava terra. • Allora
egli lo sottrasse dal contatto con il suolo ori-' ginario e lo strozzò in
aria, nell'elemento senza luogo. È una leggenda assai significativa che
ricorda come esista un fondo originario dell'energia; e che esso giace
nella profondità, nella libertà inferiore.
Chi è di continuo in faccende non ha bisogno di
intraprendere nulla di speciale in questo quarto d'ora.
72
Solo lasciar perdere i pensieri che hanno rapporto con gli
affari e gli uffici; liberarsi e farsi tranquillo in se stesso, e là, a
seconda dei presupposti delle proprie personali convinzioni, introdurre
qualcosa di buono. Potrà essere una riproduzione d'arte: una sola
contemplata in pace; non un volume da sfogliare! Potrà essere una poesia
o una frase dal Tao-fe-king o dalle Massime e riflessioni di
Goethe; o francamente anche una parola della Sacra Scrittura, e con essa
solo ciò che è autenticamente sostanziale.
Se costui farà così prima di andare in ditta o, nel caso
che allora non lo possa, di sera dopo aver firmata l'ultima lettera,
allora questo quarto d'ora impiegato con costanza eserciterà una
incidenza sommessa, ma assai reale sul suo tempo successivo. E tutto ciò
avrà il suo valore chissà dove e chissà quando, forse in occasioni
senza connessione affatto con tali momenti,
6. - Non è facile per me esprimere proposte di tal genere
davanti a voi. Voi avete da fare con realtà di gran mole; voi realizzate
rapporti e combattete battaglie il cui campo è grande quanto la terra.
Perciò io temo che, anche se non ridete, vi meraviglie-rete almeno che di
fronte ai problemi su cui dovete di continuo decidere, le cose, diciamo,
« innocue » che io dico abbiano un'importanza.
Ma lasciate che in tutta schiettezza vi confidi una cosa.
Ho letto vari libri che trattano della crisi della nostra attuale
situazione umano-culturale, ho sentito varie conferenze e avuto vari
colloqui in tema. Ma non ho ricavato l'impressione che tutto ciò
apportasse circa il nocciolo della questione qualcosa di meglio di quanto
ho detto. Una volta messe da parte le formule specialistiche, le
statistiche e le erudizio—
73
m, quanto restava mi è apparso per lo più addirittura di
scarsa entità, davvero.
Ma a parte ciò, se voi ripercorrete a ritroso le indagini
scientifiche, le costruzioni tecniche, le intraprese e le organizzazioni
economiche fin là donde sono partite, a che cosa arriverete? All'uomo; ai
dati fondamentali della sua essenza. I risultati di cui è pieno il nostro
tempo sono a tal punto grandi che l'osservatore ha facilmente
l'impressione che essi corrano in se stessi come un mondo chiuso, condotto
da una superiore razionalità. In realtà tutto, anche le decisioni «
più realistiche », ci riconduce a un momento in cui l'uomo era solo con
la sua intelligenza, la sua volontà e la sua coscienza, e si domandava:
che cosa è giusto? Oppure un momento simile è mancato, e allora appunto
questa mancanza fu l'inizio, e da questo principio è derivata l'assenza
di significato che ha caratterizzato la sua attività.
1A
IV PER UNA TEOLOGIA DEL MONDO
Non è facile rispondere alla domanda sul come si presenti
il mondo nella coscienza del cristiano. Infatti l'idea stessa di mondo è
assai complessa nella coscienza comune, perché contiene residui non
ancora realmente armonizzati di un lungo sviluppo storico. Per l'uomo poi
che crede nella rivelazione biblica, si aggiunge un'altra difficoltà. Da
un lato egli partecipa della mentalità del suo tempo, assorbita
attraverso la scuola e sempre rinnovata attraverso la vita sociale;
dall'altra la sua fede è determinata dalle idee della
Sacra Scrittura, che sebbene differiscano da quella mentalità su punti
decisivi, tuttavia investono ogni realtà con una nuova caratterizzazione.
Queste due prospettive soltanto raramente sono confluite in una unità
realmente riflessa. Per lo più sono giustapposte, in piani
artificialmente distinti, a meno che una non solleciti l'altra fino a
produrre la crisi.
Ora, per avere una visione più chiara del problema,
vorrei tentare di tracciare le linee principali, sulle quali si è
sviluppata l'idea di mondo.
I. - Sviluppo storico del concetto di mondo.
1. - Per non andare troppo lontano, questo sviluppo
dovrebbe iniziare con la coscienza mitica.
Ad essa manca il concetto di natura, come lo conosciamo
noi, perché ignora sia energie empiricamente constatate sia leggi esatte,
che la determinano. In compenso però scopre in ogni realtà mondana una
dimensione più di quelle che vi scopriamo noi. Que-
75
sto mondo, infatti, da una parte è empìricamente
afferrabile, dall'altra è. una realtà misteriosamente religiosa. Ciò
che avviene nel mondo— processi astronomici e atmosferici, ritmi vitali,
avvenimenti storici, ecc. — risulta da un continuo accordarsi e
combattersi di potenze religiose. Potenze e azioni che trovano la loro
espressione sia nelle forme (Gesfalten) delle divinità,
semidivinità ed esseri demoniaci, sia nelle opere che compiono e nei
fatti che sperimentano, cioè nei miti.
Il mondo dei miti viene formato dalle diverse condizioni
del paese, del popolo, della storia, ma anche dall'attività creatrice del
singolo. Le loro idee sono in continuo movimento. Così da una iniziale,
confusa molteplicità di divinità si costituisce ordinatamente ma
lentamente una gerarchla, che culmina in un essere supremo: Osiris, Zeus,
ecc. Poi sopraggiungono idee sintetizzatrici di natura etico-metafisica,
che attraversano tutta la struttura: idee dell'ordine, della giustizia e
così via.
Da tutto ciò emerge laboriosamente l'idea di una
divinità suprema che trova la sua espressione teoretica nei concetti,
formulati dalla filosofia classica da Par-menide a Piotino, di Essere
puro, di sommo Bene, di Origine di tutto, di Nous, di Sovra-Uno, ecc.
Tuttavia non si riesce ad afferrare la pura assolutezza, perché a tal
fine l'Ente supremo doveva essere svincolato da ogni dipendenza dal mondo.
Ciò non avvenne, e pertanto la divinità rimase sempre legata al mondo.
L'idea di mondo dunque nell'antichità è quella di un
universo, caratterizzato religiosamente, che abbraccia semplicemente
tutto, anche la divinità. Non c'è in rapporto ad esso alcuna vera
trascendenza. Tutti i tra-scendimenti, intrapresi dal mito o dalla
filosofia, si
76
svolgono nell'ambito della totalità del mondo.
A questo tutto appartiene anche l'uomo. Egli viene dal
tutto e con la morte ritorna al tutto. Manca dunque, nonostante tutti gli
slanci teoretici della filosofia classica e la profondità della sapienza
ellenistica, il presupposto per un vero intendimento personalistico
dell'io perché questo è possibile soltanto sulla base del rapporto con
un Dio veramente trascendente e personale.
2. - Con la rivelazione biblica, la sovranità assoluta di
Dio diventa chiara. Egli possiede in se stesso la pienezza della vita,
della conoscenza, del bene e della felicità, anzi quella della fecondità
e della comunione, cosicché l'annunzio dell'esistenza delle Tré Persone
divine costituisce la suprema garanzia del fatto che Egli non ha bisogno
del mondo.
Egli ha creato questo mondo in perfetta libertà, senza
alcun .archetipo ideale o materia preesistente. E alla domanda perché
l'ha fatto, non c'è che una risposta, il cui motivo si fece pienamente
evidente per la prima volta nella persona di Cristo, cioè l'amore. Dunque
il mondo non è « natura », ma « opera ». La sua perfezione non riposa
su cause, in qualche modo, mitiche o metafisiche, ma sulla sapienza di Dio
e sulla Sua potenza creatrice. Il mondo è autentica realtà, ma creata.
Ne appartiene a se stesso, ne è autonomo, ma è proprietà di Dio.
L'uomo è parte di questo mondo. E all'uomo convergono e
nell'uomo trovano il proprio vertice tutte le realtà. L'uomo, unico fra
tutti gli esseri, non è situato in un piano speciale, ma è in relazione
fin da principio con la totalità. Così può acquisire un rapporto con
ogni elemento d'essa. Tuttavia non si risolve nel mondo. Come persona fu
chiamato da Dio all'esisten-
77
za e per conseguenza egli rimane in rapporto immediato con
Lui. L'uomo poi, pienamente libero rispetto al mondo come a se stesso,
può violare l'ordine di esso e di sé, riconoscerlo, prendere decisioni,
possederlo e dargli forma.
La rivelazione parla ampiamente dell'inizio di tutta la
storia. L'uomo doveva vivere questo rapporto con Dio, come il punto
sostanziale della propria esistenza e così incontrare {'Begegnung)
il mondo. Fondandosi su questo continuo incontro con il primo mondo
immediatamente dato da Dio, l'uomo doveva costruirne un secondo: il mondo
pensato, valutato, formato dall'opera dell'uomo.
L'espressione di questo stato era il Paradiso, terrestre.
In esso doveva svilupparsi tutto ciò che si chiama « vita » e attuarsi
tutto ciò che si chiama « civiltà ». Entrata però in un rapporto
obbedienziale con il Signore della creazione, l'opera dell'uomo diveniva
una pura continuazione di quella divina: un regno di libertà e di
santità.
Lo stato, come tale, non era di natura, ma di grazia e di
libertà. Così fu posto in quella prova riferita dal Genesi.
L'uomo invece si ribellò e pretese un dominio assoluto su se stesso e sul
mondo. Ed infranse la vera struttura della sua esistenza, cioè il
rapporto obbedienziale della creatura al Creatore. Questa rottura causò
un disordine, che da allora s'affermò in tutto e continua ad affermarsi
nella natura e nell'opera dell'uomo.
Così incomincia la storia. Essa dunque non consiste in
un'evoluzione derivata da presupposti naturali, ma al suo inizio sta un
fatto. È vero che ci sono diverse linee interpretative degli sviluppi
biologici e culturali. A ciò che stabilisce l'indagine scientifica, non
attenta la Rivelazione. Tuttavia la Rivelazione dice
78
l'ultima parola e cioè che all'inizio della storia, il
vero elemento decisivo non consiste in una differenziazione della
struttura dell'uomo o del suo rapporto con l'ambiente, ma in un fatto
liberamente voluto, e la decisione, consumata con questo fatto, determina
tutto ciò che segue.
La Rivelazione dice ancora che Dio non ha permesso che da
questa decisione scaturisse la rovina definitiva dell'uomo, ma piuttosto
una nuova iniziativa della libertà di Dio, che doveva superare quella
decisione e il suo carattere morale, cioè il peccato: la Redenzione. E
questa Redenzione, dopo una lunga preparazione storica, è divenuta
realtà con l'Incarnazione di Dio in Cristo, la cui esistenza santa doveva
svolgersi nel mondo sconsacrato, attraverso un destino preparato dal mondo
medesimo. Così Dio ha inserito entro la storia antica l'inizio d'una
nuova. E da questo" inizio, con i « materiali » del mondo durato
finora, doveva nascere un mondo nuovo: quello che Cristo chiama « regno
di Dio ».
Il cristiano sa ora che il mondo è determinato da u-na
duplice modalità.
Prima di tutto e in modo radicale il mondo è opera di
Dio, e come tale, buono e amato da Lui. A questo mondo appartiene, come
esistente, anche l'uomo. Però ogni incontro dell'uomo con il mondo, come
con se stesso, porta con sé quel carattere di colpa e .di ribellione, che
deriva dal primo fatto. Il credente vive bene nel piano della Redenzione e
porta in se stesso con la grazia il nuovo principio, di cui parlavamo.
Tuttavia il turbamento dell'ordine rimane e conserva piuttosto un altro
carattere e viene superato da una nuova possibilità: l'uomo nella sequela
del Redentore deve di continuo vincere la tentazione di peccare nuovamente
e deve fare del disordine, con la
79
sofferenza da esso causata, un elemento di espiazione e di
perfezionamento morale. ' Da questi due momenti risulta una
contraddizione, che appartiene alla natura della nostra esistenza.
Ineliminabile nel tempo, essa sarà vinta soltanto nella eternità; sempre
operante nel corso della storia, continuamente turba il rapporto dell'uomo
con il mondo, come con se stesso.
3. - Nel medioevo, con la Rivelazione della sovranità di
Dio e dell'immediato rapporto dell'uomo con Lui, viene superata in linea
di principio la concezione mitica del mondo ed inizia il lavoro per una
nuova inter-pretazione. Nasce così la visione di un mondo disincantato in
virtù della parola della Rivelazione, dal quale spariscono divinità e
fatalità divine in modo da rendere libero lo sguardo sulla realtà.
La capacità dell'esperienza religiosa è però
straordinariamente forte e percepisce vitalmente ogni cosa come impregnata
di mistero. Si aggiunga che non è ancora scoperto il concetto moderno di
realtà empirica e di legge ordinatrice di natura. È necessario dunque un
grande sforzo dello spirito e del cuore per superare anche concretamente
gli influssi postumi del rapporto mitico con il mondo. Dappertutto gioca
la fantasia. Questa relazione con il mondo è molto acritica e le
possibilità della superstizione sono grandi.
Dalla mentalità delle popolazioni europee in via di.
formazione il pensiero acquista una solida forza architettonica. La
trascendenza di Dio costituisce il punto d'appoggio per la costruzione
integrale del mondo. Nasce così l'idea di un mondo gerarchicamente
formato, la cui base è sulla terra, e il cui vertice è in Dio. Questo
mondo è finito: « cosmo ». Dappertutto si riscontrano, da una parte,
come dati di fatto, la
80
condizione della realtà in quanto fondamentalmente creata
e sostenuta da Dio; dall'altra, la grandezza, bellezza e pienezza ideale
della sua opera, sentita ed esperimentata in modo possente, tanto da fare
di ogni elemento del mondo un simbolo dell'eterno.
Nello stesso tempo, la coscienza della caduta originale,
come stato del mondo, esercita un forte influsso. Potenti passioni
agiscono sull'uomo medioevale e la sua fantasia è grande. Egli sente nel
modo più penetrante il pericolo di perdersi nel mondo. Forme di una
radicale separazione dal mondo coesistono con quelle di un intenso
godimento mondano. Così nella idea medioevale di mondo risulta una
tendenza dualistica — talvolta così forte — da sembrare che il mondo
venga percepito come qualche cosa che non è creato da Dio, ma da una
potenza malvagia e per sedurre l'uomo.
4. - Nel corso del sec. XIV incomincia l'età moderna. La
considerazione simbolica del mondo viene eliminata da una critica
oggettivistica. L'osservazione, lo esperimento e l'interpretazione
dissolvono l'idea medioevale di un mondo religiosamente ordinato ed
e-merge invece la concezione di un mondo « naturale », scientificamente
comprensibile e tecnicamente dominabile.
Un sentimento dell'infinitezza dell'esistere distrugge
l'antica visione di mondo come cosmo, cioè di forma limitata e
strutturalmente armonica. Il mondo viene visto come infinito: in senso
dimensionale, come insieme del sistema terrestre, che si estende
indefinitamente; in senso genetico come complesso di eventi, i cui inizi
retrocedono sempre più, mentre il fine si proietta in un avvenire sempre
più lontano.
Nella misura in cui cresce la significanza del mondo,
81
il sentimento della realtà e dell'autonomia di Dio impallidisce.
Il processo si compie su due linee.
Sulla prima, Dio viene inserito nel mondo. Nasce il
moderno monismo, che Lo concepisce come fondo originario e anima del
mondo, come forza motrice-e senso progressivamente rivelantesi della
storia. Il divino assume sempre più le strutture del mondo fino a
diventare la « natura divina » della filosofia classico-romantica, cioè
fino alla identificazione.
Sulla seconda, il mondo viene sempre più esclusivamente
inteso come complesso di energie empiricamente determinate e di leggi
razionalmente comprensibili. Secondo questa teoria, una realtà divina è
qualcosa di assolutamente estraneo al mondo, anzi un non senso, che deve
essere eliminato. Così la intese il moderno positivismo. Secondo questo,
il mondo è autos'uf-ficiente. Non necessita di alcun principio diverso da
se stesso, che renda il mondo intelligibile ed aiuti lo uomo nella sua
esistenza. La religiosità appare come qualche cosa di ostile, che
impedisce all'uomo di spiegare le sue possibilità proprie. :
Negli ultimi decenni, i contributi apportati dalla scienza
e dalla tecnica sono saliti incalcolabilmente. Una realistica volontà di
potenza viene rivolta a raggiungere il dominio assoluto sulla natura e
sull'uomo stesso. Nei sistemi totalitari questa volontà si unisce
all'assolutismo di Stato; pone l'ateismo come principio politico e
interpreta ogni religiosità come forza nemica.
5. - Ciò per quanto riguarda gli elementi dominanti la
coscienza moderna del mondo. Ma si trovano resti anche del passato.. . .
L'elemento mitico è scomparso come fattore storico
determinante, ma non è spento. Esso piuttosto vive
82
ampiamente nel subcosciente dell'uomo, donde esercita un
continuo influsso sul sogno, sulle nevrosi e sulle psicosi.
Anche il rapporto simbolico-costruttivo col mondo continua
ad operare, in quanto è caratteristico dello uomo che usa in modo
spontaneo i sensi. Infatti se l'uomo • del nostro tempo guarda
ingenuamente il mondo, lo vede secondo lo schema tolemaico; lo vede in
rappresentazioni simboliche, se lo considera come artista e poeta.
Rimane però il fatto più importante, che in ultima
a-naiisi effettivamente Dio esiste e soltanto Egli è potente. Parimenti
sussiste un altro fatto importante, che l'uomo è creato, e la sua persona
esiste unicamente in virtù ;d'una immediata chiamata all'essere da parte
di Dio. Da ciò nasce una situazione, i cui effetti non sono ancora
prevedibili. La coscienza dominante tenta di negare, di rimuovere, anzi di
distruggere la realtà di Dio e il rapporto dell'uomo con Lui. Così a
lungo andare, la realtà di Dio e della Sua voce, che si rivolge alla
persona, dovrebbe diventare elemento patogeno. La natura dell'uomo però
non può lasciarsi ridurre ad una struttura positivistica. Anche nell'uomo
contemporaneo non credente, l'inconscio dovrebbe ribellarsi alla coscienza
ufficiale e al suo orientamento, come gli si presenta da parte della
cultura comune e dallo Stato. Le perturbazioni e le distruzioni nascenti
da ciò determineranno intrinsecamente l'avvenire. . a
Per quanto riguarda l'uomo credente, ?g|§Ji convinto che
Dio esiste. In rapporto a Lui, sentala sicurezza della libertà e della
responsabilità della*||?opria persona. Da questa coscienza però si
differenzia tutto ciò che ha in comune con la propria epoca non credente.
Queste due strutture psicologiche, con le loro
$?
rappresentazioni del mondo e con le loro ordinatrici, non
costituiscono un'unità. Tanto meno, in quanto l'esperienza religiosa,
percezione immediata della dimensione numinosa del mondo, nel corso del
tempo moderno, è divenuta sempre più tenue, e per diverse ragioni.
La prima è la tecnicizzazione e. la razionalizzazione
dell'esistenza, che spinge sempre più in una sfera puramente intimistica
e soggettiva la religiosità e rende il mondo sempre più profano. L'arte
— soprattutto la musica — porta ancora un momento del mistero
dell'esistenza nella coscienza. Ma ciò rimane un momento estetico, scisso
dalla quotidianità e non legato ad alcuna presa di posizione di fronte al
mondo. Un'altra ragione risiede nella storia spirituale del cristianesimo.
Il protestantesimo, dopo aver posta la certezza religiosa nel rapporto
individuale con la Bibbia, e per conseguenza nell'esperienza personale,
diventò sempre più decisamente soggettivista. Al posto della
immedesimazione intenzionale con la realtà og-gettiva, pone l'esperienza
come stato emozionale; al posto della verità valida in se stessa,
l'autenticità del sentimento personale. Per questo motivo la Chiesa
cattolica divenne diffidente verso l'elemento unicamente esperienziale e
scorse in esso un pericolo per la verità divina. Lo respinse dalla
pedagogia religio-.. sa e fondò tutto sull'autorità, obbedienza e
conoscenza razionale. In tal modo l'esperienza venne scoraggiata e cessò
in larga misura di essere il momento de'11'accertamento inferiore, che
pure sarebbe dovuta essere.
Finalmente l'ultima ragione. La coscienza medioevale di un
mondo turbato viveva sotto l'influsso della sua forte attitudine
emozionale, tanto intensa quanto o-scura. La violenza del sentimento è
diminuita, Tut-
§4
tavìa agirà ancora molto, per esempio, sulle moderne
correnti pessimistiche: noia del mondo, disperazione dell'esistenza, ecc.
Da ciò la tendenza a vedere il mondo come qualche cosa di ambiguo, anzi
di demoniaco. A questo modo di vedere si contrappone la grande esperienza
della scienza e tecnica moderna, che mostrano il mondo come realtà giusta
e piena di immense possibilità. Da qui scaturisce una contraddizione, che
non raggiunge l'unità. Nell'uomo credente, da una parte si esprime in un
sentimento che stacca il mondo da Dio, cosicché bisognerebbe liberarsi
dal mondo e abbandonarlo alla propria corruzione. Dall'altra sbocca nel
pericolo di sentire il messaggio cristiano come superato e perciò,
allontanandosene, rivolgersi al mondo.
Queste contraddizioni non sono ancora consumate. Anzi ci
si domanda se sia possibile addirittura concepire una possibile unità. In
ogni caso fanno sì che oggi non esista l'idea di un mondo unitario,
cristiano. Questo fatto è operante dappertutto e mina la sicurezza della
fede.
II - II compito del cristiano d'oggi vivente nel mondo.
1. - Con l'età moderna si inizia quel processo che noi
chiamiamo la secolari2zazione del cristianesimo. Esso consiste nel fatto
che i concetti scaturiti dalla Rivelazione: di Dio, di creazione, di
peccato dell'uomo, di Redenzione, di salvezza, incominciano ad oscillare.
Non esiste più il carattere specificamente soprannaturale del vero
contenuto della Rivelazione e prevalgono le analogie naturali. Per
esempio, al posto della vera Redenzione subentra il miglioramento
progressivo delle condizioni di civiltà; al posto della gra-
85
zia l'esperienza vissuta soggettiva; al posto della
resurrezione e della vita eterna uno stato ideale terreno.
Senonché oggi si diffonde l'idea che un cristianesimo
così volatilizzato non abbia alcun senso. Semmai ciò sembrava avvenire
quando le guide culturali del mondo erano nelle mani del relativismo e del
liberalismo e quando l'ateismo aveva ancora il carattere di una
irreligiosità o « libero pensiero » individuale.
Invece da alcuni decenni è entrato in una fase aggressiva
e si è unito a tortissime potenze politiche. La volontà di distruggere
non soltanto il cristianesimo, ma anche ogni forma di religione è
diventato fattore politico di massima potenza. Perciò sarà chiaro che
soltanto una coscienza cristiana, formata dagli autentici 'presupposti
cristiani, può opporre una resistenza.
Però è anche chiaro come sia pericolosa una valuta-zione
quasi dualistica del mondo. Quando la coscienza comune era ancora credente
e aveva la forza di ordinare il mondo, le correnti dualistiche potevano
a-vere un significato ascetico ed essere intese come volontà di dedizione
incondizionata a Dio. Ciò non sembra più possibile. Oggi sembra
delinearsi un orientamento a riconoscere il mondo come è: cioè opera di
dìo;| e come tale, secondo la narrazione genesiaca della creazione,
ripetuta per sette volte, buona, molto buona, amata da Lui e affidata
all'uomo (Gen. 1, 3-31).
Dunque deve svilupparsi qualche cosa che fu da lungo tempo
trascurata, e per una certa trascuratezza della fede: cioè una
responsabilità proprio da parte dell'uomo credente per il mondo. Egli non
deve più considerarlo come spazio, nel quale dovrebbe soltanto «
guardarsi dal peccare » e « fare il proprio do-
86
vere » in un senso astratto, ma deve sapere che è vocato
in missione cristiana per « custodire e coltivare » il mondo nella sua
natura e nel suo valore (Gen. 2, 15).
E ciò tanto più, quanto più chiaro diventa in quale
enorme pericolo camina il mondo per il titanismo contemporaneo. Il
possesso del mondo, la capacità di dare ad esso una forma secondo la
propria scienza, sono sempre stati sentiti sia come compito sia come
tentazione di 5/3pK. Ma tutto rimaneva custodito da ordinamenti che l'uomo
non poteva abolire. Il suo fare consisteva nel lavorare con le sue forze
naturali sui dati immediati, senza però riuscire a penetrare negli
elementi costitutivi. Proprio questo tuttavia è avvenuto. Scienza e
tecnica sono ora in grado di intaccare la struttura fondamentale del
mondo. Gli effetti che possono produrre sono così grandi da compromettere
d'ora in poi l'esistenza umana semplicemente.
Si trattava di una « omissione » del cristiano, ma la
parola non è adeguata: noi dobbiamo capire che si tratta di una vera
colpa. Il cristiano ha abbandonato, a lungo, il mondo a se stesso, cioè
all'incredulo e alla sua volontà di dominio. L'incredulo però non è in
grado di amministrarlo rettamente. La logica immanente nell'evoluzione
della potenza della scienza, della tecnica e della politica, lo spinge in
una zona di pericolo, dove è possibile lo sfacelo. Le forze che sarebbero
sufficienti a tenere in ordine la sua capacità, non scaturiscono dalla
scienza, ne dalla tecnica. Non derivano neppure dall'autonomia etica del
singolo, e tanto meno da una presunta sovrana sapienza dello Stato.
Che il singolo non sia capace di dominare lo sviluppo
anonimo della civiltà, sembra essere dimostrato dal
87
corso della storia. Perciò il movimento totalitario che
si diffonde sulla terra attende ogni salvezza dallo Stato. E allo Stato
viene attribuita una sapienza e una forza ordinatrice, che potrebbe essere
attribuita alla Chiesa, se essa fosse santa non soltanto nel suo
fondamento mistico, ma anche nella sua concreta realtà. I prossimi
decenni tuttavia mostreranno che lo Stato, di fronte agli impulsi della
natura umana e alle conseguenze della civiltà « oggettivistica », non
può fare, in sostanza, più del singolo.
Le vere possibilità salvatrici risiedono nella coscienza
dell'uomo, unito a Dio vitalmente. Dunque anche la fede — come la
non-fede — diventa un fattore storicamente decisivo.
2. - Si dovrebbe riconoscere qualche cosa ancora. La
nostra coscienza di Dio e del suo rapporto con il mondo è soprattutto
determinata dal concetto filoso-fico di assoluto, come è venuto
formandosi sotto lo influsso della filosofia greca e del razionalismo e
idealismo moderno. Secondo questa teoria, Dio è quell'essere che — se
così si può dire — è consolidato e ratificato nella sua assolutezza,
ma dall'assolutezza è anche necessitato. Di fronte a Lui sta il mondo,
come realtà finita. Il suo rapportarsi al mondo passa sopra una sua
distinzione anch'essa assoluta e assume facilmente un carattere soltanto
intenzionale e irreale. È sufficiente pensare al deismo che presenta Dio
precisamente come creatore e ordinatore del mondo, ma poi lo ricaccia dal
mondo e consegna quest'ultimo completamente nelle mani dell'uomo.
La Rivelazione parla diversamente. Già il fatto che Dio
crei il mondo simpliciter, e ponga il finito vicino a sé, è un
mistero. Ciò vuoi dire che Dio realizza nel mondo immagini e imitazioni
del suo essere;
88
cioè Egli ha inserito e abbandonato, per così dire, nel
finito il suo onore, anzi, in un certo senso, se stesso. Ma come può Egli
fare simili cose? La nostra domanda poi cresce di interesse se teniamo
presente la libertà umana, a cui Dio, creandola, ha dato la possibilità
di opporsi anche a Lui. E cresce ancora, se pensiamo che Dio, nonostante
la colpa e la sua perversa fecondità, non lascia naufragare il mondo, ma
lo sostiene, rimanendo fedele a coloro che non sono fedeli:
fedeltà che rischia di essere pericolo di scandalo infine
dinanzi al fatto centrale del cristianesimo, cioè all'Incarnazione.
Che Dio arrivi ad una unione personale con la creatura
finita, con la natura umana e questa unione sia mantenuta per l'eternità;
che Egli, santità nella sua assolutezza inerme, per così dire, esponga
se stesso alle terribili possibilità di una storia sconsacrata, tutto
ciò ha un influsso determinante a sua volta sulla idea di Dio stesso.
Questo dice — ciò che la religione cristiana ha sempre
conosciuto — che Dio non è soltanto l'essere assoluto della filosofia,
ma, molto più, il Dio vivente, che si è « impegnato » nel mondo
finito. È chiaro che il concetto di amore di Dio — come fa la teologia
influenzata dal razionalismo — non può essere inteso soltanto come
amore di benevolenza e di previdenza, ma bisogna ammettere il fatto,
inaccessibile ad ogni naturale induzione, che Dio ama il mondo « sul
serio » e permette al mondo di diventare così importante per Lui da
unirsi alla creatura con una unione personale.
Il cristiano dunque è chiamato ad accordarsi con questa
intenzione di Dio. La situazione storica in genere e lo stadio, nel quale
sono arrivate la potenza dello uomo e le possibilità di distruzione,
costringono il
89
cristiano a sottopórre ad un serio esame il suo rappòrto
con il mondo. Finora l'etica cristiana ha riconosciuto i compiti nel
mondo, però non ha capito sufficientemente che il mondo, come tale, è
dato come compito e oggetto di cristiana responsabilità.
Forse un giorno la salvezza del mondo nel senso più
elementare — salvezza dallo sfacelo — dipenderà dall'ipotesi che il
cristiano prenda il mondo sotto la sua responsabilità e sia pronto ad
impegnarsi per esso. Talvolta mi viene un pensiero che suona pressapoco
così: un giorno il mondo dovrà finire; l'esistenza umana è, in ogni
modo, limitata nella sua durata; la cosa più importante è che l'uomo si
rivolga a Dio con fede, con preghiera e con l'amore, e poi lasci andare il
mondo per quella strada su cui deve pure andare. Ciò sembrerebbe pio e
saggio. È però una profonda tentazione che proviene da quelle potenze
mal-vage, che vogliono togliere dalle mani di Dio il mondo.
La tentazione sentita finora arrivava fino a ciò: a far
apparire il mondo così bello e il dominio su esso così allettevole, che
l'uomo dimenticava Dio; ma la nuova tentazione spinge l'uomo, forse, a
pensare che per salvarsi debba abbandonare il mondo e consegnarlo in balia
dei miscredenti.
È vero invece che un nuovo compito diventa chiaro:
c'è da salvare l'opera di Dio. Salvarla dal pericolo che
la potenza dell'uomo cada nella mani della ^p" e della follia e
distrugga la vita sulla terra. L'uomo dunque non può capire il dovere
morale, se dice: « Io devo guardarmi dal peccato », ma se dice: « Io
devo preoccuparmi che il mondo diventi ciò che deve essere ». Da questo
punto di vista tutto un complesso di valori e di compiti diventa evidente.
Questa complessità però può essere afferrata soltanto quando
90
ogni segreto dualismo viene superato e diventa chiaro che
Dio ha affidato il suo mondo all'uomo. È ovvio che accanto a questa
prospettiva nasce anche un pericolo: di poter essere del mondo in
una nuova maniera, cioè sotto il pretesto della responsabilità. Ma
l'esistenza ha sempre avuto la caratteristica di poter essere tratta e
verso il bene e verso il male.
91
v
L'ATEISMO E LA POSSIBILITÀ DELL'AUTORITÀ
I. - L'essenza dell'autorità.
1. - II termine « autorità » viene usato con
significati molto diversi. Si dice, per esempio, che un maestro non ha
autorità nella sua scuola; che uno scienziato è un'autorità in un
determinato campo d'indagine ecc. Perciò è necessario chiarire il
concetto e chiedo il vostro consenso per poterlo fare in modo preciso,
forse un po' pedante. Attraverso quest'analisi precisa del fenomeno
risulterà però che il tema stesso della mia comunicazione * trova la sua
quasi completa trattazione. Infatti che cosa significhi l'ateismo per
la-possibilità d'una vera autorità, apparirà chiaro nella misura in cui
si manifesterà la natura dell'autorità stessa.
La nostra indagine procederà per modum eliminatio-nis.
Autorità, nel senso più generale, significa una istanza capace di
vincolare l'iniziativa di un vivente. Definizione evidentemente troppo
vasta. Il proprietario di un cane ben addestrato, per esempio, può
comandare e l'animale obbedirà. L'uomo è capace di
* II testo fu presentato al XVI Convegno del Centro di
Studi filosofici di Gallarate 1961; ma qui è stato rielaborato.
9?
vincolare l'iniziativa del cane; non si tratta però di
vera autorità, dato che l'iniziativa, a cui il comando si impone, è
quella di un animale. Il cane è entrato in un rapporto coll'uomo simile a
quello che unisce il membro d'un branco — per esempio di lupi — allo
animale-guida: la sua iniziativa biologica più debole si è subordinata a
quella più forte. Il fenomeno dell'autorità in senso proprio è però
essenzialmente umano.
Se un uomo, tisicamente forte, costringe un altro, più
debole, a seguire una via che questi non vorrebbe, e-videntemente non si
tratta di un atto di autorità ma di costrizione fisica.
Perché si possa parlare di vera autorità, l'uomo, a cui
è rivolto l'atto obbligante, ne deve esser partecipe con la propria
iniziativa intcriore.
Un fatto analogo avviene nelle varie forme di costrizione
psichica. Se una persona energica intimidisce un'altra di carattere debole
sino a farle fare quello che non vorrebbe, anche in questo caso non
possiamo parlare di autorità.
Tanto meno nelle molteplici forme di seduzione, la cui
tecnica consiste nel portare l'altro, attraverso passaggi insensibili,
dove si vuole. Altrettanto bisognerebbe dire della demagogia, che non
sollecita la libera decisione degli uditori ma li porta a reagire
passivamente nel modo voluto. La forma più evidente di questo tipo di
vincolo psicologico è la suggestione ipnotica. Essa desta sì
l'iniziativa ma questa subisce una tale coazione che quando uno riprende
la propria coscienza non si sente autore di quanto ha fatto. Non è dunque
possibile parlare di autorità, se il vin-
?4
colo subito abolisce la libertà del soggetto. Al
contrario: per essere vera autorità, essa deve rivolgersi alla libertà
come tale.
Inoltre: per poter vincolare legittimamente la libertà,
il contenuto dell'ordine impartito deve essere moralmente buono. Ma con
ciò unicamente si da già autorità?
D'altra parte non chiunque .ricordi ad un altro un dovere
morale, ha autorità. Per averla, deve occupare una posizione speciale
dell'esistenza di colui, a cui parla. Cioè deve trovarsi all'origine
della vita di costui: per esempio essere suo padre o sua madre. Questo lo
rende responsabile verso la vita del figlio e conferisce alla sua parola
il carattere d'autorità, e non ristretto ad un compito specifico, come
sarebbe quello d'un infermiere, ma in una forma generale, data
dall'obbligo di provvedere allo sviluppo ed alla educazione di questa
nuova vita. È la delega, in certo modo, di pieni poteri per un'iniziativa
creativa, definibile di volta in volta dalle necessità della stessa nuova
vita.
2. - La forma più semplice, in cui l'uomo percepisce il
vincolo alla propria libertà, e quella emergente dal bene stesso, quando
cioè ne riconosce la validità e sente che ha l'obbligo di volerlo e di
farlo; e questo non per un fine estrinseco ma perché il bene è valido in
se stesso e perciò obbliga in coscienza.
Questa istanza, da cui promana l'obbligazione, il « bene
» ovvero la sua più precisa definizione in virtù dell'esigenza posta
dal singolo momento — sono au-
95
tonta? Ancora no; ne il bene in generale, ne alcuna idea
etica in particolare, ne l'esigenza della situazione lo sono. Appena
riconosciuti, vincolano immediatamente la libertà. Perché siano
autorità, manca loro un elemento essenziale, e cioè la concretezza: là
realtà empirica.
Ora nella vita di ogni giorno si dice, per esempio: il
professore X è un'autorità in materia di malattie di cuore; ciò che
egli afferma suole decidere ogni discussione. La sua competenza ha dunque
un carattere di concretezza, perché è rappresentata da tale persona; di
valore morale, perché fondata sulle sue specifiche conoscenze. Il suo
giudizio vincola dunque la coscienza d'un medico, che cura un caso
studiato dal tale professore, finché non si presentino nuove ragioni per
scegliere un'altra via. Si può dire che il professore abbia autorità nel
senso stretto della parola? Ancora no. L'eminente specialista, come tale,
non obbliga, ma la sua parola ha valore per la sua esperienza e i suoi
studi, un valore grande quanto le ragioni, che possono essere addotte.
Analoga è la situazione, quando una persona esercita un
influsso morale non soltanto con la parola e la forza dei suoi argomenti
ma con il proprio essere, in quanto cerca sinceramente di realizzare lei
stessa ciò che dice, con la forza sollecitante e affascinante della
propria personalità. Si può dire che essa stessa è una autorità nel
vero senso del termine? No, nemmeno in questo caso. Ciò che vincola la
coscienza della persona che sente la sua influenza, è l'evidenza morale
di ciò che afferma o rappresenta.
96
3. - Quando dunque si può parlare di autorità in senso
stretto e proprio?
Prima condizione : quando ciò che esige, vincola la
libertà di chi ode: cioè quello che esige è moralmente positivo; anzi,
più, è essenziale per il sorgere ed il divenire della vita umana.
Seconda condizione: quando l'istanza che pone la richiesta
è concreta, realtà umana; quando sta visibilmente nella storia, come
uomo singolo o come istituzione.
Di tali autorità nell'ordine naturale ne esistono due. La
prima è rappresentata dai genitori che sono aucto-res vitae, fonte
dell'esistenza del figlio; perciò responsabili della sua sicurezza, del
suo sviluppo fisico, morale ed intellettuale, della sua preparazione per
la vita futura.
Il loro ordine è per il figlio non soltanto un consiglio,
un esempio, un aiuto pedagogico, ma bensì un vincolo obbligante in
coscienza. Naturalmente va soggetto alla critica morale. Se impone
qualcosa che sia illecito ovvero assurdo, l'ordine perde la forza
obbligante. D'altra parte non è necessario che il figlio, data la sua
età, esamini l'eticità di ciò che i genitori affermano; nel contesto di
tutto ciò che è vita giovane, in formazione, è addirittura meglio che
egli non esamini, ma ubbidisca con fiducia.
Autorità ed obbedienza sono una forma di realizzazione
del bene, richiesta dal fatto che l'uomo entra in vita ancora inetto e
l'ordine morale gli si presenta incarnato negli autori della sua vita. Con
questo si deve affermare però anche che l'autorità dei genitori ha il
compito di rendersi superflua, cioè di non ostacolare,
97
bensì di incoraggiare, risvegliare, acci coscientemente
formare la crescente capacità nel figlio di autodetermi-aarsi moralmente.
La seconda forma naturale di autorità è lo Stato.
Anch'esso risiede all'origine della vita, perché il bambino •non entra
nell'esistenza come essere isolato, ma come membro di un contesto sociale,
che, secondo la situazione storica in cui si presenta, è diversamente
esteso, variamente differenziato e di diversa forma sociologica. Lo Stato,
d'accordo coi genitori, ha il compito di ordinare quella vita, che
continua a rinnovarsi dalle energie vitali del popolo.
Doveri e competenze dello Stato si definiscono nella
legge. Questa obbliga ogni suo membro. Anche qui il potere obbligante non
risiede soltanto nell'evidenza di ciò che ordina, altrimenti basterebbe
la legge morale, ma lo Stato è anche autore di quell'obbligazione, che si
realizza nei singoli avvenimenti, elementi ordinativi e via dicendo,
dell'esistenza sociale.
Il diritto dello Stato di emanare leggi trova i suoi
limiti nel fatto che i suoi mèmbri non sono individui di una colonia
d'animali, bensì uomini, perciò persone esistenti in libertà e
responsabilità propria. Lo Stato ha diritto — e dovere — di limitare
la libertà dell'individuo e del gruppo, solo in quanto sia necessario per
rendere possibile la maggior libertà di tutti. Anzi è compito
dell'autorità dello Stato di incoraggiare e sviluppare
l'autodeterminazione del singolo e dei gruppi.
Nei singoli casi l'iniziativa dello Stato è subordinata
alla critica morale. Una legge che contraddica l'ordine etico è nulla. Se
ordina qualcosa di nocivo, nasce
98
del pari la possibilità della critica, solo occorre un
procedimento oggettivamente ordinato, perché ciò sia lecito.
Da queste due forme fondamentali di autorità derivano poi
quelle altre, secondarie, che sono necessa-rie per proteggere, sviluppare
ed ordinare le diverse forme della vita sociale: l'autorità
nell'amministrazione, nella giustizia e nella difesa, nell'educazione
pubblica e così via: autorità delegata nei suoi diversi gradi, che
riceve la propria autorizzazione dallo Stato e dai genitori, ed è tenuta
a renderne conto.
4. - Nella nostra analisi del fenomeno « autorità »
• manca però ancora un elemento. È quello inteso
quando per esempio il quarto comandamento fa dovere al figlio di «
onorare il padre e-la madre ». Non solo di ubbidire alla parola di quelli
che sono aucto-res della sua vita; neppure solo di esser loro
riconoscente per i loro aiuti, o di avere rispetto per la loro
-anzianità, o di esprimere la fiducia che risulta dal
rapporto tra le generazioni. Nel contesto del Decalogo il termine «
onorare » significa invece, che il figlio avverte nei genitori un
elemento che trascende le relazioni finora analizzate. Perciò quando uno
si ribella ai genitori, non lede soltanto un ordine immanente, ma manca
contro qualcosa che ha un carattere religioso.
I genitori come tali non sono soltanto persone che
adempiono nella vita del figlio determinate funzioni e hanno perciò per
lui un'importanza speciale, e, per poterlo compiere in modo efficace,
hanno un peso e un'importanza particolari derivanti dall'ci.px1?
della
99
vita, ma rappresentano un'istanza che sta al di sopra di
lui, conferiscono presenza a Dio come creatore di ogni vita, auctor
vitae assoluto.
La coscienza di questa rappresentanza è storicamente
tanto più forte quanto più ritorniamo addietro. I genitori — in
special modo il padre — hanno sempre avuto un grande potere religioso,
originariamente addirittura magico. Nel corso del tempo questo andò
scemando; ma un nucleo è ancora vivo, opera par-ticolarmente
nell'istruzione religiosa e costituisce l'elemento centrale del fenomeno
dell'autorità.
Lo sviluppo storico produce la consapevolezza che tale
potere ha i suoi limiti, e precisamente quel diritto proprio, che si fa
sempre più chiaro, del figlio e della personalità del giovane. I
genitori debbono sapere che si trovano di fronte a una libertà in
formazione, e non solo debbono circoscriverla, in ragione dell'ordine, ma
anche, per esso, promuoverla, fino al giorno in cui la loro autorità
cessi in senso assoluto e il giovane assuma responsabilità su di sé.
Finché però in genere viene avvertita l'autorità dei
genitori, viene sentito in esso anche tale elemento trascendente.
Lo stesso elemento si trova corrispondentemente anche nel
fenomeno dello Stato.
Ha conseguito la sua caratterizzazione più vigorosa
nell'antica idea del rè, che in verità era non solo il capo dello Stato,
come oggi viene inteso, nel senso funzionale della parola, ma figlio di
una divinità, o particolarmente istruito e protetto da essa; membro
d'unione fra il terreno ed il divino; simboli: la corona, lo scettro, il
manto regale, lo esprimono. L'at-
100
teggiamento dovutogli era una riverenza religiosa, e
mancargli costituiva il crimen laesae majestatis.
Nel corso della storia anche questo elemento andò
perdendo la sua importanza fino a scomparire quasi completamente nello
Stato razionalizzato del nostro tempo. Ne rimane però ancora un resto in
certi concetti, come quello di sovranità, nel senso che ha il giuramento.
Anche lo Stato rappresenta la sovranità divina. In ultima
istanza avviene per questa rappresentanza che l'uomo, il quale è persona,
gli riconosca l'autorizzazione a regolare secondo un ordine la vita del
cittadino dello Stato, che è persona. Parimenti è in ultima analisi
questa valenza religiosa a rendere efficaci per la coscienza, al di là
del vantaggio e della pena, le leggi.
II. - II
significato della fede in Dio per la possibilità dell'autorità.
1. - L'analisi del fenomeno ha preparato la risposta al
problema di quel che significhi l'ateismo per la possibilità di
un'autorità. Le autorità autentiche — quella dei genitori verso i
figli e quella dello Stato verso i cittadini come pure le forme
secondarie, derivate dalle predette —, ricevono la loro sanzione
definitiva da quell'elemento di rappresentatività descritto sopra.
Il detentorc dell'autorità — padre, capo dello Stato,
maestro della scuola e così via — è in grado di obbligare, se ha viva
coscienza che rappresenta in qualche modo, la sovranità divina.
Nell'epoca moderna l'idea di autonomia ha ottenuto
101
un'importanza sempre maggiore. L'individuo esige il
diritto di vivere secondo il proprio giudizio morale. La scienza si fonda
esclusivamente sulla ricerca critica. Anche gli altri campi della cultura
— quello politico, economico, artistico, militare e così via —
esigono la loro specifica autonomia. Dappertutto l'ambito di vita e di
cultura di cui si tratti si scioglie dal contesto religioso.
Contemporaneamente diminuiscono — sia come causa che
effetto del fatto predetto — l'esperienza religiosa, la percezione
diretta della realtà di Dio, della sua potenza creativa e del suo governo
sul mondo. L'esistenza come totalità si stacca dal suo contesto
religioso, e nasce un mondo puramente terrestre. Perciò non è se non
logico che l'autorità non sia più fondata in Dio, ma sia intesa come
istanza puramente umana.
Lo Stato, perciò, è concepito come quell'ordinamento che
il popolo autonomo da a se stesso. In principio — per esempio nella
rivoluzione francese — il concetto di popolo sovrano conserva ancora un
certo carattere religioso ma poi, a poco a poco, va perdendolo ed alla
fine non esprime che l'insieme degli uomini appartenenti ad un paese, la
cui vita comune è ordinata secondo criteri razionali.
Lo Stato allora è l'integrazione delle diverse funzioni
necessarie per la sicurezza, il benessere, la cultura dello stesso popolo.
Il carattere obbligante dei suoi provvedimenti — della legge — è
fondato ora solamente sulla necessità ed utilità di queste funzioni,
ovvero sulla volontà del popolo di condurre una vita in cui sono
necessarie tali funzioni.
102
Il significato dei genitori subisce un mutamento analogo.
L'esperienza mostra che la condotta dei figli va perdendo sempre più
l'atteggiamento propriamente riverenziale verso i genitori, e che essi
sono inclini da parte loro a considerare genitori e famiglie come un
contesto di funzioni d'utilità, cui essi stessi si contrappongono col
diritto a un'indipendenza sempre maggiore. Lo scetticismo di fronte allo
Stato e alla famiglia forma le radici di un atteggiamento, che poi si
riproduce in tutte le forme di sovra- e subordinazione nella vita sociale
e culturale.
Nel corso di questo sviluppo la coscienza del .senso
dell'autorità svanisce. Il senso della parola slitta sempre più verso
ciò che abbiamo designato come forme improprie: l'influenza di una
personalità eminente, il • peso dell'esperienza e della capacità in un
qualche settore operativo, l'influsso di doti demagogiche — basta che
pensiamo soltanto all'esperienza degli ultimi quindici anni.
L'autorità autentica è giudicata segno di arretratezza
dello sviluppo morale, pretesa di gruppi reazionari e così via.
In questo contesto si deve rivedere però anche il
significato quasi magico che ha per l'uomo d'oggi la pubblicità. Pensiamo
al modo in cui si indaga sulla sua opinione, come fosse una reviviscenza
dell'oracolo dell'antichità, e a fenomeni quali la congiuntura economica,
la moda e via dicendo.
2. - Qual è dunque la risposta al problema delle nostre
riflessioni? L'esistenza di Dio e la fede in Lui, la coscienza della
103
sua assoluta autorità, tanto in chi comanda come in chi
obbedisce, sono elementi di base, perché sia possibile vera autorità
umana. Possibile cioè non solo nel senso di una funzione sociologica, ma
anche in quello d'un elemento dell'esistenza umana, indispensabile nella
realtà.
Nella misura in cui svanisce la fede in Dio, il rapporto
con Lui, sentito in modo reale e vivo, decade la vera autorità.
Subentrano insensibilmente, dapprima forme attenuate che poi trapassano
sempre più in funzioni di carattere razionale, e scompaiono concetti di
reverenza, dovere, colpa, punizione, espiazione e così via.
Scompare anche la forza vincolante diretta dell'ordine
statale e familiare. Al posto della vera autorità statale subentra la
forza della polizia, e, come ultima conseguenza, la dittatura, che non
concede libertà alcuna ma impone con la violenza l'adempimento della
propria volontà. .
Nei singoli poi, in cui l'ordine statale non ha più
radici religiose, prende forma un'anarchia potenziale che può attuarsi
ogni momento. Da qui il concetto della « rivoluzione perenne » come
elemento permanente della storia politica, necessario per bilanciare il
dominio dello Stato.
Nella famiglia il processo decorre inversamente. Padre e
madre non sanno più opporre nulla alla crescente scepsi della gioventù.
Sono scoraggiati e sentono che il loro essere puramente umano non ha
successo contro l'anarchia inferiore. Così, in fondo, abbandonano la loro
posizione e la famiglia crolla dall'interno.
Allora non è che una conseguenza della condizione
104
esistente il fatto che lo Stato intervenga. Esso non vede
nella famiglia che la condizione biologico-socio-logica previa necessaria
perché siano generati e curati i bambini, e non appena possibile, la
prende sotto la sua guida.
105
VI LA FEDE NEL NOSTRO TEMPO
Premessa.
I pensieri sviluppati qui — poco tempo fa presentati
alla radio bavarese — hanno concluso un ciclo inteso a rispondere alla
questione del come l'uomo della nostra presente situazione
culturale-politica, si presenti alla considerazione di volta in volta da
punti di vista diversi. Se si prescinde dall'ampiezza dell'oggetto, il
problema delle conferenze precedenti appariva chiaro.
Per la mia non era senz'altro il caso, giacché in essa
non si trattava solo di descrivere la struttura fisicospirituale o la
ricettività religiosa dell'uomo d'oggi, ma io dovevo parlare anche da
teologo. Ciò significava che io dovessi chiedermi come si atteggi l'uomo
odierno verso la Rivelazione biblica, cui so di essere obbligato, e come
sia suscettible d'essere interpellato da essa —• a distinzione,
poniamo, dell'uomo anteriore alle trasformazioni apportate dalle grandi
guerre e dalle ultime avanzate scientifico-tecniche.
Per chiarire meglio il problema, in primo luogo si è
dovuto dire — in termini i più brevi possibili, ma tuttavia sufficienti
— che cosa contenga allora questa rivelazione. Gli ascoltatori hanno
dovuto così sorbirsi pure una piccola esposizione teologica, che sarà
utile anche al lettore.
La Rivelazione dice dunque: il mondo non è una realtà
semplicemente data, che l'uomo interroghi con la sua indagine senza per
altro essere 'sicuro se mai ne intenderà il senso, anzi se essa ne abbia
in assoluto
107
uno. Dietro di lui stanno Invece una sapienza e una bontà
dirette a lui;, il Dio vivente, che in sé non ha bisogno d'un mondo, ma
l'ha creato affinchè esso esista e dispieghi la ricchezza delle sue
possibilità.
Questo Dio ha testimoniato se stesso nelle esperienze e
nelle intuizioni religiose naturali dell'umanità. L'ha fatto in maniera
normativa nelle rivelazioni quali si vanno estendendo attraverso la storia
dell'Antico e del Nuovo Testamento. La risposta dell'uomo ad esse è la
fede.
Il creatore ha posto il suo mondo nelle mani dell'uomo,
affinchè vi abiti, vi svolga la sua opera ed edifichi il regno di Dio.
All'inizio di tutta la storia tuttavia v'è un atto, con cui l'uomo si è
ribellato contro Dio e ha guastato e corrotto il proprio rapporto col
mondo.
Nondimeno dalla profondità della libertà divina è
scaturita una seconda iniziativa, grande quanto quella della creazione,
anzi più grande ancora: Dio ha assunto su di sé la responsabilità per
la colpa ed è entrato nella storia. Ha creato un nuovo inizio
dell'esistenza: la redenzione, attuata mediante l'incarnazione del Figlio
suo, la vita, l'insegnamento e il destino di Gesù Cristo.
Da allora attraverso il primo mondo, generato dalla colpa
e sconvolto, dalla fede nell'inizio redentivo scaturisce la genesi di un
nuovo mondo. Tra loro si svolge una contesa permanente, anzi una lotta.
Essa costituisce il senso intimo della storia, ma la speranza cristiana si
indirizza verso la vittoria del mondo nuovo, verso l'avvento del regno di
Dio.
Il problema che si deve porre è dunque il seguente:
in che modo l'uomo d'oggi è toccato dal messaggio
cristiano? È capace di comprenderlo? È disposto ad
108
accettarlo nella sua vita? Il suo comportamento a questo
riguardo è forse diverso da quello, ad esempio, dell'uomo all'inizio del
secolo? Oppure, ancor più, le modificazioni intervenute nel frattempo
hanno esercitato su di lui una tale influenza da escludere addirittura per
lui, come si va dicendo, ogni capacità e disposizione alla fede in senso
assoluto? Questo è il problema che ci poniamo.
Non intendiamo qui parlare di quelle resistenze che la
Rivelazione in quanto tale incontra in ogni uomo. La Rivelazione vuole
invero redimere l'uomo, cioè trarlo dallo stato di disordine e di
autodecadimento in cui si trova. Ma con ciò propone una scelta, anzi la
scelta decisiva. Il « cristianesimo » non è la religiosità di un'epoca
culturale o di un tipo psicologico tra altri; non esistono cristiani « di
nascita », ma in ognuno la chiamata della Rivelazione attraversa tutto un
insieme di disposizioni e di condizioni previe. La fede esige sempre la metànoia,
cioè la trasformazione dell'uomo, .dei suoi sentimenti e dei..suoi
.pensieri. Questo vale per l'uomo d'oggi come per l'uomo dei secoli
passati..
La questione che ci poniamo è diversa: si tratta di
precisare i particolari presupposti, contrastanti o favorevoli, che il
messaggio cristiano trova nell'uomo odierno a differenza dell'uomo delle
epoche precedenti.
Si è affermato che questi presupposti, considerati
globalmente e a lunga scadenza, sono assolutamente negativi, vale a dire
che la fede cristiana non ha più alcun avvenire. L'affermazione non è
nuova; chi conosce un poco la storia, sa anche che essa è già stata
frequentemente enunciata.
Ma chi conosce qualche cosa dell'essenza della Rivelazione
cristiana e delle esigenze che essa pone agli
109
uomini, sa pure che quella affermazione è una componente
essenziale della situazione in cui si viene a trovare colui che è
chiamato: sempre la Rivelazione è « sorpassata », sempre è inattuale,
perché il suo contenuto è eterno, e l'uomo di ogni ora della storia
cerca di evitarlo col dichiarare che essa ha avuto valore ieri, e che
oggi, cioè nel momento della decisione, essa non vale più. Ma la
Rivelazione cammina con la storia; così quella stessa affermazione assume
di volta in volta contenuto storico diverso ed esige risposte diverse: le
quali presuppongono la descrizione dei vari modi con cui le varie epoche
si situano davanti alla Rivelazione.
I. -L'ateismo.
L'attuale situazione religiosa differisce profondamente da
quelle passate per il fatto che oggi l'ateismo ha conseguito
un'affermazione mondiale.
Ateismo significa un rifiuto fondamentale del Dio che si
manifesta nella Rivelazione biblica; e, inoltre, di ogni realtà divina in
qualsiasi modo concepita. Esso non è sorto soltanto in tempi recenti; la
sua storia ha radici molto remote. Ma, mentre ancora intorno al 1900 chi
vi aderiva veniva a trovarsi in una posizione più o meno isolata, ora
esso è diventato, per così dire, abile alla vita sociale; ha acquistato
una nuova coscienza dì sé, anzi ha raggiunto nel comunismo le dimensioni
di una potenza mondiale dotata di tortissima volontà offensiva. Ciò ha
gravemente pregiudicato non solo l'esistenza ma anche il prestigio della
fede nella Rivelazione ed ha inoltre reso assai pericoloso in ampie zone
della terra scegliere e professare pubblicamente questa fede.
Ma d'altra parte, grazie all'ateismo, l'interpretazione
110
cristiana dell'uomo e del mondo diviene assai più sicura
di sé. Nuovi problemi, è vero, sono sorti per la teologia, suscitati
dalle conoscenze scientifiche che hanno ripresentato il problema della
definizione dei confini tra animale e uomo, tra organico e spirituale, tra
incosciente e cosciente; suscitati dalle conquiste della ricerca storica e
sociologica, come pure dalle trasformazioni della realtà economica e
politica, ecc. Ciò nonostante il credente consapevole avverte il senso di
una nuova libertà. La mentalità meccanicistica dominante verso la fine
del secolo scorso, che, consapevolmente o no, usava l'immagine della
macchina come schema per la sua concezione del mondo, costituiva un grande
ostacolo al pensiero cristiano; ora essa è per gran parte scomparsa. Il
pensiero odierno sa che la qualità non può essere ridotta a quantità,
come sa che la capacità di comprendere non è riducibile alla funzione
meccanica; sa che lo spirito è una realtà e che la persona è
fondamentale per la comprensione dell'esistenza, ecc. In tal modo sono
sorte relazioni che appaiono favorevoli al contenuto della Rivelazione,
delle quali non è ancora possibile valutare la portata. Anzi l'apertura
che ne deriva è così grande e così fortemente sentita che si può
talvolta parlare di un « entusiasmo » del pensiero ispirato alla fede
— con tutti i pericoli che un tale stato d'animo comporta per la
nettezza delle distinzioni.
Nell'evoluzione storica della nostra società l'ateismo è
venuto a trovarsi specialmente vicino al tipo, oggi sempre più diffuso,
dell'« uomo tecnico ». Si va formando l'opinione che tutto può essere
« fatto »; che dappertutto « le cose vanno anche senza Dio »; che anzi
la vera espansione dell'uomo come pure il suo più elevato rendimento, si
realizzeranno su raggio uni-
111
versale una volta che sia rimosso l'ostacolo dei vincoli
trascendenti. Tutto ciò pone indubbiamente il cristiano davanti ad una
difficile prova; ma è pure altrettanto indubbio che ciò contribuisce a
chiarire l'atteggiamento religioso complessivo.
Ora che sono caduti tutti 'gli impedimenti esterni da
parte di determinate autorità e istituzioni cristiane;
ora che giganteschi sistemi politici hanno avocato a sé
ogni potere e deposto ogni senso di responsabilità verso una più elevata
istanza, nella volontà di plasmare tutta l'esistenza umana secondo punti
di vista puramente terreni, si potrà veder chiaro se senza Dio l'uomo
saprà essere realmente uomo. È questa la più terribile avventura che
sia mai stata osata. Ma i sacrifici che essa finora è costata, le
violenze compiute contro la natura umana e gli attentati perpetrati alla
sua dignità costituiscono un passivo che nessun progresso
tecnico-economico e sociale potrà mai compensare. Per di più, la
psicologia ha dimostrato che ogni autentica esigenza psicologica che non
trova adempimento, genera malattia. Così apparirà chiaro che cosa
provocherà alla fine la distruzione dell'istinto più profondo dell'uomo
— e noi non vogliamo dimenticare che il tentativo non è ancora giunto
molto lontano dal suo inizio.
Ma prescindendo da questo, la comparsa dell'ateismo
comporta anche una decisiva chiarificazione nello stesso campo religioso.
Finora l'ateismo era una potenza sotterranea, nascosta sotto
l'indifferenza dei socialmente .svantaggiati o sotto lo scetticismo dei
circoli dirigenti della società e della cultura. Ora si è manifestato
apertamente e obbliga alla decisione, e la cristianità che nasce ora da
tale decisione sa quali sono il contenuto genuino e i criteri autentici
della propria fede.
^12
Allo stesso risultato porta il fatto che l'ateismo
dissolve il sincretismo, a cui ha condotto la secolarizzazione operata sul
cristianesimo dall'epoca moderna e che ha sbiadito le verità cristiane,
ne ha attenuati i valori e resi inautentici gli atteggiamenti. Simili
mezze misure non resisteranno davanti alla chiara negazione dell'ateismo.
Anche questo impone una decisione, nella quale il messaggio cristiano
riconquisterà il suo autentico significato.
II. - La finitezza del mondo.
Un ulteriore aspetto che modifica oggi la situazione della
fede è il fatto che nella coscienza dell'uomo attuale il mondo si fa di
nuovo finito.
All'inizio dell'epoca moderna la ricerca scientifica
stabiliva che le opinioni medioevali circa l'estensione del cosmo e della
storia erano errate. Tanto lo spazio quanto il tempo, così il sistema
astronomico come la durata del divenire cosmico acquistavano misure
immense. Anzi, nel sentimento degli uomini di allora il mondo assumeva il
carattere dell'infinito. Una vera e propria ebbrezza d'infinito era allora
esplosa, la quale, psicologicamente parlando, sembrava non lasciar più
nessuno spazio per il Dio personale della Rivelazione e nessuna
possibilità sperimentale al sentimento che il mondo è creazione. Il
panteismo dell'età moderna fu un tentativo della religiosità che volle
salvare l'idea di Dio, trasponendo Dio stesso nella intcriore sfera del
mondo e vedendone in Lui l'« anima » o il « fondamento originario ».
Oggi noi assistiamo al fatto sorprendente che la scienza
verifica, in senso tanto macroscopico quanto
113
microscopico, sempre nuove e più grandi dimensioni; il
nostro senso del mondo è posto dinanzi a spazi, tempi, masse, velocità,
che l'epoca moderna non poteva, all'inizio, neppure immaginare, tuttavia
noi non sentiamo più il mondo come infinito. Che esso sia finito non è
imposto al nostro intelletto soltanto da considerazioni fisiche e
astronomiche, ma ne abbiamo la percezione immediata. Per la genesi, ad
esempio, dell'esistenzialismo francese si possono addurre cause varie; ma
esso rappresenta sicuramente un tentativo di venire a capo di questo
sentimento della finitezza e delle crisi personali che da esso derivano.
Concetti come quelli di « nulla attivo », di « radicale essere-esposto
», di « libertà assoluta », ecc., non avrebbero potuto ancora formarsi
dall'esperienza esistenziale degli anni intorno al 1900.
Questa nuova situazione apre la possibilità di cogliere
interiormente la verità di quell'affermazione religiosa che regge tutte
le altre: che cioè il mondo è creato e che la potenza creatrice si
chiama « Dio ». La « chance » psicologica di riconoscere il creatore
del mondo e di entrare in esistenziale rapporto con Lui, è oggi
incomparabilmente maggiore di quanto essa non fosse a partire dalla metà
del secolo scorso. A questo fatto sembra collegarsene un altro: insegnando
che l'uomo è sì nel mondo ma che in pari tempo, e attraverso esso, sta
come persona in immediata relazione con Dio, la Rivelazione s'incontra con
un elemento vitale della nostra attuale auto-esperienza.
Se oggi il pensiero cristiano si accerta della
spiritualità dell'anima, non lo fa tanto partendo dal concetto di una
sostanza immateriale, quanto piuttosto da quello della personalità, vale
a dire, della liber-
114
tà e della responsabilità. In esatta corrispondenza con
l'intensificazione del mondo esteriore, materiale e biologico, anche il
mondo interiore si approfondisce. Come si rende sempre più evidente la
potenza della materia grazie alle ricerche della fisica e alle conquiste
della tecnica, così si fa pure evidente, come in controgioco, la densità
di essere e di azione della persona.
La passione di risolversi nel Tutto, con cui il sentimento
dell'era moderna ha risposto alla schiacciante infinità del mondo, non
appartiene più all'esperienza interiore del nostro tempo. Per quanto il
mondo sia grande, per quanto le sue leggi siano cogenti, la persona si
esperimenta nei suoi confronti come libera. Ma questo non sulla base di
chissà quali proprietà metafisiche, ma in forza del suo rapporto con
Dio. La maggiore o minore consapevolezza di tale rapporto dipende
anzitutto dalla risolutezza del sentimento che il singolo ha di sé e
dall'attenzione che egli rivolge alla sua vita interiore. Ma parlando in
generale, sembra che, nell'esperienza religiosa, alla nebulosità del
panteismo e alle astrazioni dell'idealismo sottentri il rapporto lo-Tu con
Dio.
A questo contribuiranno anche le violenze dell'ateismo
politico. Non c'è bisogno di mettere in rilievo quanti valori religiosi
siano franati e possano ancora rovinare per le sue aggressioni. Ma esso
costringerà pure alla riflessione sulle realtà essenziali della
esistenza, di cui la più profonda è appunto il rapporto lo-Tu con Dio:
sia pure attraverso il riconoscimento che l'immediatezza del rapporto con
Dio costituisce il sostegno decisivo per opporsi alla statalizzazione
dell'uomo. Nella storia dello spirito non sono stati molti i fenomeni
così impressionanti co-
115
me questa silenziosa lotta che percorre oggi il mondo per
l'indipendenza della persona. In ultima analisi è dell'uomo che si decide
nella lotta per Dio;
il credente acquista la consapevolezza che egli, credendo,
combatte per la libertà e per la dignità dell'uomo.
III. - Rapporti
tra confessioni religiose.
Strettamente connesso con quanto andiamo dicendo è pure
il cambiamento che si va operando nei reciproci rapporti tra le
confessioni cristiane, ed anche tra la fede biblica e la religiosità dei
popoli noncristiani.
Per quanto riguarda le confessioni cristiane, nonostante i
molti contatti individuali, fino alla prima guerra mondiale le loro
reciproche relazioni furono del tutto negative. Ma questa situazione ha
subito un mutamento così notevole che deve essere considerato un sintomo
di vasta importanza. Si ridesta un forte interesse per gli altri, diverso
nei singoli casi, ma sempre determinante per l'atteggiamento generale. Si
diffonde una disposizione a comprendere, una volontà di porre come punto
di partenza della discussione non ciò che divide, ma ciò che è comune.
Si è fatta molto profonda la consapevolezza che le divisioni della
cristianità non sono soltanto una sciagura, ma una colpa di cui tutti
hanno da sentirsi responsabili. Non si possono più liquidare le questioni
col dire, gli uni: « Quelli là sono eretici »; e gli altri: « Quelli
là sono mezzo pagani ». La situazione viene, in misura sempre maggiore,
determinata non dall'accusa contro gli altri, ma dal sentimento di un
corso storico colpevolmente
116
tragico per tutti, le cui conseguenze devono essere
affrontate e risolte in. comune.
È importante a questo proposito il modo in cui ciò
avviene. Ancora sul finire del secolo scorso e sul principio di questo,
tali sforzi avrebbero dato un risultato di valore assai relativo.
L'avvicinamento sarebbe stato semmai tentato con l'assumere le
affermazioni della Rivelazione in un senso soggettivo o simbolico, e con
il risolvere le differenze in un « pres-sapoco » non vincolante. Oggi
invece si manifesta in modo inconfondibile una volontà di andare alla
sostanza della propria rispettiva posizione; di cogliere nella loro
essenzialità pensieri, valori e motivi; di vedere chiaramente e
decisamente le differenze. Così si fa evidente che non si tratta
solamente di una miglior forma di convivenza, ma anche e soprattutto di
pervenire tutti insieme alla verità. Perciò tutto si compie in una
serietà mai prima esistita.
È chiaro che a questo riguardo l'offensiva dell'ateismo
esercita come una pressione sulle frontiere, che stimola il processo. I
seguaci di Cristo sentono direttamente la solidarietà che li unisce nel
pericolo. Essa è simile a quella che negli anni del nazismo diede alle
diverse confessioni cristiane la consapevolezza di trovarsi di fronte non
solo ad un rivale, ma ad un nemico comune, la cui minaccia era ben più
radicale dei loro interni contrasti. Forse proprio allora si è verificata
sul piano storico la prima tangibile modificazione dei rapporti tra le
confessioni; ora la situazione ritorna in forma più pressante ed anzi si
presenta in modo più globale.
I fedeli cristiani sanno ancora di avere un nemico comune,
deciso a ogni violenza e ad ogni disonestà. Ciò li costringe ad
acquisire la coscienza di che cosa
117
sia il « cristianesimo » e perché si debba lottare per
esso. Ciò appunto è occasione però anche per indagare l'essenzialità
di questo elemento cristiano, giacché partendo da posizioni annacquate
non si può condurre una lotta.
Nella misura in cui si compie questa decisione per
l'essenziale, il credente si fa pure capace di scorgere quanto v'è di
positivo nell'ateismo come fenomeno storico. Non di soggiacere alla sua
violenza, ne alla suggestione della sua propaganda — cosa che avviene
tanto più facilmente, quanto meno sono chiare le proprie concezioni e
quanto più deboli le prese di posizione esistenziali — ma di capire
come si sia formato; quali energie siano operanti in esso; quali realtà
del mondo e della società esso colga meglio. E, soprattutto, quali
ingiustizie, quali errori e quali omissioni da parte cristiana l'abbiano
provocato, poiché è sempre anche una colpa della fede, che deve
sentirsene responsabile di fronte all'incredulità.
Anche nelle relazioni che intercorrono tra le confessioni
cristiane e quella giudaica, fatti storici recenti vanno di pari passo con
chiarificazioni all'interno dell'ambito spirituale. Senza voler ricercare
gli oscuri e torbidi moventi, che hanno condotto all'orribile tentativo di
distruggere il popolo ebraico come tale, si potrà in ogni caso dire che
tutte le ingiustizie, che nel corso della storia sono state commesse
contro questo popolo, si sono raccolte e sono sfociate nel tentativo di
sterminio nazionalsocialista. Ciò deve indurre ogni uomo capace di
riflessione profonda a domandarsi in che rapporto egli stesso si trovi di
fronte ai pensieri e ai motivi che portarono a quel folle proposito. La
fondazione dello Stato di Israele sembra l'espressione rappresentativa
delta nuova situazione.
118
Ma anche alcuni fatti nuovi della coscienza cristiana
coincidono con i fatti esterni che abbiamo ora ricordato. Per molto tempo
l'Antico Testamento non ha avuto importanza essenziale per la teologia
cristiana, ma fu piuttosto considerato come una pura preparazione al Nuovo
Testamento. La conseguenza fu che l'Antico Testamento fu trattato, sotto
vari aspetti, come una parte della storia generale delle religioni. Ma da
qualche tempo si nota un cambiamento. Appare ora evidente quale importanza
abbia l'Antico Testamento per la intelligenza del Nuovo. Così, ad
esempio, la libertà dell'atteggiamento cristiano si fonda nel superamento
inferiore del mito, della metaSsica autonoma e dello statalismo antico;
ma questo superamento si è compiuto fondamentalmente
nell'Antico Testamento: processo grandioso! Parimenti il messaggio
vetero-testamentario della creazione, dell'amore di Dio per essa e del
compito che questo amore pone al credente, avrà un peso decisivo nel
futuro approfondimento del rapporto cristiano col mondo. E su tale
argomento ci sarebbe ancora parecchio da dire.
Tutto ciò corre parallelo agli avvenimenti esterni prima
menzionati e fa sì che il credente cristiano si accosti alla religiosità
dell'Antico Testamento con nuovo interesse e nuova disposizione intcriore.
Una prova concreta può essere vista nell'importanza che hanno acquistato
la figura e l'opera di Martin Buber. Esse non rivelano soltanto una grande
personalità, ma l'interpretazione ebraica dell'esistenza, in quanto tale,
nel dialogo del pensiero europeo.
Questo stesso contesto conduce ancora più oltre. Sono di
nuovo processi storico-politici che si collegano con processi spirituali,
e precisamente quelli
119
che conducono a modificare i rapporti tra la coscien-2a
biblica in genere e la religiosità degli altri popoli che si nutre ad
altre fonti.
La situazione storica generale è rappresentata oggi dagli
spostamenti che sommariamente indichiamo come « crisi del colonialismo
». Anche qui si prende coscienza delle ingiustizie accumulate per
secoli,. commesse dai popoli bianchi contro i popoli africani ed asiatici,
benché, francamente, non si possa dimenticare o misconoscere quanto s'è
compiuto di positivo, come fa la propaganda comunista. Ma, pur
prescindendo dal fatto che quel comportamento era in se stesso
anticristiano, la serie di quei torti pesa egualmente sulla nostra
responsabilità religiosa, per la ragione che essi — non certo
intenzionalmente, ma di fatto — hanno coinciso con il messaggio
cristiano; poiché insieme con i conquistatori sono appunto arrivati i
missionari, ed era inevitabile che questi, anche con la sola presenza,
apparissero sostenitori dell'azione di quelli. Però un vero difetto della
stessa predicazione cristiana sta nel fatto che essa non ha rispettato
abbastanza la serietà e il valore proprio della religiosità
extra-biblica, cosicché sotto molti aspetti il messaggio cristiano
dovette apparire una divulgazione di cultura europea. E un messaggio
religioso, finché non include un profondo rispetto per la convinzione di
chi è chiamato ad accoglierlo ne aderisce ai suoi contenuti di coscienza,
non può essere realmente costruttivo.
Il fatto che la religiosità dell'indiano, del cinese,
dell'africano, nonostante la chiara visione e gli sforzi di illuminati
precursori, non sia stata presa sul serio dai portatori del messaggio
cristiano, corrisponde esattamente al modo non impegnativo, estetizzante e
« alla moda » con cui l'europeo colto d'allora
120
si occupava del mito. L'interesse per il mito non .era
quello che si ha per una verità esistenziale, non era che una pura
ricerca di scienza delle religioni o un'estetizzante simbolistica del
mondo.
Anche su questo punto le cose vanno cambiando. Già il
fatto che i popoli ex-coloniali si affrancano con la violenza di
un'alluvione, sollecita una revisione. Per non parlare della necessità
politica di rendersi conto della mentalità dei popoli extraeuropei in un
modo dettato non tanto dalla coscienza del portatore di cultura o
dall'interesse dello scienziato, quanto dalla considerazione che si deve a
chi è un partner sul terreno della politica mondiale. Ciò vale
anche per quanto riguarda il fatto religioso;, quello di cui oggi si
tratta è un dialogo tra i popoli del mondo sulla verità. Così il
credente che vive della Rivelazione biblica è invitato a considerare
seriamente in un modo nuovo la religiosità che si alimenta da altre
fonti. Egli è esposto all'impeto di concezioni straniere, soprattutto
asiatiche, e deve saper entrare nel loro dialogo. E lo farà non solo
difendendosi o discutendo, ma conoscendo sempre più profondamente il
contenuto di verità che è in ognuna.
Quali saranno gli effetti tangibili di questo dialogo non
è ancora possibile prevedere; in ogni caso è assai importante per il
teologo domandarsi che cosa succederà, quando il contenuto della
Rivelazione cristiana verrà meditato da spiriti che vengono da un mondo
di così profonde esperienze religiose e che si sono formati a una così
antica saggezza. A chi afferma che la coscienza del futuro unico popolo
della terra sarà una coscienza incredula, si può così contrapporre una
prognosi del tutto diversa; vale a dire, che sorgerà una coscienza
mondiale cristiana di nuova profondità ed ampiezza.
121
Riguardo poi alle numerose perdite, che il cristianesimo
ha subito, causa i suoi propri errori ed insufficienze, e causa la
violenza e la propaganda dei suoi •nemici, esso riconoscerà la realtà
della oggettiva situazione, anche ciò che in essa è dovuto a sua colpa,
e se ne assumerà le conseguenze. Ma allora gli spazi ancora vuoti
diverranno territori di un nuovo, anche se faticoso avanzamento. Tutte le
diagnosi d'una morte del cristianesimo commettono l'errore di considerare
Gesù Cristo e la sua opera come un semplice fenomeno culturale e di
limitare il proprio giudizio ad un periodo di tempo troppo breve. Ma
invece Gesù Cristo è il Figlio di Dio, ed a Lui appartengono i tempi. E
il cristiano ha imparato a pensare in termini di secoli.
IV. - Responsabilità per il mondo.
Il grande progresso delle scienze naturali ha determinato
una spinta altrettanto potente in tutto ciò che si chiama tecnica,
intendendo il termine nel senso ampio d'ogni forma d'elaborazione della
materia del mondo. Esso ha creato l'impressione che ogni compito sia
assolvibile, che tutto possa esser fatto. Così l'uomo di oggi non vede
soltanto davanti a sé compiti giganteschi, ma in lui si è destata una
volontà, e, si può forse dire, un'ebbrezza d'essere capace di tutto.
Tutto l'interesse è, così, rivolto al mondo. Ci si forma l'idea che se
una cosa non è scienza, non è sena;
se non è tecnica, non vale la pena di applicarvisi; e
nasce il pericolo che possa estinguersi il senso per il trascendente, per
Dio e per il suo Regno. Nessuno potrà negare che questo pericolo si è
ampiamente ve-rificato, in connessione con quanto abbiamo detto riguardo
all'ateismo di cui si è parlato.
122
Tutti i grandi impulsi della storia sono però
plurivalenti; anche e specialmente in rapporto al fatto religioso. L'élan
scientifico-tecnico del nostro tempo può eliminare il senso religioso; ma
può anche donargli una consistenza nuova.
Se noi esaminiamo il sentimento degli impegni morali
proprio delle epoche passate, giungeremo — forse meravigliati, forse
anche spaventati — a un'importante constatazione: il cristiano anteriore
al 1900 ha ben poco sentito, come cristiano, una responsabilità per il
mondo, per il mondo delle cose. Il suo senso del dovere si rivolgeva ad
alcuni valori nel mondo: era un senso determinato dalle esigenze che
nascevano dalla società umana e dagli impegni professionali; di fronte al
mondo come tale, alla terra come realtà fondamentale dell'esistenza, non
sentiva alcun dovere. (In quale misura tale sentimento consistesse di
motivi universali-etici, non possiamo approfondire. Esso fu operante
comunque in misura assai limitata, altrimenti la terra e la sua vita
avrebbero un aspetto diverso).
Ma dobbiamo essere più precisi: il cristiano concepiva
volentieri il mondo delle cose e la sua opera su di esso come ciò che, di
fronte al fatto propriamente religioso, è « profano ». Che il mondo
anche come tale rechi un carattere religioso, che come opera di Dio gli
sia affidato, ed egli ne sia responsabile — responsabile che si operi
rettamente con esso — per quel che riesco a vedere, non l'ha realmente
sentito. È un sintomo assai significativo, per la situazione della fede
nel nostro tempo, che tale sentimento cominci, come sembra, a
manifestarsi. Si fa strada l'idea — in molti forse non ancora, ma tutti
gli impulsi di portata storica sono all'inizio operanti solo in un piccolo
numero di persone — che il mondo come tale
123
non ha soltanto un valore economico o culturale, ma è
prezioso in ordine a Dio; non natura anonima, non terra di nessuno del
tutto disimpegnata, ma nobile opera del Creatore che Egli ha affidata
all'uomo. L'uomo di oggi capisce di potere usare la potenza che gli deriva
dalla scienza e dalla tecnica non solo per entrare nel giusto rapporto con
la terra, ma anche per nuocere alla vita della terra o addirittura per
distruggerla tutta. E ciò non sarebbe soltanto una catastrofe economica o
una rovina d'ogni civiltà, ma un'ingiustizia religiosa, un delitto
sacrilego.
D'altra parte l'uomo attuale non è più sicuro se la
liberazione sempre più, rapida di energie finora vincolate possa essere
contenuta dalla scienza e dalla tecnica entro limiti di sicurezza vitale,
o se debba necessariamente proseguire per intima logica fino in fondo,
sopravanzando ogni ragionevole saggezza. Si pone così il problema se
esista una garanzia per un buon uso delle terribili energie.
Inoltre all'uomo d'oggi dovrebbe ormai risultare chiaro
dopo tanti fatti di barbarie, di ^pis patologica e di orribile freddezza
dell'uomo per l'uomo, che egli non è affatto quell'essere ordinato,
buono, anzi sempre proteso al meglio come lo concepiva l'ottimistica fede
del progresso; che agiscono invece in lui impulsi che possono trascinarlo
a tutti gli abusi della propria potenza. Egualmente l'uomo d'oggi
riconosce che la terra non costituisce quella stabile base della sua
esistenza, come l'aveva considerata fino a poco tempo fa; ma che invece
cose, valori, ordinamenti in essa esistenti, ed anzi il mondo terrestre
come totalità, possono essere radicalmente minacciati.
Da tutto ciò emerge un sentimento nuovo: l'uomo capisce
d'essere responsabile per la terra. Che egli
124
la deve, anzi, salvare, dal momento che ogni progresso
della conoscenza e del potere riduce sempre più la sicurezza di quanto
prima era ovvio ed evidente'.' Così l'esistenza come totalità viene a
trovarsi in uno stato di suspense sconosciuto finora: ciò che
sembrava fermamente garantirla, si discopre invece come ciò che
precisamente la rende problematica in un modo sempre più radicale.
Ma il fatto che il mondo stesso in quanto tale venne
sentito non come un impegno religioso, ma piuttosto come « mondano »,
separato dalla vita propriamente religiosa, e come religiosamente
indifferente, anzi pericoloso, ebbe cattive conseguenze per la stessa vita
religiosa: essa perse di realtà, di motivi concreti. Essa si ritirò come
in disparte, nel puro intcriore, nel puro « spirituale », e non di rado
divenne un affare di specialisti. Essa perse in larga misura quel
contenuto che per esempio rende i Salmi così realistici:
la gioia dell'esistenza e la cura per essa. Proprio questo
va cambiando, e ciò in accordo ancora una volta con un cambiamento
storico, più precisamente con una modificazione nella situazione
esistenziale dell'uomo, ai cui effetti nessuno si può sottrarre.
È evidente che a tale situazione piena di pericoli per
l'esistenza non possono trovare un rimedio ne le considerazioni
dell'intelletto sistematico ne le invenzioni della tecnica intesa a
prevenire i rischi. Non vi è qui una foolproof. Contro il pericolo
insorgente da quello che è il carattere fondamentale della situazione
odierna, si può soltanto invocare un'istanza che non si risolva
direttamente nel contesto del mondo, ma che sia capace di sollevarsi su di
esso, e ciò è possibile solamente alla persona in quella libertà e in
quella responsabilità che nascono dall'immediato rapporto
U5
con Dio. Un Dio però che non sia un'idea astratta o un
nebuloso enigma del mondo, ma che sia veramente il Creatore e il Signore
sovrano e personale (nel senso assolutamente originario del termine)
dell'essere.
I pericoli dell'inesorabile sviluppo tecnico-scientifico
impegnano a tal punto l'uomo che un senso nuovo di responsabilità si va
affermando, elementi della personalità cristiana prima assopiti si vanno
ridestando e nuove forze e capacità inventive devono essere suscitate.
Come ciò debba verificarsi, in qual modo queste forze e capacità nuove
si incontreranno con gli anonimi impulsi della volontà di potenza,
dell'istinto del guadagno, della sete d'avventura, della voglia di fare e
d'osare tutto, è un problema a parte. I problemi etici e pedagogici della
potenza — intendendo il termine- nel senso vasto di capacità di
conquista e di dominio — sono stati appena posti. Altrettanto poco
quanto quelli d'una teologia della potenza. Definire la potenza come
qualcosa di radicalmente cattivo sarebbe un errore, e, nell'attuale
situazione, ancora assai più pericoloso.
Nel Genesi l'uomo è concepito come simile a Dio; e
tale somiglianzà consiste nella capacità di signoreggiare sul mondo (Gen.
1, 26-27). Signoreggiare, beninteso, nel senso giusto. Dio è il Signore
del mondo per essenza, perché ne è il Creatore; l'uomo è creatura
"di Dio, e perciò signore per grazia. Perciò il suo dominio è
essenzialmente dipendente da quello divino, e il peccato originale è quel
delitto che si ribella a tale fondamentale rapporto e che proprio per
questo genera anche quel disordine, che colpisce rovinosamente la stessa
essenza dell'uomo. Di qui nasce il compito di ripensare in forme nuove
l'essenza e la responsabilità dell'uomo nel mondo e di formulare
126
doveri, di cui non è dato ancora di vedere la portata. E
con questo lo stesso atteggiamento religioso riceverà un nuovo contenuto.
Il pericolo di concepire la religione come un esercizio appartato di «
virtuosi » specialisti è così più facilmente superato e la
religiosità viene riallacciata al destino del mondo di Dio.
V. - II carattere della fede del nostro tempo.
Qualche osservazione ancora su quello che sarà il
carattere spirituale, la colorazione psicologica della fede dell'epoca
nuova. Si tratta naturalmente solo d'uno schizzo che avrà certamente
bisogno di molti correttivi.
L'essenza della fede è sempre la medesima: l'uomo
riconosce che Dio, l'assoluto Indipendente, ha annunciato nel mondo la sua
verità, alla quale l'uomo risponde con l'obbedienza dello spirito. Egli
sente così che nella Rivelazione si manifestano valori essenziali per il
significato supremo dell'esistenza, anzi per la sua salvezza: sono i
valori salvifici che l'uomo afferma come grazia e obbligazione. Sente che
gli è stata posta un'esigenza assolutamente non deducibile da una logica
della vita puramente naturale, ma che tuttavia è valida per se stessa, ed
egli la riconosce. Sente che il Dio vivente lo chiama alla comunione con
Sé ed egli segue questa chiamata fiducioso e fedele. Tutto questo forma
il nucleo della fede per o.gni situazione sia storica sia individuale. Il
problema è in che forma psico-spirituale si attuerà questa fede.
La primitiva età cristiana risponde alla
Rivelazione con animo giovanilmente gioioso, accettando senz'al-tro tutto
ciò che consegue all'atto della fede, ma conservando nello stesso tempo
nell'espressione e
127
nell'atteggiamento l'antica misura classica. Così
sorge quella meravigliosa freschezza e arditezza e insieme quella nobiltà
che spirano dalle antiche testimonianze.
I grandi santi del deserto gettano via da sé in dedizione
ardente tutto ciò che non è Dio, per spezzare l'incantesimo dell'antica
cultura decadente ed attuare la fede con tutto il proprio essere.
Il Medioevo innalza sulla base della verità
rivelata, con l'aiuto di idee della civiltà classica e con le esperienze
dei grandi mistici, unite ad una inesauribile forza simbolica, l'edificio
della sua visione religiosa del mondo... Nel Rinascimento — che
non fu, come vorrebbe l'opinione corrente, soltanto un rinnovamento del
sentimento pagano del mondo — i nuovi impulsi di sviluppo della
personalità e di conquista del mondo vengono assunti nella coscienza
cristiana e fusi con i pensieri della comunione con Dio, della professione
come incarico divino e della diffusione della fede in tutto il mondo. Nel Saracco,
ultima unitaria cultura europea, la fede si dispiega in forma trionfale.
Non soltanto nell'architettura e nell'arte figurativa, ma anche nel
comportamento inferiore dei credenti lo spirito barocco fa sentire la sua
presenza: e al di là del suo fasto non si deve dimenticare ne il fervore
dei mistici ne il grande lavorìo teologico del tempo.
La fede cristiana dell'età dell''Illuminismo
accoglie in sé un'esigenza, diffusa allora in tutta l'Europa, di
razionale chiarezza e di controllo e verifica morale della vita, dando
origine ad un atteggiamento proteso alla conquista di -una conoscenza
sempre più precisa. Agli elementi negativi di tale atteggiamento
freddamente razionale e moralizzante si oppone il Romanticismo.
Nella sua religiosità si rivelano di nuovo le forze fondamentali
dell'anima, il sentimen-
m
to della storia e il simbolismo, che danno alla fede
calore e profondità. Diversa ancora si presenta la seconda metà del XIX
secolo con il suo positivismo predominante nella scienza e nella
tecnica. La sua fede è ardua e faticosa, perché essa deve affermarsi
contro un'aspra critica e deve compiere un duro lavoro sui suoi propri
fondamenti concettuali.
Un nuovo carattere, così io penso, avrà la fede che si
manifesterà nel prossimo futuro. Descriverla non è facile. Forse ci
riusciremo meglio se partiremo dagli aspetti critici che la fede dovrà
affrontare.
Il primo di tali aspetti è l'intensa volontà di
conoscenza scientifica, con la sua pretesa di formare la base di ogni
fenomeno culturale veramente serio. Si sviluppa di qui una tendenza che
relativizza tutto e uno scetticismo verso ogni affermazione che trascenda
l'immediata realtà dell'esperienza, ma inoltre, per strano contrasto,
anche una notevole inclinazione a superstizioni, a saggezze pseudomistiche,
a esoterismo. Il credente del nostro tempo sa che ogni affermazione
cristiana dev'essere difesa di fronte alla problematica scientifica, ed è
preparato a ciò. Ma egli conosce anche la propensione della scienza —
come pure della ideologia politica — ad oltrepassare la propria
competenza, e non è disposto a concederle autorità là dove essa non ne
ha alcuna. Egli avverte che le molte forme di professione religiosa e di
opera volta a dar forma al mondo generano un senso di relativismo, e sente
l'impegno di vincere questo senso. È consapevole che tutte le cose umane
sono storiche, soggette cioè al flusso del tempo, ma tanto più
nettamente distingue il carattere assoluto delle verità centrali della
Rivelazione.
Si può così concludere che la fede da praticarsi oggi
129
è una fede non ingenua, ma riflessa, sottoposta ad un
costante esame criticò. Una « fede contestata », che deve continuamente
accertare il proprio fondamento, e disfarsi magari del vario e del bello
per attenersi soltanto all'essenziale. Una fede che sempre di nuovo si
rizza contro il dubbio. Intendiamo con ciò non un credere inautentico che
passa sopra ai problemi, ma quella caratteristica forma di fede che il
cardinal Newman ha definita quando disse che « credere » significa «
poter sostenere il dubbio ».
Il secondo aspetto critico, più grave, è quel
raffreddamento emotivo dell'uomo d'oggi che nessun attento osservatore
vorrà negare. Esso interessa tutta la nostra attuale civiltà; e non è
ancora dato di vedere quali saranno le sue conseguenze. In ogni caso è
avvertibile dappertutto. Un'epoca dedita come la nostra alla conoscenza
razionale, all'esame critico, alla precisione tecnica, diventa fredda.
Anche le catastrofi, a cui è esposta, avvengono in modo che la
regolazione interna della storia riduce la sensibilità dell'uomo, la sua
capacità di subire esperienze vitali, a limiti sopportabili.
Ciò vale anche per il sentimento religioso. Le esperienze
che lo nutrono sono rare e difficili. Nel lavoro educativo si fanno, è
vero, sforzi per sviluppare e formare la capacità d'esperienza religiosa
vitale. Ma i risultati lasciano ancora a desiderare. Tuttavia è da
congetturare che gli elementi decisivi della fede non consisteranno
nell'esperienza vitale, ma nella consapevolezza dello spirito e
nell'impegno personale. La fede sarà, in misura elevata, fedeltà. La
povertà psicologica, che essa ora denuncia in confronto alla religiosità
di tempi passati, sarà compensata da una purezza e da una serietà più
grandi.
130
Infine una delle caratteristiche più inquietanti del
nostro tempo è l'indebolimento della forza di resistenza della persona.
Oggi ciò che decide sono per gran parte gli effetti culturali di massa: i
gruppi sociali, i movimenti a ondata della moda e della propaganda, le
forze di suggestione dei grandi numeri, ecc. Invece la capacità di stare
per se stessi e per la propria causa, la capacità di sostenere la
solitudine della propria convinzione, diminuisce. Non senza motivo si è
parlato del nostro tempo come del « secolo del tradimento ».
Anche questo avrà i suoi effetti in campo religioso. Ciò
renderà la fede più difficile, essa dovrà, per usare una parola di
Kierkegaard, « esercitarsi » nella fedeltà al sì pronunciato. Perciò
la fede sarà più ardua di quanto non sia mai stata, ma, proprio per
questo, anche più nobile e più pura.
Gli scettici diranno che queste nostre prognosi sono
illusorie. Diranno che la fede cristiana non ha più la forza per
un'impresa quale noi supponiamo. Le conseguenze degli inconvenienti,
errori, negligenze di cui s'è parlato, non potrebbero più essere
rimediate, da mutamenti o da rinnovamenti, ma sarebbero sintomi d'un
definitivo sfacelo. Del resto l'uomo d'oggi avrebbe ormai storicamente
trasceso lo stadio della fede: non la vuole più ne potrebbe volerla.
Siffatte interpretazioni fanno a tutta prima impressione.
In realtà si basano su una visione non obiettiva, nascono da una
pregiudiziale, dalla tesi cioè che l'impulso cristiano — pensiero,
etica, interpretazione della vita, atteggiamento psicologico — sia un
fatto puramente storico sottoposto alle medesime condizioni d'ogni altro
fatto. A una tale visione, che ordina gli avvenimenti del passato come i
fatti del presente
131
verso una « fine », se ne può contrapporre però
un'altra. Anch'essa vede gli aspetti negativi e impara a vederli con
sempre maggiore acutezza attraverso l'autocritica cristiana dappertutto
ormai in atto. Ma essa è anche certa che la Rivelazione si realizza
bensì nella storia, ma ha la sua origine nella sovranità di Dio. Così
le prognosi di decadenza e di fine, che possono essere valide per altre
correlazioni storiche, non sono applicabili ad essa.
La fede sa che gli errori passati hanno le loro
conseguenze e che devono essere scontati. Gli spazi dell'incredulità
tuttavia, che per questo si formano,, saranno, come si è detto, anche gli
spazi di un nuovo annunzio e di un nuovo avanzamento. Sorge così l'altra
prospettiva, quella positiva della fiducia. Essa ha fondamenti migliori
della prima, la quale nel corso della storia è stata altre volte
riproposta, ma -ogni volta contraddetta da una sempre rinnovata realtà.
132
VII LIBERTÀ
Siamo riuniti * per commemorare gli uomini e le donne che
sedici anni fa hanno subito un così duro destino per il loro popolo e il
loro paese. Vogliamo dimostrare loro l'onore che loro spetta riflettendo
sull'alto valore di cui furono solleciti, la libertà.
Pronunciando questa parola, noi intendiamo - designare, un
diritto fondamentale dell'uomo che ha raggiunto la sua maturità. Non
vogliamo qui esprimere quei magnanimi sentimenti che possono, scaturire da
un'esperienza vissuta della libertà; intendiamo piuttosto parlare di
essa, considerando con serena ponderazione come la vita umana è
strutturata, come prospera o patisce danno.
Questo ci porta di conseguenza ad un esame impe gnativo di
noi stessi e alla constatazione che la libertà non è ritenut-a un valore
molto elevato nell'apprezzamento dell'attuale generazione. I partigiani
dei regimi totalitari la definiscono un « pregiudizio borghese », un
pretesto per evitare di compiere quel grande dono di sé che solo può
condurre il popolo, tutto unito, alla sua più alta prova fattiva. Quelli
pò;
che se ne professano assertori si trovano spesso dinanzi
all'inquietante interrogativo, se la libertà sia una esigenza che
scaturisce da quanto vi è di più profondo nella loro personalità..., se
l'uomo d'oggi sappia veramente che cosa è libertà..., se questa parola,
che
* Questa conferenza fu tenuta il 19 luglio 1960 all'«
Akade-mie fur politische Bildung in Tutzing » aell'« Alte Rathaus » di
Monaco, in commemorazione dei cospiratori per l'attentato a Hitler del 20
luglio 1944.
133
dovrebbe essere una delle più .forti della nostra lingua,
non vada in realtà perdendo il suo significato. Penso che a coloro che
per la libertà hanno osato e sofferto un simile esame sia più gradito
che non le espressioni di entusiasmo e gli elogi. Esso infatti conduce a
rendersi conto della realtà, chi la realtà vuole veramente raggiungere.
Che cosa significa dunque essere libero? Quando sono
libero?
Quando nella mia patria posso andare dove voglio, fare
quello che con coscienza illuminata ritengo giusto, conformare la mia vita
alle esigenze della mia personalità. Quando posso essere come sono e
nessuno, ne superiore ne gruppo sociale ne singolo ne Stato, può
legittimamente impedirmi di essere tale:
e questo perché non sono affatto una pura individualità
biologica ma una persona umana padrona di se stessa e dotata di
responsabilità e dignità proprie.
Ma subito sorge un'obiezione: ciò non vale
incondizionatamente! Tu non puoi fare quello che ti piace se altri ne
riportano danno;, tu non puoi ordinare la tua vita alla tua maniera, se
ciò facendo turbi l'ordine della comunità. Perciò dobbiamo precisare:
io sono libero quando posso fare senza impedimento quello che è conforme
alla mia natura di uomo, finché con la mia azione non ledo l'uguale
diritto dell'altro. Nei singoli casi sorgeranno talora questioni e
difficoltà, ma il principio è sostanzialmente chiaro. Su questa costante
e autentica applicazione riposa interamente l'esistenza stessa del mondo
occidentale, la grandezza e la ricchezza di valori della nostra storia
trimillena-ria. Si potrebbe esporre questa storia partendo dal rapporto
che l'uomo occidentale è riuscito a stabilire con la libertà.
134
La libertà non sì attua spontaneamente, ma deve
essere voluta. Fondata nella natura dell'uomo, maturata attraverso la
storia, garantita dall'ordinamento della comunità, essa è però anche
compito e opera di ciascuno. Non esiste una libertà passiva; non nel
senso dell'essere personale, perché essa è espressione dello spirito, ed
esso si dimostra attraverso l'atto vivo; ma neppure nel senso
dell'ordinamento esterno, perché anche la più libera costituzione, se
non è vissuta e osservata, rovina.
Ma tralasciamo queste considerazioni generali e vediamo se
noi raggiungiamo in realtà quei punti nei quali la libertà diventa
veramente qualche cosa di reale. Perché, — permettetemi di ricordarlo
ancora una volta, — esistono seri motivi per dubitare se l'uomo d'oggi
voglia davvero essere libero, se, cioè, egli per libertà intenda qualche
cosa di più che la pura possibilità di attendere ai propri affari e di
abbandonarsi al proprio piacere senza esserne in alcun modo impedito.
Perciò dobbiamo porre il problema d'essa già in modo tale da potere
affrontare la dura serietà degli uomini e delle donne del 20 luglio 1944.
Il problema si pone dunque in questi termini: che avviene
veramente quando un uomo, un uomo maggiorenne, una donna adulta vogliono
veramente essere liberi?
Innanzi tutto quest'uomo esige il diritto di avere proprie
convinzioni personali. Con ciò intendo dire la facoltà di pensare come
gli sembra giusto sul senso della propria esistenza; di giudicare, secondo
le esigenze di verità della propria coscienza, la vita e la morte, il
lavoro e la proprietà, la famiglia e lo Stato, e così pure qualsiasi
altro grande problema dell'esistenza. La facoltà di dire la propria idea
e di vivere
135
conformemente ad essa, entro i limiti che proteggono
l'uguale diritto degli altri. E ancor di più: c'è libertà quando non
solo il singolo può comportarsi in questo modo, ma anche la comunità
stessa considera tale comportamento come giusto e bello e se lo attende da
lui.
Ma per poter pretendere il rispetto della propria
convinzione, per poter richiedere la facoltà di vivere conformemente ad
essa, è necessario che tale convinzione esista realmente. ^Libertà non
è il diritto alla mancanza di idee o alla indifferenza di fronte alle
varie opinioni, essa si fonda su un rapporto autentico con la verità.
Si comprenda bene il mio pensiero. Non parlo di un
determinato contenuto della convinzione, di una visione del mondo o di una
concezione politica piuttosto di un'altra, ma della reale esistenza di
quell'atteggiamento mentale "che si chiama « convinzione »;
e, precisando meglio, della coscienza che la verità
esiste, di una volontà di trovarla e di un proposito serio di rimanerle
fedeli una volta che si sia riconosciuta.
Può certamente accadere che per qualcuno, in un momento
particolare della propria evoluzione spirituale, diventi discutibile ciò
che fino allora era stato considerato vero. Può essere che ad un altro
sembri necessario rifiutare ciò che i suoi genitori hanno ritenuto vero.
Un terzo ignora forse assolutamente dove debba riporre l'ultimo
significato dell'essere e rimane perplesso davanti agli enigmi
dell'esistenza. Per poter però parlare in maniera attendibile della
libertà, essi devono almeno sapere che cosa essa sia, sentire come
assillante il problema del senso della vita. Devono preoccuparsi di
questo; ne possono considerare più importante di questo qualsiasi cosa
della vita
136
privata di ogni giorno o qualsiasì cosa capace di
eccitare l'opinione pubblica.
Soltanto tale serietà conferisce alla richiesta di
libertà il peso personale, che fa della richiesta stessa qualche cosa di
più che una semplice pretesa di seguire il capriccio del proprio pensiero
o di poter ripetere quello che fu detto dal collega d'ufficio. Se manca
questa serietà la richiesta diventa vuota. Allora, al posto della
convinzione, con la forza di carattere che la sostiene, subentra la
casualità delle opinioni del giorno, finché la mancanza di un
atteggiamento inferiore assume una tale estensione che la violenza
politica, la dottrina del partito e le prescrizioni dello Stato possono
penetrare nel profondo e stabilire: tu devi pensare questo! Allora l'uomo
è già reso schiavo, per bene che vadano i suoi affari e imponenti che
siano le sue attuazioni sul piano scientifico e tecnico.
Poniamoci una ulteriore domanda, senza indugiare su
concetti generali, ma attenendoci alla realtà:
quando sono libero?
Quando posso scegliere la professione che corrisponde alle
mie esigenze naturali. La professione è il punto di intersezione tra
l'esistenza individuale e quella collettiva; è il posto in cui il singolo
si trova in rapporto con il tutto sociale e il tutto sociale vive
dell'opera del singolo. Questo posto devo poterlo scegliere io stesso,
nessuna istanza di nessun genere può altrimenti impormelo.
La stessa parola che si usa in tedesco per dire
professione, cioè Beruf, manifesta di che si tratta. Beruf significa
l'attività alla quale sono chiamato dalla mia natura (omettiamo la
questione se tale chiamata venga ancora da più lontano). Naturalmente si
danno in
137
ciò gradazioni di diversa chiarezza e intensità.
Fortunato colui che può dire: so di aver talento per questo; mi sento
spinto a questo; questo e nient'al-tro deve essere il compito della mia
vita. La propria chiamata può attenuarsi in un giudizio di questo genere:
nell'ambito delle possibilità che mi sono date, questo corrisponde
maggiormente alle mie attitudini. Fino ad essere formulata secondo il
punto di vista di prima evidenza, ma molto reale: in questo modo posso
mantenere me e la mia famiglia nella maniera più decorosa.
Libertà significa che io posso scegliere la mia attività
secondo tali criteri, nella misura in cui la situazione data rende
possibile una scelta. Ne consegue perciò che lo Stato deve fare tutto
quanto sta in suo potere per favorire la formazione, allargare le
possibilità di scelta e avvicinare quanto più possibile, con indicazioni
e suggerimenti, la scelta stessa alle condizioni reali.
Simili richieste hanno però un senso soltanto se esiste
una vera volontà di impegnarsi nella professione e non semplicemente la
brama di guadagnare rapidamente del denaro, di raggiungere presto la
sicurezza, di poter lavorare il meno possibile per i propri svaghi.
In altre parole: la libertà della professione e del
lavoro presuppone la serietà dell'impegno professionale; presuppone che
l'uomo maturo sappia che egli occupa, in rapporto, di stretta connessione
col tutto sociale, un posto che non ha solo un significato per lui ma
anche per tutti gli altri. Tale libertà è reale nella misura in cui chi
la pretende sente la responsabilità della cosa e il gusto della buona
prestazione.
Nella misura in cui questo rapporto vien meno, l'uomo si
pone nelle condizioni che un regime totalitario
138
gli tolga la libertà della scelta professionale e gli
imponga un determinato lavoro. Prima muore la libertà intcriore di lavoro
e di professione; poi, quando ciò è avvenuto, succede l'asservimento
esterno.
Forse alcuni obietteranno: « Qui si fa della morale ».
Lasciamo da parte la parola « morale », che può non piacere; diciamo
invece: « etica ». Allora la risposta viene naturale: certamente, questo
di cui parliamo è Vethos della libertà. E non soltanto perché
obbliga la coscienza, ma anche perché questo solo rende possibile la
libertà.
Per avvicinarci ancor più alla realtà: qui tocchiamo uno
dei punti dove volere morale e crescita vitale coincidono, dove la
diminuzione della responsabilità intacca le radici stesse della vita.
Ecco un altro di questi punti: libertà significa che
l'uomo adulto può costruire la propria famiglia secondo la voce del suo
cuore e il giudizio della sua coscienza. Basta ripensare ai dodici anni
della violenza nazista per vedere in quale terribile modo questo diritto
fondamentale possa venire effettivamente leso.
L'uomo deve scegliere la donna che gli è diventata cara;
la donna l'uomo che ama e apprezza. Ne leggi razziali ne misure economiche
possono immischiarsi in questo diritto. I figli devono appartenere in
primo luogo ai genitori e solo in secondo luogo allo Stato;
per quanto riguarda la loro educazione devono decidere
innanzi tutto i genitori e soltanto dopo, in accordo con questi, le
pubbliche istanze. La casa deve essere riservata alla famiglia come
ambiente della sua vita privata, finché nessun pericolo per l'ordine
pubblico autorizza l'autorità a penetrarvi.
In una parola: libertà significa che l'uomo adulto ha la
possibilità di costituire secondo la propria coscien-
139
za quella cellula fondamentale di ogni comunità umana che
si chiama famiglia; di sviluppare quella forma elementare di ogni civiltà
che si chiama comunità domestica, nel modo che egli ritiene giusto, cioè
senza la preoccupazione che lo Stato, il partito o qualche altro distrugga
dal di fuori quello che egli in casa costruisce.
Però qui dobbiamo ancora renderci conto che la richiesta
di questa libertà ha in sé un nocciolo di realtà solo se dietro di essa
c'è qualche cosa di più di una pura avventura erotica o un ordinamento
giuridico, cioè una decisione di persona a persona che è fondamento di
fedeltà e origine di una comunità di vita;
se i genitori sanno che in ogni figlio c'è un destino
umano che è stato loro affidato e si sforzano di dare a ciascuna delle
loro creature quella formazione della coscienza e quell'orientamento
sostanziale della vita su cui esse potranno in seguito costruire la loro
esistenza. Tutto ciò deve essere realmente voluto con disciplina e
sacrificio. Se questo non si verifica, la famiglia diventa quella labile
entità che spesso è purtroppo. Che cosa potrebbe allora significare il
diritto alla propria libertà? La facoltà di fare tutto ciò che a uno
garba?
Si crea allora una situazione che richiede per forza
l'intervento della pubblica autorità. Si continua a parlare di
totalitarismo incombente, ma nessun evento si compie solo unilateralmente.
La violazione totalitaria del matrimonio è possibile soltanto se il
soggetto vivente della libertà, l'uomo adulto, da lungo tempo ha perduto
la volontà di costituire una comunità fondata sulla mutua fedeltà, di
mantenere l'unità della famiglia, di dare alla sua casa una struttura
viva.
Non ha alcun senso pretendere la libertà « da » qualche
realtà a noi esterna, se prima non si è compresa
140
e voluta la libertà « per » una realtà che ci tocca
intimamente, cioè per i grandi valori dell'esistenza personale. Non ha
alcun senso pretendere la libertà di scegliere l'amore ed esigere
l'intangibilità della casa, se uomo e donna non conoscono prima la
responsabilità di questa scelta e della fedeltà alla comunità
matrimoniale e non sono disposti a soddisfarne gli obblighi.
Ogni diritto poggia su un valore nel quale è fondato e
che esso protegge. Se questo valore (nel nostro caso la libertà di avere
una propria convinzione, di scegliere la propria professione e di formare
come meglio si crede una propria famiglia) non è più sentito e voluto,
allora cade il diritto corrispettivo.
I diritti che sono fondati nella natura personale
dell'uomo, e perciò significano non soltanto diritto ma anche dovere,
permangono naturalmente anche se il valore da essi difeso non è più
vissuto dal singolo.
Il diritto alla libertà è uno di questi. Il singolo non
solo può ma anche deve farlo valere, e non perché è un individuo molto
dotato, o ha un'alta posizione sociale, o possiede un temperamento attivo,
ma perché è uomo. Questo diritto non si estingue, se egli diventa
indifferente dinanzi al contenuto della libertà; ma rimane come dovere
imposto alla sua coscienza e rende testimonianza contro di lui. La pretesa
del rispetto di tale diritto perde tuttavia la dignità di una evidenza
personale come pure la forza d'urto di una affermazione umana, appena
dietro tale richiesta non c'è più la serietà dell'esistenza.
Chi parla di valori che in lui non sono più vivi finisce
col distruggere anche quanto gli rimane di essi come residuo della sua
esperienza. Bisogna stare perciò attenti quando uno vuoi parlare di
libertà.
141
C'è un modo di farlo che addirittura la distrugge,
perché ne falsifica il significato; così ad esempio quando la volontà
totalitaria di potere ne inverte il senso con la menzogna. Non vogliamo
neppure dimenticare che questa menzogna trova facile accesso nell'uomo,
non appena l'uomo lascia che la sua volontà di libertà perda di
serietà. Allora egli si getta in braccio alla dittatura, che lo
alleggerisce da ogni responsabilità.
C'è però anche un altro modo di parlare della libertà:
quello di farlo con frasi poco aderenti alla realtà, per
finalità retoriche, o per propaganda politica. Anche questo modo
distrugge la libertà, perché dietro a quelle frasi non ci sta più
nulla. Le parole hanno perduto o.gni significato e ogni serietà e possono
perciò essere falsate da qualsiasi ingannevole forma. Chi non vuole
seriamente la libertà, deve tacere su di essa. È l'ultimo servizio che
egli può renderle.
Permettetemi di fare ancora un passo avanti: che cosa
dobbiamo dire in questo contesto di quella libertà, l'« accademica »,
che l'Università (ricercatori, docenti e studenti) suole pretendere? Che
cosa significa essa propriamente?
Tanto le sue forme istituzionali quanto le sue esterne
manifestazioni hanno subito modifiche nel corso dei secoli, ma la radice
è rimasta identica: essa si trova nel diritto e nel dovere di ricercare
la verità scientificamente, cioè con rigore e con la proprietà di
metodo di volta in volta adeguata. Diritto e dovere si fondano su una
gerarchla di valori, al cui vertice sta appunto la verità: la verità per
se stessa e, parimenti, per l'importanza che essa ha per la vita e
l'operare umano.
Libertà dunque significa poter ricercare questa verità;
e a quale mostruosità si arriva quando ciò non è più
142
possibile ce l'hanno mostrato i dodici anni di dittatura
nazista.
Libertà significa inoltre poter dire questa verità; e
ciò partendo direttamente dalla realtà, senza preoccupazioni, ma allo
stesso tempo sotto il suo rigoroso dettato.
Quanto tutto questo sia meraviglioso, lo abbiamo provato
nei primi semestri accademici dopo la fine della guerra. Ricordo ancora
molto come allora i professori a Tubinga frequentassero reciprocamente le
lezioni gli uni degli altri per sentire come procedeva il discorso quando
uno parlava prendendo come unico punto di partenza la realtà oggettiva.
Questo per quanto riguarda la ricerca e l'insegnamento; ma
altrettanto vale per gli studenti. Dal loro punto di vista, libertà
accademica significa che per la frequenza all'Università non dovrebbero
essere poste altre condizioni se non quelle che, come tali, pone la cosa
stessa. Cioè che uno possa lavorare nel ramo che egli sceglie; ascoltare
il docente di cui ha fiducia;
crescere nella scienza mantenendo quell'atteggiamento che
è determinato dalle esigenze della ricerca della verità, senza essere
costretto da finalità esterne ad esse contrastanti.
Da tutto ciò nasce un'atmosfera che è possibile soltanto
a condizione che venga riconosciuta questa priorità della verità
scientifica; libertà da ogni intervento esterno, per essere tanto più
rigorosamente vincolati dall'interno.
Questa atmosfera svanisce, se uno Stato totalitario
prescrive alla ricerca i suoi oggetti o addirittura i suoi risultati,
impone agli studiosi il ramo a cui devono applicarsi e ne sorveglia il
lavoro, sottrae con pretese politiche, militari, economiche tempo ed ener-
143
gie. Ciò è evidente; ma questa atmosfera svanisce
anche se, pur rimanendo esternamente le possibilità di decisione e di
movimento, il nucleo spirituale si dissolve. L'Università e il tipo di
vita che in essa si realizza si fondano sul principio della ricerca e
della conoscenza, dell'insegnamento e dell'apprendimento. Appena la
pienezza dei valori e la forza obbligante della pura verità non vengono
più esperite, tutto si trasforma in una istruzione professionale che
permette l'acquisizione di un diploma: cosa certo importante, ma di
livello inferiore a ciò che era prima.
Ci imbattiamo di nuovo nello stesso rapporto fondamentale:
anche in questo caso la libertà vive di una esperienza di valori che la
sorregge, della rigorosità dell'obbligo che da questi consegue e della
serietà con cui tale obbligo viene rispettato.
Le forme nelle quali psicologicamente può avere luogo
tale esperienza possono essere diverse. Prima degli ultimi rivolgimenti
che hanno fatto vacillare il mondo, tutto era più facile e naturale. La
situazione economica era tranquilla e sicura; i grandi numeri non avevano
fatto ancora sentire il loro effetto che oggi rende tutto più difficile.
Certamente non è falso elogio il dire che l'Università antica riteneva
che il lavoro dovesse essere determinato più dalla volontà di conoscere
che dalla prospettiva dell'avanzamento professionale. Oggi è in corso una
profonda trasformazione economica, sociale, spirituale che non può essere
impedita. Se però la serietà o meglio la passione del conoscere non
ritorna a guidare il lavoro nell'Università, la libertà accademica perde
ogni significato e al suo posto subentrano il regolamento imposto
dall'esterno e la tutela. Giacché quale scopo possono avere il
mantenimento della facoltà di scelta personale e un movimento spirituale
spontaneo, se in definitiva
144
l'elemento decisivo è l'utile? Questo viene infatti
garantito nel modo migliore da una pianificazione quanto più è
-possibile completa.
Quando si parla di libertà, si pensa normalmente alla
'libertà politica, cioè, nella nostra situazione storica, alta sua forma
democratica. Ma che cos'è la democrazia nella sua essenza, la democrazia
genuina, non quella della propaganda?
È la forma di ordinamento politico più esigente e per
ciò stesso più esposta ai pericoli di ogni altra, cioè quella che
risulta continuamente dal libero gioco di forze tra persone aventi uguali
diritti. Il compito di costruirla è paurosamente grande, perché non sono
molti quelli che ne colgono veramente la natura.
Democrazia non è uno stato di cose, in cui ogni opinione
può pretendere di imporsi e ogni interesse può considerarsi come affare
di Stato, ma significa in primo luogo e soprattutto che ciascuno sa di
essere responsabile dei destini dello Stato e di non poter rinunciare a
questa responsabilità, ma di doverla costantemente esercitare: ed egli la
esercita effettivamente di continuo, voglia o non voglia, col suo modo di
comportarsi di fronte al bene e di fronte al male. Detto più
semplicemente: lo Stato è quello che il singolo, ogni singolo in
particolare lo fa. Ciò implica una grande serietà di comportamento,
perché ciascuno sa certo anche — o almeno lo dovrebbe sapere — quello
che può e quello che non può. Su questa serietà si fonda la libertà
democratica.
Abbiamo visto che la democrazia è quell'ordinamento
politico che nasce dalla responsabilità dei singoli. Ora dobbiamo
determinare ulteriormente questa affermazione: dei singoli che hanno tra
di loro relazioni di reciproco rispetto. Ancor più: ciascuno dei quali
145
può fidarsi degli altri, perché sa che tutti vogliono il
bene comune; lo vogliono effettivamente e non soltanto dicono di volerlo.
La democrazia è tanto più reale quanto più questo comportamento è
operante.
Parecchi uomini d'oggi si sono formati ancora al tempo
dell'individualismo. Hanno sperimentato quel sentimento profondo per cui
il singolo si riteneva « metro » dell'esistenza: pensiamo solo alla
violenta formula di Max Stirner, per il quale la vera realtà era «
l'individuo e la sua proprietà » (1845). Perciò fu per essi una vera
svolta decisiva quando riconobbero:
io non sono solo in questo mondo; c'è anche l'altro. Ed
egli esiste con diritto uguale al mio, cosicché l'esistenza politica si
fonda sul mio accordo con lui. Tale accordo non esige l'uguaglianza delle
opinioni, perché noi possiamo avere diversi punti di vista, ma la
uguaglianza delle istanze fondamentali: l'onore e il bene comune.
E ancora non si tratta soltanto di questo singolo che mi
sta vicino, ma dei molti; si tratta degli innumerevoli gruppi, strati,
tendenze;, si tratta, ancor più, del tutto: popolo, paese, cultura nella
sua varietà e insieme unità. La democrazia si fonda su una coscienza che
si diffonde in questo tutto, non per dominarlo o per esserne dominata
(questa sarebbe la falsa forma di democrazia propria del totalitarismo),
ma per penetrarlo, per sentire la sua vita, per costruire il suo
ordinamento di volta in volta, di incontro in incontro, come continua
risultante di molte energie individuali. Si parla spesso di democrazia
come se fosse una facile arte, un semplice calcolo di maggioranze. In
verità la vita democratica è difficile, perché non è mai sicura. Le
manca ciò che sosteneva le strutture dello Stato conservatore: il
radicamento in tradizioni ormai diventate sacre, in comportamenti che
emergevano dal-
146
le profondità dell'inconscio. Democrazia è equilibrio,
ma in continuo divenire; perciò richiede vigilanza, disinteresse e
disciplina.
Da tutto questo trae incremento la libertà. Senza questo
essa è disordine, che soltanto la tattica e la polizia impediscono
d'irrompere nel caos o di capovolgersi in dittatura.
Ci sarebbe ancor molto da dire sulla libertà perché essa
è un comportamento di tutto l'uomo e ha riferimento con tutto ciò che
costituisce il suo essere. Ma è necessario limitare il campo delle nostre
considerazioni; perciò parleremo ancora soltanto della richiesta di una
forma di libertà, riguardo alla quale regna una grande confusione di idee
e una prassi fattasi selvaggia e con l'andar del tempo pericolosa: la
libertà d'informazione.
Tale forma di libertà è strettamente connessa con ì'ethos
della democrazia e, più precisamente, con un fattore essenziale per la
democrazia stessa, cioè il pubblico e l'opinione pubblica. Se la forma
democratica dello Stato si basa sulla responsabilità e sulla cooperazione
dei singoli, questi debbono allora avere la possibilità di informarsi di
ciò che avviene nella vita sociale, politica, culturale della comunità,
e di dare a loro volta quelle informazioni che ritengono necessario.
Appena questa possibilità viene limitata, il singolo che è conscio della
propria responsabilità si sente minacciato nella sua libertà.
Esiste però una mutua relazione tra la sfera di dominio
pubblico con le sue pretese, da una parte, e quella di dominio privato con
le sue esigenze, dall'altra. Le pretese della prima, che vengono
soddisfatte mediante un sistema assai diffuso di osservazione e di
informazione, crescono continuamente. Si forma il
147
sentimento che il pubblico abbia il diritto di venire a
conoscere tutto e che quindi possa penetrare in ogni campo, anche il più
delicato, protetto finora dal rispetto, dalla delicatezza e dal pudore. La
pretesa di informazione diventa sempre più scopertamente una pretesa di
sensazione: quanto più il fatto è di carattere privato tanto più
urgente è il desiderio di cono-scerlo. . .
Su questa strada la pubblicità non solo trascende i suoi
limiti, ma sta degenerando in se stessa. La sfera di dominio pubblico e
quella di dominio privato non sono affatto indipendenti tra loro. La sfera
pubblica è un campo d'incontro tra uomini, ciascuno dei quali vive anche
in una sfera privata. Se questa viene danneggiata, non aumenta perciò
stesso la capacità di tale campo di adempiere alla sua funzione.
Piuttosto esso diventa qualche cosa di caotico, aperto a tutti gli impulsi
della brutalità e della demagogia. La sfera di dominio pubblico come
elemento indispensabile della vita democratica ha bisogno della sfera di
dominio privato 'non solo per il suo decoro, ma anche per la sua
efficienza nel vero senso del termine: come pure, reciprocamente, la sfera
privata oggi non può essere in nessun modo un incapsulamento
individualistico, ma deve stare in contatto con la sfera pubblica. Il
significato di libertà della pubblicità si fonda sull'autonomia di
giudizio e sulla sicurezza della decisione con cui prende posizione:
qualità che allignano sul terreno indipendente e rispettato della sfera
di dominio privata.
I nuovi mezzi d'informazione non hanno generalmente ancora
trovato un loro ethos, anzi procedono piuttosto in modo sfrenato,
danneggiando l'organismo della società democratica. È necessario che
essi sviluppino una sensibilità capace di avvertire quando una
148
informazione è non soltanto giusta, ma anche ragionevole
e conveniente: una sensibilità dunque per la sfera opposta a quella
pubblica. Rispettare la sfera privata non significa distruggere la
libertà d'informazione, ma porre ad essa i limiti salutari.
Il pubblico ha diritto di sapere quali delitti siano
avvenuti per poter formulare in tal modo un giudizio sulla situazione
morale in genere. Però è cosa del tutto diversa, se l'informazione è
fatta con tale larghezza e maniera che le notizie agiscono come stimolo
alla criminalità. Che il foto-reporter offra la visione dei fatti del
giorno, è giusto; se egli però, riproducendo una disgrazia, fotografa
una donna che piange sulla morte di suo marito, allora tanto il fotografo
quanto chi osserva la fotografia superano i limiti del conveniente.
Certamente si possono riprodurre avvenimenti religiosi;, ma è indelicato,
anzi irriverente, fotografare uomini che stanno pregando, in modo tale che
si possa penetrare nel loro intimo. Non occorre poi parlare di quei
servizi (sempre più numerosi), che non mirano affatto a soddisfare le
vere esigenze delle comunità, ma del tutto semplicemente la ricerca di
sensazione sessuale.
Se la libertà d'informazione pretende di continuare a
svilupparsi in questo senso, essa non può più essere presa sul serio. Il
genere di protesta che si leva appena qualcuno accenna ad opporsi a simile
abbrutimento, mostra di quale specie sono i motivi in gioco.
Qualcuno avrà forse avuto l'impressione che queste mie
considerazioni siano « accademiche » e che, in un momento in cui urgono
i più attuali problemi, riguardino inutili distinzioni teoriche. Questo
però sarebbe fraintendere, perché il discorso riguarda pro-
149
prio cose che debbono essere comprese e volute, se
l'attenzione a'U'« attualità », comunque si possa chiamare, non deve
impedire di cogliere il nucleo centrale di quegli stessi problemi.
Il problema della libertà in qualsiasi forma appaia,
cioè come libertà di convinzione e della sua attuazione nella società,
di scelta della professione e del lavoro, della famiglia, della casa e
della sfera privata, o come libertà della esistenza personale dell'uomo
nella democrazia e libertà dell'opinione pubblica, riceve sempre il suo
vero significato soltanto dai fondamenti di ciascuna di queste esigenze.
La volontà di libertà, la forza di raggiungerla e di affermarla hanno
naturalmente molteplici radici: l'istinto naturale di indipendenza, il
coraggio, la posizione sociale privilegiata, la tradizione storica e altro
ancora. Questi elementi però non sono determinanti, e in ogni caso non a
lungo andare. Da essi deriva unicamente un non so che di psicologico che
resta pur sempre relativo. Il comportamento di chi vuole veramente la
libertà si fonda su qualche cosa di incondizionato e importa la coscienza
sia di diritti sia di doveri. Di questo abbiamo tentato di parlare
esponendo le nostre considerazioni.
Credo che se gli uomini e le donne, di cui oggi celebriamo
la commemorazione, fossero stati uditori qui, avrebbero dato il loro
assenso. Infatti l'orientamento spirituale, da cui scaturì la loro
azione, non era quello di rivoluzionari e sovvertitori di costituzioni, ma
la serietà di persone che in ore difficili avevano preso seriamente
contatto con le radici stesse dell'esistenza.
150
Vili
PLURALITÀ E DECISIONE Avvertenza.
Mi è stato richiesto di dire che cosa s'aspetta il
teologo dalla università popolare. Il termine mi sollecita a fare una
precisazione. Io devo parlare come teologo; ciò vuoi dire come un uomo
che ha da esporre la Rivelazione biblica e da rispondere sulla base di
essa ai problemi dell'esistenza. Ora non posso naturalmente avere la
pretesa di parlare anche in nome dei teologi protestanti ed ebrei.
Tuttavia il mio desiderio è quello di farlo in modo che essi possano
concordare con quanto dirò.
Anche il pensatore che non pensa in categorie bibli-che
dovrebbe reputare degno d'essere ascoltato ciò che dice il teologo,
meglio ancora dovrebbe poter riguardarlo come giusto. Partirò quindi
dalla realtà umana-storica; in tal modo ciascun uditore sarà in grado di
sottoporlo ad esame e di farsene un giudizio.
Infine, quando il teologo deve dire ciò ch'egli si
attende dall'università popolare, ciò significa due cose: ciò che egli
spera da essa ma anche ciò che per essa teme. Deve parlare delle
possibilità positive che vede in essa, ma anche degli effetti negativi
che deriverebbero da una erronea concezione dei suoi compiti. Le due cose
sono strettamente collegato;
prego perciò di voler comprendere la seconda sulla base
della prima.
Come si vede, il mio compito non è semplice. Dal problema
teoretico stesso, come pure dalla situazione
151
attuale insorgono difficoltà non esigue. Spero tuttavia
di poter dire qualcosa di utile; e non ho certo bisogno di sottolineare
che non sarà affatto qualcosa di esauriente ne di definitivo, ma
semplicemente un apporto a problemi che molti sentono.
I. -L'idea dell'università popolare ieri.
In vista d'una comprensione della situazione attuale si
farà bene a partire dalla questione di che cosa l'università popolare si
proponesse di ottenere alle origini e come in seguito si sia sviluppata.
Consentitemi di iniziare con un ricordo. Dopo che il
ministero della cultura nazionalsocialista abolì la mia cattedra alla
università di Berlino, io vissi nel villaggio svevo di Mooshausen, non
lungi da Mem-mingen. Là nell'autunno del 1945, alla fine della guerra,
smontò da una piuttosto malconcia motocicletta un giovane signore e
chiese di parlarmi. Era Otto Aicher, a molti noto a causa dell'HochschuIe
fur Gestaltung di Ulma, che egli aveva richiamata in vita con un
gruppo di amici e che ha assunto poi uno sviluppo così fecondo. Dopo
breve presentazione dichiarò: « Signor professore, bisogna fare
qualcosa! ». Sul « che » non occorse discutere; sul « che cosa » in
fondo, neppure; in questione era soltanto il « come ».
Cominciammo con conferenze varie, da cui poi, sostenuta dal dinamismo del
sindaco di Ulma d'allora Scholl, fiorì quella università popolare. Ciò
che vi succedeva si chiarisce nel modo migliore se dico che la mia prima
conferenza tenuta nella chiesa di Ulma dedicata a Martin Luterò aveva per
tema:
La verità. Per illuminare lo stato d'animo che allora
dominava posso aggiungere che, quando in quell'autunno fui chiamato
all'università di Tubinga, capi-
152
tava che qualche professore andasse ad ascoltare qualche
suo collega per sentire che suono avesse un discorso aperto, responsabile
e fondato sulla realtà, dopo tanta menzogna e imbarbarimento spirituale.
Questo era dunque quello che « bisognava fare »:
bisognava creare una sede dove si dicesse e si ascoltasse
la verità. L'università popolare di Ulma è nata da questo atteggiamento
inferiore, ed è divenuta un bell'esempio di quanto il coraggio spirituale
e una seria volontà di lavoro può realizzare.
10 non posso entrare a parlare nei particolari della
evoluzione storica dell'università popolare, non avrei nulla di nuovo da
dirvi. Ciò che la sostenne, fu la realtà di fatto che nell'età moderna
la scienza è divenuta il fondamento della coscienza del mondo e la base
del rapporto pratico con esso, ossia della tecnica. Un secondo elemento
era la volontà democratica, per la quale qualcosa di così importante non
doveva rimanere il privilegio d'un solo strato della società, ma tutti vi
dovevano avere parte: sia all'arricchimento culturale che la scienza e la
tecnica donano, sia alla potenza che comunicano.
Quanto poi alla forma: in cui doveva realizzarsi questa
partecipazione, c'era davanti .ai nostri occhi già
11 modello — come Io stesso nome già lo dice —
appunto •l'« università »; giacché si trattava appunto di una
aspirazione alla formazione culturale che, per distinzione dalla scuola
specializzata, doveva volgersi fondamentalmente alla totalità dello
scibile. D'altra parte, doveva esserci pure qualcosa di adattato, di
mediativo, perché vi si dovevano presupporre non le condizioni culturali
del lavoro universitario, ma quelle della generalità, dunque a un di
presso quello che stanno fra la scuola media e l'università vera
e propria.
153
A questo punto si rivelò subito ufi perìcolo a voi ben
noto. Tutti voi avete da lottare contro di esso. La quantità dello
scibile e dell'interessante è grande;
sempre nuovi settori si schiudono; all'interno dei singoli
settori un problema ne suscita un altro; e così lo sforzo di chi insegna
e di chi impara assume troppo facilmente un carattere di multiformità,
anzi di caoticità. Insorse il problema in che modo tutta questa
molteplicità varia si debba ridurre all'ordine;
e questa è appunto una delle questioni radicali
dell'università moderna. Il tentativo di raggiungere quest'ordine per
derivazione dalle varie materie costituisce per gran parte la storia
interna dell'università popolare. Senza dubbio questa storia interna
mostra pure che a partire unicamente dai materiali scientifici non si
trova un punto di vista autenticamente ordinatore, giacché ogni elemento
conoscibile porta con sé l'attrattiva d'essere conosciuto. Ed anche
questo è in analogia con le nostre università, in cui il carattere
dell'universale perde sempre più quello di una totalità formata per
assumere quello della quan-titatività.
Apparve, così, chiaro che il punto di vista ordinatore
doveva essere trovato nell'uomo. Si trattava d'un sapere che doveva
servire a formare la vita. Tale punto di vista raggiunse così la sua
formulazione quando si disse che, pur con tutta l'obbligazione scientifica
imposta dalla oggettività delle cose, quello che importava in ultima
analisi non era la scienza diluita, ma che l'uditore — e prima di lui
l'insegnante — intendesse se stesso nel proprio rapporto verso l'ora
storica presente, verso la società e la cultura che lo circondava, infine
verso il mondo m genere. Fu una buona ed illuminante determinazione.
154
Ma con dò noi stiamo di nuovo davanti a un problema, e
così essenziale e importante che c'è rischio che l'attività d'una vera
università popolare minacci di naufragare e di diventare semplicemente
una tradizione di scienza. Nel compito sopra descritto si tratta infatti
non solo d'una questione di selezione e di esposizione metodicamente
corretta, ma d'una questione d'interpretazione e di valutazione.
In ambedue i casi si tratta insomma della verità. Qui,
sia uditori sia insegnanti devono situarsi in quell'accordo che si fonda
sulla comune volontà deU? verità. Ora « verità » qui non significa
soltanto, come nelle scienze specializzate, obbligazione che viene
dall'oggetto, dalla cosa — sia che si tratti di oggetti della natura o
della storia, sia della cultura — ma significa anche la giustezza
dell'interpretazione della esistenza; l'intelligenza dell'uomo reale; il
giusto rapporto fra l'uomo e la realtà oggettivamente esplorata. E così
noi ci troviamo davanti a quel problema che siamo soliti designare con
il termine di Welfan-schauung.
Il termine è problematico. Chi volesse raccontare la
storia di questa problematicità dovrebbe raccontare quattro secoli di
storia dello spirito. Una storia che coincide quasi con quel processo in
cui la fede nella rivelazione biblica e l'interpretazione dell'esistenza
sulla base di essa non furono più sentite come universalmente valide e in
luogo d'una certezza divinamente fondata subentrarono le visioni
soggettive del mondo; Le quali visioni poi divennero sempre più
indeterminate: si smarrì sempre più quello che è un vero carattere
impegnativo di verità, decisivo per l'esistenza.
Ma che cosa significa questo per la nostra questione?
155
II. - La pluralità.
Se colui che, venendo dal caos odierno delle posizioni
spirituali, guarda al Medioevo — supposto però che egli non rechi con
sé pregiudizi cristalizzati — ne riceve soprattutto un'impressione:
quella d'una grande unità. Il mondo spirituale vi è definito dalla
Rivelazione. Un ordine che si esprime nella Chiesa che plasma tutti i
settori della vita culturale. Nel campo politico operano potenti
concezioni unitarie, soprattutto quella del regno o dell'impero. Uno stile
artistico unitario pur nelle sue varie fasi storielle dona il sentimento
d'un cosmo ben delineato e colmo in ogni suo punto di significazione
simbolica, che regge e guida i singoli individui.
Certo, se l'osservatore giunge a conoscere più da vicino
quest'epoca abbracciamo quasi un millennio, vede anche la molteplicità
che ovunque s'afferma: le caratteristiche delle varie popolazioni, le
tensioni sociali, gli influssi dell'Oriente. Egli vede le numerose
correnti spirituali, come pure i molteplici impulsi religiosi, morali,
politici, e via dicendo. Ma resta sempre dominante l'impressione d'una
grande unità che impronta non solo esteriormente ma anche inte-riormente
tutte le varietà, a tal punto che queste varietà costituiscono proprio
gli elementi costruttivi d'una totalità certo spesso pericolante, ma di
continuo riaffermantesi. Compagini quali le cattedrali, le somme
scolastiche, la struttura del cosmo della Divina Commedia, il ciclo
temporale della Legenda aurea sono documenti impressionanti di
quella coscienza di totalità.
Nel Rinascimento questa unità comincia a sgretolarsi. Da
non dimenticare che il Rinascimento inizia già
156
nel XIV secolo, mentre il Medioevo da parte sua continua
ancora a lungo. Le distinzioni dunque si accentuano. Politicamente
parlando, sono diversità razziali e d'altro genere che portano alla
formazione degli Stati nazionali. Sociologicamente è il fiorire di una
borghesia cittadina che spezza la gerarchla dell'Impero, fino allora
dominante. Spiritualmente è la scienza, in quanto lo scienziato acquista
coscienza del carattere oggettivo delle cose ed esige metodi critici
corrispondenti di volta in volta alla sua ricerca. Religiosamente sono le
divergenze quanto all'inter-pretazione della Rivelazione cristiana e le
fratture della loro espressione ecclesiale.
Nell'atteggiamento personale dell'uomo si afferma il
sentimento atto a cogliere le diversità della vita individuale, il quale
fonda la pretesa di una libertà personale di movimento. Si sviluppa quel
criterio che noi designiamo come autonomia spirituale-personale. Significa
che le normatività oggettive del pensiero, del sentimento, dell'azione
lentamente retrocedono e che s'impone un'esigenza di prese di posizione
individuali rispetto al mondo e alla propria attività. Il criterio d'un
vincolo oggettivo viene lentamente sostituito con quello dell'autenticità
personale; quello d'una verità universalmente valida con quello della
propria convinzione, e così via. Ciò vuoi dire: al posto d'una unità
gerarchicamente costituita subentra la pluralità.
I valori che qui si scoprono, i modelli della perfezione
umana che vi si configurano, le esperienze che vi si compiono e le
passioni che le reggono si sintetizzano nei significati della parola «
libertà ».
Le radici, da cui tutto ciò si sviluppa, sono diverse.
Primo, il senso rinascimentale del pregio di ciò che
1?7
si chiama « personalità », specie della grande
personalità geniale; il senso delle ricche possibilità della vita e
dell'attività umana che vi si rinvengono. D'ora in poi libertà significa
che tali possibilità possono realizzarsi senza ostacoli. Secondo è il
carattere « categoriale » che la persona, il suo essere e agire, ora
portano, ossia la distinzione normativa che corre fra la « persona » da
una parte e l'energia di natura e l'individualità biofisica dall'altra.
Libertà significa che questo carattere riceva spazio; che la persona non
venga mai costretta, ne ridotta a mezzo per un fine, ma che venga
rispettata nella sua dignità e responsabilità. Un terzo elemento non
ancora abbastanza valutato è di natura religiosa. Deriva dal concetto
della libertà cristiana, il quale afferma che l'uomo creato da Dio è la
sua immagine ed attinge di qui la sua propria dignità; che egli sta con
Dio in un rapporto che lo congiunge a Lui oltre ogni altro rapporto
naturale immediato;, che l'uomo redento è liberato dalla schiavitù del
male. Il carattere religioso di questa concezione soggiace in seguito
indubbiamente a una sempre progressiva attenuazione e secolarizzazione,
quali si esprimono, per esempio, nelle commistioni fra il concetto della
grandezza cristiana, della santità, e quello della grandezza naturale,
della genialità.
Tutto ciò — e dell'altro ancora — si fonde con le.
istanze culturali e politiche di cui si è parlato, e crea l'idea
di libertà che pervade efficacemente tutta .l'età moderna.
Il processo avanza con impeto crescente, come sappiamo.
Raggiunge il suo primo vertice nel «liberalismo »: già il
termine lo manifesta. S'intende con esso non tanto, e in senso stretto,
una ideologia politica, quanto un atteggiamento umano-culturale d'ordine
generale: quello precisamente che riconosce valore
m
veramente vincolante unicamente a quanto può derivare da
una verità stabilita con metodo scientifico o da una necessità sociale
determinante. Invece tutto ciò che si chiama interpretazione
dell'esistenza — e dunque la comprensione delle norme etiche,
l'interesse a ciò che si verifica nell'incontro fra persone umane, la
definizione dei significati della storia, della religione, infine in
genere dell'esistenza — viene riguardato dal liberalismo come una
questione della esperienza vissuta e del giudizio personali. Il criterio
di misura della sua validità è allora l'autenticità dell'atteggiamento
spirituale inferiore, l'intensità dell'esperienza in questione, la
convinzione con cui sono assunte le prese di posizione.
Nasce di qui una varietà nelle visioni del mondo, la
quale, come non potrebbe essere diversamente, esce dall'intimità verso le
sfere della vita esterna e vi genera tutta una molteplicità di forme
culturali, sociali, politiche. Fin dove arriva l'« interpretazione », la
determinazione di significato — e arriva assai lontano — ora la
struttura della vita non è più unitaria, ma pluralistica.
Tuttavia i diversi individui e gruppi vivono entro lo
stesso spazio, entro gli stessi contesti culturali. Si richiede perciò un
ordine il quale consenta non solo un diritto di vita alle varie tensioni
discendenti da tale pluralismo, ma le faccia convergere in un rapporto il
più possibile fecondo nella sua varietà. Ciò ha luogo per mezzo del
principio democratico.
Esso afferma: l'esistenza si fonda su una pluralità di
persone, sulla varietà delle loro concezioni, dei loro impulsi sociali e
culturali. Questa molteplicità è giustificata e può dimostrare il
proprio diritto per mezzo d'una condotta di vita e d'una prestazione di
lavoro
159
autodeterminante. Perciò una unità può realizzarsi
sempre unicamente per mezzo d'un lavoro d'insieme altrettanto libero.
Perciò ognuno deve riconoscere l'altro, consentirgli spazio, rispettare
la sua convinzione in quanto tale, anche quando non la condivide, ed
essere disposto ad entrare, ovunque è possibile, in cooperazione con lui.
Democratica è anche la fiducia che su tale base sia
possibile una unità, è vero, sempre minacciata, ma anche sempre
ricreata; come pure un ethos poggian-te su una esperienza e una
saggezza conquistate in comune. Ne consegue una educazione
all'autodisciplina, alla comprensione, al libero lavoro d'insieme;
tutto ciò porta verso un modello complessivo di valido
umanesimo, di cui propriamente si dovrebbe parlare assai più di quanto
non si faccia ancora.
III. - Crisi e rovesciamento.
È chiaro che da una simile situazione si sviluppano
tensioni, anzi contrasti numerosi. La forma di vita •liberale-democratica
potrebbe apparire dotata di senso e realizzabile finché nella pluralità
ancora vivono, provenienti dal passato, concezioni sufficientemente comuni
del giusto, dell'obbligante, del valido; motivi sufficientemente efficaci,
capaci di far convergere i molti. La pluralità poggerebbe su un
sottofondo non ulteriormente esplicato, in parte perfino inconscio, ma
storicamente efficace e potrebbe così operare come principio fecondatore.
Tutto ciò si farebbe problematico quando il processo
della individualizzazione raggiungesse gli strati fondamentali della
personalità. Questo stadio trovò, a livello teoretico-filosofico, la sua
espressione nella filosofia vitalistica (Lebensphilosophie).
S'intende con
160
questo nome una mentalità che vede nella « vita » il
valore supremo, la vita la cui espansione e sviluppo sta nel sentire,
pensare, agire, creare. Per essa i valori della verità, del bene, del
giusto, del bello sono forme previe e irradiazioni della realtà
autentica, della vita. Tutti i valori in ordine ad essa si relati vizzano.
Un pronunciamento filosofico è vero, un modo di agire è moralmente
buono, un'opera d'arte è bella, un ordine sociale è giusto, se e in
quanto essi rendono la vita, la personalità vivente, più ricca, forte,
libera. Ma dal momento che la vita è ogni volta la vita del singolo o del
gruppo, ed ognuno ha il suo proprio carattere, qui non esiste più una
norma oggettiva. Esistono probabilità, saggezze, contributi: in
definitiva, ognuno sta per sé e decide per sé. Ciò considerato,
chiunque sia adulto pretende per sé una libertà illimitata e sente come
illegittima qualsiasi norma che miri ad imporsi a lui con la pretesa di
validità oggettiva.
La situazione a questo punto diviene critica. Anzitutto
perché le prese di posizione sulle quali si fonda la comprensione
dell'esistenza devono contenere una decisione intcriore, una
autovincolazione di giudizio e di coscienza morale, se devono poter
realmente reggere un'esistenza personale. Ma a tanto non arriva più tale
soggettività. Una convinzione può rapportarsi soltanto alla verità e
alla validità. Ciò che quella soggettività può produrre è soltanto
una opinione, spesso nient'altro che il sentimento di qualcosa
d'interessante. Così la base spirituale dell'esistenza va perduta. Vi si
aggiunge una seconda cosa. Le convinzioni circa il senso dell'esistenza, i
giudizi al riguardo di ciò che è buono, giusto, di ciò che è, in una
parola, valido, non costituiscono affatto come uno spazio a sé, isolato
nella vita dell'uomo,
161
il quale quanto al resto, accanto a quelle, realizzerebbe
le proprie relazioni verso gli altri uomini, i vari ordini della vita
nella famiglia, nella professione, nello Stato, eccetera, ma esse sono per
buona parte contenuto appunto di questa vita che egli vive con gli altri.
Di continuo egli porta ciò che ritiene per vero oltre se stesso negli
altri, ne fa il fondamento del suo parlare ed agire. Di continuo egli fa
dipendere la sua vita non solo individua, ma anche sociale dalla
prospettiva di ciò che ritiene buono;
cerca di realizzare insieme con gli altri quanto egli
considera opera di cultura. In tal modo, egli sente di continuo il bisogno
di comunione non soltanto quanto alla realtà esteriore, utilitaria,
realistica, ma anche in tutto ciò che rappresenta il mondo dei valori. Ma
come è possibile che si formi una comunione, se le posizioni personali
sono divergenti nel modo che abbiamo descritto? Si costituirà una
situazione in cui è impossibile che si formino relazioni spirituali più
profonde, oppure quando si sono formate, dovranno crollare sotto qualsiasi
pressione d'una certa forza.
A questo punto, noi c'imbattiamo in eventi storici che,
per l'ampiezza del loro campo, per la forza degli impulsi operativi e la
grandezza delle loro conseguenze, non ci permettono di trascurarli. È il
totalitarismo post-età-moderna quale si esprime nel fascismo, nel
nazionalsocialismo e nel comunismo.
Questi fenomeni sono semplicemente passi del corso storico
come esso si va realizzando dal Rinascimento •in poi, oppure significano
una frattura con l'atteggiamento anteriore, e precisamente nel senso di
una critica oggettiva ad esso, se così si può dire? Sono una fase
ulteriore dell'età moderna, oppure conducono verso un'epoca che non ha
ancora un nome?
162
Lasciamo da parte per un istante la questione se e fino a
qua! punto essi siano anche conseguenze di realtà empiriche, e dunque,
per esempio, del fatto che il raggio di ampiezza della terra si va
riducendo, le nazionalità si accostano le une alle altre, la popolazione
cresce rapidamente e dappertutto sorge la massa, i compiti del dominio del
mondo aumentano di continuo, la vita diviene sempre più uniforme a causa
della tecnica, eccetera. Noi percorriamo per ora la linea spirituale che
ha portato al relativismo. Come si è avanzato ulteriormente in essa?
Noi l'abbiamo visto. L'uomo della fine del secolo XIX e
dell'inizio del XX non conosce più in larga misura valori assoluti,
perciò neppure universalmente vincolanti. Tutto si è fatto relativo per
lui. Noi non intendiamo con questo, sia detto un'altra volta, la scienza
esatta, ne i compiti altrettanto esatti d'ordine tecnico o sociale o altri
ancora, ma ciò che abbiamo chiamato l'interpretazione dell'esistenza.
Questo però agisce già direttamente in molti settori della vita,
mediatamente e spesso in modo decisivo in tutti. L'uomo medio attuale non
conosce più criteri oggettivi per i quali gli possa risultare chiaro ciò
che è valido. L'unica norma è la misura del potenziamento della vita,
che con esperienza autentica perviene alla coscienza e che si esprime in
parole e in opere degne di fede.
Tutto ciò cammina e si regge — anche questo è già
stato detto —, nonostante crescenti difficoltà, fino a quando nel
complesso della vita esistono, superstiti dal passato, ancora idee e
sentimenti di dò che è obbligante per tutti in comune, degno di
venerazione, conveniente e condegno. Ma nella misura in cui questi si
sfaldano, nella misura in cui la vita religiosa si ritira unicamente nella
sfera inferiore, soggettiva,
163
e spesso si rende sensibile proprio per questo solo nella
sfera estetica, specie musicale, simili influenze cessano. Anzi persino il
principio che solo la vita e la sua intensificazione sia l'istanza
unicamente normativa entra in crisi, giacché ci si domanda se la vita sia
davvero da intensificare, e insorge il senso dell'assurdo d'ogni sforzo a
tal fine. La poesia e l'arte del nostro tempo rivelano questa situazione
in un modo che non può sfuggire a nessuno il quale non voglia non vedere.
In quest'ora storica si va costituendo una nuova formula:
ciò che importa, ciò che rende la vita degna d'essere vissuta, è la
totalità dell'esistenza: naturalmente parlando, il popolo;
sociologicamente, la società; politicamente, lo Stato. Ora l'energia che
crea questa totalità è il potere o la potenza.
Non possiamo qui occuparci della questione in che modo il
potere sia divenuto una ideologia, in che modo esso si sia servito di
altre idee per esprimersi, pensiamo alla concezione fascista sull'eredità
dell'antica Roma, o a quella nazista delle razze nobili e al loro diritto
di prelazione su tutta la terra, o agli impulsi che si sviluppano dagli
sforzi per portare al dominio quanti finora sono stati spogliati dei loro
diritti, e via dicendo. A noi interessa per ora solo questo:
che la interpretazione della libertà in senso
soggettivistico, la perdita di contenuti oggettivi a causa della
relativiz-?azione di tutti i valori, la pluralità inferiormente non
vincolata dei molti impulsi e punti di vista determineranno
inevitabilmente una situazione di scetticismo, di inconsistenza, anzi in
definitiva di vuoto intcriore, nella quale il messaggio del potere. della
potenza, penetrerà come l'unico valore stabilizzante. E questa idea del
potere non è altro che
164
l'attivazione della concezione vitalistica. La « vita >•>
'non è capace di azione. Non è ne precisa ne attiva. Nell'idea del
potere essa acquista forma dura ed agonistica: diviene politica. Noi
pensiamo al fatto che il più forte profeta del primato della vita,
Friedrich Nietzsche, ha predicato la potenza come il valore massimo che
giustifica ogni altro valore, definendolo la chiave della comprensione
dell'esistenza.
Se il totalitarismo è entrato in questo modo sulla scia
della fede liberale nella vita ed ha eretto la potenza a valore che
giustifica tutto — anche il delitto! — ha fatto poi la stessa cosa con
l'altro dogma liberale, cioè con 'l'idea del progresso. Come motivo di
propulsione essa vive non più soltanto in Europa, ma è passata al
totalitarismo comunista, dove essa forma la base per la comprensione della
storia non solo, ma anche semplicemente dell'etica.
IV. -L'università popolare oggi e domani.
Tutto questo complesso fenomeno interessa anche la
università popolare? Non c'è bisogno di tanto argomentare per dimostrare
che la interessa, ed anzi nel nucleo stesso dei suoi compiti. Si può
perfino dire che si deciderà della sua giustificazione dall'interrogativo
se l'università popolare dominerà questo problema. Anzitutto per la
ragione che il fenomeno determina tutta la nostra situazione storica e
determinerà nelle sue irradiazioni politiche il nostro futuro. Perciò
l'università popolare, se intende prendersi sul serio, non può
disinteressarsene. Gli insegnanti devono sforzarsi di comprenderlo e
attirare gli alunni a collaborare a tale comprensione.
Ma questo non basta, giacché l'università popolare non
è una società di studi applicata a una conoscenza
165
solo teoretica, bensì ha il carattere d'una sede di
formazione. E non solo come aggiuntivo alla teoria, considerata come la
cosa principale, ma questo carattere le è essenziale. Ricordo quello che
ho detto all'inizio di queste considerazioni: l'università popolare non
deve solo aiutare i suoi uditori a riconoscere le realtà di fatto e i
rapporti, ma a riconoscere anche se stessi nelle realtà di fatto e nei
rapporti del mondo.
Bisogna dire di più ancora. L'università popolare non ha
soltanto carattere privato, neppure nei suoi compiti educativi. È
qualcosa di diverso da quanto avviene quando, per esempio, delle persone
impegnate in una riforma di vita si raccolgono per approfondire i
fondamenti del loro programma, ma essa ha acquisito senz'altro un
carattere ufficiale. Questo è chiaro anche solo per il numero degli
alunni e per l'appoggio dell'autorità.
Perciò essa è, in ragione della sua più intima essenza,
obbligata allo studio dei problemi sopra esposti, ed è responsabile del
fatto e del come essa lo fa. Giacché con gli eventi, di cui s'è detto,
la stessa storia impartisce un insegnamento di tale forza, di tale
profondità e radicalità che ci si può solo meravigliare che esso venga
così poco capito. Ma forse è proprio la grandezza del fenomeno che gli
impedisce di farsi cosciente.
Vediamo ancora una volta con precisione quale è il nucleo
di questo insegnamento. La pretesa del singolo di formarsi sul mondo e su
se stesso una propria opinione;, la sua esigenza di sottoporre ad esame i
valori che devono essere validi per la sua vita e di crearsi per mezzo del
suo giudizio la norma della sua esistenza: tutto ciò ha iniziato ad
affermarsi al principio dell'età moderna e ad affermarsi via via
166
sempre più incisivamente. La libertà verso tutto ciò si
è imposta nel mondo occidentale come il fondamento di tutta la
comprensione della vita. Nella misura in cui ciò si verificava, fu
rimessa in questione la validità generale e la forza obbligante oggettiva
delle norme che definiscono la vita filosofica, morale, artistica,
economica, poiché il principio della libertà consente sì una
discussione, ma non qualsiasi specie di azione normativa.
L'uno può certo dire all'altro: « Quello che tu dici è
falso », ma non può impedirgli di ritenerlo giusto e di adoperarsi
perché altri lo riconoscano. Di fronte a un'opinione qualsiasi, egli
potrebbe ancora dichiarare: « La verità è un'altra, così e così »,
ma dovrebbe espressamente o implicitamente aggiungere: « per quello che
pare a me ».
E dovrebbe fare in modo da rendere operante questa formula
delimitante non solo di fronte all'altro, ma anche per sé. Ciò vuoi dire
che egli non può mai arrivare a una convinzione in senso genuino,
esistenziale.
Questo processo andò avanti sempre più. Nacque il
pluralismo di cui s'è parlato. Per assumere la responsabilità, a suo
riguardo, di fronte alle esigenze dei valori, anzi per potere anche solo,
nel caso di coscienze più sensibili, sopportare tale responsabilità, la
coscienza moderna operò al tempo stesso una relativizzazio-ne dei valori.
Tutto ebbe valore solo fino a un certo punto, solo in un certo modo, sotto
certi rispetti; io ultima analisi solo per colui che di volta in volta
parla; anzi in fondo, e sulla base dei criteri propriamente legittimi,
veramente neanche per lui. Tutto il processo sfociò in quello che noi
chiamiamo nichilismo moderno.
S'aggiunsero poi tutti quei fattori di cui abbiamo appe-
167
Ha parlato. In prima linea la massificazione
dell'esistenza, la quale ridusse la forza psicologica obbligante dei
valori. Giacché quanto più frequentemente si parla d'un valore, quanto
più persone si riferiscono ad esso, tanto più debole si fa il sentimento
della sua forza spiritualmente vincolante. Da non dimenticare il
raffreddarsi generale del sentimento: una delle più inquietanti realtà
di fatto del nostro tempo. Impallidiscono di conseguenza i valori,
incapaci di attivare quel centro interiore di cui parla Kierkegaard quando
dice che la verità può essere realizzata soltanto « nella passione »:
nella passione della serietà. Esiste ancora oggi questa serietà? Non il
rigore scientifico o tecnico o politico, ma la serietà spirituale? Altri
elementi simili ancora, e si è arrivati a quella situazione definita «
nichilistica ».
Tutto ciò fece sì che il pluralismo non solo crebbe, ma
assunse un carattere negativo, cioè quello dell'ottusità a riguardo
delle distinzioni, quello dell'indifferenza verso le contraddizioni, del
disimpegno delle affermazioni e delle proclamazioni. Ciò che dice
Mar-gret Boveri nei suoi quattro volumi circa il « tradimento nel XX
secolo », ha valore anche per il nostro assunto. La responsabilità nel
giudizio: « Questo è vero, questo è falso; questo è buono, questo è
cattivo; questo è umano, questo non è già più umano »;
l'intima fedeltà per ciò che si è affermato e
riconosciuto, tutto ciò divenne sempre più dubbio. S'introdusse una
situazione di arbitrio. Il principio democratico, che attribuisce anche
all'altro lo stesso proprio diritto, divenne non soltanto una specie di
generale tolleranza, ma passò nel sentimento che dice: « Chissà, forse
anche lui ha ragione; forse anche così va bene », e infine: « in fondo,
invero, è tutto indifferente ». Si arrivò così alla situazione in cui
ascendendo dalle
168
profondità inferiori suonò l'ora del totalitarismo. E
sotto il nome di totalitarismo bisogna intendere non soltanto una forma
politica, ma tutto un atteggiamento, tutto un modo di concepire
esteriormente e inferiormente l'esistenza umana. Il totalitario potrebbe
dire: « Vedete? in fondo voi non avete convinzione di sorta! Peggio
ancora, voi non credete neppure che sia possibile una vera convinzione!
Che cosa vi manca allora se non una forza d'ordine? La libertà? È forse
qualcosa di più che un arbitrio? Noi siamo liberi. Noi abbiamo una unica
grande idea. La nostra libertà è " in " questa, non di fronte
a questa. È la idea vera, perché essa esprime l'essenza reale dell'uomo,
il vero significato della storia. Nella misura in cui ci doniamo ad essa,
diventiamo liberi. E se noi rendiamo innocuo ciò che voi pensate, non è
mancanza di libertà, ma è il modo di agire del medico che libera il
malato della sua malattia e lo porta alla salute ».
La linea, di cui abbiamo parlato, porta così alla crisi
più profonda proprio quell'idea, quell'impulso, nel cui nome l'età
moderna ha vissuto e lavorato. E noi facciamo di continuo l'esperienza di
come proprio coloro che sostengono l'evoluzione spirituale — gli «
intellettuali »: artisti, scrittori, sociologi, ecc. — cedano alla
forza attrattiva di quell'idea; cedano fino alla totale mancanza di
istinto. Noi esperiamo vitalmente la terribile realtà di fatto che una
potenza politica, rinnegatrice della libertà, venga sentita come
allettante da parte di coloro che in Europa si sollevano proprio in nome
della libertà contro ogni genere di norma etica, culturale, religiosa.
169
V. - E che cosa faremo ora?
Consentitemi di supporre per una volta che voi, miei
ascoltatori, avete potuto concordare con i miei pensieri. Naturalmente in
un'analisi di simili complessi pensieri non è mai possibile una totale
concordanza;
si sarà sempre dell'opinione che questo o quel fatto non
è stato considerato, che questo o quel rapporto dev'essere visto
diversamente, e via dicendo. Ma supponiamo che nelle grandi linee e
nell'insieme voi concordiate. Allora probabilmente direte: « Bene; ma ora
che si può fare? Che cosa deve fare — dal momento che si tratta di essa
— l'università popolare? » A tale domanda io dovrei — come sempre
per argomenti così profondi e ampi — rispondere: « Qui non esistono
ricette liscie liscie ». Dunque, che cosa? Permettetemi di rispondere con
uno schizzo breve — molto breve — di un'epoca che rappresenta in parte
un parallelo della nostra situazione. Naturalmente non un'uguaglianza,
giacché la storia non si ripete. Tuttavia vi si può apprendere qualcosa
anche per noi. Si tratta precisamente dell'epoca in cui l'età aurea di
Atene finì: il tempo della guerra del Peloponneso, durata quasi 30 anni,
dal 431 al 404, causa d'una distruzione radicale. In essa è esploso il
vizio originario dei Greci, che è il versante negativo della loro
originaria forza, dell'emulazione: cioè l'incapacità di trovare un
ordine comune e di lavorare in concordia. I migliori erano caduti, il
paese era devastato, la popolazione ridotta, le antiche capacità finite.
Ancora più in profondità arrivavano le distruzioni religiose. L'antica
religione mitica in cui si radicava tutto ciò che si chiamava tradizione:
relazioni di rispetto, cri-teri del giusto e del degno, ordini della vita
individuale e sociale, tutto questo si era disintegrato in uno
170
scetticismo generale, anzi in una generale indifferenza.
Quanto poi alla vita dello spirito, essa stava nelle mani di gente, il cui
nome era divenuto la designazione d'un'esistenza senza sostanza, dei
sofisti. Causa loro, i valori spirituali erano stati sostituiti da quelli
materiali. Verità, moralità, diritto non avevano più peso; ciò che
valeva era il piacere, la ricchezza, il prestigio, il potere. La vita
intellettuale si risolveva in un indefinito discutere e analizzare.
Importante restava, in una comunità culturale così fortemente costruita
sulla parola, come l'ateniese, la tecnica di farsi politicamente strada
con l'arte della parola. Una brutta epoca, caratterizzata da nomi quali
Gorgia, Callide, Prodico, Protagora.
E allora avvenne qualcosa di grande, di misterioso, come
misteriosa è sempre l'apparizione d'un uomo grande che cambia un'epoca.
Fu Socrate. Un uomo coraggioso, che amava la sua città e i suoi
cittadini, soprattutto la gioventù. Egli cominciò a porsi dei problemi.
Suo stimolo una insaziabile fame di conoscenza: somigliava ai sofisti
nella voglia di conversazione e di discussione. Ma più in profondità
c'era in lui qualcos'altro che in essi non c'era: una esperienza
primordiale. Era la profonda certezza che la verità esisteva, la verità
circa l'uomo, lo Stato, l'esistenza, e che si poteva conoscerla; la
certezza che il bene esisteva e che l'uomo poteva trovarlo e farlo, e in
tal modo realizzare il significato della sua esistenza.
Tutto ciò si operò in lui non a scuola o fra libri, ma
per mezzo d'un ininterrotto dialogo con gli altri, in casa, nelle strade,
nei ginnasi; con giovani e con anziani, con semplici e con raffinati,
guidato dalla volontà incrollabile di non consentire mai che penetras-
171
sero nel discorso soluzioni apparenti, idee superficiali o
false.
Quest'uomo non ha mai scritto nulla. Ma ebbe la fortuna di
avere uno scolaro superiore a lui stesso: Plafone, poeta, filosofo,
aristocratico della migliore cultura. Egli visse otto anni nel gruppo di
Socrate e nei suoi libri ha fatto del singolare personaggio del suo
maestro il rappresentante d'ogni ricerca e d'ogni cognizione,
l'incarnazione della coscienza della verità. Tutte le sue opere, fino
all'ultima, i Nomoi, le Leggi, sono dialoghi di Scorate con
altre varie persone, le quali vogliono conoscere la verità e conferire
una forma giusta alla propria vita; e perfino colui che guida il dialogo
di quest'ultima opera, l'innominato « Ateniese », è un'eco di Socrate.
La figura di Socrate e quella di Fiatone si sono per noi a
tal punto inviluppate reciprocamente, l'elemento platonico e quello
socratico vi si confondono a tal punto, che soltanto in qualche tratto
riusciamo a distinguerli.
In che consiste il loro messaggio? Che cosa, al di là
d'ogni distinzione, li-congiunge?
Anzitutto la grande esperienza che esiste un
incondizionato, una validità universale e che la si può conoscere.
Questo Assoluto, mai relati vizzabile, è « il Bene », 1' 'a-'/affov.
Il termine non significa affatto un concetto astratto, ma una realtà.
Più esattamente:
una sovrarealtà; ciò che fonda ogni realtà e ogni
significato. Diciamolo con più chiarezza: è Dio. In un passo mirabile
della Repubblica, l'opera più grande di Plafone, Socrate conduce
il giovane Glauco su questa vetta, gli mostra sotto il simbolo del sole
— il potente sole greco — come il bene più alto e il vero e il divino
sono identici, e il giovane ascoltatore
172
stupisce: « Quale sublime magnificenza indichi mai, o
Socrate! ». Ecco la realtà più grande. Non denaro, non potenza, non
piacere, ma ciò che vale per se stesso e che deve essere voluto per se
stesso. E a colui che ascolta viene ribadito: Questo bene altissimo può
essere conosciuto, può essere raggiunto, se l'uomo vi si impegna con
tutta la sua serietà. Il Fedone, il dialogo che riferisce dei
colloqui svoltisi il giorno alla fine del quale Socrate dovrà bere il
veleno, è un'unica assicurazione in tal senso.
C'è inoltre un'altra cosa strettamente connessa con la
prima. Esiste una conoscenza delle cose; dell'uomo e della vita umana;,
delle sue norme e dei suoi valori. Non solo opinioni, non solo punti di
vista, che si eliminano a vicenda, ma verità. Ogni esistente, o-gni
rapporto di vita porta in sé una forma significativa: la sua essenza, la
sua idea, che lo colloca in relazione con l'Assoluto, con il Bene supremo.
Non si può e non è lecito perciò parlare arbitrariamente delle cose.
Questa è debolezza di spirito, imbarbarimento; è, in definitiva,
tradimento. Le cose hanno la loro verità. Vita spirituale vuoi dire
percepire il richiamo di questa verità, decidersi all'obbedienza nei suoi
riguardi e andarne in cerca. Chi cerca, per esprimerci come Kierkegaard,
nella passione della serietà, esperisce, per così dire, quell'urto di
significato, nel quale non è lui nella sua soggettività che decide ciò
che deve aver valore, ma è l'esistente stesso che lo chiama e che lega il
suo spirito nell'obbedienza: la verità.
Questo è ciò che rende perenne l'azione spirituale
socratico-platonica.
In seguito sono sorti innumerevoli altri problemi
filosofici; il modo di porre i problemi e di risolverli è
173
cambiato; si sono imposte critiche anche su Plafone.
Ma resta per sempre qualcosa di fondamentale: che esiste
l'Assoluto, il Vero e il Bene, che li si può, che anzi li si deve
conoscere ed esperire; che in ogni cosa si cela la sua propria verità,
una verità di cui noi non possiamo disporre come vogliamo, ma che ci
vincola tutti nell'obbedienza verso l'esigenza inerente nel suo
significato; e che essa può e deve essere conosciuta.
Ecco quanto io ho da rispondere alla domanda posta. Niente
che sia alla mano. Non una indicazione immediata di ciò che bisogna fare.
Ma voi conoscete la parola di Ranke: noi non facciamo storia per diventare
prudenti per la prossima volta, ma saggi per sempre. Noi abbiamo di fronte
due nemici. Da una parte una volontà di libertà che tende a sgusciare di
mano a se stessa, che diviene soggettivismo e che disintegra ogni
validità; dall'altra una volontà d'ordine che dispera della libertà e
che si proietta nella violenza.
Non la libertà è nemica; essa ci è stata affidata, un
frutto non più soggetto a perdita, combinato di volontà e di destino.
Tanto meno ci è nemica la necessità d'una norma obbligante e vincolante.
Dobbiamo ritrovare il rapporto con essa, se non vogliamo che tutto si
sfaldi. Entrambe le cose sono essenziali. In che modo tutto questo debba
essere l'obiettivo dell'università popolare è un compito che tocca a
tutti noi.
Ma si è risposto in tal modo alla domanda rivolta al «
teologo »? Io credo di sì, poiché egli è obbligato dalla sua
professione a ricercare come i vari fattori
174
della vita si innestino l'uno nell'altro e come essi
debbano con misura rapportarsi a vicenda, se la totalità, se cioè l'uomo
dovrà restar salvo.
175
IX
IL DIRITTO DELLA VITA UMANA IN FORMAZIONE *
Avvertenza.
Sono stato invitato dai medici a contribuire da parte mia
a illuminare la questione di cui ormai molti si sono occupati e che è
sfociata nella discussione sul paragrafo 218 del codice penale. Ho
riflettuto a lungo circa una mia adesione o no all'invito. È facile
obiettare che una simile questione appartiene agli specialisti, ai medici,
ai sociologi, ai giuristi. Ma poi mi apparve chiaro quanto realmente la
questione oltrepassasse da ogni lato i confini dei problemi specifici,
perché concerneva tutto il complesso rapporto del singolo verso la
società, concerneva anzi il carattere fondamentale dell'esistenza umana
in genere. Da questo punto di vista ognuno ha il diritto di prendere
posizione a suo riguardo, e tanto più chi, in quanto filosofo e teologo,
è per sua vocazione rivolto ai problemi generali dell'esistenza. Questo
mio apporto si manterrà lontano da qualsiasi asserzione che presupponga
conoscenze specifiche. Qualora mi riferissi a problemi biologici, lo farò
unicamente per quel tanto che ciò sarà possibile a una considerazione
filoso-fica dei fenomeni.
Il mio discorso si rivolge a una larga cerchia di lettori;
perciò rinuncerà ai punti di vista strettamente cristiani. Il mio
presupposto è unicamente il rispet-
* Questa comunicazione apparve la prima volta presso il
Rai-ner-Verlag Hermann Leins, Stuttgart und Tùbingen. Qui si ripubblica
per gentile concessione dell'editore.
177
to dell'uomo e la responsabilità per la sua dignità. Il
mio proposito inoltre sarà di vedere, là dove emergeranno delle
esigenze, anche le conseguenze, e non soltanto le prossime e più vistose,
ma anche quelle che stanno in profondità e che solo lentamente affiorano
nel tessuto dell'esistenza.
I. - 11 problema e la norma.
La questione che qui ci occupa è, nella sua forma più
generica, la seguente: è lecito distruggere la vita che sta maturando nel
grembo materno?
Essa insorge anzitutto dal fatto che si tratta bensì
della vita d'un essere individuo, ma quest'essere ha influsso su altri
individui e su gruppi interi: e dunque anzitutto sulla sua madre e poi
sulla famiglia e sul suo popolo. È possibile dunque che l'esistenza di
quest'essere rappresenti un pericolo per la madre, la famiglia, la
società. È lecito ovviare a tale pericolo con la soppressione?
La questione ha però anche altri addentellati.
L'individuo umano viene concepito senza sua volontà; il suo sviluppo
dipende, una volta nato, dalla madre e in seguito dalla famiglia e dalla
società. Perciò costoro che hanno rapporto con il suo costituirsi, i
genitori e lo Stato soprattutto, sono responsabili di lui. Non dovrebbero
allora rappresentare in certe circostanze l'interesse di quest'essere non
ancora autonomo anche contro la sua propria presenza fisica? Se essi hanno
capito che per questa creatura umana futura la vita sarà una sventura,
non dovrebbero difenderla da essa?
Questi problemi c'erano già prima, ma si erano come da
sé risolti per lungo tempo nella fede in una Provvidenza divina
universale. Essi si acuirono quan-
178
do molti smarrirono la coscienza di tale Provvidenza e
giunsero all'idea che l'uomo sia il solo responsabile della propria
esistenza, il solo suo padrone. Avvenne inoltre che solo nel corso di
questa stessa evoluzione la tecnica medica e sociale creasse i presupposti
che resero possibile un trattamento metodico al riguardo. E infine avvenne
che nelle dimensioni di massa dell'esistenza moderna il sentimento che la
vita umana sia radicalmente intangibile, sentimento fino a ieri efficace,
si attenuasse sempre più.
La situazione esterna diviene poi assai grave; entrano in
crisi l'alimentazione, l'abitazione, l'educazione, la sistemazione,
l'assistenza e la cura medica. Quei problemi assumono così un'intensità
minacciosa. E ciò tanto più in quanto la prassi politica e l'educazione
popolare del recente passato rinnegano radicalmente la dignità umana
personale, alleandosi con tutto ciò che c'è nell'uomo di violento.
Questi fatti hanno esercitato un influsso profondo sul sentimento e sul
giudizio comune, ed è bene — vogliamo accennarvi subito — non essere
personalmente toccati da questo influsso, quando si vogliano discutere
senza troppa precipitazione questioni quali le nostre.
A mano a mano che l'uomo usciva dalla barbarie, si
affermò sempre più evidente il principio che dice:
non è lecito attentare alla vita umana, fino a quando
qualcuno non ha commesso delitti passibili secondo il diritto vigente di
pena capitale, oppure fino a quando qualcuno ci aggredisce e noi non
possiamo difenderci se non uccidendo l'aggressore. Viene per terzo il caso
della guerra. Ma a questo proposito si va manifestando da una generazione
in qua una crisi sempre più profonda. Diviene sempre più chiaro che la
guerra, secondo le forme che assume in conseguenza
179
della tecnica, è ben diversa da quella a cui si
collegavano finora gli ovvi valori della fedeltà alla patria, dell'onore,
del coraggio e della prontezza al sacrificio. Perciò il diritto di
uccidere in guerra non risulta affatto altrettanto indiscutibile quanto
prima.
Da tali punti di vista deriva che non è lecito
distruggere la vita del bambino nel grembo della madre, giacché egli ne
ha commesso un delitto, ne ha costretto altri all'estrema legittima
difesa. Tuttavia è possibile che la vita della madre sia a tal punto
minacciata dal bambino che se ne deriva per « indicazione medica » un
diritto a sacrificare la vita del bambino; ma noi non vogliamo occuparci
di questa particolare questione. A noi interessa qui non la indicazione
medica, ma quella « sociale ».
Coloro che ritengono giustificata l'indicazione sociale
dicono: la vita umana in formazione si trova in immediato rapporto con la
vita della famiglia e della collettività, viene influenzata da essa e a
sua volta la influenza. Questo rapporto può farsi a tal punto sfavorevole
che diviene lecito proteggere sia la famiglia sia il bambino dalle sue
conseguenze, è lecito cioè uccidere il bambino.
Non vogliamo delineare la realtà della situazione
attuale, la cui gravita supera qualsiasi altra di cui la Europa abbia
memoria1. L'autore può ben sperare che il lettore vorrà
credere che anche senza tale delineazione egli ne è consapevole e che
riconosce il dovere di fare tutto il possibile per rimediarvi. Chi cerca
di mantenere chiara la sua coscienza circa le questioni che qui si
discutono deve sottolineare quanto
1 Oggi,
cioè in anni di inumano bisogno dopo la seconda guerra. Frattanto la
situazione economico-sociale, almeno in Europa, si è mutata. Ma quanto
alla questione fondamentale nulla è mutato.
180
ora s'è detto semplicemente per non risultare disumano.
È invero molto facile aizzare la fantasia e il sentimento contro chiunque
sostenga l'intoccabilità della norma. La propaganda di anni fa per la
cosiddetta « eutanasia » e per i suoi efletti è ancora nella nostra
memoria. Ma si tratta in fondo di chiederci con la maggiore schiettezza e
accuratezza possibile che cosa sia giusto.
È lecito dunque uccidere un essere umano che non ha
commesso delitti, ne ha perpetrato aggressioni, ma che con la sua
esistenza è una minaccia, diciamo pure, una estrema minaccia per
l'esistenza altrui?
Non appena si comincia a vedere in elementi negativi
motivi sufficienti per attentare alla vita umana, non è più possibile
porre in modo convincente dei limiti.
Tale esperienza si è sempre imposta e diviene oggi
soprattutto impellente. Durante l'età moderna e soprattutto nelle ultime
generazioni il freno di immediata efficacia sulla vita istintiva e
affettiva, cioè il timore religioso, si è fatto sempre meno incisivo; i
princìpi puramente etici e perfino sociali vacillano e cedono a più
forti pressioni vitali. In tal modo l'uomo è diventato molto «
realistico » non solo a riguardo delle cose ma anche degli altri uomini,
il che vuoi dire, incline a considerarli come cose sottostanti ai punti di
vista dell'utilità. Vi si aggiunge quanto abbiamo già indicato: che il
nostro tempo fa sì che il singolo si risolva sempre più nella massa. La
unicità singolare (Einmaligkeit) quale proprietà essenziale
d'ogni persona umana non esiste più nella coscienza di molti. Più o meno
chiaramente, più o meno confessatamente incide su tutti il sentimento che
gli uomini siano talmente numerosi che il singolo non abbia più
importanza.
181
E da non dimenticare un dato assai oscuro e fatale:
che una educazione e una prassi penetrate fino negli
atteggiamenti di fondo e sei anni di guerra orrenda hanno scatenato uno
spirito omicida che a tutt'og-gi non è stato ancora domato. Noi non
possiamo perciò se non affermare con chiarezza e decisione la norma
morale secondo la quale non è lecito uccidere nessuna vita umana se ciò
non è giustificato dalla legge penale o dalla legittima difesa.
II. - Obiezioni.
Ma si potrebbe replicare che anche su piano umano ed etico
si da una evoluzione. E perciò non si dovrebbero erigere princìpi
assoluti, ma bisognerebbe cercare a seconda delle nuove situazioni norme
nuove. Allora la buona volontà troverà con il tempo anche la giusta
strada. Dobbiamo allora entrare con più precisione nell'essenza della
nostra questione.
È da sottolineare anzitutto che un intervento è sempre
un intervento (Eingriff). L'esperienza dimostra che esso non è
affatto quella piccolezza che spesso viene supposta, ma che è una
minaccia reale per la salute fisica. Questa pericolosità è tanto più
grande quanto più sfavorevoli sono lo stato generale della madre e le
possibilità di nutrimento, di riposo e di cure. Dunque la stessa
situazione che dovrebbe provare il diritto della indicazione sociale
rappresenta nello stesso tempo un'obiezione contro di essa.
Meno esattamente ancora della pericolosità fisica si
suole valutare la pericolosità spirituale. La vita umana in formazione
nel grembo materno è qualcosa di ben diverso da una qualsiasi escrescenza
la cui eliminazione sarebbe un alleggerimento. Quella vita
182
sì trova nella più intima relazione con l'essere della
donna e con Yethos della sua esistenza. Il corpo e la anima della
donna sono orientali ad essa e preparano l'essenza della madre.
L'intervento spezza dunque uno sviluppo a cui partecipa tutta la vita
fisica, spirituale e il carattere della madre. Sorprende e sconvolge
vedere come tutto ciò venga preso alla leggera: da certe donne e
soprattutto dagli uomini i quali sono inclini a misconoscere il contesto
in cui si trovano i vari processi della vita femminile sia tra loro sia
rispetto all'insieme. Per trovare un parallelo nell'uomo, si dovrebbe
pensare a un intervento che annientasse l'opera in cui egli avesse
impegnato e compromesso tutto se stesso.
Bisognerebbe avvertire inoltre che esistono non soltanto
gli efletti apertamente verificabili, ma anche quelli inconsci: le ferite
inferiori del fondo dell'animo, le quali spesso non appaiono chiare
neppure a colui che ne è stato ferito, e tuttavia pongono in crisi tutta
la sua struttura intima; gli aggravi della coscienza vitale che
irresistibilmente eseguono l'autopunizione, e spesso in situazioni e
occasioni che paiono assai lontane da quell'evento. Certe improvvise
me-lanconie, certo incomprensibile spezzarsi dell'iniziativa vitale, certe
apparentemente immotivate insicurezze nel rapporto con il proprio
ambiente, qualora venissero attentamente esaminate nella loro linea a
ritroso, condurrebbero fino a qualcuna di queste ingiustizie commesse
contro le radici della vita, per ragionevoli e pressanti che fossero
apparsi i motivi a favore di quanto s'era fatto.
Si potrà obiettare a tutto ciò, lo vediamo bene, che
esistono pericoli anche là dove l'intervento non si e-segue, pericoli
fisici e spirituali. La questione dunque non è ancora decisa con i motivi
ora citati.
183
Un peso maggiore potrebbe avere il richiamo a un altro
pericolo. Secondo l'opinione dei suoi sostenitori, la indicazione sociale
fonderebbe il diritto di uccidere la vita umana in formazione, quando
dalla sua nascita derivassero svantaggi gravi per la sua famiglia e per il
bambino stesso. Ma il principio, una volta ammesso, si fermerebbe alla
.indicazione « sociale »? Negli anni scorsi non se ne è forse rivelata
già un'altra, e cioè la indicazione « politica »? Non era allora stato
dichiarato dalla istanza massima che fa ed esegue la legge, cioè dallo
Stato, che era di pertinenza sua di decidere se una persona appartenente
alla sua sfera di potere potesse conservare la vita o perderla? E non
perché essa avesse commesso un delitto, anzi neppure perché la sua
esistenza rendesse intollerabile l'esistenza di altri, ma semplicemente
perché appariva indesiderabile allo Stato in conseguenza di certi precisi
attributi, per esempio, la sua appartenenza a un determinato popolo. Tutto
questo sembra uscire dalle pagine d'un utopico romanzo del terrore. È
stato invece teoria e prassi ufficiale durante lunghi dodici anni. Da una
simile concezione potrebbe essere ricavata senz'altro la conseguenza che
lo Stato ha il diritto di decidere di quali bambini possa essere portata a
termine la gravidanza e di quali no. E chi potrà dire fin dove l'avvenire
arriverà avanzando su questa dirczione? Quale popolo potrà ancora
apparire indesiderato a qualche Stato?
Non appena in tali questioni crolla il principio assoluto
e al suo posto si colloca un giudizio pratico di utilità o di nocività,
tutto sdrucciola. Può essere proclamata una « indicazione » dopo
l'altra e per ognuna ci saranno a disposizione lunghe serie di convincenti
motivi, senza nulla dire delle tecniche dell'esecuzione. Ma tutto ciò
significa che il pensiero etico
184
con la sua distinzione fra giusto e Ingiusto capitola
davanti alla « vita » e ai suoi scopi, così come essa s'incarna nello
Stato.
III. - II punto di vista decisivo.
La risposta definitiva sta nel richiamo alla realtà di
fatto che « la vita in gestazione » è una creatura umana. Ora, non è
lecito uccidere una creatura umana, a parte la legittima difesa e l'ordine
del diritto. Il motivo sta nella dignità della sua persona.
L'uomo è intangibile non perché vive ed ha perciò un «
diritto alla vita ». Anche l'animale avrebbe un tal diritto, anch'esso
vive e, se si confronta un bell'animale vivo nella libera natura con un
essere umano malato e colpito dal destino, l'animale può apparire perfino
più vivo. Ma la vita dell'uomo è intangibile perché egli è persona.
La persona è la capacità di autopossesso e di
autoresponsabilità; attitudine alla vita nella verità e nell'ordine
morale. Essa non è di natura psicologica ma esistenziale.
Fondamentalmente essa non dipende ne dall'età, ne dallo stato
fisico-psichico, ne dalle capacità, ma dall'anima spirituale propria
d'ogni uomo. La personalità può essere inconsapevole come nell'uomo che
dorme; tuttavia essa c'è e dev'essere rispettata. Essa può essere non
ancora evoluta come nel bambino;
tuttavia già postula la protezione morale. È perfino
possibile che essa non venga neppure all'atto, mancando le condizioni
psico-fisiche, come nel folle o nello idiota; ma l'uomo civile si
distingue dal barbaro per .il fatto che egli la rispetta anche sotto tali
spoglie. Così essa può esistere anche nascosta come nell'embrione, ma vi
è già insediata e ha il suo diritto.
Questa personalità dona all'uomo la sua dignità. Es-
185
sa lo distingue dalla cosa e lo costituisce soggetto. U-na
cosa ha bensì consistenza, ma non consistenza autonoma; ha bensì
effetti, ma non responsabilità; bensì valore, ma non dignità. Si tratta
qualcosa come cosa quando la si possiede, la si adopera e infine quando la
si distrugge, il che però vuoi dire, quanto alla vita, la si uccide. Il
divieto di uccidere l'uomo rappresenta il culmino supremo del divieto
di trattarlo come cosa. Viceversa era un fatto del tutto
conseguenziale che lo Stato, allo stesso modo che la sua concezione del
mondo rinnegava la dignità spirituale della persona e considerava l'uomo
come un puro individuo della specie o come un elemento del complesso
sociale, pretendesse anche il diritto di ucciderlo qualora ciò
corrispondesse ai suoi scopi.
{ II rispetto dell'uomo in quanto persona appartiene
"( a quei postulati che non è lecito discutere. La dignità, ma
anche il benessere, anzi in definitiva la consistenza dell'uomo dipendono
da questa non discutibilità. Se quel rispetto viene rimesso in questione,
tutto slitta nella barbarie. Incalcolabili sono ancora le minacce che
incombono sulla vita e sull'anima dello uomo, se egli verrà esposto senza
la protezione di quel rispetto al potere dello Stato moderno e alle sue
tecniche.
Di qui consegue anche la risposta alla asserzione di
continuo rinnovata che la donna ha il diritto di disporre liberamente del
proprio corpo; e che perciò le è lecito desiderare che le venga
modificato quello stato del suo corpo che si chiama gravidanza per mezzo
di operazioni utili allo scopo. Ma il bambino non è semplicemente «
corpo della madre »; non è soltanto una sua parte, come un organo o una
malformazione, ma è invece una creatura umana in formazio-
186
fìe. Con questa realtà di fatto viene espressa l'essenza
più intima della maternità e, in quanto riferita alla maternità,
l'essenza femminile in genere. Essere madre non significa « generare la
vita » — questo lo fa anche l'animale — ma significa « donare la
vita a una creatura umana ». Ora una creatura umana è persona, dapprima
assopita, poi lentamente emergente; in tal modo cresce in un immediato
rapporto | di vita con la madre un essere che le è sottratto, quan-1 to
alla sua più intima determinazione. Si fonda in ' questo la grandezza, ma
anche il lato tragico della maternità. Il bambino è unito nel modo
più profondo alla madre e costituisce insieme con essa un unico circolo
vitale. Il bambino tuttavia non si risolve in esso, ma sta
simultaneamente, fin dal primo istante della sua esistenza, in immediato
rapporto con l'esistenza, con le norme assolute, con Dio.
Sulla maternità sono stati profusi torrenti di
sentimentalismi; e con preferenza da quelli che, quando i loro interessi
ve li spingevano, erano capaci di trascurare senza scrupolo alcuno proprio
la dignità e i diritti della maternità. Già le inflessioni linguistiche
con cui si soleva — e ancora si suole — parlare di tali cose
dovrebbero rendere perplessi. Chi parla in questi modi non è genuino. I
consensi e le glorificazioni che vi si esprimono sono di genere
isdntivo-senti-mentale e possono ad ogni momento rovesciarsi nel loro
contrario: in disistima, abuso, anzi crudeltà, poiché ciò che in tali
cose è unicamente determinante, cioè la persona della donna e del
bambino, vi è irreperibile. Ma è qui che si decide del carattere della
maternità. Anzi è qui che ancora prima si decide il rapporto verso il
proprio corpo. Non è vero che la donna ha semplicemente « diritto di
disporre del proprio corpo », come egualmente neppure l'uomo. Essi
187
hanno questo diritto di fronte alle pretese altrui, di
fronte alle pretese dello Stato, ma non assolutamente, poiché il corpo
loro non è un corpo semplicemente animale, ma un corpo umano e, anche di
fronte alla volontà del suo proprietario, sta sotto la tutela di quelle
norme che determinano l'esistenza personale. Ma questo aspetto del
problema non può questa volta occuparci. Quanto ora ci importa è che il
bambino nel grembo della madre, da un lato le appartiene e vive di lei,
dall'altro le è sottratto, giacché egli sta sotto la legge della propria
personalità, ancora addormentata bensì ma già data. La madre non è la
_p adrona della vita che si vien formando in lei, ma questa vita le è
affidata. Perciò non ha su di essa _essen2Ìalmente_diritti _maggiori
di quanto ne abbia un uomo sopra l'altro uomo.
Un esempio parallelo assai pertinente dimostra di che cosa
realmente si tratta. L'asserzione che il bambino nel grembo della madre è
semplicemente una parte del suo corpo sta sulla stessa linea
dell'asserzione che l'uomo nello Stato è semplicemente una parte del |
tutto statale. La mentalità che permette alla madre i di disporre del
bambino che vive in lei deve consentire anche allo Stato di disporre
dell'individuo che gli appartiene. Ora, contro di ciò insorge l'orrore
proprio dell'uomo del nostro tempo: l'orrore d'essere offerto
in_balia d'una istanza che rinnega il suo auto-diritto in quanto persona,
_il suo rapporto con le supreme norme, la sua relazione immediata con Dio;
dell'istanza che afferma che egli è in tutto e per tutto
una sua parte e che egli ha soltanto per suo tramite un rapporto con
Resistenza, e che per esercitare que-_sta_sya pretesa di potere dispone
d'una potenza sempre più grande e d'una tecnica sempre più sicura.
E tutto ciò non soltanto contro la volontà del singolo
188
ma anche, per mezzo della suggestione e della propaganda,
nell'intimo del singolo, a tal punto che il giudizio di colui che viene
sopraffatto capitola davanti al sopraffattore e crea la teoria per
giustificare il crimine.
Infine non vogliamo dimenticare quanto segue. Se si
riconosce ai genitori il diritto di far uccidere, sulla base all'«
indicazione sociale », la loro creatura in formazione, a tale diritto
deve corrispondere fondamentalmente dall'altra parte un dovere, quello
cioè di eseguire l'uccisione. Lo Stato non può affidare l'esecuzione
dell'intervento alla iniziativa privata per gli enormi inconvenienti che
ne conseguirebbero. Se dunque :
lo Stato dichiara che in determinate condizioni di
necessità i genitori possono desiderare la interruzione della gravidanza,
deve anche provvedere che ciascuno . nel caso la esegua come di fatto si
deve. Il medico [ singolo può rifiutarsi; ma se si verifica il
caso limite { che tutti i medici disponibili si rifiutano, lo Stato
' deve procedere alla costrizione, j Ora i casi limite sono rivelatori di
ciò che avviene di norma e che normalmente non viene avvertito.
Noi siamo precisamente arrivati alla conseguenza che — come negli ultimi
oscuri dodici anni — un uomo è condotto dallo Stato nella situazione di
compiere ciò che per la sua coscienza è un delitto o di perdere la sua
professione e il suo lavoro: una delle peggiori forme di distruzione
sociale che possa concepirsi.
IV. - Una nuova obiezione.
Ma insorge contro quanto è stato fin qui esposto una
obiezione importante che noi dobbiamo discutere affinchè non venga di
nuovo tutto rimesso in questione.
189
L'obiezione dice: l'uccisione della vita in formazione
negli sviluppi di questo scritto è stata collocata sotto le norme che
hanno valore per l'uomo. Ma il frutto nel grembo materno è davvero un
uomo?
Che lo sia negli ultimi mesi del suo sviluppo non dovrebbe
essere discutibile. Sarebbe assai primitivo affermare che lo diventa
soltanto nell'istante in cui si stacca dal grembo materno. La psicologia
è in grado di penetrare, per le vie dell'inconscio, perfino nella vita
psichica del bambino non ancora nato, e la pedagogia parla d'una
educazione prenatale. Ma è uomo anche l'embrione fin dal primo istante
del suo sviluppo? Oppure lo diventa in un momento da determinarsi con
precisione fra la concezione e la nascita, in modo che, dal punto di vista
della nostra questione, l'importante è di determinare con precisione
questo momento per poter eseguire l'intervento senza scrupoli morali?
È stato detto che il germe nel suo primo tempo, nei primi
cento giorni circa, non è ancora un essere distinto, ma — e con questo
riprendiamo da altra angolazione un pensiero già sopra cominciato — è
una struttura che appartiene del tutto all'organismo materno. Ma non
appena si considera senza pregiudizio tale asserzione, si vede subito che
essa non è un postulato dell'oggetto in se stesso, ma che vi accede da
fuori, da motivi che dipendono da determinati interessi vitali. E si vede
inoltre che alla base dell'asserzione sta una concezione del tutto
meccanicistica del vivente.
Quale sarebbe la risposta che verrebbe data a chi
affermasse che una certa pianta sarebbe data come tale soltanto quando il
carattere dell'albero spicca chiara-
190
mente? O a chi affermasse che un animale, il cui sviluppo
si svolge al di fuori dell'organismo materno, un pesce per esempio, è
questo pesce soltanto quando ha le pinne e la coda e il resto che
appartiene alla sua , forma caratteristica? La risposta sarebbe che
affermazioni simili sono assurde, poiché la particolare forma di
esistenza del vivente consiste precisamente nel fatto che esso emerge da
un principio semplice, cioè dalla divisione di una cellula ovvero dalla
fusione di due ;
cellule e realizza una serie di trasformazioni fino al \
pieno sviluppo morfologico, per arrivare poi da que- ' sto punto,
attraverso forme varie di irrigidimento e di decadenza, alla morte. I
singoli stadi — e questo è l'essenziale — non si accumulano come
dall'esterno, ma costituiscono un tutto, una Gestalt nel più
rigoroso senso della parola. Ciò che noi chiamiamo organismo ha, dai
punti di vista che qui c'interessano, due forme fenomeniche. Anzitutto
quella consistente nella contemporaneità in cui diverse strutture, a
cominciare dalle molecole di albumina fino agli organi più complicati, si
compongono in una struttura generale:
chiamiamola la Gestalt di struttura. La seconda
consiste nella continuità in cui i diversi stadi, attraverso cui è
passato o ha da passare l'individuo, a cominciare dalla forma primigenia
della cellula originaria che si divide o delle cellule seminali dei
genitori che si uniscono fino alla completa maturità e all'estrema
disintegrazione, pure compongono una struttura generale; detto con più
precisione, ogni fase è ordinata al tutto della serie evolutiva:
chiamiamola Gestalt del divenire. Questa Gestalt del
divenire è esattamente necessaria e per l'essere vivente in questione
altrettanto caratteristica quanto la Gestalt di struttura, ed è
egualmente impossibile cancellare una fase da quella quanto un membro da
questa. Le due forme, quel-
191
la di struttura e quella del divenire, sono l'una
all'altra congiunte. Più precisamente: esse sono la stessa cosa, appunto
l'organismo, là in rapporto allo spazio, qui in rapporto al tempo. Le due
cose formano un'unità che non può essere spezzata, perché ogni elemento
è determinato dal tutto e viceversa il tutto abbisogna d'ogni singolo
elemento. « L'albero » è quel complesso che sta nella contemporaneità
dello spazio, articolato in radici, tronco, rami e foglie; ma è anche
quella serie di fasi che sta nella continuità del tempo ed è composta
del seme, del germoglio, dell'albero adolescente e del grande albero
evoluto; sempre esso stesso in ogni sua fase, realizzato completamente
soltanto nella serie completa fino all'estremo morire delle radici.
Asserire dunque che l'essere in questione comincia ad essere se stesso
soltanto quando ha attraversato un certo numero di forme evolutive,
sarebbe dunque piatto meccanicismo, giacché in tal modo, in luogo della
totalità vivente, si porrebbe una somma di frammenti. Chi ha capito che
cos'è un « organismo », non potrà che dire che l'essere vivente in
questione comincia con la divisione delle prime cellule o con la fusione
delle cellule genitali.
Questo vale anche per l'uomo. L'arco della Gestalt del
suo divenire comincia con la fusione delle cellule genitali, culmina nella
maturità morfologica e dura fino alla morte. Egli è dunque già un uomo
nell'istante della concezione, come pure ancora lo è nell'ultimo istante
dell'agonia. Pensare diversamente non è logicamente possibile.
Se a tutto ciò si obietta come, allora, già le prime
fasi dello sviluppo possano portare il peso spirituale della dignità
umana, bisogna un'altra volta rispondere che questo è materialismo, un
pensare quantitativo in luogo d'un autentico pensare qualitativo,
m
Giacché già le prime cellule contengono tutta la
potenzialità d'ordine della vita seguente; contengono la possibilità di
tutte quelle forme che emergono non solo nel corso dell'evoluzione
embrionale, ma anche di quella che segue alla nascita attraverso la
fanciullezza, la maturità e la decadenza. Affinchè dalla quantità 2
esca la quantità 5, occorre aggiungere 3, altrimenti rimane 2. Affinchè
però dallo stadio primo dell'organismo escano gli altri stadi, non
occorre nessuna aggiunta, ma soltanto uno sviluppo: tutto il seguito è
già potenzialmente presente.
La concezione meccanicistica non può rendere giustizia
all'essenza della vita, perché essa la considera come una
giustapposizione esteriore, come una macchina. Ma essa implica inoltre un
forte pericolo a riguardo della comprensione dei valori, il pericolo cioè
di restare sotto l'influsso del quantum, sia della massa, sia della
quantità. Chi pensa a questo modo vedrà tanto meno l'uomo nell'embrione
quanto minore è la sua entità quantitativa e quanto minore è la
differenziazione dello stadio evolutivo che lo concerne. Proprio per
questo egli troverà sempre meno ostacoli ad attentare alla sua vita.
Inoltre non possiamo dimenticare che questo modo di
concepire ha altre conseguenze ancora. Detto in termini generali, esso
pensa che l'essere uomo non sia un carattere essenziale, ma qualcosa che
si da in un grado più o meno grande, e precisamente nella misura in cui
lo stadio evolutivo in questione s'avvicina a un optimum, al
livello più alto di ricchezza di forme e di energia di vita. Ma una
graduatoria s'impone così non soltanto nello sviluppo embrionale finora
trattato, bensì anche in altri punti del contesto vitale. La distanza
dall 'optimum può essere conside-
193
rata a ritroso in ordine al principio, e allora la
conseguenza suona: quanto più precoce è lo stadio dello sviluppo
embrionale, tanto meno si avrà l'uomo. Ma la graduatoria può essere
considerata anche in dirczione opposta, in ordine alla fine, e allora la
conseguenza sarà: quanto più oltre si trova lo stadio dello sviluppo
rispetto al livello massimo già raggiunto, quanto più vecchio in senso
specifico diviene l'individuo, tanto meno dunque egli è uomo. Anzi la «
distanza » dall''optimum può imporsi anche a causa di tutte
quelle incidenze negative che si chiamano malattia, debolezza e disgrazia,
e allora si trarrà questa conseguenza: quanto più un individuo è malato
o debole o in qualsiasi modo menomato, tanto meno egli potrà rivendicare
per sé il carattere di autentica umanità.
Dipende allora soltanto dal modo in cui si applicano i
criteri per giungere a dichiarare « indicata » non soltanto la
eliminazione delle forme degeneri embrionali, ma anche di quelle
postnatali. E sarà necessario ricordare un'altra volta che la teoria e la
prassi del passato recente ha dedotto anche realmente una simile
conseguenza e in tutta consapevolezza quando si eresse l'orribile
principio della « vita indegna di vivere ». Vittime d'una simile
concezione sono stati anzitutto i malati e i deboli di mente, sarebbero
seguiti i malati incurabili — a meno che non siano di fatto già seguiti
— e poi i vecchi e gli inabili al lavoro avrebbero chiuso la fila. Ma in
tal modo sarebbe stata definitivamente abbondonata la sfera d'un'esistenza
umanamente degna, giacché una mentalità che pensa così è barbarie nuda
e cruda.
In realtà la concezione, la morte, la crescita, la
decadenza, la fanciullezza, la vecchiaia, la salute e la malattia
appartengono tutte a quel « tutto » che si chia-
194
ma « l'uomo ». Esse sono elementi della sua esistenza
complessiva, poiché quest'esistenza non è soltanto natura, ma anche
storia. Non ha soltanto uno sviluppo, ma anche un destino. In essa si
verificano non soltanto avanzamenti, ma anche resistenze e crisi, vittorie
e sconfitte, superamenti ed espiazioni. E la malattia coraggiosamente
sopportata, l'incapacità di agire da cui scaturiscono la bontà, la
saggezza e la maturità, sono molto più « degne di vivere »
d'una salute che rende brutali e d'un attivismo che esteriorizza del tutto
la vita.
Chi pensa con logica conseguenziale non può se non dire
che l'uomo esiste fin dal suo primo istante del suo sviluppo, e cioè
dall'unione delle cellule genitali nell'uomo reale e autentico. In
conseguenza di ciò tutti gli stadi del suo divenire stanno sotto le norme
che hanno valore per l'uomo.
Anzi si può dire anche più incisivamente: se qualcuno,
proprio dal fatto che la somiglianzà umana esteriore dell'embrione
diminuisce sempre più negli stadi anteriori, si sentirà indotto a non
considerarlo più come una creatura umana, o qualcuno invece si sentirà
indotto dalla sua vigile coscienza a. proteggere la sua ancora velata
umanità, di qui si misura la genuina maturità morale.
L'inerme è affidato al forte, e nel fatto che questi
adopera la sua superiorità a proteggerlo sta la distinzione tra forza e
violenza. Questa cura acquista un carattere decisivo per tutta l'esistenza
quando si esercita là dove si tratta della vita in formazione. Perciò
noi restiamo sempre commossi dalla capacità di immolare se stessa da
parte della vera madre al servizio di questo compito. Allo stesso compito
serve il padre quando difende la madre e il bimbo che si forma in lei. Ad
esso serve anche il medico che è in
195
grado di vedere l'uomo anche là dove lo sguardo non
esperto ancora non lo vede e che si trasforma in suo avvocato contro tutte
le considerazioni d'utilità ab exteriori.
Abbiamo espresso in questo modo qualcosa che definisce Yethos
più profondo del medico. Il vecchio maestro della pedagogia Hermann Nohi
ha definito una volta l'educatore come quell'uomo che sostiene e
rappresenta il significato della gioventù contro tutte le pretese di
potere della società, e francamente anche contro i suoi propri stati
istintivi. Vale anche per il medico qualcosa di analogo. Egli rappresenta
il diritto dell'uomo malato contro la brutalità del sano. E rappresenta
il diritto dell'uomo in formazione contro l'egoismo dell'adulto, anche di
quell'egoismo che viene dal bisogno. Occorre per questo una
incorruttibilità che si fonda su una visione chiara dell'essenza
dell'uomo e dell'incondizionata obbligazione verso la sua dignità. Il
medico sa più di tutti sul dolore. Ma sa pure che il dolore umano è ben
diverso da quello dell'animale, perché l'uomo è persona insop-primibile
nella sua dignità spirituale e non rappresentabile da altri nella sua
eterna responsabilità. Questo dato di fatto è normativo per
l'atteggiamento del medico. A lui è stato affidato lo stato infermo o
inerme del singolo non soltanto come fenomeno psicofisico o come elemento
del benessere generale, ma come contenuto della persona, della sua
consistenza e della sua garanzia. Perciò egli non potrà mai agire come
se essa non ci fosse; il suo dovere anzi è quello di difenderla nella
sfera della sua esistenza anche contro motivi che sono bensì buoni per se
stessi, ma che devono restare subordinati a valori superiori, soprattutto
all'intangibilità della persona.
196
V, - II principio fondamentale e la necessità (Noi}.
Ma non abbiamo, in queste nostre considerazioni, perduto
di vista il bisogno di molti, un bisogno grande al punto che non si vede
neppure più in che modo possano riuscire a vivere? Io non lo credo,
giacché ci sono due modi di soccorrere le pene umane.
Il primo è senz'altro comprensibile. Consiste nel lenire
le pene e nell'allontanare le loro cause immediate. L'altro non è subito
così evidente, ma è egualmente importante, anzi anche più importante.
Consiste nel-l'aiutare l'uomo in modo che egli conservi una visione
globale della vita, un sentimento che colga ciò che è essenziale in
essa, un intuito che avverta le distinzioni assolute, e che, fondato su
questi punti di vista, egli si sostenga di fronte a ciò che gli avviene
di penoso. Per quanto sia importante il primo modo, quando esso
contraddice al secondo diviene nocivo. Chi ha liberato una famiglia da
nuove restrizioni nelle sue possibilità d'esistenza e di sostentamento
uccidendo una vita in formazione ha per il momento aiutato; ma, a lungo
andare e visto il fatto nel suo insieme, egli ha reso più profonda la
loro situazione negativa. Ha fatto come chi per riscaldare la casa si
serve delle travi che la sostengono. Lì per lì ci si riscalda, ma
poi la casa crolla.
Nel problema che qui ci occupa s'incrociano le questioni
più diverse: giuridiche, economiche, sociali, psicologiche, e da non
dimenticare quelle del più duro bisogno individuale e generale. Queste
questioni sono così impellenti che viene di continuo la tentazione di
dire che occorre rimediare subito e che tutto il resto è indifferente.
Tale sentimento è comprensibile ed anche realmente stimabile, tuttavia è
nel torto.
197
Bisogna che attraverso il groviglio delle idee e dei
pareri risulti chiaro che in ultima analisi si tratta
d'un'unica questione. Essa porta, oltre il problema particolare da cui noi
siamo partiti, a quello essenziale e fondamentale, e suona così: l'uomo
appartiene a se stesso o alla famiglia e allo Stato, oppure sta sotto la
sovranità d'una Istanza assoluta, la cui norma trascende i desideri
personali e le esigenze sociali?
Se vale l'asserzione prima, l'uomo resta allora in balìa
di se stesso, in balìa dei suoi eventuali desideri, bisogni e pensieri;,
ed egualmente in balìa della situazione sociale o della sua espressione
di potenza, lo Stato. Ma entrambi, individuo e Stato, troveranno sempre
motivi — e spesso ottimi, convincenti, ma penultimi o terzultimi e
perciò, in ordine al tutto, falsi
— per conferire a quello che vogliono il carattere della
unica decisione giusta. Ne abbiamo fatta l'esperienza.
Se invece vale la seconda asserzione, c'è allora di
fronte ai desideri e alle pressioni dell'individuo, come pure di fronte
alle suggestioni della situazione sociale e alla potenza dello Stato, una
barriera assoluta. Questa barriera non proibisce soltanto, ma anche
protegge: protegge sia l'uomo sia lo Stato — quanto v'è d'autentico
nell'uomo e d'autentico nello Stato
— dalle deviazioni che da essi stessi possono emergere.
Tale protezione viene da una norma, e ogni norma obbliga. Essa esige così
in certe circostanze sacrifici, pesanti soprattutto per quelli che non
intendono perché li debbano fare, o per quelli che hanno l'impressione
che una certa norma protegga solo determinati gruppi, che sia
l'espressione d'una giustizia di classe e via dicendo. In realtà, essa
significa la difesa dell'uomo in assoluto come tale.
198
Esiste una logica della scienza, ma esiste anche una
logica dell'esistenza. La prima sta alla luce del giorno, come quando essa
dice che una pietra, essendo attirata dalla forza di gravita verso il
centro della terra, non si può muovere verso l'alto. La seconda è più
difficile da comprendere, ma è inesorabile quanto la prima. Essa afferma
che operazioni eticamente false, per utili che appaiano, alla fine
risultano cata-strofiche. Mentire può essere utile una volta, dieci,
cento, volte, ma in ultima analisi il mentire elimina qualcosa su cui si
fonda la vita, e cioè elimina nel proprio intimo la stima di sé e nel
rapporto con gli altri la fiducia. È un danno contro il quale non si da
rimedio. Questa conseguenza è inesorabile altrettanto quanto la legge di
gravita. Una logica di questo genere domina anche nel nostro caso. C'è
nell'uomo qualcosa che per sua stessa essenza non può essere toccato:
l'altezza della persona vivente. Motivi importanti si possono presentare
per attentarvi ciononostante; anzi, essi possono farsi così impellenti
che colui che viene a contrastarli può apparire un dottrinario senza
cuore. E tuttavia: se vi si cede, la fine sarà la distruzione; e
distruzione proprio di quello che si doveva salvare.
Si reclama il diritto per l'intervento di cui qui si è
trattato in vista della libertà e della possibilità di espansione della
vita stessa: ma il bilancio finale sarà l'esposizione della vita in
balìa dell'egoismo del singolo o degli scopi dello Stato. Ed è tempo, è
urgente tempo che impariamo a vedere le conseguenze. Noi abbiamo appunto
fatto esperienza che cosa significa quando si concede prima questo e poi
quello e poi quell'altro, ogni volta con la giustificazione che non è
possibile altrimenti, ogni volta con la tranquillante idea che non si
arriverà di certo al peggio: e il peg-
199
gio è arrivato d'un tratto. Ogni violazione della
persona, soprattutto quando è compiuta con la sanzione della legge,
prepara lo Stato totalitario, e respingere questo ma accettare quello non
parla a favore ne d'un chiaro pensiero, ne d'una vigile coscienza.
C'è del resto, nel chiaro principio fondamentale, anche
un aiuto pratico immediato. Medici esperti dicono che il medico che si
rifiuta per motivi medici di attentare alla vita in formazione diventa
più acuto osservatore e inventore ed è poi in grado di risolvere
felicemente casi che parevano senza via d'uscita. Qualcosa d'analogo vale
anche nel nostro caso.
Problemi come quelli che abbiamo trattati devono essere
considerati in ordine alla totalità e alla durata dell'esistenza della
famiglia e del popolo, altrimenti non si fa che un lavoro di rattoppo. Ma
non ci può essere dubbio che una concezione come quella che afferma la «
indicazione sociale » paralizza le forze del carattere e l'iniziativa
della vita. Se, al contrario, i genitori sono persuasi che ogni vita umana
sta fin dalla sua origine sotto la legge morale che ne vieta l'uccisione,
questa persuasione li renderà più coscienziosi, più pronti al
sacrificio e più vigorosi nell'azione. In questo sta, visto in ordine al
tutto e alla durata, il che vuoi dire dal punto di vista davvero sociale,
l'aiuto che importa soprattutto dare e ricevere.
Concludendo, ho ancora da dire un'ultima cosa. I fautori
della « indicazione sociale » dichiarano con questo stesso che degli
uomini avrebbero a tal punto scarsezza di alimento, di alloggio e di
possibilità vitali che vite umane in formazione dovrebbero essere
soppresse, qualora altrimenti le misure di sussistenza per i già viventi
dovessero farsi ancora più anguste. Ma questo significa che l'ordine
economico-sociale è sovvertito dalle fondamenta.
200
Prima che lo Stato, a rimedio di tale situazione di
disordine, passi ad attentare alla vita umana; prima di incoraggiare le
madri a desiderare l'uccisione del loro bambino nel loro grembo o anche
prima di permetterlo unicamente, dovrebbe esaminare — con tutta la
serietà della coscienza — se non abbia fatto tutto — realmente tutto
— ciò che è possibile per restaurare un ordine autentico. Allora si
arriverà senza dubbi al risultato che se lo Stato vuole, realmente vuole,
non sarà necessario uccidere affinchè si possa vivere. Sarà necessario
soltanto agire e saper compiere dei sacrifici.
Ci sarebbe molto da dire in proposito: se questa
responsabilità sia anche di fatto vista e assunta in pieno; se essa venga
applicata realmente e in modo corrispondente nell'utilizzazione del
pubblico denaro, nell'amministrazione degli alimenti e degli alloggi e via
dicendo. Ma sarebbe l'argomento d'un nuovo discorso. A noi importava per
ora l'elemento fondamentale; e il fondamentale non è, come credono certi
presunti « pratici », teoria superflua, ma chiarificazione e conferma
del « fondamento » su cui tutto poggia, anche la pratica retta.
201
x
LA DOMENICA: IERI, OGGI E SEMPRE
Avvertenza.
La domenica non è soltanto un fatto dell'uomo individuo,
della sua anima religiosa e del suo bisogno di riposo, ma della comunità,
più esattamente, dell'ordine comunitario. Se la domenica non resta più
inserita in quest'ordine, essa perde non soltanto la dignità che da quel
rapporto le deriva, ma sarà anche distrutta dagli interessi e dalle
trascuratezze a cui essa è d'inciampo.
La domenica fu sempre insidiata da interessi vari. La fede
e la responsabilità per la sanità religiosa d'un popolo hanno sempre
dovuto lottare a favore della santificazione della domenica, e il
risultato di questa lotta ha sempre rappresentato un metro per misurare la
sanità religiosa. Essa entrò in stadio critico quando l'ordine cristiano
non venne più considerato valido per la generalità, e questa gli divenne
straniera o perfino ostile. Nel frattempo si sono invece sviluppate forme
dell'economia determinate unicamente da punti di vista tecnico-economici,
sulla base dei quali l'ordine cristiano della vita apparve sorpassato,
anzi d'ostacolo. Oggi quindi la questione è se la parte cristiana della
popolazione senta la propria fede come abbastanza importante da
costringere la tecnica e l'economia a rispettare i propri punti di vista.
Che un rispetto di questo genere sia possibile, non si discute. Ammesso
che la conservazione della domenica apporti vantaggi decisivi di ordine
industriale o tecnico-commerciale, si troverebbe senza alcun
202
dubbio un modo per assicurarla. Il problema è quindi in
definitiva se la parte credente della popolazione sarà decisa a mantenere
un ordine che ha, da millenni, improntato la vita umana, o se si lascerà
indurre a sacrificarlo per ragioni di natura puramente terrena — punti
di vista al riguardo che sono ancora senz'altro fluidi e che possono
ancora modificarsi a dispetto di tutte le affermazioni dottrinarie.
I. - Vita e ritmo.
Per arrivare a garantire una base di partenza
nell'essenziale dei problemi odierni, vogliamo anzitutto acquisire
coscienza del significato religioso della domenica e della sua evoluzione
nel corso della storia. Ma questo problema dev'essere anticipato da un
altro: se cioè questo significato non preesista già in fase preparatoria
nel corso naturale della vita.
Il vivente non emerge come qualcosa di già definitivo, ma
come un germe, il quale poi con il tempo si sviluppa nella sua forma
caratteristica per mezzo d'un'evoluzione spontanea e dei vari influssi
dell'ambiente. Ora questa crescita non procede alla rinfusa, bensì
s'adegua a una legge Ulteriore del tempo, legge che si esplica in un
mutarsi e in un ripetersi di processi, ossia in un ritmo della vicenda
vitale. Il fondamento di questo ritmo è formato dal moto della terra nel
suo rapporto con quello del sole e della luna. Consegue di qui —
condeterminata da condizioni naturali climatiche e d'altro genere — una
periodicità di fasi d'intensità della luce e del calore, nel cui ordine
è vissuto lo svolgimento della vita.
Il massimo dei ritmi compresi in questa periodicità è
l'anno: dunque il mutamento provocato dall'influs-
203
so del sole che a partire dalla sua posizione più bassa
all'orizzonte nell'inverno, attraverso la sua pozione più alta
nell'estate, perviene di nuovo alla posizione più bassa. Il ritmo più
piccolo è il giorno:
il mutamento che subisce l'intensità della luce e del
calore a partire dalla mezzanotte, attraverso il mezzogiorno, di nuovo
fino alla mezzanotte. Il terzo di questi ritmi è determinato non dal sole
ma dalla luna e va dalla luna nuova, attraverso la luna piena, di nuovo
alla luna nuova. È il mese, dodicesima parte dell'anno.
Ora appare tuttavia che la nostra vita non può
semplicemente superare un periodo lungo come quello dal giorno al mese
senza una ulteriore divisione del tempo. Questa viene definita non dai
ritmi delle sfere celesti ma da un confluire della forza spirituale
ordi-natrice dell'uomo con esigenze biologiche e psicologiche: la
settimana. Lo si può chiamare ritmo culturale, per distinzione da quelli
naturali.
Abbiamo così definito i fondamenti della domenica. Essa
ritorna circa quattro volte nel corso di un mese e indica il tempo della
distensione richiesto dai ritmici bisogni della vita. Durante il giorno le
energie umane sono assorbite dall'opera e dalla vita. La notte apporta
l'interruzione e il riposo, dovrebbe quantome-no apportarli se i costumi
culturali non lo rovinano e non rovesciano il giorno e la notte. Ma la
tensione dei singoli è tale che ad essa non si può del tutto porre
rimedio mediante la notte. Rimane un residuo che giorno per giorno cresce
e che richiede un più profondo riequilibrio. Questo si attua con il fatto
che dopo una serie di sei giorni resta a disposizione non una sola notte
ma una intera unità di ventiquattro ore, nella misura in cui anche qui
non rimane ancora
204
un residuo di tensione che esiga un riequilibrio
definitivo nella forma delle vacanze.
In ogni caso si dimostra che il giorno del riposo è di
importanza fondamentale per la salute del corpo, per la capacità di
prestazione dello spirito e per l'equilibrio della vita intera. Si tratta
d'un ordine che non si può violare senza conseguenze fatali per il
singolo e per la società. Quanto al tentativo di sostituire la settimana
di sette giorni con un'altra forma di suddivisione, si parlerà ancora con
maggior precisione più oltre.
II. - II giorno del Signore nello stato primordiale
dell'uomo.
Il giorno del riposo ha ricevuto dalla Rivelazione un
carattere religioso; è diventato il « Giorno del Signore ». Come
tale, esso ha attraversato ima storia che noi vogliamo a gran tratti
raccontare.
L'Antico Testamento ha parlato spesso e ih forma assai
incisiva del « sabato ». Lo ha santificato per mezzo d'un severo
comandamento ed ha regolato la sua esecuzione con un complesso di leggi
assai particola-reggiate. Questa legislazione ha già tutta una storia
dietro di sé, la quale non viene precisamente raccontata, ma può e deve
essere desunta da quello che i primi capitoli della Genesi dicono
circa lo stato originario dell'uomo, cioè circa il Paradiso terrestre.
Là risulta che il giorno sacro sta in stretto rapporto con l'essenza
dell'uomo.
Quando il pensiero cristiano s'interroga sul Paradiso
terrestre, lo fa non al modo come si parla del mito dell'età dell'oro o
della fiaba del paese dei balocchi. Cerca di comprendere, sulla base della
Rivelazione, quale forma vi assumesse l'esistenza umana prima che la
ribellione contro Dio compisse la sua devasta-
205
zione. Si può affermare che in questo modo il pensiero si
sforza di capire l'idea che Dio ha dell'uomo e della sua esistenza. Tale
idea ha una funzione indispensabile in ordine alla comprensione dell'uomo
come è ora. L'interpretazione corrente parte dalla tesi che l'uomo deve
essere compreso sulla base degli stessi presupposti degli altri esseri;
che la sua struttura è, sì, più complicata ed ha una più lunga storia
dietro di sé, ma che in ultima analisi e radicalmente si può far
derivare, come tutti gli altri esseri, dalla natura universale. Ma,
nonostante l'esattezza di molti particolari, il risultato complessivo
mostra che questa tesi è falsa. L'osservatore che si è conservato lo
sguardo limpido non ammetterà mai d'essere quella cosa che gli viene
indicata dal modello dell'uomo dell'antropologia naturalistica. Giacché,
dietro l'uomo come è oggi, sta anzitutto lo spirito il quale non può
essere mai derivato da una natura. Ma poi quest'essere caratterizzato
dallo spirito e chiamato « uomo » ha, prima di entrare nella storia
diretta in corso oggi, un'altra storia anteriore dietro di sé. Essa non
si potrà certo documentare con tombe e resti archeologici;, però uno
studio vero e penetrante del suo stato personale e sociale urta in
elementi i quali dicono che l'uomo, come già ce lo mostrano le fasi
storiche più antiche da noi raggiungibili, ha già vissuto un'altra
storia, la quale non ha soltanto il carattere della caducità e
temporaneità, ma quello della perdizione. Questa « meta-storia » viene
in luce per la prima volta solo con la Rivelazione, là dove essa descrive
in quale condizione si trovasse l'uomo nell'origine. Ciò che è inteso
dal concetto biblico dell'Eden, è questa condizione.
L'uomo è creato come immagine di Dio. Alla domanda in che
cosa consista questa divina somiglianzà, l'An-
206
tico Testamento non da risposte teoretiche, ma dice che
l'uomo è simile a Dio perché può esercitare dominio sul mondo (Gen.
1, 26). Tale dominio non è sovrano ma concesso: l'uomo domina come
rappresentante di Dio. Questo si esprime, fra l'altro, nella divisione del
tempo che viene impartita all'attività umana. Il primo e secondo capitolo
della Genesi — un poema didattico che non ha niente a che fare
con i problemi scientifici dell'origine del mondo e della vita, ma che
svolge idee unicamente religiose — dicono nella forma d'un'immagine che
Dio, come un grande architetto, ha compiuto l'opera della sua creazione in
sei giorni, e che al settimo ha riposato. Allo stesso modo l'uomo doveva
aver cura per sei giorni del giardino dell'Eden, che vuoi dire del mondo
esistente nella pace della grazia e nell'amore di Dio, ma al settimo
giorno doveva riposarsi. In tal modo il ritmo di cui abbiamo parlato, la
legge della settimana, viene radicato nei fondamenti della creazione. Esso
appare da una parte come una legge di natura che emerge dall'essenza della
vita da Dio creata; ma dall'altra anche come una legge religiosa che
subor-diria l'esercizio del dominio da parte dell'uomo alla volontà
dell'autentico Signore.
Nello stato originario, il riposo del settimo giorno
significa dunque qualcosa di diverso dall'ordine proprio dell'Antico
Testamento. Là il lavoro non è ancora un gioco come qui. Ciò che l'uomo
fa nei sei giorni di lavoro è esercizio di dominio; d'un dominio che sta
nell'accordo con la volontà di Dio e perciò anche con le leggi della
natura. Egli compie la sua opera con la gloria del creare e in mezzo a
cose e a energie che si adeguano facilmente alla sua volontà1.
La
1 Per avere un'idea di ciò che questo significa
basta solo ren-207
esistenza nel Paradiso terrestre non era ne quella d'un
bambino che gioca, ne quella d'un beniamino delle fate. L'uomo doveva
creare una cultura la cui ricchezza e la cui grandezza è per noi
inimmaginabile; e partendo da una natura che armonizzava con la sua
volontà, perché egli stesso era in armonia con la volontà di Dio.
Non aveva in tal modo nessun bisogno di quella liberazione
dal giogo del lavoro cui aspiriamo noi.
Il giorno del Signore gli apportava anzitutto quella
regolare rinnovazione delle sue energie di cui si è parlato. A
prescindere da ciò il giorno del Signore lo invitava a deporre la corona
del suo dominio davanti a Dio. Nasceva un silenzio, un respiro grande e
solenne in cui si innalzava la maestà del vero Signore. Il sabato
primordiale era il giorno in cui l'uomo diceva a Dio: « Non io sono il
Signore, ma Tu. Ciò che io ho fatto non è la mia opera autonoma, ma un
servizio della Tua ». Il contenuto del sabato primordiale era adorazione
e giubilo, verità e sacra bellezza. Così il ritmo della settimana aveva
un carattere del tutto diverso da quello che ebbe poi: quello che sta fra
il dominio e l'adorazione; fra l'elaborazione crea-trice del mondo e la
sua offerta a Dio.
Il Paradiso terrestre non ha niente a che vedere con le
interpretazioni storico-filosofiche e psicologiche con le quali l'età
moderna ne distrugge l'essenza, e non parliamo delle sozzure con cui una
sedicente arte e letteratura lo macchiano. Il Paradiso terrestre era
dersi conto quanto inutile fatica verrebbe eliminata se
nella nostra situazione attuale sparisse il male con tutte le sue
conseguenze individuali, collettive, presenti ed ereditarle, senza parlare
degli ostacoli che le cose, mosse dall'inconscio, oppongono all'agire
dell'uomo.
208
uno stato pieno di vita, di serietà, di gioia e di
nobiltà. Non riusciremo mai a pensare il primo uomo grande abbastanza;
raggiante della potenza che Dio gli aveva donato sulle sue creature. Ma
egli non era un essere naturale, bensì persona con tutta la
responsabilità d'una persona. Perciò egli non poteva semplicemente
esserci e lasciarsi vivere, ma doveva decidere se volere usare del suo
dominio secondo la sua verità, ossia in obbedienza al vero Signore,
oppure in contrasto con Lui.
In che cosa consistesse la prova, che cosa volesse dire
propriamente l'albero della conoscenza, non possiamo qui discutere 2.
In ogni caso tutti i tendenziosi simbolismi che cercano di intenderlo come
un'espressione della maturità della volontà, della libertà della
conoscenza, della maturità sessuale, eccetera, sono falsi. L'albero non
era altro che un segno della sovranità di Dio a riguardo della quale
l'uomo doveva decidere. L'uomo doveva realizzare ogni « conoscenza del
bene e del male », dunque ogni forma e ogni misura della sua propria
espansione, ma nell'obbedienza verso Colui che era semplicemente il Bene,
anzi il Santo, e che l'aveva fatto suo proprio rappresentante. Ma l'uomo
non ha obbedito. Ha voluto dominare nel modo che appartiene solo a Dio.
Perciò Jna perduto la propria superiorità e l'ordine della vita è stato
così sconvolto.
III. - II giorno
del Signore nell'Antico Testamento.
Comparve allora ciò che l'Antico Testamento chiama il «
lavoro ». Prima esso era l'uso del dominio, com-
2 Cfr.
in proposito R. guardimi, Der Anfang aller Dinge, Wùrzburg 1961.
209
piuto con energie delle quali noi non abbiamo più l'idea,
in un rapporto con la natura che ci è altrettanto inafferrabile e che
nella nostra immaginazione degrada continuamente nel mito o nella fiaba:
era un regnare e un creare in una regale libertà, benedetto dalla
pienezza della riuscita. Ora tutto muta, e comincia il lavoro come lo
conosciamo. Quali siano le forze di ricerca, di realizzazione, di coraggio
e di rinuncia che lo sostengono, non occorre qui esporre. Basta solo
ricordarlo, affinchè ciò che segue non finisca con l'assumere la forma
del pessimismo. Ma all'essenza del lavoro umano appartengono elementi e
aspetti su cui il culto del lavoro dell'età moderna volentieri sorvola.
Anzitutto vi inerisce un che di anti-libero. Il lavoro è
un giogo. Nella Genesi si legge: « Perciò la terra sarà a causa
tua maledetta. Con fatica ne trarrai il nutrimento tutti i giorni della
tua vita. Spini e cardi ti germoglierà e tu mangerai l'erba dei campi.
Con il sudore della tua fronte mangerai il pane, finché tornerai alla
terra, perché da essa sei stato tratto. Infatti sei polvere e in polvere
ritornerai » (3, 17-19), L'antichità ha sentito fortemente questo
carattere. Per essa il lavoro era un peso e una vergogna. L'uomo
autentico, libero, non lavorava. Egli foggiava la sua personalità, viveva
la vita dello Stato, faceva la guerra e godeva. Il lavoro egli lo imponeva
agli schiavi, nella mira di liberarsi così dal giogo. In realtà era il
tentativo di esimersi dal comune destino umano, ma il tentativo si
ripercuoteva su di lui; giacché insorgeva da esso quella altera pretesa
all'eccezione, quella durezza e freddezza di sentimento che — con tutta
la sua cultura, saggezza e nobiltà — sono tipiche dell'uomo
dell'antichità classica.
L'uomo cristiano ha altri sentimenti. Alla scuola della
210
Rivelazione, egli ha scoperto Yethos del lavoro e
onora il lavoro. Ma nell'età moderna egli è largamente caduto —
esasperando assurdamente questo insegnamento — in balìa del lavoro e ne
ha fatto una religione. Lo ha avvolto di convenzioni sleali di cui nulla
sapeva l'antichità. Queste convenzioni hanno cioè coperto l'aspetto
penitenziale che esiste in ogni lavoro, giacché il lavoro è anche
questo: espiazione per la ribellione dell'uomo contro il Signore del
mondo. Egli ha convertito il lavoro in un elemento fondamentale
dell'esistenza; lo ha celebrato e divinizzato, e il lavoro fu inserito
così in una luce ambigua in cui non si riuscì più a distinguere fra il
vero e il falso. Divenne allora facile forzare con menzogne l'uomo a
immergersi in ogni loro lavoro servile; ed è nata così una schiavitù
dell'uomo lavoratore più profonda e più rigorosa di quella
dell'antichità.
Gli ultimi decenni che si trovano « in mezzo ai tempi »,
hanno smascherato, insieme con altri, \ anche quest'inganno. L'uomo che ha
sperimentato il lavoro forzato degli Stati totalitari sa quanto falsa
fosse la teoria del lavoro come fondamento di tutti i valori. Ma anche la
mente di chi è rimasto politicamente libero si è illimpidita. Egli sente
che il lavoro non è affatto quel valore che tutto integra come pensava
l'età moderna; sa che nel lavoro c'è qualcosa che non è in ordine, che
esso, anche in regime democratico, si esegue inevitabilmente a spese della
libertà, perché esiste nel lavoro come tale una logica della
costrizione. Giacché, quale differenza c'è in fondo fra le terribili
fatiche che dovevano sopportare uomini, donne e bambini nella libera
Inghilterra durante. la prima fase — una ben lunga fase —
dell'industrializzazione, e le fatiche a cui gli imprenditori romani
obbligavano gli schiavi nella costruzione
m
del sistema di canalizzazione di Roma? E come stanno le
cose con la tanto conclamata intraprendenza dei managers dei nostri
giorni? Da che cosa dipende? Semplicemente dall'ambizione, dal dinamismo e
dalla sete di guadagno propri d'una educazione eticamente manchevole? Non
c'è forse una linea continua che da certi vistosi esempi al limite
conduce al modo in cui deve lavorare chiunque è impiegato nell'economia e
nell'industria, se vuole non solo conservare il proprio posto ma avanzare
in una carriera? Questa sti-.;
molazione o pungolamento viene a tutti imposto dal
carattere d'un contesto tecnico-economico di lavoro, che non è più
regolato dall'uomo stesso, ma che si svolge sotto la ferrea legge d'una
sua propria logica oggetti va.
Ma il passo citato della Genesi esprime anche il
secondo aspetto che oscura il lavoro: una estrema inutilità. Nessun inno
al progresso e alla cultura elimina dal mondo la realtà di fatto che lo
sforzo dell'uomo — un'altra volta visto in chiarezza e nella sua
totalità — sta legato a una intima infecondità. Si consideri quale
capitale di qualità, di energia, di fatica e di sacrificio l'uomo ha
speso per conoscere la natura, conquistarla, plasmarla, e si misurino al
paragone i veri risultati; si misuri soprattutto al paragone quanta fame,
quante malattie, quanta miseria e barbarie imperversano ancora, sulla
terra. Allora non sarà più così facile affermare che lavoro e risultato
stanno in regolare rapporto 3. E le stesse grandi e splendide
3 Si
farà bene a rendersi conto che la percezione di queste realtà storiche
è guastata dalle teorie che dominano oggi circa l'uomo e la sua storia.
Esse dicono che al principio c'è un'esistenza umana che non si distingue
affatto da quella animale, ma che è esposta a tutte le forme di bisogno,
di
212
opere dell'uomo davanti a cui l'osservatore resta a bocca
aperta, che cosa hanno costato? Non soltanto di mezzi, ma di energie
umane, di fatiche, di privazioni? Se noi al pensiero dei templi, delle
piramidi, dei castelli, dei canali, delle fabbriche industriali pensiamo
insieme anche tutta l'oppressione degli inermi che la loro costruzione ha
richiesta, le privazioni dei miseri con le quali tutte queste imprese sono
state pagate, comprendiamo meglio che cosa significhino gli « spini » e
i « cardi » della Genesi. Le correnti concezioni storiche
valutano il corso del destino umano e dell'opera umana dal punto di vista
della riuscita. Esse tracciano la linea della vicenda da un punto
culminante all'altro. Ma bisognerebbe integrare questo metodo inoltre con
la esposizione dei fallimenti: la storia di tutto ciò che già nel suo
germe venne distrutto; di ciò che non ha potuto essere portato a termine;
di ciò di cui, pur portato a termine, si è abusato e fatto spreco; e
ancora tutte le devastazioni
pericolo, di danno. In seguito inizia una penosa ascesa,
durante tempi lunghissimi, che nei vari gruppi della popolazione terrestre
procede fra condizioni spesso assai sfavorevoli e che subisce ogni specie
di contraccolpi in regresso. Si ha così la formula che spiega
apparentemente ogni disarmonia fra gli sforzi umani e i loro risultati,
che anzi autorizza all'esaltazione di tali risultati. Ma queste teorie
sono false. L'inizio della storia non suppone un'esistenza animale appena
superata, ma una storia già avvenuta: la ribellione contro Dio e lo stato
di sconvolgimento dell'essere umano che ne è conseguito. (In che modo sia
da intendere questo fatto in senso biogenetico è una questione a sé, che
qui non possiamo discutere). Occorre un lungo sforzo per vedere quanto il
naturalismo moderno e la sua antivalenza, l'idealismo, abbiano
contraffatto fino alle radici ultime, l'intelligenza dell'esistenza umana.
213
assurde, le disperazioni, le irrimediabili catastrofi4.
Soltanto allora avremmo l'immagine esatta di un lavoro così
incomprensibilmente idolatrato. Anche su questo punto l'antichità era
più leale di noi. Non ha parlato troppo di progresso e di cultura; in
ogni caso non più che della transitorietà e del peso dell'esistenza.
Ora il giorno del Signore assume un carattere nuovo:
quello che s'incontra nell'Antico Testamento. Diventa quel
giorno in cui l'uomo può respirare e liberarsi dal giogo del lavoro; può
dimenticare l'inutilità del suo sforzo e semplicemente vivere, sicuro che
Dio ha cura di lui.
E si rivela la profonda umanità dell'antico ordine di
vita nel fatto che non solo il libero, ma anche lo schiavo viene incluso
in questo riposo, non soltanto l'uomo ma anche l'animale. Tutti dovevano
sentire lo stato in cui li aveva collocati la colpa comune;
ma inoltre tutti dovevano vivere il sabato come giorno
della liberazione. Quale saggezza e quale bontà parlano da sentenze
quali: « Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavorerai sei
giorni e farai tutto il tuo lavoro, ma il settimo giorno è il giorno di
riposo per il Signore, tuo Dio. Non fare in esso
4 Si
veda a questo riguardo l'inquietante libro di josuè de castro, Géographie
de la faim, Paris 1949. La sua introduzione comincia così: «
L'oggetto di questo libro è piuttosto scabroso, anzi pericoloso. Lo è
fino al punto che la nostra civilizzazione lo ha dichiarato tabù ».
Perciò è compromettente parlarne, a tal punto che « la bibliografia sul
tema della fame è d'una incredibile scarsezza, quando il nostro tempo
offre a chi vuole scrivere e pubblicare ogni possibilità ». Ciò si
riferisce alla storia presente, la quale, senza contare la preistoria,
ripercorre un passato culturale di oltre cinque millenni.
214
lavoro alcuno, ne tu, ne il tuo figlio, ne la tua
famiglia, ne il tuo servo, ne la tua serva, ne il tuo bestiame, ne il
forestiero che è dentro le tue porte, poiché in sei giorni il Signore
fece il cielo e la terra, il mare e tutto quello che è in essi, ma il
settimo giorno riposò. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del
sabato e l'ha santificato » (Ex. 20, 8-11). E ancora; « In sei
giorni farai il tuo lavoro, ma il settimo giorno cesserai, affinchè
possano riposarsi il tuo bue e il tuo asino e possano riprendere fiato il
figlio della sua serva e il forestiero » (ibid. 32, 12)5.
Che cosa è dunque il sabato? Anzitutto il giorno del riposo, senza cui
l'uomo diviene disumano, per creativo e avanzato nella civiltà che egli
sia. Ma Dio si fa garante che, nonostante questo riposo, l'uomo avrà ciò
di cui la sua vita ha bisogno.
Inoltre è il giorno di cui l'uomo diviene consapevole
della sua dignità: che egli nonostante tutto è creatura di Dio; immagine
di Dio e da Dio conservato in vista della futura redenzione.
Infine è quel giorno in cui l'uomo deve pensare &
Dio in modo speciale, dato che negli altri giorni le preoccupazioni
dell'esistenza glielo fanno così facilmente dimenticare.
5
L'idea del giorno della sacra libertà è profonda al punto che si
sviluppa nel comandamento dell'anno sabbatico: « Per sei anni tu devi
seminare il tuo campo e mietere i tuoi frutti; ma nel settimo tu devi
lasciarlo intatto. I poveri del tuo popolo devono nutrirsi di esso, e ciò
che ne rimane devono mangiarlo gli animali selvatici. Lo stesso tu devi
fare con la tua vigna e con il tuo olivete » (Ex. 23, 10-11).
L'idea è d'una magnanimità e d'una saggezza sublimi, anche se — si
vorrebbe quasi dire: evidentemente — non sia stata eseguita.
215
IV. - II giorno
del Signore nel Nuovo Testamento.
Come si configura il giorno del Signore nell'ordine
cristiano? Il Figlio dell'eterno Padre, obbediente alla Sua volontà, si
è fatto uomo. Uno di noi, « eguale a noi in tutto ». Egli ha assunto il
mondo nella sua esistenza. Senza peccato quanto a Sé, si è esposto alla
condizione che viene dal peccato e l'ha sofferta in Sé in tutto e per
tutto. Dal fondo di quest'esistenza. Egli ha amato il Padre con amore
perfetto e con questo a-more ha riconvertito a Dio il mondo che, per
citare un'idea di Agostino, « precipita via da Dio verso il nulla ».
Ciò che in questo mondo si è operato nello spirito, nel cuore e
nell'amore di Gesù, è la salvezza essenziale, ipso facto data con
l'esistenza dell'Uomo-Dio. Invece la forma storica che essa deve
raggiungere, dipende dal modo in cui gli uomini riceveranno l'inviato di
Dio. Conforme al loro comportamento, Egli andrà incontro alla volontà
del Padre. Gesù non ha fatto nulla per influenzare la presa di posizione
dell'uomo, niente che andasse oltre la pura predicazione della verità di
Dio, la dimostrazione del Suo amore, l'irradiazione della Sua santità.
Niente di violento, di suggestionante, di tattico o di astuto. Egli si è
mantenuto disposto a tutto ciò che da parte degli avvenimenti dell'ora a
Lui s'imponeva. Ciò che avvenne fu il rifiuto dell'uomo.
Il popolo dell'A'llean2a avrebbe dovuto accoglierlo;
allora la redenzione si sarebbe verificata nella fede e
nell'amore degli uomini. Sarebbe un valutare troppo meschinamente tutto
ciò che significò l'infinito dolore intcriore di Gesù nell'esperienza
del mondo diviso da Dio se si pensasse che non sarebbe sufficiente ad
espiare il peccato del mondo. Ma gli uomini « non
216
10 hanno accolto » (Io. 1, 11). Essi Gli hanno
negato la fede, si sono a Lui opposti, ed Egli ha accettato allora il
destino che ne conseguiva. Perciò Egli è morto, e la morte divenne la
forma definitiva in cui si è compiuta la redenzione. Egli fu poi deposto
nella tomba, ma al terzo giorno, il giorno dopo il sabato pasquale,
risorse dai morti.
Cristo ha fondato la nuova esistenza. Con Lui comincia
l'esistenza cristiana. Essa consiste nella partecipazione al suo rapporto
con il Padre; nella partecipazione, in virtù della grazia, alla sua
conoscenza, al suo amore e alla sua obbedì enza.
Questa azione salvatrice di Cristo trova il suo segno
memoriale nella struttura della settimana. Per un tempo piuttosto lungo,
il sabato rimane valido come giorno di riposo; ma accanto ad esso si
afferma, « come primo dopo il sabato », quel giorno in cui si celebra la
memoria della resurrezione. Poi i due significati vengono a coincidere.
Nasce il « Giorno del Signore », del Salvatore glorificato, come noi
oggi lo conosciamo, e costituisce, secondo l'ordine liturgico,
11 primo giorno della settimana cristiana, dopo il quale i
seguenti vengono contati come secondo, terzo, quarto, eccetera.
Il momento del riposo, il respiro dal peso del lavoro e la
libertà per Dio sono rimasti. Ma vi si è aggiunto qualcosa di nuovo: la
domenica è divenuta il ricordo della resurrezione di Cristo. Come
solennità liturgica esplicita questa memoria viene celebrata con la
Pasqua, la prima domenica dopo la luna piena di primavera. Il suo
contenuto forma, se ben compreso, la quintessenza della fede cristiana: la
vittoria dell'amore di Dio sul peccato e sulla morte e, in questa
vittoria, la rivelazione di che cosa è Dio. In tal modo la Pasqua è, in
senso assoluto, la festa cristiana. Essa
217
percorre l'anno intero in quanto ritorna in ogni domenica.
Ogni domenica è Pasqua.
Con la redenzione anche il lavoro assume però un
carattere nuovo. I suoi compiti naturali rimangono, e rimane anche ciò
che dobbiamo sopportare come conseguenza del peccato originale. Ma ci
viene manifestato il mistero della Provvidenza, la quale fa di tutto ciò
che ci avviene, un elemento componente del grande processo della
rigenerazione. Perciò il lavoro non è più quel!'affannarsi per la vita
e per l'opera su cui grava la maledizione, ma anche la forma in cui,
giorno dopo giorno, attraverso ogni attività e ogni fatica, matura l'uomo
plasmato secondo il modello di Cristo. In tal modo il lavoro acquista una
ricchezza di valore, una dignità e una fiducia nuove;
e una nuova gioia, ulteriore e superiore a quella che
nasce dall'uso delle nostre forze, dalla sottomissione del mondo, dalla
riuscita dell'opera. È la gioia per il formarsi del « ciclo nuovo e
della terra nuova » di cui parla l'Apocalisse e, prima ancora,
l'ottavo capitolo della lettera Ai Romani: ossia la gioia
per la creazione rigenerata dalla redenzione e dalla fede.
Nel giorno del Signore, il cristiano si libera dal lavoro
e in questa libertà deve farsi più consapevole della sua esistenza
redenta. Perciò l'importanza di questo giorno è tanto grande. Se il
credente non lo vive più in conformità al suo significato, la realtà
che passa sommerge la sua coscienza dell'eterno: la coscienza di Dio, ma
anche della sua propria più profonda essenza. Giacché egli non deve
credere soltanto a Dio, ma anche a ciò che egli stesso è in forza della
redenzione. Questa sua essenza viene di continuo coperta dalla vita
quotidiana: immeschinita dalle sue debolezze, intorbidita dai suoi errori,
compromessa nella
218
sua dignità dal male. Alla domenica invece il sapete del
cristiano circa la sua propria essenza deve approfondirsi e consolidarsi
in modo sempre rinnovato. Se la domenica non suscita più in lui i suoi
richiami, quel sapere sparisce dalla coscienza.
L'esperienza lo dimostra. Già il credente è di continuo
tentato, e per i più vari motivi, a fare del giorno sacro un giorno di
lavoro; tanto più ciò vale per l'uomo religiosamente indefinito o
indifferente. Imprenditori e mercanti, contadini e operai dichiarano che
la produzione ha bisogno della domenica e che i clienti dovrebbero poter
fare acquisti anche di domenica. Circa le insidie speciali insorgenti
dalla situazione tecnica del nostro tempo si parlerà più oltre ancora e
con maggior precisione. Da molte parti si preme aftinché la domenica
venga economicamente "utilizzata, e la regola cristiana appare così
come un assurdo, spreco. Ma tutto ciò rivela anzitutto una grande miopia;
.giacché, se la domenica è quel giorno che la considerazione dei ritmi
della vita naturale ha indicato, quel giudizio è falso. Con il lavoro
continuato va perduta quella che è stata definita « la pausa creatrice
», lo sciogliersi e il distendersi inferiore, e la vita come la
produzione ne risentono. Ma dietro questo falso calcolo sta il calcolo
maligno: l'istinto dell'uomo ostile alla fede sa che, se si riesce a
sradicare la domenica, l'uomo perde l'ancora religiosa ed è così esposto
a cadere in balìa dei poteri economici e politici.
V. - II giorno del Signore nell'eternità.
La teologia degli ultimi decenni si è fatta attenta circa
un elemento dell'esistenza cristiana, che prima non veniva certo negato,
ma che era scarsamente con-
219
siderato, cioè la dimensione escatologica. Gli ^arct —
le « ultime cose » : morte, resurrezione, giudizio ed eternità —
erano stati per lungo tempo visti unicamente come conclusione della vita e
del mondo, conclusione di cui si doveva parlare in determinate situazioni.
Ma ora si è riconosciuto che essi non stan-. no semplicemente alla fine,
bensì che, come è sempre il caso di ogni conclusione viva, incidono su
tutto il percorso della realtà anteriore;, che non si compie dapprima
l'esistenza terrena e poi viene la morte, e che dopo di questa comincia
l'eternità, ma che già adesso, nel tempo, v'è l'eternità.
Questa invero non costituisce una sfera arcana, in cui
l'uomo entri dopo la morte, come pure il tempo non è un alveo
preesistente, in cui poi scorra la sua vita terrena. Ma il « tempo » è
lo stato in cui si trova la vita storica o correlativamente lo stato che
la vita crea; l'« eternità » invece è il modo secondo cui Dio vive, e
nel quale la sua grazia immette l'uomo. Nella misura in cui questi,
credendo e agendo, realizza ciò, già si sviluppa in lui l'eternità.
Già durante la vita terrena si forma in lui quell'uomo che un giorno egli
dovrà essere. Paolo ha più di tutti annunciato questa verità. Egli ha
parlato in un modo penetrante e consolante del modo in cui nell'uomo
credente viene generata la nuova vita che cresce verso l'eternità:
« Ignorate forse che quanti siamo stati battezzati in .
Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Mediante il
battesimo nella sua morte siamo stati seppelliti con lui affinchè, come
Cristo risuscitò dai morti per la gloria del Padre, così anche noi
vivessimo di vita nuova» (Rom. 6, 3-4). E: « Noi tutti, che a
viso scoperto riflettiamo come in uno specchio la gloria del
Signore, siamo trasformati nella stessa immagine, di gloria in gloria,
come dallo Spirito del Si-
220
gnore » (2 Cor. 3, 18). E ancora: « Per questo
non ci perdiamo d'animo, ma anche se il nostro uomo esteriore va
deperendo, quello interiore però si rinnova di giorno in giorno. Difatti
il momentaneo e leggero peso della nostra tribolazione ci procura un
infinitamente maggior peso di gloria, perché noi non miriamo alle cose
visibili ma a quelle invisibili: le visibili infatti sono temporanee, le
invisibili eterne (...), di modo che se uno è in Cristo, è una creatura
nuova:
le cose vecchie sono passate, ecco che sono sorte cose
nuove » (2 Cor. 4, 16-18 e 5, 17). Secondo questo insegnamento,
l'esistenza del cristiano sta nel tempo, ma porta già in sé l'eternità.
Questo vale anche per il giorno del Signore. Esso addita dietro di sé e
dice:
Cristo è risorto, e nella sua resurrezione si è compiuta
la redenzione. Ma esso addita anche avanti a sé e dice: nella
resurrezione di Cristo è stata fondata anche la nostra e quella del
mondo; tutto ciò che, attraverso la catastrofe e il giudizio, deve
divenire « eterno ». Poiché neppure il mondo delle cose è
semplicemente « natura », in modo che solo dopoché il loro tempo si sia
compiuto, debbano seguire la fine e il giudizio, e dopo tutto questo si
innalzi ciò che Giovanni chiama « il ciclo nuovo e la terra nuova ».
Questo mondo nuovo invece è già fin d'ora in formazione, all'interno del
vecchio. Nel capitolo Vili della lettera Ai Romani, Paolo scrive:
« Poiché io stimo che le sofferenze del tempo presente non sono
paragonabili con la gloria che sarà per noi manifestata. Infatti la
creazione aspetta con ansia la manifestazione dei figli di Dio, perché,
se la creazione fu sottoposta alla vanità non di sua volontà, ma a causa
di colui che ve la sottopose, fu però nella speranza, perché la
creazione stessa sarà liberata dalla servitù della corruzione, per avere
parte alla libertà della gloria dei figli
221
di Dio ». Nel?'Apocalisse infine si legge: « Ed
io vidi un cielo nuovo e una terra nuova. Poiché il delo primo e la terra
prima erano passate, e il mare (antico) non è più» (21, 1).
Si apre così lo sguardo verso il giorno del Signore
dell'eternità. Come tutto ciò che appartiene all'eternità, esso è un
mistero; tuttavia è possibile, con re-verenza e con cautela, asserire
qualcosa di esso.
Gli ultimi capitoli dell''Apocalisse parlano del
mondo risorto: del cielo nuovo e della nuova terra, e dell'uomo in essi.
Tale stato si esprime con l'immagine della Gerusalemme nuova; della santa
città che sale dalla terra, risultato della sua lunga storia; ma che
insieme, anzi prima, « discende », come un dono e una grazia (21, 1-2);
« formatasi dall'alto », « nata da Dio », come dice il Vangelo di
Giovanni (8, 23-47). Questa Gerusalemme nuova viene descritta in un modo
che supera ogni umana visione: è lunga quanto larga ed alta, dunque un
cubo; ma simultaneamente una « città » con strade e piazze, e il «
fiume di Dio » la attraversa. È dura come un diamante, ma è nello
stesso tempo « la sposa », che nella sua trasfigurata bellezza va
incontro all'« Agnello ». Il mondo nella sua pienezza, ma generato nuovo
da Dio (21, 5), e proprio per questo divenuto del tutto se stesso (21,
10-22).
Questo mondo non si trova più nella condizione della
storia, ma in quella dell'eternità. Non può più dire a Dio sì ed anche
no, ma soltanto sì. Ciò che dice no è «fuori», reietto ed eliminato
(22,, 15). La libertà è completa;, non più la possibilità, data con la
storia, di scegliere fra il bene e il male, ma un puro risolversi nel
bene. Nel nuovo mondo non c'è più il velame delle cose terrene. Le
relazioni non vanno più,
222
come qui, da una chiusa segretezza a un'altra, ma tutto è
aperto e manifesto. Ognuno è congiunto con o-gni altro nell'unità
dell'identico amore, e ognuno vive in ogni altro per il fatto che, come
dice la prima lettera Ai Corinti, « Dio è tutto in tutto » (15,
28). Di questa santa città ci si dice che non ha più templi (21, 22).
Non c'è più bisogno di templi e non possono neppure più esistere i
templi. Il tempio c'è sulla terra; l'edificio di legno e di pietra, come
luogo che la religiosità ha riserbato per le realtà sacre. Qui il tempio
può esserci, perché le cose stanno disposte e distinte nello spazio, e
c'è bisogno del tempio, perché in questo mondo ci sono anche i luoghi
profani, anzi dissacrati. Ma quando la « realtà prima » e la sua
ingiustizia è « passata », quando Dio « ha fatto tutto nuovo » (21,
4-5) ed Egli è « tutto in tutto », allora non può più essere! un
tempio particolare, perché tutto è « tempio ».
Non si potrà anche dire, in corrispondenza, che non ci
sarà più neppure uno speciale giorno sacro? Esso aveva significato
finché il ritmo della vita avanzava nel tempo; allora ai giorni del
servizio per il mondo poteva seguire ogni volta il giorno sacro in cui
esprimere l'apertura umana a Dio. E l'uomo aveva bisogno di esso perché
senza questo giorno riservato, difeso da divini comandamenti e da ordini
sociali, l'esistenza mondana avrebbe inghiottito l'uomo. Ma ora c'è
l'eternità, puro essere della creatura in Dio; perciò un giorno del
Signore distinto dai giorni dell'uomo non avrebbe più ne senso, ne
possibilità. Come il « tempio » si è fatto identico con la
spazia'lità della creazione assunta nell'eternità, così il « giorno
del Signore » è divenuto identico con la sua temporalità assunta
nell'eterno.
22?
VI. - II giorno del Signore e l'uomo moderno.
Noi abbiamo tentato nelle pagine precedenti una teologia
della domenica. Dobbiamo ora parlare dei problemi psicologici e
sociologici ad essa connessi.
Si potrebbe opinare che in vista di ciò fosse superfluo
quanto è stato detto. Ma chi ha capito qualcosa dell'essenza delle
realtà vive, sa che esse sono costruite non solo dal basso verso l'alto,
bensì anche — anzi in modo decisivo — dall'alto verso il basso. È
cominciata, per esempio, una fase tutta nuova e altamente feconda di
ricerca sull'uomo e sulle sue malattie, quando si riconobbe fino a qual
punto la sua salute e la sua malattia dipenda dallo stato della sua psiche
e del suo spirito. Era perciò importante riflettere che cosa sia la
domenica sulla base della Rivelazione, prima di poterci domandare in che
rapporto essa stia con i problemi attuali del lavoro del nostro tempo: un
tempo in cui il « giorno del Signore » è divenuto sempre più la «
fine settimana », o addirittura il « tempo libero »; destinato a che le
forze del lavoratore si rinnovino in esso e le sue necessità umane e
culturali siano soddisfatte.
Ora noi dobbiamo entrare nella considerazione dei problemi
che insorgono quando l'idea del giorno del Signore diviene norma
obbligante. Questa norma ha due aspetti.
Primo: un aspetto individuale. Essa esige dal credente che
egli non lavori in uno dei sette giorni della settimana. Ma il « lavoro
», come vedemmo, non è soltanto « peso » da portare per le necessità
della vita, ma è anche « opera » e dunque qualcosa che interessa
l'uomo, suscita la sua forza indagativa e crea-trice e porta perciò un
carattere positivo; senza con-
224
tare che il lavoro arreca guadagno e potenza ed
eleva così il livello economico-sociale.
Chi non lavora rinuncia quindi al risultato che viene dal
lavoro. Le sue entrate e perciò la sua sicurezza economica, come pure le
sue possibilità di godere la vita diminuiscono. Egli rinuncia inoltre
all'elemento della prestazione e della creazione che intensifica la .vita,
per riposare. Il riposo è un valore immediatamente sentito dall'uomo
stanco: egli sente che le tensioni si sciolgono, che le forze si rifanno,
che il rapporto con l'esistenza ritorna aperto e gioioso. Ma il riposo è
anche un disvalore nel senso che chi riposa •non ha appunto nulla da
fare. Questa impressione è tanto più deprimente quanto più l'uomo in
questione è attivo, ed è diventata del tutto intollerabile da quando
l'attivismo moderno ha distrutto la capacità d'essere tranquillamente con
se stessi. Vuoto, noia, impazienza sono le pericolose conseguenze.
L'antipuritanesimo anglosassone è una prova di quanto esse possano
divenire fatali.
Se poi si risponde che la giornata domenicale ha pure i
suoi aspetti allegri — ci si occupa di cose belle, si sta in compagnia,
ci si diverte, e via dicendo — uno sguardo alla realtà dimostra come
ben presto il riposo ristoratore ed allietante si trasformi in un'«
impresa » a rovescio. Senza dire del lavoro follemente pungolato cui
debbono sobbarcarsi gli addetti all'indù-^ stria del divertimento 6.
e Se si
vuole proprio ragionare socialmente, bisogna considerare non soltanto
quelli che escono in automobile dalle città, che mangiano e che bevono,
che si godono i vari spettacoli, .ma anche i molti che devono tormentarsi
per tutto ciò. E da non dimenticare in proposito che costoro esperiscono
nel loro .pubblico l'uomo non proprio dal suo lato migliore, ma in uno
stato di dissipazione, di sensualità e di scontentezza. Ogni
225
La norma
della domenica ha un secondo aspetto: quello di avere non solo
un'importanza individuale ma anche sociale. Non soltanto il singolo ma
anche la comunità deve riposare. Il riposo deve diventare uno stato di
distensione e di libertà che avvolge l'individuo e che dona alla sua vita
un altro carattere. Anzi, uno stato di solennità ufficiale che viene
incontro all'individuo come un compito, in quanto la realtà comunitaria
come tale onora Dio.
Ma di qui sorgono nuovi problemi. Anzitutto problemi in
cui quanto è stato or ora detto si traduce in dimensione sociale. Non
appena l'atteggiamento spirituale d'un villaggio, d'una città, d'un
territorio non è più capace di autentico riposo e sente questo riposo
solo in forma negativa, come assenza di attività che non eccita il suo
interesse, insorgono tensioni inferiori, quali quelle che si mostrano ora
nelle società puritane: noia collettiva e, nascente da questa, collettiva
opposizione; ipocrisia e una intossicazione insinuante che può sfogarsi
nelle forme passionali più preoccupanti.
Insorge di qui la vivissima questione che cosa l'uomo
moderno — soprattutto quello che non ha più convinzioni religiose e a
cui mancano i significati che ne conseguono e gli atti religiosi del culto
che riempiono il tempo domenicale — che cosa farà quest'uomo
servizio che venga offerto all'uomo, perché la sua fatica
venga giustificata, deve avere un senso genuino. Ora c'è gran motivo di
dubitare che i superaffaticati addetti al traffico, gli impiegati nei
ristoranti e negli stadi, i suonatori e i comici riescano a sentire nel
loro lavoro un senso che vada oltre il guadagno materiale; che tutto il
loro agitarsi confuso non generi piuttosto un sentimento di squallore e di
disprezzo. Anche questo appartiene al fenomeno e non vi sarà rimediato
con il giorno libero che poi si concede loro.
226
del tempo libero. Se la questione non trova una risposta
autentica, ossia illuminante, traducibile nella realtà dell'uomo medio,
il tempo libero non sarà che un tempo vuoto con tutte le conseguenze
derivanti. Un tempo di cattivo umore e di dissipazione che si scarica
nell'alcool e nel ballo o in uno sport la cui chiassosa eccitazione
distrugge ogni elemento del riposo. Senza dire del fatto che lo sport oggi
è diventato anch'esso in gran parte una industria. • Perciò la
questione in che modo il lavoratore possa avere più tempo libero senza
nuocere all'economia cede il passo, anche nelle discussioni serie sulla
organizzazione della settimana lavorativa, alla questione che cosa egli
debba fare di questo tempo libero che gli si concede, senza che esso debba
sfociare in una generale industria del divertimento. E aggiungiamo:
senza che la universale motorizzazione debba distruggere
gli ultimi resti di pace e di freschezza della natura.
VII. - L'esigenza d'ella settimana lavorativa «
scorrente » (gleiten'd).
Altri problemi sorgono per l'influenza che la domenica, in
quanto giorno del riposo ufficialmente garantito, esercita sulla comune
vita tecnico-economica.
Nel tempo pretecnico il processo produttivo poteva essere
senz'altro interrotto; con la tecnica non è più così. I suoi processi
si svolgono in contesti oggetti-vi, che non possono essere interrotti
senza che ne nascano perdite considerevoli. Essi si protendono su
estensioni di tempo che non possono più essere sintonizzate con i ritmi
naturali sopra descritti, ma seguono una loro propria logica. Ciò ha
indotto a porsi la questione in che modo la domenica possa essere
227
conservata come tempo ufficiale di riposo dal lavoro,
senza che debba arrecare all'industria perdite che essa non è in grado di
sopportare.
Le rotture, che ne conseguono alla regola della domenica,
potrebbero essere considerate come eccezioni più o meno frequenti, sulla
regolazione delle quali si dovrebbe cercare un accordo. Tutta diversa
sarebbe invece la questione, se il processo produttivo si articolasse in
modo che la domenica in quanto norma del riposo scomparisse. Verso questo
limite sembra premere l'automazione del lavoro nella tecnica e
nell'economia, automazione che si sta affermando in forma sempre più
vasta. I costi dei complessi macchinari necessari allo scopo sono così
alti, che queste macchine devono lavorare senza sosta se si vuole che
siano redditizie.
Ora si potrebbe rispondere che dovrebbe pur essere
possibile organizzare il lavoro in modo che la domenica possa restare di
regola il giorno del riposo. Si adduce come argomento a favore .il fatto
che l'esperienza ha mostrato che la serie continua di sei giorni di lavoro
supera la capacità media di prestazione, e che perciò si fanno ovunque
sforzi per poterli ridurre a cinque. Anche questo dovrebbe essere fatto in
accordo con la regola domenicale nel senso che il fine settimana venga
allungato d'un giorno. Il lavoratore a-vrebbe allora a sua disposizione il
sabato e la domenica, e perciò tempo in abbondanza per il suo riposo e
per la sua cultura. Ciò sarebbe una facilitazione anche per le donne che
lavorano, che, oltre al loro normale lavoro, hanno da aggiungere anche
quello per la casa e la famiglia.
Ma di qui nasce una nuova e grave difficoltà: ci si
domanda cioè, se il lavoratore medio sia in grado di fare dei suoi giorni
liberi qualcosa di più che un tempo
228
di spreco di denaro e di energìe vitali, o di più che un
tempo di vuoto e di noia. Da come stanno le cose tutto ciò risulta
discutibile assai, nonostante tutti i tentativi di creare forme corrette
di sollievo e di possibilità culturali, così discutibile che molti sono
del parere di dover evitare i due giorni di riposo consecutivi.
Deriva di qui il piano della settimana lavorativa
«scorrente»: essa dovrebbe constare di cinque giorni, dopodiché
dovrebbe seguire un giorno libero, dopo del quale ricominciare la serie
dei cinque giorni lavorativi. Ciò significa che dei giorni di riposo
risultanti solo uno ogni sette cadrebbe in giorno di domenica. In tal modo
scomparirebbe per i lavoratori la domenica come normativo giorno di
riposo. E non occorre pensarci tanto per vedere che essa scomparirebbe
anche per l'insieme della società, in quanto il suo senso degli
ordinamenti resta determinato dal ritmo lavorativo della maggioranza.
È ovvio controreplicare che pure il tempo lavorativo
potrebbe essere accorciato in modo che in luogo delle regolari otto ore
avesse a durare solo sette. Ciò è in armonia con l'esperienza secondo
cui nell'ultima delle otto ore la capacità di lavoro s'attenua fino a un minimum.
Contro ciò sta il desiderio dei lavoratori di avere libera non solo
l'ultima stanca ora della giornata, ma inoltre anche tutto un giorno
libero più frequente, cosicché la conseguenza, anche da questo punto,
dovrebbe condurre alla settimana lavorativa « scorrente ».
Ma quando si afferma che in tal modo la domenica come
regola non resta compromessa, nel senso che si tratterebbe solo di norme
eccezionali che facilitano casi particolarmente difficili, anche la
memoria più debole si ricorda dove portino le eccezioni e le re-
229
gelazioni per particolari necessità. L'una sì tira
dietro l'altra, finché si costituisce una situazione/in cui al
legislatore non rimane altro che legalizzarla.
Vi si aggiunge un'altra conseguenza assai notevole. Quando
più mèmbri della stessa famiglia lavorano, la settimana scorrente
diviene per tutti attuale conforme al genere del loro lavoro. Ma dal
momento che questa « settimana » si orienta secondo le esigenze
delle varie aziende, si verificherà senz'altro il caso che nella stessa
famiglia diverse persone avranno diversi giorni di riposo. Non occorre
chissà quale intelligenza per immaginare quale confusione nascerà per un
ordine familiare già vacillante per altre ragioni. Non si potrà più
parlare d'una comunità del riposo, del sollievo, della festa. La
polverizzazione dell'esistenza farà un passo in avanti che non sarà più
possibile riequilibrare, e il totalitarismo di Stato da parte sua si sarà
avvicinato d'un altro passo decisivo. O la verità non è forse che una
inconscia intenzione mira in tutto ciò a disintegrare sempre più la
famiglia, affinchè la organizzazione, in definitiva lo Stato, siano gli
unici vincoli dell'uomo-massa, ormai svincolato quanto a tutto il resto?
In ogni caso è senz'altro chiaro che tutto questo
processo sarà un mezzo magnifico in mano a tutti gli avversari
dell'ordine cristiano per sconvolgerlo in uno dei suoi più centrali punti
d'appoggio. Mezzo tanto più benvenuto in quanto vi si evita l'impressione
dell'anticristianesimo e vi si rappresentano apparentemente solo esigenze
umane e di ragionevolezza tecnico-economica.
230
Vili. - La « necessità » del processo tecnico.
Queste ed altre simili istanze sembrano fare della
settimana tradizionale e della domenica qualcosa che non è più
possibile, in senso tecnico ed economico, , mantenere e che perciò sono
sorpassate. Dobbiamo perciò rendere ai punti di vista che si propongono
tutto il diritto che si meritano, affinchè il nostro dissenso possa
davvero cogliere l'essenziale.
Si rileva frequentemente l'opinione che le conseguenze
ricordate, derivate dallo sviluppo moderno, siano inevitabili. Si
tratterebbe d'un elemento del grande processo dell'evoluzione che ora
sarebbe entrato nella fase tecnica, contrastare il quale sarebbe un
nonsenso. Bisogna rispondere che la concezione d'un processo che avanza di
necessità è semplicemente falsa. Quest'idea si è formata anzitutto nel
pensiero idealistico, che concepì tutta la storia come un processo del
genere. In modo sintomatico, essa è stata assunta anche dal pensiero
materialistico e domina oggi il mondo concettuale del comunismo, in cui
ogni persona perspicace riconosce il nemico di tutto ciò che costituisce
il senso della nostra storia. In esso l'antico antagonismo dell'Asia
contro l'Europa raggiunge una forma nuova e assai minacciosa. A dispetto
di fenomeni parziali apparentemente contradditori, il comunismo non è
europeo. È la forma moderna del dispotismo asiatico. È ora ormai che
l'europeo se ne renda conto. E riconosca che l'idea del processo
necessariamente verificantesi è uno dei mezzi più forti della propaganda
comunista. Essa insinua cioè all'avversario il sentimento che egli si
trovi su postazioni perdute, giacché l'ordine materialistico del mondo
avanzerebbe inesorabilmente.
Questa suggestione dev'essere spezzata. La storia uma-
231
na non è un processo, ma una serie di decisioni
personali. Certo, all'interno di tutto il contesto storico ci sono
processi;, ma essi vengono posti in atto da fatti che nascono dalla
libertà. Ciò vale anche per il problema che ci occupa. Non è vero che
la messa da parte dell'antico ordine di vita contenente la domenica debba
venire di necessità. Essa viene solo perché è voluta. Ed essa viene
voluta se certi determinati motivi derivanti da certe concezioni del mondo
vi imprimeranno la loro spinta.
Si risponderà che qui non si tratta di filosofie e di
concezioni del mondo (Weltanschauungen), ma di realtà di fatto. I
modi in cui i processi della produzione e del consumo ora vanno
articolandosi sono tali che la domenica non può più essere mantenuta.
Ci si consenta di invitare colui che pensa così a
porsi la seguente domanda. Ammesso che la conservazione della domenica
garantisse importanti vantaggi tecnici ed economici, le capacità di
invenzione e di organizzazione ovunque operanti nel nostro mondo non
riusciranno a trovare presto una via per ottenerli, a dispetto di tutte le
difficoltà? Bisogna essere leali ed ammettere che non si tratta affatto
di impossibilità, ma di difficoltà magari notevoli, tuttavia superabili:
certo superabili solo qualora si riesca a vedere il valore
di ciò di cui si tratta.
IX. - La fede cristiana è sorpassata?
Si obietterà contro quando andiamo dicendo che il fattore
religioso ha perduto il carattere di validità universale. Che esso è una
volta per tutte una questione di valutazione privata e di bisogno
personale. Perciò l'ordine della vita culturale non può più essere
religiosamente determinato. Per quanto poi con-
232
cerne la domenica, essa si fonda su una Rivelazione, a cui
la maggioranza della popolazione non crede più. Anzi per quelli stessi
che confessionalmente vi aderiscono non si tratta più d'una vera
convinzione, ma della conservazione d'una tradizione che va sempre più
impallidendo.
Anzitutto una cosa: il numero di quelli che credono alla
Rivelazione è assai maggiore di quanto qui venga supposto. Certamente
molti si allontanano da essa;
in cambio però la fede cristiana si desta in nuove forme
presso altri in numero crescente; e secondo il principio della formazione d'elite,
c'è da sperare che da costoro irradierà un'influenza che oggi non è
anco-'ra possibile prevedere. Il cristianesimo è abituato
all'affermazione che lo dichiara in procinto di scomparire. Essa
appartiene all'inventario degli slogans storici. Uno slogati
molte volte circolato e molte volte smentito.
Ma poi c'è un'altra cosa da considerare. Se il giorno del
riposo dev'essere ciò che intende la sua essenza, non può semplicemente
consistere nel fatto che in esso non si lavora. Questo non basta a
conferirgli quella validità che giustifica e garantisce alla lunga la
cessazione del lavoro. E tanto meno basta il fatto che in esso avvengano
cose che servono al sollievo e alla gioia o che arricchiscono
culturalmente. E un'altra volta non basta che in esso si sviluppi un
sentimento della comunità fra coloro che riposano, dopo che sono stati
anteriormente nella comunità del lavoro. Tutto ciò rimane in una sfera
empirica. Occorre di più. Un riposo autentico ha sempre avuto una
dimensione che trascende l'empirico. Essa fu sempre improntata dal
carattere della festa, e la « festa » è un fenomeno religioso.
Ora, nell'Occidente la festa religiosa fu per duemila
233
anni sostanziata dalla fede cristiana. Gli esperimenti
nazionalsocialisti hanno dimostrato quale vacua faccenda siano le feste
che si fanno sulla base di programmi. La parte del mondo segnata dal
cristianesimo, vale a dire in ogni caso l'Europa e l'America, ha le
proprie radici nel cristianesimo; e queste radici sono, a dispetto delle
defezioni, vive ancora. Sarebbe dunque un esperimento assai rischioso
distruggerle. Quello che si è raggiunto in Russia con la violenza e con
la propaganda, io non sono in grado di valutarlo. Ancora più difficile è
la questione di che cosa avverrà in Africa e in Asia. Ma di questo per
ora non c'importa. Il mondo occidentale deve pure porsi nella propria
tradizione, altrimenti perde la sua base.
Faranno perciò bene gli avversar! dell'ordine domenicale
a rendersi conto di tutto ciò che quanto a concezioni storicamente
operanti, a valori di rispetto e di fiducia, a rapporti d'ogni genere dei
sentimenti sta connesso con quell'ordine ed esercita ancora influsso
perfino là dove la fede cristiana è scomparsa. I chirurghi si guardano
bene dal lacerare connessioni di organi delle quali non sanno quale sia
l'influsso. Se la domenica sarà eliminata, magari pure sulla base di
gravi considerazioni tecniche ed economiche, si noterà con spavento dopo
qualche tempo quali perdite ne siano risultate. Facciamo un solo esempio.
Se qualche decennio fa qualcuno avesse detto che le fabbriche non devono
versare le loro scorie nei fiumi, perché ne sarebbero venuti danni
immensi, lo si sarebbe preso per un reazionario, un csteta, un romantico.
Si sarebbe risposto che si trattava di dure necessità, davanti alle quali
dovevano ovviamente cedere cose come la pulizia delle acque fluviali. Oggi
ci troviamo davanti a una situazione pressoché disperata. Si rico-
234
nosce che i fiumi sono qualcosa di più che semplicemente
dei corsi d'acqua navigabili, che sono le vive arterie dell'organismo
geografico-culturale d'un paese, anzi d'un intero complesso di paesi. Di
essi uno scienziato ha detto or non è molto: « I nostri fiumi sono
diventati delle cloache ». Anche nel nostro caso vale la stessa cosa. La
domenica non è soltanto una istituzione sociale che diviene inessenziale
di fronte a « necessità » d'ordine tecnico-economico, ma è un organo
importante nell'insieme della vita umana; un organo d'importanza vitale
anche per quelli che non riconoscono più il suo contenuto cristiano.
X. - La domenica e la completezza dell'uomo.
Il problema della domenica è connesso con un problema che
interessa le radici della nostra esistenza T. Nasce dalla
realtà di fatto che l'uomo moderno ha pagato le enormi realizzazioni
scientifiche e tecniche degli ultimi secoli con perdite della cui portata
ci rendiamo sempre più drasticamente conto; egli è diventato un
attivista. Si è a lungo considerato quest'attivismo come un passo avanti
verso valori vitali superiori e verso più serie responsabilità morali.
Ma a un numero sempre crescente di persone ormai risulta chiaro quanto
c'è di falso in una simile opinione. Senza dubbio molto di grande è
stato conquistato, ma anche molto di importante è andato perduto: tutto
ciò precisamente che va sotto nome di « valori contemplativi », le
forze del silenzio e del raccoglimento, del sapere profondo che affiora
dal fondo dell'anima, del
7 Cfr.
in proposito i due contributi: L'uomo incompleto e la potenza e La
cultura come opera e come minaccia, in questo volume.
235
sentimento capace di cogliere Indicazioni e moniti che
salgono da zone ben più ulteriori della pura ragione o della pura
utilità. L'uomo moderno ha perduto di profondità in ogni suo punto. La
sua vita si assottiglia sempre più; il suo istinto si fa sempre più
debole. Così egli si perde sempre più nel contesto delle apparecchiature
tecniche che riempiono il suo mondo. La stessa cosa vale di fronte alla
potenza dello Stato. Tutto il mondo è attraversato da una tendenza
totalitaria, non solo il mondo comunista, ma anche quello libero, solo che
qui essa assume un carattere diverso. Basti solo ricordare l'apparato
statale che invade sempre più le sfere vitali dell'uomo; la stampa che
domina le idee, i giudi2Ì, le prese di posizione della gente; l'impronta
sul sentimento vitale e sul gusto operata dal cinema, dalla radio e dalla
televisione; la avanzante pubblicizzazione della vita che distrugge la
sfera privata. Contro tutto ciò l'uomo moderno diviene sempre più
debole, perché in lui s'attenua sempre più la forza ferma della persona,
che sta nella sua anima profonda, la capacità d'essere padrone di se
stesso, il rapporto con i valori assoluti che gli conferiscono solidità.
Una autentica pedagogia ha perciò il grave compito di
recuperare gli antichi valori. A tale scopo è della massima importanza
garantire lo spazio in cui sia possibile un'esistenza disinteressata,
liberamente riposante in se stessa, e per questo esiste anzitutto la
domenica. Essa non è soltanto assenza dal lavoro e possibilità di
distensione ma è « festa »; un momento della vita in cui si presenta la
sovranità di Dio e rende libero l'uomo. Se la domenica scompare, si avrà
un ulteriore e decisivo passo avanti verso l'esteriorizzazione della
esistenza. Ma la perdita di sostanza umana, l'inde-
236 ;
bolimento dell'autentica forza umana creatrice di storia,
non potranno essere equilibrati da vantaggi tecnici ed economici. Anche
coloro per i quali il nucleo cristiano della domenica non ha più
validità dovrebbero prendere in considerazione questi aspetti e vedere la
domenica non soltanto da prospettive tecniche o formali-neutrali, ma da
più profonde prospettive.
Se poi si afferma che nel giorno del riposo « scorrente
» ci si può pure approfondire religiosamente, si può rispondere
unicamente che chi parla in questo modo non conosce ne l'essenza
dell'uomo, ne quella della domenica. Costui crede davvero che si possa
sostituire l'altezza del giorno del Signore, nella sua validità di ormai
più di tremila anni, con un termine cronologico che, a comando d'un
modernissimo utilitarismo, salta da un giorno della settimana all'altro? E
l'anima dell'uomo obbedirà a una simile confezione tecnico-economica per
« approfondirsi religiosamente » in essa? Solo il Signore di tutti i
giorni può fondare il suo giorno e conferirgli quella sacralità che
l'interiorità umana disposta alla fede sa percepire, e da cui attingono
anche quelli che non credono in Lui — in una misura di cui non sono
consapevoli.
C'è ancora una considerazione da fare simile a questa. Si
è soliti dire che l'uomo moderno non ha bisogno di una religione. Ciò
che per gli antichi era la religione, per l'uomo moderno è il lavoro, il
progresso culturale-politico e la natura.
L'età moderna ha dimenticato qualcosa, di profondamente
elementare. Tutti gli elementi dell'esistenza •— cose, azioni,
relazioni, ordinamenti — acquistano il loro pieno significato solo
quando essi toccano, al di là del loro immediato contenuto, la dimensione
reli-
237
glosa. La realtà non è che l'uomo sia finito in se
stesso, e che egli inoltre, quando ne sente il bisogno, possa entrare in
un rapporto religioso, ma l'esistenza diviene completa solo nella sfera
religiosa. La magnificenza delle culture antiche dipendeva dal fatto che
esse possedevano questa dimensione. E non solo perché possedevano templi
e sedi artistiche, ma perché tutta la loro vita conteneva questo
elemento. Sarebbe, per esempio, nient'altro che inconsistente estetismo
quello di apprezzare l'arte greca senza vedere che l'arte greca era tutta
percorsa da energie religiose. Il compiersi d'un'opera, il culmine d'un
incontro, la riuscita d'un'azione era qualcosa che in definitiva si
adempiva nella sfera religiosa. Walter F. Otto nel suo libro Gli Dèi
della Grecia ha detto cose decisive al riguardo. Ma questo vale non
solo per la civiltà greca, bensì per tutte le civiltà; vale per il
Medioevo e vale ancora per l'età moderna fino all'irruzione del
positivismo e del materialismo europeo. Da allora la esistenza si è
rivolta definitivamente verso la pura realtà mondana.
La stessa cosa di deve dire quanto alla natura. Il
rapporto genuino con la natura non consiste nel sentire che aria buona
c'è e che bei paesaggio ci sta davanti; senza parlare della barbarie che
si riversa in essa dalle città nei giorni di libertà da lavoro e che
trasforma prati e boschi in una riserva di rifiuti e in un concerto di transìstor.
Il vero rapporto consiste nell'incontro profondo dell'uomo, per esempio,
con l'albero che nella natura vive silenzioso, con il monte che s'innalza
nel ciclo, con il fiume che scorre limpido. Se dovrà ancora esistere la
« natura » — quanto ciò sia ancora possibile non sappiamo — essa
potrà emergere unicamente da una profondità umana
238
che dev'essere essa stessa un'altra volta ridestata e
sviluppata.
In ultima analisi tutto il problema si riassume nella
questione della posizione del singolo o del gruppo, o dell'indirizzo a cui
egli appartiene, a riguardo dell'ordine di vita cristiana. Se si acuisce
l'orecchio sulle ragioni fondanti con cui la domenica viene dichiarata
sorpassata, si nota che il motivo più profondo è la indifferenza, anzi
l'ostilità contro il cristianesimo. Allora occorre che i difensori della
domenica si liberino dalle loro illusioni, ed altrettanto che gli
oppositori siano leali e che non si trincerino con le loro ultime
motivazioni dietro altre penultime. Le difficoltà che stanno contro la
conservazione della domenica possono essere vinte, se lo si vuole
seriamente. Invincibili esse diventano solo con la segreta volontà che
esse debbano essere invincibili, aftinché il giorno del Signore appaia
sorpassato, clericalmente reazionario, nemico del progresso.
Allora non resta che la lotta. I cristiani fanno bene a
farsi idee chiare sulla situazione. Si dirà in giro che essi sono dei
nostalgici; che sono degli interessati per ragioni segrete o che sono
perfino pagati da questi o da quelli; che non hanno sensibilità per i
lavoratori e avanti così per tutta una serie di falsificazioni di motivi,
quali emergono da sempre. In realtà si tratta di qualcosa di
assolutamente decisivo, ed essi non possono essere teneri. Essi lottano
anche per quelli contro cui debbono lottare, perché ciò che deve essere
salvato da loro è l'uomo.
239
XI. - Un problema di coscienza.
Alla fine bisogna che diciamo, anzi che domandiamo, una
cosa ancora, e che lo facciamo in tutta lealtà e
libertà.
L'insegnamento della Chiesa e l'educazione etico-religiosa
ha realmente fatto in questo campo tutto ciò che avrebbe dovuto
fare? Più precisamente: il dovere della santificazione della festa non è
stato troppo unilateralmente posto sotto le prospettive del comando e del
divieto?
Ovviamente dietro il giorno del Signore sta il terzo
comandamento. La domenica — come abbiamo detto — ha non solo da
esercitare importanti influssi, ma inoltre sta su di essa il carattere
della sovranità, e questa trova la sua espressione nel comandamento:
« Ricordati di santificare il giorno del Signore ».
Questo è vero e non deve essere in alcun modo rimesso in discussione. Ma
la predicazione e l'insegnamento si sono anche sufficientemente sforzati
di far emergere i veri valori della domenica e di esperii in modo
persuasivo? Il giorno del Signore è stato posto realmente in relazione
con l'uomo moderno e con la sua vita come essa è, in modo che egli si
sentisse compreso e vedesse l'aiuto che di lì a lui discendeva? O non
doveva forse percepire nel precetto domenicale qualcosa che derivava da
tempi passati e che veniva imposto al suo? La dottrina e la prassi della
domenica si sono abbastanza sforzate di mostrare come si potesse riempire
la domenica di momenti e di valori validi e fecondi di gioia? O non venne
forse il credente messo unicamente di fronte al comandamento, cosicché le
sue capacità inventive e creatrici vennero bloccate, cosicché la
domenica ha finito con l'essere appresa come qualcosa di essenzialmente
negativo?
240
Il lettore comprende certamente che non intendiamo fare
solo della critica. Chi si è trovato personalmente ad affrontare tale
compito, sa quanto è difficile creare un vincolo vitale fra il carattere
festivo della domenica e la media delle condizioni reali. Questi problemi
dovrebbero stimolare a un autoesame, senza di cui la lotta per la domenica
risulterà, alla lunga, vana.
241
XI
IL SANTO NEL MONDO * I. - II fondamento.
La
maggior parte dei giorni del calendario portano nomi di personalità della
storia cristiana. Questi personaggi, che possiedono un particolare
carattere di venerazione, di ammonimento e nello stesso tempo di promessa,
sono i santi. Incontriamo le loro figure nell'arte cristiana. Essi
compaiono nelle leggende e nella poesia. E noi stessi portiamo i loro
nomi. Ma che sorta di gente sono? Che cosa è un santo?
Per uno che abbia appena qualche familiarità con loro, la
risposta non è difficile. « II primo e il più grande comandamento » è
già espresso nell'Antico Testamento. Cristo poi l'ha nuovamente
confermato:
« Amerai il Signore Iddio tuo, con tutto il tuo cuore,
con tutta la tua anima, con tutte le tue forze » (Deut. 6, 5; Mt.
22, 37). Un santo è un uomo, a cui Dio ha concesso di prendere
perfettamente sul serio questo comandamento; di penetrarlo profondamente e
di impegnare tutto nella sua realizzazione. Dunque qualche cosa di grande;
anzi qualche cosa di terribile. Perché, che cosa succede ad un uomo che
vi si impegna? Così si comprende il profondo rispetto e
* La conferenza fu trasmessa il 6 gennaio 1956 alla radio
bavarese. È stata poi ampliata e correlativamente stesa con maggior
precisione, ma per l'essenziale è rimasta immutata. Prego però il
lettore di prenderla non come un saggio, ma come un cenno, dato in
discorso vivo, di qualcosa che mi sembra importante per la nostra
situazione. Con dò si avverta anche che i concetti esposti hanno bisogno
di controllo e di approfondimento ulteriore e quindi sono affidati
alla partecipazione dei lettori.
245
tè nel realizzare il giusto ordinamento del possesso, una
autonomia ragionevole, una naturale e legittima unione dei due sessi e
anzi, partendo di là, tutte le e-sigenze d'una cultura autentica. Ma
tutto questo, in fondo, non può essere adempiuto che nello stesso spirito
e da quelle medesime energie, da cui sono mossi coloro che hanno vissuto
nella rinuncia e nella abnegazione.
Vili. - II mondo temporale ed eterno.
Il credente, che si volge con reale volonterosità al
compito, di cui si parlava, esperimenta in quale situazione si trovi
l'esistenza. Gli risulta chiaro che cosa sia la storia reale: non un
processo naturale, in cui si svolga anzitutto l'evoluzione del contesto
cosmico, poi, su di un piano nuovo, quella del contesto biolo-. gico e
infine di quello umano culturale, bensì una storia personale, i cui
elementi caratterizzanti si chiamano libertà, decisione, responsabilità,
colpa, destino. Egli esperisce inoltre come ogni realtà umana sia fatta
confusa e torbida fino al fondo, e quale resistenza opponga alla volontà
di fare rottamente le cose. Infatti la confusione non è della specie
della situazione caotica propria d'uno stadio iniziale, in cui materia ed
energie si incrociano e si intersecano ancora informi, o di quella propria
del periodo d'un sovvertimento, in cui gli antichi ordinamenti sono scossi
e non appaiono ancora chiari i nuovi. La ribellione perpetrata contro Dio
ha invece lacerato l'esistenza strappandola dalle sue condizioni
fondamentali, e non si può più eliminare la distruzione che ne è
venuta. Certo l'amore di Dio ha operato la redenzione ma essa non ha
abolito la condizione come tale, ma l'ha riconciliata con l'espiazione e
l'ha sollevata a un nuovo inizio. Parten-
265
do da esso, la situazione dev'essere vinta mediante la «
buona battaglia » della grazia; è però questo un compito, che si pone a
nuovo in ciascun credente singolo, addirittura a ogni ora della sua vita.
Anzi egli incontra il dato di fatto che nell'esistenza non
v'è solo il disordine fattuale, ma anche quello voluto, la cecità
mantenuta di proposito. Basta che pensiamo alla situazione di vita di
Cristo: alla muraglia di volontà di potenza, di accecamento e di menzogna
che si è innalzata attorno a Lui, e contro cui la sua verità vivente non
è riuscita ad aver successo — perché Egli non poteva abolire la
libertà, in virtù della quale soltanto può compiersi l'azione che
riscatta e salva.
Questa esperienza preclude al cristiano l'ottimismo del
progresso della cultura e civiltà, ma anche la sua forma dissimulata:
dove il lavoro autonomo della cultura fallisce, sarebbe possibile quello
in cui operi la grazia della redenzione; ne addurrebbe la prova il santo.
Chi ha volontà di vedere, scorge come stanno le cose, Se gli dovessero
rimanere ancora illusioni, sarebbero distrutte radicalmente da ciò che
Cristo ha detto sull'ultima fase della storia.
Dall'altra parte però al cristiano è interdetto anche
quel pessimismo, che butta a mare il mondo come assolutamente malvagio e
in perdizione, perché contraddice l'opera della creazione,come anche la
gesta redenti va di Dio. Il cristiano non ha il diritto di dire: gli
uomini sono cattivi, la società è corrotta, ogni sforzo è senza
speranza, perché egli deve amare il mondo e rimanergli fedele.
Amare il mondo non nel senso in cui san Giovanni glielo
proibisce, quando scrive: « Non vogliate amare il mondo, ne le cose che
sono nel mondo » (1 Io. 2, 15); ma nel senso espresso dal medesimo
apostolo:
« Infatti Dio ha talmente amato il mondo da dare il
266
Suo Figliuolo unigenito, affinchè chiunque crede in Lui
non perisca, ma abbia la vita eterna » (Io. 3, 16). Il cristiano
condivide questo amore; sebbene il disordine del mondo lo tocchi in modo
diverso dal pessimista non credente, che lo respinge tra ciò che è
corrotto e perduto. Il cristiano — e di conseguenza il santo, più
profondamente di qualsia'si altro — soffre con il mondo nel suo torbido
sconvolgimento; perché non è solo suo, ma perché è il mondo di Dio.
Pessimismo e ottimismo sono prospettive errate per venire
a capo della situazione dell'esistenza. L'uno come l'altro fuggono la
realtà: il primo, perché si rifugia in una condanna del mondo; il
secondo in una trasfigurazione. Sono tutte e due forme illusorie. I santi
vogliono la verità. Vogliono vedere ciò che è. Ora la buona volontà,
dinanzi ad una situazione reale, apre loro gli occhi.
Essi perseverano nella loro fedeltà al mondo. Ma se essi
ne hanno la forza non è perché pensino che il mondo entrerà
nell'ordine, purché soltanto ci si impegni laboriosamente e per lungo
tempo. Non possono eliminare la sua condizione turbata, ma solo
accoglierla in un amore più grande. Forse i loro sforzi dapprima devono
addirittura passare attraverso l'insuccesso, perché devono riprodurre il
destino di Cristo. I santi però lo assumono e vi resistono. Ciò che essi
fanno, ha un carattere misteriosamente duplice: da una parte si occupano
del mondo reale, del suo effettivo disordine, e con una sincerità e con
una imperturbabilità superiore a qualsiasi altro riformista; dall'altra
sanno che quello che fanno non si traduce in risultati tangibili, ma è
semplicemente inserito nel piano di Dio a noi sconosciuto. Ed Egli lo
utilizza là, dove vuole: forse addirittura soltanto nel suo giudizio e
nella nuova creazione.
267
Ritornando a ciò che abbiamo detto prima: che la via
della santità consiste nel voler fare, ad ogni momento, ciò che è bene,
ci sembrerà nuovamente, quanto sia difficile seguirla. Sappiamo sempre
ciò che è bene?
Non capita spesso che il gioco dei diversi fattori renda
la visione incerta? Noi allora mettiamo questo:
quando vuoi sapere ciò che si deve fare, bisogna che tu
sia veramente pronto a vederlo; e a farlo subito dopo che tu l'abbia
visto. Ma per arrivare a questa disposizione, la via è lunga. Si è quasi
tentati di dire, che è infinita; perché dietro ogni resistenza superata,
ne scaturiscono incessantemente delle nuove.
La confusione anzi è qualche volta così grande da
domandarsi che cosa sia bene. Sembra talvolta vedere erigersi non il male
contro il bene, ma il giusto contro il giusto, il bene contro il bene, in
modo che si è costretti ad accontentarsi di probabilità e a restare m
una situazione senza via d'uscita. Si può avere l'impressione che la
ricerca di ciò che è il bene sia una lotta senza speranza. L'angoscia,
che ne risulta, è conosciuta da tutti quelli che tribolano nel mondo
reale. Tuttavia non bisogna cedere.
Il carattere dell'esistenza, come qui appare, non è
sufficientemente espresso con la parola « tragico ». È quello che vuoi
dire san Giovanni, quando scrive che « tutto » nel mondo non è che
illusione e disordine di passioni (1 Io. 2, 16). La rovina dei
migliori, le grandi occasioni mancate, l'insuccesso dei tentativi per fare
qualche cosa di perfetto: sono altrettanti segni oscuri dimostrativi. Ma
anche qui colui che ha una visione cristiana, non ha il diritto di
rifugiarsi in apparenti giustificazioni e in speciose teorie; ma deve •;<
credere, sperando contro ogni speranza » [Rom. 4, 18), e per il
resto, invocare la giustizia di Dio.
268
L'opera del cristiano trascende le dimensioni del mondo.
Egli è continuamente portato ad esperimentare la impossibilità di
ottenere la vittoria in questo « eone » nella lotta tra la « salvezza
» e la « tenebra ».
Così dunque lo sforzo, che costituisce la via alla
santità, deve orientarsi verso l'ai di là della storia. Ciò che è
bene, non sarà definitivamente realizzato che -dal Giudizio. Ma questo
comprenderà tutto ciò che è stato fatto con fede nel tempo per
costituire il punto di partenza della grazia finale. Secondo san Matteo,
la formula del Giudizio sarà questa: « In verità vi dico, che tutte le
volte che avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi tra i miei
fratelli, l'avete fatto a me » (Mi. 25, 40). Forse possiamo
scorgere anche un altro senso: « Tutto ciò che avete fatto a questo
mondo che mi appartiene, l'avete fatto a me ». Il Redentore terrà conto
di queste azioni nella sua seconda creazione per farle partecipare alla
formazione di questo mondo, finalmente divenuto per sempre tale quale deve
essere.
Tutto ciò avrà mostrato quanto l'idea della santità,
che noi abbiamo qui delineata, sia lontana dall'avere per scopo unicamente
il risultato nel mondo. Il santo ne è così lontano che non può essere
assolutamente compreso che nella prospettiva della fede.
269
XII
MICKEY MOUSE E COMPAGNI Una lettera.
Caro amico! Il nostro colloquio di ieri è terminato in
una vera confusione. Ma anche era ben difficile che potesse andare
diversamente, quando persone di così diversi modi di pensare parlano fra
loro di un argomento così aggrovigliato, come l'arte modernissima. Uno ha
veduto in essa un'apertura verso l'arte assoluta; un altro qualcosa che
non è più affatto « arte », ma una ricerca, sulla « cifra »
dell'esistenza; un terzo ha parlato di lavoro e affari; e un quarto era
entusiasta del fatto che la nostra odierna società di consumi fosse
costretta a trovare bello un tale nonsenso e a pagarlo caro. Come poteva
allora aver luogo anche solo un'intesa?
Pure ora tuttavia non voglio cavar fuori alcuna linea
comune, ma solo esprimere un pensiero che mi inquieta.
Negli ultimi tempi io avevo molto riflettuto su ciò,
quanto non solo differenti, ma anche contraddittorie siano le risposte che
vengono date alla domanda che cosa sia propriamente l'uomo. Ciò sembra
tanto più sorprendente, in quanto non si tratta affatto di qualcosa di
estraneo e lontano, ma di ciò che è più vicino e più familiare, cioè
di noi stessi. Quale strano problema deve pur essere l'uomo, se di lui
possono esser date determinazioni così radicalmente contraddittorie fra
loro, come per esempio quella dell'idealismo tedesco, che vede nell'uomo
l'espressione storica dello spirito assoluto, e quella del materialismo,
che
271
dice esso essere alla fine nient'altro che animale e
pietra! È comprensibile che un essere come l'uomo, così ricco e che si
trova in così profondo movimento, possa presentare aspetti diversi — ma
contraddizioni, e così clamorose, come quella citata?
Così io potevo giungere solo allo stesso risultato di
Pascal, quando nelle sue Pensées dice che la dottrina rivelata del
peccato originale e del disordine da esso causato nell'essere umano non
può essere intesa con la ragione; ma che senza di essa l'esistenza umana
sarebbe ancora molto più inintelligibile. Giacché il disordine è
penetrato non solo nelP agire e nel comportamento, ma anche nel pensiero.
Per questo mi sembra che anche l'arte nuovissima sia istruttiva in
proposito. Essa sembra mostrare che l'uomo si sia smarrito anche su se
stesso. Non solo — come nella pittura di Georg Grosz — vede il male
nell'uomo, la fredda crudeltà, la perdita di genuini criteri, ma anche
perde affatto di vista l'uomo. C'è stata sempre la caricatura, che
caratterizza l'uomo contraffacendolo;
come anche il tentativo di mostrarlo nella prospettiva,
delle sue realizzazioni più sublimi, come nei ritratti dei santi — e
non sono da dimenticare quegli artisti che, come Goya, rappresentano
l'uomo quando di lui si è impossessato 'il demoniaco. Ma che cosa avviene
quando un Picasso fa a pezzi il suo volto e rimette assieme le parti in
modo che ne risulta non solo un uomo svelato nella sua terribilità, ma un
essere del tutto diverso? O quando altera talmente il rapporto fra testa e
corpo, mano e braccio, da sembrare di vedere una bestia dei tempi
preistorici? Questa è una risposta alla domanda sull'uomo, che non solo
paria della contraffazione dell'immagine divina, ma anche la distrugge
completamente.
272
Ciò che un uomo come Picasso fa in grande forma, con
mezzi che provocano sempre nuova impressione con la loro violenza e la
loro qualità artistica, torna di nuovo in modo quotidiano e ordinario
nelle figure, con cui il cinema, i giornali, la pubblicità e perfino i
libri per bambini parlano dell'uomo.
Quando anni fa nacque Mickey Mouse (Topolino) e si mise in
movimento nei films di Walt Disney — il piccolo folletto, che pure era
ancora così vicino allo uomo, adirato o allegro, per il quale sembrava
non esserci la legge del peso — noi abbiamo riso. Ma a poco a poco ci
accorgemmo che sotto i sentimenti, che vi si esprimevano, non c'era mai
l'amorevolezza, mai la bontà. Anche gli gnomi delle fiabe sono esseri,
che per così dire stanno sull'orlo dell'umano, ma essi accanto al loro
gusto per il disordine, hanno anche idee beneficile, a volte soccorrono
nel bisogno, accomodano ingiustizie. Mickey Mouse non fa mai questo; è
solo malvagità, e il riso a cui eccita, in fondo, non è buono.
Poi sono venuti fuori altri esseri simili; esseri che
rassomigliavano ad anitre o a scimmie o a insetti, ma erano sempre
riferiti alla fondamentale figura umana. All'opposto son venute fuori
immagini di uomini con teste gigantesche e minuscoli piedini;, altri, nei
quali c'era solo il ventre e il capo piccolo come uno spillo; esseri, la
cui testa consisteva solo del naso e della bocca e così via. Ormai il
mondo figurativo del nostro ambiente è pieno di questa genia, e noi
tolleriamo ciò non solo davanti al nostro sguardo indifferente di uomini.
adulti, ma anche davanti agli occhi vulnerabili dei nostri bambini. Essi
si abituano a vedere l'essere umano tramutato in figure, che lo pervertono
nei lineamenti dei coboldi.
Come spiega Lei questo fatto? Non mostra esso
273
che l'uomo non sa più a che punto sta con se stesso? Non
solo è enigmatico a sé, ma è smarrito intorno a se stesso? Anzi, che ha
timore di sé? Queste figure vengono da una profondità, cui l'uomo si è
abbandonato in balìa.
Lei, caro amico, è pedagogo; non crede che l'educatore
avrebbe ragione di occuparsi molto seriamente di questo fenomeno?
Cordialmente suo Romano Guardini.
274
XIII
EUROPA - REALTÀ E COMPITO* Altezza reale! Signore e
signori!
Il conferimento del premio Erasmo significa per me un alto
onore vivissimamente sentito — ed inoltre una conferma particolare,
della quale dirò subito qualcosa di più preciso.
Ma prima di tutto prego la Vostra Altezza reale quale
presidente della fondazione del Praemium Era-smianum, come pure il
suo Consiglio d'amministrazione, di voler gradire i miei più cordiali
ringraziamenti.
L'onore ricevuto significherà per me l'obbligo di
continuare nelle mie sollecitudini per la formazione di una viva coscienza
europea.
Non è facile dire qualcosa degno di essere ascoltato
sull'idea dell'Europa, dopo che tanto di significativo ne è stato detto a
voce e per iscritto. Permettetemi di prendere l'avvio dalla mia propria
esperienza. Quando si è vecchi, è permesso farlo, purché ci si
preoccupi di non diventare pedanti...
I miei genitori erano italiani e patrioti appassionati.
Un'impresa economica condusse mio padre in Germania; ma anche là cercò
di lavorare per la sua terra, con l'adempiere i compiti consolari
affidatigli con un interessamento che andava molto oltre la misura del
dovere. Quando venimmo in Germania, io ero nella prima infanzia. In casa
si parlava italiano; ma la lingua della scuola e della formazione
spirituale fu il te-
'" Discorso dopo il conferimento del Praemium
Erasmianum a Bruxelles il 28 aprile 1962,
275
desco. Questo ebbe il sopravvento, e non poteva essere
diversamente, come la lingua, con la quale mi pervennero il sapere e la
conoscenza della vita. Più tardi fu anche la lingua delle università che
frequentai e nelle quali cominciò a spiegarsi la mia personale attività
creativa spirituale.
Da tutta questa situazione sorse un conflitto
profondamente sentito, quando alla semplice bramosia di sapere sopravvenne
il problema della professione. E precisamente con la domanda in quale
terra dovesse essere esercitata questa professione; giacché «
professione » è per lo più congiunta con esami, abilitazioni, in breve,
con un contesto sociale, e si riferisce perciò ad una terra determinata.
Dal punto di vista intellettuale, io dovevo esercitare questa professione
in Germania, poiché la mia formazione e la mia idea della vita erano
tedesche; io pensavo in tedesco, giacché si pensa pure in una lingua.
D'altra parte, però, era sempre viva la mia unione con l'Italia, che per
i miei genitori era la patria e perciò la terra in cui, secondo il loro
pensiero, doveva vivere e lavorare il loro figlio.
Ciò è avvenuto molto tempo fa, più che un mezzo secolo.
Perciò non so se un giovane di oggi sentirebbe la questione, come l'ho
sentita io. Probabilmente no, poiché da allora sono avvenute molte cose
— fuori nel grande mondo, con guerre, espulsioni e fughe, ma anche
all'interno, col mutare dei pensieri e dei sentimenti. In ogni caso una
volta il legame alla propria terra, con tutto ciò che si chiama onore e
dovere patriottico, era molto forte; perciò quando mi si affacciò l'idea
europeistica, ciò significò per me la possibilità di una conveniente
soluzione del conflitto.
Ora io potevo abbandonare la cittadinanza italiana e
assumere quella tedesca, senza rompere la fedeltà,
276
giacché ciò avveniva in un contesto che'abbracciava
entrambi i terrkori e che si chiama « Europa ». Io ho compiuto il passo
verso la Germania nella coscienza di essere europeo. Certamente anche
l'essere europeo aveva le sue difficoltà. Talvolta sorgevano situazioni,
nelle quali non si poteva chiarire senz'altro il proprio comportamento.
Altre, che mettevano in imbarazzo la coscienza e il sentimento. Ricordo
solo la situazione della guerra e precisamente della prima guerra
mondiale, nella quale il nazionalismo era ancora molto vivo, anzi per
qualche rispetto era innalzato fino al suo culmine. Tuttavia l'idea di
un'Europa ha tenuto duro.
Perdonate che abbia parlato così a lungo di cose
personali; volevo dire con dò quanto significativo per me debba
essere ora il conferimento del Premio Era-smo. Esso rappresenta la
conferma di un'idea che molto presto è diventata operante nella mia vita.
Negli anni 1956-1960 è apparso un lavoro interessante: 11
tradimento nel secolo XX di Margret Boveri. Non ho alcun giudizio sui
suoi fondamenti oggettivi;
in ogni caso è un libro molto abile e parla da una
profondità maggiore di quella cui da accesso il semplice sapere. Cioè
quando in esso si parla di « tradimento », ciò non deve nascondere il
fatto, che in fondo si tratta della fedeltà. Io so che a questa parola si
attacca ogni sorta di sentimentalismo; so anche che se ne è molto
abusato, 'spesso proprio da coloro che non esercitavano essi .stessi
alcuna fedeltà, pure avevano bisogno di gente su cui far conto. Ma ci
deve essere fedeltà; l'onore dell'uomo dipende dal fatto che ci sia
qualcosa per cui egli è pronto ad impegnarsi realmente — ciò in cui
sono le sue radici: la patria e la comunità della vita.
277
Ma, d'altra parte, noi viviamo l'ora storica, m cui si
allentano i confini di quell'ambito, in cui ancora quaranta o
cinquant'anni fa si radicava la fedeltà, cioè le nazioni. Lo spazio in
cui l'uomo esiste diventa più grande. Già il giovane impara oggi, pur
vivendo nelle diverse parti della terra, a pensare globalmente. Già egli
sente che ciò che avviene nella sua città esercita il suo influsso in
tutte le città; che ciò che riguarda la sua terra concerne anche tutte
le terre. Dove egli avverta questa relazione con tutta la terra, è una
questione della sua situazione di vita: nella scienza o nella tecnica,
nell'arte o nella politica o economia — ma in qualche luogo egli sente
l'appello alla vastità terrestre e, se è di mente sveglia, anche una
responsabilità per essa.
Il filosofo Georg Simmel nella sua sociologia ha sostenuto
l'affermazione che, quando in un determinato ambito ci sono una quantità
di piccole formazioni sociali, di caso in caso chiuse in se stesse, allora
si contrappongono fra loro dapprima con la diffidenza e il sospetto, poi
con l'ostilità. Invece il rigore di questo isolamento si allenta nella
misura in cui diventa manifesta una più ampia coesione, che dall'esterno
esercita su di esse una pressione. Questo accade oggi rispetto alle
nazioni. Esse appaiono come parti dei continenti, dai quali cominciano ad
uscire le iniziative decisive. E già diviene manifesta una coesione
ancora più grande, cioè lo spazio terrestre come un tutto — per il
fatto stesso che viene in considerazione anche quell'ambito che circonda
la terra, cioè lo spazio cosmico. Non solo in un senso teoretico, ma come
qualcosa che riguarda la nostra vita — così reale che, per fare un
esempio, i mezzi informativi si creano punti d'appoggio nello spazio
cosmico, per poter lavorare meglio sulla terra.
278
Ma nello stesso momento sorge per il singolo la questione;
posso io esistere direttamente nello spazio del continente? La
sopranazionalità è compaginata in modo, che io possa trovare in essa
anche patria e onore? Dov'è lo spazio per la fedeltà, come polo
contrapposto alla vastità dell'espansione e della grande responsabilità?
Qui la nazione consegue un nuovo significato. C'è una
maniera di sentirsi continentali, anzi globali, che può essere
interessante, ma che rende l'uomo senza patria e che non basta ad un più
profondo appello del senso d'onore. Da questa sorge il cosmopolita, come
quell'uomo che in nessun luogo risponde con la sua vita, perché egli può
andarsene altrove egualmente bene. In maniera normale la nazione
rappresenta il luogo del radicamento vitale — tuttavia non nella sua
precedente forma chiusa, ma così che essa sia coordinata insieme con le
altre nazioni nel continente; forma di vivere caratteristica satura di
storia, ma che rappresenta un organo nel contesto più vasto. Da essa
abbiamo l'europeo olandese, belga, francese, tedesco. . .
Noi siamo abituati a considerare l'Europa come una parte
del mondo e perciò a metterla in una serie di formazioni così immense,
come l'America, l'Asia, l'Africa — è giustificato ciò? Questa piccola
penisola del colosso asiatico?
Come risposta a questa domanda ci si potrebbe dapprima
appellare alla grandezza della sua popolazione, appena venga considerata
come un tutto; alle sue prestazioni riunite economiche, industriali,
scientifiche, artistiche. Sono certamente aspetti importanti;
ma gli altri continenti hanno riserve in spazio ancora
inutilizzato, in tesori della natura non ancora aperti,
279
un potenziale di futuro aumento di popolazione, e una
volontà di progresso scientifico e tecnico, che dovrebbe diminuire ogni
anno più l'importanza delle cifre dell'Europa. .C'è una prestazione
assegnata in modo speciale all'Europa e che potrebbe essere certamente
compiuta anche da altre parti del mondo, ma non con una tale, diciamo
intrinseca, competenza?
Potrei cercare la risposta da un problema, che mi agita da
lungo tempo e che senza dubbio è familiare anche a voi.
La questione se la ricerca 'scientifica avanzerà non è
un problema;, in essa opera un così forte impulso intrinseco, che essa va
avanti come da se stessa. Il medesimo si può dire della tecnica; essa si
sviluppa con consequenzialità da se stessa. Da scienza e tecnica risulta
un potere dell'uomo sulla natura — e sullo stesso essere dell'uomo, in
quanto anch'egli è natura vivente —, potere che cresce in tempi sempre
più rapidi. Ciò significa un progredire verso un'indipendenza sempre
maggiore e una più ampia relazione con il mondo. E se definiamo l'essenza
dell'uomo in accordo col Genesi come capacità di dominio sul mondo
(Gen. 1, 26), allora l'aumento del potere significa un progresso
verso una più piena autorealizzazione dell'uomo.
Questo pare chiaro a prima vista. Ma il problema, che deve
occupare nel modo più serio ognuno a cui esso si affaccia, suona: basta
già questa formula da sola? Non equipara essa in maniera troppo semplice
l'aumento quantitativo del potere con la crescita esistenziale dell'uomo?
In quale rapporto sta alla lunga il crescere del potere con l'umanità
dell'uomo?
Sarà bene ricordarsi di una legge fondamentale della
filosofia della cultura: che non c'è alcuna azione che
280
vada in una sola dirczione, ma ogni azione ha due lati.
Potere è possibilità di agire; ma ogni azione che io esercito provoca
un'azione contraria, che si dirige sopra me stesso. Già il solo fatto di
avere potere, la possibilità di esercitarlo, esercita un influsso su di
me: lo stimolo a tradurlo in atto, il quale stimolo cresce fino alla
coazione, anzi alla ossessione demoniaca; la responsabilità che esso mi
impone perciò, se e come io l'usi, e così via.
Può il potere crescere con qualsiasi rapidità e a
qualsiasi altezza e l'uomo rimane uomo in senso pieno?
A questa domanda, noi pensiamo dapprima a ciò che
chiamiamo danni della cultura: ai pregiudizi che soffrono corpo e spirito
sotto i passi falsi e l'eccesso dello sviluppo culturale — fenomeni, che
hanno dato motivo a riflessioni pensose, fin da quando si danno culture e
civiltà superiormente sviluppate.
Più importante, e altrettanto preoccupante, è il fatto
che il sempre crescente sviluppo scientifico e tecnico stacca sempre più
l'uomo dalla natura. La « natura » è ciò che v'è « di per sé »,
ciò che si svolge per impulsi immanenti; si rinnova continuamente per la
propria fecondità. « Cultura » invece è ciò che l'uomo produce e
mantiene in essere. Quanto più ampiamente cresce la potenza dell'uomo,
tanto più egli emigra dalla natura nella cultura — ma ciò significa,
in un mondo, in uno stato, che non sono cresciuti da sé e garantiti da un
ordinamento interno, ma sono fatti da lui, perciò hanno il carattere
dell'arbitrarietà • e con ciò del rischio. Il mito di Atlante ne
affronta uno nel senso che è condannato a sostenere la volta celeste.
Egli non può camminare libero sotto di essa,
281
ma gli è accollata come un carico; se egli cessa di
sostenerla, quella crolla.
Dov'è il limite oltre il quale il carico schiaccia il
portatore?
Ma allora: lo stesso esser potente, l'uso della potenza in
quanto tale deve esser attuato spiritualmente, con responsabilità
personale. Può l'uomo esercitare ed esser responsabile di una potenza
grande a piacere? È giusto vederlo sotto la figura di un essere che a
poco a poco possa raggiungere Dio? che progressivamente assumerà lui
stesso persino le azioni che la fede religiosa prima ascriveva a Dio? Le
cose stanno come pensa l'ateismo postulatorio, cioè che l'uomo è
l'onnipotenza potenziale e che si realizza, sulla base dell'evoluzione
necessaria, nella misura in cui acquista ed esercita potenza? Insieme con
la potenza crescente, crescerà anche nella stessa misura la capacità di
abbracciare con lo sguardo il suo campo e i suoi effetti, d'accordare
questi ultimi fra loro e di creare una totalità stabile? Oppure l'aumento
della potenza lo conduce in campi sempre più pericolosi? « Essere » è
un verbo; esistere è un atto; esistere come uomo è un'operazione. Questa
operazione racchiude in sé il momento del possesso della potenza,
dell'esercizio d'essa, della responsabilità per essa:
può l'atto esistenziale dell'uomo sostenere una potenza
grande a piacere? Oppure si da per lui la possibilità — e con ciò il
pericolo — del sovraccarico esistenziale?
Alla considerazione della storia dello spirito nell'età
moderna continua ad impormisi il pensiero che tale sovraccarico sia già
sopravvenuto, e precisamente sotto la pressione dell'idea di autonomia.
Questa sorge nel Rinascimento. L'autoscoperta dell'uomo, l'espe-
282
rìenza vitale di ciò che è umanamente originale, la
coscienza della libertà e della forza creativa — tutti quei momenti,
che inondarono l'inizio dell'età moderna con una così violenta piena di
vita, crebbero fino al sentimento che l'uomo sia misura di se stesso e del
suo agire, signore del suo essere.
Non è allora strano che all'altezza di questa coscienza,
nel totalitarismo, la volontà di libertà si trasformi nell'abbandono di
se stessa in una pretesa necessità del movimento storico e nello Stato
come sua espressione e mandatario? Così radicalmente, che
l'au-toaffermazione dell'individualità e quella dei suoi diritti appaiono
come delitto contro l'opera della comunità unica importante, come «
sabotaggio »? Non appare allora la figura dell'uomo sovraccaricato che
rinuncia a se stesso?
Qualcosa di corrispondente, così si pensa, potrebbe
ripetersi di nuovo e in misura maggiore. Così che la crescita della
potenza abbia luogo troppo rapidamente;. l'essere vivente dell'uomo non
sia ancora cresciuto al livello d'essa — forse nella maniera, in cui un
giovane non può ancora portare quella misura di potenza e
responsabilità, di cui è all'altezza uno più maturo, e soffre danno, se
gli è richiesta troppo presto?
Ma allora, oltre a ciò e adesso in senso propriamente
filosofico, si chiede: ci sono forse affatto per gli uomini limiti della
capacità di potenza, oltrepassare i quali deve necessariamente condurre
verso l'autodistruzione? Se la potenzialità, la possibilità di divenire
dell'uomo non è fondata in una forma essenziale, il che però significa,
chiusa in una misura? Perciò il suo superamento dovrebbe condurre ad una
distruzione della forma e con ciò nel caos? Ma l'uomo,
283
non essendo un essere naturale, ma caratterizzato dallo
spirito, cioè libero, potrebbe anche far saltare questa misura?
Tutto ciò significa che l'uomo porta in sé la
possibilità del tragico. Il mito lo sa — e il cammino della storia 'non
è così fatto, che questa possibilità diventa manifesta dappertutto a
chi vuole vedere?
Quando noi parliamo della potenza che l'uomo odierno
possiede già in misura così enorme ma inoltre sempre più rapidamente
crescente, pensiamo involontariamente alla potenza sulla natura. Ma non
dobbiamo dimenticare che essa è anche potere dell'uomo sugli altri uomini
— e con ciò dell'uomo sopra se stesso. .
Quanto sia grande la potenza, sì presenta alla coscienza
massimamente là dove essa distrugge. Noi d'oggi abbiamo vissuto
l'avvenimento, in cui la possibilità di distruzione divenne pienamente
patente, quando fu lanciata la bomba atomica ad Hiroshima. Avviene in
realtà sempre nella storia che le nuove realtà siano dapprima quasi
amorfe, solamente presagite, avvertite. Poi avviene qualcosa, per cui ciò
che prima era indeterminato prende forma, diventa esprimibile. Ciò è
avvenuto con la bomba atomica. Il nostro quadro esistenziale è d'ora in
avanti quello dell'uomo, che dispone di questa bomba e con essa può in
certa misura distruggere se stesso, cosa che prima non si sarebbe potuta
pensare.
Certamente, con le forze in essa operanti, l'uomo può
realizzare cose immense; anche ciò ci è divenuto chiaro in questi anni.
Egli ha messo la mano sulle energie del cosmo. Può aprirsi il cammino
nello spazio cosmico. Ma ciò che lo porta alla più acuta coscienza della
sua potenza è la nuova mostruosa possibilità di distruggere.
284
E, oltre la bomba atomica, non vogliamo dimenticare
quell'altra possibilità di esercizio di potere, che parimente è stata
conquistata in questi anni, cioè quella di penetrare nell'atomo umano,
nell'individuo, nella personalità. (Le parole « atomo » e «
individualità » nel loro senso fondamentale significano lo stesso, cioè
quel che è « non-divisibile »). Non si parla molto di questo; ma gli è
che con i mezzi, che psicologia e chimica mettono in mano, non solo
possono essere vinti disturbi finora inattaccabili, ma anche può essere
forzata la parte più intima dell'uomo. Per questo è stata trovata una
parola che suona innocente — come se ci si vergognasse di ciò che
significa —, il «lavaggio del cervello». È possibile cambiare in un
uomo contro la sua volontà la maniera con cui egli vede sé e il mondo;
le misure, con cui egli misura il bene e il male; la condizione che egli
come persona ha in se stesso. Questa possibilità è stata attuata e sarà
attuata sempre di nuovo — anzi essa, come sollecitazione e propaganda,
gioca già un ruolo nel vivere che si dice del « mondo libero », ruolo
che è tutt'al-tro che esente da perplessità e riserve.
Anche questa è una forma del potere umano, più sottile,
meno drammatica, ma forse ancor più minacciosa che quella della bomba
atomica.
Il fenomeno dovrebbe essere esaminato da molti lati. Si
troverebbero forme sempre più forti e più precise, del come l'uomo possa
impadronirsi dell'uomo: rendersi soggetti i suoi pensieri, guidare i suoi
desideri, determinare le sue norme di misura, penetrare nell'inconscio
dell'altro e di lì comandare il suo agire conscio.
Tutto ciò significa possibilità di influsso, che prima
non si potevano sospettare. Per ottenere un paragone,
285
possiamo pensare che prima di un periodo relativamente
breve passava ancora come illecito adoperare i cadaveri umani per scopi di
studio. Tanto grande era la soggezione di fronte all'intangibilità
dell'uomo, che la ricerca anatomica potè nascere solo con notevole
pericolo per colui che l'esercitava.
La potenza è un fenomeno che ha scosso l'uomo antico. «
Si danno molte cose spaventevoli, ma nessuna più spaventevole dell'uomo
», dice il coro neìì'Anti-gone di Sofocle. La potenza dell'uomo
è qualcosa di ben diverso dall'energia della natura o dalle forze degli
animali. Le energie della natura possono essere enormi, ma esse corrono
nella necessità assoluta delle loro leggi e possono essere esattamente
calcolate. La forza degli animali è già diversa; non è determinabile
matematicamente, perché è vita e gli atti vitali sorgono da un punto
originario che alla fine non è esprimibile razionalmente. Nell'uomo poi
si aggiunge qualcosa di completamente nuovo. La sua azione forse non è
semplicemente più forte di quella delle energie della natura — in
generale rimane addirittura al di sotto, persino quando è potenziata
dagli strumenti della chimica, fisica e tecnica fino a prestazioni sempre
più grandi. Ma nell'uomo l'energia, la propria, come quella che prende
dalla natura, entrano nel campo della libertà. E la libertà, nonostante
tutto ciò che pensa il determinismo meccanicistico, è pure appunto
libertà, cioè sovranità di decisione. Mentre l'uomo prende sempre più
in suo dominio la natura, egli trasporta nel campo della libertà le
energie che nel regno inanimato sono legate da leggi razionali, presso gli
animali s'inalveano negli ordinamenti delle loro funzioni vitali. Ma ciò
significa che egli le sottomette ad un principio che fondamentalmente non
28^
è calcolabile. Ancor più, anzi: a un principio, in cui
influisce tutto ciò che si dice cuore umano — prendendo la parola nel
senso ampio, che ha in un Agostino o in Pascal. Il mondo intero viene qui
sotto un'istanza, della quale è impossibile dire come ne disporrà.
Attraverso il loro impiego si compie la storia e dò si
chiama destino: ascesa e declino, salvezza e disgrazia. Dov'è l'ordine in
cui l'uso della potenza adempie il suo significato? •
Credo di non giudicare ingiustamente, se penso che il
problema non è stato ancora visto in tutta la sua serietà, anzi nemmeno
affrontato. Ma chi è chiamato a porlo e ad avvicinarsi ad una soluzione?
Con ciò noi ritorniamo alla nostra questione .
Non sembra che sia l'America, come continente, quella a
cui è affidato questo compito. La storia di questa grande terra è ancora
troppo breve per questo;
essa è cominciata insieme col sorgere della scienza e
tecnica moderna. Inoltre il suo orientamento spirituale — se è permesso
un giudizio così generale — è ancora in ampia misura legato troppo
strettamente alla fede in un progresso universale e sicuro. Certamente, la
questione è sentita da singole personalità o circoli, ma essi sono
ritenuti piuttosto come outsiders.
Neppure l'Asia, credo, lo sarà. Certo la sua storia è
antichissima; ma essa sembra separarsi da questo passato e precipitarsi
sulle nuove possibilità con una sollecitudine di impressionante
rapidità.
Certamente è prematuro parlare dell'Africa in questo
contesto. Frattanto il suo incontro con scienza e tecnica sembra piuttosto
creare, nel senso di una genuina
287
cultura, confusione, che portare promozione e avanzamento.
Credo che qui ci sia un compito che è affidato
par-ticolarmente all'Europa.
Richiamiamoci il fatto che la sua storia, prolungata per
oltre tremila anni, conduce con andamento ininterrotto fino al più
recente sviluppo di scienza e tecnica. Essa non ci si è gettata dentro
con un salto, ma l'ha prodotta; e così ha avuto anche il tempo per
abituarvisi.
Ma, di più e di maggiore importanza: essa ha avuto tempo
per perdere le illusioni. Non sbaglio certo se penso che all'Europa
autentica è estraneo l'ottimismo assoluto, la fede nel progresso
universale e necessario. I valori del passato sono ancora in essa così
viventi che le permettono di sentire che cosa sta in gioco. Essa ha già
visto rovinare tanto di irrecuperabile; è stata colpevole di tante lunghe
.guerre omicide, da essere capace di sentire le possibilità creatrici, ma
anche il rischio, anzi la tragedia dell'umana esistenza. Nella sua
coscienza c'è certamente la forma mitica di Prometeo, che porta via il
fuoco dall'Olimpo, ma anche quella di Icaro, le cui ali non resistono alla
vicinanza del sole e che precipita giù. Conosce le irruzioni della
conoscenza e della conquista, ma in fondo non crede ne a garanzie per il
cammino della storia, ne a utopie sull'universale felicità del mondo.
Essa ne sa troppo.
Perciò io credo che il compito affidato all'Europa,
compito il meno sensazionale di tutti, ma che nel profondo conduce
all'essenziale, sia la critica della 'potenza. Non critica negativa, ne
paurosa ne reazionaria; tuttavia ad essa è affidata la cura per l'uomo,
perché essa ne ha provato la potenza non come ga-
288
ranzia di sicuri trionfi, ma come destino che rimane
indeciso dove condurrà.
L'Europa è vecchia. Prima sembrava che il carattere della
vecchiaia fosse marcato più fortemente sul volto dell'Asia — una volta,
quando ancora si parlava della sua intemporalità. Oggi essa sembra
rinnegare la sua vecchiaia e sorgere ad una nuova gioventù, certamente
grandiosa, ma anche pericolosa. L'Europa ha creato l'età moderna; ma ha
tenuto ferma la connessione col passato. Perciò sul suo volto, accanto ai
tratti della creatività, sono segnati quelli di una millenaria
esperienza. Il compito riservatele, io penso, non consiste nell'accrescere
la potenza che viene dalla scienza e dalla tecnica — benché
naturalmente farà anche questo — ma nel domare questa potenza. L'Europa
ha prodotto l'idea della libertà — dell'uomo come della sua opera —;
ad essa soprattutto in-. comberà, nella sollecitudine per l'umanità
dell'uomo, pervenire alla libertà anche di fronte alla sua propria opera.
Anzi, l'Europa sarà capace anche di porre la domanda se
sia permesso in assoluto all'uomo esercitare il potere sull'altro uomo.
L'altro uomo, che non è una cosa, ma un io, una persona. Una domanda
tardiva, che si formula chiaramente solo quando molta storia è stata
vissuta. Nell'Europa l'uomo si è caricato di un'incalcolabile colpa verso
l'uomo, ha prodotto incommensurabili sventure; deve anche vedere come,
d'altra parte sia stata usata all'uomo un'impensabile violenza, sulla base
delle possibilità da esso create — perciò egli ha la premessa per
porre questa domanda; e non solo come problema teoretico, ma come
questione della condotta di vita reale.
Forse è possibile fare un cenno sulla dirczione verso
289
cui la risposta potrebbe andare. Vi sono due maniere in
cui può essere esercitata la potenza rispetto all'uomo. Una è quella del
dominio. Essa caratterizza la storia passata ed è legittima finché la
forma di dominio di volta in volta presente esprime una realtà
metafisica, una « maestà ». Dove ciò accade, ha il carattere della
grandezza, della rappresentazione simbolica. Allora l'uomo che esperimenta
il dominio, lo sente come giusto. Lo vive con una parte del suo essere,
che anela ad un farsi presente dell'Alto. Ma non appena non esperimenta
più questa presenza, il suo diritto non è più credibile, allora dal
puro dominio si passa ad avere la violenza, contro cui si ribella il senso
della libertà.
Ma c'è anche un'altra forma di esercitare il potere,
quella del servizio. Con ciò non si intende la subordinazione del più
debole; questo servizio al contrario è questione della forza, che si
sente responsabile per la vita — per tutto ciò che si chiama vivere:
uomo, popolo, cultura, ordine del paese e della terra. Tutto ciò — sia
detto ancora una volta — non nell'impotenza della debolezza, ma nella
superiorità della forza; legittimato parimenti per incarico divino, ma in
una maniera che non esprime « maestà », bensì — se è lecito
richiamare in onore questa parola proibita — « umiltà ». Forza di
servizio, che vuole che le cose della terra divengano giuste. In questa
forma di esercizio della potenza non c'è splendore ne sublimità, ma
semplice realistica oggettività. Però forse è ciò che propriamente
intende la rivoluzione ribollente dovunque, poiché anche l'uomo d'oggi
vuole un ordine valido sotto cui stia la potenza — ma un ordine che
serva. Riconoscere e realizzare questo potrebbe essere parimenti compito
dell'Europa — della stessa
290
Europa, che tante volte ha esercitato il potere e ha
rivendicato una maestà ormai svuotata. Ma se si obietta
che ciò sia un'utopia morale, ricordiamoci quante utopie siano diventate
prototipi di realtà.
Senza dubbio, l'Europa del mandato per la quale abbiamo
parlato ancora non c'è. Si parlava di una legge, secondo cui la pressione
marginale esistente intorno ad un certo campo sociologico fa sì che i
territori particolari situati in questo campo si saldino insieme. Oltre a
ciò, però, non dobbiamo dimenticare che la parola « legge » si può
usare solo in un senso improprio nei confronti degli eventi storici. Non
è una espressione di necessità, ma una forma di divenire dotata di
significato. Il vedere nella storia un processo che scorra con necessità
in determinate forme, è un errore fatale. La storia non è un processo
naturale, ma un divenire umano, che non si compie da se stesso, ma deve
essere voluto.
« Europa » è un fatto politico, economico, tecnico —
ma soprattutto una 'disposizione di spirito, un sentimento. Al formarsi di
questo sentimento si oppongono forti impedimenti. Nella mentalità
primitiva — che però influisce fin nel nostro attuale presente — vale
la formula: ciò che è altro, forestiero è la realtà perversa,
minacciosa, anzi nemica. Questa formula di psicologia della cultura ha
trovato anche un'applicazione politica teoretica: secondo essa, lo Stato
è la formazione che può avere nemici. Anche amici;, ma soprattutto
nemici. La formula ci ricorda quanto forti siano le resistenze contro un
avvenimento quale la formazione di un sincero sentimento europeo, e quante
ancora saranno.
Per parlare solo di un compito in cui si rende mani-
291
festa la grandezza di dò che deve essere realizzato:
il formarsi dell'Europa presuppone che ciascuna delle sue
nazioni ripensi la sua storia e che intenda il suo passato in relazione al
costituirsi di questa grande forma vitale. Ma quale misura di
autosuperamento e di autoapprofondimento significa ciò!
C'è nella storia un esempio che ci può mettere in
guardia e mostrare quanto poco ciò sia naturale e quanto pericolo vi sia
di sbagliare. Noi portiamo in noi, come elemento della nostra formazione
l'idea dell'antica cultura greca, e non ho bisogno di spendere molte
parole sul suo valore formativo. Pure non bisogna dimenticare una cosa che
i grecofili volentieri trascurano: cioè che i greci hanno fallito di
fronte al più alto compito loro proposto, cioè la creazione di uno Stato
che abbracciasse insieme la ricchezza vitale 'di tutte le razze. L'impulso
fondamentale dei greci così creativo, cioè il senso agonistico, non ha
permesso che giungessero a questo; così essi hanno perso il momento
storico e sono stati degli stranieri, i romani, che hanno creato una
specie di unità, una unità nella assenza di libertà.
Anche l'Europa può mancare la sua ora. Ciò
significherebbe che un'unità sarebbe realizzata non come passo verso il
vivere libero, ma come un cadere nella comune servitù.
292
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INDICI
INDICE DEI TERMINI
Adorazione, 208. Alleanza (fra Dio e il suo popolo), 216.
Amore (amore di Dio), 77,
89 s., 119, 141, 207, 216 s.»
223, 244, 246 s., 249 s.,
250, 251, 254, 262 s., 264,
266 s. Anarchia, 104. Archetipo (ideale), 77. Arte, 22,
31, 34, 84, 164, 208,
238, 271, 272. Ascesi (ascetico), 39, 40, 42,
62, 67, 71, 86. Assoluto (Bene), 172-174. Ateismo
(ateistico), 64, 82, 86,
93 ss., 100, 110 ss., 117 s.,
122, 287; (a. politico), 115;
(a. postulatorio), 282. Attivismo, 35, 66, 195, 225,
235. Autonomia, 157, 265, 282, 283;
(cultura autonoma), 262. Autorità, 56, 84, 93 ss., 103,
104, 129, 166, 245. Azione, 55.
Bene 91, 95 ss., 145, 161, 171 ss., 222, 252, 259 s., 268
s,, 285; (Sommo B.), 76; (B. platonico), 174; (b. comune), 146, 209.
Benessere, 38, 263.
Bibbia (Sacra Scrittura), 70, 73, 75, 84;
(categoria biblica), 151; (concetto biblico), 206.
Bomba atomica, 284, 285.
Carattere, 41.
Chiesa, 88, 156.
Civiltà, 7, 11, 13, 63, 78, 130, 238, 281.
Collettività, 11, 49, 180.
Comunione, 27, 162, 247; (e. con Dio), 127
s.
Comunismo (comunista), 110, 120, 162, 165, 231,
236.
Comunità, 134 ss., 140 s., 147, 202, 226, 230,
233, 244, 264, 277.
Confessione (religiosa) 117 s.
Conoscenza, 39.
Contemplazione (contemplativo), 35, 56, 57, 66.
Convinzione, 136. '
Coscienza, 17, 22, 36, 48, 59, 74 s., 81, 86 ss.., 94 ss.,
101 s., 113, 120 s., 134 ss., 139 ss., 153, 167, 180, 189, 201, 218 s.,
244, 248, 258, 277, 283; (e. morale), 41, 161; (e. mitica), 75, 283.
Cosmo (cosmico), 80 s., 113, 156, 265, 278, 284.
Creatore (Dio), 78, 124 S.
Creazione, 78, 85 s., 108, 113 s., 119, 207, 218, 221,
223, 252, 266 s., 269.
Crisi (del colonialismo) 120;
(crisi culturale), 73.
Culto, 226, 246. Cultura, 7, 9, 11, 13, 15 ss.,
21, 28 ss., 33 s., 39, 47, 53, 59 s.., 63 s., 68, 102,
295
112, 120 ss., 128, 146, 155 ss., 162, 172, 204, 208 ss.,
214, 232, 246, 255, 258, 262 s., 280 s., 292; (filosofia della e.), 7, 13;
(attività culturale), 23, 103.
Deismo, 88. Demagogia (demagogico), 94,
•^103, 148. Democrazia (democratico), 145
ss., 150, 153, 159 s., 168,
211. Destino, 25, 174, 195, 210,
-213, 265, 287. Determinismo meccanicistico,
286.
Dialettica, 64. Dialogo (interreligioso), 121,
171 ss.
Dimensione escatologica, 220. Diritto, 52, 150, 171, 185,
290; (d. della vita umana
in formazione), 177 ss. Disciplina (autodisciplina),
39.
Dittatura, 104, 142, 147. Dogma, 37. Dolore, 196.
Domenica, 202 ss. Dovere, 150, 189, 240, 249,
251, 253, 258 s., 263, 275.
Educazione (educatore), 48-
49, 139, 179, 182, 196,
212, 240, 274. Ente Supremo, 76. Eros, 26.
Escatologia, 220. Esercizi spirituali, 69. Esistenza
(esistenziale), 9 ss.,
14, 19, 21, 26 ss., 47, 50, 52, 59 ss., 65, 68, 71, 77, 80
ss., 84 ss., 91, 95, 98, 115, 119, 125 ss., 135 ss., 137, 140 s., 150,
155, 161 s., 165 s.; (e. umana) 169, 171, 177 s., 178 s., 181, 184, 191,
195 ss., 206, 215, 217 ss., 221, 223, 225, 237 s., 254, 266 ss.; (e.
cristiana), 257; (esistenzialismo francese), 257.
Esperienza (e. umana, e. religiosa), 8, 35, 44 ss., 68,
80, 84, 96, 101, 115, 130, 141, 159 ss., 171 s., 182, 216, 228 s., 252,
275, 289.
Essenza (e. dell'uomo), 34, 53, 68, 74, 126, 183, 196,
219; (e. delle cose), 38 s., 56, 66; (e. della vita), 193, 207, 224.
Essere (e. umano, e. delle
cose), 11, 15, 21, 40 s., 42, 53, 58, 71, 104, 135 s., 178
ss., 183, 190 ss., 213 n., 272; (e. assoluto), 89.
Eternità, 80, 220-223.
Ethos,
29, 139, 147, 148, 160, 183, 196, 211, 260, 263.
Ètica, 13, 48, 58, 60 s., 67, 90, 96 ss., 98, 131, 165,
,181, 184; (problema etico), 30, 41; (autonomia etica), 87; (norma etica),
159, 169; (piano etico), 182.
Europa, 169, 180, 254, 275 ss., 288 ss.; (coscienza
eu-ropeistica), 275.
Evoluzione (evoluzionismo),
296
31, 44, 63, 78, 87, 19ì 203, 282; (e. spirituale), 169.
Famiglia, 139-140.
'Fatum, 37.
Fede, 12 s., 49, 75, 85 s., 88, 90, 104, 108 ss., 113, 116
s. 123, 127 ss., 202, 216 ss., 233 s., 244 ss., 254 s., 260, 269; (f. nel
progresso), 287 s.
Fedeltà, 277.
Filosofia vitalistica, 160-161.
Finalismo (finalistico), 34.
Fine, 65.
Fisica, 23, 31, 37, 115, 286.
Giudizio, 39, 269. Giustizia, 11, 76, 198.-Grandezza,
40. Grazia, 78, 85 s., 126, 127,
207, 217, 220 ss., 248,
261 s., 266, 269. Guerra, 31, 179-180.
Idealismo (idealistico), 88, 115, 213, 231, 271.
Ideologia, 158, 164.
Illuminismo, 25, 128.
Immanenza, 64.
Incarnazione, 79, 89.
Indicazione sociale, 180, 182, 184, 189, 200.
Individuo (individualismo, individualizzazione), 26 s.,
34, 146, 160, 194, 255; individualismo liberale, 33 ss.
Integrità (dell'uomo), 42, 59.
Interiorità, 35, 36 s.
Isolamento (dell'uomo), 26 ss.
Istinto, 20, 40, 45 s., 51 s., 236.
Laicato (laico), 257 ss., 261 s. Lavoro, 58, 72, 207, 209
ss.,
218, 224 s., 237. Legge, 38, 52, 75, 80, 98, 101, 102,
115, 182 ss., 184, 200, 203, 207, 212, 245, 280, 291; (1. della
correlazione), 57; (1. della duplicità), 46. Liberalismo, 86, 158 s.,
258. Libertà (liberazione), 16 ss., 31, 35, 38, 40, 42, 48 s., 52 s., 59,
63 s., 65 s., 72, 77 ss., 83, 89, 95 ss., 100, 108, 114-116, 119, 125, 133
ss., 148 ss., 157 ss., 167, 174, 199, 209 s., 211, 214, 215 n., 217 s.,
221 s., 232, 254 ss., 260, 264 ss., 286, 289, 292. Luogo comune, 50.
Male, 91, 145, 158, 208 n.,
209, 219, 222, 258 s., 259,
268, 272, 285. Marxismo (marxista), 37. Massa, 26, 27,
131, 163, 181,
230.
Materialismo, 192, 271 s. Maternità, 187. Medico,
196. Medioevo, 10, 80 ss., 128,
156, 238, 255. Meditazione (culturale), 35,
36-s., 68, 71. Messaggio cristiano, 108 s.,
120. Metastoria, 206.
297
Miracolo, 256.
Misticismo, 36.
Mito, 10, 26, 58, 76, 80 ss., 119 s., 170, 205, 246, 255,
258, 284, 288; (figura mitica), 16; (concezione mitica), 80.
Mondo, 75 ss., 89 ss., 107 s., 123, 125, 127, 166, 186,
207, 216 ss., 222, 231, 251, 254, 258 s., 260 ss., 267 ss.
Monismo, 64, 82.
Moralità, 48, 171; (moralistico), 62; (dovere morale),
95; (ordine morale), 97;
(situazione morale), 149.
Morte, 77, 191 s., 194, 217, 220, 246.
Natura, 9 ss., 18 ss., 32 ss., 43 ss., 61, 64 s., 77, 112,
134, 206 s., 221, 237 s., 255 ss. 262, 281, 286; (ordine naturale), 23;
(concetto naturalistico), 45; (n. personale), 141.
Nazione, 279.
Nazismo (nazista), 117 s., 139, 143, 164.
Necessità, 37.
Nichilismo (nichilistico), 168.
Norma (morale), 51, 174, 182, 187, 198, 224, 226, 262,
285.
Nous, 76.
Ontologia (ontologico), 30. Organismo, 31, 191 s. (o.
geografico-culturale), 235. Ottimismo, 263, 266, 267,
288.
Panteismo, 113 s.
Paradiso terrestre, 208-209, 258, 261.
Pasqua, 217 s.
Patologia, 12.
Peccato (originale), 79, 90, 126, 216, 218, 247, 272.
Pedagogia, 13, 49, 190, 236, 274.
Persona (personale, personalità), 33, 37 ss., 47, 55, 77,
96, 100, 114 ss., 125 ss., 131, 133 ss., 140, 158, 161, 179, 185 ss., 188,
191, 199, 200, 209 s., 236, 243, 253 s., 287, 289.
Pessimismo, 266 s.
Fiatone (platonico), 11.
Politica (politico), 34, 36 s., 42, 51, 111, 121, 156 ss.,
165 s., 256; (ideologia p.), 136; (violenza p.), 137;
(propaganda p.), 142.
Positivismo, 82 s., 129, 238, 258.
Potenza, 13, 32, 34, 47 ss., 61, 66, 86, 89 s., 124, 126,
153, 164 s., 169, 198, 266, 281 ss., 289 s.
Potere, 38, 48, 65, 112, 142,
164. 171, 184, 188, 196, (Potere come servizio),
290. Problema (teoretico), 12. Processo, 32, 37, 39, 46, 62 ss., 158,
167, 231 s.; (pr. storico politico), 119; (pr. spirituale), 119.
Progresso, 7, 31, 32, 33, 40 s., 47 ss., 60, 63, 66, 124,
165. 212, 214, 237 ss., 263, 266, 280, 287.
Protestantesimo, 84.
298
Provvidenza, 13, 33, 178, •
218. Psicologia (psicologico), 94,
109 ss, 131, 144, 168, 190,
197, 208, 285 (ps. della
cultura), 291. Pubblicizzazione dell'esistenza,
27, 28, 55, 103, 148, 236.
Ragione, 48.
Razionalismo, 88, 89.
Realismo, 37.
Redenzione, 79, 108, 215 ss., 217, 218, 221, 262, 265 s.
Regno di Dio, 79, 108, 122, 246.
Relativizzazione dei valori, 117.
Religione (religioso, religiosità), 58, 76, 111 s., 116,
120 ss-, 124 ss., 130, 159, 211, 223, 260; (storia delle religioni), 119;
(vita religiosa), 163, 263.
Res publica,
38.
Responsabilità, 14, 37 ss., 61, 67, 72, 83, 86, 90 s., 98
s., 115, 123, 125 s., 138 s., 145 ss., 158, 167, 196, 201 s., 253,
260 s., 265, 282; (autoresponsabilità), 38, 185.
Resurrezione, 86, 217, 221.
Rinascimento, 128, 157, 282.
Riposo, 225, 226, 233.
Rivelazione, 64, 75, 77 ss., 80, 85 ss. 107, 110 ss., 117,
121, 127 ss, 132, 151, 156 s., 205 s., 211, 224, 253.
Rivoluzione (rivoluzionario), 66, 150; (r. perenne), 104.
Romanticismo, 128.
Sacerdozio (dei laici), 260.
Salvezza, 85 s, 127.
Santità (santo), 78, 89, 158, 216, 243 ss., 245, 248,
257, 264, 267 ss., 269.
Sapere, 56.
Scienza (scientifico), IO, 21 ss, 31, 34 ss., 39, 52, 59,
62, 68 s., 70 s., 82, 85 s., 102, 113 s., 122 ss., 129, 143, 153 ss-, 280;
(sviluppo scientifico), 7, 199; (attività scientifica), 40.
Secolarizzazione (del cristianesimo), 33, 85 ss., 113.
Sensibilità, 45.
Sentimento, 25, 50 s., 56, 84 s., 109, 124, 130, 148, 161,
168, 233 s,, 276. s., 283, 291.
Servizio, 290.
Simbolo (simbolismo), 83, 128, 290.
Simbolo (simbolistico), .121.
Sincretismo, 113.
Società (sociale), 36, 112, 118, 150, 154, 164, 177 s.,
196; (s. dei consumi), 271;
(s. democratica), 148, 197, 205, 225, 229.
Sociologia (sociologico, sociologo), 7, 12, 11, 117, 278.
Speranza, 42, 18, 221, 266, 268, 269.
Sperimentalismo, 61.
Spirito (dell'uomo), 17 s., 20, 26, 36, 44 s., 52, 63,
115, 135, 206, 224, 256;
(storia dello sp.), 155; (sp. assoluto), 271.
299
Stato, 11 s., 31 ss., 38, 50, 56, 60, 64, 82 s, 87 s., 98
s., 105, 134 s., 137 ss., 143 ss., 147, 162, 164, 171, 178, 184 ss., 186
ss., 198 s., 201, 210, 230, 236, 245, 254, 283, 291 s.; (St. di Israele),
118.
Storia (storico, divenire st., situazione st.), 10, 12, 16
s., 21 s., 29, 33, 47 s., 52, 64, 78 ss., 88, 97, 100, 108 ss., 118, 123,
130, 132, 155, 159, 165 ss., 169, 195, 203, 206, 213 n., 214 n., 222, 231,
237, 249, 254, 265 s., 279, 287, 291 s.
Struttura, 25, 30, 34, 38, 76, 79, 183; (str. della vita),
159, 190 s.; (str. fisicospirituale), 107; (str. dello Stato), 146.
Tacere, 53, 66.
Tecnica, 10, 13, 22 ss., 31, 34, 36 s., 39, 41 s., 43, 52,
59 ss., 65 s., 68, 71, 82, 85, 87, 122, 124 ss., 129, 153, 163, 168, 171,
181, 186, 188, 202, 227 s., 280; (sviluppo t.), 7; (funzionalità t.), 23;
(problema t.), 33, 35; (apparato t.), 34.
Tempio, 223 ss.
Tempo, 220, 223.
Teologia (teologo), 119, 121, 128, 151, 177; (t. della
potenza), 126; (t. della domenica), 224.
Totalitarismo, 33 s., 58, 82, 140, 146, 162, 165, 169,
200, 230, 236, 283; (potere, regime totalitario), 27 s., 133, 139.
Trascendenza (trascendente), 76, 100.
Umanesimo, 42, 160; (formazione umanistica), 29. Umanità,
9, 28, 62, 108. Umiltà, 290.
Università, 56, 142 ss.. Università popolare, 151 ss.,
165 ss. Utopia, 24, 25, 288, 291.
Valore, 28, 30, 34, 38, 40,
47, 57, 72, 87, 90, 124, 133 s., 141 s., 144, 157, 162,
165 ss., 173, 186, 190 ss., 211, 232 ss., 235 s., 254, 263, 288.
Verità, 36, 40, 50, 53, 56, 71, 117, 121, 127, 135, 142
s., 152 s., 155, 157 ss., 161, 171, 173 ss., 208 ss., 216, 246, 248, 261;
(coscienza della verità), 172 s.
Vita (processo vitale), 21.
Vitalismo (vitalistico), 160, 165.
Vita inferiore, 9.
Volontà, 7, 12, 74, 104, 209, 216, 251; (volontà di
Dio), 207 s., 262.
300
INDICE DEI NOMI
Agnese (S.), 247. Agostino (S,), 216, 248, 287. Aicher O.,
152. Anders G, 15.
Anselmo di Canterbury (S.), 147.
Benedetto (S.), 248. Berkefeld W., 62. Bodamer J., 15.
Bonifado (S.), 248. Boveri M., 168, 277. Buber M., 119.
Callide, 171. Cecilia (S.), 248. Chiara (S.), 247.
Costantino, 247. Cunegonda (S.), 248.
De Castro J., 214.
De Caussade J., 249, 250.
Disney W., 273.
Elisabetta di Turingia (S.),
248. Erasmo di Rotterdam, 275.
Francesco d'Assisi (S.), 247. Francesco Saverio (S.), 248.
Gandhi M.K., 42.
Gtìhlen A., 62.
Gesù Cristo, 77, 216, 220, 221, 243, 244, 246, 248, 256,
257, 263, 266.
Giovanni (S.), 222, 254, 264,
266, 268. Goethe J.W, 73. Goya, 272. Gorgia, 171.
Grosz G., 272.
Hegel G.W.F., 11. Ignazio di Antiochia (S.),
247. Ignazio di Loyola (S.), 248.
Jungk R., 15, 41. Kierkegaard S., 131, 168.
Leins H., 177.
Luigi di Francia (S.), 248.
Luterò M,; 152.
Marx K., 11.
Newman J.H., 130. Nicola di Flue (S.), 248. Nohi H., 196.
Notburga (S.), 248.
Otto W.F., 238.
Paolo (S.), 220, 244, 245. Parmenide, 76. Pascal B., 272,
287. Patrizio (S.), 248. Perpetua (S.), 247. Picasso P., 272, 273.
301
Pietro (S.), 260, 261. Fiatone, 172, 174. Piotino, 76.
Predico, 171. Protagora, 171.
Ranke L. von, 174.
Sebastiano (S.), 248. Scheisky, H., 15. SchoU, A., 152.
Simmel, G., 278. Socrate, 51, 171-173. Sofocle,
286. Stefano (S.), 247. Stirner, R., 146.
Timoteo (S.), 244. Tommaso d'Aquino (S.), 247.
Weber, M-, 67. Vincenzo De' Paoli (S.), 248.
302
INDICE
Premessa ........
Pag. 7
I - « Ansia per l'uomo » ...» 9
II - La cultura come opera e come
minaccia . . . . . . » 15
III - L'uomo incompleto e la potenza . » 43
IV - Per una teologia del mondo . . » 75
V - L'ateismo e la possibilità dell'autorità ........
93
VI - La fede nel nostro tempo . . » 107
VII - Libertà ...... •a, 133
Vili - Pluralità e decisione . . . » 151
IX - II diritto della vita umana in formazione ......
» 177
X - La domenica: ieri, oggi e sempre » 202
XI - II santo nel mondo . . . . » 243
XII - Mickey Mouse e compagni . . » 271
XIII - Europa - Realtà e compito . . » 275 Indice dei
termini . . . . . . » 295
Indice dei nomi ....... 300
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