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OPERE DI ROMANO GUARDINI
EDIZIONE ITALIANA A CURA DEL « CENTRO DI STUDI
FILOSOFICI DI GALLARATE »
ROMANO GUARDINI
ANSIA PER L'UOMO
II
MORCELLIANA
Titolo originale dell'opera:
Sorge iim den Menschen - Band II © Werkbund Verlag
- Wurzburg 1966 Traduzione dal tedesco di Albino Babolin
© by Morcelliana, Brescia, 1969 Tipografia « La
Nuova Cartografica » - Brescia 1969
I
ALLA RICERCA DELLA PACE 1
II compito di ritrovare la pace dopo una catastrofica
guerra è tanto più difficile quanto più la guerra è stata enorme e
quanto più a fondo essa ha inciso nella nostra vita. Un sentimento
inquietante ci dice tuttavia che noi non verremo a capo della realtà
solo con la dichiarazione che il compito è oggi più difficile che mai,
perché quest'ultima guerra è stata più spaventosa d'ogni altra nel
passato. Sono invece, a quanto pare, emerse in luce circostanze non
controllabili per mezzo di ciò che finora si definiva un patto
di pace.
Ora ogni evento storico 'è unico, anche a prescindere
dal fatto che le cose che ci toccano personalmente ci appaiono sempre
particolarmente importanti. Questo ci rende apriori propensi a pensare
che quanto ora accade non abbia esempi. Dobbiamo dunque accertare se
l'ipotesi sopra espressa importa qualcosa •di più della semplice
manifestazione della forza di un'esperienza personale. A questo scopo
vogliamo aggiungere una seconda ipotesi: la guerra si è rivelata come
qualcosa di mai prima avvenuto, o almeno come qualcosa che non è ancora
emerso alla coscienza nel suo vero e proprio carattere.
Io non so se ci si è mai domandati che cosa signi-7
fichi la guerra nella vita dell'uomo e come il
significato della guerra si sia mutato nel corso della storia.
Supererebbe naturalmente il possibile volerlo fare qui;, ma per amore
del nostro problema, dobbiamo egualmente almeno cercare di acquisirne
brevemente notizia.
Prescindiamo dagli stadi primitivi dell'umanità, nei
quali la guerra appare quasi come un elemento costitutivo dell'esistenza
normale, un elemento che, sostenuto da tensioni biologiche e
psicologiche, ritorna con la regolarità di un ritmo vitale e reca un
carattere di crudeltà e insieme di ingenuità nativa. Fissiamo la
nostra osservazione subito su quell'epoca che noi consideriamo come
prima sorgente della nostra civiltà, l'antichità classica.
Naturalmente in un fenomeno così vasto operano
simultaneamente molti fattori. Anzitutto certi impulsi subito
riconoscibili generatori di conflitti, come la spinta a una esplicazione
delle energie, l'istinto della potenza, la brama di possesso. Si
aggiungono a ciò, a seconda dei popoli e dei tempi, motivi di .indole
particolare: per esempio la passione dell'uomo greco per la competizione
con altri, cosicché la lotta diviene un elemento di tutta la sua
esistenza;
oppure la coscienza dell'uomo romano di essere chiamato
a organizzare la vita dei popoli in uno Stato universale costruito sul
diritto. Ma dietro a questi motivi ne stanno altri ancora di natura
religiosa. Secondo la concezione antica, ogni stirpe ha le sue proprie
divinità. Esse le donano la vita e la potenza, e ricevono a sua volta
da essa la vita e la potenza. Esse costituiscono il nucleo arcano della
sua esistenza immediata; per così dire la sua reduplicazione nella
sfera del divino. La concezione, è vero, si spiritua-
lizza con il tempo, ma contìnua ad essere operante.
Secondo essa, sono in ultima analisi gli stessi dèi che nella guerra si
combattono a vicenda. Anche Omero, il quale conferisce alla coscienza
greca la sua prima configurazione, narra l'epopea di Troia come una
lotta che attraverso gli uomini si fanno l'un l'altro gli dèi: Era,
come garante del matrimonio e del focolare, e con i suoi dèi amici,
contro Afrodite in quanto nume della passione, pure con i suoi dèi
amici. Solo da questo punto di vista si può comprendere la guerra
antica. Essa esplode quando gli dèi non riescono più a mantenere in
armonia vicendevole le loro sfere di azione, espresso umanamente quando
la vita non ha più via di uscita. Nel sangue che sgorga, nelle città
che bruciano, si infrange la forma che si è indurita fino a farsi
carcere; .gli dèi si riconciliano, e la vita ha di nuovo via libera.
Non sgorga forse da questa radice quella profonda simpatia che nella
poesia -di Omero congiunge, a dispetto della lotta mortale, Achei e
Troiani? Pensiamo, per esempio, all'incontro fra Priamo e Achille,
incontro ben diverso dalla « pura umanità » nel senso
dell'Illuminismo; oppure al modo come Ulisse chiama « santa » la
città, a distruggere la quale egli pure impegna tutte le sue energie.
Sorvoliamo sulle diverse forme della evoluzione e della
decadenza dell'antica concezione della guerra e passiamo al Medioevo.
Anche qui agisce la brama di potenza, di possesso e di gloria, come pure
la muta logica della vita che, non avendo più via di uscita, cerca di
liberarsi con la violenza. Ma il nucleo della sua concezione della
guerra è un altro.
Con la Rivelazione si è reso manifesto quel Dio che
opera bensì in ogni punto della realtà terrena, ma
in libertà pura, come creatore del mondo. Egli non è,
come gli antichi dèi, in conflitto con altre divinità, giacché non
esiste Dio fuori di Lui. Inoltre Egli non costituisce il centro numinoso
della storia, ma è il signore della storia. Come tale introduce egli
stesso una storia nuova in quella antica, terrena; l'ultimo significato
della quale è l'avvento del suo Regno. Questa è la coscienza del
Medioevo;
ed espressione di questa coscienza, ereditata da
Agostino ma riplasmata a nuovo con sue proprie risorse, è l'idea del Sacrum
Imperium. Esso significa la signoria che, attraverso gli ordinamenti
terreni, Dio stesso esplica sul mondo, e rappresenta, a dispetto di ogni
egoismo del singolo e dei gruppi, la norma a cui tutto deve rispondere.
Con tali presupposti, la guerra si giustifica, nella severa concezione
medioevale, unicamente al servizio del Sacrum Imperium. Verso
l'esterno, contro le potenze non cristiane, affinchè ogni terra sia
soggetta al vero Signore, cioè a Dio;, verso l'interno, contro potenze
che minacciano l'ordine consacrato. La naturale e-nergia agonistica
entra così al servizio del Signore divino e il processo della guerra
diviene manifestazione della sua volontà, giudizio di Dio. Ma il retto
spirito guerriero, quello cavalieresco, è quello che — pur ammesso
ogni errore e contraffazione — si pone a disposizione della
realizzazione di questo giudizio.
Questa concezione impallidisce a misura che il
trascendente medioevale dello spirito e del cuore nell'eterno si
attenua, l'atteggiamento spirituale si fa terrestre e il mondo con i
suoi ordinamenti immanenti si rende autonomo. Ciò si verifica anche
nella
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politica, e al suo servizio la guerra acquista un nuovo
carattere: si fa realistica.
Anche qui la nostra indagine troverebbe tutta una serie
di forme intermedie su cui noi non possiamo indugiare. In ogni caso
nelle guerre dell'età moderna si tratta sempre più di finalità
puramente politiche, le quali vengono perseguite attraverso una sempre
più irriguardosa applicazione dei più efficaci mezzi militari. In
confronto a questa nuova guerra la guerra medioevale appare fantastica,
e il soggetto deìVethos del combattimento medioevale, il
cavaliere, si trasforma in una tragicomica figura:
Don Chisciotte. Tuttavia anche il realismo della guerra
moderna ha un sottofondo metafisico: la volontà titanica, che si
emancipa da Dio e si arroga l'assoluta signorìa sull'esistenza.
Questa guerra assume via via una caratteristica sempre
più acutamente rilevata. Soprattutto confluisce in essa tutto ciò che
va sotto il nome di tecnica: il dominio scientificamente fondato delle
energie naturali e dell'uomo. Così essa acquista quel carattere che è
proprio del pensiero ispirato alle scienze naturali e dell'attività
tecnica: il rapporto con la necessità. La libertà perde il proprio
spazio. L'individuo cessa di essere combattente nel senso antico e
diviene funzionario addetto alla macchina. Si impone la logica dei
rapporti tecnici, economici e sociologici. La guerra stessa appare
sempre più come un processo che emerge da tensioni date e che, una
volta avviato, non può più essere fermato finché non si sia concluso.
Ciò non vuoi dire che tale proli
cesso sia anche realmente così. Se gli eventi passati
dovevano di necessità generare una conoscenza, di certo essa è questa:
la formula « Doveva succedere così » è menzogna e viltà. In realtà
è successo così, perché lo si è voluto o non lo si è impedito.
Tuttavia il processo ha a tal punto il carattere di un divenire autonomo
che ne nasce una tentazione infinita di sottrarsi alla responsabilità
con il pretesto della necessità.
Da tutto ciò deriva una ulteriore caratteristica: la
anonimità. Nelle guerre di prima era sempre possibile dire: il tale
l'ha dichiarata, il tal altro ha eseguito l'azione di cui si tratta.
Tale individuazione poteva essere difficile in casi singoli; ma gli
eventi erano configurati in modo da esigere d'essere ricondotti a
persone particolari. Nella guerra moderna avviene il contrario. È vero
che ci sono sempre uomini a prendere la risoluzione; ma la struttura
degli avvenimenti è tale che sembra si debbano ricondurre non a persone
ma a necessità. Tutto ciò si collega senza dubbio con il carattere
della responsabilità. L'uomo di azione politica delle epoche anteriori
sapeva di stare davanti a Dio e di dovergli rendere conto; l'età
moderna invece deriva dal popolo l'incarico politico. Ora, la forma
storica del popolo è lo Stato; e lo Stato assume sempre più il
carattere di un apparato di cui il singolo è il funzionario. Ora la
responsabilità può essere solo personale, e in ultima analisi
dell'uomo verso Dio;
così essa si attenua sempre più, e insorge il
sentimento che una inafferrabile realtà astratta, « lo Stato »,
funzioni attraverso i singoli '.
1
Ciò sembra sia contraddetto dal fenomeno del dittatore che 12
Infine una terza considerazione. Il mondo dei valori
etici si impoverisce sempre più. Anche prima la guerra era uccidere e
distruggere, e tutti gli istinti selvaggi dell'uomo avevano via libera;
tuttavia l'atteggiamento complessivo presentava un carattere
immediatamente morale, perché aveva per base in ultima analisi l'idea
della signoria di Dio e, unitamente a ciò, l'esigenza di combattere in
modo che il giudizio di Dio potesse compiersi. Nasceva da ciò Yethos
cavalieresco, ricco dei valori del rispetto, della magnanimità e della
bella originalità. Invece la guerra moderna vuole semplicemente
arrivare ai suoi scopi; e in tal modo essa vede nei valori presenti
nella persona umana e nella sua relazione a Dio degli ostacoli, e il suo
ethos si trasforma nell'esigenza di raggiungere lo scopo
dell'azione al di là di ogni riguardo. In questo modo la guerra assume
il carattere dell'annientamento. Ciò che prima era il risultato
dell'estrema passione agonistica, viene voluto d'ora in poi
razionalmente ed eseguito con tutti i mezzi.
Le conseguenze non si manifestano ancora del tutto
nell'età morlerna. La politica di quest'epoca è retta dal principio
del principe assoluto o da quello della nazione;, ma entrambi conservano
forti elementi della tradizione. Il principe è sovrano per grazia di
ha largamente caratterizzata la nostra epoca. Ma
soltanto se lo si confonde con il condottiero individualistico o con il
regnante assoluto di vecchio stile. In realtà l'odierno dittatore
significa del tutto altra cosa. Il dittatore del nostro tempo è, con
tutta la sua iniziativa quanto ai particolari, il polo opposto alla
massa e insieme il suo esponente, mentre costruisce insieme con essa
l'impersonale sistema di funzioni dello Stato moderno. " ,
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Dio, ma anche legato alla responsabilità. Il popolo è
plasmato dal costume e dalle professioni, e obbligato mediante le
consuetudini. Con tutto ciò, il comportamento politico assume un
carattere di transizione. Del tutto chiari emergono i fenomeni solo
nella misura in cui si forma la massa. Dal popolo articolato si passa
ora a una molteplicità di atomi umani; dallo Stato a un congegno in cui
questa massa di atomi giunge all'azione. Ora le tendenze sopra esposte
possono esplicare tutta la loro efficacia: nasce lo Stato totalitario
post-mo-derno e con esso la guerra post-moderna, quella con cui abbiamo
da fare noi oggi. In essa si palesa qualcosa che si è annunciato già
nella prima guerra mondiale: la guerra assoluta.
Il termine sembra dapprima significare lo stesso che «
guerra totale », cioè che un popolo entra in lotta non soltanto con
l'esercito quale suo organo militare, ma con tutto ciò che esso ha ed
è. Il concetto della guerra assoluta intende però di più, intende
anzi qualcosa di essenzialmente diverso.
Caratteristica del nostro tempo è la paura che l'uomo
d'oggi incomincia a sentire delle conseguenze del suo conoscere e agire.
Il secolo XIX non conosceva ancora questa paura. Come tutta l'età
moderna, quel secolo considerava ogni aumento in sapere e potere come
una potenza, e ogni accrescimento di potenza senz'altro come un
progresso. Nella prima guerra mondiale iniziò il dubbio, nella seconda
si impose l'evidenza. Negli ultimi decenni si è rotta una diga per la
scienza e la tecnica. Ancora alla svolta del se-
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colo, si sarebbe detto che stavano aperte le vie verso
le vette dell'umanesimo; noi oggi sentiamo che ormai entra in stadio
critico qualcosa che appartiene al problema più centrale dell'uomo,
cioè la sua potenza.
Si potrebbe affrontare filosoficamente il problema, e la
ricerca avrebbe qualche risultato importante; ma alla fine si fallirebbe
lo scopo come per ogni problema essenziale dell'esistenza umana,
giacché l'uomo non è risolvibile filosoficamente. L'ultima risposta
viene, come Pascal non si stanca mai di asserire, dalla Rivelazione. Per
risparmiare tempo incomincio subito da essa.
La Genesi dice che l'uomo è immagine di Dio: e
definisce l'essenza di tale rapporto simbolico come. capacità di
dominare il mondo (1, 26). L'uomo deve dunque avere potenza, ma come
colui che egli è in realtà, cioè come creatura di Dio che sta davanti
a Lui nell'obbedienza. Con il peccato originale egli ha infranto questo
rapporto, e il problema dell'uomo ha fatto l'esperienza di quello
smarrimento così insolubile per la ragione immediata, di cui Pascal
parla con così profonda penetrazione1. Da allora l'uomo sta
nell'essere in modo sbagliato, e tutte le interpreta-zioni
naturalistico-ottimistiche della sua esistenza falliscono il nocciolo
della questione. Da allora anche la potenza dell'uomo assume un
carattere tragico:
da quando egli ha voluto la potenza contro Dio è come
se, nella sua propria zona esistenziale, la sua potenza si facesse
entità autonoma e si ritorcesse contro di lui. Fin qui la risposta
teologica; cerchiamo ora di tra-
1 Pensées
et Opocules, ed. Brunschvicg, Sect. IV-VII, tra gli altri
soprattutto il grande frammento 434.
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durla sul piano filosofico. Una considerazione non pregiudiziale
dell'uomo mostra che egli esiste diversamente dagli altri esseri
viventi. E precisamente egli è rapportato a qualcosa che sta sopra di
lui. Egli esiste sopra se stesso; da sopra se stesso. Tale relazione
fondante l'essere dell'uomo è manifestamente sconvolta nella radice, e
questo ha una immediata conseguenza per la nostra questione. La
coscienza moderna parte dal presupposto che l'uomo sia un essere
naturale, il quale — problematico quanto si voglia nei particolari —
fondamentalmente è in ordine, in armonia con se stesso e con la
totalità della natura. Perciò l'uomo può — sempre fondamentalmente
e ammessi gli errori quanto ai particolari —-affidarsi ai suoi
istinti. Ora un uomo così non esiste. Esiste così poco che può
avvenire ciò che l'inter-pretazione moderna dell'esistenza non ammette
mai come possibile: l'uomo può, anche in settori assai vasti della sua
vita e anche per molto tempo, agire erroneamente. È possibile che la
storia percorra una falsa strada. È possibile che una civiltà venga
falsamente costruita. È possibile che quanto milioni di uomini fanno
per centinaia di anni sia contraffatto.
Questa possibilità è rifiutata, come s'è detto, dal
senso moderno dell'esistenza. Il pensiero borghese vuole potersi sentire
sicuro, e il contenuto oggettivo di questa sua sicurezza si chiama « la
natura », sia nel contesto delle cose, sia nella struttura dell'uomo1.
Ma così esso si illude, e noi oggi lo sentiamo. Ad
1 II
termine qui è assunto nel suo senso moderno specifico. Dunque non come
la verità dell'essere determinata dal Creatore, ma come il « mondo »
autonomo e autosussistente, a cui anche l'uomo appartiene con le sue
qualità e tendenze, a quel modo che si manifestano nel corso della
storia. Cfr. guardimi, Welt una Person, Wiiizburg 19625,
p. 1 ss.
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ogni punto della vita noi sentiamo che noi non ci
possiamo affidare a ciò che finora valeva in senso assoluto come base,
e neppure — e così ritorniamo alla nostra questione — a riguardo
del nostro rapporto con la potenza.
L'età moderna deduce da ciò che la teologia chiama
peccato originale la conseguenza più netta: l'autonomia rispetto a Dio
diventa fondamento della decisione esistenziale. Basta appena aprire una
qualsiasi storia o filosofia della cultura per vedere quanto sia sicura
la convinzione di poter fare in tal modo il passo verso l'autentico
umanesimo; quanto decisamente venga valorizzato come progresso ogni
distacco da Dio come dal signore personale della nostra esistenza. Ma
nella misura in cui ciò si verifica, le energie dell'uomo entrano in
una autonomia evidente quanto enigmatica che è contro di lui. Si
sviluppa una scienza la quale avanza come un processo corrente di per se
stesso sotto la coazione di una determinata problematica posta. In ogni
punto il progresso sembra in ordine;, ma se il compito della scienza
consiste nel cogliere la totalità di ciò che esiste come realmente è,
allora la sua linea non corre giusta. Una deviazione appena percettibile
nel particolare si afferma, e questa devia la dirczione fondamentale
dalla sua essenza in una maniera addirittura terribile. L'uomo non è
ciò che egli appare alla scienza e alla filosofia moderne. Una serie
senza fine di particolarità e di rapporti in esse è giusta; ma
l'insieme complessivo e la determinazione del suo significato sono
apertamente falsi. E le cose non si risolvono quando si spiega
storicamente che « l'immagine moderna dell'uomo » a differenza di
quella medioevale o antica, è precisamente questa. No, non è « questa
», non
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è una forma fenomenica relativamente giustificata
accanto ad altre, ma essa è falsa, e noi dobbiamo avere il coraggio di
vederlo e di ammetterlo. Nell'arte succede qualcosa di analogo; ed
egualmente in politica e nella tecnica. È sempre l'uomo che la conosce,
crea e domina; tuttavia mentre lo fa, è come se un conoscere avulso ed
esente da un orientamento conoscesse, come se un creare creasse, un
dominare dominasse, un costruire costruisse; e come se tuttavia colui di
cui propriamente si tratta, l'uomo come persona vivente, divenisse
sempre più debole e sempre meno capace di scongiurare la minaccia che
sale dal carattere pervertito della sua opera autonoma.
Tutto ciò oggi lo si sente dappertutto più o meno
chiaramente. L'età moderna credeva a una natura-cultura garantita da un
ordine intrinseco, autoregolata da sicuri istinti; a dispetto d'ogni
ottimismo della scienza e della tecnica, la nostra età non lo crede
più. Ma essa non ha trovato ancora nulla di meglio, perciò si afferra
a quanto ha di più massiccio: alla potenza. Perciò questo terribile
spirito di violenza ovunque diffuso, tanto primitivo quanto immorale:
esso nasce dalla disperazione circa l'ordine autonomo dell'esistenza a
cui finora si è creduto e dalla incapacità di crearne un altro. Ed è
quanto mai caratteristico come alla volontà di esplicazione della
potenza da una parte corrisponda dall'altra una volontà di dedizione ad
essa, di ob-bedienza incondizionata, di schiavitù. Dittatura e
schiavitù formano i due poli dell'identico fenomeno. Esso emerge
dall'esperienza della insicurezza dell'esistenza, un'esperienza che
però si guarda bene dal vedere la vera radice della situazione e dal
trar-ne le giuste conseguenze. È un ordine « disperato »,
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e noi conosciamo l'orrore che se ne sprigiona. Le
energie dell'uomo sono in sé buone, diciamo più esattamente, sono
reali e disponibili; ma si deve assumerne la responsabilità e devono
essere guidate. Questo avviene per opera della persona e del suo
carattere morale. Si ha però l'impressione che, quanto più la potenza
dell'uomo cresce, si indebolisca la sua forza di carattere; che là
dove, nel giudizio e nella coscienza responsabili, nella libertà e
nella capacità ordinatrice, dovrebbe rendersi operante il centro
personale, appaia uno spazio vuoto. E non può essere altrimenti,
poiché la persona dell'uomo non è semplicemente quella realtà di
fatto che si ritrova in ogni essere vivente evoluto, cioè la forma e
l'iniziativa vitale dell'individuo ma essa consiste in una relazione
dell'uomo a ciò eh'è a lui superiore. La persona è la realtà di
fatto dell'essere interpellati-vo (Angerufensein) da Dio. Non nel
senso di un Erie-bnis intcriore, ma di un rapporto ontologico che
esiste, lo voglia l'uomo o no. Se egli rinnega questa sua condizione di
interpellato, rinnega anche la sua personalità e perde la capacità di
controllare ciò che egli è e può. Allora quella frattura di fondo di
cui si parlava entra nel suo stadio critico:
la potenza dell'uomo si rivolge contro la vita
dell'uomo.
In ciò precisamente consiste quel fenomeno che si
rileva dall'evoluzione della strategia della guerra moderna: la guerra
assoluta. Esteriormente essa appare come la lotta di un popolo contro un
altro, di un gruppo di popoli contro un altro. Ma, essenzialmente,
questi rivali rappresentano solo parti diverse in un dramma, il cui
regista è dietro di essi. Questo regista è la potenza autonomizzata
dell'uo-
19
mo in quanto si volge contro la vita dell'uomo.
Il suo partner reale non è un gruppo umano stori camente
nominabile distinto da un altro, ma la persona umana in genere, in
quanto ha responsabilità verso l'esistenza. Ma è come se questo partner
della potenza, difensore del significato esistenziale dell'uomo, diventi
sempre più debole; e così la potenza ha sempre più mano libera e si
esplica sempre più chiaramente come distruzione. Ognuno dei due gruppi
che si combattono nella guerra concreta cerca di nuocere all'altro per
diventare più forte, più vitale. Ma ciò che in realtà si compie è
— soprattutto se noi pensiamo alle possibilità future —
semplicemente distruzione.
La realtà di fatto non cambia quando ciascuno dei due
combattenti è esponente di idee. L'uomo ha sempre fondato la propria
pretesa a una più grande potenza in una missione verso la totalità
dell'essere. Che queste idee stesse non diventino forse strumenti della
distruzione? Non per il fatto che esse sono false, in se stesse
potrebbero essere giuste. La libera iniziativa dell'individuo è un bene
grande, e da essa dipende una serie di importantissimi valori della
nostra storia. Un bene grande è anche l'intuizione che si danno compiti
i quali possono essere affrontati soltanto da un complesso in sé
compatto di persone, e da essa dipendono valori, conquistare i quali è
il compito dell'avvenire. Ma non appena queste idee vengono fatte
servire alla giustificazione della guerra, vengono da questa trasformate
in mezzi per i suoi scopi. Ciò può avvenire persino quando la stessa
responsabilità dell'uomo verso l'esistenza divenisse incentivo della
guerra; anche questa idea verrebbe dalla guerra, co-
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m'è oggi, inserita in quella terrificante dialettica di
cui si parlava. Il fenomeno per cui ciò avviene ha appunto un nome che
ci è anche troppo noto: si chiama « propaganda ». Quanto a sé, le
idee sono l'espressione della dignità e della responsabilità
dell'uomo; per mezzo della propaganda, esse diventano strumenti della
distruzione.
A ben guardare, noteremo che la distruzione del-uomo per
mezzo della sua stessa potenza non si attua soltanto nella guerra.
Questa appare piuttosto la forma esplosiva di un processo che si
verifica di continuo e in tutta l'ampiezza dell'incivilimento.
La forma tradizionale della riflessione sulla cultura
propende a guardare unicamente ai risultati e a trascurare di fronte ad
essi la realtà viva dell'uomo. Questi risultati sembrano invero
giustificare anche il massimo ottimismo: la conoscenza cresce senza
sosta; la possibilità di disporre del mondo diviene sempre più grande,
le forme dell'uso della potenza si fanno .gigantesche. Ma che cosa
avviene, in tutto ciò, dell'uomo? E non soltanto di una parte di lui,
ad esempio, di quella che cerca sicurezza dai pericoli della natura,
comodità, piacere e sensazione, ma del suo tutto vivente? Della
libertà e della spontaneità, della nobiltà e della grandezza, del
rapporto verso l'interiorità e l'altezza dell'esistenza? Questo uomo
cresce? Non lo vediamo forse invece nel pericolo di diventare sempre
meno libero, sempre più esposto direttamente o indirettamente
all'inesorabilità del processo scientifico, tecnico, sociale? La falda
vitale, da cui l'uomo vive, non si assottiglia forse sempre più? Il suo
contatto con la grande realtà non diviene sempre più insicuro, ed
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egli perciò sempre meno capace di percepire
avvertimenti, di afferrare indicazioni e di sentire che l'ora giusta per
qualcosa è venuta? Le forze della contemplazione non diminuiscono
sempre più, e la tranquillità intcriore, il raccoglimento, l'energia
dell'intimo rinnovamento? Non cade sempre più la capacità di porsi in
distanza, di liberarsi dalle costrizioni d'ogni specie, di percepire nel
corso del divenire la mano di Dio?
Tutto ciò però non è altro che la forma normale di
quello stesso processo distruttivo la cui forma eruttiva è
rappresentata dalla guerra, cioè la graduale consunzione dell'uomo per
mezzo della sua propria opera. Ma non nel modo in cui ognuno che lavora
si consuma al servizio di ciò che egli crea, dove nella oblazione di se
stesso attinge la propria identità .autentica. Chi lo pensasse
soggiacerebbe all'inganno del processo il quale adesca l'uomo con
un'immagine illusoria affinchè egli non possa sfuggire. Alla fine di
questa consunzione non sta quel « ritrovare la propria anima » che è
promesso all'uomo magnanimo che ha il coraggio del sacrificio, ma sta la
distruzione e l'assurdo.
È tempo, gran tempo, che il dogma, banale quanto
pericoloso, della certezza della « evoluzione », del progresso, venga
infranto. La realtà è diversa. E l'uomo lo sente. Non per nulla la
parola « Nulla » ha acquistato una potenza così spettrale. Non per
nulla si discorre dappertutto di « demoniaco ».
Se nella guerra moderna va svelandosi sempre più
chiaramente qualcosa di incondizionato, questione di vita e di morte per
l'uomo, allora anche la pace deve
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acquisire un carattere clie prima ìlón aveva.
Concludere la pace significa precisamente che coloro che prima erano
avversar! si accordino su qualche base affinchè si renda possibile un
nuovo futuro. Per la coscienza guerresca che noi credevamo di vedere
nell'antichità classica, il patto di pace si fondava sulla intuizione
del momento in cui gli dèi stessi lo stipulavano tra loro, e sullo
sforzo rispettoso di rendere soddisfazione al Kairòs; la
funzione dei veggenti e degli interpreti del sacrificio non si fondava
certamente soltanto su una superstizione che non aveva ancora penetrata
la realtà. Vi si aggiungeva la riflessività che si proteggeva dalla hybris,
e la generosità che donava nuovo spazio anche all'avversario. Per il
Medioevo il patto di pace consisteva nell'ardente rispetto del giudizio
di Dio; nella saggezza che : riconosceva il nuovo compito d'ordine, e
nella giustizia consapevole di dover essere un ordine vigente tra uomini
redenti. Ma che cosa significa il patto di pace dopo una guerra quale si
è ora rivelata?
Noi non possiamo perderci nel fantastico. I punti di
vista del proprio interesse saranno sempre operanti. La prudenza
politica cercherà sempre di raggiungere ciò che è utile al proprio
Paese, e il senso per le conseguenze storiche sempre mediterà in che
modo il vantaggio del momento presente abbia rapporto con le
possibilità del futuro. Ma tutto ciò è sufficiente? Ciò che si è
imposto nel corso dell'età moderna è la guerra assoluta in quanto ben
diversa dalla relativa. Forse anche una pace che voglia es-serle pari
dovrà includere una dimensione assoluta? Dovrà dipendere dalla presa
di coscienza che chi ci è avversario fino ad ora è in realtà un
alleato contro un nemico comune? Un nemico che non vuole affatto
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un futuro, di nessun popolo e di nessun Paese, ma
la negazione del futuro? Che non vuole superiori forme di vita,
individualisticamente o collettivisticamente costruite, ma
l'annientamento?
Un poeta del nostro tempo ha detto: « È una grazia
infinita poter vedere ciò che è ». Sarebbe realmente una grazia, a
noi necessaria per la vita e per la morte, imparare a vedere che cosa
nel corso dell'età moderna si è venuto elaborando. Per dominarlo non
bastano i punii di visra acquisiti finora, non quelli politici della
sicurezza, ne quelli umani della giustizia o della pietà. Qui c'è
qualcosa che postula atteggiamenti nuovi, qualcosa appunto di
strettamente connesso con la potenza in quanto tale.
Tutto ciò è sentito dappertutto. Faremo un solo
esempio. Da vari decenni si è sviluppata, sotto lo stimolo soprattutto
di Soren Kierkegaard, una filosofia la quale piano piano ha minacciato
di assumere il carattere della moda: l'esistenzialismo. Lasciamo stare
tutto ciò che in essa provoca la critica. I suoi processi mentali
girano comunque intorno a certe esperienze di fondo altrettanto giuste
quanto inquietanti. L'esistenzialista — quello vero che non soltanto
adopera parole della lingua di Heidegger o di Sartre, ma che merita il
nome che porta — avverte un pericolo sull'esistenza. Non pericoli
all'interno di questa particolare esistenza, pericoli di una realtà da
parte di un'altra, ma un pericolo per l'esistenza come totalità, il
quale si annuncia in una angoscia profonda. Nel sentimento
dell'esistenzialista è penetrata con grande forza la totalità.
Tuttavia non in quella maniera magnanima e tranquilla, fidente, che era
del pensatore medioevale, il quale era capace di trasferirsi senz'altro
dall'analisi dell'essere all'adora-
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zìone di Dio; oppure neÌla maniera di un impulso alla
costruzione filosofica come nell'idealismo tedesco, il quale nei suoi
sistemi voleva portare il mondo e la storia al suo compimento. Ciò che
l'esistenzialista esperisce è la totalità in quanto estremamente
minacciata.
Questa minaccia è, nel più profondo, quella che emerge
dalla situazione in genere dell'uomo nell'esistenza. Non già
semplicemente dal fatto che l'uomo è finito; l'esistenzialismo sbaglia
affermando ciò. La finitezza come tale non è ancora minaccia, e la sua
esperienza non è ancora angoscia; essa dovrebbe piuttosto venire
esperita come un fidente abbandonarsi nella mano del Creatore, come un
bell'affidarci alla libertà da parte della .generosità divina. Ma la
finitezza nell'uomo si è ribellata ed è perciò entrata in
contraddizione verso la sua sorgente. In tal modo essa ha perduto la sua
base ed è stata « gettata » in un luogo senza luogo. Nasce di qui
quell'angoscia che vive nel fondo più profondo dell'uomo. Essa non è
essenziale a lui, ma è da lui colpevolmente meritata;
appartiene, per citare un'altra volta Pascal, non alla
sua natura « prima », ma alla sua « natura seconda », quale essa
s'è affermata per mezzo dell'azione umana al principio della storia. La
minaccia circa cui essa si angoscia è il fatto di stare in una
situazione di ingiustizia, di contraddizione, verso Dio e perciò verso
tutto ciò che è. Questa angoscia assume tuttavia nei diversi tempi
carattere diverso. Ci condurrebbe assai a fondo nell'essenza delle varie
epoche storiche, se ci si domandasse in che cosa consista l'angoscia
dell'uomo primitivo e in che cosa differisca da essa quella dell'uomo
classico, medioevale, moderno. L'angoscia dell'uomo post-moderno nasce
25
dal fatto che la straordinaria potenza che si trova
nelle sue mani si è staccata dall'ordine; che essa non è, in ultima
istanza e in senso globale, responsabilmente guidata. La guerra moderna
rappresenta appunto la più impetuosa incarnazione del pericolo che
incombe. Tutto ciò lo sente non soltanto il filosofo, egli vede solo
più chiaro ed esprime più netto ciò che il tempo in genere sente. Per
questo sono tanti coloro che reagiscono alle idee della filosofia
esistenzialistica, anche quelli che non sono affatto in grado di
penetrarla intellettualmente; il loro sentimento esistenziale risponde
all'esperienza che le sta alla base.
In ogni epoca il compito della cultura si formula
diversamente. L'antichità classica ha cercato la forma valida dell'uomo
e delle cose, il Medioevo l'ordine sacro, l'età moderna l'indipendenza
e la potenza sulla natura. Nell'epoca che sta per venire si tratterà
forse del dominio sulla potenza. Anteriormente ogni accrescimento di
potenza era sentito come un progresso semplicemente; oggi questo avviene
solo negli ingenui e nei fanatici. I consapevoli sanno invece benissimo
che la potenza è diventata semplicemente un pericolo. Cultura significa
per noi non più acquisire potenza ma vincolarla.
Senza dubbio nell'epoca avvenire la potenza si
svilupperà ulteriormente per mezzo della scienza e della tecnica, ma,
se essa vuole distinguersi dalle barbarie, con sempre più profonda
preoccupazione in ciò che in tal modo si compie. Questa preoccupazione
sarà la nota caratteristica; la responsabilità per qualcosa che cela
in sé immense possibilità del bene ma anche, anzi molto, più, del
male \ Una volta che —
1 IL fisico C.F. v. Weizsacker ha detto nella
postilla all'edi-26
chissà a quale prezzo? — il nuovo atteggiamento sarà
raggiunto e l'uomo volgerà lo sguardo indietro all'età moderna,
scrollerà il capo. Egli avvertirà che la fede nel « progresso » di
questa età era inconcepibilmente primitiva; che l'irriflessibilità con
cui essa acquisiva sempre nuova potenza, senza garantirla con un ethos
corrispondente, era assenza di responsabilità; che il metodo di
scatenare in un punto una energia e di contrapporle in un altro punto
un'altra energia, era barbarie. Si svilupperà allora una nuova
superiorità; una capacità di governare spiritualmente .non soltanto
l'uomo ma le forze dell'uomo. Ed essa verrà sorretta dalla libertà
dell'uomo maggiorenne, il quale non si lascia più inebriare, ma sa che
la sua esistenza è entrata nella zona dell'estremo pericolo.
Si potrebbe obiettare che quanto è stato detto fin qui
si trattiene sulle generali e ci si può domandare che cosa dovrebbe ora
succedere in concreto. Io ho
zione tedesca di scritti di Giambattista Vico (Vom We/sen
unì Weg der geistigen Bildung, tradotti da W. F. Otto, 1947, p.
162); « Poiché noi possiamo dimostrare qualcosa di fisico, possiamo
anche produrlo. La tecnica dei nostri giorni è il documento
giustificativo... Dove andremo a finire se l'uomo si accertasse su
questa via della propria somiglianzà con Dio? E possiamo, noi uomini
d'oggi, tranquillarci su questo punto? Sul piano teoretico la fisica è
oggi più aperta che mai all'idea che noi possiamo dominare
concettualmente solo ciò che anche potremmo in linea di principio
produrre. Sul piano pratico ci trovavamo poco fa davanti alla domanda se
ciò che l'uomo produce sia per la sua salvezza o per la sua perdizione.
La questione non è decisa »,
Era pensabile che uno scienziato arrivasse ad esprimere
un simile concetto prima del 1914, o forse prima del 1939?
27
tentato di richiamare l'attenzione su un aspetto
particolare di pericolosità nella situazione dell'uomo, che si è fatto
chiaro finalmente negli ultimi decenni. Se il richiamo era giusto e se
noi prendiamo coscienza della nuova situazione, non è questo già molto
concreto? L'uomo o.ggi sente che le cose sono diventate diverse in grado
enorme;, è incalzato da una angoscia per ciò che da essa si va
profilando; nello stesso tempo però egli si sottrae alla serietà della
situazione, comportandosi come se egli potesse continuare a lavorare con
gli antichi metodi di vita. Se egli riconoscesse che occorre un
mutamento del suo più intimo atteggiamento e vi si dichiarasse pronto,
non sarebbe questo già molto concreto?
L'età moderna ha detto: l'uomo è buono; l'uomo è
ragionevole; ogni aumento di potenza serve al suo bene; perfino
quell'uso estremo della potenza che si chiama « guerra » può bensì
distruggere molto, ma si muove all'interno di un ordine generale di
natura, cosicché si potrà senz'altro venirne in qualche modo a capo.
Tutto questo non è vero. La struttura dell'uomo contiene tendenze buone
ma anche cattive. L'uomo è ragionevole, ma la sua ragione è
influenzata da istinti, e alcuni di essi vanno contro ogni
ragionevolezza. Ciò che egli crea è parzialmente in armonia con il
senso dell'esistenza, ma parzialmente anche in contraddizione. Il suo
istinto di vita include, accanto alla volontà di vita, un'arcana
volontà di distruzione, stimolata da una oscura coscienza della colpa
che lo spinge all'espiazione o alla disperazione. In tal modo l'uomo non
è garantito entro quei grandi schemi ai quali l'età moderna soleva
tutto ricondurre: alla « natura » da una parte e alla « cultura »
dall'altra.
28
Egli deve finalmente avere il coraggio della verità e
vedere come stanno le cose. Egli ha nelle proprie mani il possesso del
proprio essere in un grado mai verificatosi prima. Perciò egli deve
anche riconoscere che cosa queste mani possono provocare, anzi che cosa
esse sicuramente provocheranno, se egli non si decide per una nuova
responsabilità. Egli non può più fare ciò che prima ha sempre fatto:
lasciar correre le cose, perché se ne cura la « natura ». Questa
natura non se ne cura. Deve curarsene egli stesso.
Sarà affare dei responsabili concludere quella pace che
metta termine allo stato palese e latente di guerra. Ci sarebbe molto da
dire a questo riguardo.
Soprattutto bisognerebbe dire dell'ansia dell'uomo per
la pace. Le sofferenze umane aumentano talmente all'infinito che è
tempo di porvi fine. Non può essere bene, neanche politicamente bene,
se lo stato di disperazione diviene cronico.
Bisognerebbe dire fino a qual grado le potenze del male
sono scatenate: lo spirito della violenza, del sangue, della
distruzione, e che questo grado aumenta all'infinito per ogni indugio.
Bisognerebbe dire che ogni còsa ha il suo tempo, anche
la conclusione della pace. Se nelle questioni vitali non si ha la
percezione del giusto tempo, esse si .guastano. Anche la pace può
guastarsi, e può na-scerne uno stato di amorfa assenza del diritto che
è quasi altrettanto terribile come una lotta aperta.
Finalmente bisognerebbe dire che oggi la conclusione
della pace è non solo una questione di saggezza, ma anche di audacia.
Bisogna osare con essa e affron-
29
tare pericoli; giacché dò che insorge, quando la pace
non arriva, è peggiore della perdita di qualche vantaggio.
Bisognerebbe parlare di varie altre cose ancora, ma non
è il compito di queste riflessioni.
Quanto esse vogliono dire è questo: i responsabili
faranno la pace, e si spera presto, e in modo che la vita possa rifarsi
possibile. Ma con questo il problema della guerra non è risolto.
Noi l'abbiamo visto: dietro la guerra in fase acuta sta
quella permanente. Dietro la guerra che si esplica in operazioni
terribili ma che comunque un giorno finiranno, c'è quell'altra che
emerge dalla situazione dell'uomo moderno stesso. La cultura moderna è
essa stessa e in misura crescente « guerra », è la potenza dell'uomo
contro la vita dell'uomo. Ciò diviene chiaro nella guerra della
post-età moderna, nella guerra assoluta.
Ad essa dev'essere contrapposta la faticosa ricerca
della « pace assoluta ». Questa consiste in un corretto rapporto fra
la potenza dell'uomo e la vita dell'uomo. L'uomo ha sviluppato una
potenza incommensurabile. Ma essa non è ne posta sotto la
responsabilità ne guidata. Si è emancipata e si è ritorta contro
l'uomo stesso. Questo è il vero "emico, e pace significa legarlo.
Nella poesia II veltro del ciclo di Francis
Thompson *, Dio dice all'uomo: « Tutte le cose ti tradiscono perché tu
hai tradito me ». Tutto il potere dell'uomo diventerà suo nemico se
non lo colloca nell'ordine;
ma l'ordine stesso deve essere costruito in rapporto
* Thè Round of Heaven, in Workes, a cura
di W. Meynell, London, 1915.
30
a Dio. Dio oggi è un politicum. In fondo Egli lo
è sempre stato, oggi lo è in forma ben più potente, in forma
precisamente decisiva. Si obietterà: sarà mai possibile cambiar
qualcosa su questo punto? Non ° necessario che tutto vada come va? Noi
risoondiamo: No! Il presupposto per cui ha potuto nascere quell'errato
rapporto verso la potenza, e insieme il mezzo più rilevante .'••""
cui esso si è imposto, fu l'immagine moderna dell'uosB-Essa è passata
attraverso caratterizzazioni diverse;
ma erano simili tra loro nella loro essenza decisiva,
cioè nel modo in cui determinavano il rapporto dell'uomo con Dio.
C'è l'immagine borghese-liberale, che colloca l'uomo in
una natura a lui affine, dichiara possibile per lui un rapporto armonico
con essa e gli conferisce la missione di plasmarla in una cultura sempre
più perfetta. C'è l'immagine totalitaria, che rinnega il diritto della
persona singola e vede nell'uomo soltanto un elemento delle totalità
storico-politiche. C'è l'immagine esistenzialistica, che getta il
singolo nel vuoto, in una assoluta libertà, e gli attribuisce il potere
di determinare l'essere e il significato. Queste immagini sono molto
diverse, ma in un senso iden-tiche: emancipano l'uomo da Dio, lo
collocano nel suo proprio potere e .gli mettono nelle mani il mondo.
Perciò egli perde l'altezza che è sopra di lui e resta esposto alle
causalità che lo condizionano sia dentro sia fuori.
Ma queste immagini sono false. Sono le ideologie della
ribellione. L'uomo di cui trattano non esiste. Fino a che l'uomo si vede
in quel modo non sarà in grado di sottomettersi il nemico della sua
esistenza, cioè la sua propria potenza. L'evidenza delle
31
finalità scientifiche, tecniche, politiche è così
cogente che egli cade in loro balìa. Egli deve quindi imparare a
vedersi quale è « in verità ».
Qui sta il punto decisivo. L'uomo deve rientrare
nell'ordine. L'ordine va primariamente verso Dio, il Creatore e il
Giudice. L'obbedienza a Lui costituisce il nucleo dell'ordine. Là
ancorato egli potrà creare ordine in se stesso, fra la sua potenza e la
sua vita, poiché nel rapporto con il Signore del mondo egli possiede il
punto d'Archimede su cui appoggiarsi. Ed egli avrà allora questo
Signore del mondo per suo alleato. Dio non è soltanto l'idea più alta,
ma è realtà;
non è soltanto il fondo primordiale del mondo, ma è
persona; non è soltanto il senso dell'esistenza, ma è attivo
operatore. Dio si propone di condurre una storia, e l'uomo che crede in
Lui entra in intesa con la sua volontà. Là ancorato, potrà legare la
potenza. Ancorato solo là e in nessun altro punto altrove. Il sì o il
no al Dio vivente, il sì o il no verso la sua volontà è nello stesso
tempo l'assoluta decisione. Affermarlo 'non è questione di fantasia. Io
non credo che si possa dire che l'esistenza umana come totalità sia
coinvolta in un reale progresso, giacché ogni vantaggio acquisito in un
punto viene pagato con una perdita in un altro punto. Ma una cosa sembra
veramente verificarsi: le decisioni si fanno sempre più chiare. Le
conseguenze delle prese di posizione emergono sempre più nettamente. E
il centro di tutte le decisioni sta qui.
Il senso della cultura avvenire consiste nella
vinco-lazione della potenza per opera dell'uomo, il quale vuole esistere
nella dignità e nella libertà, in una vi-
32
vente spontaneità e nella gioia della vita. Noi abbiamo
bisogno di una educazione all'uso della potenza. È una inquietante
realtà di fatto che tale educazione viene praticata sempre meno dal
tempo in cui la potenza dell'uomo ha cominciato a crescere così
paurosamente. Oppure esiste una pedagogia che reca alla coscienza
dell'uomo quanto egli può e suscita in lui la responsabilità per
questo? Che gli insegna i superamenti e le rinuncie necessa-rie per
essere libero nell'uso della potenza? Il rispetto per la vita e
l'intuizione per l'ordine gerarchico delle cose? Tale pedagogia non
esiste. Deve essere creata.
Sulla base di essa la guerra intcriore e costitutiva
sarà legata; e solo nella base di essa la guerra esteriore e attuale
riceverà quel minimum di « ordine », senza di cui è pura
distruzione.
II
LA PACE E IL DIALOGO
Mi consentano di dire che l'attribuzione'del Premio per
la Pace 1 cai ha dapprima sorpreso perché non ho
scritto nulla sul problema della pace, a parte in alcune occasioni. Ma
poi ho sentito che con questa onorificenza veniva toccato un motivo
determinante per il mio lavoro.
Mi ha sempre cioè occupato il problema: come mai
possano affermarsi prese di posizioni così diverse degli uomini circa
le questioni dell'esistenza e se non sia possibile di acquisire a tale
diversità una forza costruttiva. Da queste riflessioni è nato a suo
tempo un mio libro sulla « opposizione polare » 2, ed esse
sono divenute importanti anche per i miei scritti di poi.
In tal modo è per me una grande gioia di vedere
confermato questo mio interesse.
Mi sia allora lecito iniziare con un pensiero già
contenuto in quanto è stato detto.
1 Un
discorso che l'autore ha tenuto nella 'Pauiskircbe di Francoforte
in occasione della consegna del Premio per la Pace del commercio
librario tedesco nel 1962.
2 Der Gegensafz, Mainz, 19552;
tr. it. in R. guardimi, Scritti filosofici, a cura di G.
Sommavilla, I, Milano 1964.
55
Noi sentiamo fino a qual punto il problema della guerra
e della pace ci tocchi vitalmente. Non solo come una manifesta
esplosione di violenza; le radici della guerra vanno molto più a fondo.
La guerra e-sterna può sorgere solo perché c'è quella interna. Ma in
che cosa consiste questa?
Nel fatto che in un settore circoscritto operano diverse
iniziative; e non solo diverse, bensì contrastanti l'una all'altra. Ma
come può avvenire qualcosa del genere? Vogliamo restare dentro la zona
che interessa in modo particolare il filosofo, nella zona della
conoscenza. Come è possibile che diversi uomini la pensino in modo
così contrastante circa le cose della loro comune esistenza? Si tratta
infatti d'una stessa realtà su cui essi pensano; il loro spirito è in
ultima analisi guidato dalla stessa logica e in essi — sia detto
comunque con esitazione maggiore — vive pur la stessa volontà di
verità.
Forse la domanda può suonare strana. Il presente e il
passato sono così profondamente caratterizzati dalla lotta che il
nostro sentimento vi si è adattato e
10 trova « normale ». Ma è bene ogni tanto eliminare
l'apparenza del normale; allora le cose si mostrano nella loro
stranezza.
Come può, allora il pensiero dell'uno contraddire
quello dell'altro? La ragione è quella stessa da cui nasce la grandezza
del rapporto: cioè la libertà.
11 'naturalismo trova ovvio questo stato di cose.
Sarebbe quello stesso che domina ovunque nella natura: la lotta di tutti
contro tutti. Ma fra gli animali non domina interamente la lotta di
tutti contro tutti, bensì vi esistono anche precisi ordini reciproci.
Finché questi restano operanti, gli animali vivono negli schemi dei
loro processi vitali e non si di-
36
sturbano l'un l'altro. La possibilità di una lotta del
tutto libera, quasi si vorrebbe dire, assoluta, si afferma soltanto
nell'uomo; e sarebbe un segno di grande cecità verso i fenomeni
scambiarla con ciò che si compie nel mondo degli animali.
L'uomo sta sotto influenze della più diversa forma e
potenza; ma è proprio della sua essenza l'uscire dai contesti naturali,
prendere distanza e di lì considerare, intendere, .giudicare l'oggetto
la cosa e se stesso.
Questa realtà di fatto conferisce alla lotta dell'uomo
un carattere del tutto diverso da quella dell'animale;
apre lo spazio in cui si ha la decisione e perciò la
responsabilità.
Forse si obietta: che senso ha tutto questo nell'ambito
della conoscenza? Che senso ha la decisione là dove si tratta della
verità? Di fronte alla verità non c'è ne destra ne sinistra, ma
soltanto un sì al suo significato!
L'obbiezione è giusta, ma anche no; perché la verità
stessa è in rapporto con la libertà. Si ha la verità soltanto nello
spazio creato dalla libertà; e il sentimento d'essa si corrompe nella
stessa misura in cui può andare perduto il sentimento della libertà.
Ciò che la conoscenza cerca è la forma significativa di una cosa o di
un avvenimento. Tale forma significativa ha un grande potere sullo
spirito; ma è il potere appunto del significato, non quello della
forza. Essa brilla; colpisce in quella maniera incondizionata di cui ben
sanno coloro che non hanno distrutto la propria vita spirituale; ma non
costringe. Lo spirito deve aprirsi a lei. Deve permetterle di farsi
valere in lui. Lo spirito può farlo, ma vi si può anche rifiutare. Per
mutuare una parola di Nietzsche: può
37
senz'altro avvenire che l'intelletto dica « è così
»;
ma che la volontà risponda « non può esser così »,
e l'intelletto cede. Allora può affermarsi qualcosa che sembra
conoscenza; in realtà si è affermata soltanto una volontà.
Dietro all'operare in apparenza puramente obbiettivo
dell'intelletto agiscono motivi che sono tutt'altro che obbiettivi;
desideri e paure, simpatie e antipatie, intenzioni in tutta la gamma
dell'apertura e della decisione. Tale è il campo dei processi mentali
che si arrogano l'apparenza di essere nient'altro che constatazioni e
penetrazioni di realtà oggettive e nello stesso tempo un campo di
battaglia, sul quale iniziative diverse si contrastano a vicenda.
Se così è, sarebbe allora anche a livello spirituale
inevitabile la lotta, diciamo più esattamente, la lotta violenta. Così
sarebbe, se non esistesse appunto ciò che rende possibile tutta questa
situazione, ossia la libertà.
Non appena si scontrano gli animali di rapina e di
preda, nasce per forza la lotta violenta. L'uomo può elevare l'urto dei
motivi su di un piano più alto e renderlo creativo. Ciò vuoi dire:
egli può entrare in dialogo.
Dialogare è qualcosa che noi facciamo di continuo o
almeno crediamo di fare. Ma le cose di tutti i giorni restano velate
proprio dal loro ricorrere quotidiano; vale così la pena di riflettere
su di esse. Il dialogo si fonda sulla parola; sull'atto stupefacente per
mezzo del quale l'uomo comunica fuori di sé con i suoni ciò che ha
intcriormente conosciuto
38
e lo confida all'altro, e con ciò, per un fugace
momento, il suo intimo sta aperto nello spazio fra due. Poi la parola
tace, ma continua a vivere in silenzio nell'intimo di colui che l'ha
udita. Egli crea in sé la parola di replica e la rimanda. Un'altra
volta essa si fa aperta nello spazio personale, e così si costruisce,
oltre i confini delle due interiorità, il ponte del dialogo, pura
espressione dell'essenza umana.
Ma, affinchè questo si verifichi, i dialoganti devono
stare in una intesa. Ognuno dei due deve essere persuaso che esiste una
verità valida. Ognuno deve. aver rispetto per l'altro, perché
anch'egli ha rapporto a questa verità. E ognuno deve avere la speranza
di poter vedere la verità in maggior misura insieme con l'altro, di
quanto sia in grado di vedere da solo.
Per tutto ciò, ognuno può anche capire i pensieri
dell'altro e sulla base di essi rettificare e ampliare i propri.
Ma è possibile tutto ciò, se fra i due esistono tutte
quelle differenze di cui abbiamo parlato? Un'altra volta dobbiamo
rispondere che è possibile sul fondamento della libertà. Perché
essere liberi significa poter uscire dalla propria individualità, in
tanti modi vincolata, nell'individualità dell'altro; significa capire
in che modo egli esiste nelle sue idee.
A questo punto noi notiamo che nei presupposti finora
indicati del dialogo ne manca ancora uno: la simpatia. Già Agostino ha
visto che essa è la condizione di ogni conoscenza vitale. Noi possiamo
realmente conoscere soltanto ciò che in un certo senso amiamo; detto
più parcamente, ciò a cui noi vogliamo bene. Da questo punto di vista
noi possiamo perseguire l'attuarsi della personalità dell'altro: ve-
39
dere in che cosa sta la sua essenza; che cosa cerca
conoscendo; come essa arriva ai pensieri che esprime e che cosa questi
pensieri, al di là di forme espressive forse insufficienti o
addirittura false, propriamente intendono.
Per quanto riguarda poi la parola stessa, essa non è
solo segnale di ciò che si intende, ma anche incarnazione dello
spirito. In essa la verità diviene umana. In tal modo la parola che mi
arriva dall'altro possiede, al di là della semplice comunicazione di
quanto si intende, una forza vivente. Essa va a toccare quel centro
intcriore che è facile sentire, ma che è difficile determinare
concettualmente: dove spirito e materia, anima e sangue si compenetrano
a vicenda;
dove ha origine l'essenza dell'uomo. Questo centro muove
e anima e fa sì che il semplice constatare e designare divenga un
sapere e un immaginare vivente. Il risultato di un simile dialogo è la
« pace ». Poiché nasce dall'intesa nell'ansia della verità e nel
rispetto reciproco; e ad ogni nuovo, comune passo fatto nella verità,
l'intesa si approfondisce.
Ma che cosa avviene se i due non si capiscono
l'un l'altro?
Ciò avverrà frequentemente, perché una comprensione
reale è difficile. Anzi, si potrà dubitare se possa in genere mai
riuscire perfettamente;, se l'uno possa mai arrivare del tutto, oltre
quelle barriere che costituiscono l'io, fino all'altro; se ogni nostro
parlare non sia alla fine che un rapportarsi a qualcosa di nascosto? Ma
queste sono barriere che si oppongono ad ogni genere di comprensione,
anche a quella che realmente riesce. Che cosa sarà quando non ha luogo
nessuna comprensione affatto? Quando
40
le opinioni stanno le une di fronte alle altre
irriconciliate?
Allora resta la fiducia nella verità e la
disponibilità a continuare il dialogo: una forma di quella grande
virtù senza di cui nulla di umano matura; la pazienza. E anche questo
è pace.
Dobbiamo domandarci un'altra volta: che cosa sarà se
giungo a vedere che le idee dell'altro sono false? che egli sbaglia?
Allora io mi trovo davanti a un limite tanto più
delicato quanto meno deve esistere di necessità, ma di fatto v'è. Io
posso cercare di attenuarlo, sforzandomi di indicare all'altro il suo
errore; il che è possibile unicamente se io al tempo stesso sono
disposto ad esaminare la mia propria opinione e a correggerla. Se ciò
non riesce, il limite è definitivo. Poiché la stessa verità a cui
entrambi siamo obbligati mi proibisce di dire: « Ciò che tu pensi, è
anche vero ».
Non esistono « verità-anche ». Ciò che esiste è la
diversità dei punti di vista; la dialettica di formulazioni le quali
per principio sono rapportate a vicenda e che perciò stanno l'una
rispetto all'altra non in contraddizione esclusiva ma in opposizione
feconda. Allora io posso dire: « Anche tu vedi qualcosa di giusto », e
si rende possibile una sintesi. Ma non appena appare non l'opposizione
ma la contraddizione, non appena l'uno dice sì dove l'altro deve dire
no, o l'uno giudica buono ciò che l'altro riconosce cattivo, allora non
è più possibile nessuna sintesi, bensì soltanto Vaut-aut, e
questo si chiama lotta.
Tuttavia anche qui influisce l'atteggiamento dell'au-
41
tentico dialogo, cioè nel rispetto dell'opinione
altrui. Non del contenuto da essa rappresentato; a ciò che io riconosco
per falso non potrò mai dimostrare l'onore della verità. Ma certamente
della persona che la rappresenta e del fatto che è un'opinione umana.
E, se ne nasce poi una lotta, essa ha un altro carattere.
Questo dialogo costante è uno dei fenomeni di fondo che
reggono il nostro lavoro. Noi — autore e lettore e, fra l'uno e
l'altro editore e libraio — serviamo a quella complessa cosa che
chiamano letteratura. Essa sgorga sempre nuova dal fatto che in una
comune ansia della verità si continua il dialogo umano.
Ciò sembra ovvio; ma abbiamo fatto l'esperienza che non
lo è. Esiste una specie di letteratura che non esprime
più un dialogo, ma che deve svolgere un programma di pensiero e di
azione davanti ad ascoltatori muti. Ma essa non è più letteratura,
bensì propaganda; e ciò che essa vuole non è la verità ma il potere.
Esiste tuttavia un pericolo ancora più profondo del
semplice potere; esso nasce dalla stessa evoluzione generale della
cultura.
Nel complesso fenomeno da cui sorge la letteratura
agiscono diversi rapporti di fondo: parlare e ascoltare, scrivere e
leggere; e infine, attraverso i due citati, mostrare e vedere. Si
sarebbe inclini a pensare che questi rapporti, nel corso della storia,
abbiano guadagnato in libertà e intensità. La possibilità di poter
parlare a un mag-
42
gior numero di uomini conferisce certamente alla parola
una serietà particolare; la stampa e la diffusione allargano la sua
zona di influenza; i sussidi per un mostrare e vedere migliore mettono
in evidenza fenomeni che altrimenti restavano nell'ombra. Di contro a
questo vantaggio stanno però svantaggi rilevanti, e vale la pena di
esaminarli con maggiore precisione.
« Parlare » — l'abbiamo già detto — significa che
io confido la mia conoscenza alla struttura sonora della parola e la
trasmetto all'altro; « ascoltare » significa che l'altro riceve la
parola, che il significato si accende nel suo spirito dandogli quella
tutta speciale libertà e fermezza che si chiama appunto « verità ».
Ma come stanno le cose: sono veramente divenute migliori
le parole e il loro uso nel corso degli ultimi, diciamo, cento anni?
Più precise, più profonde, più feconde? Si potrà a stento rispondere
con un semplice sì.
Già il fatto che si parla tanto e sempre di più ha un
effetto fatale: le parole si logorano. Loro saranno già stati
certamente colpiti da quello che avviene quando una parola finora non
particolarmente notata diviene attuale: fino a quando resta viva? È una
delle peggiori esperienze di chi parla che, dopo aver trovato una buona
espressione per qualcosa di davvero conosciuto, questa di lì a poco si
è consumata per il semplice fatto che tanti la ripetono, e la ripetono
sempre peggio. Pensino per esempio a che cosa è successo ai termini «
il nulla » o « l'angoscia », da quando essi sono divenuti attuali
nella filosofia di ven-t'anni fa. Non si ha forse già ritegno ad
usarli? Ma
43
che cosa si deve fare se non ne esistono altri? Che cosa
si deve fare con le parole ripetute a morte? Non resta che una cosa:
parlare con sempre maggiore semplicità, poiché la semplicità resiste
più a lungo di tutto alla distruzione. Ma chi ha fatto un simile
tentativo sa quanto sia difficile. La semplicità è precisamente
padronanza piena, maestria.
C'è ancora un'altra cosa peggiore di questa: che le
parole perdano la loro profondità. Tutte le autentiche parole, maturate
in una lunga storia, si radicano nei fondamenti dell'essere, nella zona
religiosa. Ma queste radici vanno morendo con il procedere dell'età
moderna. Le parole perdono così la loro dimensione verso l'interno, la
loro religiosità. Sfogliando un vocabolario, può essere molto triste
l'impressione al vedere quanto piatta questa o quella parola è
diventata, in cui prima parlava la profondità. Ma inoltre esiste un
vero e proprio delitto che si perpetra sulla parola: la perversione
cosciente per mezzo della propaganda. Noi ci imbattiamo oggi dappertutto
in parole dalle quali, quanto ad esse, non sappiamo che cosa intenda chi
le pronuncia. Esse non esprimono più, non afferranno più. Poiché la
autentica parola nasce sempre dalla lealtà della volontà di verità e
dal rispetto per la fiducia di chi ascolta! ma in questo caso essa viene
regolata dalla menzogna consapevole, a meno che il senso della verità
non si sia estinto in senso assoluto e non si tratti ormai che di
effetti. Oppure si può affermare che parole come « la pace », o « il
diritto », o « la democrazia » abbiano ancora un significato
universalmente valido? Non è forse necessario addirittura imparare un
nuovo sistema di ascolto, cioè anzitutto lasciare indeciso ciò che si
è percepito e interpretarlo
44
a seconda della posizione politica di chi parla? Una
arte prima richiesta soltanto ai diplomatici? Senza parlare della
spaventosa situazione in cui l'uomo dominato risponde come la violenza
vuole che si risponda; e alla parola non si collega più il carattere di
un'affermazione, ma la si lascia soltanto come un tranello o come un
espediente difensivo.
Oppure prendano quello che qui soprattutto ci interessa:
lo scrivere e il leggere; la fissazione della parola parlata in segni
riconosciuti, che poi viene tecnicamente moltipllcata e resa accessibile
a tutti.
La crescente abbondanza e rapidità dello scrivere non
rappresenta un pericolo sempre più assillante? Non è forse vero che
qui non c'è più un uomo che si impegna per una verità riconosciuta,
ma per così dire lo stesso scrivere che scrive se stesso? Quando noi,
ad esempio, leggiamo un giornale, è davvero ancora un leggere? Eppure
il processo del leggere consiste nel fatto che l'esterno schema impresso
suscita la parola intcriore e in questa si rivela il significato. Ma per
tutto ciò ormai non esiste di regola più tempo e ciò che in realtà
si verifica, è un balenare transitorio di brevi segnali significativi.
Così per lo più, un momento dopo, noi abbiamo tutto dimenticato. Ma in
questo c'è qualcosa di assai brutto:
l'atto stesso del leggere si corrompe; perché esso è
qualcosa di vivente, e il semplice « aver ricevuto la scossa » alla
lunga non resiste.
Quanto qui si verifica in forma singolarmente chiara, si
manifesta dappertutto nella nostra esistenza sotto l'alluvione della
carta stampata. Se si avesse ancora opportunità di osservare quale
forza hanno l'imma-
45
ginazione, la memoria, il pensiero e la lingua degli
analfabeti, potrebbe sembrare a qualcuno molto degna di riflessione una
affermazione apparentemente reazionaria: che ogni disgrazia sia
cominciata con l'obbligo dello scrivere e del leggere.
E che cosa avviene per la terza cosa, il mostrare e il
vedere? Mostrare si può colui al quale qualcosa si è mostrato.
Emergendo da qualcosa che sta immediatamente davanti a lui l'essenza di
una cosa ha colpito i suoi occhi, ed ora egli — con i gesti della
mano, con una parola che spiega o con un'immagine che rivela — vi
guida lo sguardo di un altro: Guarda che cosa là sfavilla! Si potrebbe
pensare che il nostro tempo, il quale sa « illustrare » tante cose e
con una tecnica così brillante, comprenda a fondo il mostrare, e che il
vedere divenga sempre migliore. Ma è così? Un altro esempio ovvio.
Nelle vetrine dei negozi fotografici stanno esposti apparecchi
meravigliosamente fini e precisi, capaci di fissare le più lontane e
rapide apparizioni. Si dovrebbe così pensare che esse facciano sì che
il mondo appaia agli occhi più bello, più profondo e più ricco di
forme. Ma è questo il caso?
Uno che usa di continuo la macchina fotografica vede
forse più di mondo di colui che non la usa, ma che apre invece sul
mondo i suoi occhi? In casi singoli certamente, senza contare il valore
di ricordo di certe fotografie. Ma come stanno le cose di regola e in
media? Guardare è precisamente un aprirsi verso la ricchezza di forme
dell'esistenza. Non è forse questo che viene eliminato dalla
intenzionalità immaginifica della fotografia? Guardare è un assumere
in un possesso intcriore, nella memoria. L'apparecchio non toglie forse
ad uno la fatica per un
46
simile evento? Si ha l'impressione di avere ora la cosa
bella dentro di sé, ma in realtà essa non resta del tutto « fuori »,
ossia incisa nella pellicola?
E colui che guarda le immagini si guadagna forse un più
ricco possesso del mondo? Noi non vorremmo rinunciare agli splendidi
volumi di arte e di paesaggio, ma la cosa ha anche un altro aspetto.
Quando noi, per esempio, abbiamo sfogliato una rivista illustrata,
abbiamo veramente « visto »? In realtà non ha forse un'immagine
cancellata l'altra? Già il modo come le immagini sono state puntate
sull'interessante non ha forse rovinato l'autentica capacità di vedere?
Oppure, dopo aver visto al cinema il Wochenschau *, siamo davvero
diventati più ricchi di immagini? Dopo che gli avvenimenti si sono
velocissimamente succeduti e al possibile in contrasti, e di ciascuno
sempre il punto culminante, più sensazionale? È vero" il
contrario.
L'opinione che la tecnica illustrativa del nostro tempo
mostri all'uomo più di mondo è così poco giusta che si è tentati di
dire: quanto più apparecchi fotografici, tanto meno di mondo realmente
visto.
Vorrei pregare quanti mi ascoltano di non voler arguire
da quanto ho detto quell'atteggiamento di spirito che unicamente si
lamenta degli aspetti decadenti del tempo. Ma in un'ora come questa si
mira a riflettere su ciò che sta alla base del proprio agire e sulle
difficoltà che vi si oppongono.
E non occorrono particolari dimostrazioni per vedere
quanto il fenomeno di cui si è detto renda difficoltoso il dialogo. Noi
non vogliamo celebrarlo, ma è
* Rassegna cinematografica degli avvenimenti della
settimana.
47
pure egualmente chiaro che esso sarà tanto più fecondo
quanto più vero sarà il nostro dire e quanto più aperto il nostro
ascoltare. Quanto più chiaramente vengono viste le cose della vita e
quanto più acutamente l'uno sa mostrarle all'altro. Quanto poi al
leggere, le nostre parole circa la realtà quanto saranno più giuste e
più piene, se noi saremo in grado di dire: Agostino o Dante o Goethe ha
detto così! Ma, per questo, la loro parola deve essersi aperta al
nostro spirito.
Il dialogo circa i problemi significativi dell'esistenza
ha la sua importanza anche per le questioni pratiche di questa. E con
ciò noi arriviamo dal dialogo spirituale a quello sociale e politico.
Le difficoltà più rilevanti del commercio sociale non sorgono forse
dal fatto che i comunque responsabili non arrivano realmente al dialogo
reciproco? La terra si fa sempre più piccola, le distanze diminuiscono,
le occasioni di incontro crescono di giorno in giorno. Ma gli uomini —
e questo è uno dei più maligni paradossi del nostro corso culturale
così non sicuro affatto del suo progresso — sembrano farsi sempre
più lontani.
Non è perciò tutto risolto — e torniamo così alla
nostra questione — con il parlare, lo scrivere e il mostrare, ma ci
troviamo qui davanti a nuovi problemi e compiti. Questi non si limitano
all'impegno di produrre ciò che è buono, ma esigono una educazione
alla corretta assunzione del buono, affinchè l'uomo non riporti danno
per causa del buono stesso. Ciò che importa è che impari a leggere
correttamente; a distinguere con giudizio; ad usare autodisciplina. Uno
sforzo che deve cominciare già nella scuola e che non può mai
terminare.
Ma così noi tocchiamo la grande questione: co-
me potrà l'uomo, dopo aver prodotto l'immensità della
cultura moderna, anche imparare ad usarne giustamente: un'arte che egli
sembra avere capito ancora assai poco. È la questione in cui sfociano,
oggi, in realtà, tutte le considerazioni.
49
Ili
DOMANDE SUL PROBLEMA DEL POTERE
Reverendo P. Rahner,
non ho certo bisogno di dirle, quanto volentieri io
avrei contribuito con qualcosa di più ponderoso al suo volume
celebrativo, ma al presente de'vo economizzare le mie possibilità.
Perciò ho pregato la dirczione del volume di poter offrire il mio
contributo in modo più frammentario, cioè con la formulazione dì
domande, che assillano me stesso e dalle quali credo che anche altri
siano assillati — o almeno dovrebbero esserlo. Le domande sono pure il
luogo da cui può accendersi un'intuizione; per questo spero che
troveranno il loro modesto posto.
Di solito si riconosce l'immagine di Dio nell'uomo nella
capacità di conoscenza e di libera decisione della volontà, per
quello che riguarda la natura, e nella grazia santificante, per quello
che riguarda il soprannaturale.
Non sarebbe più utile dire, secondo il Genesi 1,
28, che l'uomo è l'essere a cui Dio ha dato il potere sul mondo e su se
stesso ed a cui ha imposto la corrispondente responsabilità?
È l'uomo « compiuto » nella sua. determinatezza
fisico-psichica, oppure giacciono in lui possibilità non ancora
storicamente realizzate?
51
Sarà l'uomo compreso più lettamente — e più
fruttuosamente — se viene inteso come una struttura certamente in
divenire, ma predeterminata nelle sue proprietà, oppure come un insieme
di possibilità, che vengono formate da lui stesso e rispettivamente
dall'ambiente, dalle situazioni, dall'attività professionale ecc.?
Se la risposta a queste due domande suona: l'uomo deve
essere inteso come potenzialità ontica o anche, per determinarlo
più strettamente, in quanto tale, allora in quale rapporto sta
ciò, che noi chiamiamo potere, con la realizzazione di questa
potenzialità e perciò con l'adempimento dell'intenzione creatrice di
Dio?
Non appartiene anche al fenomeno del potere quello
dell'impotenza — secondo che in una determinata situazione ci sono
uomini che reagiscono ad essa psicologicamente e moralmente, oppure non
lo fanno — e sempre secondo la maniera con cui lo fanno?
Quale significato acquista il momento dell'impotenza di
fronte al potere oggi così enormemente crescente?
Può l'uomo sostenere un potere grande a piacere ed
elaborarlo positivamente dal punto di vista psicologico?
Può egli, dal punto di vista etico, prendere la
responsabilità di un potere grande a piacere? È possibile che il suo
potere sorpassi la misura di
52
ciò che è esistenzialmente sostenibile e che l'uomo
soccomba ad esso?
Dove bisogna osservare che per « potere » si deve
intendere non solo quello politico ed economico, ma anche il potere
tecnico, scientifico, artistico e in genere culturale.
Ha la realizzazione esistenzialmente positiva del potere
presupposti religiosi, così che veramente essa sia possibile solo nella
religiosità — nel timore di Dio?
Quando giunge il potere ad un momento patologico o
patogeno? e come appare allora la situazione? C'è una pedagogia o
terapia della volontà di potere patologicamente minacciata o
minacciante?
Quando il potere diventa demoniaco? Lo è forse già
oggi, se si considera la sua sfrenata crescita attraverso la scienza, la
tecnica, le possibilità di influsso sociale ecc., ma oltre a ciò la
minacciosa spensieratezza che domina sotto questo rapporto? E forse non
solo presso « gli altri » — poniamo i comunisti —, ma anche «
presso di noi »?
È la capacità dell'uso positivo del potere determinata
storicamente? O, all'opposto, la sua misura
53
determina la storia e rispettivamente le sue diverse
fasi?
Ci sono criteri per giudicare se la misura dell'attuale
potere è troppo grande per le possibilità degli uomini interessati o
rispettivamente della fase storica interessata? E se ci sono — quali
sono?
10
Se c'è la brama di potere errata dal punto di vista
psicologico ed etico, c'è anche, allora, la brama psicologicamente o
eticamente errata di sottostare al potere?
Come angoscia di fronte al suo gravame oppure alla
responsabilità per esso? Come voglia di soffrire sotto la violenza?
11
In che rapporto sta il crescente potere dell'uomo con la
Provvidenza? E precisamente, quando si prende in considerazione la
possibilità dell'uso pervertito del potere, come anche la ritrosia
pavida all'uso del potere in generale?
12
È lecito esercitare .potere su di un uomo? Si può, o
si deve dire che il vero progresso cultu-
54
rale ed etico significa una diminuzione di tale
esercizio di potere?
13
In che rapporto sta il potere con l'autorità? Se la
caratteristica e la natura dell'esercizio dell'autorità rappresentano
un compito morale per gli stessi soggetti rivestiti dell'autorità, è
implicato allora nel senso di questo compito, di far regredire sempre
più il potere?
14
C'è un mutamento storico nella maniera, con cui viene
realizzato il momento del potere dell'autorità politica statale? -
Forse così, che fin alla fine circa/del secolo scorso
il detentorc del potere avesse avuto il carattere del-l'« eminenza » (Hoheit),
poi invece il suo esercizio assumesse il carattere del « servizio »,
nel quale gioca insieme il concetto di umiltà?
15
Può essere che l'atteggiamento rivoluzionario
avvertibile dappertutto sia diretto fondamentalmente non contro
un'autorità munita di potere, ma contro la forma dell'« eminenza », e
che richieda invece la forma di servizio?
16
Si da oggi un'educazione per il retto uso del potere?
55
Dove dovrebbe inserirsi tale educa2Ìone? In quale
maniera dovrebbe operare? Quali sarebbero i suoi princìpi e fini?
17
C'è un'ascosi del potere?
È realistico o utopico il pensiero che si dia la
rinuncia alla conquista possibile del potere, forse persino l'esigenza
etica di tale rinuncia — ciò che anche significherebbe che si dia
l'esigenza etica di rinunciare a determinate conoscenze che accrescono
il potere, oppure alla loro divulgazione? In che rapporto sta la domanda
col principio moderno dell'autonomia della scienza e della cultura?
18
L'immagine di Cristo in croce, nel suo più profondo
significato, non significa anche la rinuncia al potere?
19
È possibile che il crescente potere dell'uomo diventi
strumento della fine del « mondo » e del giudizio?
56
IV IL FENOMENO DEL POTERE ft
Una parola che nelle considerazioni sia
teorico-culturali, sia pratico-politiche del nostro tempo, ritorna
spessissimo, è quella del potere *''•'. E non senza fondamento,
perché questa realtà ha raggiunto una misura tale da caratterizzare in
modo particolare la nostra situazione storica. Perciò è certamente
utile delineare con accuratezza il significato del termine.
E ciò tanto più in quanto viene adoperato con
molteplici sensi. Si parla della potenza d'una grande montagna, del
leone come di un animale potente, del potere di un'abitudine. Noi dunque
cercheremo di determinare il fenomeno, espresso nel termine/ partendo
dal suo significato generalissimo per arrivare a quello specifico. Nei
vari passi di questa determinazione, noi accenneremo anche ai problemi
presenti in questo fenomeno.
In senso generale potere significa la possibilità di un
ente a fare una azione. Il suo fenomeno appartiene dunque non all'ambito
dell'essere sostanziale, ma a quello dell'energia e dell'atto. Esso si
radica na-
* Relazione tenuta al XVII Convegno del Centro di Studi
Filosofici tra Professori Universitari - Gallarate 1962, in « Potere e
Responsabilità », Morcelliana, Broscia 1963 pp. 29-38.
** Cfr. il saggio dell'Autore, II Potere,
Morcelliana, Brescia 1954.
57
turalmente nell'essere. Viene determinato volta per
volta dalle proprietà e dalle strutture del medesimo, ma non è
identico ad esso. In questo senso generalissimo ha potere tutto ciò che
è, perché ogni ente è operativo. Non si da un puro esistere. L'essere
è così strettamente relazionato al potere che, come ci dice la fisica,
le ultime particelle dell'atomo possono essere viste tanto sotto la
prospettiva dell'essere statico, quanto sotto quella dell'energia.
Perciò sempre secondo questo punto di vista appaiono tanto come massa
(corpuscolo), quanto come unità energetica (onda) e formano le ultime
determinazioni della, realtà fra loro dialetticamente opposte. Parlando
concretamente; una pietra è attiva, ad esempio, sotto forma di
pressione che, per influsso della gravita, esercita su quanto le sta
sotto. Una corrente elettrica produce effetti a volte di enorme portata.
Questo però non è ancora ciò che intendiamo, quando vogliamo ben
definire il fenomeno del potere. All'azione che procede dalla cosa
inanimata e dall'energia dei non-viventi manca quel carattere di
interiorità che noi riteniamo a priori collegato con il concetto
di potere. Quell'azione appartiene a quel complesso di trasformazioni
dell'energia, che penetra tutta la natura inanimata e ne forma l'unità
dinamica.
Quando noi parliamo di potere, intendiamo un'attività
che deriva dallo spazio intimo di un ente. Cioè:
esso sta in rapporto con la vita. Soltanto un vivente
può avere potere, perché soltanto in esso esiste iniziativa.
Con ciò intendiamo dire che l'attuazione dell'energia
non ha, come avviene in un processo chimico o in un evento fisico, il
carattere di una catena causale che coinvolge l'ente considerato, ma che
l'atto ope-
58
rativo risulta da una sfera interna all'ente in
questione. In senso approssimativo possiamo dire che nella pianta esiste
un tipo di potere, e precisamente quello di crescere, di penetrare nel
suolo, di assorbire gli elementi nutritivi, di emettere odori, di
attirare gli insetti con il suo profumo, di produrre semi, ecc.
Ma tutto ciò rivela sia nel suo nascere, sia nel suo
evolversi un carattere di necessità. Così l'elemento dell'iniziativa
si realizza in modo imperfetto. Si tratta di pura causalità fisica:
solo che non si compie, come nelle realtà inanimate, in una realtà «
esterna » direttamente data, ma dall'interno verso l'esterno.
Nell'animale il momento dell'iniziativa si realizza ad
un livello più perfetto. Esso si muove da un luogo ad un altro;
insegue, afferra la preda, la consuma;
costruisce abitazioni, come caverne e nidi; elabora
strumenti che servono a determinati scopi, come la rete del ragno, ecc.
L'impulso a parlare di potere è qui molto più vivo che
nel caso della pianta. L'iniziativa scaturisce da un livello interno «
più profondo », orientale da determinati istinti e organi percettivi.
Sia per la qualità, sia per la gradualità essa ha possibilità
incomparabilmente maggiori, le quali sono così grandi che un
osservatore è sempre tentato di parlare di intelligenza e di
consapevole finalità. Tuttavia non possiamo ancora parlare di vero e
proprio potere, perché questa iniziativa dell'animale, così nel suo
primo sorgere, come in tutto il suo arco operativo, è dominata dalle
necessità della propria disposizione naturale e dal proprio ambiente.
Appena uno parla di potere in un animale, siamo già nel mondo delle
favole. Esopo e La Fontaine parlano dell'animale,
59
come se avesse potere, per spiegare con ciò certi
processi etici dell'uomo.
Possiamo parlare di potere in senso proprio soltanto
dove il momento dell'iniziativa raggiunge il suo pieno significato,
precisamente nella libertà, cioè nell'uomo. Determinano la libertà
due momenti, che si condizionano reciprocamente. Il primo consiste in
ciò che il portatore dell'atto, il soggetto, nell'atto sia intimo a se
stesso; che possega la propria particolare energia e nella sua
attualizzazione se stesso. Il secondo in ciò, che il soggetto in atto
trascenda se stesso e quindi sia in grado di disporre della propria
energia. Le due cose assieme si chiamano libertà. Noi possiamo parlare
di potere in senso stretto soltanto là, dove l'energia viene attuata
nella libertà. Ma soltanto l'uomo possiede la libertà. Pari-menti
l'interiorità, da cui scaturisce l'iniziativa, rag-" giunge il suo
pieno significato solo nell'uomo. E precisamente ancora attraverso due
momenti. Il primo è la consapevolezza: l'uomo conosce la propria
energia; detto più esattamente, egli è consapevole di se stesso
nell'effettuazione dell'energia. Il secondo momento è la finalità:
l'esercizio dell'energia si volge verso uno scopo e si vale di un mezzo
adatto per raggiungerlo.
-La realtà, che porta e permette tutto ciò, è lo
spirito. Detto con maggior precisione, lo spirito, che possiede se
stesso, cioè la persona. Il potere è un fenomeno umano. Noi qui
prescindiamo sia dalla questione se vi siano esseri sovrumani che
esercitano potere, come gli angeli e i demoni; sia dall'altra, come sia
la natura del potere dell'Essere assoluto, cioè di Dio. Potere quindi
significa la possibilità esistente nella natura dell'uomo di pensare,
di sceglie-
60
rè e di realizzare azioni che scaturiscono dalla
propria iniziativa.
Con ciò viene anche detto che per un vero esercizio del
potere è necessario possedere la natura normale e formata dell'uomo.
Un bambino attraverso lo stimolo del suo inconscio,
l'immediatezza e la ingenuità del suo desiderio, può produrre azioni
di grande importanza; però non esercita propriamente potere, ma
soltanto lo irradia dal proprio interno. Allude a! futuro del proprio
potere, ma per ora Io contiene soltanto come in geme. Un minorato può,
con una straordinaria concentrazione, volere e realizzare qualcosa,
tuttavia non è vero e proprio potere, perché, dove agisce la
costrizione psicopatologica, non c'è libertà e quindi neppure vera
iniziativa. Il suo fare è un fenomeno ambiguo: in qualche maniera
ricade nel modo di operare dell'animale, senza che il suo soggetto
diventi realmente animale. Di qui l'inquietante e nello stesso tempo
tragica impressione della sua esistenza. Al fenomeno del potere, e
quindi della libertà, appartiene la capacità, ma anche la
inevitabilità, di dover rispondere di sé e della propria iniziativa.
Qui l'operante iniziativa non ha soltanto il carattere di causa, ma
quello di autrice. Ciò che accade, accade soltanto perché il soggetto
lo vuole. Così al vero concetto di potere si collega direttamente
quello di responsabilità.
La vera realtà del potere è già radicalmente un
rilevante fenomeno etico. Nietzsche ha eretto « l'innocenza del fare »
a supremo valore: il completo fare umano raggiunge un carattere di
necessità, che è oltre il bene e il male, svincolata da ogni
valutazione etica. Il pensiero è altamente contraddittorio perché
61
cerca di portare lo stato della persona nella pura
necessità dell'essere naturale. È il malinteso del non posse
peccare dell'uomo perfetto, il quale nasce dalla completa unione
della volontà con la grazia della vita eterna: della naturalezza del
santo. Oppure del carattere di piena spontaneità che all'occasione si
nota nel modo di agire di un uomo felicemente dotato. In verità l'uso
della forza è sempre sottoposto al criterio etico.
L'analisi condotta fin qui ha risposto alla domanda da
qual soggetto è retta l'azione che merita il nome di potere.
La risposta fu data: è l'uomo. Soltanto l'uomo, non
appena il concetto di uomo si afferra nel suo pieno significato, può
avere ed esercitare potere. Ora dovremmo cercare di che genere sia
l'energia che sta a disposizione dell'uomo.
Le energie del mondo inanimato sono radicalmente ed
univocamente determinate. Si tratta sempre di energie di natura:
gravitazionale, elettrica, ecc. Esse operano insieme e insieme producono
quel tutto, quell'effetto totale, che si chiama « mondo ».
L'individuo animale è già un intreccio di diversi tipi
di energie. Dalla natura specifica dell'animale in questione sono
determinate le sue necessità, la sua attività, il suo ambente. Ogni
specie animale ha relazione con una determinata parte della totalità
del mondo, emerge da essa ed opera in essa.
All'essenza dell'uomo appartiene la totalità del
rapporto col mondo. Naturalmente l'uomo singolo, e così pure, in grado
via via maggiore, un gruppo sociale, la popolazione di un paese, sono
l'uomo — o la popolazione — di una ben definita epoca sto-
62
rica. Ma ciò soltanto fino ad un certo punto, perché
l'uomo ha la possibilità di trascendere i propri limiti primariamente
dati. O personalmente, attraverso l'esperienza, lo studio, l'esercizio,
ecc., oppure attraverso il prolungarsi di una generazione nell'altra, di
una fase storica in un'altra. Da qui la storia sia individuale, sia
generale può essere definita come l'ampliamento continuo di relazioni,
che l'uomo ha con il mondo. L'uomo è, nella sua forma (Costali) individuale,
la potenziale analogia della totalità del mondo (microcosmo).
Le diverse energie del mondo si ripetono nell'uomo. Ma
esse assumono in lui un nuovo carattere, perché entrano nello spazio
della libertà. Con ciò esse perdono quei legami, attraverso i quali
sono inserite nel mondo non-umano, acquistano una nuova mobilità;
possono crescere fino ad un'intensità ed una estensione del campo
operativo non calcolabili a priori. D'altra parte esse perdono
quella sicurezza, che è propria dei vincoli naturali delle leggi.
Nello spazio della libertà umana, l'energia diviene
potere. Ma proprio per questo diventa anche fino ad un certo grado
arbitraria. Come potere, l'energia diventa possibilità di possedere, di
dominare, di plasmare, di creare, ma anche possibilità di errare, di
eccedere, di distruggere. La storia è caratterizzata da questa realtà
di fatto. Essa è l'insieme organico degli accadimenti che l'uomo compie
con le energie del mondo diventate in lui libere.
Per meglio chiarire questa realtà di fatto nella sua
totalità, caratterizziamo con maggior precisione i suoi elementi.
63
Nel mondo umano appaiono anzitutto le energie
chi-mico-fisiche. Esse sono costituite dalla sua massa, dalla struttura
del suo sistema osseo e dei suoi muscoli, dalle sue possibilità
motorie, dai suoi organi sensitivi, ecc. Ciò che accade nei
non-viventi, nella pianta, nell'animale, si ripete nell'uomo.
La misura e l'estensione di tali energie sono dapprima
limitate. In confronto a certi fenomeni naturali, come temporali,
tempeste, processi vulcanici, energie dei fiumi e del mare, ecc., l'uomo
è debole, esposto al pericolo della distruzione. Così anche in
paragone a molti animali egli è indifeso. Però può rafforzare le sue
forze immediate, facendosi degli strumenti in base alla conoscenza delle
leggi fisico-chimiche.
Mentre lo strumento resta inserito nel contesto diretto
dei movimenti del corpo e delle capacità operative, la macchina invece
si svincola da questo contesto. Essa si impadronisce d'una energia
naturale e ne dirige l'azione verso determinati fini. Essa produce così
attraverso un ciclo di funzioni autonome, ciò che l'uomo con la forza
del proprio corpo non vuole o non può produrre.
Diverse macchine con scopi talvolta specializzati
vengono adoperate in un complesso organico in cui l'una prepara o
continua l'azione dell'altra. Così risultano quei grandi e complicati
organismi, che noi chiamiamo fabbrica, sistema di fabbriche, o, prese
nel loro complesso, industria di un paese.
Finalmente nell'automazione la catena delle azioni è a
tal punto calcolata che l'uomo ha soltanto un compito di controllo: il
lavoro si svolge da sé solo. Questi congegni tecnici possono sempre
più obicttivarsi e costituire un complesso sempre più ampio.
64
Ma nella sua essenza tutto questo rimane inserito
nell'esistenza dell'uomo. Con ciò le energie chimi-co-fisiche della
natura vengono inserite nel suo potere e determinate dalla sua libertà.
Un altro tipo di potere è quello sociale. Gli individui
umani sono legati tra loro da dipendenze diverse: nascita, educazione,
difesa, divisione del lavoro, mutua assistenza, ecc. Ciascuna condiziona
una parte del potere di colui dal quale dipende un determinato
risultato. Nella compagine del tutto sociale si formano così campi via
via più vasti di esercizio di potere, con relativi centri, come
imprese, direzioni di vario genere, fino a culminare, in ultima istanza,
nelle diverse forme del dominio politico. Qualcosa di analogo avviene
nelle relazioni econo-miche. Chi ha beni di cui un altro ha bisogno,
esercita con ciò un potere su di lui. Questo potere si articola nelle
innumerevoli forme di produzione e distribuzione dei beni, le quali si
concentrano egualmente in punti d'assorbimento di estensione e
d'importanza crescente.
L'uomo possiede potere psicologico. Esso è presente
nell'azione che un afletto, una passione, un desiderio esercita
direttamente sopra un altro uomo. Letizia, lutto, entusiasmo,
scoraggiamento, collera, risolutezza operano per se stessi su altri
uomini, provocando i medesimi sentimenti o i loro contrari.
Un'azione particolarmente forte viene esercitata
dall'istinto sessuale, a partire dal desiderio fisico al-VEros
più sublime. Esso sollecita nell'altro la risposta: acconsentire o
resistere.
Un nuovo carattere assume l'energia psichica nelle
diverse forme della suggestione. Qui l'agente, con la concentrazione
della sua volontà, con la scelta e la formazione dei motivi e delle
rappresentazioni utili
6?
allo scopo, accresce, diminuisce, guida l'iniziativa
dell'uomo su cui si dirige, subordinandola alla sua volontà. L'energia
di questa influenza può assumere gradi e forme diversissime, come
mostra, tra l'altro, la propaganda, la pubblicità, l'incidenza
dell'opinione pubblica, ecc. Nel caso della suggestione perfetta, cioè
dell'ipnosi, l'uomo succubo viene completamente inserito nell'ambito
sentimentale e volitivo dell'agente e ridotto ad organo della sua
volontà.
L'uomo possiede ciò che chiamiamo il potere della
personalità. Un fenomeno molto complesso, che abbraccia diversi
elementi: da un lato caratteristiche corporee, come fisionomia vigorosa,
determinate forme dell'atteggiamento e movimento del corpo, ecc.;
dall'altro elementi psicologici: come forti sentimenti,
energia e decisione di volontà, chiarezza di concezione di vita, ecc.
Dobbiamo dire la stessa cosa di ciò che noi possiamo
denominare intensità dell'essere. II termine « essere » è un verbo;
indica l'atto fondamentale per il quale l'uomo realmente è, si afferma
come realtà e si impone alla coscienza dell'altro. Anche egli esercita
attività, fa sì che l'altro, anche se inferiore, si assoggetti,
approvi la particolare dirczione della volontà, lasci cadere gli
impulsi opposti, ecc.
L'uomo opera attraverso momenti spirituali. Attraverso
la verità riconosciuta ed espressa nella parola; tanto più forte,
quanto più chiara è la conoscenza, quanto più giusta e convincente la
parola. Esso opera con la forza motrice delle idee tanto più
intensamente, quanto più puntualmente esse colgono la situazione
spirituale o psicologica dell'ascoltatore;
quanto più esse sono « a tempo » chiamate da
condizioni di emergenza; quanto meglio si inseriscono nella corrente
della storia.
66
Egli opera con l'esemplarità, in quanto realizza in se
stesso ciò che è utile, buono, nobile, ciò che accresce la vita, ecc.
Gli esempi d'onesto agire e di nobile comportamento, rottamente
coltivati e corrispondenti alle istanze del tempo, ma anche viceversa
quelli del fare dissolvitore e distruttore esercitano un potere immenso.
L'influenza educativa si basa in gran parte su questo potere; così
immenso è il potete esercitato da esempi negativi, da seduzioni.
Può esistere un potere « magico », oscuro nella sua
sostanza, ma reale. Come esiste un bisogno di realtà misteriose e
sovrasensibili, così esiste la capacità di destare questo bisogno e di
soddisfarlo o sfruttarlo in modo vero o falso (credenza negli spiriti,
effetti del tabu). A questa sfera appartengono anche le capacità
parapsichiche: chiaroveggenza, telepatia. Viene spontanea la domanda
fino a qual punto questi fenomeni siano veri. Ora, quanto più indietro
andiamo nella storia, tanto più grande diventa l'azione di queste
capacità o forze, ossia il collegamento che esse contraggono con
obiettive funzioni di carattere politico, culturale, tecnico. La
razio-naiizzazione e meccanicizzazione dell'esistenza sembra attenuarle
o reprimerle. D'altra parte la straordinaria diffusione della
superstizione mostra che al posto dei veri fenomeni parapsichici
entrano fenomeni falsi, come, ad esempio, nell'ambito dell'astro-logia.
C'è infine il potere religioso. Esso si radica
nell'intensità dell'esperienza religiosa vissuta; nella capacità di
esprimere in parole la sfera numinosa, di rappresentarla in simboli o di
far risaltare sociologicamente questi simboli. Inoltre si fonda sulla
esemplarità di chi sente la religione in profondità; sulla
67
autenticità e purezza, con la quale egli attua la
propria convinzione.
Bisogna d'altra parte notare anche quanto sia stata
deleteria una religiosità deviata, falsa e impura; specialmente se si
considera l'interferenza o la convertibilità degli impulsi religiosi
con diversissimi stimoli di carattere sociale, culturale, patologico,
ecc. Crisi religiose, sette, forme di superstizione, mostrano la
vastità di tali poteri, così come li rivela l'abuso che è possibile
fare d'una religiosità in sé autentica al servizio di scopi politici,
economici, sociologici. Il potere religioso raggiunge il suo culmino nel
fenomeno della missione religiosa: del messaggio, del segno, del
miracolo.
Nell'ambito sia naturale sia culturale sarebbe da ricordare
qualche altra forma di potere. Sempre si verificherebbe il fatto
fondamentale per cui una determinata forma d'energia entra nel contesto
vivente dell'uomo, e quindi sotto la forma determinante della libertà.
Parimenti bisognerebbe mostrare in che modo le diverse
forme di potere si collegano, si trasformano Tuna nell'altra, si
incrementano, si impediscono, e come poi ne nasce quel molteplice e
immenso complesso che chiamiamo vita umana, la cui obiettiviz-zazione è
la cultura e il cui movimento è la storia. L'aspirazione al potere
forma un impulso fondamentale della natura umana ed è dato con la
personalità. L'esercizio del potere è la realizzazione della persona
in senso proprio.
Ad ogni fare umano, di qualsiasi genere esso sia, è
connesso un acquisto di potere. Questo acquisto
68
di potere è tanto vario, quanto sono varie le
possibilità nell'uomo di diventare operante. Esso opera come impulso in
ogni fare.
Se viene preclusa all'uomo l'effettuazione del bisogno
di potere, la possibilità dell'autorealizzazione e dell'autocoscienza
nell'esperienza vissuta del potere, tutto ciò costituisce una causa di
decadimento psichico. Così, per esempio, la scuola di Adier elaborò
tutta una teoria della psicopatologia e psicoterapia sul bisogno di
potere frustrato a cui si deve cercare nuova attuazione. D'altra parte
la volontà di potere può ipertrofizzarsi in megalomania, in violenza,
come può unirsi ad altri impulsi e pervertirli.
Il fenomeno del potere trova un particolare
completamento in quello dell'impotenza. Analizzato punto per punto esso
si rivelerebbe tanto ricco, quanto quello del potere stesso. Qui
possiamo dare soltanto alcune indicazioni.
Innanzi tutto bisogna fare attenzione all'impotenza
puramente negativa, cioè alla semplice mancanza di tutto ciò che più
sopra fu indicato come forma di potere. Essa si verifica in coloro a cui
mancano salute e forza fisica, intelligenza, abilità, beni di fortuna,
posizione sociale, ecc. Essa costituisce in primo lungo uno stimolo per
la volontà di potere del forte e per i fenomeni derivanti della
violenza, dell'astuzia.
Questa deficienza può anche diventare, in colui che la
soffre, un impulso a compensarla con l'esercizio, con la saggezza, con
la profondità e la maturazione etiche. Da ciò nasce secondariamente
una nuova forma di potere: quella dell'uomo che ha strutturato
69
la sua vita in una dimensione etico-personale. Il
fenomeno si presenta diverso là dove l'impotenza del debole, del
sofferente, dell'indigente può appellare ai sentimenti altruistici,
presenti nel forte, sano, ricco. Esso produce nell'uomo sensibile un
immediato senso d'obbligazione, che possiamo chiamare « imperativo
altruistico » e che può condurre a grandi prestazioni di generosità
disinteressata. Così le debolezze e le deficienze umane, quanto più
grandi sono, si trasformano in energie indirette tanto più decisamente
operanti.
Nel rapporto delle generazioni tra loro, la debolezza
del bambino diviene un richiamo che opera direttamente sui genitori,
educatori, sugli adulti in genere, supposto naturalmente che questi
siano sensibili al sentimento di responsabilità. Qualche cosa d'analogo
avviene per le persone anziane; Anche qui l'impotenza si trasforma negli
altri, quando siano sensibili ad essa, in una nuova forma di potere.
Una particolare forma di « potente impotenza » nasce
in ordine ai valori elevati della persona e dell'opera. L'uomo, a cui il
disinteresse, la nobiltà, la elevatezza di sentimento impediscono di
esercitare un potere di carattere immediato, opera tuttavia attraverso
una specie di vincolo morale (uerpflichlend} su chi è sensibile
a quei valori. Ne nasce un engagement e quindi un potere
secondario, che può condurre a prestazioni elevate.
Qui si fonda tutto ciò che noi possiamo chiamare «
cavalleria », un immediato sentimento d'obbligazione nell'uomo di
sentimenti elevati di fronte a certi valori che da se stessi non
riescono ad imporsi. Per esempio, egli soccorrerà un uomo nobile' che
sta per soccombere nella lotta di ogni giorno, oppure
70
lotterà per conservare una bella opera ' artistica 6
culturale minacciata da interessi materiali.
In tale contesto rientra quell'efficacia tutta
particolare esercitata dall'assenza di violenze nella lotta politica.
Gandhi ha disarmato la potenza coloniale inglese con l'unire alla
richiesta di libertà del suo popolo la perfetta rinuncia all'esercizio
della forza e rese tutto ciò degno di fede con il suo personale
disinteresse, con il rifiuto d'ogni astuzia, con la sua lealtà e con la
fede nel buon diritto della sua causa. Con ciò egli pose il suo
avversario in un vero e proprio stato di costrizione, obbligandolo a
scegliere fra la brutalità e la dignità. Ma evidentemente presuppose
in tutto ciò, a dispetto di tutta la durezza degli interessi politici
ed economici, Vethos della cultura occidentale. Questo appello
non avrebbe avuto effetto, per esempio, sul cinico realismo della
politica totalitaria.
In modo simile opera il contegno del martire religioso
che non si difende, ma rimane fedele alla sua fede. Anche egli mette a
lungo andare il suo avversario nella situazione dilemmatica tra l'essere
spiritualmente ed eticamente inferiore e la necessità di concedere la
libertà richiesta. Allo stesso modo influisce la povertà volontaria
che rinuncia al potere economico o il perdono che sa rinunciare alla
vendetta.
L'impotenza, rappresentando i valori che sono evidenti
in se stessi e fondendoli con le elevate qualità morali del suo
difensore, diventa una potenza sull'altro. Essa lo mette nella
situazione di comportarsi da barbaro, oppure, riconoscendo i valori di
cui andiamo dicendo, di comportarsi da generoso e di porsi quindi
eticamente sullo stesso livello dell'impotente.
71
Bisognerebbe mostrare in. particolare i presupposti di
carattere psicologico, etico, storico-culturale necessari, affinchè
l'appello all'impotenza venga percepito e seguito. Ma d'altra parte
indicare anche quando l'appello perde la sua forza, quando diventa
inautentico, irreale, nel falso senso idealistico o contraffatto in
tecnica e astuzia.
72
v
IL SERVIZIO AL PROSSIMO IN PERICOLO
Se si cercasse una proposizione, che esprimesse
brevemente e chiaramente, su che cosa si fondano tutte le forme del
soccorso, sia individuale sia organizzato, forse si perverrebbe alla
seguente: « Ecco un uomo in bisogno; dunque io devo soccorrerlo ».
Semplicemente così: « dunque io devo »; senza ulteriori motivazioni e
dimostrazioni; come la conseguenza, che sorge dal bisogno stesso.
Forse vi domandate, perché ci sia bisogno di dirlo espressamente;
ciò è pure evidente per se stesso. Ma lo è realmente?
Il giorno odierno 1 vi invita ad una
riflessione; noi vogliamo tentarla in modo da lasciarci guidare dalla
proposizione sopra enunciata. Vogliamo domandare, se essa è realmente
per sé evidente, e in ciò faremo l'esperienza vitale di una storia.
Una storia dell'umanità, che si è compiuta e si compie ancora in ciò
che vi è di più vitale per essa, nel suo cuore, e che ri-
1
La conferenza è stata tenuta il 24 inaggio 1956 nella seduta annuale
della « Lega delle case materne tedesche della Croce rossa » (Verband
deutscher Mutterhauser vom Roten Kreuz] in Monaco.
Alcuni particolari sono stati meglio rielaborati
per la stampa. Un pensiero, che nell'esposizione orale era stato solo
brevemente accennato, è stato sviluppato nel paragrafo: « Una
eccezione sociologica ».
73
. guarda chiunque senta il grido del bisogno umano a sé
rivolto.
È dunque per sé evidente la proposizione che abbiamo
trovato sopra? Parecchi dicono di sì. Essi sono del parere, che
appartenga alla natura dell'uomo di rispondere con un fattivo soccorso
all'angustia dell'altro. Questa opinione è molto nobile e sembra
esprimere l'essenza dell'uomo nel modo più bello. Ma io credo che sia
illusoria. Domandiamoci in modo del tutto spassionato: l'« uomo
naturale », del quale si parla, come si comporta veramente?
In verità il sentimento spontaneo non percepisce la privazione,
i dolori, il pericolo dell'altro proprio in maniera che senz'altro ne
venga l'impulso di andare da lui, di stargli vicino, di aiutarlo ad
uscirne, ma piuttosto ne rifugge. Esso percepisce il bisogno estraneo
come un disturbo del proprio benessere; come un appello al proprio
portafoglio; come una richiesta di sforzo da parte sua. Uno sguardo
risoluto nel proprio inferiore lo vede. E anche il più grande
idealista deve constatarlo non appena viene nella situazione di dover
pregare altri per collaborazione o per un aiuto in danaro in un
qual-siasi bisogno. Sembiante e parole dell'interpellato gli insegnano
verità molto amare.
Ma le radici di questo atteggiamento scendono molto più
in profondità. Se diamo uno sguardo alle culture primitive, vedremo che
la tribolazione dell'altro per lo più viene sentita come qualcosa di
ostile al proprio benessere. Saremo indotti a ricordare il comportamento
degli animali che vivono in società:
appena in un alveare o in un formicaio si ammala un
membro, esso non viene affatto curato, ma ucciso. L'impulso, che con
tanta sicurezza vien detto
74
« sentimento naturale », risponde nell'uomo al bisogno
dell'altro originariamente in maniera molto simile — ma si deve dire,
anche peggiore, perché quel moto assume nell'uomo un carattere
particolare. L'essere minacciato deve essere allontanato di là, perché
non metta in pericolo anche gli altri.
Tuttavia, la questione del come e perché ci conduce
ancora una volta più a fondo. Nei tempi primitivi ogni avvenimento è
penetrato di sentimenti religiosi. Con ciò non vogliamo intendere
qualcosa di cristiano connesso con l'annunzio divino biblico; ma
piuttosto un sentimento immediato per il mistero in ogni ente. In ogni
avvenimento vengono sperimentati poteri benefici o malefici. Il dolore,
l'infelicità, la malattia e la morte si presentano alla coscienza
parimenti in questa maniera. Perciò anche colui che non. ne è dapprima
colpito, si sente minacciato da quelli. Nel bisogno estraneo, egli vede
l'azione di potenze sdegnate o malvagio, e il suo sentimento gli dice:
Tienti lontano; esso potrebbe assalire anche tè!
Così appaiono in realtà i sentimenti naturali. E basta
guardare solo nel nostro immediato passato, per constatare come essi
siano di nuovo emersi nella più moderna contemporaneità nella maniera
più elementare. Ma di ciò riparleremo più ampiamente. Quando
realmente all'angustia altrui risponde un impulso spontaneo al soccorso?
Quando essa colpisce una persona, che appartiene a noi stessi. I
genitori sentono così, quando il loro bambino si ammala;
gli sposi fra di loro; l'amico per l'amico; il padrone
per i suoi servi...
Ma che cosa ha luogo realmente in questi casi? L'altro
uomo allora non è il « prossimo », davanti al
75
quale si desti la « naturale » solidarietà della
comune umanità, ma ciò che agisce è l'immediato legame del sangue,
dell'interesse, della simpatia, delle diverse relazioni di fedeltà, che
legano gli uomini. Il sentimento per la propria vita e prosperità si
estende all'altro e lo trae dentro la propria sféra. Nella misura in
cui non esiste questo inserimento diretto, domina il contrario, cioè il
rapporto di estraneità. E l'estraneo è per il sentimento immediato lo
sconosciuto; ma, in quanto tale, il pericoloso.
Ora si potrebbe obiettare, che così poteva essere negli
stadi primitivi della cultura; ma che l'uomo si sviluppa e progredisce.
Il progresso rappresenta addirittura l'idea centrale della moderna
visione della vita. Questa asserisce, che quanto più si dispiegano la
scienza, la cultura generale, la vita economica e sociale, tanto più
l'uomo stesso si nobilita. Egli sale ad una concezione sempre più alta
dell'esistenza umana, ad un rapporto fra uomo e uomo sempre più pieno
di significato. Così egli diventa anche sempre più sensibile per il
bisogno dell'altro, e a poco a poco nasce appunto quel sentimento
fondamentale, che abbiamo espresso nella proposizione:
« Ecco un uomo in bisogno, dunque io devo aiutarlo ».
È vero ciò? Io non credo. È un'ideologia. L'uomo
moderno, a cui sfuggono sempre più i valori assoluti, cerca di
sostituirli con l'illusione di un futuro perfetto, a cui egli
continuamente si avvicina. Ciò è del tutto chiaro ad una
considerazione realistica e schietta della realtà. Ormai abbiamo
abbastanza esempi, che popoli molto elevati culturalmente, che hanno
già dietro di sé una lunga storia di pensiero e
76
disviluppo sociale, non accettano affatto questa
proposizione; ma il tempo è troppo breve, per entrare in questo
discorso. In ógni caso presso di noi in Occidente la cosa non è andata
così. L'impulso decisivo presso di noi non è venuto da qualche interna
tendenza di sviluppo, ma d'altronde.
Che cosa si richiede, perché quella proposizione sia
ritenuta per vera?
L'ammonimento inferiore, che essa esprime, deve essere
sentito di fronte ad ogni uomo. Dunque non solo di fronte a coloro che
sono strettamente legati, ma anche di fronte all'estraneo; non solo di
fronte al simpatico, ma anche a quello che non si sopporta; non solo di
fronte al dotato e bello, ma anche all'uomo medio, anzi all'infelice;
non solo davanti al ricco e al colto, ma anche al povero e al misero. Se
la proposizione deve esser vera, allora l'ammonimento deve passare
attraverso tutte le differenze e indirizzarsi verso qualcosa che
determina l'uomo in quanto tale, comunque egli possa essere nel resto.
Ma se devono essere percettibili anche differenze, allora la
proposizione deve suonare cosi:
« Quanto più povero e misero è l'uomo, tanto più
stringente è il dovere di soccorrerlo ».
Ma il sentimento naturale non pensa certo in questa
maniera. Perché questo imperativo si faccia sentire, è necessario che
sia accaduto qualcosa, che renda manifesto nell'altro uomo qualcosa al
di là di tutti i moventi diretti di consanguineità, interessi comuni,
valori di personalità e di cultura; qualcosa di incondizionato, che non
rimanga più sotto i punti di vista di ciò che è utile, simpatico,
degno di ammirazione, cioè la persona in quanto tale. Ma ciò
77
non diventa chiaro per il solo sviluppo culturale.
Lasciamo stare la questione, come stiano le cose in altri ambienti
culturali, per esempio nelle culture asiatiche o africane; non ci è
possibile porla in questa conferenza. Presso di noi, in Occidente, la
chiarificazione non è comunque avvenuta in questa maniera.
Come è dunque avvenuto? La risposta non presenta dubbi
per chi conosca il corso della nostra storia:
attraverso l'effetto del messaggio di Gesù. Voi
conoscete la scena del Vangelo, in cui un dottore della legge vuole
tentare il Signore e gli chiede, quale « sia il più grande
comandamento » (Mt. 22, 37 ss.). Egli risponde con le parole
dell'Antico Testamento: « Tu devi amare il Signore, tuo Dio, con tutto
il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua mente » (Deuf.
6, 5) e soggiunge: « Questo è il primo e più grande comandamento; il
secondo è simile ad esso: Tu devi amare i tuoi prossimi come tè stesso
» (Lev. 19, 18).
Questi « prossimi » per l'Antico Testamento erano i
mèmbri del proprio popolo; e anche fra di loro venivano fatte ulteriori
distinzioni dalla casistica dei dottori della legge: fra libero e
schiavo, fra periti nella legge e indotti e simili. Così vediamo anche
che il Fariseo vuoi mostrarsi superiore e domanda ancora: « II mio
prossimo — chi è? ». Gesù allora risponde con la parabola del buon
Samaritano (Le. 10, 29). Con ciò egli spezza tutti i limiti di
popolo e gruppi sociali, possedimenti e cultura e mostra come la
prossimità si realizza fra il ferito, che è un giudeo, e il viandante,
che è un samari-
78
tano — dunque fra due gruppi di popoli, che si odiano
e si disprezzano a vicenda. Ma ciò significa:
fra colui, il cui cuore si apre al grido del bisogno, e
colui, che ha bisogno del soccorso. La risposta di Gesù alla domanda
del dottore della legge è questa: il tuo prossimo è colui che
necessita del tuo aiuto. Ma, poiché allora il precetto diventerebbe
illimitato, il concetto di prossimo deve essere determinato ancor più
precisamente, cioè praticamente, dagli avvenimenti concreti e quindi
significa: II tuo prossimo è colui che ti è assegnato dalla situazione
concreta. Quanto poi a questa stessa situazione, il suo significato è
in strettissimo rapporto con l'annuncio di Gesù sulla Provvidenza: II
Padre celeste è colui che nel corso della vita conduce a tè questo
uomo, affinchè tu lo soccorra.
Ora quell'incondizionato, di cui si parlava prima,
acquista la sua chiara espressione. Le differenze sono eliminate, e
rimane solo l'essenziale: l'uomo, che ha bisogno di aiuto;
l'altro che può aiutare; la situazione nella quale il primo è mostrato
al secondo e in cui si esprime la disposizione di Colui che governa la
storia di ogni uomo.
Dietro a tutto sta il fatto, che gli uomini non sono
individui di una specie animale, ma persone, create da Dio con una
chiamata e posti nel rapporto lo-Tu con Lui, rapporto che si
continua in quello fra uomo e uomo. Ma la chiamata, che percepiscono
quanti hanno il cuore disposto: « II tuo prossimo è in bisogno, quindi
aiutalo! », rappresenta l'espressione di questo rapporto. In essa parla
Colui, che ha fondato questo stesso rapporto.
Ma non abbiamo ancora raggiunto l'ultima profondità
della parola di Gesù. Nel capitolo XXV del Vangelo di san Matteo egli
dice: « Tutto ciò che avete
79
fatto al più piccolo dei miei fratelli, l'avete fatto a
me » (v. 40). Le parole hanno un significato immenso. Esse spazzano via
tutte le differenze, che il sentimento naturale avrebbe potuto fare. In
primo luogo perché come destinatario del preteso comportamento viene
considerato « il più piccolo » — quindi colui che non può far
valere per sé nessuno degli interessi, che sono motivo naturale a
soccorrere: ne ammirazione, ne simpatia, ne utilità. Ma poi perché là
dove è l'altro uomo, appare Gesù stesso. L'essere umano è molto
problematico. Nel suo apparire concreto sta in una grave e spesso
insopportabile sproporzione con la pretesa avanzata dall'imperativo del
soccorso e provoca tutte le forme dell'incomprensione e della
ribellione. Questa sproporzione viene abolita col fatto che nella
persona del bisognoso appare Gesù stesso. Secondo il suo messaggio, noi
siamo fratelli fra di noi, perché Egli ci ha fatti suoi fratelli e
sorelle, figli e figlie di suo Padre. Così Egli si avvicina ad ognuno
di noi e con ciò dona alla persona umana il carattere dell'assoluto.
Egli si costituisce l'ultima motivazione di ogni richiesta che si eleva
da uomo a uomo. Per suo mezzo l'imperativo del soccorso diventa
propriamente « categorico ».
Il capitolo XXV del vangelo di san Matteo sopra
ricordato contiene l'annuncio da parte di Gesù del giudizio alla fine
del tempo. In questo giudizio, l'uomo sarà giudicato sopra ciò, se e
come egli deve aver parte con Dio. In esso l'essere umano — quello del
singolo, come anche quello della collettività, cioè la storia —
riceve la sua ultima definizione. Poiché la storia non si definisce da
sola. Se lo facesse, se fosse il suo proprio giudizio, allora essa
dovrebbe andare diversamente da come va. Il giudi-
80
zio le viene da qualcosa che è al di là di essa
stessa. Ma questo giudizio secondo la parola di Gesù avrà luogo
conforme a come l'uomo ha adempiuto il comando della nuova fratellanza.
È detto: « Allora il Rè dirà a quelli che sono alla sua destra: '
Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno che vi è stato
preparato dall'origine del mondo! Poiché avevo fame e mi avete dato da
mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete
alloggiato; ero nudo e mi avete vestito; ero malato e mi avete visitato;
ero prigioniero e siete venuti da me. Allora i giusti gli risponderanno
e diranno: « Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo
nutrito? o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto
forestiero e ti abbiamo alloggiato? o nudo e ti abbiamo vestito? Quando
ti abbiamo veduto infermo o in prigione e siamo venuti da tè? ' E il
Rè risponderà loro e dirà: ' In verità vi dico: tutte le volte che
voi l'avete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete
fatto a me ' » (Mf. 25, 34-40).
Il carattere assoluto dell'imperativo del soccorso non
poteva essere espresso in maniera più grande.
Cristo porta la chiarezza nella storia del bisogno e del
soccorso. Da Lui discende la luce sul disordine che pervade tutti i
rapporti umani. Egli spezza tutti i cavilli dell'egoismo e le illusioni
della saggezza autonoma. Poiché Giovanni dice ancora in tutta
chiarezza, che il comandamento dell'amore è « un comandamento nuovo »
(1 Io. 2, 8). Ed è « nuovo » non solo nel senso che prima non
fosse conosciuto, ma dopo fosse divenuto familiare, di modo che sarebbe
potuto entrare nella naturalezza ovvia di una
81
visione della vita, ma « nuovo »
essetttialmente, in generale e per sempre.
Questo comandamento è in posizione dissimmetrica
rispetto tutto ciò, che sarebbe potuto emergere dai contesti naturali
dei rapporti umani, di natura biologica, psicologica, sociale e
culturale. Esso colpisce sempre l'uomo come qualcosa che non può essere
dedotto da nessun presupposto naturale ne essere trasposto fra le
nozioni culturali ovvie. Esso deriva dalla sapiente interiorità di
Gesù, esige fede, domanda obbedienza e deve essere realizzato nel
superamento della pura natura.
Ma allora accade qualcosa di strano — e io vi prego di
prestare tutta la vostra attenzione a ciò che sto per dire,
perché in esso diventerà chiaro qualcosa che qui ci riguarda molto da
vicino.
La fede in Cristo, nella fratellanza dei redenti in Lui
e nella vicendevole responsabilità, come si sviluppa sulla radice di
questa comunità, era un possesso comune fino alla fine del medioevo.
Naturalmente più o meno chiaramente cosciente, più o meno approfondito
con coerenza, più o meno fedelmente e generosamente seguito —
tuttavia rappresentava la visione, che era normativa nell'Occidente.
All'inizio di quella che chiamiamo l'epoca moderna, gli spiriti si
dividono. Larghe cerehie pervengono all'opinione che si possa vivere
anche senza la fede cristiana. Forse ciò proveniva dalle concezioni,
che l'uomo andava imparando a conoscere dallo studio degli antichi
pagani; o dall'immediata esperienza dei rapporti umani; o dai risultati
delle scienze che
82
venivano sorgendo prepotentemente. E che vivere senza la
fede cristiana non solo sia possibile, ma che soltanto in questa maniera
si sarebbe sviluppata una vita genuina — e con dò anche un ethos
autentico delle relazioni fra gli uomini.
Questo sembra poi anche confermarsi. Viene approfondito
il concetto dei diritti dell'uomo, e ne vengono dedotte le conseguenze
dal punto di vista giuridico, sociale, economico. Sorge così un'etica
della stima diretta dell'altro e della responsabilità nei suoi
confronti. La comunità si sente obbligata di porre rimedio al bisogno
nelle sue diverse forme. Vengono create istituzioni ed organizzazioni di
ogni specie, che si prendono cura dei poveri, dei malati, degli
abbandonati. La lotta contro la sofferenza e l'indigenza umane diventa
un dovere naturale della cosa pubblica, che da parte sua impegna a _
questo scopo gli strumenti della scienza, dell'ordine sociale, della
tecnica dell'organizzazione. La proposizione, di cui abbiamo parlato al
principio, sembra diventare realmente un elemento fondamentale dei
rapporti degli uomini fra di loro.
Ma in questo stato di apparente sicurezza
naturale-morale, cade come un fulmine la dottrina, che nei dodici anni
del dominio nazionalsocialista viene proclamata e realizzata con la
prassi corrispondente:
non ogni uomo in quanto tale ha diritto al soccorso e
alla promozione, ma solo colui, che significa un valore per il popolo e
lo Stato. Viene sostenuta la terribile misura per l'uomo degno o indegno
di vivere: ha diritto di vivere solo colui che può presentare un tale
valore. Lo Stato poi è autorizzato a giudicare quale sia a tale
riguardo la posizione di ciascuno. Così si pretende il diritto di
giudicare se un malato sia ancora degno di vivere,
83
se debba essere serbato in vita o no. Si ha l'orribile
coraggio di uccidere innumerevoli uomini, ai quali viene negato questo
diritto alla vita: pazzi, minorati mentali, inguaribili, inabili al
lavoro, vecchi. Anzi, si va anche tanto avanti da giudicare sul diritto
alla vita di interi popoli, da dichiararne alcuni indegni di vivere e
sterminarli con una freddezza di sentimento e una esattezza di tecnica,
di cui non c'è esempio in tutta la storia, che pur non è povera di
orrori.
E tutto ciò nel nome della prosperità del popolo,
dell'utilità comune, dell'ascesa umana verso una sempre più alta
perfezione corporea, spirituale, culturale.
È stato detto che ciò è stato la barbarie di alcuni
pochi, nei quali si era effettuata la pericolosa combinazione di
delinquenza e follia fantastica. Chi pensa così, non ha compreso nulla
di ciò che è accaduto.
In primo luogo non erano solo pochi coloro che hanno
pensato e agito in questo modo, ma grosse organizzazioni erano state
costituite, in cui erano attivi moltissimi. Ma inoltre — e questo ci
interessa qui — in quegli avvenimenti ha avuto compimento qualcosa che
si preparava da lungo e che si chiama secolarizzazione del
cristianesimo.
La dottrina cristiana della dignità divina e del valore
eterno di ogni uomo, e quindi anche del dovere di soccorrerlo, era
divenuta patrimonio pubblico, come abbiamo visto. Ma inoltre essa si era
sempre più separata dal fondamento che le aveva dato Gesù — cioè
dalla fede nell'unione, che il Figlio di Dio aveva creato col condurre
gli uomini alla figliolanza del Padre suo. La coscienza di questa unione
era sempre più impallidita e alla fine del
84
tutto scomparsa. Era rimasta solo un'etica generale, che
era molto pura, molto bella e appariva come il più alto sviluppo
dell'atteggiamento umano. La concezione storica corrente afferma anche
che la dottrina cristiana ha certamente agito in ciò come stimolante e
promotrice, ma niente più. In realtà la natura umana da se stessa si
sarebbe evoluta, nobilitata e avrebbe creato dal suo proprio un costume,
che da allora apparterrebbe ad un possesso dell'umanità che non può
andar perduto. Realmente le cose stanno in modo del tutto diverso.
La morale dell'obbligazione umana era cioè sostenuta
dalla rivelazione. La proposizione: « Un uomo è in bisogno — dunque
aiutalo! » aveva la sua evidenza dall'interpretazione cristiana della
vita ed era vitale finché quell'interpretazione era sentita, Nella
misura in cui questa impallidiva, si indeboliva anche l'evidenza deìl'eihos
sociale che su di essa riposava — finché alla fine, come per un colpo
di folgore, divenne chiaro che era possibile rigettare non solo la
rivelazione, ma anche tutto questo ethos sociale. Cioè che era
possibile sostenere e mandare ad effetto il principio che non deve
essere soccorso chiunque, ma solo colui che ne è degno. Ma che ne è
degno, colui che dichiarano degno l'istinto della razza, le esigenze del
lavoro, i fini dello Stato. E di ciò sarebbero giudici coloro che lo
Stato incarica di questo. La terribile proposizione: « È giusto ciò
che giova al popolo » ricevette una seconda egualmente terribile forma:
« Può vivere solo chi giova al popolo ». Ma il popolo — cioè: lo
Stato e coloro che nello Stato hanno il potere — ha il diritto di
decidere chi non deve essere aiutato, o anche chi deve esser messo da
parte.
Questa visione delle cose umane non è solo, come
85
scusando si suole dire, una rottura col passato,
compiuta dall'uomo, che rappresenta una ricaduta nella rozzezza
dello stadio primitivo, ma essa è sostenuta insieme da tutto lo
sviluppo precedente. Positivismo, liberalismo, tutti gli sforzi per
costruire una cultura senza Cristo, e addirittura senza alcuna idea di
Dio, hanno collaborato al suo costituirsi. Neppure vogliamo dimenticare,
come — per nominarne solo uno — Nietzsche, cresciuto nella scuola
classica, aveva preteso che si debba liberarsi dalla compassione
cri-tiana verso gli infelici, costruire una cultura della forza invitta
e della bella natura, e « spingere ancora ciò che sta per cadere »,
per toglierlo dal cammino.
Queste sono connessioni che rendono molto pensosi. La
nostra opera di soccorso — prendendo il termine nel senso più vasto
—è in una situazione, che potrei illustrare con un piccolo aneddoto.
Alcuni anni fa nel duomo di Magonza accadde il seguente
fatto: il sacrestano capo andava, senza preoccupazioni, sotto l'alta
volta, quando all'improvviso cadde giù un blocco di pietra, che
l'avrebbe quasi ucciso. Con molto spavento si cominciò a cercarne la
causa. Si discese nelle fondamenta e si vide che la fabbrica posava su
una palafitta di poderosi pali di quercia, che però erano in gran parte
marciti. Finché erano rimasti circondati dall'acqua sotterranea, erano
stati duri come pietra; ma in seguito alla regolamentazione del Reno
l'acqua si era ritirata, i pali erano rimasti all'asciutto ed erano
imputriditi. Il duomo stava ancora in piedi, ma le fondamenta erano in
parte scomparse, e ci volle un
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lungo e faticoso lavoro finché il duomo fu dappertutto
rinsaldato di sotto e il legno marcito sostituito con cemento... Ciò
può essere una similitudine per la situazione dell'opera per il bisogno
dell'altro. Vengono fatte cose immense. Ampie organizzazioni
specializzate in modo articolato si indirizzano a tutti i possibili casi
di bisogno. Grandi mezzi vengono impiegati per la loro eliminazione. Ma
la gente dalla sensibilità più sveglia avverte che tutta questa
compagine non sta più sicura. Si dubita se le sue fondamenta reggano
ancora bene. I motivi minacciano di perdere di forza. La coscienza
dell'obbligo di una persona verso l'altra persona diventa più debole.
E questo da tutte e due le parti. Anche la
maniera con cui si pretende il soccorso diventa sempre più esigente e
nello stesso tempo più spensierata. Diventa dominante il sentimento che
lo Stato deve soccorrere — al posto dello « Stato » si può anche
dire: l'assicurazione sociale, la cassa di malattia, l'ospedale,
l'infermiera ... Tutto quel che s'è detto prova già a sufficienza,
quanto fortemente noi approviamo il diritto al soccorso — ma sentiamo
che qui c'è qualcosa di errato. Il soccorso non può essere fondato
nella stessa maniera che un regolamento economico. Ciò che in esso
accade, questa premura infinitamente diversificata, diretta agli uomini
vivi, che si conforma a sempre nuove situazioni, non può attuarsi
solamente per riferimento allo scopo e alla prescrizione, ma anche non
soltanto alla ragione e al dovere — come neppure può essere pretesa
solamente per il diritto e il pagamento. Deve esserci operante qualcosa
d'altro: un appello alla libertà, un'apertura del cuore. Ma si sente il
pericolo che al contrario tutto possa diventare una pretesa mec-
87
conica, e che l'arte di rintracciare e sfruttare le
diverse possibilità di soccorso statale, possa svilupparsi fino a
divenire un elemento costitutivo della tecnica della vita.
Ma, a lungo andare, alla maniera con cui il soccorso
viene richiesto, corrisponde la maniera con cui viene prestato. Anche al
soccorso incombe il pencolo di tramutarsi in un funzionalismo generale;
in un affare di uffici, organizzazioni, determinate prestazioni
professionali, burocrazia. Non appena il soccorso viene richiesto in una
maniera così chiaramente pretenziosa e abitudinaria, difficilmente esso
può far altro che trasformarsi esso stesso in una pura prassi
abitudinaria. Naturalmente, esso deve essere concreto e oggettivo.
Corrisponde del tutto al nostro sentimento il dire: « Lascia da parte
la sensibilità e procura che la terapia sia eseguita giustamente... ».
Oppure: « I compiti sono così grandi, che solo una organizzazione
corrispondente può essere all'altezza del bisogno; tu in essa sei al
tuo posto, perciò fa tacere la sentimentalità, e compi il tuo
servizio... ». Come anche è del tutto giusto dire: «Ogni lavoro è
degno della sua mercede; perciò ho il diritto di domandare la
corrispondente ricompensa... ». E ancora: « Ogni lavoro richiede di
esse fatto nelle condizioni adatte; perciò io richiedo ragionevoli
rapporti di lavoro... ». Tutto ciò è ovvio e deve essere approvato.
Ma è vero anche qualcos'altro: ciò di che si tratta,
non può esser fatto solo con esperienza oggettiva, metodo scientifico,
esattezza del servizio, ma alla fine solo in virtù di un'interna
apertura di cuore, di una magnanimità di sentimenti, d'un disinteresse
e prontezza al sacrificio, che devono venire altronde. Se essi non sono
più attivi, allora va per-
:88
duta l'essenza di ciò che si chiama « soccorso ».
Poiché questo riposa sul rapporto di persona a persona, nella libertà
di chiamata e risposta, ed ha il suo ultimo significato in quella
comunità, nella quale l'angustia dell'esistere unisce gli uomini da
parte di Dio.
Contro ciò che abbiamo detto, però, si innalzano
obiezioni, che devono essere considerate. E precisamente esse sorgono
dal cambiamento della struttura sociale dell'epoca moderna. Soprattutto
la straordinaria crescita della popolazione e il fattore di massa che
entra in gioco in tutte le questioni relative agli uomini,
II numero di coloro che abbisognano di soccorso, cresce
continuamente. Si potrebbe far valere il fatto che le condizioni
generali di vita migliorano; quindi dovrebbe piuttosto diminuire la
necessità del soccorso. Pure le distruzioni degli ultimi decenni sono
così grandi e molteplici che già per motivo di esse si sarebbe dovuto
attuare un compenso dal lato negativo. Ma, prescindendo da ciò,
influisce anche il fatto che l'uomo diviene sempre più cosciente del
suo diritto vitale e, per il suo senso democratico, sempre più
sicuro del suo diritto al soccorso. Così propongono la loro istanza ed
esigono soccorso molti stati di necessità, che nel tempo passato
sarebbero stati sopportati semplicemente.
Perciò le istituzioni di soccorso si trovano di fronte
ad una richiesta continuamente crescente. Ma ciò significa che le
prestazioni di soccorso diventano sempre più numerose e con ciò anche
il fatto del
89
soccorrere prende il carattere di massa. La misura del
tempo disponibile per ciascuno diventa sempre più piccola e minore
diventa anche la capacità del soccorritore di soddisfare il suo
bisogno; sicché non rimane altro che procedere secondo uno schema e
vedere il proprio compito nel far corrispondere nel miglior modo
possibile lo schema alla situazione generale. Con ciò sparisce sempre
più il rapporto di persona a persona, e tutta la faccenda diventa
sempre più chiaramente un « caso ».
Tuttavia in questo stato di cose non si deve vedere un
semplice inconveniente, poiché in esso si esprime un autentico
cambiamento di struttura. Il grande numero è ormai un fatto, ed è un
fatto anche tutto ciò che ne segue dal punto di vista della psicologia
sociale e di quella individuale. Perciò l'azione di soccorso non può
avere più quel carattere di partecipazione personale, che è possibile
solo nei piccoli numeri. Prescindiamo dal fatto che la situazione tenda
ad assumere l'aspetto anche di condizioni in cui un rapporto personale
sarebbe possibile; ma in ogni caso dovunque si ripercuote il carattere
di massa, un comportamento realistico non può essere altro se non
concretamente oggettivo.
La tragedia del soccorso sociale sta appunto in
buona parte in ciò, che esso non valuta rettamente questo aspetto di
massa e perciò si dedica al lavoro dapprima con una dedizione
personale, che in senso stretto non è al suo vero posto e conduce poi
ad amareggiamento e cinismo. Una preparazione realistica deve assumere
fin dall'inizio il fatto della massa nell'atteggiamento del soccorrere.
E ripensare i punti di vista sopra elaborati a questo proposito
eventualmente trasformandoli nel senso che può essere donato
personalmente solo ciò che può essere
90
dato con autenticità; ma nel resto il rapporto con i
molti deve essere sostenuto dalla coscienza che si tratta non di una
massa di « casi », ma di un grande numero di persone. Da ciò
risulterà un comportamento, che riposerà certo su di un'intcriore
distanza, ma anche su una reale attenzione, che procede con tranquilla
oggettività, ma anche con genuina amichevolezza. Colui che cerca il
soccorso, forse sarà sulle prime deluso, perché egli, che per se
stesso è il singolo, non viene preso come tale. Presto però si
adatterà al procedimento oggettivo, perché esso appunto è giusto.
Naturalmente con ciò non deve essere svalorizzata alcuna delle
sollecitudini con cui si cerca di smembrare la moltitudine, per
toglierle così il carattere di massa. Esse sono in rapporto agli studi
per costruire le città più convenientemente; per creare dei vicinati;
per rendere i centri del lavoro anche centri dove si prestino soccorsi e
così via. Tutto ciò è non solo buono, ma anche necessario. Tuttavia
ciò non toglierà il carattere di massa nella totalità; sicché il
già detto rimane vero dovunque questo carattere è effettivo.
Un altro mutamento nella situazione sociologica e in
genere culturale incide più profondamente. Esso si esprime nel
sentimento che debba del tutto sparire il rapporto fra bisogno e
soccorso, come esso è stato inteso finora; cioè che abbisognare di
aiuto sia qualcosa di vergognoso, il soccorrere nel vecchio senso
un'arroganza, e che le condizioni di bisogno debbano essere
effettivamente del tutto eliminate. A questo proposito si manifesta un
sentimento, che è pienamente lodevole, pur con tutte le asprezze nel
singolo caso. Ciò ha diverse radici; da una parte è in rapporto con
l'esigenza, propria del sentimento democratico, della considerazione per
la persona
91
propria, e d'altra parte con la coscienza della
debolezza nell'atteggiamento personale dell'uomo d'oggi. Il soccorritore
deve tener in considerazione questo sentimento. La sua condotta di
fronte al bisognoso dovrebbe esprimersi forse nella seguente
proposizione: « Tu sei in una condizione di necessità. A me la
situazione non fa alcun piacere; ma io sono incaricato di aiutarti.
Perciò noi vogliamo unirci affinchè sbrighiamo l'affare nel modo più
decoroso possibile, cioè nel modo più oggettivo ». Il pericolo però,
che dalla ritrosia verso il rapporto eccessivamente personale nasca
un'indifferenza e dall'ogget-tività la meccanicità, potrà essere
evitato tanto più — e insieme il significato del rapporto potrà
essere colto con tatto tanto più sicuro —, quanto più chiaramente
gli interessati conosceranno, in virtù del fattore cristiano, la
dignità della persona.
Ma ancora più in profondità penetra ciò che segue. La
naturalizzazione dell'esistenza continuamente crescente, il sentimento
dell'auto-dominio da parte dell'uomo e inoltre l'idea del progresso
conducono a considerare il bisogno come qualcosa che deve semplicemente
scomparire.
Il cristiano vede nel bisogno un elemento dell'esistenza
umana, come essa ormai è. Naturalmente egli si preoccupa di superarlo e
gli riesce anche continuamente di farlo retrocedere; ma egli sa, che
esso non sparirà mai del tutto, perché appartiene allo sconvolgimento
in ultima istanza insanabile dell'esistenza umana. « I poveri li avrete
sempre con voi », ha detto il Signore {Mt. 26, 11). Ma il
bisogno ha acquistato un senso positivo attraverso l'intenzione e il
destino redentivi di Cristo, cioè quello di essere espiazione della
colpa dell'umanità. Così il credente ha il compito di entrare nella
solidarietà di questa
92
colpa ed espiazione, e da questa costituire la comunità
nel bisogno e nel soccorso.
Il cristiano vede nel sofferente una figura degna di
onore. Qui si rivela un'ultima profondità, che mette in guardia ogni
cuore ben fatto, appena gli vengono presentati come misura propria
dell'esistenza degna di esser vissuta salute, benessere, felicità. Egli
sente che tale umanità sarebbe di necessità non solo superficiale, ma
anche pericolosa, anzi inumana. Il soffrire è espressione di una
verità suprema dell'esistenza umana, che conduce fino alle profondità
del divino. La sorte di Cristo ne è testimonianza.
A tutto ciò contraddicono i princìpi
dell'incredulità, che non solo dicono che il bisogno debba essere
soccorso, ma anche che non debba esistere affatto. Da esso in definitiva
non potrebbe venir fuori nessun vero valore. Sarebbe indegno dell'uomo
stare in bisogno, chiedere soccorso e prestare soccorso. Ma anche esso
non avrebbe bisogno di essere, poiché esso deriverebbe da un
ordinamento sbagliato delle cose sociali, da idee pervertite sulla
salute e malattia, da ingiusta ripartizione di possesso. Perciò il
compito potrebbe consistere unicamente nelPelimi-nare il bisogno. Ogni
soccorso dovrebbe essere considerato solo come qualcosa di provvisorio.
Perciò anche non dovrebbe avere il carattere della spontaneità o della
generosità, ma dovrebbe diventare una funzione dello Stato, che
dovrebbe avvenire nella maniera più funzionale possibile e col
dispendio minimo di compartecipazione personale.
Non si può negare che anche in questo modo di pensare
ci siano alcuni elementi autentici. Dalla ricerca e dalla prestazione di
soccorso può realmente venir fuori qualcosa di non buono e ciò avviene
più spesso che non si possa pensare: un insieme di ignavia
93
e pusillanimità da una parte, di autocompiacenza e di
brama di dominio dall'altra. Con ciò si consolidano alcuni bisogni in
uno stato, che potrebbe essere eliminato, se si prendesse un'energica
iniziativa. Ma inoltre non si dovrebbe dimenticare, che l'orientamento
descritto si fa una completa illusione sulla realtà della nostra
esistenza e non vede la profondità dello scompiglio nelle cose umane.
Come pure, che vengono distrutti valori essenziali dei rapporti umani e
che l'esistenza si impoverisce in una misura non comprensibile. Ma alla
fine l'esperienza degli ultimi decenni ci fa avvertiti, con quanta
facilità la volontà di eliminare il dolore si trasformi in quella di
eliminare gli uomini che soffrono e la cui sofferenza non può più
essere superata o lo può essere solo con sincero disinteresse.
Friedrich Wilhelm Forster ha attirato l'attenzione sul fatto che colui
che soffre ha un importante compito nell'esistenza umana: quello di
mettere in guardia coloro che non soffrono — sani, robusti, benestanti
— contro i pericoli dell'egoismo, della spensieratezza, della durezza,
anzi della crudeltà, che si nascondono nel suo stato. Non si comprende
l'essere umano, se non si comprende quanto sia problematica la «
sanità » — in tutte le sue forme, individuali e sociali, e quanto
essa abbisogni di un costante correttivo.
Tutto ciò è detto per rendere visibili le
complicazioni che sono implicate nel corso delle idee, di cui
propriamente ci occupiamo.
Esso suona paradossalmente così: si può venir incontro
realmente al bisogno, alla tribolazione, alla sofferenza in tutte le sue
forme solo quando anzitutto si riconosce una buona volta al bisogno il
« diritto » di essere. Il soccorso non deve consistere nella volontà
di cancellare il fenomeno del bisogno,
94
perché allora si genera uno stato, che non è altro che
mascherato egoismo — cecità verso il reale, durezza verso gli uomini
che sono in bisogno — e le cui conseguenze potrebbero essere peggiori
dello stesso bisogno.
In questa breve ora abbiamo vissuto un lungo
avvenimento: la storia dell'umanità occidentale nei suoi rapporti col
bisogno.
Ci siamo chiariti, che cosa valga il preteso «
sentimento naturale » della disposizione pronta al soccorso. Abbiamo
visto che fu necessaria la rivelazione per aprire all'uomo gli occhi e
risvegliarne la coscienza... Abbiamo riflettuto, come dalla fede nella
rivelazione si sia sviluppato un atteggiamento d'amore umano, fondato
sulla relazione con Cristo; tutto un costume dei doveri scambievoli di
ognuno per gli altri, come pure della comunità per i singoli... Come
poi le sue radici cominciarono ad atrofizzarsi. Gli impulsi, svegliati
dalla rivelazione, certamente si ripercossero ampiamente e produssero
sistemi di azione pratica ben ponderati e di grandi prestazioni,
suscitando l'apparenza che tutto ciò rappresentasse un possesso
dell'uomo progredito nella cultura, che non avrebbe potuto esser
perduto... Ma abbiamo visto anche come improvvisamente, come un colpo di
fulmine, la così celebrata natura umana sia venuta meno e abbia
mostrato ciò di cui essa è capace dopo come prima...
Questo corso delle cose ci ha aperto gli occhi per
qualcosa, che si compie dappertutto — certo non così violentemente,
bensì senza rumore, ma per-
95
ciò stesso in modo tanto più inquietante: l'erosione
dei veri motivi, atteggiamenti, sentimenti, che soli possono sostenere
il soccorso; il raffreddamento dei cuori e l'illanguidimento della
generosità. Lo spirito del calcolo si fa avanti. Che cosa posso
esigere, quando ho pagato? Come posso sfruttare nel miglior modo gli
apparati sociali di soccorso? Che cosa posso pretendere quando io sono
adeguatamente formato? Come posso restringere le mie prestazioni ed
elevare la mia ricompensa? E così via, in tutte le riflessioni e le
misure, che possono essere, a seconda dei casi, scusabili, vantaggiose,
anzi perfino del tutto ragionevoli, ma con le quali viene sempre più
offuscata quella proposizione originaria, su cui tutto riposa: « un
uomo è in bisogno, dunque aiutalo! ». " Questa è la storia che
abbiamo vissuta insieme. E lasciatemi dire con tutta l'energia, che essa
vale non solo per noi, che abbiamo vissuto i dodici oscuri anni, ma per
tutti.
Ciò che è accaduto in Germania dal 1933 al 1945
manifesta qualcosa, che si è compiuto in tutto il mondo occidentale e
ancora si compie ed esercita la sua azione. Lasciate che siano passate
alcune generazioni, che ancora hanno provato in qualche forma l'appello
della coscienza cristiana di fronte al bisogno del prossimo; lasciate
che l'uomo sia diventato del tutto terreno, che si sia enucleato l'uomo
stabilito solo sulla sua natura e sulla sua forza, cosa per cui pure si
lavora da ogni parte — e vedrete che ciò che è avvenuto in Germania
in quegli anni, può in qualche maniera avvenire dappertutto. In maniera
indiretta invece che diretta; più cautamente invece che più
brutalmente; con fondamenti scientifici invece che fantastici; ma quanto
al si-
96
gnificato allo stesso modo — anzi forse anche più
disastroso per il suo nascondersi sotto la razionalità e umanità.
La riflessione storica va in due direzioni. Nell'una,
guarda indietro e chiede: Che cosa è avvenuto? Nell'altra, guarda in
avanti e domanda: Che cosa avverrà?
Devo lasciare a voi di spingere lo sguardo nel futuro
dopo le precedenti considerazioni sul passato. State però certi, che la
conseguenzialità di ciò che l'uomo compie in ragione dei suoi
orientamenti, è altrettanto inesorabile, quanto l'azione delle forze
naturali. Appena il cuore dell'uomo abbandona il detto:
« Ciò che avete fatto al più piccolo dei miei
fratelli, l'avete fatto a Me »; appena cerca il fondamento del soccorso
puramente in motivi naturali di ragione o di umanità ciò si
verificherà con la stessa conseguenzialità della rovina di un organo
corporeo, contro la cui infermità non venga fatto nulla.
Colloqui con ascoltatori di questa conferenza1
mi hanno reso conscio, più chiaramente di quanto io stesso avevo già
sentito nella sua preparazione, che in essa non vengono presi in
considerazione importanti aspetti della questione. Ciò era inevitabile,
poiché una conferenza — o più precisamente: un di-
1 II
« Poscritto » è stato aggiunto di nuovo. Al conferenziere era stato a
cuore spiegare un determinato corso di pensieri, che gli sembrava
importante. Perciò non potè entrare a trattare di diversi punti di
vista, come questi certo avrebbero dovuto essere esposti.
97
scorso che si rivolge alla responsabilità degli
ascoltatori, è diverso da un trattato, che sviluppa tutti gli elementi
degni di considerazione e termina in un risultato ben sistemato. Quindi
l'attenzione era stata diretta completamente su di una linea, che
risalta nella storia del bisogno umano.
Ma la lealtà verso il problema esige un accenno ad
aspetti, che possono essere utili per il suo approfondimento.
Prima di tutto: Ha la conferenza reso piena giustizia
alle possibilità positive dell'uomo? Le forze naturali dell'altruismo,
della simpatia, della prontezza al soccorso non sono forse più forti,
di quanto in essa non sia apparso? Non c'è nell'uomo un'umanità
essenziale, che si impone a poco a poco da sé — o almeno, una volta
risvegliata da un grande esempio religioso, nonostante tutti i
cambiamenti di concezioni rimane desta e continua ad operare?
Così il lettore può chiedersi scendendo con maggior
precisione nel problema. Tuttavia a questo proposito egli deve tener
davanti agli occhi un'origine di errore: cioè l'inclinazione ad
ascrivere semplicemente all'ambito dell'uomo naturale atteggiamenti
spirituali e motivazioni morali, che in realtà sono condizionati dalla
fede cristiana. Come pure deve diffidare della retorica, che nelle
occasioni quotidiane come in quelle solenni parla sempre di nuovo di
questa umanità e con ciò nutre pericolose illusioni sulla realtà
dell'uomo.
Inoltre: il numero di coloro che non sono più fermi
nella convinzione cristiana, cresce sempre. E pa-rimenti il numero di
coloro per i quali ciò già da generazioni è accaduto, sicché nella
vita del loro spirito e del loro cuore gli elementi cristiani non sono
più attivi neppure sotto forma di opposizione.
98
Tuttavia quelli che la pensano così vivono
insieme nella stessa comunità con coloro che hanno, in misura maggiore
o minore, convinzioni cristiane. Pertanto deve essere trovata una base
comune, sulla quale si possa ovviare insieme al problema del bisogno.
Dov'è questa base? Quali motivi possono agire egualmente in menti così
diverse? Non siamo costretti anche per questo a rifarci a qualcosa di
universalmente umano? ad una razionalità e bontà che giace nel fondo
dell'essere umano, che dovrebbe essere promosso mediante un'adeguata
educazione del singolo come della collettività?
Questa è una questione capitale per noi, poiché essa
sbocca in quella più vasta, se nel futuro ci sarà affatto un
ordinamento, nel quale l'uomo possa esistere in onestà e libertà.
Oppure se tutto debba ri-solversi in una trama di causalità
psicologiche, socio-logiche, tecniche, politiche, che non abbia più
alcun riguardo alla persona e alle sue esigenze. E se con ciò la nostra
esistenza nello Stato non sarà destinata al totalitarismo, anche se a
piccoli passi, sia al totalitarismo diretto, della specie del
nazionalsocialismo e bolscevismo, sia a quello indiretto, come esso
risulta da tutti gli apparati che tendono a influenzarci e a dirigerei,
operanti anche nelle regioni di un regime liberale apparentemente
indubitabile. Qui è difficile rispondere. Tanto più difficile, in
quanto la risposta dipende alla fine dall'inferiore presa di posizione
di ciascuno: dalle sue esperienze, dalla sua indole, dall'atteggiamento
ch'egli assume riguardo alle possibilità dell'esistenza — finalmente
dal fatto, se egli nel cristianesimo vede solo una forma di religione
fra altre, oppure quella semplicemente decisiva.
Infine: si potrebbe andare ancora più avanti nel ri-
99
condurre la cosa al fattore naturale e dire che la
semplice ragione dell'uomo giungerà da se stessa al risultato che è
nell'interesse di tutti il soccorrere nel bisogno. L'uomo vedrà sempre
più chiaramente che il bisogno non lede solo chi ne è colpito
direttamente, ma coinvolge anche la generalità. Egli imparerà che
l'amabilità verso l'altro non è solo un atteggiamento di simpatia, ma
anche una condotta dalla quale deriva per tutti la misura maggiore
possibile di benessere. Da ciò deriverà un immediato e generale
impulso, simile a quello che induce colui che è educato socialmente a
comportarsi rettamente nel traffico o intervenire negli infortuni. Lo
studio soprattutto delle condizioni americane potrebbe convalidare
questa opinione.
Anche un'altra riflessione sembra raccomandarsi: si
potrebbe a stento dubitare, che la vita dei sentimenti perda in
intensità dappertutto. II processo è in rapporto con l'aumento dei
numeri che si compie dovunque in conseguenza della crescita della
popolazione e della democratizzazione dell'esistenza. Quanto più spesso
si presenta una situazione, tanto minore impressione fa; quanto più
spesso vengono pronunziate delle parole, tanto più diventano logore;
quante più azioni si compiono, quante più cose si maneggiano, quante
più organizzazioni entrano in movimento, tanto più tutte diventano
schematiche. Detto in modo del tutto generale; quanto più la vita umana
si svolge per grandi numeri, tanto minore diventa la partecipazione
intcriore ad essa, l'intensità e la profondità dell'attuazione. Questo
potrebbe condurre al giudizio che sofferenza, bisogno, miseria da una
parte, egoismo, durezza, crudeltà dall'altra hanno sciupato troppe
forze, hanno occupato sfere troppo profonde della vita. Perciò
bisognerebbe ren-
100
clere tutto più semplice ed economico, e a ciò
apparterrebbe anche aiutarsi a vicenda. Un articolo della « Frankfurter
Allgemeine Zeitung » del 9 giugno 1956 sulle condizioni americane sotto
il titolo lir-conditioned Wonderland (terra delle meraviglie ad
aria condizionata) indica simili tendenze. Una forma di vita e di
cultura, nella quale la temperatura è dappertutto pareggiata, evita
conflitti, risparmia le forze, aumenta i proventi. Così il pensiero va
avanti e chiede: sotto l'influsso della moltitudine e della sua
espressione strumentale, cioè la tecnica, l'emo-zionalità non
oscillerà dappertutto su una posizione mediana, in cui la generale
prontezza a soccorrere non si configurerà da se stessa come la migliore
forma possibile della convivenza?
Questo punto di vista sarebbe significativo anche per il
nostro problema. Tuttavia bisognerebbe far valere qualcosa di importante
di fronte ad esso. Prima di tutto che la stessa freddezza di sentimento
agirebbe anche in modo negativo. Chi sente così, potrebbe con la stessa
calma distruggere una grande città piena di profughi o estinguere la
popolazione di tutto un paese per mezzo di raggi e batteri qualora il
giudizio degli specialisti competenti lo ritenesse « necessario ».
Con la stessa oggettività, potrebbe giungere al
risultato, che la sanità di tutti richiede la constatazione di quali
persone siano inadatte a procreare e perciò debbano essere
sterilizzate; quali malati aggravino troppo la società e perciò
debbano esser messi da parte con modi delicati — e così sempre oltre
sul terribile cammino, che minaccia di diventare il cammino
dell'umanità. E perché no, se in questo senso parlano motivi tanto
perfettamente « umani »? se l'emozionalità resa equilibrata è
così ricettiva di
101
tutto ciò che è « ragionevole », e al contrario
così insensibile per quegli avvertimenti, che vengono dalle profondità
della vita e che sono sentiti solo da chi può essere scosso? così
insensibile per l'inter-pretazione della vita data da Cristo?
In altre parole: questa « umanità » sarebbe
ambivalente, come ogni atteggiamento che non è determinato
dall'assoluto, potrebbe giungere a risultati negativi, così come a
risultati positivi.
In ogni caso dovrebbe esser chiaro che un tale
atteggiamento non è ciò che è inteso dal sincero rapporto umano tra
il bisognoso e il soccorritore. Il lettore, che entra nella discussione
di questa questione, farà perciò bene a tenere in considerazione anche
le possibilità indicate e a non dimenticare il loro significato
specifico nell'uso così svariato delle parole « bisogno » e «
soccorso ».
102
VI
SIGMUND FREUD E LA CONOSCENZA DELLA REALTÀ UMANA
Circa l'opera di Sigmund Freud si riscontra non di rado
un consenso che ha della fede religiosa e insieme una ostilità che
ricorda l'interdetto, senza parlare dei malintesi e delle
semplificazioni. Tutto ciò è un segno che la sua opera non è ancora
vista nella sua vera importanza.
Se dunque io tento qui una valutazione filosofica del
pensiero freudiano, chiedo anzitutto di non attendersi che delle
indicazioni assai semplificanti. Il punto di vista di questo tentativo
è il problema circa il significato delle teorie di Freud per la
conoscenza della natura umana \
Mi sia consentito di iniziare con l'impressione che i
suoi scritti hanno fatto su di me trent'anni fa quando li lessi la prima
volta. Un'impressione duplice.
Anzitutto quella d'un grande ampliamento dello sguardo
sull'uomo. Più esattamente, su ciò che si può chiamare « il profondo
» dell'uomo.
' II testo di questo contributo in tutto l'essenziale è
rimasto identico a quello della conferenza. Alcuni pensieri che nella
conferenza si dovettero omettere in considerazione del tempo
disponibile, qui sono stati ripresi.
103
D'un tale « profondo » si sapeva naturalmente
da sempre. La stessa esperienza quotidiana, per esempio, distingueva un
uomo il cui comportamento fa presagire una dimensione d'interiorità da
un uomo superficiale, per il quale tutto « sta come in palmo di mano
». Oppure la valutazione etica d'un'azione collocava una motivazione di
carattere autentico al di sopra di quelle che venivano dagli strati
superficiali. Mancava tuttavia, se ben ritengo, la concezione d'un cosmo
dell'anima, che per essere tale debba estendersi anche verso il basso ed
avere fondamento (Fundament), segretezza (Verborgenheit),
abis-salità (Abgrùndigkeit). In forma extrascientifica si
sapeva certo qualcosa; basti pensare al mondo della poesia o della
religione. Ma nella concezione scientifica mancava il momento della
profondità. La scienza vedeva le strutture e i processi psicologici, le
loro stratificazioni e complicazioni; ma tutto ciò rimaneva, se mi si
consente la metafora, sulla faccia della terra, rimaneva sovrastruttura.
Di quanto giaceva più sotto, mancava un concetto chiaro — fatta
eccezione, forse, per la psicologia romantica, che può darsi abbia
anche qui visto o anche presagito l'avvenire.
Con le teorie freudiane, l'uomo divenne un cosmo che si
estende non soltanto nelle dimensioni orizzontali e verticali del
conscio, ma anche in quelle di profondità dell'inconscio. La sua
immagine divenne più completa in dirczione del profondo, cioè
dell'intimo.
Tutto ciò, però, importava non soltanto un
complemento, ma anche un cambiamento della zona superiore, poiché
vennero spostati così i rapporti di importanza dell'insieme. Fino
allora il carattere di rilevanza psicologica era strettamente legato con
la
104
consapevolezza, cioè con la possibilità di sapere in
modo immediato; ora divenne chiaro che esistono realtà dell'anima non
direttamente raggiungibili, e tuttavia di grande, anzi talvolta di
decisiva importanza. La vita ulteriore immediatamente accessibile non si
svolge affatto tutta in modo autarchico, ma resta influenzata da istanze
che non si trovano nella zona semplicemente raggiungibile.
Freud trovò anche una via verso tale profondità. Essa
non era più rimessa soltanto al presentimento del veggente o
all'intuizione del poeta dallo sguardo potentemente penetrante, ma fu
possibile rivelarla con un metodo scientificamente responsabile. E
precisamente egli riconobbe che essa poteva essere raggiunta passando
per processi che finora erano stati considerati elementi non essenziali
della psiche, cioè il sogno, i lapsus e il sintomo nevrotico.
Dimostrò che tali processi sono in realtà fenomeni espressivi, in cui
ciò che è nascosto diventa dato verificabile, ed elaborò un metodo
per poter rendere conto di tali dati.
Un altro nesso concettuale rese intelligibile come e che
cosa avviene, quando qualcosa d'appartenente alla zona dell'immediato si
trasferisce in quella dell'inconscio, ma là non si annulla, bensì
resta attivo;
attivo addirittura in un modo particolarmente ricco di
conseguenze: la teoria della « rimozione ».
Freud indicò infatti che il fenomeno della dimenticanza
non era stato ancora visto in piena luce. Si da, in realtà, non
soltanto la cosiddetta dimenticanza neutra, in cui la vivacità del
possesso attuale di coscienza si logora, ma anche una dimenticanza
specifica, in cui incide un qualche motivo personale. Il fenomeno può
essere descritto in questo modo:
«È avvenuto questo e questo. Mi procura delle dif-
105
ficoltà. Ma non posso far sì che non sia avvenuto;
e allora lo espello almeno dal mio patrimonio di
immediatamente cosciente o che può affiorare alla coscienza. Allora è
uscito dalla mia vita ». Ma in realtà l'avvenimento è ancora presente
nel contesto del complesso della vita cui si riferisce, ed anzi come
elemento operante. Operante perfino in forma assai intensiva, benché
segretamente. Ed incide anche sulla vita consapevole. Esso determina i
rapporti verso le persone, le cose, gli accadimenti, anzi verso
l'esistenza in genere, e crea in tal modo schemi preordinati per il
comportamento particolare della personalità in questione. Questa
incidenza può farsi forte a tal punto da assumere il carattere
dell'azione costrittiva [anancastica], apparendo allora in forma di
malattia, di nevrosi.
Così nacque una concezione più completa e più chiara
della totalità dell'uomo.
Ma ciò si verificò in un senso ancora più profondo.
La concezione corrente era solita distinguere nell'uomo una sfera
spirituale ed una corporea. Se si interrogava circa la natura esatta di
questa distinzione, sorgeva una visione dell'uomo in cui gli atti detti
« spirituali », e dunque il pensare, il valutare, il decidere etico,
il creare artistico da una parte e i processi della crescita, del
ricambio, degli impulsi istintuali dall'altra, stavano gli uni di fronte
agli altri come due sistemi più o meno chiusi. Pensiamo al parallelismo
psicofisico di Wundt come alla forma estrema di tale concezione. Essa
venne superata
106
dai risultati di Freud. Questi misero in luce che
tutti gli atti, anche quelli spirituali, vengono non soltanto sostenuti
da processi fisiologici e accompagnati da emozioni, ma anche sono
determinati da elementi psichici che, per parte loro, .restano inconsci.
Allo stesso modo che, viceversa, la vita biopsichica dell'uomo sta
sempre nella sfera dello spirito e dallo spirito subisce influssi, anzi
per questo essa può entrare in crisi, che caratterizzano l'uomo in
quanto tale. Di fronte al fatto che il biopsichi-smo di Freud sembra non
volerne sapere di elementi propriamente spirituali, la seconda
affermazione può suonare forse strana; ma sarà subito chiaro, quale
sia il suo senso. In ogni caso non si tratta mai, in campo
antropologico, d'uno spirito isolato — allo stesso modo che non si
tratta mai d'un corpo fisico isolato — ma sempre dell'uomo.
Ma con tutto ciò si apriva un nuovo accesso verso la
comprensione di ciò che — con determinati presupposti — si chiama
« malattia », e appunto perciò una nuova chance per una
guarigione. Nelle scoperte di Freud c'è una prima radice per la
chiarificazione di quel fenomeno che oggi viene riconosciuto come
psicogenesi dei fenomeni patologici e che viene utilizzato anche in
senso terapeutico.
Allo stesso modo, da tali scoperte, è possibile una
diagnosi più acuta di quei fenomeni che possiamo chiamare dello spirito
inautentico: che cioè processi istintivi risultano coperti da
attitudini pseudo spirituali; che la volontà dello spirito si
irrigidisce e diviene perciò infeconda; che « spirito » sia scambiato
con la ratto e altre cose di simil genere. Anche di questo diremo
subito qualcosa di più preciso \
1 L'intricatezza
dell'oggetto porta con sé la necessità di toc-
107
Non appena i tentativi e i risultati di Freud vengono
ripensati con una corrispondente apertura di sguardo, benché anche con
la doverosa indipendenza di giudizio, certe idee circa l'uomo diventano
impossibili: per esempio, quella d'un essere parallelo composto di due
ambiti o sfere chiuse in se stesse;
quella dell'essere spirituale idealistico, a cui
l'elemento corporeo aderisce come residuo deprimente. e insozzante; ma
anche — e ciò a dispetto di Freud, e tuttavia, come subito
mostreremo, per derivazione dal suo stesso punto di partenza —
l'animale umano puramente biopsichico in cui i processi cosiddetti «
spirituali », diventati ormai paradossi incomprensibili, emergono come
larve. Al posto di simili immagini costruite sulla base di determinate
dottrine s'impone l'uomo nella sua realtà originaria, e. certo anche,
proprio perciò, nella sua problematica. Nello stesso contesto viene in
luce una singolare logica della vita istintiva. S'intende con questo non
soltanto la circostanza ovvia per cui ogni fatto istintivo ha cause e
d'altra parte produce effetti. Un ordine, invece, in cui ognuno di
questi fatti si rapporta al cammino, detto più giustamente, alla
dirczione della vita umana in questione e con ciò al suo significato
etico. Diciamo con più precisione fi-losofica: che questa vita ha in
modo decisivo non il carattere della determinazione di tipo naturale, ma
quello della personale responsabilità.
L'istinto — Freud intende primariamente quello
sessuale — appare come energia radicale della vita
care sempre nuovamente momenti che possono esperire solo
più tardi la pienezza della loro illuminazione; o nell'andamento delle
riflessioni, il bisogno di dire cose che contengono più esattamente o
più rottamente ciò che precede.
108
nella sua totalità. Esso è rivolto alla propagazione
della specie, ma oltre ciò al dispiegamento generale della
individualità, quale si attua nelle relazioni verso l'altro, rrienre il
suo compimento giunge alla coscienza come piacere. Questo compimento
viene ricercato di continuo dall'istinto, secondo diversi gradi di
completezza, come pure secondo diversi modi di immediatezza o di
mediazione. La serie delle situazioni, che nascono da ciò, costituisce
la sintesi della vita individuale, e il modo con cui esse vengono
dominate dalla personalità, è ciò che vogliamo chiamare la condotta
di vita.
L'esigenza dell'istinto nelle varie situazioni può
trovare soddisfazione in quanto giunge al compimento diretto di volta in
volta inteso. Allora la compensazione psicologica si realizza
senz'altro. Ma può succedere che si ergano ostacoli contro tale
compimento — ostacoli d'ordine fisico, sociale, etico. Allora può
insorgere un conflitto. Questo viene evitato, oppure risolto se la
persona in questione vuole la verità e si adegua al significato della
situazione. Ciò vuoi dire, se egli compie la rinuncia all'immediato
adempimento dell'istinto, richiesta dalla realtà, e in tal modo supera
la pura impossibilità attingendo la libertà — ma nello stesso tempo
dirige l'energia istintiva, rimasta così priva d'obiettivo, verso un
altro oggetto che sia però psicologicamente persuasivo. Tutto ciò
costituisce il processo della « sublimazione », di cui tra poco
parleremo.
Se questo processo non si verifica, se la
situazione rimane oscura, perché la persona in questione non è
all'altezza di essa, oppure la sua condotta di vita cede di fronte alla
fatiche che tutto questo comprendere, rinunciare e trasformare costa; se
dunque egli rimuove il conflitto in luogo di risolverlo: al-
109
lora dalla inadempiuta esigenza dell'istinto nasce una
perturbazione.
La logica che viene in luce in tale contesto o, per
meglio dire, l'istanza che impone tale logica, vogliamo chiamarla
coscienza vitale. Essa sorveglia il cammino dell'esperienza e controlla
l'agire che ne emerge in rapporto alla compagine o struttura
significativa della vita individuale. Tutto ciò non arriva di regola
alla coscienza psicologica, benché vi si diano pure interessanti
fenomeni intermedi, come, per esempio, la singolare chiaroveggenza nel
dormiveglia, in modo particolare immediatamente prima del risveglio,
dove, come in una illuminazio-ne, si rende chiaro il senso di certi
avvenimenti, azioni od omissioni e delle loro conseguenze. Ma la
coscienza vitale si esplica anche nel corso dell'accadere intcriore
stesso; esige che la situazione istintuale di volta in volta
verificantesi venga padroneggiata in modo giusto e si vendica se ciò
non avviene.
Tutto ciò significa che i perturbamenti psichici — ma
anche i perturbamenti di quelle funzioni fisiche che sono determinate
dall'inconscio — stanno in connessione con le lesioni di questa
coscienza vitale. In tal modo il fenomeno della malattia assume una
profondità nuova, e precisamente, etica. Da questo punto di vista essa
non è la semplice conseguenza d'una insufficienza orgànica o di
negative incidenze esteriori, ma è un processo in cui influisce ciò
che l'uomo è, fino alle sue prese di posizione verso la vita e le sue
esigenze.
Una profondità nuova acquista, attraverso queste
concezioni, anche ciò che si chiama « destino ». Esso non significa
soltanto il tessuto dei rapporti esterni e gli influssi che ne
risultano. E neppure soltan-
110
to eredità, attitudini, deficienze innate, ecc. E
ancora non soltanto il fatto che le azioni compiute nel contesto del
divenire naturale hanno conseguenze che si ripercuotono sull'agente.
Oltre tutto ciò « destino » significa che il fare dell'uomo diviene
direttamente un momento attivo nel profondo della sua propria realtà
inconscia, e di lì influisce su tutta la sua vita. Freud ha trovato
nella poesia — soprattutto in quella greca con il suo concetto di
destino inesorabile — immagini esemplari per esprimere come questo
corso della vita venga determinato dalle profondità inferiori.
Ritorno qui a quel punto di partenza personale di cui ho
parlato all'inizio di questa esposizione. La prima impressione che la
psicologia freudiana ha fatto su di me, è stata quella, come ho detto,
di una dilatazione e d'una integrazione dell'immagine dell'uomo; la
seconda quella d'una subordinazione dell'esistenza all'istinto.
Si fa a Freud l'accusa d'avere sessualizzato
l'esistenza. C'è del giusto in tale accusa -— almeno può portare a
ciò. Egli ha visto l'istinto sessuale (da lui chiamato libido)
così forte, la sua influenza così universale e il comportamento umano
nei suoi riguardi così ricco di conseguenze da farne la chiave per la
comprensione della vita in assoluto. E mentre il maestro stesso era un
grande realista e s'imponeva continui limiti, il rischio della
pansessualizza-zione divenne acuto presso non pochi dei suoi discepoli.
Senza parlare di coloro per i quali, per il
111
difetto di reale intelligenza, le idee di Freud
diventano una routine sconfortante e non di rado
infausta.
A questo riguardo c'è da considerare che la psicologia
del profondo nei suoi progressi ha enucleato una pluralità di istinti
fondamentali: quello della affermazione e della potenza, quello del
possesso, o l'impulso aggressivo che Freud stesso nei suoi ultimi tempi
ha considerato come un fattore istintuale a se stante.
Ma sono necessarie anche riserve di natura più
profonda. Freud sta in una ben precisa tradizione, quella del
materialismo. Riconosce quale fenomeno scientificamente afferrabile
unicamente la psiche, del tutto vincolata alla physis. Nella sua
visione non ha posto alcuno lo spirito con la sua libertà, la sua
capacità di superamento dell'immediatamente istintivo e la sua
relazione all'Assoluto. Ciò è stato sottolineato anche dal lato
psichiatrico.
Ora però Freud non può dimenticare che nell'uomo si
danno fenomeni tradizionalmente chiamati « spirituali »: dunque, ad
esempio, le attività della ricerca scientifica, della creazione
artistica, dell'ordine e della collaborazione sociale, dell'impegno
morale. Non posso discutere fino a qual punto Freud veda l'autonomia del
loro significato; in ogni caso è caratteristica in lui la concezione
che simili comportamenti umani dipendano in ultima istanza dall'impulso
verso la soddisfazione libidinosa; e precisamente attraverso quel
processo che abbiamo già accennato e che egli chiama « sublimazione
».
Può, cioè, avvenire che la soddisfazione immediata
dell'istinto fallisca, a causa di qualche ostacolo o anche per decisione
dell'interessato stesso. Ma ciò in modo che l'energia istintiva,
deviata dall'oggetto
112
primo, viene diretta verso un altro il quale, di natura
sua, non è in grado di vincolarla a sé. Allora tale energia produce
qualcosa che a tutta prima non ha nulla a che fare con il senso
immediato dell'istinto, ma che, sulla base di rapporti d'analogia ora
esteriori ora più profondi, rappresenta per esso una sod--disfazione di
compenso: l'istinto viene « sublimato ». Nasce qualcosa di prezioso
per l'esistenza: poesia, arte plastica, azione sociale, attività
pedagogica. In altre parole, il mondo degli atti e delle strutture «
spirituali », la cultura. Tale risultato appare dapprima, e visto dal
di fuori, come fondato in se stesso: la poesia come espressione
dell'esistenza, il diritto come ordine delle relazioni umane, il lavoro
sociale come aiuto al bisognoso, ecc. Ma non appena lo psicologo
considera la configurazione culturale dal punto di vista delle sue
radici psicologiche, egli vi riconosce una applicazione e una
trasformazione del-, l'istinto.
Qui s'inserisce una critica, che porta oltre quanto è
stato già esposto. Essa dice: c'è nell'uomo la physis e la
psiche, ma anche Io spirito. Non quello isolato che agisce da se stesso
e per se stesso. Esso è sempre lo spirito dell'uomo, legato in ogni suo
atto e in ogni suo risultato con la sfera psicofisica. È sem-ore la
realtà umana quella con cui abbiamo a che fare. Ma in essa noi
incontriamo distinzioni che non consentono riduzione alcuna.
Fenomeni come — indichiamoli a casaccio — la
scultura greca, il diritto romano, la cattedrale gotica, la Divina
Commedia, la musica di T.S. Bach, la teoria della relatività, la
decisione etica che si compie nella solitudine della coscienza: tutti
questi dati, le opere come gli atti che le creano, contengono qualcosa
d'altro oltre il contenuto d'un semplice processo psi-
113
cologico. Qualcosa di qualitativamente altro. Non vedere
tutto ciò, significa cecità nei riguardi del fenomeno.
Questo altro, questo diverso, sta anzitutto nel
contenuto essenziale di ciò che in quelle opere viene creato: nella
validità del vero, nel carattere obbligante del bene, nella autorità
della legge, nella in-teriore libertà della forma artistica. Là dentro
si attesta qualcosa che si fonda nel suo proprio significato, eleva una
pretesa assoluta e non può mai essere derivato da funzioni di qualsiasi
genere, siano psichiche o fisiche. Il senso di quelle realtà sta nella
loro propria altezza; e mai nei loro meccanismi fisiopsichici che
entrano in corso nel loro generarsi, oppure nelle funzioni economiche,
igieniche, sociali, che vengono in esse esplicate.
La diversità dello spirito consiste in secondo luogo
nella natura propria del processo come tale. Gli atti che generano la
conoscenza scientifica, l'opera artistica, l'ordine giuridico, la
relazione personale, la presa di posizione etica, hanno quel carattere
che Kant chiama « apriorico »; ma che nel modo più preciso viene
designato come una chiamata da parte dell'Assoluto e che soltanto nella
libertà della persona può essere realizzato. Non appena i concetti
dell'Assoluto e della libertà vengono pensati onestamente, appare
evidente che essi superano per principio il piano psicofisico.
Soprattutto la filosofia fenomenologica e l'analisi
culturale hanno mostrato — ricordo Edmund Husseri, Max Scheler, Adolf
Reinach, Frederick Buvtendrjk, Lud-wig Bins-wanger e altri — che la
validità dell'opera culturale, come pure l'obbligazione normativa
dell'atto culturale non possono mai essere ricondotte alla loro genesi
psicologica o a una funzione da
114
essa esercitata. Sapendo quali sono i centri cerebrali
attivi nell'elaborazione di una teoria scientifica, si sa tanto poco
circa il senso di quest'ultima quanto, nel caso di una creazione
artistica, si sa della qualità estetica di essa con la conoscenza dei
processi psicologici. E quando si sia stabilito che l'ordine giuridico
infonde sicurezza e un'opera musicale distensione, non si è conosciuto
ancora nulla dell'essenza del diritto e della musica, e ciò in linea di
principio, non solo quantitativamente.
Questa realtà valida in sé, non riconducibile a
qual-cos'altro e che si impone nell'opera culturale come nell'atto
culturale, noi la chiamiamo spirito.
Domandiamoci ora: la concezione freudiana è tale
soltanto da prescindere dallo spirito, ovvero da fallire di fronte alla
sua problematica, oppure esclude lo spirito senz'altro?
Freud si è sempre sforzato di essere leale con la
realtà come essa gli si mostrava. Si rinvengono così nel suo sistema
passi da cui può iniziare la critica, poiché in essi assume valore
qualcosa che non è semplicemente un contesto fisio-psichico. Di tali
passi vorrei ricordarne due, senza con ciò escluderne altri, come ad
esempio la sua teoria dell'io e del super-io.
L'attenzione sul primo passo è stata richiamata dallo
psichiatra friburgese Hanns Ruffin, sul fatto cioè che nella sfera
psicologica si da l'autentica contraddizione. Se l'uomo fosse soltanto
un essere naturale fisiopsichico, questa sarebbe impossibile. Se da una
de-
115
cisione vitale errata insorge non soltanto un danno
fisico o un conflitto con l'ambiente, ma un trauma, un impulso che nuoce
da dentro alla propria stessa vita;
una tendenza punitrice che genera malattia: se dunque
nella stessa sfera degli istinti un impulso si rivolge contro l'altro,
tutto ciò non è comprensibile secondo un puro gioco degli istinti. Si
può comprendere soltanto se nell'uomo agisce una istanza che si esplica
bensì nella sfera degli istinti, ma che per il suo significato come per
la sua economia è di altra natura. Per quanto so, non esistono nevrosi
presso gli animali selvaggi. E a riguardo dei tentativi per indicarne
presso gli animali domestici, non si deve dimenticare che l'animale
domestico non è semplicemente un animale, ma sempre un animale più
l'influsso dell'uomo, alla cui sfera vitale appartiene. Se nell'uomo non
solo si svolgono conflitti vitali, -ma si condensano in centri di
autodistruzione, ne segue che qui non si tratta soltanto di processi di
regolazione della vita biopsichica, i quali sarebbero in tal caso
strutturati in vista d'una crescita ottimale, ma viene alla luce in essi
un carattere del tutto particolare, quello cioè del costituirsi di un
destino. Sul terreno biologico vengono a incidere momenti
transbiologici. Qui non soltanto un istinto naturale vigila sui
presupposti dell'evoluzione immediata, ma entrano in vigore norme di
giustizia, che portano carattere morale; e la loro violazione viene
vendicata in un modo che trascende radicalmente ogni pura conseguenza
biopsichica.
Questo « altro », contrapposto alla natura, che qui
entra in azione, è lo spirito o, rispettivamente, il mondo di quei
valori e di quelle norme che possono affermarsi soltanto nella sfera
dello spirito. Solo nella sfera dello spirito l'istinto può diventare
una
116
potenza pericolosa, fatale quale Freud la dimostra. Ci
sarebbe molto da dire sull'argomento.
Questo « altro » ci risulta anche nel modo
seguente. Una delle più importanti scoperte di Freud è la teoria della
sublimazione. Cioè l'istinto, come già si disse, non è fissato in
forma univoca. A tutta prima esso tende al suo adempimento immediato. Ma
gli è propria una orientabilità, una malleabilità, in forza della
quale esso può essere sganciato dal suo oggetto immediato, avviato
verso un altro e con ciò appunto trasformato. In questa trasformazione
esso produce atti di personale disinteresse, opere d'arte, idee
metafisico-religiose, in una parola, la cultura — detto più
esattamente — l'istinto si inserisce negli atti sopraddetti, rafforza
la loro dinamica e trova in essi l'equilibrio alla propria tensione.
Ora l'istinto non potrebbe mai sganciarsi dal proprio
oggetto immediato, volgersi a un altro e produrre con la rinuncia e con
l'autotrasformazione qualcosa che in prima istanza è estraneo a sé, se
esso dovesse realizzare tutto ciò da se stesso. Il significato
dell'opera culturale è non solo gradualmente ma essenzialmente diverso
da quello dell'autoevoluzione biopsichica. Il movimento verso tale
dirczione importa, in confronto a tale evoluzione, non un semplice «
sviluppo » continuo, ma un trapasso, un salto qualitativo, il quale è
non soltanto impegnativo e difficile, ma può risultare deleterio per la
sfera immediata della realtà, come dimostra ogni analisi proba
dell'atto creatore di cultura. Non esiste nessuna logica propria
dell'istinto in quanto tale, secondo la quale questo possa compiere da
se stesso il passo verso l'opera culturale. Gli aspetti d'analogia, che
emergono fra il primo oggetto di soddisfacimento e il secondo, non sono
assolutamente suffi-
117
denti per suscitare e per reggere un distacco sinule,
cioè una simile rinuncia.
L'istinto può sciogliersi dall'oggetto del suo
immediato adempimento e trasferirsi nella creatività culturale solo
perché viene da quest'altro lato chiamato, richiesto, assunto in
servizio. Non esistono relazioni unilaterali, dotate solo del punto di
partenza; assolutamente nessuna che comporti l'autosacrificio della
energia di partenza. E sempre necessario che « si mostri » ciò che
sta dall'altra parte e che attesti la sua validità. Ma se esso
dev'essere veduto, se il suo richiamo dev'essere sentito e poi seguito,
ciò significa che in tutto ciò c'è un momento in azione che non si
identifica con l'istinto, ma gli sta sopra, e questo è lo spirito.
Ma tutto ciò vuoi dire un'altra volta che la teoria
freudiana porta in sé gli addentellati per il superamento delle sue
unilateralità, perché la realtà glieli impone.
Un'ultima cosa ancora. Il pensiero occidentale si muove
in vario modo fra estremi fatali: fra uno Spiritualismo che vede i
fondamenti dell'intelligenza dell'essere nel puro spirito e un
materialismo che li vede nella pura materia. Ciò inizia già con
Fiatone, per il quale la via dell'uomo autentico, cioè del filosofo,
consiste nella liberazione dello spirito dal corpo. Ma le due posizioni
non sono affatto possibilità di genuina decisione, bensì antivalenza,
inau-tentiche entrambe sia pure in opposta dirczione. La storia mostra
pure come l'una si inverte di con-
118
tìnuo nell'altra. Questo perché si è dimenticato dò
che realmente importa: l'uomo.
Questo problema è oggi più importante che mai, perché
l'uomo è posto oggi in questione da forze quanto mai potenti: della
massa, della tecnica, dello Stato. Vista da tale angolo, un significato
particolare della psicologia freudiana — ma ora bisogna ormai dire:
della psicologia del profondo in genere — potrebbe consistere nel
fatto che essa convoglia l'attenzione su colui che è a tal punto
minacciato. Tale indicazione potrebbe, tra l'altro, svolgersi nel senso
di mostrare quanto sia spesso inautentico ciò che viene chiamato
semplicemente « spirito »;
inautentico e perciò infecondo per ciò che ha verità
sostanziale.
Inautentico è anzitutto quello spirito che appare nello
scambio tra spirito e logica. Ciò dovrebbe risultare chiaro a chiunque
sia in grado di vedere, dopo che si sono diffuse, ormai dappertutto, le
macchine cui vengono trasferiti, in maniera così irresponsabile,
concetti di atti spirituali come quelli del pensiero. In realtà nulla
c'è di spirituale in esse. Spirituale è soltanto la prestazione di
coloro che le hanno escogitate e di coloro che le adoperano. Esse stesse
non sono che oggettive possibilità di tale uso, nul-l'altro.
Uno spirito inautentico si può incontrare nell'etica, e
precisamente dovunque esso viene concepito in contraddizione col corpo.
Quanto poco lo spirito possa essere voluto per se stesso, l'ha
dimostrato l'oscura e disorientante storia della gnosis che
attraversa tutta la storia dell'Occidente. Con la identificazione dello
spirito con il bene o la luce e con la contrapposizione ad esso della
materia o del male o della tenebra, la gnosis proclama un mito
contro la cui
119
falsità distruttiva già il cristianesimo dei primi
secoli ha combattuto. Ogni etica o ascetica, che contrapponga
dualisticamente lo spirito in quanto bene al corpo in quanto male, è in
realtà sostenuta da un risentimento che non è in grado di inserire le
forze vitali in un ordine fecondo. Il presunto spirito puro, di cui
colà si parla, è in realtà istinto represso, e il ricordo va alla
famosa frase di Pascal: « Chi vuoi diventare angelo », cioè puro
spirito, « diventa bestia ».
Inautentico è il modo con cui l'idealismo colloca ogni
significato nello spirito assoluto e vede nella materia unicamente
l'antitesi in cui lo spirito si fa consapevole di sé, la quale materia
però, dato che lo spirito la pone fuori di sé, non costituisce in
fondo che una modificazione dello spirito. È un fatto estremamente
rivelante, attorno a cui tuttavia si continua ostinatamente a girare,
che il più « spirituale » filosofo, l'idealista Hegel, sia diventato
l'origine del materialismo « marxista ». Ciò rivela che lo « spirito
» di costui è nel profondo altrettanto inautentico della «
materia » di Marx, e che i due concetti non sono in realtà che simboli
di una decisione della volontà, posizioni opposte in una competizione
metafisica.
Lo spirito autentico è incorporato. Non esiste
nella nostra sfera esistenziale il puro spirito. La Rivelazione ci dice
che esso esiste nell'angelo il quale possiede una realtà del tutto
diversa da quella che le correnti rappresentazioni popolari e artistiche
ma anche quelle correnti della scienza delle religioni si raffigurano.
Noi non possiamo realizzare mentalmente che cosa propriamente l'angelo
sia. La sua esistenza, rispetto alla nostra, sta in un rapporto di
contiguità, della cui importanza religiosa non possiamo qui parlare.
120 :
La stessa Rivela2Ìone d dice che Dio è puro spirito.
Ma noi facciamo bene ad aggiungere subito che il termine, adoperato a
riguardo di Dio, ha un altro significato che adoperato a riguardo delie
realtà li-ulte. La corrività, con cui la filosofia idealistica
discorre in ogni possibile contesto di « spirito assoluto », mostra
quanto poco essa si renda conto reale di ciò di cui si tratta. Quando
la Rivelazione — come pure l'esperienza religiosa autentica — parla
di Dio come spirito, non intende affatto la spiritualità. Nel passo,
spesso citato, di Giovanni (4, 24) « Dio è spirito e coloro che lo
adorano devono adorarlo in spirito e verità », il termine pneuma
significa Spirito Santo.
Lo spirito autentico ha il suo luogo nell'uomo, e l'uomo
il suo luogo nella storia. Ma « storia » è altra cosa da quel che
s'intende con autoespansione dello spirito assoluto nell'idealismo, che
trova un'eco così traditrice nella dialettica marxista delle forme
economiche. Storia autentica non è essenzialmente un « processo » —
benché in essa naturalmente si diano anche processi — ma è una serie
di decisioni personali che, ogni volta inderivabili, nascono dalla
libertà d'ogni singolo uomo. In tal modo essa ha il carattere della
responsabilità e porta con sé la possibilità del tragico, il quale è
altra cosa della fatalità e della distruzione. L'uomo è libero perché
è spirito e di conseguenza capace di storia; egli sta nel contesto
delle cose, dello spazio e del tempo, perché è incarnato in un corpo e
perciò storicamente vincolato.
Solo da questa tensione — fra la libertà spirituale
da una parte e la vincolazione alla storia attraverso il corpo
dall'altra — sorge quella forma d'esistenza che si chiama umana. Essa
non può essere pensata
121
con concetti di scienza naturale ma soltanto di
personalismo storico.
Se ora la psicologia analitica mostra quanto
indissolubilmente ogni atto spirituale sia legato al corpo e
all'istinto, ma d'altra parte pure quanto inelimina-bilmente ogni atto
istintivo dell'uomo si distingua, grazie allo spirito, da quello
dell'animale, essa riporta a colui, di cui in tutto ciò davvero
importa, cioè all'uomo, alla sua opera e alla sua storia 1.
Se si cerca di considerare la psicologia freudiana nella
sua totalità, vi si nota un carattere che si rivela anche altrove nella
storia della ricerca scientifica e che è importante per la valutazione
delle conquiste di Freud. Non appena, cioè, viene scoperto un settore
nuovo e la ricerca se ne impadronisce e un metodo viene elaborato e
tentata una prima sintesi, tutto questo assume facilmente un carattere
unilateralmente razionalistico. Di fronte alla incognita dell'oggetto,
alla complessità intricata dei fenomeni e alle difficoltà nella
ricerca del metodo, questo razionalismo ha un effetto di semplificazione
e d'ordine. Esso determina la forma primitiva della scienza in questione
e ha l'impronta del classico. Basti ricordare, ad esempio, al modo come
la prima scienza dell'economia con Adam Smith riconduceva tutti i
fenomeni della vita economica agli elementi razionalistici del mercato,
domanda, offerta e loro compensazione meccanica. Questa prima teoria è
unilaterale; ma proprio in ciò sta la sua forza, di avviare cioè la
ri-
1 Si
consentirà al teologo di alludere alla dottrina della Rivelazione,
così mal capita dall'età moderna, secondo la quale l'uomo e la storia
umana camminano non verso la trascendenza puramente spirituale e ancor
meno verso l'andvalenza di questa, cioè verso una risoluzione nella
materia del mondo, ma verso la resurrezione del corpo, verso l'uomo
dell'eternità.
122
cerca. Nella discussione, nella critica e nella sua
ulteriore evoluzione, si afferma la scienza più matura. In questo senso
Freud è il classico della psicologia del profondo. Ciò non vuoi dire,
come s'è detto, che egli abbia visto il fenomeno sempre correttamente e
meno ancora che l'abbia visto completamente. Varie cose nei particolari
e cose essenziali nei fondamenti delle sue vedute sono false; allo
stesso modo che il complesso del fenomeno contiene fatti e rapporti
importanti che gli sono sfuggiti. Egli rappresenta tuttavia la forma
primitiva sulla quale poi la critica ha trovato spunto e si è avviata
la ricerca successiva.
123
VII UN IDOLO IN FORMAZIONE
Riflessioni non sistematiche
Alla domanda, che cosa sia un idolo1,
risponde il libro lìeIVEsodo al capitolo vemesimo, versetti 4 e
5: « Non devi fare nessun'immagine di Dio, nessun ritratto di alcuna
specie, ne di ciò che è sopra il cielo, ne di ciò che è giù in
terra, ne di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non devi adorarli
ne servire loro ».
Secondo la Scrittura un idolo è un'opera d'arte, che
trae il suo oggetto immediato dalla realtà del mondo; ma che
rappresenta questo oggetto in modo che sia sentito come una potenza
numinosa, religiosa e inviti ad una venerazione religiosa — una
venerazione, che ha il carattere del servizio, reso cioè dalla persona
dell'uomo.
Nelle religioni mitiche politeistiche la potenza che si
rivela è una potenza della natura — per esempio il sole che elargisce
la luce e genera la vita —, che poi, nel progresso dello sviluppo
culturale, a partire dagli immediati fenomeni naturali si approfondisce
e — come nel caso del sole — può innalzarsi alla rappresentazione
di un potere spirituale luminoso e creatore.
La potenza, che è oggetto di esperienza, dalle forze
1
L'articolo apparve la prima volta in Speculum Historiae, Festschrift
fur Johanncs Spori, Munchen, Alber, 1965.
125
figurative della fantasia artistico-religiosa viene
condensata in una forma concreta (Apollo) e il suo essere va
dispiegandosi nei riverenti racconti della sua origine, delle sue
gesta e vicende (miti).
La forma del Nume è presa dai più diversi ambiti del
mondo: di quello inanimato (vedi per esempio la forma conica delle più
antiche immagini di Afro-dite); di quello animale (per esempio la
civetta per Atena); di un mondo misto animale e umano (per esempio il
capo di sparviero del dio dei morti egiziano); finalmente dal mondo
totalmente umano (così le immagini degli dèi della religione superiore
greca). Questa rappresentazione è vissuta nel culto in modo che la
corrispondente potenza mitica è sperimentata come presente in essa e
come Nume, che riceve il « servizio »: adorazione, lode, offerta
sacrificale.
Sembra che la capacità di una vera esperienza nu-minosa
della natura svanisca sempre più coll'avvento dell'atteggiamento
razionale e scientifico e col dominio tecnico della natura. Ma non si
presenta qui un paradosso: che cioè quelle forze, che hanno causato
questa sparizione, cioè scienza e tecnica nella loro unità
vicendevolmente determinante, acquistino una potenza, che da sua parte
spinge verso una specie di idolo?
Dal punto di vista esistenziale nell'idolo-Natura si esprime
un atteggiamento, nel quale l'uomo non solo utilizza le realtà naturali
nell'economia della sua vita, le scruta speculativamente e le ammira
esteticamente, ma soggiace ad esse religiosamente, cioè le « serve ».
Questo soggiacere, come anche il servizio in cui si esprime
quest'attegiamento, è abolito dalla scienza e tecnica. L'uomo diventa
libero di fronte alla natura, anzi consegue un dominio sempre crescente
su di essa. Ma in compenso egli sembra in-
126
chinarsi all'avvenimento dello stesso dominio, come pure
all'insieme di quei mezzi, coi quali si acquista ed esercita questo
dominio, cioè la scienza esatta e la tecnica su di essa basata. Il
paradosso consiste in questo, che l'uomo diventa soggetto appunto a
ciò, con cui ha acquistato ed esercita il suo dominio.
È un fatto che l'uomo odierno non è più libero di
fronte al complesso: scienza, tecnica, dominio della natura; che egli è
da esso « incantato » e quanto più a lungo, tanto più profondamente.
Alla fine diventa sempre più chiaramente conscio che
non potrebbe vivere senza di esso. In maniera fatale l'elemento
dell'aumento della popolazione si congiunge col fatto della scienza e
della tecnica. Ma ciò significa più di questo, che tanti uomini
possano rimanere in vita solo perché scienza e tecnica lo rendono
possibile; si impone invece il pensiero, che i due elementi siano fra
loro connessi da una radice che non può essere illuminata
razionalmente.
A ciò si aggiunge un altro elemento, che appartiene
egualmente all'essenza della coscienza moderna. In modo approssimativo
si può dire che il senso del mondo dell'uomo medievale sia stato
statico. Gli ordinamenti del vivere come anche quelli del mondo erano
veduti certo come mobili, ma questo movimento era quello del ritmo —
vedi per esempio il muoversi in circolo della Divina Commedia di
Dante o la comunicazione di sé nei gradi dell'essere di Bona-ventura.
Qui ha avuto luogo un cambiamento. L'epoca moderna ha
visto il mondo, la natura come la storia, presi in un movimento che si
spinge in avanti: ambedue si « evolvono ». E precisamente questo
sviluppò è stato sentito come un processo verso sempre il meglio, come
« progresso ».
127
Ma questo progresso si esprime appunto nell'unità di
scienza e tecnica, unita al fatto biologico-politico della crescita
della popolazione come presupposto della società e della politica
moderne. In conseguenza, lo sviluppo della scienza e della tecnica
significava senz'altro progresso, crescita del senso dell'esistenza, e
ogni dubbio su ciò era un dubbio sul senso dell'esistenza.
Perciò anche non c'è in fondo alcuna critica su questa
unità di potenze fondamentali che tutto determina — fatto in cui si
manifesta una specie di incantesimo nel senso del rapporto con l'idolo.
Poiché primo presupposto della libertà sarebbe la critica;
ma questa non viene esercitata, bensì il complesso
citato viene preso come semplicemente dato e normativo.
Si potrebbe subito obiettare che c'è pure critica
abbastanza; che anzi si potrebbe semplicemente designare come critica
l'epoca, la cui coscienza viene caratterizzata dalla scienza. Tuttavia
questa critica è solamente metodologica: star in guardia contro gli
errori nelle teorie scientifiche e nel processo tecnico;
di fronte a problemi economici e sociologici. Ma l'uomo
moderno non pone in questione in linea di principio scienza e tecnica.
Parlando con più precisione: certamente si esercita una
critica molteplice e sottile su questioni di principio, ma con Io scopo
di dissolvere le antiche convinzioni religioso-filosofiche, il cui senso
andrebbe appunto verso la messa in dubbio della pretesa innalzata dal
complesso di scienza, tecnica e massa umana di cui si parla. Perciò
questa « critica » contribuisce alla mancanza di critica di cui stiamo
parlando, giacché non pone in questione il dominio di anello stesso
complesso. Per principio l'uomo odier-
128
no gli da il suo assenso chiaramente come
all'ordinamento dell'esistenza e alla misura di ogni valore 1.
Quanto si è detto si manifesta anche nella naturalezza con cui ogni
vittima viene sacrificata al dominio di questo ordinamento. Che la
campagna sia devastata da imprese tecniche; che antichi edifici
insostituibili siano annientati da costruzioni utilitarie;
che il silenzio, fattore indispensabile dell'esistenza
personale, sia eliminato dal rumore delle macchine del traffico; che
l'atteggiamento di venerazione, il più essenziale per l'uomo, sia
distrutto con i dispositivi tecnici razionali (per esempio i mezzi di
comunicazione) — tutti questi attentati all'esistenza umanamente
preziosa vengono sentiti come effetto di un potere, protestare contro il
quale appare come retrivo, irragionevole, nemico della storia, anzi alla
fine come empio.
Scienza e tecnica si fanno valere come un superpo-tere e
un supervalore, che non ha bisogno di alcuna fondazione, ma che viene
semplicemente considerato come dominante e valido — sicché di fronte
ad esso le più enormi perdite della persona e della cultura vengono
considerate come fatali. Che si elevino proteste dei danneggiati; che
individui eminenti si preoccupino di scongiurare la distruzione di
valori naturali o culturali; che si facciano sforzi, per cercare di far
prevalere un concetto di cultura più libera e più elevata — tutto
ciò non elimina quanto si è già detto. Ciò riesce a prevalere solo
là dove non sono operanti i vincoli immediati di quei poteri. In
1 Da
questo punto di vista, la rimozione dei « tabù », sollecitata con
così sospetto fervore, si rivela come distrzione della protezione, che
determinate idee e sentimenti di difesa danno all'uomo contro la
dittatura di quel criterio, avanzante dappertutto.
129
fondo queste premure sono considerate come un lusso
romantico, a cui ci si può lasciar andare, quando è garantito
l'essenziale, scienza, tecnica e numero della popolazione; ma dei danni
cagionati ci si consola presto.
Il fenomeno si verifica in generale: in tutte le età
della vita, in tutti gli strati sociali, in tutti i popoli, anche quelli
che hanno il passato culturale più antico e altamente sviluppato —
come ad esempio la odierna Cina. È all'opera un elemento del
superpote-re, anzi dell'incantesimo, che paralizza gli istinti della
propria difesa spirituale e delle più nobili tradizioni vitali.
Il sentimento giunge ad un'espressione immediata di
ammirazione, anzi di venerazione, non appena il fenomeno della tecnica
scientificamente fondata si condensa in qualche luogo in una figura
concreta ed "espressiva — forse bisognerebbe ricordare come nella
Russia bolscevica fu innalzato un monumento con un trattore, che
suscitava nello spettatore non solo sentimenti di ammirazione culturale,
ma anche di venerazione religiosa.
Una religiosità stranamente fredda, senza anima. Si ha
l'impressione che qui sorga un idolo, anche se su di un nuovo campo e
con carattere nuovo. In alcune opere di arte astratta, specialmente
della scultura, ciò può prendere talmente corpo che l'uomo moderno
giunge all'atteggiamento, contro cui mette in guardia il divieto
dell'Antico Testamento: che egli « serva » — è da ricordare forse
la solitària troneg-giante « coppia di rè » di Henry Moore e la
configurazione non umana della testa dei due esseri.
L'osservatore che sente e giudica con precisione scopre
nel fenomeno un elemento assai pericoloso. Molte cose contribuiscono a
questo pericolo: le energie
130
che si mettono in movimento sono straordinariamente
grandi, e il loro campo d'azione non lascia ne riserve ne rifugi. Le
energie afferrano l'uomo stesso e
10 cambiano. Esse si uniscono con la volontà di
autonomia dell'uomo moderno e, per usare una parola di Thomas Mann,
producono una « fredda estasi », in cui l'uomo sacrifica se stesso a
questi poteri. La situazione apparentemente si conforma alla suprema
razionalità; in verità conduce all'autodistruzione, come viene
espresso oggi così stranamente nella letteratura, nelle arti
figurative, nella musica, per mezzo del sentimento dell'angoscia, della
nausea, dell'assurdità, della pazzia. L'idea del progresso riceve il
carattere di un inevitabile esser trascinati e domina non solo
l'opinione pubblica, ma anche il giudizio individuale.
11 nuovo mito si cambia in una costrizione formale, che
si manifesta per esempio nella naturalezza con cui viene accettato che
ciò che è tecnicamente possibile sia anche moralmente permesso, anzi
obbligante, perché elemento del progresso — ricordiamo tutti gli
apparati e misure, con cui la tecnica moderna di osservazione e
comunicazione penetra nella vita privata dell'uomo, il che però
significa che distrugge la sua libertà. Tuttavia il dire ad un tecnico,
che avesse costruito un apparecchio con cui si potessero osservare e
render noti i più nascosti eventi in una casa, che egli non dovrebbe
costruire questo apparecchio, sarebbe giudicato non solo come
arretratezza o stoltezza, ma in fondo come ostilità contro il senso
dell'esistenza. Con che cosa potrebbe essere infranto questo complesso e
il suo significato metafisico-religioso?
Certo non con un atteggiamento reazionario, romantico,
che respinga per principio scienza e tecnica e
131
che aspiri di nuovo ad uno stato naturale, che non
potrebbe mai realizzarsi, ma solo — e così anche effettivamente —
con l'atto di rifiutarsi di realizzare possibilità dello sviluppo
tecnico, della costruzione e del funzionamento, dell'utilizzazione e
dell'esercizio di potere, qualora esse distruggano valori essenziali
della natura e dell'opera dell'uomo, del rispetto alla persona e al
passato.
Ma certamente, chi agisce così, arrischia molto:
interessi economici, sociali, politici, prestigio personale, e altro
ancora di questo genere.
Tutta questa resistenza assume facilmente il carattere
della stranezza, incorre nell'apparenza di comportamento asociale, anzi
si risolve nel sacrificio di se stesso — proprio come una volta
accadeva a chi si rifiutava di sacrificare agli idoli. L'oppositore
diventa « nemico degli dèi e degli uomini ». Tuttavia è necessario
un tale atto per rovesciare il nuovo idolo — per Io meno per porre un
freno alla sua dittatura. Non basta parlare solo di moderazione e di
riguardo. È necessaria un'ascosi, cioè una prontezza a rinunciare alle
conquiste tecniche per preservare valori più alti. E in qualche senso,
seppure ancora così modesto, è un segno di speranza il fatto che
questa parola già sia emersa nella discussione.
132
Vili
RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DEL CINEMA
II cinema1 ha raggiunto un'estensione così
enorme, ha l'aspetto d'una realtà ormai così stabilita e di continuo
crescente, penetra così a fondo nell? vita dell'intera popolazione
provocando danni a volte così gravi da obbligare a un'attenzione
particolarmente seria nei suoi riguardi.
Le persone moralmente e artisticamente vigili sono molto
spesso urtate dal cinema, a tal punto che vanno a rischio di
misconoscere a suo riguardo l'urgenza con cui qualcosa cerca in esso il
proprio diritto. Ma è necessario che tali persone si rammentino della
propria responsabilità.
Qualcuno potrebbe cercare di risolvere il problema col
dire: non intendo prendere il cinema sul serio. È cosa di valore
inferiore e tale rimarrà. Da esso mi aspetto soltanto quell'aiuto che
il nostro tempo m'offre per attenuare un poco la propria inquietudine.
Mi aspetto soltanto che il cinema mi dia ciò che può darmi in
una forma in qualche modo piacevole e che non si arroghi le arie d'una
significanza culturale che non gli compete.
Dal fenomeno del cinema può nascere del buono:
del giusto in senso ideologico, del forte in senso
etico, del piacevole in senso estetico. Ma unicamente come fenomeno
marginale. Sarebbe una grande stor-
1
Quanto segue riproduce una conferenza tenuta all'Università di Monaco
di Baviera 'nella sede del « Seminario d'arte cinematografica » nel
1953.
133
tura, se da simili risultati si dovesse dedurre un
criterio d'ordine generale.
Questo modo di concepire è chiaro, ed è presumibile
che a volte anche un apologeta d'un compito artistico del cinema ne
rimanga inquietato. Ma fa pensare in questo modo la circostanza che il
cinema è diventato molto presto un affare di massa. Il dramma, che, in
quanto spettacolo, il cinema imita, è nato -da una sfera originaria
molto esclusiva, cioè dal culto; il dramma ha un'antica storia ricca di
grandi creazioni e rimane, anche dopo il suo trapasso al teatro profano,
ancora per lungo tempo legato alle classi sociali superiori. Il cinema
invece è un « arrivato » e sta fin dal principio al livello delle
grandi masse. Assai presto la tecnica e il commercio s'accorgono che si
tratta di qualcosa che risponde ad istinti universalmente operanti e che
perciò implica grandi possibilità. S'aggiungono poi subito i punti di
vista della pubblicità e della propaganda politica, cioè la chance
dell'azione sulle masse mediante tale strumento.
Il cinema ha pure molto presto eliminato ogni pretesa di
misura e di riserbo e si è dedicato al grande numero: molte proiezioni,
ogni giorno, anzi più volte al giorno; molte sale di proiezione di
tutte le grandezze e le qualità; giganteschi capitali; tutto un mondo
di persone, di organizzazioni, di apparecchiature, di tecniche. Come
conseguenza di tutto ciò una produzione di massa, con tutti gli effetti
che le sono propri.
Così chi possiede qualche esigenza di cultura ha
l'impressione che il cinema non si meriti una particolare stima. Ciò si
rivela anche in sintomi che non ingannano. Mentre il teatro esige dai
suoi frequentatori una « forma » — abito scelto,
atteggiamento in qual-
134
che modo solenne-—il frequentatore delle sale
cine-matogratiche si sente libero da simili obblighi. Vi entra con il
vestito della strada, entrando si tiene spesso il cappello in testa; nei
Paesi latini perfino si fuma durante la proiezione. In tutto ciò si
tradisce una disistima che deriva non da princìpi e da intenzioni, ma
dalla sicurezza che è propria del sentimento involontario del rango che
il cinema occupa.
In una riflessione di principio come questa, dobbiamo
anzitutto interrogarci circa il nucleo essenziale del fenomeno.
E per prima cosa, in vista d'una sua comprensione da
dentro, donde derivi il suo « valore scadente ». Sarà una buona
occasione per mettere in luce con tutto rigore i suoi aspetti negativi.
Ed io vorrei pregare di concedermi lealmente spazio per tale critica. La
sua intenzione vuoi essere positiva, non vuoi essere critica per amor di
critica. Bisognerà allora, partendo dallo stesso punto, interrogarci se
non ci siano nel cinema possibilità di prestazioni autentiche e, se
sì, di qual genere siano.
Il punto critico sembra consistere nel rapporto fra la
realtà e la sua trasformazione fantastico-artistica, quale si ritrova
fin dal principio nel cinema.
Arte non è realtà1. L'arte afferra un
aspetto del mondo, lo elabora per attingere la sua essenza — qualcosa
d'essenziale in essa — e ce lo rende nello spazio irreale della
rappresentazione. Ci sono naturalmente nell'opera d'arte elementi di
realtà; il co-
1
Cfr. a tal proposito R. guardimi, Vber das Wesen des Kunstwerks,
Tubingen 1952, p. 41 ss.
135
lore, la pietra, il suono, la parola parlata o stampata.
Ma ciò che veramente vi si intende sta dietro, nella fantasia, e colui
che guarda, legge o sente l'opera deve trarselo fuori con lo sguardo o
l'udito.
Prendiamo, per esempio, l'arte teatrale, la più vicina
al cinema. Sulla scena sta l'attore, poniamo Joseph Kainz. Egli è un
uomo reale e nella valutazio-ne a suo riguardo è ritenuto per tale. Ma
ciò che veramente vi si intende è Amieto, e costui esiste soltanto
nella rappresentazione. Quanto più grande è l'attore, tanto più egli
farà della propria personale realtà uno strumento, attraverso cui
possano essere visti il carattere e il destino della figura poetica.
Naturalmente resta sempre qualcosa della persona reale,
qualcosa a volte di assai considerevole; per esempio, quando si tratta
di artisti che, nella figura poetica da essi rappresentata,
rappresentano sempre se stessi. Pensiamo a Eleonora Duse o, con la
dovuta distanza, a Paula Wessely. Lasciamo stare qui il problema se in
tal caso esse rappresentino la propria esistenza empirica o la sua idea,
sempre posta come compito, mai realizzata. In ogni caso la tensione fra
realtà e rappresentazione resta circoscritta alla persona dell'attore o
dell'attrice. Anche la scena come tale ha i suoi elementi di realtà: lo
spazio, le apparecchiature usate, ecc. Il numero delle quali è però
relativamente piccolo. L'intero arrangiamento scenico è tanto migliore,
quanto più sobri sono i mezzi con cui si rende visibile l'irreale sfera
del gioco drammatico. Basti pensare che le più eccelse realizzazioni
teatrali, create dagli artisti massimi e accolte dal più compartecipe
dei pubblici, cioè il teatro greco e shakesperiano — ma anche il
teatro classico dei Francesi e dei Tedeschi — hanno lavorato con un
minimo di accessori. Chi voleva davvero
136
vedere, doveva essere in grado di evocare dentro di sé
il contenuto drammatico.
Nel cinema le cose stanno al contrario: c'è in esso per
principio un massimo di realtà.
Lo spazio che vi viene mostrato non è la scena
artefatta, ma sono gli esterni reali: della natura, della città, degli
edifici. Grande successo hanno sempre i films che portano attraverso
monti e campagne, selve e deserti, sul mare e nel cielo; che ci
conducono in città, castelli, abitazioni e giardini; in fabbriche,
ospedali, ristoranti, prigioni, ecc. In tutto ciò si realizzano i moti
egualmente reali del viaggiare, cavalcare, volare, tuffarsi; appaiono
uomini in tutte le forme della vita personale e sociale; realizzano le
loro prestazioni culturali; si rivelano le situazioni della società:
insomma una immensa massa di realtà. Senza dubbio vi operano anche
delle alterazioni: con il modo in cui paesaggi e luoghi vengono scelti e
collegati all'azione, con la logica secondo cui le persone e i fatti
vengono diretti, ecc. Il regista ha il compito di disporre la materia
della realtà in modo che lo spettatore possa cogliervi quel carattere e
quel destino di cui si tratta. Ma tale trasformazione viene di regola
realizzata in forma assai imperfetta. Per lo più c'è là una vasta
massa di realtà immediata in cui, come una tenue macchia, gioca
qualcosa di artìstico.
In verità questa frazione artistica viene a stento
notata. Ciò che il pubblico cerca nel cinema è la vita reale, solo un
po' « migliore »: la vastità del mondo in luogo dell'angustia della
propria esistenza;
gente vestita bene invece che miseramente; ricchezza al
posto delle proprie restrizioni ed emozioni vivaci al posto della
monotonia quotidiana. Il contenuto più profondo dell'avvenimento
rappresentato vie-
137
ne solo raramente afferrato; lo si nota dall'apatia
spirituale del pubblico, dalle sue risate fuori posto, ecc. La
dimensione veramente artistica — la costruzione dei fatti, la
condensazione degli eventi, le allusioni e gli intrecci, il rivelarsi
dell'uomo e delle cose — viene appena e spesso non viene affatto
avvertita dal pubblico, che normalmente frequenta il cinema, Esso vuole
vedere semplicemente la realtà immediata: il più possibile abbondante,
forte, eccitante e indiscreta.
Di conseguenza si ebbe un molto discutibile progresso,
quando il parlato si aggiunse all'ancora severo film muto. Poi venne il
colore, poi la terza dimensione e il cinerama. Cosicché ora lo
spettatore ha l'impressione di trovarsi proprio in mezzo alle cose e
alle persone rappresentate.
Quanto grande sia il peso della realtà nel cinema, si
rivela paradossalmente proprio quando le cose proiettate non sono reali.
Per esempio, si costruisce un edificio di carta in miniatura e si
fotografa in modo che appaia come un vero castello. Ciò che vi si
mostra, è dunque proprio il contrario d'uno scenario teatrale.
Quest'ultimo non intende illudere, ma offrire un segnale alla facoltà
immaginativa dello spettatore. La cosa è quanto mai chiara nel teatro
di Shakespeare, dove, per esempio, sulla sinistra della scena sta un
cartello con su scritto; « Qui è la selva ». Il cartello esige dallo
spettatore che con la sua fantasia si crei l'immagine d'una selva;
invece il modello di carta deve suscitare l'impressione che là ci sia
un reale castello. Dunque realtà illusionistica.
La stessa cosa vale per Io più a riguardo dei trucchi.
Se vedo bene, essi non hanno il significato di
138
mezzi per stimolare l'evocazione, ma illusorie
intensificazioni della realtà.
Da qui dipende la incapacità del cinema di suscitare il
senso del mistero. Quando Amieto vede sulla scena lo spirito di suo
padre, si sente l'arcano inquietante. Ma non perché vi avviene qualcosa
di orripilante, bensì il senso di arcano timore emerge dall'elemento
poetico della lingua, dai gesti degli attori, dalla situazione
angustiante, cioè da genuine sorgenti artistiche. Quando invece nel
cinema occorre creare l'atmosfera dell'arcano sinistro, ciò si fa per
mezzo di trucchi, i quali simulano lo sconvolgimento delle dimensioni.
Dunque non un vero mistero evocato, ma realtà che simula un falso
mistero. Par-ticolarmente istruttivo in questo senso è il film Or-feo
del regista Jean Cocteau, in cui dovrebbe emergere il mistero della
morte. In verità egli aggiunge intellettualisticamente effetti sinistri
alla realtà immediata dopoché a tale realtà ha anteriormente levato
la serietà della verità per mezzo d'uno scetticismo che tutto pervade.
Perciò un film riempito da una tale artificiosa realtà non è neppure
favola.
La favola sta immersa tutta quanta nella fantasia
contemplativa. E precisamente in una speciale tanta' sia; in una
fantasia toccata dal mistero dell'esistenza, fidente, in qualche modo
credula, la fantasia del bambino, o del « fanciullino » nell'adulto.
La favola erige un mondo che, in altri rapporti, si profila come quello
reale. In esso il bene è non soltanto la norma del dovere, ma anche,
anzi direttamente, la legge dell'essere: l'uomo buono è anche quello
bello o lo sarà; l'uomo nobile riceve onore; il cuore religioso ha
potere sull'esistenza; e se anche le cose vanno a volte così male per
la principessa, essa arriva un bei giorno senz'altro allo splendore. Ma
tut-
139
to ciò non è illusione, bensì promessa e fede. Non
deforma la realtà, ma aiuta, attingendo al regno del sogno, a
sostenerla. Invece il cinema scompiglia i criteri. Cuoce realtà e
fantasia in un cattivo miscuglio dove l'una e l'altra si corrompono. In
tal modo Io spettatore medio esce regolarmente insoddisfatto dalla sala,
critico contro l'esistenza, perché, sotto l'influsso del film, che ha
visto, non si ritrova giustamente in nessuno dei due ordini.
Quanto sia estraneo al cinema il mondo della vera
favola, lo si esperisce ogniqualvolta ci si lascia indurre a vedere un
film che ha per contenuto appunto una favola. È ogni volta una
distruzione; poiché, al posto del mistero in cui si muove il sogno del
bambino, o al posto del mito in cui, inconsapevolmente, si trasferisce
il sogno dell'adulto, subentra il trucco, cioè la realtà contraffatta.
Qui non fanno eccezione cose graziose e ricche d'invenzione come i films
di Walt Disney. Anch'esse distruggono l'elemento di cui vive la favola.
Da tutto ciò deriva il massimo pericolo morale del
cinema: non cioè la sua immoralità, ma la sua falsità.
Non è la irrealtà, che sarebbe in ordine. Amieto non
è una figura reale ma poetica: è quello strano uomo con il suo destino
così tragico e così commovente che il genio di Shakespeare ha creato.
Egli è però « vero » perché rivela l'esistenza; ed egli lo fa in
modo tanto più profondo quanto meno lo spettatore viene indotto nella
tentazione di identificarlo con qualche personalità empirica, meno che
tutte con la propria. Ma proprio questo effettua il cinema. Esso offre
realtà, ma realtà corretta e adattata secondo i gusti del pubblico.
14Q
Qualcosa di proprio brutto dunque: realtà senza
verità. Mondo fatto di materia reale ma senza ordine in se stesso. Un
mondo che fa così pensare:
Così sarebbe se ti fosse permesso quello che
desideri..., se arrivassero le persone che ci vogliono e ti prendessero
con sé..., se si presentasse la chance giusta...
Nel mondo del cinema oggi corrente tutto è inautentico.
Il sentimento diventa sentimentalismo; il tragico disgrazia. La
felicità non è più un dono della grazia, ma una vincita al lotto
della vita. La sua logica non è quella della genuina realtà, ma non è
neppure quella della vera rivelazione poetica, bensì quella dei più
banali desideri, non controllati ne dall'onestà ne dal coraggio. E
tutto ciò deve produrre conseguenze ben cattive, se si pensa quanti
sono coloro che derivano il proprio ideale umano e i propri concetti del
significato dell'esistenza dalle vicende cinematografiche.
Solo in questa atmosfera di non-verità anche le
seduzioni sessuali del cinema acquistano il loro carattere deleterio. Il
fondamento d'ogni etica è la verità. In essa trova il suo orientamento
il giudizio morale. Ma qui non c'è verità, bensì inautenticità in
tutto. Pensieri, sentimenti, bellezza, coraggio, successo, passione,
svolgimento dei fatti, tutto nel film corrente è inautentico. Così la
coscienza perde i suoi fondamenti e diviene incapace di giudizio.
Un altro problema nasce dal rapporto del cinema con la
tecnica. Ripeto che noi dobbiamo prima porre in rilievo i lati negativi
del films affinchè una
141
sua eventuale valutazione positiva non abbia ad essere
vaniloquio idealistico.
Nel teatro la recitazione è ogni volta nuova grazie
all'azione dell'attore. Naturalmente essa è pure preparata con lo
studio e l'esercizio. Inoltre la ripetizione del dramma reca con sé il
pericolo della routine, allo stesso modo che il singolo attore
stesso elabora nel corso della sua vita tutta una serie di modi di dire,
di movimenti e di effetti che egli di continuo applica recitando.
Ciononostante ad ogni recita è possibile che l'ispirazione si rinnovi e
che la forma espressiva riesca diversa. Se si vede più volte lo stesso
dramma, quanto più l'attore è grande, tanto più forte è ogni volta
l'impressione che il gioco drammatico abbia luogo questa sola volta.
Nel cinema invece la meccanicizzazione è essenziale.
Nulla è qui affidato all'ispirazione, giacché l'immagine viene appunto
fissata meccanicamente e poi sempre in eguai modo meccanicamente
proiettata. Perciò tutto deve essere elaborato fino nei minimi
particolari. Bisogna ogni volta raggiungere idealmente lo stato d'una
perfezione definitiva. Di conseguenza la sua originalità si fa
discutibile. Da aggiungere ancora il fatto che la ripresa
cinematografica si attua solo per frazioni minime d'immagine e perciò
la grande unità dell'azione può imporsi con più difficoltà che non
nel teatro.
Se si va più volte a vedere un film, si contempla al
solito punto esattamente il solito gesto, si sente l'identico suono, si
resta colpiti dallo stesso fatto sentimentale, un fatto che forse per
sua stessa natura è qualcosa che si può verificare solo una volta.
Allora si tradisce quanto qui venga bloccata quella che per sua essenza
dovrebbe invece sempre sgorgare dalla libertà: la vita. Tutto ciò
diviene ben
142
presto insopportabile; e così nel cinema risulta
impossibile fare ciò che solo negli altri casi introduce davvero in
un'opera d'arte: vedere e sentire a più riprese, familiarizzarsi.
Sembra che esso sia essenzialmente di carattere eccitante, impostato
sull'effetto e sul sensazionale. Quanto penetri in profondo la tecnica
nel nucleo del processo è dimostrato in modo particolarmente
imbarazzante dalla sincronizzazione. Nell'uomo la parola viene dallo
stesso centro vivente come l'aspetto del volto, il gesto e l'azione. Il
parlare e il fare sono nell'uomo « sincronizzati », ma
l'identico impulso di fondo — una gioia, la gioia di quest'uomo in
quest'ora della sua vita che non ricorrerà più —. Nella
sincronizzazione invece agiscono due centri: quello dell'attore da cui
deriva l'azione, e quello del parlatore che pronuncia le parole. Il
secondo viene sovrapposto al primo, cosicché i due centri non possono
mai diventare uno. Perciò si ha, anche nella più abile delle
prestazioni, l'impressione d'un dire che scorre parallelo a un gesto o a
un suono, ossia l'impressione di una declamazione.
Senza parlare poi della penosa impressione che nasce
quando una parola, per esempio, tedesca contrasta con l'impostazione
della bocca nell'espressione inglese o francese; o quando le
proposizioni vengono rabberciate in modo tale che le cose in qualche
modo vi corrispondano.
Chi si pone in fase critica davanti a simili films è
sempre tentato di dire: Qui si rivela l'inferiorità di valore di tutto
il fenomeno. Il cinema sta a livello così basso, e la capacità del
pubblico di percepire genuini valori viene così scarsamente presa in
considerazione che tutti questi inconvenienti si accettano
tranquillamente come tipici e del cinema
143
e del suo pubblico. Il pubblico protesta perfino, quando
a volte « non capisce ». Si da per già scontata la deformazione di
questo complesso filmico così dissociato, purché si possa
materialmente capire il parlato. Anzi, non si avverte affatto la sua
innaturalità, perché a un tale pubblico non interessa l'arte.
C'è, in rapporto a tutto ciò, un altro fatto. Non è
una novità se io qui richiamo l'attenzione sulla crisi in cui è
entrata la capacità di vedere e di sentire dell'uomo in conseguenza
della evoluzione tecnica. Quanto al sentire bisognerebbe discorrere
piuttosto del fenomeno della radio. Limitiamoci al vedere.
Si dice che l'uomo d'oggi non vuole soltanto pensare ma
anche adoperare gli occhi. Ecco perciò la tecnica fotografica e
illustrativa del nostro tempo: le riproduzioni di paesaggi, di fatti
culturali, di opere d'arte, di figure umane. Tutto ciò insegnerebbe a
vedere meglio, a immaginare più vivacemente, renderebbe l'uomo più
ricco nel suo possesso del mondo. È vero?
Temo di no. « Vedere » realmente significa essere
sensibili per le qualità caratteristiche degli oggetti:
significa venire colpiti dalla loro essenza; afferrare
come quest'essenza si esprime nella sua struttura, come vi si esplica.
Ciò non può naturalmente avvenire in condizioni scelte ad arbitrio,
non in fretta, non spesso, non in rapida successione. Ma è proprio
questo che la tecnica illustrativa si aspetta dal nostro occhio. Essa lo
sopraffa con una moltitudine di immagini, fa succedere rapidamente le
impressioni le une alle altre; ce le presenta in acuti contrasti. Senza
parlare di quell'aspetto d'eccitazione e di sensazionalismo con cui il
tutto viene condito, e
144
ciò allo scopo di evitare la noia, la quale noia però
sappiamo bene che può nascere unicamente perché apriori si punta
soltanto su di un'emotività superficiale. L'effetto è che colui che
vede, vede in realtà non sempre più ma spesso meno. Qualcosa di simile
si verifica a riguardo di quanto s'è detto sulla capacità evocativa:
il vedere diviene più passivo, più ottuso, più tenue e realizza
sempre meno quanto appartiene al nocciolo del vero vedere, cioè
l'intuizione dell'essenza che si manifesta nell'elemento individuale.
Anche il cinema agisce in questa dirczione. È
sen-z'altro chiaro che esso si rivolge soprattutto all'occhio. È
impostato su piano ottico ancora più del teatro, dove la parola avrà
sempre un'importanza più grande che nel cinema. Pure se la parola
filmica si libera dal modello del dramma, anche se si potrà definire in
che cosa consista la sua qualità specifica e il dialogo filmico potrà
allora svilupparsi come specifica forma d'arte, anche allora il
baricentro del cinema sarà di carattere ottico. Si potrebbe così
essere dell'opinione che esso verrà ad incrementare la capacità di
vedere come rapporto al mondo. Ma se ne può dubitare. Non appena con il
termine « occhio » si intende qualcosa di più di una macchina
fotografica organica, e cioè il momento soggettivo nella essenzialità
del mondo, bisogna dire che il cinema gli nuoce. Chi vede spesso film
con paesaggi, una volta che si arresti a soggiornare in un vero, non
riesce quasi più a percepirlo nella sua realtà. Chi è abituato a
vedere al cinema, nei documentar! giornalistici, il continuo scorrere
davanti ai suoi occhi di corse di cavalli, competizioni pugilistiche,
celebrità, avvenimenti pubblici, incidenti, mode, animali da
esposizione in rapida successione, e accompagnate
145
dal gergo del reportage, sarà poi capace di «
vedere » volti, cose, fatti soltanto con le impressioni fugge-voli
della cinematografia.
Ci sarebbe dell'altro ancora da dire sugli aspetti
negativi del fenomeno filmico, ma può bastare ciò che abbiamo detto.
Il risultato sembra sia che il cinema, a causa del suo rapporto con la
realtà e con la tecnica, viene condannato a un'ambivalenza.
Esso sarebbe cioè soltanto un fenomeno di medio-ere
valore, e la cosa più pulita sarebbe che esso si contentasse
semplicemente di esserlo. La grande massa dei suoi frequentatori —
cioè di coloro che sostengono il fenomeno — sembrano condividere
sen-z'altro questa opinione. Essi evidentemente non vogliono
nient'altro, perché non sono ne disposti, ne capaci di volere di più.
Se avessero dovuto propriamente, e magari in forma' a loro stessi
inconscia, volere di più, allora ne perderebbero l'abitudine. Allo
stesso modo che coloro i quali vanno alla scuola del cinema a lungo
andare perdono la capacità di trovare il teatro degno di essere visto,
e tanto meno di comprenderlo realmente.
Coloro invece che desiderano di più, perché hanno la
volontà e la capacità di realizzare di più, considerano del tutto
conscguentemente il cinema come qualcosa di estraneo a simili loro
aspirazioni. Si rifiutano di ammetterlo nella sfera della vera arte, vi
vedono invece nient'altro che una pura distensione, ne usano e insieme
lo disistimano. Se veramente vogliono qualcosa di autentico, vanno a
teatro 1.
1 Una
informazione privata mi assicura che dopo l'avvento del cinematografo è
in aumento statisticamente il numero di rappresentazioni di valide opere
teatrali. Il cinema libera il teatro dal peso di esigenze di scarso
valore,
146
Abbiamo detto proprio tutto? Evidentemente non ancora,
poiché esistono films di altro genere e frequentatori di films che in
essi cercano ben altro.
Nasce così la domanda se questi films e questi
frequentatori rappresentano fenomeni marginali o se appartengano
all'essenza del fenomeno stesso. Anzi addirittura se in essi non venga
finalmente in luce — nel qual caso tutto il nostro discorso verrebbe
capovolto — il significato autentico del cinema.
E qui dobbiamo assolutamente osservare che i punti di
vista che oggi determinano la maggior parte del fatto cinematografico
sono di natura puramente economica. Il cinema appartiene principalmente
all'industria di consumo e non vuole altro, in fondo, che casse piene,
ed è perciò legato ai desideri più quotidiani, anzi, fino a che
almeno la legge e la polizia lo consentono, più volgari del pubblico.
Chi dunque intende giudicare il fenomeno
cinematografico, deve distinguere fra il suo stato di fatto e le sue
possibilità essenziali in modo incomparabilmente più drastico che a
proposito del teatro. Il teatro dalla sua origine è determinato dal
bene. Si incontra senz'altro il buono e l'essenziale in esso, e il
mediocre si caratterizza già per se stesso come scarto. Il cinema
invece è per gran parte semplicemente scarto, e l'essenziale bisogna
mettersi a cercarlo. E se la conoscenza di questo essenziale, dunque una
estetica e una etica del cinema è più difficile per la ragione
indicata che non per il teatro, il quale si è già storicamente
definito sulla base del bene, anzi dell'ottimo, anche la concreta
critica e pedagogia del cinema sarà assai più difficile. Essa si
troverà di contro un blocco di potenza economica,
147
di pigrizia e di bramosia di piacere, per
contrastare il quale occorrerà altrettanta superiorità che
risolutezza.
Esistono film da cui si riporta una forte impressione di
vera rivelazione dell'esistenza. Pensiamo al film americano Labbra
suggellate, il quale mostra come un medico insegna a una ragazza
sordomuta la lingua dei segni; come essa in tal modo si desta alla vita
dello spirito e diviene una persona umana. Qui non c'è umanità
fotografata, ma plasmata. Un'essenza si manifesta e un destino si
schiude in un modo impossibile a un puro e semplice reportage di
immagini. E tutto l'insieme si conclude in un contorno di perfezione
espressiva in cui si può avvertire l'« esistenza ».
Tutto ciò però in modo diverso dal dramma teatrale. Ci
si sente più vicini, più direttamente inseriti nella vicenda. Vi è
operante una specie di precisione scientifica. I primi piani dei volti,
per esempio, non soltanto creano un effetto di mestizia, di paura, di
bellezza, ma dicono: Guarda bene! Questa è la mestizia, questa la
paura, questa la creatura umana. Tutto ciò può divenire importuno;
troppo prossimo, troppo esatto. Assai spesso lo diviene anche. Ma il
film citato dimostra che ciò non avviene di necessità; dimostra che
qui si da piuttosto una possibilità di portare lo spettatore in una
propria e singolare immediatezza con la realtà umana, senza per questo
divenire reportage, ossia pura riproduzione di realtà.
Nel film citato il gioco drammatico si limita a
relativamente poche persone e vicende. Ce ne sono però altri più
ricchi di azione, come ad esempio il film recentemente programmato dal
titolo Distretto di polizia 21. Il solo fatto che lo si ricorda,
è un se-
148
gno del suo valore; giacché la regola è che un film,
una volta veduto, si dimentichi. Ricordando invece questo, si nota
quanto sia buono. Si tratta della battaglia d'un ispettore di polizia
contro il crimine. Ma si tratta pure d'un suo problema personale, in
quanto l'odio contro l'ingiustizia gli impedisce di vedere, in colui che
la perpetra, l'uomo. Solo la morte gli apre lo sguardo. Tutto ciò si
verifica in un distretto di polizia, con tutto il viavai e il disincanto
che gli sono propri, ma tutto vi è autentico. E non soltanto giusto nel
senso del reportage, ma rivelante . da dentro.
Perché questi due film sono buoni? C'è da dire
anzitutto che il materiale realistico vi è circoscritto entro
relativamente brevi confini e che vi recitano buoni attori. Ma
soprattutto la trasformazione artistica della realtà riesce in maniera
stupefacente. Paesaggi, strade, viaggi; un villaggio con l'angustia
delle sue relazioni di vicinato, una fattoria con il suo lavoro e una
stanza del distretto con il suo andirivieni: tutto rimane nel campo
vitale dei personaggi e diventa vero elemento dell'azione. In tal modo
il rapporto è diverso da quello di una scena di teatro. Qui reale,
essenzialmente, è soltanto l'attore. E non dimentichiamo che i Greci e
i Giapponesi limitano ulteriormente perfino la realtà di questi con
l'uso delle maschere; che le forme più primitive della drammatica
occidentale, cioè della sacra rappresentazione, le prescrivono la
stilizzazione liturgica; che anzi, come ci hanno detto Kleist e Riike,
l'attore perfetto sarebbe propriamente la marionetta!
Nel cinema le cose sono essenzialmente diverse. La realtà
dell'attore viene sottolineata in quanto tale;
il primo piano ha anche questo scopo. Luoghi e ambiente,
la grettezza della fattoria dove vive la sor-
149
domuta e la confusione del distretto di polizia dove si
svolge la tragedia, sono là egualmente come realtà. Ma tutto vi è
trasfigurato, proprio come gli stessi personaggi. Si direbbe che anche
la realtà recita insieme.
Qui si delinea dunque una forma di azione drammatica che
non è ne un surrogato del teatro, ne una sua specie degenere, ma
qualcosa di specifico.
Si potrebbe obiettare che i film sunnominati sono nati
prima come dramma teatrali, e perciò il loro valore dipende
propriamente dal teatro. Ma tale valore si ritrova anche in film che non
soltanto oltrepassano ogni possibilità teatrale con la vastità
dell'azione, il numero delle persone e la ricchezza degli elementi, ma
che abbandonano consapevolmente e decisamente lo stile scenico, come ad
esempio Ladri di biciclette. Ciò che vi si vede e che resta
nella memoria sono anche — anzi vorrei dire: soprattutto — le strade
e le piazze della città. Esse si fondono in un'unica, sconsolata
realtà: la « strada » in quanto contrapposta alla fabbrica e alla
casa. Costituisce uno degli elementi in gioco. Rappresenta l'altro polo
di quella realtà esistenziale, il cui primo polo è costituito dalla
disperata ricerca dell'uomo e dal muto trotterellare del bambino insieme
con lui. Il correre delle persone e le strade senza fine sono insieme
l'espressione di ciò che qui si svolge:
la penosa tragedia d'un'esistenza miserabile. E la
potenza di trasfigurazione artistica è così grande che le strade fanno
ciò che sulla scena fanno soltanto l'attore e i rari accessori: «
recitano insieme » anch'esse.
Perfino in azioni drammatiche grandiose, con molti
personaggi e grandi masse popolari, la realtà e le figure drammatiche
possono conseguire questa par-
150
ticolare unità. Alludo ai film russi del primo periodo;
alla Kermesse eroica; a Les enfantes du Paradis;
o a Monsiew Vincent. La massa della realtà
vi è potente. Paese, città, uomini, cose, fatti riempiono
10 schermo. Ma non si ha mai l'impressione che tutto
ciò sia là nella forma del dato immediato o del:
puro rapporto fotografico. È trasfigurato dappertutto.
Sono in ogni momento elementi del gioco, il quale in verità in
ciò che gli è proprio è appunto irreale, rappresentazione, fantasia.
11 mondo diviene fantasia, e la fantasia diviene mondo.
Si realizza un singolare incontro, non dissimile dalle grandi azioni
pubbliche, attraverso il cui cerimoniale lo Stato presenta se stesso 1.
In questo senso sembra che si affacci nel cinema
qualcosa di genuino e di specifico. Esso consiste in un incontro che
soltanto là si può verificare fra realtà e fantasia; nella
possibilità che soltanto là si offre di introdurre nel dramma il mondo
con tutta la ricchezza dei suoi fenomeni o, viceversa, di dilatare il
dramma, il gioco scenico nel mondo del pae-
1 Da
questo punto di vista ci sarebbe da ricordare anche il giardino
autentico. Nelle sue forme create dalla fantasia del giardiniere si
compenetrano la vita umana e la natura. Questo principio si esplica in
forma potente nel parco; ancora più nella plastica del paesaggio così
sovranamente realizzata per esempio dal barocco. Anche qui la realtà
entra nello svolgersi del gioco. Uomo e natura conducono insieme il
gioco della esistenza « colta ». La questione chi sia qui che più
precisamente gioca e quale sia il significato di tale fatto ci
.porterebbe molto innanzi nell'analisi di ciò che significano rapporto
con la natura e struttura della società.
151
saggio, delle cose, della società umana e dell'opera
umana.
Per riprendere un momento quanto già s'è detto, si
potrebbe essere dell'opinione che il cinema sia il surrogato del
teatro, impostosi come necessario in forza dei grandi spostamenti
sociologici ed economici. Il teatro sarebbe legato ormai agli strati
sociali superiori; ciò almeno nell'età moderna, dopoché il teatro
pubblico dell'età classica e le sacre rappresentazioni del Medioevo
sono scomparsi. Invece il cinema sarebbe il teatro dei molti. Quanto ci
sia in ciò di vero, non sembra ancora ben dimostrato;
ma esteticamente tale opinione è falsa. Il cinema non
è un surrogato del dramma scenico, ma qualcosa di per se stesso
inconfondibile.
E non è neppure una sottospecie degenere del teatro.
Naturalmente ha appreso molto da esso, cioè dalle forme finora in voga
dello « spettacolo »; molti artisti sono arrivati al cinema dal teatro
o hanno operato contemporaneamente in ambedue le sfere. Ma il gioco del
cinema è diverso da quello del teatro e si evolverà caratterizzandosi
sempre più decisamente dai princìpi suoi propri.
Una delle grandi possibilità offerteci — in bene o in
male — dalla tecnica consiste nel fatto che l'uomo con essa può, anzi
deve, affacciarsi su un campo di vita e di azione assai più vasto. È
il campo universale della terra, inteso il termine non solo
geograficamente e politicamente, ma anche umanamente e operativamente.
L'uomo d'oggi non può far altro che pensare e sentire sempre più
globalmente. Perché la vita della terra si restringe a vista d'occhio,
e tutto ormai dipende dal problema se l'uomo è in grado di porre bene
il piede su questo campo del mondo; se egli sa intendere i
rapporti operativi che
152
qui stanno in gioco, ne assume la responsabilità che
essi gli impongono -e sviluppa le iniziative che gli vengono richieste.
Forse il cinema è una delle forme in cui tutto ciò
può verificarsi su piano artistico. E il suo carattere come opera
d'arte dipenderebbe allora dal fatto se tali collegamenti universali
verranno esattamente e nettamente riconosciuti. A meno che il concetto
di opera d'arte, che ci è ora familiare, non abbia a dimostrarsi
improprio e se ne debba reperire un altro. Un concetto che esprime che
qui si tratta d'una forma drammatica, in cui l'energia artistica
dell'uomo, nei suoi aspetti visivi, sensitivi, immaginifici, prende
possesso della realtà del mondo come tale. Questa presa di possesso del
mondo nel gioco drammatico dovrebbe divenire uno dei presupposti della
tecnica, la quale ne applicherebbe tutte le possibilità. In ciò
consisterebbe comunque la differenza del cinema rispetto al teatro.
Naturalmente anche il teatro utilizza le possibilità
della tecnica; ma soltanto nel senso d'una intensificazione e d'un
miglioramento, pressapoco come noi oggi al posto della lampada a
petrolio usiamo quella elettrica. Ma il teatro non dipende
essenzialmente dalla tecnica. Nessuno, che abbia capito cosa sia
spettacolo, dirà mai che il teatro moderno con tutte le sue
apparecchiature per l'illuminazione e i movimenti di scena sia, come
tale, migliore di quello di Goe-the o di Racine, o perfino di quello di
Shakespeare. Si potrebbe piuttosto parlare d'una minaccia — si pensi
agli esperimenti di Reinhardt.
Invece il cinema dipende, come tale, dalla tecnica e si
appropria di continuo di ogni possibilità che essa gli offre. Ciò vale
anzitutto per la fotografia che lo ha in sen-
153
so assoluto fondato, anche e particolarmente nei suoi
specifici metodi del primo piano, della dissolvenza, della prospettiva
intcriore, della ripresa al rallentatore o all'acceleratore, ecc.,
grazie alle quali si rendono possibili forme rappresentative che non
hanno più nulla a che fare con il vero teatro.
Ciò vale per le nuove conquiste tecniche
dell'illu-minazione, del movimento, della esplorazione degli spazi aerei
e subacquei, della macro e microscopia, ecc. Anche il significato del
trucco dovrebbe essere ripensato da tale punto di vista, affinchè il
film si stacchi dall'illusionismo da prestigiatore, cui si avvicina
spesso in modo così pericoloso.
In tutto questo contesto dovrebbero essere collocate le
varie questioni circa lo stile, allo scopo di avviare il cinema dal suo
caotico sperimentalismo verso una responsabile creazione di forme.
Da non dimenticare la funzione di una vigile, giudiziosa
e coraggiosa critica cinematografica che non si lascia influenzare ne
dal pubblico, ne dal triumvirato « produttori — distributori —
esercenti ». Il suo compito è così urgente — e così
difficile — quanto la costruzione d'una strada attraverso la giungla o
quanto la rimessa in ordine di una alimentazione generale compromessa
dall'ignoranza e dall'assenza di scrupoli. Vero è che essa dovrebbe
prendere il suo compito assai meno alla leggera di quanto normalmente
avviene.
Se tutto ciò fosse vero; se penetrasse con chiarezza
nelle coscienze e venisse assunto come un vero compito, allora si
potrebbe forse anche intuire che parecchie delle qualità negative che
si manifestano nel cinema nascono da un malinteso, in quanto si con-
154
tinua a vedervi un teatro che ha perduto il suo stile.
Ma tutto il problema avrebbe bisogno di altre considerazioni che qui non
è più possibile esporre.
155
IX
IL CORSO DELLA STORIA E IL COMPITO DELLA FEDE
Un'esperienza personale mi ha portato a considerazioni
forse utili all'intelligenza della nostra situazione culturale e
religiosa. È un'esperienza comunissi-ma, ma forse proprio per questo
tanto più convincente, e io vorrei in questo saggio partire da essa.
Un'automobile era stata portata a riparare. Quando il proprietario
entrò in discorso con il capo dell'officina, il mio sguardo cadde su un
meccanico occupato a un'altra macchina. Questa era stata sollevata sopra
una piattaforma mobile; l'uomo lavorava sotto di essa in tranquilla
sicurezza e comodità. Questo spettacolo fece su di me una forte
impressione. Un senso di libertà emanava da esso. Una volta bisognava,
per simili lavori, trascinarsi strisciando sotto la macchina ed eseguire
penosamente la riparazione;
ora invece la pesante macchina era stata sollevata in
alto premendo semplicemente un bottone e si trovava all'altezza
desiderata perché l'operaio potesse fare tranquillamente il proprio
lavoro.
Allora io ho sentito quale libertà l'uomo si conquista
con ciò che si chiama « tecnica ». Prima egli era, ad ogni pie'
sospinto, vincolato da necessità di fatica fisica; adesso tutte le
fatiche vengono una dopo l'altra eliminate e vengono messe a
disposizione dell'uomo energie prima insospettabili. Mi si presentò
agli occhi intcriori l'immagine di un'esistenza in cui l'uomo non deve
più « servire », ma disporre e « co-
157
mandare », essendo ovunque pronte apparecchiature alle
quali egli attribuisce i compiti con facili gesti. Prima egli era
aggiogato alla natura; ora si trova già di molti punti al di sopra di
essa e vi si troverà in sempre più larga misura. Prima egli doveva
seguire faticosamente con le proprie forze le indicazioni della natura,
sempre nel pericolo dell'imprevisto; ora è già divenuto in gran parte
suo padrone e lo diverrà sempre più; calcola, ordina i risultati
desiderati e ne dispone. In tal modo si va alterando nel modo più
profondo la maniera con cui egli sperimenta ed attua il suo proprio
essere, la sua posizione nel mondo.
Soprattutto egli si sentirà in possesso di una immensa
potenza. Si sentirà capace di dominare la natura a cui finora era
soggetto; e ciò in misura sempre più precisa, ovvia e leggera.
Possederà una coscienza sempre più sicura di potersi « prendere »
ciò che prima la natura gli « garantiva », anzi di poterselo « fare
» da sé. Per mezzo della conoscenza scientifica delle strutture della
natura e delle sue leggi, egli avrà l'impressione che la natura non sia
un regno arcano in cui si debba muovere con grande rispetto ma
semplicemente un insieme di materiali e di energie di cui può disporre
in maniera sempre più completa.
Da tutto ciò deriva tuttavia un'altra conseguenza. Il
rapporto di servizio in cui egli stava verso la natura significava pure
che egli era da essa protetto; la padrona era anche la tutelatrice. La
sua vita era ordinata dalle leggi naturali; e dai limiti naturali
contenuta nelle misure del possibile. Tutto ciò cambiò,
m
e ciò che in un senso era libertà divenne in un altro
senso esposizione al pericolo. Anzitutto perché le imprese, ora
divenute possibili, importavano un rischio sempre più grande; in
secondo luogo, e soprattutto, perché andarono perduti esistenzialmente
per l'uomo, nel suo sentimento dell'esistenza, dell'essere suo proprio e
dell'attività quel sostegno, quella coscienza dell'ordine e della
misura che si esprime nel concetto del « naturale ». La sua esistenza
divenne in larga misura arbitraria, e, in un senso ultimo, priva di
misura. Mentre egli diveniva sempre più signore e sempre più sicuro di
poter imporre incontrastata la propria volontà, si ritrovò come in uno
spazio vuoto, appoggiato solo a se stesso. Sempre di più la « natura
» — inteso il termine nel senso più vasto per ciò che esiste « da
sé » e agisce sulla base di leggi essenziali — diventa « cultura
», diventa « tecnica », vale a dire realtà pensata e fatta
dall'uomo. Sempre di più l'uomo passa da un mondo a lui « dato » e
fondante in senso originario in un mondo da lui determinato, «
artificiale ». Questo mondo non gli è più affidato e perciò anche
garantito, da parte di una potenza superiore, come spazio della sua
esistenza, ma è lui stesso che que-to mondo se lo fa e se lo deve
perciò anche conservare, se si vuole che non crolli. Ciò comporta una
faticosa tensione, per la quale è problematico che egli sia a lungo
andare idoneo.
La storia dell'età moderna presenta forse già un
sintomo di tale eccessivo sforzo. In questa età l'uomo occidentale si
è stabilito nella sua autonomia; vale a dire, egli ha innalzata la
pretesa — ma con ciò ha preso su di sé anche il compito — di
esistere sulla base del proprio giudizio, della propria forza e della
propria responsabilità. Tutto ciò però, non posse-
m
dendo ne il grado di essere ontologico, ne l'energia
corrispondenti: egli ha assunto l'intrapresa di esistere assolutamente,
senza essere lui stesso assoluto. Per questo è penetrato nella sua
realtà personale un eccesso di fatica, che l'ha messo in contraddizione
alla propria stessa pretesa e l'ha portato ad abbandonarsi in balìa del
totalitarismo. In quale estensione questa logica esistenziale si
esplichi tutt'ora, fino a qual punto essa conduca a uno sconvolgimento,
anzi a una malattia dell'intimo centro umano, è una questione ancora
aperta.
C'è un'altra riflessione da fare. Un esempio: senza
dubbio l'industria meccanica e chimica ha introdotto nel mondo
dell'economia agricola grandiose agevolazioni di lavoro ed enormi
accrescimenti dei risultati. Però il tessuto dei processi vitali che le
erano anteriormente propri, la sua ricchezza di personalità, la sua
impronta caratterizzatrice, la sua forza crea-trice di storia, e via
dicendo, ora si contraggono ad un numero sempre più piccolo di
operazioni tecniche, organizzative e calcolatrici.
Un altro esempio. Il « lavoro manuale » d'una volta
era faticoso e ben limitato nel suo apporto. Ma esso aveva una sua
specifica impronta che andò perduta nella industrializzazione, che pur
risparmia il lavoro e accresce il rendimento, come andò pure perduta
quella ricchezza di valori personali e sociali che si realizzava appunto
nel fatto che tutto doveva uscire « dalla mano » dell'uomo.
Un'altra cosa ancora: quando si viaggiava nelle
condizioni di traffico di prima, l'essenza del viaggio non consisteva
unicamente nel fatto di trasferirsi semplicemente dal luogo di partenza
al luogo di arrivo, ma anche nelle molte attività ed esperienze di vita
che il viaggio comportava. Lo sviluppo della tecnica
160
del traffico elimina gli ostacoli e i pericoli del
viaggio, la lunga durata; ma anche attenua, anzi in fondo elimina dal
viaggio tutte quelle esplicazioni di energia, tutta la ricchezza e la
profondità delle esperienze che appunto quegli ostacoli rendevano
possibili, così che l'evento stesso e la personalità che si esplicava
in esso s'impoveriscono.
Per mezzo di quanto va sotto il nome di tecnica, l'uomo
si conquista bensì una straordinaria sicurezza, facilità e
molteplicità di produzione e di benessere, ma ci perde quanto a
personalità. Ciò che resta o ne nasce è l'individuo costruttore e
consumatore, la cui struttura vitale diviene sempre più estenuata e
uniforme.
Una ulteriore questione è fino a qual puntò l'uomo del
tempo avvenire sarà in grado di vivere correttamente la sua potenza di
continuo crescente, la sua sempre più grande libertà di disporre, la
sempre più radicale arbitrarietà della sua esistenza.
Avvenimenti come la distruzione di Dresda affollata di
profughi o della città di Hiroshima, in un momento in cui non esisteva
più una reale necessità strategica — indichiamo soltanto questi «
particolari », mentre per sé tutta l'ultima guerra reca lo stesso
carattere di arbitrio delittuoso e insensato — lasciano presagire
quanto i fenomeni dell'uomo « dominatore » possano essere nella loro
intima natura irrazionali, « casuali », o quanto forse dovranno
es-serlo sempre più.
A questo punto mi è balenata un'idea che mi ha
profondamente spaventato. Io avevo pensato che l'uomo moderno vada
avanzando dalla natura verso la pura cultura; che egli cammini dal mondo
delle cose cresciute spontaneamente verso quello tecnicamente costruito
delle macchine e degli artefatti. Che
161
non abbia a questo punto a verificarsi qualcosa di
terribile, e che quella « natura », da lui abbandonata in quella
primitiva forma che le veniva dalla creazione, non abbia a ritornare a
lui in una forma seconda e fatale dalla sua propria stessa opera? Che
non lo debba aggredire, dalle leggi, dai dispositivi finalistici, dai
processi tecnico-funzionali, con una virulenza, anzi con una ostilità
per la quale si può essere tentati di usare la mitica espressione di
una « vendetta dell'oppresso »?
Noi tocchiamo con questo un contesto, a designare il
quale per il momento abbiamo a disposizione solo concetti come quelli di
« danno della cultura », di « malattia della cultura », di «
avvelenamento tecnico » e così via. Il fatto che gli « scarti » dei
processi tecnici — si veda l'inquinamento delle acque e dell'aria,
l'inaridimento dei monti e dei piani, la minaccia pendente su ogni vita
da parte dei prodotti residui della tecnica atomica — sia per
diventare uno dei problemi sempre più difficili, colloca il fenomeno «
uomo » in sempre nuovi problemi teorici e pratici.
Ma c'è di più ancora: che lo « scarto » della
tecnica umana divenga un rischio, sempre più difficilmente dominabile,
per il complesso dell'esistenza umana, rappresenta non soltanto un
paradosso, ma rivela, bisogna proprio dirlo, un carattere apocalittico.
Essa sembra alludere a sconvolgimenti dai quali l'uomo cerca il più a
lungo possibile di distogliere lo sguardo, ma che si accostano sempre di
più e diverranno per lui un giorno una questione di vita o di morte.
Quanto si è detto fin qui viene aggravato dal fattore
« massa » penetrato di recente nella storia. Vi si intende anzitutto
il progressivo aumento della po-
J62
polazione, poi però in genere i grandi numeri. E
dunque, per esempio, il fatto sempre più chiaro, in forza dell'aumento
del fattore democratico, che non solo determinate classi ma tutti ormai
esigono uno standard di vita di continuo crescente e che di
conseguenza tutti i processi economico-sociali aumentano in numero
sempre maggiore: consumi d'ogni ge-, nere, possibilità di
comunicazioni, turismo, informa-."..zioni, attività politica,
s'affermano in misura sempre
più forte; l'istruzione, « la cultura » nel senso
più lar-.;• go viene richiesta in misura sempre più vasta, e via '_.
dicendo. Tutto ciò acuisce l'urgenza incalzante, il ca-';. ratiere
costrittivo della scienza e della tecnica.
Come risulterà in genere chiaro da un'osservazione più
precisa, i tré momenti che si chiamano scienza, tecnica e massa si
presuppongono e si condizionano l'un l'altro. Quasi si vorrebbe dire che
sono i diversi aspetti di un identico fenomeno di fondo, cioè di un
modo di realizzazione dell'uomo. Quanto più i processi scientifici,
sociali e culturali diventano numerosi, tanto più chiare diventano le
loro strutture razionali, e tanto più incalzante la necessità — e
nello stesso tempo anche la possibilità — di chiarirle con una
penetrazione metodica, vale a dire, di dominarle scientificamente. È
senz'altro anche chiaro che il numero crescente dei processi postula un
dominio della macchina, cioè della tecnica, che a sua volta esige e
rende possibile una ulteriore fondazione scientifica.
Tutto ciò conduce verso un'immagine di fondo
dell'esistenza che potremmo in qualche maniera descrivere nel modo
seguente: la molteplicità dei prodotti cresce; aumenta la sicurezza
delle operazioni; tutto diventa « sempre migliore », più funzionale,
molteplice. Ma nello stesso tempo tutto diventa in fon-
163
do sempre più uniforme e monotono, perché la
produzione e la distribu2Ìone tecnico-scientifica e meccanica di serie
conferisce a tutte le cose un carattere identico, appunto « tecnico ».
Da questo nasce nel complesso un quadro esistenziale in cui da una parte
crescono di continuo le « quantità » ma decrescono le qualità
spirituali e personali.
Si impone da tutto ciò una prognosi secondo cui lo
stadio finale della nostra storia sarà quello di una massima richiesta
ed esigenza di vita e di un massimo soddisfacimento di tale esigenza, ma
nello stesso tempo quello di un'assoluta monotonia, di una noia
intcriore; di un fastidio della vita che potrà esplodere e sfogarsi in
eccessi di selvaggia impazienza, di folle rivolta contro tutto, per poi
ricadere nuovamente nell'antica insignificanza.
Tutto ciò è già stato detto più volte. Solo ci si
domanda se tale minaccia possa essere padroneggiata. E se sì, in che
modo? O dovrà essere considerata come il modo con cui la nostra storia
giungerà alla sua fine? Perché una fine l'avrà; e che questa fine non
può essere pensata ottimisticamente, ce lo dice, al di là di ogni
scienza della cultura e civiltà, la parola di Cristo.
Qui si aggiunge un aspetto psicologicamente, o
spiritualmente, religioso. La psicologia e filosofia della religione di
Rudolf Otto da una parte, la teologia di Soren Kierkegaard dall'altra
hanno messo in chiaro la. differenza che distingue l'esperienza e la
fede della religiosità universale, il carattere numinoso della realtà
del mondo e della vita dalla Rivelazione. Le esperienze, operazioni,
intuizioni, elaborazioni che
164
compongono il primo gruppo, appartengono alla natura
dell'uomo, mentre il secondo gruppo si fonda sulla libera gra2Ìa del
Dio personale. Gli elementi appartenenti al primo gruppo sono tanto più
forti, quanto più si retrocede nella storia; e diminuiscono a mano a
mano che si afferma lo sviluppo scientifico, tecnico, organizzativo. Il
fattore « religiosità » è un momento psicologico-culturale che, come
tale, muta con la storia e precisamente in un modo che, se io vedo
giusto, decresce costantemente in intensità, ricchezza ed energia
creatrice. L'evoluzione della ratto e dell'energia tecnica lo
indebolisce e appiattisce; è una realtà di fatto la quale, dove venga
meno la capacità — e la volontà — di distinguere, conduce
all'assioma che l'uomo razionalmente e tecnicamente evoluto diventa per
necessità « irreligioso ».
Tutto ciò esige un esame più preciso. Anzitutto la
questione in quale rapporto stia il grado della vitalità « religiosa
» con il livello razionale e tecnico.
Quanto più decisamente avanza la penetrazione razionale
dell'esistenza, quanto più questa razionalità diviene un elemento
della cultura generale, tanto più forte si impone il sentimento che
l'essere non ha « misteri », ma soltanto « problemi » che possono
venire scientificamente risolti. La tecnica opera lo stesso effetto.
Essa è il complesso dei metodi con i quali l'uomo può raggiungere i
propri scopi, procurarsi ciò di cui ha bisogno, « fare » il mondo.
Quanto più fortemente e ovviamente si introduce la coscienza di potersi
procurare a volontà, con mezzi tecnico-razionali, tutto ciò che
occorre per la garanzia e per lo sviluppo della propria esistenza, tanto
più numerose saranno le cose e i fenomeni che
165
nel sentimento vitale dell'uomo si assimileranno alla
sfera logico-tecnica. La dimensione del non-razionale, di quanto può
essere concesso soltanto per grazia, di tutto ciò che ha nome «
provvidenza », va perduto. La stessa cosa si verifica in conseguenza
del fattore massa. La molteplicità delle impressioni e degli stimoli
non solo attenua la intensità dei processi spirituali, ma distrugge
l'elemento del misterioso e del miracoloso, la cui esperienza è legata
alle condizioni del silenzio ulteriore, della rarità. Solo sul piano
meccanico ogni aumento dell'impressione ingrandisce proporzionalmente
l'effetto; sul piano invece del vitale e dello spirituale non è così.
Fino a un certo limite il crescere dello stimolo eleva e differenzia la
impressione, suscita più profonda commozione, più forte stupore; ma
oltre questo limite — che naturalmente è diverso a seconda delle
diverse strutture — subentra l'abitudine. L'impressione si ottunde;
l'apporto psicologico-spirituale diminuisce. So—-. prattutto scompare
il fattore dell'arcano ovunque ,., presente nell'anteriore esperienza
del mondo. Una di-:,' mensione dell'esistere va perduta. ,;
In questa stessa dirczione opera ciò che oggi con una
specie di orgoglio infantile, si chiama la « distruzione dei tabù ».
Quando viene dimostrato che in un certo fenomeno « dietro non c'è
nulla », nessun mistero, nessun bisogno di particolare reverenziale
timore, ma invece che tutto è logicamente comprensibile, « naturale
», appartenente all'autointelligibilità dell'esistenza, allora restano
certamente eliminati parecchi aggravi dalla vita; ma -nel risultato
finale va perduto un momento originario ed esistenzialmente importante,
e l'esistenza diventa banale.
Occorre dire la stessa cosa circa il sentimento della
singolarità della persona. Avere riconosciuto la per-
166
sona, era stato una delle più importanti conquiste
dell'iniziale età moderna: ogni persona ha un suo carattere
inconfondibile, una sua dignità, ed è insostituibile. Ma nella misura
che il fenomeno della persona si moltipllcò con l'accrescimento
demografico e lo si fece valere nel conseguente spirito democratico,
esso perse il suo valore: quanti più sono gli uomini, tanto meno
importa il singolo.
Tutti questi fattori hanno indebolito l'esperienza
religiosa. Il mondo divenne così sempre più « profano ». Pur con
tutte le conoscenze scientifiche e i risultati tecnici l'esistenza si
ridusse in una dimensione essenziale a una maggiore superficialità.
Se tutto ciò è esatto, nasce la domanda su quali
fondamenti psicologici riposi ciò che si chiama disponibilità,
attitudine, decisione nei riguardi della Rivelazione, ossia, in una
parola, « fede ». Un esame più attento conduce al sospetto che molto
di ciò che in senso sommario si definiva « religione », che anzi lo
stesso atto di fede consisteva, in parte più o meno grande, di elementi
« religiosi ».
Così insorge il problema se la Rivelazione e la fede
debbano esse stesse decrescere con il decrescere delle esperienze e
degli atti vitali religiosi. E se quindi la tesi che la fede si reggesse
sul presupposto che l'uomo non era ancora razionalmente e tecnicamente
maturo, non colga nel segno.
Il problema è da prendersi molto sul serio. La
disponibilità alla fede era senza dubbio più grande in un tempo in cui
l'uomo viveva sotto le impressioni e le influenze di una natura non
ancora o non abbastanza compresa e dominata. Egli sentiva ciò che non
capiva come arcano, come « numinoso », ed era propenso ad ammettere
dietro a tutto potenze sublimi con le quali aspirava ad entrare in
rapporto
167
e che venerava, invocava e cui poneva mente con
re-verenza. A mano a mano che ciò spariva, tutte le realtà e le
relazioni, che prima erano, nel suo sentimento, colme di valenza
numinosa, divennero sempre più logicamente penetrabili, suscitarono
sensi di sicurezza, di signoria e via dicendo.
Vi si aggiunse il vuoto spirituale operato dagli stimoli
e dalle esigenze di vita di continuo crescenti. Sotto la loro pressione,
i momenti religiosi acquisirono un carattere di immaturità personale.
Divenne più difficile esperirli e realizzarli; gli atti religiosi
divennero sempre più faticosi e vuoti. Quanto si verificò, fu ciò che
Nietzsche espresse con la formula « Dio è morto ». La formula da
allora in poi cresce di importanza. Significa che l'elemento numinoso
nell'esperienza del mondo dilegua sempre più; che i suoi contenuti
diventano sempre più inessenziali. Il mondo, che prima era colmo di
mistero, perde sempre più i suoi velami. Perde il carattere della
creazione e diventa « natura ». L'uomo acquista sempre più forte
l'impressione di poterla fare da padrone con questa natura, di ridurla
al proprio arbitrio, anzi di potere lui stesso produrre ciò che prima
era « natura », di renderla come « cultura ».
Da tutto ciò si impone la domanda: unitamente al senso
« religioso » del mondo va perduta anche la Rivelazione? Con
l'esperienza religiosa perde il suo senso anche la fede?
È mia impressione che la pedagogia della vita di fede,
che l'educazione e la prassi religiosa, la « teologia » nel senso più
vasto, o non colgano affatto questo problema o non gli riconoscano
l'importanza che ha. Il pericolo massimo, la forza più distruttiva
contro la fede non mi sembra però consistere in difficoltà od
obiezioni definibili, ma nella vacuità spiri-
168
tuale che si determina per il fatto che l'elemento
religioso immediato diviene sempre più debole. Perciò la fede, gli
atti religiosi; il culto, i sacramenti, tutto si fa più faticoso.
Insorge l'impressione che tutte queste cose siano in fondo superflue;
che il mondo cammini anche senza di esse; che la vita divenga più
adulta, più onesta, più seria, se vengono eliminati. Il fenomeno
dell'ateismo che percorre il mondo sembra fondarsi realmente su tutto
ciò, per essere poi senza dubbio sfruttato, politicamente utilizzato
dai sistemi totalitari, anzi dai sistemi moderni in genere.
Che cosa significa tutto ciò per la conoscenza
cristiana, per la vita cristiana, per l'educazione e la istruzione?
Non si tratta affatto a questo proposito di ignorare
tutto ciò, e tanto meno si tratta di rivivificare artificiosamente
attraverso metodi suggestivi o pedagogici l'esperienza religiosa in via
di dissoluzione. Invece il problema deve essere posto con chiarezza.
Quale deve essere la vera fede nella Rivelazione in un uomo o in
un'epoca in cui quella debilitazione della sfera « religiosa » di cui
s'è parlato è divenuta dominante? Appartiene la fede stessa a un
periodo determinato dell'evoluzione storica, oppure è possibile, anzi
doverosa in ogni periodo? E se sì: dobbiamo allora ammettere che esiste
una situazione storicamente condizionata della (psicologicamente
parlando) « nuda » fede, della fede senza « esperienza religiosa »;
una situazione quale, per esempio, la biografia di grandi personalità
cristiane ma forse anche esperienze che ogni credente in certe ore della
vita soprattutto avanzata fa, sembrano rendere plausibile, situazione in
cui l'atto di fede viene realizzato solo come fedeltà, come in un
realismo del tutto
169
sgombro di sentimento. In che cosa consiste ciò
che in simili momenti rende la fede non Solo possibile, ma doverosa?
Questo che cosa non sembra sia ciò che
l'apologetica razionale di tempi andati chiamava la « dimostrazione »
dell'esistenza di Dio, dell'immortalità dell'anima, della verità della
Rivelazione e così via. Quantome-no, simili argomenti necessitano nel
senso più rigoroso d'una verifica realistica. Eticamente parlando, esse
devono essere trattate con una veracità e con un rigore di coscienza
che elimina tutto ciò che si chiama suggestione, Eriebnis «
religioso ». Qui soprattutto si chiarisce ciò che la teologia intende
quando chiama la fede una « virtù ».
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INDICE DEI CONCETTI
Angelo, 120 Impotenza, 52, 69, 70, 71,
Angoscia, 25, 43. 72.
Anonimità, 12. Inconscio, 104, 105,
Arte, 135-138. Interiorità, 60.
Ascesi, 132. Istinto, 108, 109, 111, 112,
Ateismo, 169. 113, 117, 118, 122..
Autorità, 55.
Leggere, 45, 46, 48. Bisogno, 92, 93, 94, 95, 100.
Letteratura, 42.
Libertà, 36, 37, 38, 39, 60,
61, 63, 121. Libido, ' 111.
Cinema, 133 ss.
Coscienza, vitale, 110.
Cultura, 26, 28, 31, 68, 113,
114, 159, 168. . Malattia, 107, 110.
Massa, 90, 91, 134, 162. Mondo, 62, 63.
Demoniaco, 22, 53.
Destino, 110, 111.
Dialogo, 38 ss. Natura, 16, 28, 29, 31, 158,
Dittatura, 12-13 nota, 18. 159, 162, 168.
•e • i"ì ri n iv itr, Ordine, 30, 32, 33.
Energia, 62, 63, 64, 6?, 130,
132. Pace, 7, 22, 23, 29, 35, 36, Esistenzialismo,
24-26. 40. Esperienza religiosa, 164, Pace assoluta, 30.
168,169. Parallelismo psicofisico, 100. Essere, 51, 66.
Parola, 40, 43, 44, 45, 66,
t; • no -un 1^1 100. 143-Fantasia, 139, 140,
151. -n • ai
•e i 1-ini^n Pazienza, 41 Favola, 139-140. '
Fede, 167, 168, 169, 170.
Persona, 19, 60, 68, 77, 79,
166, 167. Gnosis, 119. Potenza (e potere), 15,
17-Guardare, 46. 20, 26, 28, 30, 31, 32, 33, Guerra, 7 ss., 36. 52,
53, 54, 55, 56, 57 ss, Guerra assoluta, 14, 19, 23, 125, 126, 158.
30 Profondo dell'uomo, 103,
104. Idolo, 125 ss. Progresso, 14, 17, 22, 27,
Imperativo altruistico, 70, 76, 127, 131.
81. Propaganda, 21, 42, 44.
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Prossimo, 75, 78, 79. Sofferenza, 93, 94.
Provvidenza, 54. Spirito, 113, 114, 115, 116,
119, 120, 121. Responsabilità, 12, 20, 21, Storia, 63,
18, 80, 121.
26, 29, 33, 37, 51, 119, Sublimazione, 109, 112, 115,
121. 117.
Rimozione, 105. Teatro, 134, 136, 138, 142,
148,' 149, 152, 153. Sanità, 94. Tecnica, 11, 27 nota,
53, 101, Scienza, 126, 127, 128, 129, i26, 127, 128, 129, 130,
130 ' 13L 131; 132, 152, 157, 161,
Scrivere, 45, 46. 164, 165. .
Secolarizzazione del cristia- Totalitarismo, 99, 160.
nesimo, 84. , .
Sentimento naturale, 75, 76, Vedere, 144, 145, 146.
77, 80 Verità, 37, 39, 41, 43, 141.
Simpatia, 39. Vo'ontà di potere, 53, 54,
Soccorso, 73 ss. 69.
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INDICE DEI NOMI
Adier A., 69.
Agostino (S.), 10, 39, 48.
Archimede, 32.
Bach, J.S., 113 Binswanger, L., 114 Bonaventura (S.),
127 Buytendijk, F., 114
Cocteau, J., 139
Dante Alighieri, 48, 127. Disney, "W., 140 Duse,
Eleonora, 136
Forster, F. W., 94. Freud, S., 103, 105, 107,
108, 111, 112, 115, 117,
122, 123
Gandhi, M. K., 71. Giovanni Evangelista, (S.),
122.
Goethe, J.W., 48, 153 Guardini, R., 16, 26, 35,
135.
Hegel, G.W.F., 120 Heidegger, M., 24. Husseri, E,, 114
Kainz, P., 136 Kant, I., 114 Kierkegaard, S., 24, 164
Kleist, H., 149
Mann, Th., 131 Marx, K,, 121. Meynell, W., 30. Moore, H.,
130
Nietzsche, F., 37, 61, 86, 168
Omero, 9. Otto, R., 164 Otto, W.F, 27
Pascal B., 15, 25, 121. Fiatone, 118
Racine, I., 153 Rahner, K., 51 Reinach, A., 114
Reinhardt, M., 153 Riike, R.M., 149 Ruffin, H., 115
Sartre, P., 24. Sche'er, M., 114 Shakespeare, W., 139,
140,
153
Smith, A., 122 Sonunavilla, G., 35. Spori, J.,
125
Thompson, F., 30.
•Weizsacker, C.F. von, 26 Wessely, Paula, 136 Wundt,
W., 106
173
INDICE - SOMMARIO
I - Alla ricerca della pace . . . Pag. 7
II - La pace e il dialogo ... » 35
III - Domande sul problema del potere » .51
IV - II fenomeno del potere . . » 57
V - II servizio al prossimo in peri-
ricolo ....... » 73
VI - Sigmund Freud e la conoscenza della realtà umana .
. . » 103
VII - Un idolo in formazione . . » 125
Vili - Riflessioni sul problema del cinema ....... »
133
IX - II corso della storia e il compito della fede . . -
. . » 157
Indice dei concetti . . » 171 Indice dei nomi . . . »
173
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