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La Giustizia

9 gennaio 2000

Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, 

perché saranno saziati! ( Mt. 5,6 )

 

 

Le verità fondamentali hanno bisogno di venire continuamente rimeditate, perché non perdano la loro fecondità. Anzi, è proprio questo il senso di ogni meditazione: far sì che la verità non cessi di esercitare il suo flusso sulla vita attiva. C'è infatti il pericolo che, quando già le conseguenze di una falsa premessa si saranno fatte sentire, ci si accorga allora con profondo terrore come sia ormai troppo tardi per ridar vita, onde salvare almeno l'essenziale, a una verità che già fin da principio avrebbe dovuto essere riconosciuta e accettata.

 

 

SALMO 111- Felicità del giusto

Alleluia.

Beato l'uomo che teme il Signore

e trova grande gioia nei suoi comandamenti.

Potente sulla terra sarà la sua stirpe,

la discendenza dei giusti sarà benedetta.

Onore e ricchezza nella sua casa,

la sua giustizia rimane per sempre.

Spunta nelle tenebre come luce per i giusti,

buono, misericordioso e giusto.

Felice l'uomo pietoso che dà in prestito,

amministra i suoi beni con giustizia.

Egli non vacillerà in eterno:

il giusto sarà sempre ricordato.

Non temerà annunzio di sventura,

saldo è il suo cuore, confida nel Signore.

Sicuro è il suo cuore, non teme,

finché trionferà dei suoi nemici.

Egli dona largamente ai poveri,

la sua giustizia rimane per sempre,

la sua potenza s'innalza nella gloria.

L'empio vede e si adira,

digrigna i denti e si consuma.

Ma il desiderio degli empi fallisce.

Pillole dal Catechismo

Lo Spirito Santo verrà, noi lo conosceremo, sarà con noi per sempre, dimorerà con noi; ci insegnerà ogni cosa e ci ricorderà tutto ciò che Cristo ci ha detto e gli renderà testimonianza; ci condurrà alla verità tutta intera e glorificherà Cristo; convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio.

Di questa grande speranza, quella dei "nuovi cieli" e della "terra nuova nei quali abiterà la giustizia" (2Pt 3,13), non abbiamo pegno più sicuro, né segno più esplicito dell'Eucarestia. Ogni volta infatti che viene celebrato questo mistero, "si effettua l'opera della nostra redenzione" e noi spezziamo "l'unico pane che è farmaco d'immortalità, antidoto contro la morte, alimento dell'eterna vita in Gesù Cristo".

La conversione si realizza nella vita quotidiana attraverso gesti di riconciliazione, attraverso la confessione delle colpe ai fratelli, la correzione fraterna, la revisione di vita, l'esame di coscienza, la direzione spirituale, l'accettazione delle sofferenze, la perseveranza nella persecuzione a causa della giustizia. Prendere la propria croce, ogni giorno, e seguire Gesù è la via più sicura della penitenza.

Gesù ha ripreso i dieci comandamenti, ma ha manifestato la forza dello Spirito all'opera nella loro lettera. Egli ha predicato la "giustizia" che supera "quella degli scribi o dei farisei" (Mt 5,2o) come pure quella dei pagani.

San Giovanni Crisostomo lo ricorda con forza: "Non condividere con i poveri i propri beni è defraudarli e togliere loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo: sono dei poveri. Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia perché non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia".

Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili, non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro. Più che compiere un atto di carità, adempiamo un dovere di giustizia.

Tratto da l’ “Epitome delle Divine

Istituzioni” di Lattanzio

 

Dobbiamo seguire la via della giustizia che conduce alla vita. Ora, primo compito della giustizia è riconoscere Dio come genitore: temerlo come signore e amarlo come padre.

Egli infatti ci ha generati, ci ha animati con lo spirito di vita, ci nutre, ci salva. Perciò, non solo come padre, ma anche come dominatore, può ben castigarci: ha su noi potere di vita e morte; duplice è dunque l`onore che l`uomo gli deve prestare, cioè amarlo e temerlo.

Secondo compito della giustizia è riconoscere l`uomo come fratello. Se infatti ci ha creati lo stesso Dio, se ci ha generati tutti, a pari condizione, alla giustizia e alla vita eterna, dobbiamo sentirci tutti uniti da un vincolo fraterno, e chi non lo ammette, è ingiusto. Ma l`origine di questo male, per cui l`unione tra gli uomini, il vincolo comunitario si è dissolto, nasce dall`ignoranza del vero Dio. Chi infatti non conosce la sorgente di questo bene, non può certo essere buono. Il risultato è che dal tempo in cui gli uomini cominciarono a consacrare e venerare molti idoli, la giustizia se ne fuggì come ci dicono i poeti: ogni patto fu infranto, la retta convivenza umana fu lacerata.

Si cominciò allora a badare solo a se stessi, a riporre il diritto nella forza, a nuocere all`altro, ad attaccarlo con la violenza, a circonvenirlo con la frode, ad aumentare i propri beni a spese altrui; si cominciò a non perdonare neppure ai parenti, ai figli, ai genitori; a preparare bevande velenose a rovina degli uomini, ad appostarsi in armi sulle vie, a infestare il mare; si cominciò a lasciar le briglie sciolte alla libidine, ovunque spinga il suo furore; a non ritener più nulla tanto sacro che la brama nefasta non violi. Avvenendo tutto ciò, gli uomini si diedero le leggi per il bene comune, per difendersi così a vicenda contro l'ingiustizia.

Ma il timore delle leggi non ha represso la scelleratezza: ne ha solo rimosso l'estrema licenza. Le leggi infatti potevano punire i delitti, non potevano rinsaldare la coscienza. Perciò quello che prima avveniva pubblicamente, lo si cominciò a compiere in occulto.

E anche l'amministrazione del diritto fu compromessa, perché gli stessi difensori delle leggi furono corrotti da doni e premi, vendendo sentenze o in assoluzione dei malvagi o a rovina dei buoni. A ciò si aggiunsero contrasti, guerre, devastazioni reciproche; furono conculcate le leggi e il potere di infierire giunse a ogni licenza.

In questo misero stato della realtà umana, il Signore ha avuto pietà di noi, rivelandosi nell'incarnazione. Col suo esempio ci ha indicato la via per la quale potessimo giungere alla vera pietà, alla fedeltà, alla castità, alla misericordia; potessimo disconoscere gli errori della nostra vita precedente, conoscendo insieme lui nostro Dio, da cui l'empietà ci aveva separati; potessimo apprendere dalla bocca stessa del Signore la legge divina che unisce l'umanità alle realtà celesti, legge che toglie di mezzo tutti gli errori che ci avevano irretiti, con le loro vane ed empie superstizioni. Questa medesima legge divina prescrive anche ciò che dobbiamo all`uomo, perché ci insegna che quanto fai per gli uomini, lo fai per Dio.

Ma la radice della giustizia, il fondamento di ogni equità è che tu non faccia ciò che non vuoi ti sia fatto, che tu misuri l'animo altrui dal tuo stesso animo. Se è duro sostenere le ingiurie e se chi con esse ti offende ti sembra ingiusto, trasferisci nella persona altrui ciò che senti di te e giudica l'altro in base alla tua persona: comprenderai così che tu agirai ingiustamente se nuoci altrui, quanto ingiustamente agisce un altro se nuoce a te.

Se ponderiamo ciò in mente nostra, conserveremo l'innocenza, che è quasi il primo gradino su cui sta la giustizia.

Il primo è dunque non nuocere: il seguente giovare. Così nei campi incolti, prima di incominciare a seminare, estirpati i cespugli, tagliate le radici dei vepri, è necessario ripulirne il terreno; in tal modo dall`animo nostro prima si devono strappare i vizi, e solo poi seminare le virtù, perché il seme della parola di Dio porti in noi frutti d`immortalità.

 

Tratto da “Sulla Giustizia” di Josef Pipier

 

 

Ciò che spetta

Nella tradizione occidentale esistono diverse definizioni della giustizia: nello stesso Tommaso è dato trovarne di differente tenore. Così egli viene a dire per esempio che la giustizia sarebbe ciò per cui il proprio si differenza dall'alieno; e pure S. Agostino si è pronunciato nei modi più disparati sulla virtù della giustizia. Uno speciale risalto va per esempio a questa sua espressione: "giustizia è quell'ordine dell'anima in virtù del quale noi non siamo servi di alcuno all'infuori di Dio". E' però ben difficile che tali massime siano da intendersi come altrettante definizioni concettuali. Unica in questo senso, e che tra tutte è anche la più sobria ed oggettiva, è quella secondo cui la giustizia sarebbe quell'abito in virtù del quale gli uomini danno a ciascuno il suo."Se l'atto della giustizia consiste nel dare a ciascuno ciò che è suo, prima ancora di esso viene quell'atto in virtù del quale alcunché diventa per uno il suo". Questa massima esprime con sovrana semplicità un fatto più che fondamentale. La giustizia è un qualcosa che viene dopo: prima della giustizia c'è il diritto. Nessuno ad esempio dubita dell'esistenza di un diritto alla propria vita. Quell'atto grazie al quale una cosa diventa propria di qualcuno non può essere un atto di giustizia. In particolare possiamo dire che "è con la creazione che l'essere creato comincia per la prima volta ad avere qualcosa di proprio". E' solo in grazia della creazione che nasce la possibilità di dire: a me compete qualche cosa. Ciò potrà forse sembrare fin troppo evidente. Senonché ecco la singolare e pur convincente conclusione tratta da Tommaso: dunque la stessa creazione non è un atto della giustizia, la creazione non è un qualche cosa che spetti. Ciò significa che nel rapporto che Dio ha con l'uomo non vi può essere giustizia nel senso stretto del rendere suum cuique: Dio non è debitore all'uomo di nulla: "Per quanto Dio in certo senso conferisca a ciascuno quel che gli spetta, non per questo egli è un debitore". Riassumendo possiamo dire che non sussiste obbligo di giustizia se non vi è già da prima alcunché di spettante, un suum. Tale è infatti il senso della massima: "Oggetto della giustizia è evidentemente il diritto".

Quando dunque alla domanda, "Come mai all'uomo competa alcunché", viene risposto: "In ragione della creazione", in tal modo viene sì detto molto, ma non già tutto. La domanda non ha infatti ancora ricevuto una precisa risposta. Anche le pietre, le piante e gli animali sono creati, eppure non è possibile dire che spetti loro in senso stretto alcunché.

Spettare, infatti, ha su per giù il senso di appartenere e di esser dovuto. Ma un essere non spirituale non può avere qualcosa che gli appartenga; anzi è lui stesso ad appartenere a qualcuno.Il concetto di spettanza, di diritto, è a tal punto un concetto originario, da non poter essere ricondotto ad un altro. Al massimo si potrà dire che: ciò di cui si ha diritto, il suum, è quanto da un altro è lecito chiedere con pretesa di esclusività come dovuto (laddove questo dovuto può essere tanto un oggetto che azione o altro). La domanda posta precedentemente può trovare risposta quindi solo nell'irremovibilità della spettanza, che sta a significare: chi non dà ciò che spetta, chi trattiene o sottrae, finisce allora col ledere o snaturare se stesso; è lui che ci perde; nel più estremo dei casi egli distrugge se stesso.Uno spettare in senso pieno, inviolabile e irremovibile, può aver luogo solo quando il portatore di questo suum è sì fatto, da essere in grado di esigere come suo diritto quel che gli spetta. Ciò significa d'altro canto che non è possibile dire su quale fondamento riposa il diritto e per conseguenza il dovere di giustizia, qualora non si abbia una concezione dell'uomo, della natura umana. Proprio perché l'uomo è persona, vale a dire un essere spirituale che esiste tutto in sé, orientato in favore di se stesso e della propria perfezione - per questo compete a lui in senso assoluto qualcosa -, per questo egli ha irremovibilmente un suum, un diritto che possa essere sostenuto contro chiunque, e rispettivamente possa obbligare l'altro almeno a non violarlo. Sì - dice Tommaso - è proprio la personalità dell'uomo, ossia la conformazione di quell'essere spirituale, per cui egli è padrone delle sue azioni, ad esigere (requirit) che la divina Provvidenza abbia a guidare "per amor suo" la persona. In termini più concreti posiamo dire che l'uomo ha dei diritti irremovibili proprio perché è stato creato come persona per fatto divino, cioè sottratto ad ogni umana discussione. In ultima analisi qualcosa spetta

all'uomo, in modo assoluto, proprio perché egli è creatura. Ed è pure in quanto creatura che egli ha l'obbligo incondizionato di dare all'altro ciò che gli appartiene. La qual cosa è stata espressa da Kant nel modo che segue: "Noi abbiamo un sacro reggitore, e il diritto è quanto di sacro egli abbia donato agli uomini".

Per quanto sia vero che il Creatore nella sua assolutezza costituisce il fondamento ultimo di ciò che spetta all'uomo, è pur sempre l'uomo in realtà il creditore degli altri tutti (come senza dubbio ne è anche il debitore).

Va qui ancora detto, in breve, di un ulteriore presupposto della giustizia. Può accadere che qualcuno non intenda espressamente negare che all'altro spetti qualcosa, ma si limiti a dire che non gliene importa niente e che non crede in una verità oggettiva. In altri termini, l'atto di giustizia non presuppone soltanto, come dice Tommaso, quell'atto secondo il quale una cosa viene a spettare: presupposto è altresì quell'atto di sapienza, mediante cui la verità delle cose reali si converte in decisione.

Tutto ciò mette in evidenza una forma d'ingiustizia che nasce quando l'uomo ha perduto ogni rapporto con la verità; in questo modo la questione dell'aver diritto viene considerata del tutto irrilevante. E' chiaro dunque come ogni discussione sulla giustizia sia sensata e feconda solo a condizione di non perdere di vista lo stretto rapporto che essa ha con la teoria della vita. Essa non è che uno dei tratti caratteristici del volto umano e la parte non si fa veramente comprendere che nell'ambito del tutto.

 

L’altro e il debito

"Ciò che distingue la giustizia dalle restanti virtù è la proprietà di regolare l'uomo nel suo complesso in relazione con gli altri...mentre invece le altre virtù perfezionano l'uomo solo in ciò che lo riguarda, considerato in se stesso". A distinguere la giustizia dall'amore è proprio il fatto che nell'ambito della giustizia gli individui vengono a contrapporsi l'un l'altro quali separate "altruità", quasi come degli estranei. "La giustizia in senso stretto vuole la diversità dell'altra parte". Quando due persone si amano, l'amato non è propriamente un altro e quindi non vi può essere vera e propria giustizia. Essere giusto vuol dire convalidare l'altro come tale, vuol dire insomma offrire il riconoscimento là dove non è possibile l'amore.

Inoltre la persona giusta è poi tale proprio in quanto confermi l'altro nel suo essere-altro, aiutandolo a ottenere quel che gli spetta.

Naturalmente Tommaso non ha mancato di cogliere differenze nei diversi gradi di debito. Si tratta cioè di distinguere tra una pretesa di giustizia che vincola giuridicamente e un'altra che vincola (solo) moralmente: ad adempiere la prima io posso esservi costretto, mentre la seconda dipende esclusivamente dalla mia onestà. Quello che hanno in comune questi doveri - i quali a loro volta dipendono tutti dalla giustizia- è che in tutti sussiste un debitum: un debito e un qualcosa di dovuto. Essere giusto infatti significa avere un debito e adempierlo. Non è allora proprio possibile chiamare "giusto" Iddio; anche se, per la verità, la giustizia possa a maggior diritto venire attribuita a Dio che non altre virtù morali, come la fortezza o la temperanza. Dio non è debitore di alcuno, e "alla creatura nulla è dovuto, tranne che per qualcosa di preesistente in lei.."

Fare il bene o il male significa sempre dare o negare il "suo" a colui con il quale si ha a che fare. E' grazie ai comandamenti del Decalogo che ciascuno di noi vien messo in giusto rapporto con l'altro. Ma chi è questo "altro" di fronte al quale viene a trovarsi l'uomo, anche quando non compie il giusto in senso stretto? L'altra parte può venire intesa - innanzi tutto - come la comunità, il "tutto sociale". Senza dubbio non è solo quando seguo o trasgredisco le leggi dello Stato, pago le imposte o vado alle urne, che ho a che fare col bene comune. Questo ne va di mezzo anche se tengo un contegno scostumato o me ne sto in ozio, per quanto ciò sembri accadere "in privata sede". "Il bene di ciascuna virtù può essere messo in relazione con quel bene comune, cui è addetta la giustizia".

Tommaso parla di una giustizia "legale" o anche "generale" (iustitia legalis, iustitia generalis) che "tutte le virtù in sé ricomprende". "Né la stella vespertina né quella mattutina sono sì degne di meraviglia quanto la giustizia". La giustizia si realizza precipuamente in un agire esteriore: "nell'ambito del giusto e dello ingiusto quel che prima di tutto interessa è ciò che l'uomo fa all'esterno di sé". "Gli uomini sono tra loro coordinati da azioni esterne, per exteriores actus, che permettono loro la convivenza" - è questo un passo della Summa theologica. E la ragione per cui, nell'ambito della giustizia, bene e male vengono valutati puramente in base all'azione stessa, qualunque sia la complessione intima dell'agente, tale ragione sarebbe, a detta di Tommaso, nel fatto che quel che importa è il modo come l'azione si accorda con l' "altro" e non già con l'agente. E' dato anche invertire la frase. Se è vero che l'atto di giustizia è un agire esteriore è altrettanto vero che ogni agire esteriore trovasi nell'ambito della giustizia; ragion per cui tutto quello che l'uomo realizza al di fuori di sé può essere sempre valutato come giusto o ingiusto. L'intera sfera della vita activa - la quale è detta anche vita civilis da Tommaso, ed è determinata "da ciò che è in relazione con l'altro" - tutta questa sfera sarebbe appunto la sfera della giustizia.

Non v'è dubbio che ,per essere retto, l'uomo deve non solo fare "il giusto", ma essere egli stesso giusto. A questo proposito Tommaso cita l'Etica Nicomachea: è facile fare quel che fa la persona giusta; ma per chi non è in possesso della giustizia il difficile è fare il giusto così come la persona giusta lo fa; dopo di che soggiunge: "vale a dire con gioia e senza titubanza alcuna".

 

Il grado spettante alla giustizia

Allorché nella antica teoria della vita veniva posta la questione del grado spettante alle varie virtù, non lo si faceva certo per il semplice gusto di mettere in lizza delle figure allegoriche,

bensì per meglio precisare il concetto dell'uomo buono.

Tommaso sostiene dunque che l'uomo mostra nella sua massima purezza la sua vera natura, allorché è giusto; che delle tre virtù morali in senso stretto - giustizia, fortezza e temperanza - la più alta è la giustizia.

Esistono determinate virtù che sono concepibili solo in quanto l'uomo è un essere corporeo.

L'istanza della giustizia è rivolta all'uomo nel suo centro spirituale; in tanto egli è il soggetto della giustizia, in quanto è spirituale. Nel chiedere all'uomo di essere giusto, si viene a toccare il nucleo più profondo della sua essenza volitiva. Ma che posto ha la virtù morale in tutto questo discorso, e soprattutto, in quale rapporto sta la giustizia con quel "bene dell'uomo" che è anche "il bene dell'intelletto" ovverosia semplicemente la verità? La risposta di Tommaso è che nella giustizia il bene dell'intelletto risplende in grado più elevato che nelle altre virtù morali.

Tra le virtù sono unicamente la sapienza e la giustizia che senz'altro e per via diretta (simpliciter) mettono l'uomo in rapporto col bene, ed è appunto per tale ragione che spetta loro la precedenza. Iustitia est humanum bonum, "la giustizia è l'umano bene".

Il "luogo" della giustizia è invero la vita collettiva; se io mi interesso della sua realizzazione, allora dovrò rivolgere lo sguardo alla vita della comunità, alla famiglia, al movimento industriale, alla popolazione organizzata in Stato.

Dallo Statuto della Comunità

 

Art. 8 : Nel mondo, ma non del mondo; la comunità ritiene che solo partendo da questi presupposti possa essere lievito della realtà in cui vive e opera (“ voi siete la luce del mondo; voi siete il sale della terra” Mt. 5, 13-14 ) per la costruzione di un’umanità più giusta, capace di amore e di fraternità, più serena e gioiosa nella convivenza e nel suo lavoro.

 

Meditare con il Papa

(tratto dal cd: “Abbà Pater” )

 

Vieni, Santo Spirito

Vieni! Vieni, Santo Spirito.

Guida coloro che si sono sviati.

Sine tuo numine,

nihil est in homine,

nihil est innoxium.

Sequenza della messa di Pentecoste. Roma,22 Maggio 1988

Dalla giustizia di ciascuno nasce la pace per tutti. Giustizia e pace

non sono concetti astratti o ideali lontani; sono valori insiti come

patrimonio comune nel cuore di ogni persona. Individui, famiglie,

comunità, nazioni, tutti sono chiamati a vivere nella giustizia ed

a operare la pace. Nessuno può dispensarsi da questa responsabilità.

Roma, Omelia del 1 Gennaio 1998

 

Dove c’è amore, c’è Dio

Se ami Dio sopra ogni cosa e il tuo prossimo come te stesso, se ami veramente e realmente, allora certamente ”non molesterai”, né “opprimerai”, “non maltratterai” nessuno, in particolare “la vedova e l’orfano”, “non ti comporterai pure da usuraio”, e “se prendi in pegno… renderai”.

Esodo 22,20-26; Matteo 22,37-39. Catechesi alla parrocchia di Gesù Divino Lavoratore Roma, 25 Ottobre 1981

Dov’è Carità e amore, qui c’è Dio./ Ci ha riuniti tutti insieme Cristo, amore:/ godiamo, esultiamo nel Signore!

Temiamo ed amiamo il Dio vivente,/ e amiamoci tra noi con cuore sincero. Dov’è carità e amore, qui c’è Dio./ Noi formiamo, qui riuniti, un sol corpo: evitiamo di dividerci tra noi:/ via le lotte maligne, via le liti,/ e regni in mezzo a noi Cristo Dio. Godiamo esultanti in Esso…/ Temiamo e amiamo il Dio vivente,/ e sarà gioia immensa, gloria vera, durerà per tutti i secoli, senza fine. (Amen)

Sequenza della liturgia della “lavanda dei piedi” del Giovedì Santo

 

 

 

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