VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
CAPITOLO I.
Genesi di San Domenico.
In una valle della Vecchia Castiglia irrigata dal
Duero e quasi ad egual distanza da Aranda come da Osma, sorge un piccolo
villaggio col nome di Caleruega nel dialetto del paese, e Calaroga nella
lingua più dolce di molti storici. Quivi nacque S. Domenico l'anno 1170
dell'era cristiana; e prima a Dio, poi a Felice di Gusman ed a Giovanna
d'Aza dovè la sua esistenza. Sono ancora in piedi alcuni ruderi della
casa che quei pii signori possedevano a Calaroga, ed in cui S. Domenico
venne alla luce. Alfonso il Savio, re di Castiglia, d'intesa con la
moglie, coi figli e coi
Grandi di Spagna, nel 1266 trasformò
quell'abitazione in un monastero di religiose domenicane. Vi si notano
tuttora parti più antiche che non il corpo dell'edifizio, e punto
rispondenti all'architettura di un monastero, quali: una torre militare
del medio evo, in cui sono incrostate le armi dei Gusman; una fontana
che dai Gusman prende nome; ed altri avanzi chiamati dal popolo, organo
della tradizione, il palazzo dei Gusman. Il ramo castigliano di questa
illustre famiglia aveva la sua principale residenza a poche leghe dalla
città, nel castello dei Gusman; e la tomba a Gumiel d'Izam, nelle
vicinanze di Calaroga, in una cappella della chiesa dei Cisterciensi. Là,
dopo morti, furono trasportati Felice Gusman e Giovanna d'Aza, e
seppelliti in due cripte contigue. Ma la venerazione stessa di cui
furono oggetto, fu presto causa, che venissero separati. L'infante di
Castiglia Giovanni Emanuele, verso il 1318 volle che il corpo di
Giovanna d'Aza fosse trasferito nel convento dei Domenicani di Pennafiel,
da lui medesimo fatto edificare. Fu così che Felice rimase solo nel
sepolcro de' suoi maggiori, qual testimonio fedele dello splendore della
sua famiglia, da lui trasmesso a S. Domenico; mentre Giovanna se ne
andava a raggiungere la posterità spirituale del suo figliuolo, onde
godere di quella gloria da lui acquistata coll'anteporre la fecondità
che viene dal Cristo a quella della carne e del sangue .
E’ celebre il prodigio che precedè la nascita di
San Domenico. Parve alla madre di vedere in sogno il frutto delle sue
viscere sotto la forma di un cane, che avesse in bocca una fiaccola
accesa e che le balzasse dal grembo come per incendiare tutta la terra.
Turbata assai da un presagio, di cui ignorava affatto il significato,
andava spesso a pregare sulla tomba di S. Domenico di Silos, già abate
del monastero omonimo, posto a poca distanza da Calaroga. E fu in
riconoscenza delle consolazioni di là riportate che la madre volle
imposto il nome di Domenico a quel suo figliuolo, che era stato
l'oggetto di tante sue preghiere. Era il terzo figlio che usciva dal suo
seno benedetto. Antonio, il primogenito, consacrò la vita al servigio
dei poverelli, e la sua grande carità molto fece onore al carattere
sacerdotale di cui fu insignito; il secondo, per nome Mannes, morì
rivestito anch'egli dell'abito dei Frati Predicatori.
Quando Domenico fu portato alla chiesa per esservi
battezzato, un nuovo prodigio manifestò la grandezza a cui era
predestinato. La madrina - gli storici non ce la fanno conoscere se non
col nome di nobile - vide una stella risplendere mirabilmente sulla
fronte del battezzato; del che pare rimanesse vestigio sul volto di
Domenico, quale segno caratteristico della sua fisonomia, brillando
sempre sulla sua fronte un certo splendore che dolcemente attraeva il
cuore di chi lo riguardasse. Il battistero di marmo bianco dove Domenico
fu rigenerato coll'acqua sacramentale, nel 1605 venne trasportato nel
convento dei Frati Predicatori a Valladolid per comando di Filippo III,
che volle farvi battezzare suo figlio. Oggi si può vedere in S.
Domenico di Madrid, e parecchi altri infanti di Spagna vi sono stati
iniziati alla vita in Gesù Cristo, Signor Nostro amatissimo.
Domenico fu nutrito unicamente di latte materno; la
sua madre non permise che altro sangue gli scorresse nelle vene: Lo
volle invece stretto sempre al suo seno, dal quale non potè attingere
che casto alimento, e vicino alle proprie labbra, da cui non potè altro
ascoltare che parole di verità. In questo commercio di amore materno
egli avea forse a temere l'involontaria mollezza delle fasce, e quella
sovrabbondanza di cure, da cui anche la più cristiana tenerezza non sa
sempre contenersi; ma la grazia che operava, in lui fu ben presto virtù
preservatrice anche contro questo pericolo. Domenico infatti appena potè
muovere con libertà le membra, segretamente usciva dalla culla per
coricarsi in terra, quasi conoscesse già le miserie degli uomini e la
differenza della loro sorte quaggiù, né pieno di amore per essi, gli
reggesse il cuore di rimanere in morbido letto a preferenza dell'ultimo
de' suoi fratelli; o meglio ancora, già iniziato ai segreti della culla
di Gesù Cristo, non ambisse altro letto diverso dal suo. Questo è
quanto sappiamo dei primi sei anni della sua vita.
Entrato nel settimo anno Domenico lasciò la casa
paterna per essere condotto a Gumiel d'Izam, presso suo zio, arciprete
di quella chiesa. Ivi, vicino alla tomba dei suoi antenati, sotto la
doppia autorità della parentela e del sacerdozio, passò Domenico la
seconda metà dell'infanzia. Scrive uno storico: "prima che il
mondo avesse fatto impressione sull'animo del fanciullo, fu affidato,
come Samuele, alla scuola della, Chiesa, acciocchè un sano insegnamento
mettesse radici nel suo tenero cuore. E basato sopra così solidi
fondamenti, crebbe veramente di corpo e di spirito, elevandosi ogni
giorno, con progresso felice, a più alto grado di virtù" .
La terza scuola in cui Domenico venne formandosi, fu,
l'Università, di, Palenza, nel regno di Leone, la sola allora in tutta
la Spagna. Era sui quindici anni, e là per la prima volta si vide in
balla di se stesso, lungi dalla fortunata valle, dove, sotto le torri di
Calaroga e di Gumiel d'Izam, avea lasciato tutte le dolci e care
memorie, che richiamano l'anima verso la terra natale. Rimase a Palenza
per dieci anni, dei quali i primi sei consacrò allo studio delle
lettere e della filosofia, quali allora s’insegnavano. «Ma per quanto
l'angelico giovanetto, fa notare uno storico, penetrasse assai
facilmente nelle ragioni della scienza umana, nondimeno non vi si
sentiva troppo attratto, cercandovi indarno la sapienza divina, che è
il Cristo. Questa infatti niun filosofo la potè mai ad altri
comunicare; nessun principe di questo mondo l'ha mai conosciuta. Onde
per il timore di sprecare in vani esercizi il fiore e la forza della sua
giovinezza, e per estinguere la sete che lo divorava, Domenico attinse,
alle profonde e limpide sorgenti, della teologia. Invocando e pregando
il Cristo, ch'è la sapienza del Padre, aprì alla verace scienza il suo
cuore, agli insegnamenti della Sacra Scrittura apprestò le sue
orecchie. E così dolce gli giunse la divina parola, e con sì ardente
brama la ricevette nell'anima, che durante i quattro anni che vi si
applicò, passò quasi insonni le notti consacrando allo studio il tempo
del riposo; e per dieci anni si astenne anche dal vino, onde dissetarsi
al fonte di questa divina sapienza con castità di lei sempre più
degna. Era cosa ammirabile e cara veder lui sì giovane, quale
traspariva dal florido aspetto, accoppiar tanto bene e nelle parole e
nel modi la gravità di una veneranda vecchiezza. Superiore ai
divagamenti propri della sua età, non ricercava che la giustizia;
geloso del tempo, anteponeva
ad inutili passeggi la solitudine della chiesa, sua
madre, e la sacra quiete dei di lei tabernacoli, fra la preghiera ed il
lavoro egualmente assiduo passando tutti i suoi giorni. Né il fervido
amore col quale osservava i divini comandamenti fu senza la meritata
ricompensa; chè il dator di ogni bene infuso in lui tanto spirito di
saggezza e d'intelligenza, da fargli risolvere senza alcuna difficoltà
le più ardue questioni» .
Due episodi di questi dieci anni passati a Palenza ci
sono stati tramandati. Il primo, quando Domenico durante una carestia
che desolava la Spagna, non contento di dare ai poveri tutto ciò che
aveva, non escluse le vesti, giunse a vendere anche i libri annotati di
proprio pugno per distribuirne il denaro ai poveri. Ed a chi faceva le
meraviglie com'egli si fosse potuto privare dei mezzi stessi di studio,
rispose con queste poche parole, le prime che di lui ci siano pervenute:
«Potrei forse studiare su pelli morte, quando vi sono uomini che
muoiono di fame?» . Nobile esempio, che mosse i professori stessi e gli
alunni dell'Università a venire anche loro in soccorso di quegli
sventurati. - L'altro episodio avvenne quando alla vista di una donna
che piangeva dirottamente perché non aveva modo di riscattare il suo
fratello schiavo dei Mori, il Santo offrì per il riscatto la sua stessa
persona. Dio però non lo permise, riserbando Domenico alla redenzione
spirituale di moltissimi uomini. Come a un viaggiatore che passi, al
cader dell'autunno, per un campo spogliato di messi, uno o l'altro
frutto sfuggito alla mano dell'agricoltore ed unico resto di una
fertilità scomparsa basta per giudicare dei campi sconosciuti che
attraversa; così la Provvidenza lasciando nell'ombra del passato la
giovinezza del suo servo Domenico, pure ha voluto che la storia ce ne
conservasse alcuni tratti: imperfette ma vive rivelazioni di un'anima,
in cui la purità, la grazia, l'intelligenza, la verità, tutte le virtù
insomma erano i frutti dell'amore di Dio e degli uomini, maturi innanzi
stagione.
Domenico toccava già l'anno venticinquesimo, e Dio
non gli aveva ancora manifestato ciò che richiedesse da lui. Per l'uomo
di mondo la vita è come uno spazio da percorrersi il più lentamente
possibile, e per la via più dolce; tale però non è per il cristiano,
il quale sa che ogni uomo è vicario di Gesù Cristo per cooperare col
sacrificio di sé alla redenzione dell’umanità, e che nel disegno di
questa grand'opera ciascuno ha un posto preparatogli fin dall'eternità,
ma ch'egli è libero di accettare o di ricusare. E sa di più che se
abbandonerà volontariamente il posto offertogli dalla Provvidenza nella
milizia delle creature utili, un altro migliore di lui vi sarà
sostituito; ed egli rimarrà abbandonato a se stesso nella via larga, ma
corta dell'egoismo. Questi pensieri occupano seriamente il cristiano a
cui non è ancor nota la sua vocazione; e convinto che il più certo
mezzo per conoscerla è il vivo desiderio di adempirla qualunque essa
sia, sta pronto a tutto ciò che Dio voglia da lui. Di tutti gli uffici
necessari alla repubblica cristiana, non ne disprezza alcuno, perché in
ciascuno possono sempre riscontrarsi le tre condizioni che ne
costituiscono la vera importanza: la volontà di Dio che lo impone, il
bene che ne risulta dalla fedele esecuzione, e l'ossequio del cuore
devoto chiamato ad esercitarlo. Crede eziandio fermamente che gli uffici
meno onorati non sono i più dispregevoli, e che la corona dei santi mai
discende più opportunamente dal cielo di quando va ad ornare una fronte
povera e incanutita nell'umiltà volontaria di una dura abnegazione.
Poco dunque importa al cristiano dove Dio lo destini; gli basta sapere
che fa la di Lui volontà. Ora Iddio aveva preparato pel giovane
Domenico un mediatore ben degno, il quale gli rivelasse la sua vocazione
non solo, ma gli aprisse le porte della sua futura carriera, e
l'introducesse per vie impreviste sul teatro ove la Provvidenza lo
aspettava.
Fra i mezzi di riforma proposti da coloro che si
studiavano di rialzare l'ecclesiastica disciplina, uno era
particolarmente raccomandato dai Sommi Pontefici, cioè l'introduzione
della vita comune nel clero. In comune erano vissuti gli Apostoli: e S.
Agostino ispirandosi appunto a loro aveva lasciato a tal fine la famosa
Regola che porta il suo nome. La vita comune non è in sostanza che la
vita di famiglia e di amore al più alto grado di perfezione; ed è
impossibile praticarla fedelmente, e non sentirsi compresi da sentimenti
di fraternità, di povertà, di pazienza, di abnegazione, che sono
l'anima del cristianesimo. Da un secolo e mezzo circa davasi il nome di
Canonici Regolari a quei preti, che abbracciavano tal genere di vita.
Essi peraltro, se ne eccettui l'Ordine dei Canonici Regolari
Premonstratensi, fondate da San Norberto nel 1120, non costituivano un
corpo solo sotto un medesimo capo; ma ogni casa aveva il suo proprio
Priore, dipendente unicamente dal Vescovo. Martino di Bazan, vescovo di
Osma, desideroso di contribuire egli pure alla restaurazione della
Chiesa, aveva di recente mutato in Canonici Regolari i canonici della
sua cattedrale; e venuto a sapere come all'Università di Palenza si
trovasse un giovane di raro merito, nativo della sua diocesi, concepì
la speranza d'incorporarlo al suo capitolo e d'averlo così cooperatore
nella riforma. Affidò l'affare a quell'uomo che gli era stato
principale aiuto nella difficile opera intrapresa, uomo illustre per
nascita, per ingegno, per dottrina, per immacolatezza di vita, e che a
queste qualità, comuni anche ad altri, aggiunse poi un titolo non
diviso con altri mai. Sono sei secoli che, lo spagnuolo Don Diego d'Azevedo
riposa sotto una pietra che non mi fu dato visitare; ciò nonostante non
posso proferire il suo nome, senza provarne sentimenti di affettuosa
riverenza. Egli fu il mediatore, scelto da Dio per illuminare e dirigere
il patriarca di una famiglia di cui sono figliuolo; ed io risalendo con
la memoria la lunga catena de’ miei padri spirituali, lo ritrovo fra
S. Domenico e Gesù Cristo.
La storia non ci ha conservato i primi colloqui fra
Don Diego e il giovane Gusman; ma dagli effetti che ne seguirono, è
facile indovinarli. Sull'età dei venticinque anni ogni anima generosa
non altro e meglio desidera che di donare sé stessa. Ricca di amore
come di forza non chiede al cielo e alla terra che una causa, grande cui
consacrarsi con devozione magnanima. E
se ciò è vero di ogni anima ben temperata per
felice disposizione di natura, quanto più dovrà dirsi di quella in cui
il cristianesimo e la natura insieme si uniscano quasi vergini fiumi, di
cui non una stilla sola siasi perduta in vane passioni? Facile adunque
è immaginare quali fossero i discorsi fra Don Diego ed il giovane
studente di Palenza. In pochi minuti gl'insegnò senza dubbio quel che
indarno si cerca nei libri e nelle Università: a qual punto cioè fosse
allora giunta la lotta del bene e del male nel mondo, quali le profonde
ferite inflitte alla Chiesa, quale la generale tendenza delle cose,
quale insomma l'intreccio segreto di tutto un secolo. E Domenico, messo
a parte dei mali del suo tempo da un uomo che li sentiva profondamente,
provò certamente l'irresistibile bisogno di contribuire anch'egli col
corpo e collo spirito a vantaggio della Cristianità sofferente.
Intravide in un baleno la sua vocazione, il suo dovere nello stato
sacerdotale secondo l'ordine di Melchisedech, sull'esempio di Gesù
Cristo, unico Salvatore del mondo, unica sorgente di verità, di bene,
di grazia, di pace, di ogni nobile sacrificio; i cui nemici, comunque si
chiamino, sono i nemici eterni del genere umano.
Questo divin sacerdozio, avvilito in mani troppo
indegne della consacrazione, aveva bisogno di essere rinobilitato al
cospetto di Dio e dei popoli: cosa impossibile ad ottenersi, se non col
far rivivere le apostoliche virtù in coloro che ne avevano l'onore e
l'obbligo. E perché in ogni rinnovazione di cose, questo è il primo
passo: fare cioè quel che si vuol poi fatto dagli altri; l'erede dei
Gusman consacrò la sua vita a Dio nel capitolo già riformato di Osma,
sotto la direzione di Don Diego che ne era il priore. «Allora - così
si esprime il beato Giordano di Sassonia - egli sì mostrò tra canonici
suoi fratelli quasi fiaccola ardente, primo in santità, ultimo di tutti
per umiltà di cuore, spirante intorno a sé un odore di vita, che vita
in altri infondeva, ed un profumo simile a quello d'incenso. I suoi
fratelli attratti da questa sua condotta tanto religiosa, lo elessero a
loro sottopriore, affinché collocato più in alto, il suo esempio fosse
meglio avvertito e più efficace. E Domenico, come olivo che mette
rampollo, come cipresso che s'innalza al cielo, passava il giorno e la
notte in chiesa pregando incessantemente, senza uscir quasi mai fuori
del chiostro per timore di rubar tempo alle consuete contemplazioni. Dio
gli aveva fatto grazia di piangere pei peccatori, per gl'infelici e per
gli afflitti; il santuario interno della sua compassione era ricolmo dei
loro mali, e questo amore doloroso, premendogli fortemente il cuore, ne
traeva le lacrime. Era suo costume, e di rado lo interrompeva, di
passare la notte pregando, intrattenendosi, a porte chiuse, con Dio. Ed
allora si udivano talvolta vive voci e come dei gemiti, indarno
soffocati in petto. La domanda che più di frequente indirizzava a Dio
era specialmente quella della grazia di una carità verace, di un amore
che niente risparmiasse per la salute degli uomini; persuaso di non
poter essere un membro vero del Cristo, se non quando si fosse
consacrato con tutte le forze alla redenzione delle anime, sull'esempio
dello stesso Salvator nostro Gesù Cristo, immolatosi generosamente per
la salute di tutti. Leggeva un libro intitolato Conferenze dei Padri,
dove si parla dei vizi e della spirituale perfezione; e leggendolo
faceva ogni sforzo per conoscere tutte le vie del bene e seguirle.
Queste letture coadiuvate dalla grazia lo sublimarono a purità di
coscienza non comune, ad un grado di contemplazione illustrata da
copiosi lumi, ad una perfezione insomma elevatissima.
La Provvidenza non ebbe fretta riguardo a Domenico,
quantunque la sua vita non dovesse esser lunga; e per ben nove anni lo
lasciò ad Osma, affinché si preparasse ad una missione a lui ancora
sconosciuta. In questo frattempo, cioè nel 1201, Don Diego d'Azevedo
successe nella sede vescovile a Martino di Bazan; e Domenico, poco dopo,
cominciò ad annunziare la parola di Dio, sempre però nelle vicinanze
di Osma, continuando molto probabilmente in questo suo ministero, di cui
ignoriamo i particolari, fino al 1203: momento solenne, in cui Domenico
sull'età di trentaquattro anni lasciò la Spagna, per incamminarsi,
senza saperlo, verso il luogo de' suoi destini.
Qui finisce la genesi di S. Domenico, vale a dire la
serie di. quelle cose che formando il corpo e l'anima di lui, lo
prepararono alla missione provvidenziale ch'egli liberamente dovea
compiere. Ogni uomo ha la sua genesi proporzionata alla sua futura
missione nel mondo, la conoscenza della quale basta da sola a fare
intravedere ciò ch'egli sarà. L'amicizia ci apre i nascondigli
profondi ove stan sepolti i misteri del passato e dell'avvenire; la
confessione ce li fa conoscere sott'altro aspetto; la storia tenta di
penetrarvi dentro fino a rintracciarli nelle prime loro cause, per
rannodarne così il filo alla mano di Colui che crea i germi e vi depone
il bene sotto innumerevoli forme. Domenico chiamato da Dio a fondare un
Ordine nuovo, che avrebbe edificata la Chiesa con la povertà, con la
predicazione e con la scienza divina, ebbe una genesi manifestamente
conforme a tale predestinazione. Nasce da famiglia illustre, perché la
povertà volontaria è più attraente in chi ha saputo dispregiare e la
fortuna e la nobiltà che possedeva; nasce nella Spagna, fuori del paese
che sarà il teatro del suo apostolato, perché uno dei più grandi
sacrifici riserbati all'apostolo è quello appunto di abbandonare la
patria per esser lume a nazioni di cui ignora anche la lingua; passa
all'Università i primi, dieci anni della sua giovinezza per acquistarvi
la scienza necessaria all'evangelico ministero, e trasmetterne l'eredità
e la cultura al suo Ordine; per altri nove anni si assoggetta alle
pratiche della vita comune affine di sperimentarne i benefici, le
difficoltà, i pregi e non imporre in seguito ai suoi fratelli un giogo
che egli stesso non avesse portato per molto tempo.
Fin dall'infanzia poi Dio gli dà l'istinto e la
grazia di sottomettere il corpo ad un genere di vita assai duro.
Imperocché come l'apostolo sopporterebbe la fatica de' viaggi, il
caldo, il freddo, la fame, le prigioni, le percosse, la miseria, se per
tempo non avesse adusato il corpo alla più rigida disciplina? E anche
un gusto precoce ed ardente della preghiera gli è dato da Dio, essendo
la preghiera l'atto onnipotente che mette a disposizione dell'uomo le
forze stesse del Cielo: il Cielo è inaccessibile alla violenza; la
preghiera lo abbassa fino a noi. Soprattutto poi Domenico è adorno del
dono senza il quale tutti gli altri son un nulla, il dono di una carità
immensa, che giorno e notte lo stimola a consacrarsi tutto alla salvezza
de' suoi fratelli, e lo rende sensibile fino alla lacrime a tutte le
loro afflizioni. Ad iniziarlo infine ne' misteri del suo secolo, Dio lo
fa incontrare in un uomo di forte tempra, che gli sarebbe amico fedele e
suo Vescovo, e che lo avrebbe introdotto, come ora vedremo, in Francia
ed a Roma. Questi i fatti, non numerosi,
ma progressivi e profondi, che s'intrecciano man mano
in un giro di trentaquattro anni, e che ci mostrano Domenico già
formato e giunto immacolato alle porte di una, virilità la più
splendida che possa desiderare un, uomo, il quale abbia conoscenza di
Dio.