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VITA DI SAN DOMENICO

P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori


 

CAPITOLO V

 

Apostolato di S. Domenico dal principio della guerra Albigese fino al quarto Concilio Lateranense

Istituzione del SS. Rosario

S. Domenico ed i suoi primi discepoli a Tolosa

 

Lo scoppio della guerra albigese segnò il momento supremo in cui tutta la virtù e tutto il genio di Domenico si rivelarono. L'alternativa di abbandonare la sua missione in un paese pieno di sangue e di rivolgimenti, o di prender parte alla guerra, come avevano fatto i religiosi di Citeaux, era ugualmente fatale per la sua vocazione. Fuggendo sarebbe venuto rinnegare l'apostolato; intromettendosi nella guerra avrebbe tolto alla sua vita ed alla sua parola tutto il carattere apostolico. Ond'egli non fece né una cosa, né l'altra; e sull'esempio dei primi apostoli, i quali, nonché fuggire il male, andavano ad affrontarlo nel centro stesso della sua possanza, rivolse particolarmente lo sguardo verso Tolosa, la capitale dell'eresia in Europa. San Pietro innalzò in Antiochia, città regina d'Oriente, la sua prima cattedra, e di là inviò il suo discepolo San Matteo in Alessandria, la più commerciale allora e la più ricca città del mondo; S. Paolo si trattenne lungo tempo a Corinto, la più celebre fra le città greche per gli splendori stessi della sua corruzione; l'uno e l'altro, senza nessuna precedente intesa, vennero a morire a Roma. Non sta, bene, aveva detto Gesù Cristo, che un profeta muoia fuori di Gerusalemme (Lc 13,23). Era adunque conveniente che anche Domenico, qualunque piega le cose prendessero, innalzasse la sua tenda a Tolosa, focolare e faro di tutte le eresie. Gli uomini di poca fede aspettano, dicono essi, la pace per operare; l'apostolo semina nei giorni procellosi, per raccogliere quando torna il sereno. Egli ha presenti alla memoria quelle parole del suo maestro: guerre e rumori di guerre feriranno le vostre orecchie; guardate di non paventare (Mt 5,4). Domenico quindi rimase fermo al suo posto, nonostante i terrori della guerra; e più che mai allora comprese la necessità di non alterare affatto il suo atteggiamento pacifico e rassegnato. Imperocché per quanto sia giusto impugnare la spada contro chi tenti opprimere la verità colla violenza, pure è ben difficile che la verità non risenta di tal protezione, e non diventi complice di quegli eccessi, che in ogni sanguinoso conflitto sono inevitabili. La spada non sempre si arresta precisamente là, dove termina la giustizia; e quando fra le mani dell'uomo s'è riscaldata, con difficoltà rientra di sua natura nel fodero. Bisognerebbe esser angeli per saper combattere esclusivamente per la giustizia; lo spirito umano va soggetto a tali vicende da ripromettere qualche volta agli stessi oppressori vinti un qualche rifugio nella compassione, non sempre giusta, dei vincitori. Era dunque di assoluta necessità che Domenico restasse fedele al magnanimo disegno di Azevedo, e che accanto alla cavalleria armata a difesa della libertà della Chiesa, apparisse l'uomo evangelico, fidente nella sola forza della grazia e del convincimento. Una volta in Polonia quando il sacerdote leggeva dall'altare il Vangelo, il cavaliere sfoderava la spada per metà, ed in tale atteggiamento marziale ascoltava le soavi parole del Cristo. Era per significare i veri rapporti fra la città del mondo e la città di Dio. La città di Dio, personificata nel sacerdote, parla, prega, benedice, offre se stessa in sacrifizio; la città del mondo, rappresentata dal cavaliere, ascolta silenziosa, unita intimamente a tutti gli atti del sacerdote, tenendo pronta la spada non per imporre la fede, ma per assicurarne la libertà. Il prete ed il cavaliere compiono due uffici nel mistero del cristianesimo che non devono mai esser confusi, ed il primo deve essere sempre più in vista che il secondo. Mentre il sacerdote canta ad alta voce il Vangelo alla presenza del popolo ed in mezzo allo scintillio dei ceri, il cavaliere tiene a mezzo la spada nel fodero, quasi che la giustizia e la misericordia gli parlino ad un tempo, e l'Evangelo stesso, alla cui difesa sta già apparecchiato, gli sussurri all'orecchio: Beati gli uomini mansueti, perocchè possederanno la terra (Mt 24,6). Domenico e il Montfort furono i due eroi della guerra albigese: sacerdote l'uno, l'altro cavaliere. Vedemmo come il Montfort soddisfece al proprio ufficio; ora vediamo come Domenico adempì il suo.

Il lettore avrà certo notato come in tutti gli avvenimenti della guerra sopra descritta mai figuri il nome di Domenico. Concili, conferenze, riconciliazioni, assedi, trionfi, tutto si fa senza di lui, né di lui si parla in alcuna lettera che vada a Roma o ne venga. Una volta sola l'abbiamo trovato a Muret, là, in una chiesa a pregare, nell'ora stessa della battaglia. E questo unanime silenzio degli storici è tanto più notevole, in quanto che sono essi di diverse scuole, alcuni ecclesiastici altri laici, chi favorevoli ai crociati e chi amici di Raimondo. Onde non è possibile che Domenico prendesse parte ai trattati ed alle operazioni militari della crociata, e che tutti gli storici, quasi a gara, l'abbiano taciuto. Fatti di altro genere ci sono stati fedelmente raccontati: perché nascondere questi ultimi? Or ecco i pochi frammenti rimasti di lui vita in quel tempo. «Dopo che il vescovo fu ritornato nella sua diocesi, dice il B. Umberto, S. Domenico rimasto quasi solo, animato unicamente da pochi compagni non legati a lui da nessun voto, sostenne per il corso di dieci anni la fede cattolica in diversi luoghi della provincia di Narbona, particolarmente a Carcassona e a Fangeaux, consacratosi senza riserva alla salvezza delle anime col ministero della predicazione, e soffrendo di buon animo affronti, ignominie e angosce assai pel nome del Signor nostro Gesù Cristo» .

Domenico aveva prescelto a sua abituale residenza Fangeaux, città situata sopra un'altura, perché di là scoprivasi al piano il monastero di Prouille. Quanto a Carcassona, che non era a maggior distanza da quella dolce solitudine, manifestò egli medesimo il motivo della sua preferenza, quando interrogato perché non stava volentieri nella città e diocesi di Tolosa: «Perché, rispose, nella diocesi di Tolosa m'imbatto spessissimo in gente che mi onora, mentre a Carcassona, tutti mi sono contrari» . E veramente i nemici della fede rivolgevano ogni sorta di insulti contro il servo di Dio: gli sputavano in faccia, gli gittavano addosso il fango, gli appuntavano per derisione delle paglie al mantello; e lui, superiore a tutto si teneva felice, come l'Apostolo, d'essere giudicato degno di patire tali obbrobri per il nome di Gesù. Gli eretici macchinarono anche di togliergli la vita; ed una volta che di ciò lo minacciarono, rispose loro: «La gloria del martirio non è per me, che siffatta morte non mi sono ancor meritato» . E dovendo passare per un luogo dove sapeva benissimo essergli state tese insidie, non solamente si avanzò intrepido, ma giubilando e cantando. Talché gli eretici maravigliati di tanta fermezza, un'altra volta, per tentarlo, gli domandarono che cosa avrebbe fatto se fosse capitato nelle loro mani: «V'avrei pregato, rispose, di non uccidermi con un sol colpo, ma di tagliarmi a pezzi le membra, e dopo avermele poste dinanzi, cavarmi ancora gli occhi, lasciandomi mezzo morto a nuotare nel mio sangue, o facendo quello che più vi fosse piaciuto degli ultimi avanzi della mia vita» .

Teodoro d'Apolda fa il seguente racconto:«Accadde che dovendosi tenere una solenne conferenza con gli eretici, un vescovo si era preparato per recarvisi con gran pompa. Allora l'umile banditore di Cristo: - Padre mio e Signore, gli disse, ma non è così che bisogna agire contro i figli dell'orgoglio. I nemici della verità si han da vincere con esempi di umiltà, di pazienza, di religione e di tutte le virtù, non già col fasto e con le grandezze, né col far mostra della gloria del secolo. Armiamoci della preghiera, e facciamo risplendere nelle nostre persone le stimmate dell'umiltà; andiamo a piedi scalzi incontro a questi Golia. - Il Vescovo accondiscese al pio consiglio, e tutti si scalzarono. Avvenne che, non pratici del cammino, presero per guida un uomo incontrato per via, creduto cattolico, ma che al contrario era eretico, il quale promise loro di condurli direttamente sul posto; invece li fece maliziosamente passare attraverso un bosco pieno di rovi e di spine, sicché i loro piedi ne furono lacerati, fino a scorrere di sangue. L'atleta di Dio giulivo e paziente esortò allora i compagni a render grazie al Signore per quel che soffrivano, e confidate, o carissimi, nel Signore, disse loro; la vittoria è sicuramente per noi, dacché i nostri peccati sono espiati col sangue. - L'eretico mosso dall'esempio di sì ammirabile pazienza e dalle parole del Santo, confessò il mal fatto, e abiurò l'eresia» .

Nei dintorni di Tolosa si trovavano alcune nobili signore, le quali sedotte dall'apparente austerità degli eretici, avevano abbandonata la fede. Domenico al principio di una quaresima chiese loro ospitalità, allo scopo di ricondurle nel seno della Chiesa. Non entrò mai con loro in dispute, ma durante tutta la quaresima tanto lui che il suo compagno si cibarono di solo pane e non bevvero che acqua; quando poi la prima sera esse si affaccendavano a preparar loro dei letti, gli ospiti chiesero per coricarsi due sole tavole, e la durarono così fino a Pasqua, interrompendo

ciascuna notte i corti sonni con fervide orazioni. Questa muta eloquenza fu onnipotente sul cuore di quelle signore, le quali riconobbero nel sacrifizio l'amore, e nell’amore la verità.

Non avrà dimenticato il lettore che Domenico a Palenza voleva vendersi per riscattare il fratello di una povera donna. Anche in Linguadoca, alla vista di un eretico trattenuto nell'eresia solo dalla miseria, ebbe lo stesso eroismo; era pronto a vendersi per potergli dare da vivere; e l'avrebbe fatto se la divina Provvidenza non avesse provveduto altrimenti al sostentamento di quell'infelice.

Un altro fatto anche più singolare ci fa conoscere le finezze della di lui carità. «Essendo stati catturati alcuni eretici nel territorio di Tolosa, scrive Teodoro d’Apolda, ed essendo stati convinti di eresia, perché ostinati nei loro errori, furono consegnati al braccio secolare e condannati ad esser bruciati. Domenico, dal cuore iniziato ai segreti di Dio, fissò uno di loro, e rivolto agli ufficiali della corte: - Lasciate costui in disparte, disse, e badate bene di non bruciarlo- .

Appressatosi poi all'eretico gli sussurrò dolcemente: - So che vi ci vorrà del tempo, o figlio, ma finirete col farvi buono e santo. - Scena commovente e meravigliosa! Ancora venti anni costui rimase nell'accecamento dell'eresia; finché sopravvenuta la grazia, chiese di vestir l'abito de' Frati Predicatori; e sotto tale divisa visse e morì nella fede» .

Costantino d'Orvieto ed il B. Umberto, narrando questo stesso fatto vi aggiungono una circostanza degna di nota. Essi fanno osservare che gli eretici prima di essere stati consegnati al braccio secolare, da Domenico erano stati convinti: unica parola del secolo decimoterzo da cui alcuni pretesero inferire che il Santo prendesse parte a processi criminali. Ma gli storici della guerra Albigese c'insegnano chiaramente in che consistesse questo convincere gli eretici. E da sapere infatti che in Linguadoca gli eretici non vivevano in segreto, ma in piena luce combattevano armati a difesa de' loro errori. Quando nella guerra qualcuno di loro cadeva in mano de' crociati, si avea cura che alcuni ecclesiastici gli esponessero i dommi cattolici, e gli facessero rilevare la stranezza delle loro dottrine: questo si chiamava convincerli, non già di essere eretici, ché ciò non si curavano affatto di nascondere, ma di essere in una via falsa, contraria alle Scritture, alla tradizione, alla ragione medesima. Con promessa di perdono si scongiuravano insistentemente ad abiurare l'eresia; e quelli che avessero ceduto a tali istanze, venivano assoluti; quelli poi che ostinatamente perseveravano nell'errore, venivano consegnati al braccio secolare. Il convincere adunque gli eretici non era che un ufficio di abnegazione in cui l'energia dello spirito e l'eloquenza della carità traevano vita dalla speranza di sottrarre alla morte degli sventurati. Che S. Domenico almeno una volta abbia esercitato tale ufficio non c'è da dubitarne, quando due storici contemporanei l'attestano; ma trarre argomento da ciò per accusarlo di rigore contro gli eretici, è confondere il sacerdote che assiste il delinquente, col giudice che lo condanna, o col carnefice che gli toglie la vita.

Forse qualcuno domanderà con meraviglia come Domenico avesse tanta autorità da sottrarre dal supplizio un eretico con una semplice predizione; ma lasciando stare l'autorità che la fama di santo aveva meritato alla sua parola, è da notarsi che egli era stato investito dai legati della S. Sede dell'ufficio di riconciliare alla Chiesa gli eretici. Della qual cosa ne abbiamo prova autentica in due documenti, ambedue senza data, ma che non possono appartenere che a quest'epoca della sua vita. Uno è cosi formulato: «Frate Domenico, canonico di Osma, umile ministro della predicazione, a tutti i fedeli in Cristo a cui perverranno le seguenti lettere, salute e sincera carità nel Signore. Rendiamo noto per vostra norma aver noi permesso a Raimondo Guglielmo d'Hautérive Pelagianire di ricevere ad abitare nella sua casa di Tolosa Guglielmo Uguccione, che ci ha confessato d'avere indossato altra volta l'abito degli eretici. E questo glie lo permettiamo, fino a che dal Signor Cardinale non sia ordinato altrimenti a me od a lui; né tale coabitazione dovrà tornare nessun modo a suo pregiudizio o disonore» . Nell'altro documento leggesi quanto appresso: «Fra Domenico, canonico di Osma, a tutti i fedeli di Cristo ai quali perverranno le presenti lettere, saluto in Cristo. - Noi, per autorità del Signor Abate di Citeaux, che ci ha imposto tale ufficio, abbiamo riconciliato colla Chiesa il latore della presente, Ponzio Roger, per la grazia di Dio convertito dall'eresia alla fede; ed ordiniamo che in virtù del giuramento da lui emesso nelle nostre mani, per tre Domeniche, o giorni festivi, dall'entrata del paese debba portarsi alla chiesa nudo fino alla cintura e percosso con verghe dal sacerdote. Ordiniamo ancora che in ogni tempo egli si astenga dal mangiar carne, uova, formaggio, e quanto trae origine dalla carne, eccettuati i giorni di Pasqua, di Pentecoste, e di Natale, nei quali ne mangerà in protesta degli antichi suoi errori. Farà tre quaresime all'anno, digiunando ed astenendosi anche dal pesce, salvo che l'infermità del corpo o i calori dell'estate non richiedano una dispensa. Vestirà abiti religiosi sì nella forma che nel colore, ed alle estremità ci attaccherà due crocette. Ogni giorno, ove possa, ascolterà la Messa, e nei giorni festivi andrà anche a vespro. Sette volte il giorno reciterà dieci Pater noster, e venti ne dirà a mezzanotte. Non violerà la legge della castità, e una volta al mese, alla mattina, mostrerà il presento documento al cappellano del villaggio di Cerè, al qual cappellano ordiniamo di aver cura che il suo penitente conduca una buona vita, ed osservi tutto ciò che gli è stato prescritto, fino a tanto che il Signor Legato non disponga altrimenti. Che se il penitente trascurerà, e ciò con disprezzo, di ubbidire, vogliamo che, si abbia per scomunicato, e separato dalla società dei fedeli, siccome uno spergiuro ed eretico» .

Forse alcuni troveranno strane ed eccessive queste prescrizioni; ma dovrebbero ricordare le penitenze canoniche della Chiesa primitiva, gli usi penitenziari ,dei chiostri, e le pratiche a cui volontariamente si assoggettavano molti cristiani del medio evo ad espiazione delle proprie colpe. Tutti sanno, per non citare che un esempio, che Enrico II, re d'Inghilterra, si fece battere con verghe da alcuni monaci sulla tomba di Tommaso Becket, arcivescovo di Cantorbery, perché aveva dato occasione al di lui assassinio. Ed anche oggi nelle grandi basiliche di Roma il sacerdote dopo avere assoluto il penitente, lo percuote leggermente nelle spalle con una lunga bacchetta. S. Domenico quindi non fece che conformarsi agli usi del suo tempo; e chiunque conosca tali usi, non riscontrerà nel suo modo di agire che un vero spirito di bontà.

Né minore della carità e della dolcezza era nel santo il disinteresse. Gli furono offerti i vescovati di Beziers, di Conserans e di Comminges, ma costantemente li ricusò; ed una volta giunse a dire che piuttosto se ne sarebbe fuggito nottetempo col suo bordone, anziché accettare vescovati o qualsiasi dignità. Ecco il ritratto che ce ne fa Guglielmo di Pietro, abate del Monastero di S. Paolo in Francia, uno di quelli che più lo conobbero nei dodici anni del suo apostolato in Linguadoca, e che fu chiamato per testimone a Tolosa nel processo di canonizzazione del Santo. «Il Beato Domenico avea una sete ardente della salute delle anime, e con zelo illimitato si adoprava a loro vantaggio. Predicatore ferventissimo, di giorno, di notte, nelle chiese, nelle case, sui campi, per le vie mai si stancava di annunziare la divina parola, raccomandando ai suoi frati di fare lo stesso e di non parlare altro che di Dio. Avversario degli eretici, o colla predicazione, o con le dispute, o in qualunque altro modo possibile sempre loro si opponeva. Amò poi tanto la povertà, da rinunziare persino i possedimenti, le terre, i castelli e tutte le entrate di cui in più luoghi il suo Ordine era stato arricchito; ed era talmente frugale, che un pane e una zuppa bastavano al suo nutrimento, salvo rare eccezioni in cui rallentava alquanto da tale austerità per riguardo ai suoi frati ed agli altri commensali; imperocché quanto agli altri, voleva che possibilmente avessero tutto in abbondanza. Ho inteso dire da molti ch'ei si mantenne sempre vergine. Ricusò il vescovato di Conserans, e non volle mai governare quella chiesa, per quanto ne fosse stato legittimamente eletto pastore e prelato. Io non conobbi uomo più umile di lui, né di lui più avverso alla gloria del mondo e a tutto che ad, essa appartenga. Le ingiurie, le maledizioni, gli obbrobri li sopportava con pazienza e con gioia, quasi fossero doni di gran valore. Non lo spaventavano punto le persecuzioni, ed intrepidamente affrontava i pericoli; mai per paura abbandonò la via intrapresa. Che anzi, se cammin facendo era vinto dal sonno, sostava lungo la strada medesima o a pochi passi di distanza, e prendeva riposo. In santità poi superò quanti mai io abbia conosciuti. Noncurante di sé fino al disprezzo, si riteneva per un uomo da nulla. Con tenera bontà consolava i suoi frati ammalati, compassionando in modo ammirabile la loro infermità. Veniva a sapere che alcuno di loro gemeva sotto il peso delle tribolazioni? E lui pronto ad esortarlo alla pazienza, e secondo il suo meglio ad infondergli coraggio. Amante della regola, ne riprendeva paternamente i trasgressori; nelle parole, nei modi, nel vitto, nel vestito, nella purezza de' costumi, in tutto era di esempio ai suoi fratelli. Non conobbi uomo più abituato alla preghiera, o che versasse tante lacrime. Quando pregava mandava tali gemiti, che si udivano anche in lontananza; e gemendo diceva al Signore: - Pietà, o Signore, del popolo; e che sarà dei peccatori? - E passava le notti insonni piangendo e sospirando pei peccati degli uomini. Generoso ed ospitale, dava liberalmente ai poveri tutto che avesse; amava ed onorava tutti i religiosi e tutti gli altri che alla religione fossero amici; né mai udii, né'seppi, che avesse altro letto che la chiesa, se pure gli era dato di trovare una chiesa; altrimenti coricavasi sopra una tavola o per terra; e se gli preparavano un letto, tolti via materassi e lenzuola, si distendeva sulle dure corde. Lo vidi sempre con una sola tonaca e rappezzata, usando abiti più vili degli altri frati. Della fede e della pace fu amatore grandissimo, e per quanto poté, dell'una e dell'altra fedelissimo promotore» .

A virtù così sublimi, si aggiunse in Domenico anche il dono di far miracoli. Un giorno traversato un fiume su di una barca e giunto all'altra riva, fu richiesto dal barcaiolo della dovuta mercede. «Io, rispose Domenico, sono un discepolo e un servitore di Cristo, né ho con me oro od argento; penserà Dio a compensarvi pel prezzo della mia traversata». Ma il barcaiolo inquieto, presolo per la cappa, tirandogliela diceva: «O io avrò la mia mercede, o voi lascierete la cappa». Domenico, allora alzati gli occhi al cielo si raccolse un momento, e dipoi guardando in terra e mostrando al barcaiolo una moneta d'argento che la Provvidenza gli aveva mandato: «Fratello mio, gli disse, ecco ciò che voi domandate; prendete, e lasciate che lo me ne vada in pace» .

Nell'anno 1211, tempo in cui i crociati erano accampati nei dintorni di Tolosa, alcuni inglesi che andavano pellegrinando a S. Giacomo di Compostella, non volendo passare dentro quella città, perché interdetta, pensarono di traversare in barca la Garonna. Avvenne che la barca troppo carica - eran circa cinquanta - si capovolse. Alle grida dei pellegrini e dei soldati, Domenico uscì fuori da una chiesa vicina, e gittatosi per terra con le mani in croce, si mise ad implorare da Dio la salvezza di quegli infelici omai annegati. Terminata la preghiera, si alzò, e voltosi verso il fiume, disse ad alta voce: «Nel nome di Gesù Cristo, io vi comando di venir tutti a riva».

Gli annegati ricomparvero subito sopra le acque, e per mezzo di lunghe pertiche apprestate loro dai soldati, guadagnarono la sponda .

Il primo priore del convento di S. Giacomo di Parigi, conosciuto sotto il nome di Matteo di Francia, addivenne discepolo di Domenico in seguito ad un altro miracolo di cui fu testimone. Egli era priore di una collegiata nella città di Castres. Domenico andava spesso a visitar quella chiesa perché vi si conservavano le reliquie del martire S. Vincenzo; ed ordinariamente vi rimaneva a pregare fino all'ora di mezzogiorno. Una volta però fece passare anche quest'ora, ed il priore mandò uno de' suoi chierici ad avvertirlo. Il chierico, arrivato in chiesa, trovò Domenico elevato un mezzo braccio da terra, rapito in estasi dinnanzi all'altare. Corse ad avvisarne il priore,

il quale rimase talmente impressionato dal vedere il Santo in estasi, che poco dopo si fece compagno del servo di Dio; e Domenico, come era solito praticare con quelli che metteva a parte del suo apostolato, gli promise il pane della vita e l'acqua del cielo.

Gli storici raccontano ancora brevemente come il Santo cacciasse il demonio da un ossesso; come volendo pregare in una chiesa le cui porte erano chiuse, d'un tratto si trovasse trasportato dentro; come viaggiando con un religioso, senza che l'uno sapesse la lingua dell'altro, conversassero per tre giorni insieme quasi usassero tutti e due lo stesso idioma. Raccontano ancora come essendo caduti nell'Ariège i libri che Domenico portava con sé, ritrovati da un pescatore dopo vari giorni, sembravano neppur toccati dalle acque. Questi fatti, sparsi qua e là nelle storie, li abbiamo voluti raccogliere qui siccome sante reliquie.

Iddio infuse nel suo servo anche lo spirito di profezia. Nella quaresima dell'anno 1212, che Domenico passò a Carcassona predicando e disimpegnando l'ufficio di vicario generale a lui affidato dal vescovo assente, fu interrogato da un religioso di Citeaux sull'esito della guerra. «Maestro Domenico, gli domandò, ma non finiranno mai questi mali?». E Domenico tacque. Ma il religioso, sapendo bene che Dio gli rivelava molte cose, insisté ancora, finché Domenico: «Sì, rispose, questi mali avranno fine, ma non così presto; molto sangue ancora, oltre il già sparso, si verserà, ed anche un re morirà nella battaglia». Quelli che intesero tal predizione, temerono subito pel primogenito di Filippo Augusto, che avea fatto voto di arruolarsi ai crociati contro gli Albigesi; ma Domenico rassicurandoli: «Non temete pel re di Francia, soggiunse; un altro re dovrà soccombere, e presto, in mezzo alle vicende di questa guerra» . Poco dopo fu spento a Muret il re di Aragona.

La durata ed i fortunosi avvenimenti della guerra parevano un ostacolo insormontabile all'attuazione dell'idea sempre fissa in Domenico di fondare un Ordine religioso tutto consacrato al ministero della predicazione. Per questo non si stancava mai di chiedere a Dio la pace; e per ottenerla, ed affrettare così il trionfo della fede istituì, non senza segreta ispirazione, quel metodo di preghiera, divulgatosi poscia in tutta la Chiesa, sotto il nome di Rosario.

Quando l'Arcangelo Gabriele fu inviato da Dio alla Vergine per annunziarle il mistero dell'Incarnazione del Verbo nel di Lei purissimo seno, la salutò, dicendole: Salve, o piena di grazia, il Signore è teco; tu fra le donne sei la benedetta (Lc 1,28). Queste parole, le più soavi che altra creatura abbia mai ascoltato, passarono di età in età sulle labbra dei cristiani, che dal fondo di questa valle di lacrime anche oggi non cessano di ripetere alla Madre del loro Redentore: Salve, o Maria. Le gerarchie del cielo delegarono uno de' loro principi per indirizzare all'umile figlia di David il glorioso saluto; ed ora che Ella se ne sta sopra gli angeli e tutti i cori celesti, il genere umano che la ebbe figlia e sorella, le innalza di quaggiù l'angelico saluto: Salve, o Maria. E come la Vergine, tosto che intese per la prima volta l'Ave misterioso dalle labbra di Gabriele, concepì nel suo purissimo seno il Verbo di Dio, cosi sempre che bocca umana le ripete il saluto, che fu il segno della sua maternità, le sue viscere verginali tutte si commuovono alla rimembranza di un momento il cui simile non fu mai né in cielo, né su la terra; e l'eternità stessa risente della felicità di cui fu allora piena la Vergine. Però, quantunque sia antico l'uso dei cristiani di rivolgere con tale invocazione il loro cuore a Maria, nondimeno ciò si faceva prima senza regola né forma solenne. Ciascuno abbandonavasi all'impulso del proprio cuore, senza che i fedeli indirizzassero mai in comune tal saluto all'amatissima loro protettrice. Domenico, che ben comprendeva la forza dell'associazione nella preghiera, credé ottima cosa far sì che la salutazione angelica fosse detta in comune, affinché la solenne acclamazione di tutto un popolo salisse al cielo con maggiore possanza. Aggiungasi che la brevità stessa delle parole dell'Angelo, quasi esigeva che fossero ripetute più volte, precisamente come le acclamazioni dei popoli al passaggio dei loro sovrani. E poiché la ripetizione poteva generar distrazione allo spirito, Domenico provvide anche a questo, distribuendo le salutazioni vocali in più serio, a ciascuna delle quali unì il ricordo di uno dei Misteri della nostra redenzione, che furono alla lor volta per la Vergine benedetta argomento di gioia, di dolore, di trionfo. Così l’orazione mentale sarebbe stata necessariamente congiunta colla pubblica preghiera; ed il popolo, salutando la sua Madre e Regina, l'avrebbe accompagnata dal fondo del cuore in ciascuno dei principali avvenimenti della di Lei vita. A meglio provvedere poi alla durata ed alla solennità di cosiffatto modo di pregare, Domenico pensò ancora alla fondazione di una Confraternita. Pietoso divisamento che fu benedetto dal più grande successo, il gradimento universale dei popoli. I cristiani si tramandarono di secolo in secolo tal pratica con incredibile fedeltà; le Confraternite del Rosario si moltiplicarono senza numero; né v'ha cristiano al mondo, che sotto il nome di Corona non abbia con sé il suo Rosario. E chi sul far della sera non ha udito nelle chiese di campagna la voce grave dei contadini recitare a due cori l'angelico saluto? chi non ha incontrato processioni di pellegrini con in mano, la corona, che scorrono lentamente fra le dita, rendendo meno penosa la lunghezza del viaggio col ripetere alternativamente il nome di Maria? Ora, una pratica che arriva a guadagnarsi l'approvazione universale e per sempre, è segno manifesto che ha necessaria e misteriosa corrispondenza coi costumi e coi destini dell'uomo. Pure il razionalista sogghigna al veder passare lunghe file di uomini che van ripetendo sempre le medesime parole; ma chi è rischiarato da luce più bella, sa bene come l'amore ha solo una parola, che ridetta sempre non si ripete mai.

La devozione del Rosario, interrotta nel decimoquarto secolo per la terribile peste che desolò l'Europa, nel secolo seguente fu ripristinata dal B. Alano de La Roche, domenicano di Brettagna. Nel 1573 poi, il sommo pontefice Gregorio XIII, a memoria della celebre battaglia di Lepanto vinta contro i Turchi sotto il pontificato di un Papa domenicano, e nel giorno stesso in cui le confraternite del Rosario a Roma e nel mondo cristiano facevano pubbliche processioni, istituì la Festa del Rosario, che ogni anno si celebra da tutta la Chiesa la prima Domenica di ottobre .

Queste adunque le armi adoperate da Domenico contro l'eresia e contro i mali della guerra: predicazione, dispute, pazienza nel sopportare le ingiurie, povertà volontaria, vita austera per sé, carità illimitata verso gli altri, il dono dei miracoli, e finalmente il culto della SS. Vergine, da lui promosso con l'istituzione del S. Rosario. I dieci anni che passarono dall'abboccamento di Montpellier fino al Concilio Lateranense, furono spesi in questo genere di vita in lui così metodico, che gli storici contemporanei, per timore di riuscire monotoni, si risparmiarono di descrivercelo; e dell'umile ed eroica perseveranza di Domenico nell’esercizio continuo delle virtù non ci tramandarono che uno scarso numero di fatti. Narrare un giorno della sua storia in quegli anni, è narrarne la vita. Questa stessa mancanza di avvenimenti però in un secolo agitatissimo fa risaltare maggiormente la figura di Domenico accanto a quella del conte di Montfort. Uniti da vincoli di sincera amicizia e da un ideale comune, nel genere di vita essi si trovano, così diversi, quanto l'armatura di un cavaliere è differente dal sacco di un povero frate. Il sole della storia converge infiniti raggi sulla corazza del Montfort e la fa risplendere di generose azioni, per quanto frammiste ad ombre; sulla cappa di Domenico appena ve ne getta un solo; però è così puro, così santo che lo stesso tenue splendore è la. più smagliante testimonianza di gloria. Poco è il lume, perché l'uomo di Dio si tiene sempre lontano dai rumori del sangue; perché perseverante nel suo ministero non schiude la bocca e he a benedire, non apre il cuore che per pregare, non stende il braccio so non per atti di carità; perché infine la virtù quando è pura, non altro la illumina che Iddio.

A quarant'anni Domenico cominciò a raccogliere il frutto dei suoi lunghi meriti. I crociati nel 1215 gli aprirono col loro trionfo le porte di Tolosa: e la Provvidenza che sa far cospirare nello stesso tempo ad un medesimo centro i più opposti elementi, mandò a lui i due uomini di cui abbisognava per gettare i primi fondamenti dell'Ordine dei Frati Predicatori. Entrambi cittadini di Tolosa e ragguardevoli per nascita e per merito personale, furono questi Pietro Cellani, che della sua grande virtù facea ornamento alle sue molte ricchezze, e un altro conosciuto sotto il nome di Tommaso, uomo di rara eloquenza e di amabilità singolare. Mossi da un medesimo impulso dello Spirito Santo, insieme si offrirono a Domenico per compagni, e Pietro Cellani offrì ancora la, propria casa, assai grande, situata presso il castello dei conti Tolosani, detto il castello di Narbona. Domenico riunì in tale abitazione i suoi discepoli, sei in tutti: Pietro Cellani, Tommaso e altri quattro; piccola greggia, ma che pure era costata dieci anni di apostolato e quarantacinque anni di vita tutta consacrata al Signore. Come conoscono poco la natura delle cose durature quelli che hanno troppa fretta nel loro cammino! E come poco la conoscono anche quelli che rigettano da sé un secolo perché sconvolto e tempestoso! Dopoché Domenico passando la prima volta per Tolosa, in una veglia spesa a convertire un eretico ebbe intraveduta l’idea del suo Ordine, il tempo era stato con lui inesorabile. La morte prematura del suo amico e maestro Azevedo lo avea abbandonato orfano in terra straniera: una guerra sanguinosa lo avea coinvolto in mille impacci: l'odio degli eretici, dapprima meno furioso per la sicurezza medesima della loro superiorità, s'era in seguito, esaltato più che mai; finalmente l'indirizzo stesso dei cattolici volto a tutt’altra piega che quella dell'apostolato, lasciavano Domenico in una solitudine da sgomentare. Ma ecco che il soffio di Dio dirada le nubi; il conte di Tolosa, che un giorno se ne morirà tranquillo e vittorioso, ora è sopraffatto in una decisiva battaglia; Dio concede al suo servo alcuni mesi di pace, e l'Ordine de' Frati Predicatori nell'intermezzo di due tempeste viene stabilendosi nella capitale stessa dell'eresia.

L’abito dei primi compagni di Domenico fu quello stesso che lui indossava; una tonaca di lana bianca, una cotta di lino, una cappa e un cappuccio di lana nera. Era l'abito dei canonici regolari da lui sempre portato dopo il suo ingresso nel capitolo di Osma, e che continuò a portare insieme co' suoi, finché per un memorabile avvenimento di cui parleremo a suo luogo, l'abito fu alquanto mutato. Tutti menavano vita comune sotto certe regole; e giovò assai a tal fondazione la cooperazione di Folco, vescovo di Tolosa, quel generoso Vescovo cisterciense, che vedemmo favorire fin da principio gli ideali di Azevedo e di Domenico. Né Folco si limitò a concorrere solo spiritualmente a tal fondazione; che anzi della sua liberalità a tale scopo abbiamo un insigne monumento, che la riconoscenza dei Frati Predicatori deve, per quanto può, rendere imperituro. «Nel Nome del nostro Signor Gesù Cristo. Rendiamo noto a tutti i presenti e futuri che noi, Folco, per la grazia di Dio umile ministro della sede di Tolosa, volendo estirpare l'eresia, bandire i vizi, insegnare agli uomini le regole della fede ed informarli a buoni costumi, instituiamo a predicatori della nostra diocesi Fra Domenico e i suoi compagni, i quali si son prefissi di viaggiare a piedi e da religiosi, secondo l'evangelica povertà, e di annunziare la verace parola. E perché l'operaio è degno del necessario sostentamento, né si ha da imbavagliar la bocca al bove che trebbia il grano; che anzi chi predica il Vangelo deve vivere del Vangelo; noi vogliamo che Fra Domenico ed i suoi compagni, spargendo il seme della verità nella nostra diocesi, vi debbano anche raccogliere di che sostentare la vita. Onde, di comune accordo col capitolo di S. Stefano e di tutto il clero della nostra diocesi, a loro, ed a tutti quelli che per lo zelo del Signore e per la salute delle anime si daranno nello stesso modo alla predicazione, assegniamo in perpetuo la sesta parte delle decime che usufruiscono le fabbricerie delle nostre Chiese parrocchiali, acciocché essi possano provvedere ai loro bisogni, e di tanto in tanto possano aver modo di riposarsi dalle fatiche. Se alla fine dell'anno ci sarà un sopravanzo, vogliamo e ordiniamo che s'impieghi nell'ornare le nostre chiese parrocchiali, o in soccorso de poveri, secondo che al, Vescovo sembrerà opportuno. Imperocché essendo ordinato dal diritto che una corta porzione delle decime sia elargita ai poveri, senza dubbio noi siamo tenuti di farne parte a coloro che abbracciano per Gesù Cristo la povertà, con animo di arricchire il mondo dei loro buoni esempi e del dono della celeste dottrina; affinché quelli da cui noi riceviamo le cose temporali, ricevano da noi, direttamente o indirettamente, le cose spirituali. Dato l'anno 1215 dell'Incarnazione del Verbo, regnando in Francia re Filippo, ed essendo Principe di Tolosa il conte di Montfort» .

Quest'atto di munificenza non fu il solo in favore del nascente Ordine dei Frati Predicatori. «In quel tempo, così gli storici, il Signor Simone, conte di Monfort, illustre principe che combatté con la spada materiale gli eretici, ed il Beato Domenico, che li combatté con la spada della divina parola, strinsero fra loro grande famigliarità ed amicizia» . Montfort donò all'amico il castello di Cassanel, nella diocesi d’Agen, coi suoi possedimenti; e prima avea già confermate numerose donazioni a favore del monastero di Prouille, le cui possessioni da lui medesimo erano state accresciute. Né la stima e l'affezione sua per Domenico si limitarono ai doni; ma pregò ancora il Santo di battezzargli la figlia, fidanzata per alcun tempo all'erede del regno d'Aragona, e di benedire il matrimonio del conte Amanry, suo figlio primogenito con Beatrice, figlia del delfino di Vienna. Un giorno vedremo Domenico, ormai vecchio, pentirsi di avere accettato temporali, possedimenti; e prima di scendere nel sepolcro, lo vedremo sollecitamente liberarsene come d'un peso che l'opprimeva, lasciando per patrimonio a suoi figli quella sola quotidiana Provvidenza, che è sollecita di ogni laboriosa creatura, e di cui sta scritto: Lascia al Signore la cura della tua vita, ed egli stesso ti nutrirà (Sal 54, 23.).

 

 

INDICE

INTRODUZIONE

 

Capitolo I. Genesi di S. Domenico

Capitolo II Arrivo di S. Domenico in Francia

Suo primo viaggio a Roma

Colloquio a Montpellier .

Capitolo III Apostolato di S. Domenico dall' abboccamento di Moutpellier fino al principio della guerra Albigese

Fondazione del monastero di Notre-Dame di Prouille

Capitolo IV Guerra degli AlbIgesi

Capitolo V Apostolato di S. Domenico dal principio della guerra Albigese fino al quarto

Concilio Lateranense

Istituzione del SS. Rosario

S. Domenico ed i suoi primi discepoli a Tolosa

Capitolo VI Secondo viaggio di S. Domenico a Roma

Approvazione provvisoria dell'Ordine dei Frati Predicatori fatta da Innocenzo III

Incontro di S. Domenico con S. Francesco d'Assisi

Capitolo VII Riunione di S. Domenico e del suoi compagni a Notre-Dame di Prouille

Regola e Costituzioni dei Frati Predicatori

Fondazione del convento di S. Romano a Tolosa

Capitolo VIII Terzo viaggio di S. Domenico a Roma

Conferma dell'Ordine dei Frati Predicatori

Predicazione di S. Domenico nel palazzo del Papa

Capitolo IX Nuova riunione dei Frati Predicatori a Notre-Dame di Prouille, e loro diffusione in Europa

Capitolo X Quarto viaggio di S. Domenico a Roma

Fondazione dei conventi di S. Sisto e di S. Sabina

Miracoli che accompagnarono queste due fondazioni

Capitolo XI Soggiorno dì S. Domenico a S. Sabina

S. Giacinto ed il B. Ceslao entrano nell'Ordine

Miracolosa unzione fatta dalla Vergine Santissima sul B. Reginaldo

Capitolo XII Fondazione dei conventi di S. Giacomo a Parigi, e di S. Niccolò di Bologna

Capitolo XIII Viaggio di S. Domenico in Spagna ed in Francia

Sue veglie nella grotta di Segovia

Modo di viaggiare e sistema di vita del Santo

Capitolo XIV Quinto viaggio di S. Domenico a Roma

Morte del B. Reginaldo

Il B. Giordano di Sassonia entra nell'Ordine

Capitolo XV Primo Capitolo Generale dell'Ordine

Dimora di S. Domenico in Lombardia

Istituzione del Terz'Ordine

Capitolo XVI Sesto ed ultimo viaggio di S. Domenico a Roma

Secondo Capitolo Generale Malattia e morte del Santo Patriarca

Capitolo XVII Traslazione del corpo di S. Domenico

Canonizzazione del Santo

 

 

APPENDICE

L'ORDINE DI S. DOMENICO

Capitolo I Della legittimità degli Ordini religiosi dinanzi suo Stato

Capitolo II Idea generale dell'Ordine dei Frati Predicatori

Motivi per ristabilirlo in Francia

Capitolo III Azione dei Frati Predicatori come Apostoli

Loro Missioni nell' antico e nel nuovo mondo

Capitolo IV Azione dei Frati Predicatori come dottori

S. Tommaso d'Aquino

Capitolo V Artisti, Vescovi, Cardinali, Papi, Santi e Sante, dati alla Chiesa dall’Ordine dei Frati Predicatori

Capitolo VI L'Inquisizione

Capitolo VII Conclusione

 

 

 

 

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