VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
CAPITOLO V
Apostolato di S. Domenico dal principio della guerra
Albigese fino al quarto Concilio Lateranense
Istituzione del SS. Rosario
S. Domenico ed i suoi primi discepoli a Tolosa
Lo scoppio della guerra albigese segnò il momento
supremo in cui tutta la virtù e tutto il genio di Domenico si
rivelarono. L'alternativa di abbandonare la sua missione in un paese
pieno di sangue e di rivolgimenti, o di prender parte alla guerra, come
avevano fatto i religiosi di Citeaux, era ugualmente fatale per la sua
vocazione. Fuggendo sarebbe venuto rinnegare l'apostolato;
intromettendosi nella guerra avrebbe tolto alla sua vita ed alla sua
parola tutto il carattere apostolico. Ond'egli non fece né una cosa, né
l'altra; e sull'esempio dei primi apostoli, i quali, nonché fuggire il
male, andavano ad affrontarlo nel centro stesso della sua possanza,
rivolse particolarmente lo sguardo verso Tolosa, la capitale dell'eresia
in Europa. San Pietro innalzò in Antiochia, città regina d'Oriente, la
sua prima cattedra, e di là inviò il suo discepolo San Matteo in
Alessandria, la più commerciale allora e la più ricca città del
mondo; S. Paolo si trattenne lungo tempo a Corinto, la più celebre fra
le città greche per gli splendori stessi della sua corruzione; l'uno e
l'altro, senza nessuna precedente intesa, vennero a morire a Roma. Non
sta, bene, aveva detto Gesù Cristo, che un profeta muoia fuori di
Gerusalemme (Lc 13,23). Era adunque conveniente che anche Domenico,
qualunque piega le cose prendessero, innalzasse la sua tenda a Tolosa,
focolare e faro di tutte le eresie. Gli uomini di poca fede aspettano,
dicono essi, la pace per operare; l'apostolo semina nei giorni
procellosi, per raccogliere quando torna il sereno. Egli ha presenti
alla memoria quelle parole del suo maestro: guerre e rumori di guerre
feriranno le vostre orecchie; guardate di non paventare (Mt 5,4).
Domenico quindi rimase fermo al suo posto, nonostante i terrori della
guerra; e più che mai allora comprese la necessità di non alterare
affatto il suo atteggiamento pacifico e rassegnato. Imperocché per
quanto sia giusto impugnare la spada contro chi tenti opprimere la verità
colla violenza, pure è ben difficile che la verità non risenta di tal
protezione, e non diventi complice di quegli eccessi, che in ogni
sanguinoso conflitto sono inevitabili. La spada non sempre si arresta
precisamente là, dove termina la giustizia; e quando fra le mani
dell'uomo s'è riscaldata, con difficoltà rientra di sua natura nel
fodero. Bisognerebbe esser angeli per saper combattere esclusivamente
per la giustizia; lo spirito umano va soggetto a tali vicende da
ripromettere qualche volta agli stessi oppressori vinti un qualche
rifugio nella compassione, non sempre giusta, dei vincitori. Era dunque
di assoluta necessità che Domenico restasse fedele al magnanimo disegno
di Azevedo, e che accanto alla cavalleria armata a difesa della libertà
della Chiesa, apparisse l'uomo evangelico, fidente nella sola forza
della grazia e del convincimento. Una volta in Polonia quando il
sacerdote leggeva dall'altare il Vangelo, il cavaliere sfoderava la
spada per metà, ed in tale atteggiamento marziale ascoltava le soavi
parole del Cristo. Era per significare i veri rapporti fra la città del
mondo e la città di Dio. La città di Dio, personificata nel sacerdote,
parla, prega, benedice, offre se stessa in sacrifizio; la città del
mondo, rappresentata dal cavaliere, ascolta silenziosa, unita
intimamente a tutti gli atti del sacerdote, tenendo pronta la spada non
per imporre la fede, ma per assicurarne la libertà. Il prete ed il
cavaliere compiono due uffici nel mistero del cristianesimo che non
devono mai esser confusi, ed il primo deve essere sempre più in vista
che il secondo. Mentre il sacerdote canta ad alta voce il Vangelo alla
presenza del popolo ed in mezzo allo scintillio dei ceri, il cavaliere
tiene a mezzo la spada nel fodero, quasi che la giustizia e la
misericordia gli parlino ad un tempo, e l'Evangelo stesso, alla cui
difesa sta già apparecchiato, gli sussurri all'orecchio: Beati gli
uomini mansueti, perocchè possederanno la terra (Mt 24,6). Domenico e
il Montfort furono i due eroi della guerra albigese: sacerdote l'uno,
l'altro cavaliere. Vedemmo come il Montfort soddisfece al proprio
ufficio; ora vediamo come Domenico adempì il suo.
Il lettore avrà certo notato come in tutti gli
avvenimenti della guerra sopra descritta mai figuri il nome di Domenico.
Concili, conferenze, riconciliazioni, assedi, trionfi, tutto si fa senza
di lui, né di lui si parla in alcuna lettera che vada a Roma o ne
venga. Una volta sola l'abbiamo trovato a Muret, là, in una chiesa a
pregare, nell'ora stessa della battaglia. E questo unanime silenzio
degli storici è tanto più notevole, in quanto che sono essi di diverse
scuole, alcuni ecclesiastici altri laici, chi favorevoli ai crociati e
chi amici di Raimondo. Onde non è possibile che Domenico prendesse
parte ai trattati ed alle operazioni militari della crociata, e che
tutti gli storici, quasi a gara, l'abbiano taciuto. Fatti di altro
genere ci sono stati fedelmente raccontati: perché nascondere questi
ultimi? Or ecco i pochi frammenti rimasti di lui vita in quel tempo. «Dopo
che il vescovo fu ritornato nella sua diocesi, dice il B. Umberto, S.
Domenico rimasto quasi solo, animato unicamente da pochi compagni non
legati a lui da nessun voto, sostenne per il corso di dieci anni la fede
cattolica in diversi luoghi della provincia di Narbona, particolarmente
a Carcassona e a Fangeaux, consacratosi senza riserva alla salvezza
delle anime col ministero della predicazione, e soffrendo di buon animo
affronti, ignominie e angosce assai pel nome del Signor nostro Gesù
Cristo» .
Domenico aveva prescelto a sua abituale residenza
Fangeaux, città situata sopra un'altura, perché di là scoprivasi al
piano il monastero di Prouille. Quanto a Carcassona, che non era a
maggior distanza da quella dolce solitudine, manifestò egli medesimo il
motivo della sua preferenza, quando interrogato perché non stava
volentieri nella città e diocesi di Tolosa: «Perché, rispose, nella
diocesi di Tolosa m'imbatto spessissimo in gente che mi onora, mentre a
Carcassona, tutti mi sono contrari» . E veramente i nemici della fede
rivolgevano ogni sorta di insulti contro il servo di Dio: gli sputavano
in faccia, gli gittavano addosso il fango, gli appuntavano per derisione
delle paglie al mantello; e lui, superiore a tutto si teneva felice,
come l'Apostolo, d'essere giudicato degno di patire tali obbrobri per il
nome di Gesù. Gli eretici macchinarono anche di togliergli la vita; ed
una volta che di ciò lo minacciarono, rispose loro: «La gloria del
martirio non è per me, che siffatta morte non mi sono ancor meritato»
. E dovendo passare per un luogo dove sapeva benissimo essergli state
tese insidie, non solamente si avanzò intrepido, ma giubilando e
cantando. Talché gli eretici maravigliati di tanta fermezza, un'altra
volta, per tentarlo, gli domandarono che cosa avrebbe fatto se fosse
capitato nelle loro mani: «V'avrei pregato, rispose, di non uccidermi
con un sol colpo, ma di tagliarmi a pezzi le membra, e dopo avermele
poste dinanzi, cavarmi ancora gli occhi, lasciandomi mezzo morto a
nuotare nel mio sangue, o facendo quello che più vi fosse piaciuto
degli ultimi avanzi della mia vita» .
Teodoro d'Apolda fa il seguente racconto:«Accadde
che dovendosi tenere una solenne conferenza con gli eretici, un vescovo
si era preparato per recarvisi con gran pompa. Allora l'umile banditore
di Cristo: - Padre mio e Signore, gli disse, ma non è così che bisogna
agire contro i figli dell'orgoglio. I nemici della verità si han da
vincere con esempi di umiltà, di pazienza, di religione e di tutte le
virtù, non già col fasto e con le grandezze, né col far mostra della
gloria del secolo. Armiamoci della preghiera, e facciamo risplendere
nelle nostre persone le stimmate dell'umiltà; andiamo a piedi scalzi
incontro a questi Golia. - Il Vescovo accondiscese al pio consiglio, e
tutti si scalzarono. Avvenne che, non pratici del cammino, presero per
guida un uomo incontrato per via, creduto cattolico, ma che al contrario
era eretico, il quale promise loro di condurli direttamente sul posto;
invece li fece maliziosamente passare attraverso un bosco pieno di rovi
e di spine, sicché i loro piedi ne furono lacerati, fino a scorrere di
sangue. L'atleta di Dio giulivo e paziente esortò allora i compagni a
render grazie al Signore per quel che soffrivano, e confidate, o
carissimi, nel Signore, disse loro; la vittoria è sicuramente per noi,
dacché i nostri peccati sono espiati col sangue. - L'eretico mosso
dall'esempio di sì ammirabile pazienza e dalle parole del Santo,
confessò il mal fatto, e abiurò l'eresia» .
Nei dintorni di Tolosa si trovavano alcune nobili
signore, le quali sedotte dall'apparente austerità degli eretici,
avevano abbandonata la fede. Domenico al principio di una quaresima
chiese loro ospitalità, allo scopo di ricondurle nel seno della Chiesa.
Non entrò mai con loro in dispute, ma durante tutta la quaresima tanto
lui che il suo compagno si cibarono di solo pane e non bevvero che
acqua; quando poi la prima sera esse si affaccendavano a preparar loro
dei letti, gli ospiti chiesero per coricarsi due sole tavole, e la
durarono così fino a Pasqua, interrompendo
ciascuna notte i corti sonni con fervide orazioni.
Questa muta eloquenza fu onnipotente sul cuore di quelle signore, le
quali riconobbero nel sacrifizio l'amore, e nell’amore la verità.
Non avrà dimenticato il lettore che Domenico a
Palenza voleva vendersi per riscattare il fratello di una povera donna.
Anche in Linguadoca, alla vista di un eretico trattenuto nell'eresia
solo dalla miseria, ebbe lo stesso eroismo; era pronto a vendersi per
potergli dare da vivere; e l'avrebbe fatto se la divina Provvidenza non
avesse provveduto altrimenti al sostentamento di quell'infelice.
Un altro fatto anche più singolare ci fa conoscere
le finezze della di lui carità. «Essendo stati catturati alcuni
eretici nel territorio di Tolosa, scrive Teodoro d’Apolda, ed essendo
stati convinti di eresia, perché ostinati nei loro errori, furono
consegnati al braccio secolare e condannati ad esser bruciati. Domenico,
dal cuore iniziato ai segreti di Dio, fissò uno di loro, e rivolto agli
ufficiali della corte: - Lasciate costui in disparte, disse, e badate
bene di non bruciarlo- .
Appressatosi poi all'eretico gli sussurrò
dolcemente: - So che vi ci vorrà del tempo, o figlio, ma finirete col
farvi buono e santo. - Scena commovente e meravigliosa! Ancora venti
anni costui rimase nell'accecamento dell'eresia; finché sopravvenuta la
grazia, chiese di vestir l'abito de' Frati Predicatori; e sotto tale
divisa visse e morì nella fede» .
Costantino d'Orvieto ed il B. Umberto, narrando
questo stesso fatto vi aggiungono una circostanza degna di nota. Essi
fanno osservare che gli eretici prima di essere stati consegnati al
braccio secolare, da Domenico erano stati convinti: unica parola del
secolo decimoterzo da cui alcuni pretesero inferire che il Santo
prendesse parte a processi criminali. Ma gli storici della guerra
Albigese c'insegnano chiaramente in che consistesse questo convincere
gli eretici. E da sapere infatti che in Linguadoca gli eretici non
vivevano in segreto, ma in piena luce combattevano armati a difesa de'
loro errori. Quando nella guerra qualcuno di loro cadeva in mano de'
crociati, si avea cura che alcuni ecclesiastici gli esponessero i dommi
cattolici, e gli facessero rilevare la stranezza delle loro dottrine:
questo si chiamava convincerli, non già di essere eretici, ché ciò
non si curavano affatto di nascondere, ma di essere in una via falsa,
contraria alle Scritture, alla tradizione, alla ragione medesima. Con
promessa di perdono si scongiuravano insistentemente ad abiurare
l'eresia; e quelli che avessero ceduto a tali istanze, venivano
assoluti; quelli poi che ostinatamente perseveravano nell'errore,
venivano consegnati al braccio secolare. Il convincere adunque gli
eretici non era che un ufficio di abnegazione in cui l'energia dello
spirito e l'eloquenza della carità traevano vita dalla speranza di
sottrarre alla morte degli sventurati. Che S. Domenico almeno una volta
abbia esercitato tale ufficio non c'è da dubitarne, quando due storici
contemporanei l'attestano; ma trarre argomento da ciò per accusarlo di
rigore contro gli eretici, è confondere il sacerdote che assiste il
delinquente, col giudice che lo condanna, o col carnefice che gli toglie
la vita.
Forse qualcuno domanderà con meraviglia come
Domenico avesse tanta autorità da sottrarre dal supplizio un eretico
con una semplice predizione; ma lasciando stare l'autorità che la fama
di santo aveva meritato alla sua parola, è da notarsi che egli era
stato investito dai legati della S. Sede dell'ufficio di riconciliare
alla Chiesa gli eretici. Della qual cosa ne abbiamo prova autentica in
due documenti, ambedue senza data, ma che non possono appartenere che a
quest'epoca della sua vita. Uno è cosi formulato: «Frate Domenico,
canonico di Osma, umile ministro della predicazione, a tutti i fedeli in
Cristo a cui perverranno le seguenti lettere, salute e sincera carità
nel Signore. Rendiamo noto per vostra norma aver noi permesso a Raimondo
Guglielmo d'Hautérive Pelagianire di ricevere ad abitare nella sua casa
di Tolosa Guglielmo Uguccione, che ci ha confessato d'avere indossato
altra volta l'abito degli eretici. E questo glie lo permettiamo, fino a
che dal Signor Cardinale non sia ordinato altrimenti a me od a lui; né
tale coabitazione dovrà tornare nessun modo a suo pregiudizio o
disonore» . Nell'altro documento leggesi quanto appresso: «Fra
Domenico, canonico di Osma, a tutti i fedeli di Cristo ai quali
perverranno le presenti lettere, saluto in Cristo. - Noi, per autorità
del Signor Abate di Citeaux, che ci ha imposto tale ufficio, abbiamo
riconciliato colla Chiesa il latore della presente, Ponzio Roger, per la
grazia di Dio convertito dall'eresia alla fede; ed ordiniamo che in virtù
del giuramento da lui emesso nelle nostre mani, per tre Domeniche, o
giorni festivi, dall'entrata del paese debba portarsi alla chiesa nudo
fino alla cintura e percosso con verghe dal sacerdote. Ordiniamo ancora
che in ogni tempo egli si astenga dal mangiar carne, uova, formaggio, e
quanto trae origine dalla carne, eccettuati i giorni di Pasqua, di
Pentecoste, e di Natale, nei quali ne mangerà in protesta degli antichi
suoi errori. Farà tre quaresime all'anno, digiunando ed astenendosi
anche dal pesce, salvo che l'infermità del corpo o i calori dell'estate
non richiedano una dispensa. Vestirà abiti religiosi sì nella forma
che nel colore, ed alle estremità ci attaccherà due crocette. Ogni
giorno, ove possa, ascolterà la Messa, e nei giorni festivi andrà
anche a vespro. Sette volte il giorno reciterà dieci Pater noster, e
venti ne dirà a mezzanotte. Non violerà la legge della castità, e una
volta al mese, alla mattina, mostrerà il presento documento al
cappellano del villaggio di Cerè, al qual cappellano ordiniamo di aver
cura che il suo penitente conduca una buona vita, ed osservi tutto ciò
che gli è stato prescritto, fino a tanto che il Signor Legato non
disponga altrimenti. Che se il penitente trascurerà, e ciò con
disprezzo, di ubbidire, vogliamo che, si abbia per scomunicato, e
separato dalla società dei fedeli, siccome uno spergiuro ed eretico» .
Forse alcuni troveranno strane ed eccessive queste
prescrizioni; ma dovrebbero ricordare le penitenze canoniche della
Chiesa primitiva, gli usi penitenziari ,dei chiostri, e le pratiche a
cui volontariamente si assoggettavano molti cristiani del medio evo ad
espiazione delle proprie colpe. Tutti sanno, per non citare che un
esempio, che Enrico II, re d'Inghilterra, si fece battere con verghe da
alcuni monaci sulla tomba di Tommaso Becket, arcivescovo di Cantorbery,
perché aveva dato occasione al di lui assassinio. Ed anche oggi nelle
grandi basiliche di Roma il sacerdote dopo avere assoluto il penitente,
lo percuote leggermente nelle spalle con una lunga bacchetta. S.
Domenico quindi non fece che conformarsi agli usi del suo tempo; e
chiunque conosca tali usi, non riscontrerà nel suo modo di agire che un
vero spirito di bontà.
Né minore della carità e della dolcezza era nel
santo il disinteresse. Gli furono offerti i vescovati di Beziers, di
Conserans e di Comminges, ma costantemente li ricusò; ed una volta
giunse a dire che piuttosto se ne sarebbe fuggito nottetempo col suo
bordone, anziché accettare vescovati o qualsiasi dignità. Ecco il
ritratto che ce ne fa Guglielmo di Pietro, abate del Monastero di S.
Paolo in Francia, uno di quelli che più lo conobbero nei dodici anni
del suo apostolato in Linguadoca, e che fu chiamato per testimone a
Tolosa nel processo di canonizzazione del Santo. «Il Beato Domenico
avea una sete ardente della salute delle anime, e con zelo illimitato si
adoprava a loro vantaggio. Predicatore ferventissimo, di giorno, di
notte, nelle chiese, nelle case, sui campi, per le vie mai si stancava
di annunziare la divina parola, raccomandando ai suoi frati di fare lo
stesso e di non parlare altro che di Dio. Avversario degli eretici, o
colla predicazione, o con le dispute, o in qualunque altro modo
possibile sempre loro si opponeva. Amò poi tanto la povertà, da
rinunziare persino i possedimenti, le terre, i castelli e tutte le
entrate di cui in più luoghi il suo Ordine era stato arricchito; ed era
talmente frugale, che un pane e una zuppa bastavano al suo nutrimento,
salvo rare eccezioni in cui rallentava alquanto da tale austerità per
riguardo ai suoi frati ed agli altri commensali; imperocché quanto agli
altri, voleva che possibilmente avessero tutto in abbondanza. Ho inteso
dire da molti ch'ei si mantenne sempre vergine. Ricusò il vescovato di
Conserans, e non volle mai governare quella chiesa, per quanto ne fosse
stato legittimamente eletto pastore e prelato. Io non conobbi uomo più
umile di lui, né di lui più avverso alla gloria del mondo e a tutto
che ad, essa appartenga. Le ingiurie, le maledizioni, gli obbrobri li
sopportava con pazienza e con gioia, quasi fossero doni di gran valore.
Non lo spaventavano punto le persecuzioni, ed intrepidamente affrontava
i pericoli; mai per paura abbandonò la via intrapresa. Che anzi, se
cammin facendo era vinto dal sonno, sostava lungo la strada medesima o a
pochi passi di distanza, e prendeva riposo. In santità poi superò
quanti mai io abbia conosciuti. Noncurante di sé fino al disprezzo, si
riteneva per un uomo da nulla. Con tenera bontà consolava i suoi frati
ammalati, compassionando in modo ammirabile la loro infermità. Veniva a
sapere che alcuno di loro gemeva sotto il peso delle tribolazioni? E lui
pronto ad esortarlo alla pazienza, e secondo il suo meglio ad
infondergli coraggio. Amante della regola, ne riprendeva paternamente i
trasgressori; nelle parole, nei modi, nel vitto, nel vestito, nella
purezza de' costumi, in tutto era di esempio ai suoi fratelli. Non
conobbi uomo più abituato alla preghiera, o che versasse tante lacrime.
Quando pregava mandava tali gemiti, che si udivano anche in lontananza;
e gemendo diceva al Signore: - Pietà, o Signore, del popolo; e che sarà
dei peccatori? - E passava le notti insonni piangendo e sospirando pei
peccati degli uomini. Generoso ed ospitale, dava liberalmente ai poveri
tutto che avesse; amava ed onorava tutti i religiosi e tutti gli altri
che alla religione fossero amici; né mai udii, né'seppi, che avesse
altro letto che la chiesa, se pure gli era dato di trovare una chiesa;
altrimenti coricavasi sopra una tavola o per terra; e se gli preparavano
un letto, tolti via materassi e lenzuola, si distendeva sulle dure
corde. Lo vidi sempre con una sola tonaca e rappezzata, usando abiti più
vili degli altri frati. Della fede e della pace fu amatore grandissimo,
e per quanto poté, dell'una e dell'altra fedelissimo promotore» .
A virtù così sublimi, si aggiunse in Domenico anche
il dono di far miracoli. Un giorno traversato un fiume su di una barca e
giunto all'altra riva, fu richiesto dal barcaiolo della dovuta mercede.
«Io, rispose Domenico, sono un discepolo e un servitore di Cristo, né
ho con me oro od argento; penserà Dio a compensarvi pel prezzo della
mia traversata». Ma il barcaiolo inquieto, presolo per la cappa,
tirandogliela diceva: «O io avrò la mia mercede, o voi lascierete la
cappa». Domenico, allora alzati gli occhi al cielo si raccolse un
momento, e dipoi guardando in terra e mostrando al barcaiolo una moneta
d'argento che la Provvidenza gli aveva mandato: «Fratello mio, gli
disse, ecco ciò che voi domandate; prendete, e lasciate che lo me ne
vada in pace» .
Nell'anno 1211, tempo in cui i crociati erano
accampati nei dintorni di Tolosa, alcuni inglesi che andavano
pellegrinando a S. Giacomo di Compostella, non volendo passare dentro
quella città, perché interdetta, pensarono di traversare in barca la
Garonna. Avvenne che la barca troppo carica - eran circa cinquanta - si
capovolse. Alle grida dei pellegrini e dei soldati, Domenico uscì fuori
da una chiesa vicina, e gittatosi per terra con le mani in croce, si
mise ad implorare da Dio la salvezza di quegli infelici omai annegati.
Terminata la preghiera, si alzò, e voltosi verso il fiume, disse ad
alta voce: «Nel nome di Gesù Cristo, io vi comando di venir tutti a
riva».
Gli annegati ricomparvero subito sopra le acque, e
per mezzo di lunghe pertiche apprestate loro dai soldati, guadagnarono
la sponda .
Il primo priore del convento di S. Giacomo di Parigi,
conosciuto sotto il nome di Matteo di Francia, addivenne discepolo di
Domenico in seguito ad un altro miracolo di cui fu testimone. Egli era
priore di una collegiata nella città di Castres. Domenico andava spesso
a visitar quella chiesa perché vi si conservavano le reliquie del
martire S. Vincenzo; ed ordinariamente vi rimaneva a pregare fino
all'ora di mezzogiorno. Una volta però fece passare anche quest'ora, ed
il priore mandò uno de' suoi chierici ad avvertirlo. Il chierico,
arrivato in chiesa, trovò Domenico elevato un mezzo braccio da terra,
rapito in estasi dinnanzi all'altare. Corse ad avvisarne il priore,
il quale rimase talmente impressionato dal vedere il
Santo in estasi, che poco dopo si fece compagno del servo di Dio; e
Domenico, come era solito praticare con quelli che metteva a parte del
suo apostolato, gli promise il pane della vita e l'acqua del cielo.
Gli storici raccontano ancora brevemente come il
Santo cacciasse il demonio da un ossesso; come volendo pregare in una
chiesa le cui porte erano chiuse, d'un tratto si trovasse trasportato
dentro; come viaggiando con un religioso, senza che l'uno sapesse la
lingua dell'altro, conversassero per tre giorni insieme quasi usassero
tutti e due lo stesso idioma. Raccontano ancora come essendo caduti
nell'Ariège i libri che Domenico portava con sé, ritrovati da un
pescatore dopo vari giorni, sembravano neppur toccati dalle acque.
Questi fatti, sparsi qua e là nelle storie, li abbiamo voluti
raccogliere qui siccome sante reliquie.
Iddio infuse nel suo servo anche lo spirito di
profezia. Nella quaresima dell'anno 1212, che Domenico passò a
Carcassona predicando e disimpegnando l'ufficio di vicario generale a
lui affidato dal vescovo assente, fu interrogato da un religioso di
Citeaux sull'esito della guerra. «Maestro Domenico, gli domandò, ma
non finiranno mai questi mali?». E Domenico tacque. Ma il religioso,
sapendo bene che Dio gli rivelava molte cose, insisté ancora, finché
Domenico: «Sì, rispose, questi mali avranno fine, ma non così presto;
molto sangue ancora, oltre il già sparso, si verserà, ed anche un re
morirà nella battaglia». Quelli che intesero tal predizione, temerono
subito pel primogenito di Filippo Augusto, che avea fatto voto di
arruolarsi ai crociati contro gli Albigesi; ma Domenico rassicurandoli:
«Non temete pel re di Francia, soggiunse; un altro re dovrà
soccombere, e presto, in mezzo alle vicende di questa guerra» . Poco
dopo fu spento a Muret il re di Aragona.
La durata ed i fortunosi avvenimenti della guerra
parevano un ostacolo insormontabile all'attuazione dell'idea sempre
fissa in Domenico di fondare un Ordine religioso tutto consacrato al
ministero della predicazione. Per questo non si stancava mai di chiedere
a Dio la pace; e per ottenerla, ed affrettare così il trionfo della
fede istituì, non senza segreta ispirazione, quel metodo di preghiera,
divulgatosi poscia in tutta la Chiesa, sotto il nome di Rosario.
Quando l'Arcangelo Gabriele fu inviato da Dio alla
Vergine per annunziarle il mistero dell'Incarnazione del Verbo nel di
Lei purissimo seno, la salutò, dicendole: Salve, o piena di grazia, il
Signore è teco; tu fra le donne sei la benedetta (Lc 1,28). Queste
parole, le più soavi che altra creatura abbia mai ascoltato, passarono
di età in età sulle labbra dei cristiani, che dal fondo di questa
valle di lacrime anche oggi non cessano di ripetere alla Madre del loro
Redentore: Salve, o Maria. Le gerarchie del cielo delegarono uno de'
loro principi per indirizzare all'umile figlia di David il glorioso
saluto; ed ora che Ella se ne sta sopra gli angeli e tutti i cori
celesti, il genere umano che la ebbe figlia e sorella, le innalza di
quaggiù l'angelico saluto: Salve, o Maria. E come la Vergine, tosto che
intese per la prima volta l'Ave misterioso dalle labbra di Gabriele,
concepì nel suo purissimo seno il Verbo di Dio, cosi sempre che bocca
umana le ripete il saluto, che fu il segno della sua maternità, le sue
viscere verginali tutte si commuovono alla rimembranza di un momento il
cui simile non fu mai né in cielo, né su la terra; e l'eternità
stessa risente della felicità di cui fu allora piena la Vergine. Però,
quantunque sia antico l'uso dei cristiani di rivolgere con tale
invocazione il loro cuore a Maria, nondimeno ciò si faceva prima senza
regola né forma solenne. Ciascuno abbandonavasi all'impulso del proprio
cuore, senza che i fedeli indirizzassero mai in comune tal saluto
all'amatissima loro protettrice. Domenico, che ben comprendeva la forza
dell'associazione nella preghiera, credé ottima cosa far sì che la
salutazione angelica fosse detta in comune, affinché la solenne
acclamazione di tutto un popolo salisse al cielo con maggiore possanza.
Aggiungasi che la brevità stessa delle parole dell'Angelo, quasi
esigeva che fossero ripetute più volte, precisamente come le
acclamazioni dei popoli al passaggio dei loro sovrani. E poiché la
ripetizione poteva generar distrazione allo spirito, Domenico provvide
anche a questo, distribuendo le salutazioni vocali in più serio, a
ciascuna delle quali unì il ricordo di uno dei Misteri della nostra
redenzione, che furono alla lor volta per la Vergine benedetta argomento
di gioia, di dolore, di trionfo. Così l’orazione mentale sarebbe
stata necessariamente congiunta colla pubblica preghiera; ed il popolo,
salutando la sua Madre e Regina, l'avrebbe accompagnata dal fondo del
cuore in ciascuno dei principali avvenimenti della di Lei vita. A meglio
provvedere poi alla durata ed alla solennità di cosiffatto modo di
pregare, Domenico pensò ancora alla fondazione di una Confraternita.
Pietoso divisamento che fu benedetto dal più grande successo, il
gradimento universale dei popoli. I cristiani si tramandarono di secolo
in secolo tal pratica con incredibile fedeltà; le Confraternite del
Rosario si moltiplicarono senza numero; né v'ha cristiano al mondo, che
sotto il nome di Corona non abbia con sé il suo Rosario. E chi sul far
della sera non ha udito nelle chiese di campagna la voce grave dei
contadini recitare a due cori l'angelico saluto? chi non ha incontrato
processioni di pellegrini con in mano, la corona, che scorrono
lentamente fra le dita, rendendo meno penosa la lunghezza del viaggio
col ripetere alternativamente il nome di Maria? Ora, una pratica che
arriva a guadagnarsi l'approvazione universale e per sempre, è segno
manifesto che ha necessaria e misteriosa corrispondenza coi costumi e
coi destini dell'uomo. Pure il razionalista sogghigna al veder passare
lunghe file di uomini che van ripetendo sempre le medesime parole; ma
chi è rischiarato da luce più bella, sa bene come l'amore ha solo una
parola, che ridetta sempre non si ripete mai.
La devozione del Rosario, interrotta nel decimoquarto
secolo per la terribile peste che desolò l'Europa, nel secolo seguente
fu ripristinata dal B. Alano de La Roche, domenicano di Brettagna. Nel
1573 poi, il sommo pontefice Gregorio XIII, a memoria della celebre
battaglia di Lepanto vinta contro i Turchi sotto il pontificato di un
Papa domenicano, e nel giorno stesso in cui le confraternite del Rosario
a Roma e nel mondo cristiano facevano pubbliche processioni, istituì la
Festa del Rosario, che ogni anno si celebra da tutta la Chiesa la prima
Domenica di ottobre .
Queste adunque le armi adoperate da Domenico contro
l'eresia e contro i mali della guerra: predicazione, dispute, pazienza
nel sopportare le ingiurie, povertà volontaria, vita austera per sé,
carità illimitata verso gli altri, il dono dei miracoli, e finalmente
il culto della SS. Vergine, da lui promosso con l'istituzione del S.
Rosario. I dieci anni che passarono dall'abboccamento di Montpellier
fino al Concilio Lateranense, furono spesi in questo genere di vita in
lui così metodico, che gli storici contemporanei, per timore di
riuscire monotoni, si risparmiarono di descrivercelo; e dell'umile ed
eroica perseveranza di Domenico nell’esercizio continuo delle virtù
non ci tramandarono che uno scarso numero di fatti. Narrare un giorno
della sua storia in quegli anni, è narrarne la vita. Questa stessa
mancanza di avvenimenti però in un secolo agitatissimo fa risaltare
maggiormente la figura di Domenico accanto a quella del conte di
Montfort. Uniti da vincoli di sincera amicizia e da un ideale comune,
nel genere di vita essi si trovano, così diversi, quanto l'armatura di
un cavaliere è differente dal sacco di un povero frate. Il sole della
storia converge infiniti raggi sulla corazza del Montfort e la fa
risplendere di generose azioni, per quanto frammiste ad ombre; sulla
cappa di Domenico appena ve ne getta un solo; però è così puro, così
santo che lo stesso tenue splendore è la. più smagliante testimonianza
di gloria. Poco è il lume, perché l'uomo di Dio si tiene sempre
lontano dai rumori del sangue; perché perseverante nel suo ministero
non schiude la bocca e he a benedire, non apre il cuore che per pregare,
non stende il braccio so non per atti di carità; perché infine la virtù
quando è pura, non altro la illumina che Iddio.
A quarant'anni Domenico cominciò a raccogliere il
frutto dei suoi lunghi meriti. I crociati nel 1215 gli aprirono col loro
trionfo le porte di Tolosa: e la Provvidenza che sa far cospirare nello
stesso tempo ad un medesimo centro i più opposti elementi, mandò a lui
i due uomini di cui abbisognava per gettare i primi fondamenti
dell'Ordine dei Frati Predicatori. Entrambi cittadini di Tolosa e
ragguardevoli per nascita e per merito personale, furono questi Pietro
Cellani, che della sua grande virtù facea ornamento alle sue molte
ricchezze, e un altro conosciuto sotto il nome di Tommaso, uomo di rara
eloquenza e di amabilità singolare. Mossi da un medesimo impulso dello
Spirito Santo, insieme si offrirono a Domenico per compagni, e Pietro
Cellani offrì ancora la, propria casa, assai grande, situata presso il
castello dei conti Tolosani, detto il castello di Narbona. Domenico riunì
in tale abitazione i suoi discepoli, sei in tutti: Pietro Cellani,
Tommaso e altri quattro; piccola greggia, ma che pure era costata dieci
anni di apostolato e quarantacinque anni di vita tutta consacrata al
Signore. Come conoscono poco la natura delle cose durature quelli che
hanno troppa fretta nel loro cammino! E come poco la conoscono anche
quelli che rigettano da sé un secolo perché sconvolto e tempestoso!
Dopoché Domenico passando la prima volta per Tolosa, in una veglia
spesa a convertire un eretico ebbe intraveduta l’idea del suo Ordine,
il tempo era stato con lui inesorabile. La morte prematura del suo amico
e maestro Azevedo lo avea abbandonato orfano in terra straniera: una
guerra sanguinosa lo avea coinvolto in mille impacci: l'odio degli
eretici, dapprima meno furioso per la sicurezza medesima della loro
superiorità, s'era in seguito, esaltato più che mai; finalmente
l'indirizzo stesso dei cattolici volto a tutt’altra piega che quella
dell'apostolato, lasciavano Domenico in una solitudine da sgomentare. Ma
ecco che il soffio di Dio dirada le nubi; il conte di Tolosa, che un
giorno se ne morirà tranquillo e vittorioso, ora è sopraffatto in una
decisiva battaglia; Dio concede al suo servo alcuni mesi di pace, e
l'Ordine de' Frati Predicatori nell'intermezzo di due tempeste viene
stabilendosi nella capitale stessa dell'eresia.
L’abito dei primi compagni di Domenico fu quello
stesso che lui indossava; una tonaca di lana bianca, una cotta di lino,
una cappa e un cappuccio di lana nera. Era l'abito dei canonici regolari
da lui sempre portato dopo il suo ingresso nel capitolo di Osma, e che
continuò a portare insieme co' suoi, finché per un memorabile
avvenimento di cui parleremo a suo luogo, l'abito fu alquanto mutato.
Tutti menavano vita comune sotto certe regole; e giovò assai a tal
fondazione la cooperazione di Folco, vescovo di Tolosa, quel generoso
Vescovo cisterciense, che vedemmo favorire fin da principio gli ideali
di Azevedo e di Domenico. Né Folco si limitò a concorrere solo
spiritualmente a tal fondazione; che anzi della sua liberalità a tale
scopo abbiamo un insigne monumento, che la riconoscenza dei Frati
Predicatori deve, per quanto può, rendere imperituro. «Nel Nome del
nostro Signor Gesù Cristo. Rendiamo noto a tutti i presenti e futuri
che noi, Folco, per la grazia di Dio umile ministro della sede di
Tolosa, volendo estirpare l'eresia, bandire i vizi, insegnare agli
uomini le regole della fede ed informarli a buoni costumi, instituiamo a
predicatori della nostra diocesi Fra Domenico e i suoi compagni, i quali
si son prefissi di viaggiare a piedi e da religiosi, secondo
l'evangelica povertà, e di annunziare la verace parola. E perché
l'operaio è degno del necessario sostentamento, né si ha da
imbavagliar la bocca al bove che trebbia il grano; che anzi chi predica
il Vangelo deve vivere del Vangelo; noi vogliamo che Fra Domenico ed i
suoi compagni, spargendo il seme della verità nella nostra diocesi, vi
debbano anche raccogliere di che sostentare la vita. Onde, di comune
accordo col capitolo di S. Stefano e di tutto il clero della nostra
diocesi, a loro, ed a tutti quelli che per lo zelo del Signore e per la
salute delle anime si daranno nello stesso modo alla predicazione,
assegniamo in perpetuo la sesta parte delle decime che usufruiscono le
fabbricerie delle nostre Chiese parrocchiali, acciocché essi possano
provvedere ai loro bisogni, e di tanto in tanto possano aver modo di
riposarsi dalle fatiche. Se alla fine dell'anno ci sarà un sopravanzo,
vogliamo e ordiniamo che s'impieghi nell'ornare le nostre chiese
parrocchiali, o in soccorso de poveri, secondo che al, Vescovo sembrerà
opportuno. Imperocché essendo ordinato dal diritto che una corta
porzione delle decime sia elargita ai poveri, senza dubbio noi siamo
tenuti di farne parte a coloro che abbracciano per Gesù Cristo la
povertà, con animo di arricchire il mondo dei loro buoni esempi e del
dono della celeste dottrina; affinché quelli da cui noi riceviamo le
cose temporali, ricevano da noi, direttamente o indirettamente, le cose
spirituali. Dato l'anno 1215 dell'Incarnazione del Verbo, regnando in
Francia re Filippo, ed essendo Principe di Tolosa il conte di Montfort»
.
Quest'atto di munificenza non fu il solo in favore
del nascente Ordine dei Frati Predicatori. «In quel tempo, così gli
storici, il Signor Simone, conte di Monfort, illustre principe che
combatté con la spada materiale gli eretici, ed il Beato Domenico, che
li combatté con la spada della divina parola, strinsero fra loro grande
famigliarità ed amicizia» . Montfort donò all'amico il castello di
Cassanel, nella diocesi d’Agen, coi suoi possedimenti; e prima avea già
confermate numerose donazioni a favore del monastero di Prouille, le cui
possessioni da lui medesimo erano state accresciute. Né la stima e
l'affezione sua per Domenico si limitarono ai doni; ma pregò ancora il
Santo di battezzargli la figlia, fidanzata per alcun tempo all'erede del
regno d'Aragona, e di benedire il matrimonio del conte Amanry, suo
figlio primogenito con Beatrice, figlia del delfino di Vienna. Un giorno
vedremo Domenico, ormai vecchio, pentirsi di avere accettato temporali,
possedimenti; e prima di scendere nel sepolcro, lo vedremo
sollecitamente liberarsene come d'un peso che l'opprimeva, lasciando per
patrimonio a suoi figli quella sola quotidiana Provvidenza, che è
sollecita di ogni laboriosa creatura, e di cui sta scritto: Lascia al
Signore la cura della tua vita, ed egli stesso ti nutrirà (Sal 54,
23.).