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VITA DI SAN DOMENICO

P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori


CAPITOLO IV

 

Guerra degli Albigesi .

 

La guerra è l'atto con cui un popolo si oppone all’ingiustizia a prezzo del proprio sangue. Dov'è ingiustizia ivi è ragione legittima di guerra fino ad equa riparazione. La guerra adunque, dopo la religione è il primo de' doveri umani; l'una insegna il diritto, l'altra lo difende; l'una è la parola di Dio, l’altra ne è il braccio. Santo, santo, santo è il Signore, Dio degli eserciti, vale a dire il Dio della giustizia, il Dio che crea i forti in soccorso dei deboli, il Dio che balza dal trono i superbi, che suscita Ciro contro Babilonia, infrange le porte di bronzo a favore dei popoli, fa del carnefice un soldato e del soldato una vittima. Anche la guerra però, come le cose, più sante, può essere sviata dal suo fine, e degenerare in strumento di oppressione; onde a giudicare rettamente di essa in casi particolari, è necessario conoscerne lo scopo. Ogni guerra di liberazione è sacra; ogni guerra d’oppressione è maledetta.

Fino ai tempi delle crociate, la difesa del proprio paese e del governo legittimo di ciascun popolo fu quasi il solo ideale di cui si occupasse e da cui traesse vigore la santità della spada. Il soldato moriva alle frontiere della patria, nome il più caro che ispirasse il suo cuore nell'ora della battaglia. Ma dopoché Gregorio VII ebbe suscitato nello spirito dei suoi contemporanei l'idea della repubblica cristiana, il campo del sacrificio si estese insieme a quello della fratellanza. L'Europa, unita nella stessa fede, comprese che ogni popolo cattolico oppresso avea diritto, chiunque fosse l'oppressore, ad essere soccorso; e che essa, per difenderlo, giustamente poteva impugnare la spada. Fu così che sorse la cavalleria; e la guerra addivenne non solo un dovere cristiano, ma anche un ufficio monastico. Battaglioni di monaci furon veduti ricoprire di cilizio e di scudo le frontiere d'Occidente; ogni anima battezzata senti di essere il braccio del diritto contro la forza; e figlia di quel Dio che raccoglie il minimo lamento di ogni sua creatura, sentì ancora il dovere di esser pronta al primo grido di dolore. Come un cacciatore armato che ritto a piè d'un albero ascolta da qual parte venga il vento, l'Europa con la lancia in resta e il piede nella staffa, stava in quei tempi spiando attentamente da qual parte venisse l'ingiuria. E sia che fosse lanciata dal trono o dalla torre d'un semplice castello, sia che abbisognasse traversare mari o bastasse breve e corsa a cavallo per rintuzzarla, tempo, luogo, pericoli, grandezza, niente valeva a trattenere alcuno. Né si calcolava prima se vi sarebbe stato danno o tornaconto: il sangue o non si dà, o si dà da generosi; quaggiù la coscienza, lassù lo rimerita Iddio.

Fra i deboli oppressi che la cristiana cavalleria avea preso a proteggere, la Chiesa, come la cosa più sacra, teneva il primo posto. La Chiesa senza soldati, senza bastioni a difesa; era stata sempre alla mercé de’ suoi persecutori; ogni principe che le avesse voluto male, poteva osar tutto contro di lei. Ma poiché la cristiana cavalleria si fu affermata, fu essa la protettrice della città di Dio: dapprima perché la città di Dio era debole; in seguito perché la causa della di lei libertà era la causa stessa del genere umano. La Chiesa oppressa avea diritto, siccome ogni altro, alla difesa del cavaliere; e fondata com'è da Gesù Cristo per perpetuare l'opera dell'emancipazione terrena e della salvezza eterna degli uomini, la Chiesa reputavasi allora come la madre, la sposa, la sorella di chiunque avesse avuto sangue generoso e buona spada, io credo che ai nostri giorni non vi sia persona la quale non sappia apprezzare tali sentimenti. Il nostro secolo fra le tante miserie, almeno questo ha d i gloria; di saper riconoscere esservi interessi ben più alti e più universali che non quelli di famiglia e di nazione. La simpatia de' popoli travalica nuovamente le frontiere, e la voce degli oppressi trova un'eco nel mondo. Qual francese non accompagnerebbe, se non colla persona, almeno col desiderio, un esercito di cavalieri che attraversasse l'Europa a soccorso della Polonia? O qual francese, anche incredulo, fra i delitti, di cui è vittima quell'illustre nazione, non vorrà numerare la violenza fatta alla sua religione, l'esilio dei suoi preti e dei suoi vescovi, la soppressione dei monasteri, la rapina delle chiese, la tortura delle coscienze? Se il sequestro arbitrario e l'incarcerazione dell'arcivescovo di Colonia hanno prodotto, tanta impressione nell'Europa moderna, che non dové essere nell'Europa del secolo decimoterzo all'annunzio che un ambasciatore apostolico era stato ucciso proditoriamente a colpi di lancia? .

Né questo era il, solo atto d'oppressione di cui la cristianità avesse diritto di chieder ragione al conte di Tolosa; già da lungo tempo nelle terre dov'egli imperava non vi era più libertà alcuna pei cattolici. Devastati i monasteri, messe a ruba le chiese, di cui molte trasformate in fortezze; i vescovi di Carpentras, e di Vaison cacciati dalle loro sedi; ed un cattolico invano avrebbe sperato giustizia contro un eretico. Tutte le intraprese dell'eresia erano dal conte protette; mentre verso la religione cattolica ostentava quel disprezzo affettato che in un principe è già tirannia. Un giorno che i Vescovo d'Orange si presentò in persona a lui per supplicarlo di rispettare i luoghi santi e di astenersi, almeno la domenica e le altre feste, da quelle vessazioni con cui opprimeva la provincia d'Arles, Raimondo presa la mano destra del prelato, soggiunse: « lo giuro per questa mano di non fare nessun conto né di domeniche, né di feste, e di non far grazia né a persone, né a cose ecclesiastiche» . La Francia in quel tempo era infestata da tristi avventurieri, i quali divisi in numerose bande, rendevano le strade piene di ladroneggi e di sangue. Inseguiti da Filippo Augusto, aveano trovato impunità e sicurezza nelle terre del suo vassallo, il conte di Tolosa, in premio dell'ardore con cui cooperavano ai di lui disegni colle loro aggressioni e. sacrileghe crudeltà. Portavano via dai tabernacoli i vasi sacri, profanavano il Corpo di Gesù Cristo, strappavano alle immagini i loro ornamenti per abbellirne femmine prostitute; atterravano da cima a fondo le chiese, ne uccidevano a colpi di verghe 'e di mazze i sacerdoti, e molti ne scorticavano vivi; ed il conte con esecrabile tradimento lasciava indifesi i suoi sudditi contro questo pugno di assassini. Quando poi, dopo tanti delitti di cui era stato l'autore od il complice, giunse ad accogliere fra i suoi amici e ricolmare di favori l'uccisore stesso di Pietro di Castelnau, la misura fu colma. Il momento era giunto in cui la tirannia pei suoi eccessi è ruina a se stessa.

Sarebbe per altro un grave errore credere che la cristianità di allora avesse potuto facilmente domandar giustizia al conte di Tolosa; ché potente egli era e da temersi, come i fatti chiaramente lo dimostrarono. In verità dopo quattordici anni di guerra Raimondo VI morì vincitore de' suoi nemici, e poté trasmettere al figlio, che ne godè fino alla morte, il patrimonio de' suoi maggiori: né questo gran feudo fu riunito alla corona di Francia, se non in seguito al matrimonio di un fratello di S. Luigi con la figlia unica del conte Raimondo VII. - Le cause per cui la dinastia dalla quale discendeva Raimondo era potente, assommavano a parecchie. In primo luogo essa era antichissima in quel paese, ed una gloria ben meritata la raccomandava moltissimo all'amore, de' popoli. Nuovo legame tra il principe ed i sudditi era l'eresia, ivi ormai generalmente diffusa, e che importando come una separazione dal resto della cristianità, dava alle mutue loro relazioni la forza di un legame religioso. 1 vassalli d'ogni specie condividevano gli errori col proprio signore, e la cupidigia dei beni del clero aggiungeva alla comunanza delle idee Anche quella degli interessi. Né i cattolici, rimasti pochi di numero e non troppo ferventi, potevano far molto per indebolire un partito così compatto, e di cui era l'anima io stesso conto di Tolosa. Aggiungasi che questi avea per alleati nella sua causa i conti di Foix e di Comminges, il visconte di Béarn, il re di Aragona Pietro II, di cui avea sposata la sorella; e che niente avea da temere dalla Guyenne, posseduta dagli Inglesi. Filippo Augusto, signore di Raimondo, preoccupato in casa sua per causa di litigi tra l'Inghilterra e l'impero, non era al caso di capitanare la crociata; e senza Filippo a capo, il solo a temersi, l'esercito dei crociati, composto di gente accozzata alla meglio, non poteva dare speranza che di effimere vittorie; appariva anzi destinato a naturale dissoluzione, prima ancora di essere sconfitto. Padrone adunque di tutta la striscia dei Pirenei, con dietro l'Aragona a difesa e con due mari inoffensivi a destra e a sinistra, circondato da una moltitudine di forti città custodite da fedeli vassalli, Raimondo avea tutte le probabilità di esser più forte dei suoi nemici. Ond'è che la guerra Albigese fu una guerra assai seria, in cui le difficoltà morali furono più gravi ancora di quelle strategiche. Ora vedremo quali fossero i nobili e generosi sentimenti d'Innocenzo III, sempre d'avviso che là ci si trovava un abisso; e vedremo anche un gran capitano, dapprima vittorioso, soccombere poi sotto il peso delle afflizioni, avanti

che la morte del soldato lo raggiunga. Innocenzo III appena saputo dell'uccisione del Castelnau, scrisse una lettera ai conti, ai baroni, ai cavalieri delle provincie di Narbona, d'Arles, d'Embruni, d'Aix e di Vienna, nella quale dopo aver dipinto a vivi colori l'uccisione del suo legato, dichiarava scomunicato il conto di Tolosa coi suoi vassalli, dichiarava sciolti dal giuramento di obbedienza i di lui sudditi, e la sua persona e le sue terre messe al bando della cristianità. Nel caso però che il conte si fosse pentito de' suoi delitti, lasciavagli aperta la porta per riconciliarsi colla Chiesa. Questa lettera è in data del 10 marzo 1208. Il Sommo Pontefice scrisse inoltre sullo stesso tenore agli arcivescovi ed ai vescovi di quelle provincie, all'Arcivescovo di Lione a quello di Tours, e al re di Francia. All'abate di Citeaux, il solo superstite dei suoi legati, aggiunse Navarre, vescovo di Conserans, ed Ugo, vescovo di Riez, incaricando l'abate di predicare in modo speciale e di far predicare ai suoi religiosi la crociata. I preparativi furono fatti nel rimanente di quest'anno e nella primavera dell'anno seguente.

Frattanto il conte di Tolosa impauritosi, e saputo che i vescovi della provincia di Narbona avevano inviato al Papa i loro colleghi di Tolosa e di Conserans perché l’informassero minutamente di tutti i mali cagionati alle loro chiese, credé bene di mandare anche lui a Roma l'arcivescovo d'Auch, e Rabenstens, già arcivescovo di Tolosa, affinché si lagnassero amaramente dell'abate di Citeaux, e dicessero al Pontefice che il loro signore era pronto a sottomettersi e a dare giusta soddisfazione alla Santa Sede, purché gli venisse concesso di trattare con legati più ragionevoli. Innocenzo III accondiscese a tali richieste, e fece partire per la Francia Milone, notaro apostolico ed uomo di consumata prudenza, con lo speciale incarico di esaminare e giudicare la causa del conte. Milone convocò a Valenza un'assemblea di vescovi, e Raimondo, presentatosi, accettò le condizioni di pace che gli furono proposte. Erano le seguenti: ch'egli cacciasse gli eretici dalle sue terre; rimovesse dal pubblici uffici gli ebrei; riparasse i danni da lui cagionati ai monasteri ed alle chiese; ristabilisse nelle loro sedi i vescovi di Carpentras e di Vaison; provvedesse alla sicurezza delle strade; non esigesse balzelli che non fossero secondo le antiche consuetudini del Paese; purgasse i suoi domini da quelle masnade armate che l'infestavano; ed in pegno della sua sincerità consegnasse nelle mani del legato la contea di Melgueil e sette città della Provenza che a lui appartenevano a condizione che le avrebbe perdute qualora non fosse stato di parola. La solenne riconciliazione con la Chiesa fu stabilito di farla a Saint-Gilles, secondo le forme allora in uso.

Se il conte di Tolosa avesse agito in buona fede, la pubblica penitenza accettata, lungi dall'umiliarlo agli occhi de' suoi contemporanei e dei posteri, lo avrebbe anzi reso oggetto di somma ammirazione davanti a tutta la cristianità. Teodosio non offuscò la sua gloria per essersi arreso a S. Ambrogio sulla soglia della cattedrale di Milano: solo il delitto fa disonore; mentre l'espiazione volontaria, specialmente in un sovrano, è tale omaggio reso a Dio ed all'umanità, che rinobilita colui che lo rende, e lo fa partecipe della gloria insuperabile che si ritrova in Gesù Cristo crocifisso. L'orgoglio non comprenderà forse ciò che dico; ma che importa? E’ già da tempo che la croce è padrona del mondo, senza che l'orgoglio ne abbia indovinata la ragione. Non ci curiamo di questo cieco nato, e ripetiamo a chi è capace d'intendere le parole di Colui che conquistò la terra e il cielo con un supplizio volontariamente sofferto: Chi si esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà esaltato (Mt 23,12). Quando adunque il conte di Tolosa avesse agito sinceramente, la penitenza accettata gli avrebbe fruttato assai bene sotto ogni rispetto. Ma l'uomo nella sventura non saprà mai apprezzare abbastanza la potenza dell'arma che ha fra mano. Il conte di Tolosa mentiva; solamente per politica aveva promesso cose che non avea in animo di mantenere; e quando sulla soglia dell'Abazia di Saint-Gilles, dopo avere giurato sulle reliquie dei Santi e sul corpo stesso del Signore che sarebbe stato alle promesse, presentò le spalle nude alla verga del legato, non diede che un turpe spettacolo di spergiuro e d'ignominia. Una circostanza notevole si aggiunse ad aggravare il castigo e a dargli un carattere speciale. Perocché all'uscire di chiesa, tanta era la folla, da non permettere a Raimondo di muovere neppure un passo; onde apertagli una porta segreta che metteva nei sepolcreti, si trovò a passare nudo e fustigato davanti alla tomba di Pietro di Castelnau.

Pochi giorni dopo questo fatto, avvenuto il 18 giugno 1209, il legato Milone se ne partì per Lione per raggiungere l'armata dei crociati, capitanata dal duca di Borgogna, dai conti di Nevers, di S. Paolo, di Bar e di Montfort, e da altri distinti personaggi, nonché da alcuni prelati. Innocenzo III aveva ordinato che se il conte di Tolosa fosse stato assolto, i domini che direttamente gli appartenevano, fossero rispettati; si facesse però marciare l'esercito contro i di lui vassalli ed alleati, onde ridurli a sommissione.

Le truppe adunque si avanzarono verso la Linguadoca, e non erano ancora a Valenza che il conte Raimondo già le precedeva, vestito anch'egli da crociato, fu assediato Beziers, che preso d'assalto all'improvviso, rimase preda del furor soldatesco, senza che si avesse riguardo alcuno né all'età, né al sesso, e neppure alla religione medesima. I legati nelle lettere mandate al Pontefice fanno ascendere il numero dei morti quasi a ventimila; e questo massacro da nessuno voluto e nemmeno previsto, è pur troppo uno di quegli avvenimenti che hanno gettato sulla guerra Albigese quel marchio di terrore, che nessuno storico varrà mai a cancellare. Alla presa di Beziers tenne dietro quella di Carcassona. Gli abitanti si arresero, e così ebbero salva la vita; la città però fu abbandonata al saccheggio. Non poteva cominciar peggio una guerra in sé giustissima.

Fino ad ora anima e capo della crociata era stato l'abate di Citeaux; ma dopo la presa di Beziers e di Carcassona, i crociati, di cui molti pensavano di ritirarsi, credettero meglio di eleggersi a capo un militare. La scelta fu rimessa ad un consiglio composto dell'abate di Citeaux, di due vescovi, e di quattro cavalieri, i quali giudicarono il più degno del comando Simone conte di Montfort. Discendente dalla casa di Hainaut, questo guerriero era nato da Simone III, conte di Montfort e d'Evreux, e da una figlia di Roberto, conte di Leicester, ed aveva in sposa Alice di Montmoreney, donna eroica come il suo nome. Non c'era capitano più ardito, né cavaliere più religioso del conte di Montfort; e se alle eminenti qualità che ornavano la sua persona, avesse congiunto maggior dolcezza e disinteresse maggiore, nessuno dei crociati d'Oriente lo avrebbe sorpassato nella gloria. Appena però egli fu eletto al comando si vide quasi da tutti abbandonato. Il conte di Nevers, quello di Tolosa, il duca di Borgogna, l'un dopo l'altro si ritirarono e con lui non restarono che una trentina di cavalieri ed un esiguo nucleo di soldati: conseguenza inevitabile di siffatte spedizioni, alle quali come ciascuno liberamente interveniva, così liberamente poteva ritirarsene indietro. La mia intenzione, già l'ho detto, è solo di tracciare il disegno generale della guerra e dei negoziati che ne seguirono; pur ciò non è facile, disputandosi la direzione delle cose il piano dell'abate di Citeaux e quello del Pontefice.

L'abate di Citeaux d'accordo coi principali vescovi della Linguadoca e dei paesi circonvicini, proponeva senz'altro la distruzione totale della casa di Tolosa: ingiusta idea e contraria ad ogni politica. Ingiusta, perché se Raimondo VI si era ciò meritato, e non era più possibile fidarsi di lui in avvenire, non poteva, dirsi lo stesso del suo figlio, giovinetto ancora di dodici anni, non complice quindi dei delitti del padre, né incapace di una cristiana educazione sotto una tutela disinteressata; contraria ad ogni politica, in quanto che confondendo una questione religiosa che interessava tutta la cristianità, con una questione di famiglia, avrebbe potuto dividere gli animi e dare un colore di ambizione ad una guerra intrapresa per ben più alti fini. E’ vero che l'abate di Cíteaux avea avuto la rara sorte di imbattersi nel conte di Montfort uomo nato fatto per quel suo divisamento; e forse solo dopo averlo visto valorosamente combattere gli era venuto in mente la distruzione della casa di Tolosa. Ma le doti guerresche del conte di Montfort, non erano, pei sudditi e pei vassalli di quella casa, che le prerogative di un nemico; e l'abate di Citeaux, che avea di mira di raggiungere quanto prima il suo intento pel timore che poi gli venissero a mancare le forze della crociata, avrebbe dovuto sapere che quel tempo stesso che temeva di non potere avere al suo scopo, sarebbe stato necessario anche per sostituire nel governo di un paese una famiglia nuova ad un'antica; ed avrebbe anche dovuto temere di cambiare una guerra cattolica in una guerra personale tra i R.aimondi ed i Montfort. E fu appunto dall'abuso ch'ei fece della sua autorità per far prevalere un falso divisamento, che procedettero quegli errori e quelle violenze, che tolsero alla guerra Albigese l'impronta di santità, che d'altronde le sarebbe dovuta.

Innocenzo III era tutt'altro uomo che l'abate di Citeaux; e per giunta sedeva su quella cattedra privilegiata, la quale non solo ha l'eterno Spirito che sempre l'assiste, ma per la medesima altezza a cui si trova, è pura dalle passioni che tanto facilmente s'insinuano anche nelle cause più belle. E se troppo spesso uno zelo eccessivo tentò distruggere insieme uomini ed errori, il papato cercò sempre di salvar gli uomini pur annientando l'errore. Innocenzo III non desiderava affatto che la casa di Tolosa fosse distrutta, anzi sperava di poter ridurre il vecchio Raimondo a sentimenti degni degli avi suoi. Nelle stesse lettere in cui fulminava contro di lui la scomunica,

provvedeva formalmente anche al caso ch’ei si fosse pentito; e conosciuti i trattati di Saint-Gilles, subito si era affrettato di dare ordine che fossero rispettate le di lui terre. Sventuratamente il Pontefice non trovò in Francia persona alcuna che lo secondasse in queste sue generose intenzioni; onde dové cedere anch'egli alla forza delle cose, ed i suoi sforzi, riusciti inutili, non valsero che ad onorarne la memoria. il conte Raimondo poi, rimovendosi da quel sistema di pacificazione che dapprima aveva adottato, contribuì da se stesso a far trionfare i nemici della sua famiglia; e non ci volle che l'intervento di una mano suprema, perché le cose improvvisamente cambiassero aspetto.

Il Montfort, sebbene rimasto con pochi soldati, non avea per questo lasciato di andare innanzi, conquistando, e poi riperdendo, e riconquistando di nuovo alcune città; mentre il conte di Tolosa, sicuro della sua riconciliazione con la Chiesa, pareva non curarsi della, caduta de' suoi alleati, né de' suoi vassalli. Ma un concilio celebratosi in Avignone dai metropolitani di Vienna, d'Arles, d'Embrun e d'Aix, sotto la presidenza dei due legati Ugo e Milone, venne a disturbarlo dalla sua quiete. Tal concilio infatti, che fu aperto il 16 settembre 1209, concesse al conte una dilazione di solo sei settimane per soddisfare alle promesse fatte a Saint-Gilles; non soddisfacendole, sarebbe di nuovo incorso nella scomunica. Raimondo dopo questa intimazione partì subito per Roma. Ammesso all'udienza del S. Padre, che lo accolse con dimostrazioni di sincero affetto, si lamentò del rigore dei legati verso di lui; presentò autentici documenti di molte chiese da lui già risarcite nei danni; si dichiarò pronto a mantenere tutte le altre convenzioni giurate; e chiese ancora di potersi discolpare dell'imputazione a lui fatta dell'uccisione di Pietro di Castelnau e delle accuse di tenere pratiche segrete con gli eretici. Il Pontefice esortò Raimondo a star fermo in questi suoi propositi, ed ordinò che si radunasse in Francia un nuovo concilio di vescovi per ascoltare le giustificazioni del conte, coll’esplicita ingiunzione, che quand'anche fosse trovato colpevole la sentenza, si riservasse alla S. Sede. Raimondo, lasciata Roma, visitò la corte dell'imperatore e quella del re di Francia, sperandone qualche protezione; ma restò deluso. Non poté adunque fare a meno di presentarsi al concilio al quale era stata rimessa la sua causa, e che fu celebrato a Saint-Gilles verso la metà di ottobre dell'anno 1210. Vi andò coll'intenzione di scolparsi dei due capi d'accusa che gli erano mossi: di essere cioè d'intesa con gli, eretici, e di esser complice nell'uccisione di Pietro di Castelnau. Ma il concilio si ricusò di ascoltarlo su ciò, e solo lo richiese di stare alla parola data di purgare le sue terre dagli eretici e dalla gente di mala vita che le infestavano. Sia che Raimondo non valesse a soddisfare a queste

richieste, sia che gliene mancasse la volontà, tornò a Tolosa persuaso in cuor suo che ogni artifizio più non giovava, e che ormai l'unica speranza era riposta nelle armi. Ciò nondimeno il concilio si astenne da scomunicarlo, avendo il Papa riservata a sé la sentenza; ed Innocenzo III si contentò di scrivergli una lettera forte sì, ma insieme affettuosa in cui l'esortava, senza nessuna minaccia, ad eseguire ciò che avea promesso . Anche il re di Aragona intervenne dal canto suo onde impedire una rottura definitiva; ed a tale scopo nell'inverno del 1211 furono tenute due riunioni, una a Narbona, l'altra a Montpellier. Nella prima il conte di Tolosa rigettò apertamente

le condizioni che gli erano state imposte a Saint-Gilles; nella seconda parve dapprima che le accettasse, ma poi senza neppure accomiatarsi, all'improvviso se ne partì. Per la qual cosa il re di Aragona sdegnato, fidanzò suo figlio, bambino ancora di tre anni, ad una figlia del conte di Montfort, anch'essa della stessa età; e di più affidò al conte il proprio figliuolo, affinché lui stesso ne curasse l'educazione. Non molto dopo però il re si pentì di ciò che aveva fatto, e diede la sua sorella in moglie al figlio unico di Raimondo, onde riallacciare con tali nozze i legami, già forti, che lo univano alla causa degli eretici.

L'abate di Citeaux fulminò finalmente la scomunica, e spedì espressamente un messaggio al Pontefice per ottenerne la conferma. Innocenzo accondiscese; e Raimondo si accinse allora alla guerra, incominciando dall'assicurarsi la fedeltà dei suoi sudditi e l'aiuto di diversi principi, specialmente dei conti di Foix e di Comminges. Il Montfort avanzatosi fin sotto le mura di Tolosa, venne respinto, e l'esercito Albigese s'accampò in faccia a Castelnaudary, finché una battaglia campale lo costrinse a levare l'assedio. I crociati trionfarono, varie città caddero nelle loro mani; anche le terre di Foix e di Comminges furono invase dall'armata. Raimondo corse allora nella Spagna per implorare aiuto dal re di Aragona.

Ciò che in seguito avvenne dimostra chiaramente, come il Papa fosse tuttora dubbioso ed incerto. Infatti il re di Aragona prima di ricorrere alle armi in difesa del suo cognato, credé bene tentare ancora una volta la riconciliazione, e spedì legati al Pontefice con incarico di querelarsi con lui così del conto di Montfort, impadronitosi di feudi dipendenti dalla corona, come ancora dei legati apostolici assolutamente irremovibili dalla determinazione presa di rigettare ormai qualunque ravvedimento di Raimondo. Innocenzo III mosso da queste lagnanze scrisse risentito ai legati, e loro ingiunse di adunare a nuovo concilio i vescovi ed i signori di quelle contrade, per trattare dei mezzi onde ristabilire la pace . Ordinò poi al conte di Montfort di restituire al re di Aragona ed ai suoi vassalli i feudi tolti «per non dar motivo, diceva il Pontefice, di credere aver lui combattuto per proprio interesse e non per la causa della fede» .

Finalmente prese anche la deliberazione di sospendere la crociata; e manifestò questa sua volontà in una lettera indirizzata all'abate di Citeaux, già da qualche tempo creato arcivescovo di Narbona .

Mentre però queste lettere, in data del principio dell’anno 1213, erano per via, si era già radunato un Concilio a Lavaur per richiesta del, re di Aragona, il quale in un memoriale avea supplicato i legati ed i vescovi di restituire ai conti di Tolosa, di Comminges e di Foix, ed al visconte di Béarn le terre di cui erano stati spogliati, e di riammetterli nella comunione della Chiesa a prezzo di qualunque soddisfazione. Che se non fosse piaciuto loro esaudirlo in favore del vecchio Raimondo, il re li esortava ad aver riguardo almeno del figlio. Ma il concilio rispose che quanto al conte di Tolosa, ormai non c'era più luogo a giustificazione, avendo egli mancato più volte e pertinacemente alla sua parola; i conti invece di Foix e di Comminges, ed il visconte di Béarn, fossero pure ricevuti a penitenza, quando essi lo bramassero. Questa risposta più e più insinuò nel re il sospetto che si fosse già stabilito di distruggere la casa di Tolosa. Dichiarò allora altamente ch'egli avrebbe appellato alla clemenza della S. Sede per l'inesorabile rigore dei legati e dei vescovi, e che intanto avrebbe preso sotto la sua regale protezione il conte Raimondo ed il suo figliuolo. Il re non poteva esser sospetto di eresia, avendo già sottomesso il suo regno come feudo alla Chiesa romana, ed avendo valorosamente difesa la cristianità contro i Mori della Spagna. Il suo nome quindi e la sua spada avevano un gran peso per mettere a rischio tutta l'impresa. Fu per questo che il concilio ebbe subito premura di spedire quattro messaggieri al Pontefice con una lettera in cui si cercava di persuaderlo che la causa cattolica sarebbe perduta, qualora il conte di Tolosa ed i suoi eredi non venissero privati per sempre dei loro domini. Gli arcivescovi d'Arles, d'Aix e di Bordeaux, i vescovi di Maguelone, di Carpentras, d'Orange, di Saint-Paul Trois-Cháteaux e di Perigueux scrissero al S. Padre sullo stesso tenore. Innocenzo III si dolse allora di essere stato ingannato dal re di Aragona; al quale comandò subito di desistere dalla determinazione presa, e di far tregua col conte di Montfort, finché fosse arrivato da Roma un cardinale per esaminare le cose sul luogo. Ma il dado ormai era gettato; ed il re, composta un'armata nella Catalogna e nell'Aragonia, varcava i Pirenei per congiungere le sue truppe con quelle dei conti di Tolosa, di Foix e di Comminges.

Montfort ricevé a Fanjeaux l'avviso che l'esercito dei confederati, forte di quarantamila fanti e di duemila cavalli, s'era avanzato verso Muret, piazza importantissima, situata sulla Garonna, tre leghe al disopra di Tolosa. Fu questo per lui il momento critico della vita. Non aveva al suo comando che ottocento cavalli incirca, ed uno scarso numero di fanti. Tuttavia appena cominciò al albeggiare partì subito per Muret, accompagnato dall'armata, dai vescovi di Tolosa, di Nimes, di Uzès, di Lodève, di Beziers, d'Agde, di Comminges, e da tre abati di Citeaux. Giunto in quello stesso giorno al monastero dei Cisterciensi di Bolbonne, entrò in chiesa, vi pregò lungamente, e nel riprendere la spada che aveva posata sopra l'altare, rivolse a Dio queste parole: «O Signore che, per quanto ne fossi indegno, mi sceglieste a combattere nel vostro nome, io prendo ora la spada sul vostro altare, onde ricevere da Voi medesimo le armi, essendo per Voi che io vado a combattere». Si diresse quindi a Saverdun, dove pernottò. Il giorno appresso si accostò al Sacramento della Penitenza, scrisse il suo testamento, che inviò all'abate di Bolbonne, con preghiera, nel caso ch'ei fosse morto, di trasmetterlo al Pontefice; e la sera, passata attraverso un ponte la Garonna senza essere disturbato dai nemici, si trovò tosto dietro le torri di Muret, guardate da una trentina di cavalieri. Era il mercoledì del 12 settembre 1213. Non ancora era entrato in città, quando lo raggiunsero i vescovi, che per un momento si erano allontanati da lui per recarsi a domandar pace al campo nemico. Ma il re d'Aragona avea risposto non valer la pena, che un re e dei vescovi venissero a parlamentare per un pugno di soldati. Malgrado questo tentativo riuscito vano, appena cominciò ad albeggiare, i vescovi per mezzo di un religioso fecero noto al re, che loro stessi e tutti gli ordini ecclesiastici sarebbero andati a piedi scalzi a scongiurarlo, affinché si venisse a migliori risoluzioni. Quanto il conte di Tolosa avrebbe dovuto allora rammaricarsi dei suoi spergiuri e delle sue vane umiliazioni! Come avrebbe dovuto imputare a se stesso la colpa di aver ricusato fin da principio una guerra leale e da forti, anziché lasciare opprimere i suoi amici e disonorar la sua causa! Ma egli non ci vedeva più; la guerra però come l'artifizio dovevano riuscirgli funesti. Dio vedeva il cuore di questo principe, e non s'impietosì della triste sua sorte.

I vescovi si preparavano già ad uscire da Muret nell'umile atteggiamento di supplicanti, quando un gruppo di cavalieri nemici si precipitò verso le porte. Montfort ordinò allora ai suoi di schierarsi in battaglia sulla parte bassa della città; ed egli medesimo, dopo aver pregato in una chiesa mentre il Vescovo di Uzès offriva il santo sacrificio, indossò la corazza, e così armato, tornò ancora a pregare. Però nel piegare il ginocchio gli si ruppero i lacci dalla parte inferiore dell'armatura; e nel mettere il piede sulla staffa, fu osservato che il cavallo, alzando la testa, lo toccò. Quantunque allora si facesse gran caso a questi incidenti, siccome a tristi presagi, punto si turbò il cuore del prode cavaliere. Insieme a Folco che portava in mano un Crocifisso, si diresse verso le suo truppe. I cavalieri scesero allora a terra per adorare il Salvatore e baciarne l'immagine; ma il vescovo di Comminges, vedendo che il tempo stringeva, prese il Crocifisso dalle mani di Folco, da un luogo alquanto elevato arringò con brevi parole l'armata e la benedisse. Dopo ciò tutti gli ecclesiastici che erano presenti, si ritirarono in chiesa a pregare; e Montfort uscì fuori della città alla testa di ottocento soldati a cavallo, più la fanteria.

L'esercito dei confederati era schierato in una pianura ad occidente della città. Il Montfort, uscito dalla porta opposta, come se avesse voluto fuggire, divise il suo drappello in tre squadre e si diresse verso il centro nemico. Dopo la fiducia che aveva riposta in Dio, il suo piano era di rompere le linee dei nemici, seminarvi disordine e spavento, e profittare allora di tutti quegli incidenti che l'occhio dei grandi capitani sa scoprire nell'orrore della mischia. La prima squadra difatti si scagliò contro l'avanguardia dei nemici; la seconda penetrò fin nelle ultime file dove si trovava il re d'Aragona circondato dal fiore dei suoi soldati; Montfort che veniva dietro colla terza, investì di fianco gli Aragonesi già messi in scompiglio. La fortuna delle armi rimase sospesa per qualche tempo; tempo fatale perocché i battaglioni così d'improvviso sbandati, erano piuttosto sbalorditi che disfatti, e caricando alle spalle, avrebbero ancora potuto opprimere il Montfort. Ma un colpo ben diretto stese a terra il re d'Aragona, e decise della battaglia. Gli Aragonesi colle loro grida e con la fuga trassero seco anche gli altri confederati. Ed i vescovi che pregavano angosciosamente nella chiesa di Muret, chi prostrato a terra, chi con le mani levate a Dio, accorsi all'annunzio della vittoria, videro tutta la pianura disseminata di fuggenti, incalzati alle spalle dalla spada formidabile dei crociati. Così un esercito che si era proposto di prender d'assalto la città, gettate a terra le armi, fu distrutto, mentre si era dato ad una fuga precipitosa. Montfort, dopo inseguiti i nemici, ripassando sul campo di battaglia, s'imbatté nel cadavere del re d'Aragona prosteso a terra e già spogliato delle sue vesti. Scese allora da cavallo, e piangendo baciò il gelido corpo di quel principe sfortunato. Pietro II, re di Aragona, era un valoroso cavaliere, amato dai sudditi, sincero cattolico, e degno di una morte migliore. Ma i legami che univano le sue sorelle ai due Raimondi l'avevano coinvolto nella difesa di una causa ch'egli non riteneva più come causa contro gli eretici, ma come causa di giustizia e di parentela.

E forse appunto perché disprezzò le preghiere dei vescovi ed abusò in cuor suo di una vittoria che riteneva sicura, per secreto giudizio di Dio ne rimase vittima. Montfort, dopo aver pensato alla di lui sepoltura, a piedi scalzi rientrò in Muret, andò subito in chiesa, a render grazie al Signore dell'aiuto ricevuto e donò ai poveri il cavallo e l'armatura usati nella pugna. Questa memoranda battaglia, frutto di una coscienza che si sentiva sicura di combattere per Iddio, sarà sempre annoverata tra i più belli attestati di fede che gli uomini abbiano mai dato sulla terra.

Anche Domenico si trovava a Muret unito ai sette vescovi che abbiamo nominati e ai tre abati di Citeaux; anzi da alcuni storici è stato recentemente scritto ch'egli medesimo, con la croce in mano, stesse alla testa dei soldati. Ed a Tolosa, nel palazzo dell'Inquisizione si mostrava nei tempi passati un crocifisso tutto , crivellato da frecce, che dicevasi essere quello portato da Domenico alla battaglia di Muret. Gli storici contemporanei però non dicono nulla di tutto questo; affermano al contrario che Domenico era rimasto dentro la città a pregare insieme coi vescovi e coi religiosi; e Bernardo Guidonis, uno degli scrittori della di lui vita, che abitò nel palazzo dell'Inquisizione di Tolosa dall'anno 1308 all'anno 1322, di tal crocifisso non ne fa affatto menzione.

La battaglia di Muret fu un colpo mortale pel conte di Tolosa. I suoi alleati e gli abitanti della capitale del suo regno si sottomisero al Sommo Pontefice, il quale incaricò il cardinale Pietro di Benevento di riconciliarli con la Chiesa, e di obbligare il conte di Montfort a rimandare in Spagna il nuovo re d'Aragona, giovanetto ch'ei riteneva in ostaggio fin da quando era stato fidanzato colla sua figlia. Il cardinale soddisfece a questo duplice mandato nell'inverno del 1214; e, cosa notevole, diede anche l'assoluzione al conte di Tolosa, per quanto quest'atto di clemenza non giovasse punto al vinto riguardo ai suoi interessi temporali. Infatti nel seguente mese di dicembre fu convocato un concilio a Montpellier per decidere a chi dovesse appartenere la sovranità delle terre conquistate; ed il concilio fu unanime nel pronunziarsi in favore del Montfort, alla cui spada forte e valorosa era dovuto l'esito della guerra. Ciò nondimeno il Sommo Pontefice con una lettera in data del 17 aprile 1215 dichiarò che il Montfort avrebbe ritenuto tali domini solo temporaneamente, fino a che il concilio Lateranense, al quale era riservata la sentenza definitiva, si fosse pronunziato. Fu questo, un ultimo sforzo di Innocenzo III per salvare la casa di Tolosa.

Raimondo intanto, abbandonato da tutti, si era ritirato col figlio nella corte del re d'Inghilterra.

Il giorno 11 novembre 1215, il sole al suo levarsi dalla parte degli Appennini, si trovò ad indorare coi suoi raggi, nella chiesa solitaria di S. Giovanni in Laterano, l'assemblea più augusta del mondo. Stavano colà raccolti primati e metropolitani in numero di settantuno, più quattrocentododici vescovi, ottocento, abati e priori di monasteri, una moltitudine di procuratori degli abati e dei vescovi assenti, gli ambasciatori del re dei Romani, dell'imperatore di Costantinopoli, dei re di Francia, d'Inghilterra, d'Ungheria, d'Aragona, di Gerusalemme e dì Cipro; poi un numero sterminato di rappresentanti di principi, di città, e di signori; e al di sopra di tutti la veneranda figura di Innocenzo III. Era presente anche l'abate di Citeaux, ora arcivescovo di Narbona; il conte di Montfort invece si era fatto rappresentare dal suo fratello Guido. I due Raimondi erano venuti in persona, come pure i conti di Foix e di Comminges. Nel giorno stabilito per giudicare la gran causa della crociata albigese, i due Raimondi, ed i conti di Foix e di Comminges si presentarono all'assemblea, e tutti e quattro si prostrarono ai piedi del trono pontificio. Fatti alzare, raccontarono come malgrado la loro sottomissione alla Chiesa romana, e l'assoluzione che avevano ricevuta dal legato Pietro di Benevento, fossero stati privati dei loro feudi. Un cardinale con molta forza ed eloquenza parlò in loro favore; lo stesso fecero l'abate di S. Tiberio ed il cantore della Chiesa di Lione, il quale principalmente parve intenerire, il Pontefice. Ma la maggior parte dei vescovi, e specialmente i francesi, si pronunziarono contro i supplicanti, protestando che sarebbe finita in Linguadoca per la religione cattolica, qualora quei principi fossero tornati al potere; e tutto il sangue versato per questa causa, e tutti i sacrifizi fatti, non sarebbero stati che sacrifizi e sangue sprecati. Il concilio dichiarò adunque Raimondo VI privato de' suoi .feudi, che fin d'allora sarebbero passati definitivamente nelle mani del conte di Montfort, ed assegnò a Raimondo una pensione di quattrocento marchi d'argento, a condizione che fosse andato ad abitare fuori dei suoi antichi domini. Dichiarò inoltre che tutti i beni della dote di Leonora, moglie del conte, fossero rispettati, e che il marchesato di Provenza sarebbe riservato al loro figlio Raimondo, ancor giovanetto, giunto che fosse a maggiorità e se si fosse mantenuto fedele alla Chiesa. Quanto ai conti di Foix e di Coniminges, la loro causa fu rimandata per essere studiata meglio. E’ da notarsi che il marchesato di Provenza, riservato, pel giovane Raimondo, si componeva ,di quelle città che suo padre avea date in pegno alla S. Sede, qualora avesse mancato alle convenzioni di Saint-Gilles; e che essendo stato più volte proposto al S. Padre di riunire quel marchesato ai domini apostolici, mai l'aveva voluto fare; e solo fece valere i suoi diritti quando si trattò di conservarlo alla casa di Tolosa.

Chiuso il concilio, Raimondo il giovane, che con la nobiltà de' suoi modi si era attirata la simpatia di tutti, recatosi dal Papa per congedarsi, gli disse chiaramente che lui si credeva ingiustamente privato del patrimonio de' suoi maggiori, soggiungendo con ingenua e rispettosa fermezza, che non avrebbe lasciata passare occasione alcuna per ricuperare con gloria quel che senza colpa avea perduto. Innocenzo III commosso dinanzi all'innocenza, al coraggio e insieme all'infelicità di quel giovine di diciotto anni, pronunziò su di lui questa profetica benedizione:«Che: tu possa, o figlio, cominciar bene tutte le tue azioni, e finirle ancor meglio» .

Montfort rivestito da Filippo Augusto dei titoli di duca di Narbona e di conte di Tolosa, non godè lungamente del potere tanto laboriosamente acquistato. Doveva terminare ancora l’anno 1216, ed il giovane Raimondo era nuovamente divenuto padrone di una parte della Provenza; Tolosa, già stanca di portare il giogo del nuovo conte, aveva riaperto le porte al vecchio Raimondo richiamato dall'Inghilterra, dove si era ritirato; un gran numero di signori al primo annunzio di questa mutazione di cose, era corso subito a prestare giuramento di fedeltà all'antico sovrano; ed il vincitore di Muret dové allora comprendere che non basta vincere battaglie ed espugnare città per acquistare il prestigio nel governo dei popoli. Per sua sventura egli ebbe contro di sé quella preziosa forza che è nelle viscere dell'umanità, e che rendo impossibile regnare sui popoli quando non si regni sui loro cuori. Cacciato da Tolosa, invano da lui disarmata e spaventata coi supplizi, il Montfort con infelice pensiero la strinse d'assedio, senza però mai più rientrarvi. La lunghezza dell'assedio, l'incertezza dell’avvenire, le lagnanze che per la sua inazione gli venivan fatte dal cardinale Bertrando legato apostolico ed anche l'abbattimento che cagionano le sventure da lungo tempo previste, gettarono il prode cavaliere in una melanconia tale da fargli desiderare la morte.

Il 25 giugno del 1218 gli fu annunziato di buon mattino che i nemici stavano già in agguato nei fossati del castello. Egli chiese allora la sua armatura, e indossatala, andò ad ascoltare la Messa. La Messa era appena cominciata, quando un altro venne ad avvisarlo che era stato dato l’assalto alle macchine da guerra e che stavano in procinto di essere distrutte. «Lasciate, disse il Montfort, ch`io vegga il Sacramento della nostra Redenzione!» Ma ecco arrivare ancora un terzo per dire che i soldati non valevano più a far fronte. «Eppure io non verrò, egli rispose, se prima non abbia veduto il mio Salvatore» . Finalmente, dopo che il sacerdote ebbe elevata l'ostia, Montfort inginocchiato a terra ed alzate al cielo le mani, profferì queste parole: Nunc dimittis, e sortì. La sua presenza sul campo di battaglia fece indietreggiare il nemico fino ai fossati della piazza; ma fu l'ultima vittoria. Una pietra lo colpì nella testa; ed ei battendosi il petto e raccomandandosi a Dio e alla Santissima Vergine Maria, cadde morto.

La fortuna continuò a favorire i Raimondi. Di due figli infatti che Montfort avea lasciati, il più giovane fu ucciso sotto le mura di Castelnaudary; ed il primogenito, ormai convinto da quattro anni d'infortuni di non esser abile a sostenere il peso dell'eredità paterna, cedé al re di Francia tutti i suoi diritti. Il vecchio Raimondo, tranquillo dentro la città di Tolosa, all'ombra delle vittorie del suo figlio, ebbe tempo di rivolger gli occhi a quel Dio che l'avea umiliato e rialzato insieme; finché un giorno, era il 12 luglio 1222, nel tornare dalla Chiesa, alla cui entrata, essendo ancora scomunicato, era stato a pregare, si sentì male. Mandò a chiamare in tutta fretta l'abate di Saint-Sernin, affinché lo riconciliasse colla Chiesa. L'abate lo trovò che più non parlava; il vecchio conte però quando lo vide, alzò gli occhi al cielo, e prese le di lui mani, le tenne strette fra le sue fino all'ultimo respiro. Il suo corpo fu trasportato alla chiesa dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, dove egli aveva scelto la sepoltura; ma a causa della scomunica, nessuno osò seppellirlo. Lasciatolo scoperto in una bara, dopo tre secoli era ancor là, senza che una mano pietosa avesse ardito d'inchiodare una tavola su quella cassa consacrata ormai dalla morte e dal tempo. A richiesta del figlio, sotto i pontificati di Gregorio XI e d'Innocenzo IV, era stata trattata la questione della di lui sepoltura, e molti testimoni avean provato che prima di morire aveva dato segni di verace pentimento; ciò nonostante si temé sempre di agitar quelle ceneri, e di rendergli onori, per quanto tardivi.

Raimondo VII sopravvisse al padre ventisei anni; più volte seppe difendersi contro le armi stesse di Francia; ma troppo debole per sostenerne continui assalti, nel 1228 conchiuse con S. Luigi un trattato che pose fine a questa guerra interminabile. Le principali condizioni della pace furono le seguenti: che Raimondo desse in sposa l'unica sua figlia al conte di Poitiers, uno dei fratelli del re, assegnandole per dote la contea di Tolosa; cedesse alcune terre da lui possedute, e promettesse di esser fedele alla Chiesa, usando della sua autorità contro gli eretici. La Chiesa ratificò questa pace, e riammise alla sua comunione il giovane conte, il quale, in penitenza si obbligò a servire per cinque anni la cristianità in Palestina. Solo però venti anni dopo, pensò a soddisfare al suo dovere ed a partire per Terra Santa; ma la morte lo prevenne. Ammalatosi a Pris, non lontano da Rhodez, e fattosi trasportare a Milhaod, ivi mori il 27 settembre 1248, circondato dai vescovi di Tolosa, di Agen, di Cahors e di Rhodez, dai consoli di Tolosa e da un gran numero di signori, tutti colà accorsi a ricevere l'ultimo respiro di un principe da loro amato, ed unico rampollo, in linea maschile, del ramo diretto di un'illustre famiglia. Quando gli fu portato il Santissimo Viatico, il conte levatosi dal letto, si gettò ginocchioni per terra davanti al corpo del Signore: si avverò così anche in morte, come era stato in vita, il voto che Innocenzo III, benedicendo il conte ancor giovanetto, avea emesso: «Che tu possa, o figlio, cominciar bene tutte le tue azioni e finirle meglio!».

 

 

INDICE

INTRODUZIONE

 

Capitolo I. Genesi di S. Domenico

Capitolo II Arrivo di S. Domenico in Francia

Suo primo viaggio a Roma

Colloquio a Montpellier .

Capitolo III Apostolato di S. Domenico dall' abboccamento di Moutpellier fino al principio della guerra Albigese

Fondazione del monastero di Notre-Dame di Prouille

Capitolo IV Guerra degli AlbIgesi

Capitolo V Apostolato di S. Domenico dal principio della guerra Albigese fino al quarto

Concilio Lateranense

Istituzione del SS. Rosario

S. Domenico ed i suoi primi discepoli a Tolosa

Capitolo VI Secondo viaggio di S. Domenico a Roma

Approvazione provvisoria dell'Ordine dei Frati Predicatori fatta da Innocenzo III

Incontro di S. Domenico con S. Francesco d'Assisi

Capitolo VII Riunione di S. Domenico e del suoi compagni a Notre-Dame di Prouille

Regola e Costituzioni dei Frati Predicatori

Fondazione del convento di S. Romano a Tolosa

Capitolo VIII Terzo viaggio di S. Domenico a Roma

Conferma dell'Ordine dei Frati Predicatori

Predicazione di S. Domenico nel palazzo del Papa

Capitolo IX Nuova riunione dei Frati Predicatori a Notre-Dame di Prouille, e loro diffusione in Europa

Capitolo X Quarto viaggio di S. Domenico a Roma

Fondazione dei conventi di S. Sisto e di S. Sabina

Miracoli che accompagnarono queste due fondazioni

Capitolo XI Soggiorno dì S. Domenico a S. Sabina

S. Giacinto ed il B. Ceslao entrano nell'Ordine

Miracolosa unzione fatta dalla Vergine Santissima sul B. Reginaldo

Capitolo XII Fondazione dei conventi di S. Giacomo a Parigi, e di S. Niccolò di Bologna

Capitolo XIII Viaggio di S. Domenico in Spagna ed in Francia

Sue veglie nella grotta di Segovia

Modo di viaggiare e sistema di vita del Santo

Capitolo XIV Quinto viaggio di S. Domenico a Roma

Morte del B. Reginaldo

Il B. Giordano di Sassonia entra nell'Ordine

Capitolo XV Primo Capitolo Generale dell'Ordine

Dimora di S. Domenico in Lombardia

Istituzione del Terz'Ordine

Capitolo XVI Sesto ed ultimo viaggio di S. Domenico a Roma

Secondo Capitolo Generale Malattia e morte del Santo Patriarca

Capitolo XVII Traslazione del corpo di S. Domenico

Canonizzazione del Santo

 

 

APPENDICE

L'ORDINE DI S. DOMENICO

Capitolo I Della legittimità degli Ordini religiosi dinanzi suo Stato

Capitolo II Idea generale dell'Ordine dei Frati Predicatori

Motivi per ristabilirlo in Francia

Capitolo III Azione dei Frati Predicatori come Apostoli

Loro Missioni nell' antico e nel nuovo mondo

Capitolo IV Azione dei Frati Predicatori come dottori

S. Tommaso d'Aquino

Capitolo V Artisti, Vescovi, Cardinali, Papi, Santi e Sante, dati alla Chiesa dall’Ordine dei Frati Predicatori

Capitolo VI L'Inquisizione

Capitolo VII Conclusione

 

 

 

 

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