VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
CAPITOLO IV
Guerra degli Albigesi .
La guerra è l'atto con cui un popolo si oppone
all’ingiustizia a prezzo del proprio sangue. Dov'è ingiustizia ivi è
ragione legittima di guerra fino ad equa riparazione. La guerra adunque,
dopo la religione è il primo de' doveri umani; l'una insegna il
diritto, l'altra lo difende; l'una è la parola di Dio, l’altra ne è
il braccio. Santo, santo, santo è il Signore, Dio degli eserciti, vale
a dire il Dio della giustizia, il Dio che crea i forti in soccorso dei
deboli, il Dio che balza dal trono i superbi, che suscita Ciro contro
Babilonia, infrange le porte di bronzo a favore dei popoli, fa del
carnefice un soldato e del soldato una vittima. Anche la guerra però,
come le cose, più sante, può essere sviata dal suo fine, e degenerare
in strumento di oppressione; onde a giudicare rettamente di essa in casi
particolari, è necessario conoscerne lo scopo. Ogni guerra di
liberazione è sacra; ogni guerra d’oppressione è maledetta.
Fino ai tempi delle crociate, la difesa del proprio
paese e del governo legittimo di ciascun popolo fu quasi il solo ideale
di cui si occupasse e da cui traesse vigore la santità della spada. Il
soldato moriva alle frontiere della patria, nome il più caro che
ispirasse il suo cuore nell'ora della battaglia. Ma dopoché Gregorio
VII ebbe suscitato nello spirito dei suoi contemporanei l'idea della
repubblica cristiana, il campo del sacrificio si estese insieme a quello
della fratellanza. L'Europa, unita nella stessa fede, comprese che ogni
popolo cattolico oppresso avea diritto, chiunque fosse l'oppressore, ad
essere soccorso; e che essa, per difenderlo, giustamente poteva
impugnare la spada. Fu così che sorse la cavalleria; e la guerra
addivenne non solo un dovere cristiano, ma anche un ufficio monastico.
Battaglioni di monaci furon veduti ricoprire di cilizio e di scudo le
frontiere d'Occidente; ogni anima battezzata senti di essere il braccio
del diritto contro la forza; e figlia di quel Dio che raccoglie il
minimo lamento di ogni sua creatura, sentì ancora il dovere di esser
pronta al primo grido di dolore. Come un cacciatore armato che ritto a
piè d'un albero ascolta da qual parte venga il vento, l'Europa con la
lancia in resta e il piede nella staffa, stava in quei tempi spiando
attentamente da qual parte venisse l'ingiuria. E sia che fosse lanciata
dal trono o dalla torre d'un semplice castello, sia che abbisognasse
traversare mari o bastasse breve e corsa a cavallo per rintuzzarla,
tempo, luogo, pericoli, grandezza, niente valeva a trattenere alcuno. Né
si calcolava prima se vi sarebbe stato danno o tornaconto: il sangue o
non si dà, o si dà da generosi; quaggiù la coscienza, lassù lo
rimerita Iddio.
Fra i deboli oppressi che la cristiana cavalleria
avea preso a proteggere, la Chiesa, come la cosa più sacra, teneva il
primo posto. La Chiesa senza soldati, senza bastioni a difesa; era stata
sempre alla mercé de’ suoi persecutori; ogni principe che le avesse
voluto male, poteva osar tutto contro di lei. Ma poiché la cristiana
cavalleria si fu affermata, fu essa la protettrice della città di Dio:
dapprima perché la città di Dio era debole; in seguito perché la
causa della di lei libertà era la causa stessa del genere umano. La
Chiesa oppressa avea diritto, siccome ogni altro, alla difesa del
cavaliere; e fondata com'è da Gesù Cristo per perpetuare l'opera
dell'emancipazione terrena e della salvezza eterna degli uomini, la
Chiesa reputavasi allora come la madre, la sposa, la sorella di chiunque
avesse avuto sangue generoso e buona spada, io credo che ai nostri
giorni non vi sia persona la quale non sappia apprezzare tali
sentimenti. Il nostro secolo fra le tante miserie, almeno questo ha d i
gloria; di saper riconoscere esservi interessi ben più alti e più
universali che non quelli di famiglia e di nazione. La simpatia de'
popoli travalica nuovamente le frontiere, e la voce degli oppressi trova
un'eco nel mondo. Qual francese non accompagnerebbe, se non colla
persona, almeno col desiderio, un esercito di cavalieri che
attraversasse l'Europa a soccorso della Polonia? O qual francese, anche
incredulo, fra i delitti, di cui è vittima quell'illustre nazione, non
vorrà numerare la violenza fatta alla sua religione, l'esilio dei suoi
preti e dei suoi vescovi, la soppressione dei monasteri, la rapina delle
chiese, la tortura delle coscienze? Se il sequestro arbitrario e
l'incarcerazione dell'arcivescovo di Colonia hanno prodotto, tanta
impressione nell'Europa moderna, che non dové essere nell'Europa del
secolo decimoterzo all'annunzio che un ambasciatore apostolico era stato
ucciso proditoriamente a colpi di lancia? .
Né questo era il, solo atto d'oppressione di cui la
cristianità avesse diritto di chieder ragione al conte di Tolosa; già
da lungo tempo nelle terre dov'egli imperava non vi era più libertà
alcuna pei cattolici. Devastati i monasteri, messe a ruba le chiese, di
cui molte trasformate in fortezze; i vescovi di Carpentras, e di Vaison
cacciati dalle loro sedi; ed un cattolico invano avrebbe sperato
giustizia contro un eretico. Tutte le intraprese dell'eresia erano dal
conte protette; mentre verso la religione cattolica ostentava quel
disprezzo affettato che in un principe è già tirannia. Un giorno che i
Vescovo d'Orange si presentò in persona a lui per supplicarlo di
rispettare i luoghi santi e di astenersi, almeno la domenica e le altre
feste, da quelle vessazioni con cui opprimeva la provincia d'Arles,
Raimondo presa la mano destra del prelato, soggiunse: « lo giuro per
questa mano di non fare nessun conto né di domeniche, né di feste, e
di non far grazia né a persone, né a cose ecclesiastiche» . La
Francia in quel tempo era infestata da tristi avventurieri, i quali
divisi in numerose bande, rendevano le strade piene di ladroneggi e di
sangue. Inseguiti da Filippo Augusto, aveano trovato impunità e
sicurezza nelle terre del suo vassallo, il conte di Tolosa, in premio
dell'ardore con cui cooperavano ai di lui disegni colle loro aggressioni
e. sacrileghe crudeltà. Portavano via dai tabernacoli i vasi sacri,
profanavano il Corpo di Gesù Cristo, strappavano alle immagini i loro
ornamenti per abbellirne femmine prostitute; atterravano da cima a fondo
le chiese, ne uccidevano a colpi di verghe 'e di mazze i sacerdoti, e
molti ne scorticavano vivi; ed il conte con esecrabile tradimento
lasciava indifesi i suoi sudditi contro questo pugno di assassini.
Quando poi, dopo tanti delitti di cui era stato l'autore od il complice,
giunse ad accogliere fra i suoi amici e ricolmare di favori l'uccisore
stesso di Pietro di Castelnau, la misura fu colma. Il momento era giunto
in cui la tirannia pei suoi eccessi è ruina a se stessa.
Sarebbe per altro un grave errore credere che la
cristianità di allora avesse potuto facilmente domandar giustizia al
conte di Tolosa; ché potente egli era e da temersi, come i fatti
chiaramente lo dimostrarono. In verità dopo quattordici anni di guerra
Raimondo VI morì vincitore de' suoi nemici, e poté trasmettere al
figlio, che ne godè fino alla morte, il patrimonio de' suoi maggiori: né
questo gran feudo fu riunito alla corona di Francia, se non in seguito
al matrimonio di un fratello di S. Luigi con la figlia unica del conte
Raimondo VII. - Le cause per cui la dinastia dalla quale discendeva
Raimondo era potente, assommavano a parecchie. In primo luogo essa era
antichissima in quel paese, ed una gloria ben meritata la raccomandava
moltissimo all'amore, de' popoli. Nuovo legame tra il principe ed i
sudditi era l'eresia, ivi ormai generalmente diffusa, e che importando
come una separazione dal resto della cristianità, dava alle mutue loro
relazioni la forza di un legame religioso. 1 vassalli d'ogni specie
condividevano gli errori col proprio signore, e la cupidigia dei beni
del clero aggiungeva alla comunanza delle idee Anche quella degli
interessi. Né i cattolici, rimasti pochi di numero e non troppo
ferventi, potevano far molto per indebolire un partito così compatto, e
di cui era l'anima io stesso conto di Tolosa. Aggiungasi che questi avea
per alleati nella sua causa i conti di Foix e di Comminges, il visconte
di Béarn, il re di Aragona Pietro II, di cui avea sposata la sorella; e
che niente avea da temere dalla Guyenne, posseduta dagli Inglesi.
Filippo Augusto, signore di Raimondo, preoccupato in casa sua per causa
di litigi tra l'Inghilterra e l'impero, non era al caso di capitanare la
crociata; e senza Filippo a capo, il solo a temersi, l'esercito dei
crociati, composto di gente accozzata alla meglio, non poteva dare
speranza che di effimere vittorie; appariva anzi destinato a naturale
dissoluzione, prima ancora di essere sconfitto. Padrone adunque di tutta
la striscia dei Pirenei, con dietro l'Aragona a difesa e con due mari
inoffensivi a destra e a sinistra, circondato da una moltitudine di
forti città custodite da fedeli vassalli, Raimondo avea tutte le
probabilità di esser più forte dei suoi nemici. Ond'è che la guerra
Albigese fu una guerra assai seria, in cui le difficoltà morali furono
più gravi ancora di quelle strategiche. Ora vedremo quali fossero i
nobili e generosi sentimenti d'Innocenzo III, sempre d'avviso che là ci
si trovava un abisso; e vedremo anche un gran capitano, dapprima
vittorioso, soccombere poi sotto il peso delle afflizioni, avanti
che la morte del soldato lo raggiunga. Innocenzo III
appena saputo dell'uccisione del Castelnau, scrisse una lettera ai
conti, ai baroni, ai cavalieri delle provincie di Narbona, d'Arles, d'Embruni,
d'Aix e di Vienna, nella quale dopo aver dipinto a vivi colori
l'uccisione del suo legato, dichiarava scomunicato il conto di Tolosa
coi suoi vassalli, dichiarava sciolti dal giuramento di obbedienza i di
lui sudditi, e la sua persona e le sue terre messe al bando della
cristianità. Nel caso però che il conte si fosse pentito de' suoi
delitti, lasciavagli aperta la porta per riconciliarsi colla Chiesa.
Questa lettera è in data del 10 marzo 1208. Il Sommo Pontefice scrisse
inoltre sullo stesso tenore agli arcivescovi ed ai vescovi di quelle
provincie, all'Arcivescovo di Lione a quello di Tours, e al re di
Francia. All'abate di Citeaux, il solo superstite dei suoi legati,
aggiunse Navarre, vescovo di Conserans, ed Ugo, vescovo di Riez,
incaricando l'abate di predicare in modo speciale e di far predicare ai
suoi religiosi la crociata. I preparativi furono fatti nel rimanente di
quest'anno e nella primavera dell'anno seguente.
Frattanto il conte di Tolosa impauritosi, e saputo
che i vescovi della provincia di Narbona avevano inviato al Papa i loro
colleghi di Tolosa e di Conserans perché l’informassero minutamente
di tutti i mali cagionati alle loro chiese, credé bene di mandare anche
lui a Roma l'arcivescovo d'Auch, e Rabenstens, già arcivescovo di
Tolosa, affinché si lagnassero amaramente dell'abate di Citeaux, e
dicessero al Pontefice che il loro signore era pronto a sottomettersi e
a dare giusta soddisfazione alla Santa Sede, purché gli venisse
concesso di trattare con legati più ragionevoli. Innocenzo III
accondiscese a tali richieste, e fece partire per la Francia Milone,
notaro apostolico ed uomo di consumata prudenza, con lo speciale
incarico di esaminare e giudicare la causa del conte. Milone convocò a
Valenza un'assemblea di vescovi, e Raimondo, presentatosi, accettò le
condizioni di pace che gli furono proposte. Erano le seguenti: ch'egli
cacciasse gli eretici dalle sue terre; rimovesse dal pubblici uffici gli
ebrei; riparasse i danni da lui cagionati ai monasteri ed alle chiese;
ristabilisse nelle loro sedi i vescovi di Carpentras e di Vaison;
provvedesse alla sicurezza delle strade; non esigesse balzelli che non
fossero secondo le antiche consuetudini del Paese; purgasse i suoi
domini da quelle masnade armate che l'infestavano; ed in pegno della sua
sincerità consegnasse nelle mani del legato la contea di Melgueil e
sette città della Provenza che a lui appartenevano a condizione che le
avrebbe perdute qualora non fosse stato di parola. La solenne
riconciliazione con la Chiesa fu stabilito di farla a Saint-Gilles,
secondo le forme allora in uso.
Se il conte di Tolosa avesse agito in buona fede, la
pubblica penitenza accettata, lungi dall'umiliarlo agli occhi de' suoi
contemporanei e dei posteri, lo avrebbe anzi reso oggetto di somma
ammirazione davanti a tutta la cristianità. Teodosio non offuscò la
sua gloria per essersi arreso a S. Ambrogio sulla soglia della
cattedrale di Milano: solo il delitto fa disonore; mentre l'espiazione
volontaria, specialmente in un sovrano, è tale omaggio reso a Dio ed
all'umanità, che rinobilita colui che lo rende, e lo fa partecipe della
gloria insuperabile che si ritrova in Gesù Cristo crocifisso.
L'orgoglio non comprenderà forse ciò che dico; ma che importa? E’ già
da tempo che la croce è padrona del mondo, senza che l'orgoglio ne
abbia indovinata la ragione. Non ci curiamo di questo cieco nato, e
ripetiamo a chi è capace d'intendere le parole di Colui che conquistò
la terra e il cielo con un supplizio volontariamente sofferto: Chi si
esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà esaltato (Mt 23,12). Quando
adunque il conte di Tolosa avesse agito sinceramente, la penitenza
accettata gli avrebbe fruttato assai bene sotto ogni rispetto. Ma l'uomo
nella sventura non saprà mai apprezzare abbastanza la potenza dell'arma
che ha fra mano. Il conte di Tolosa mentiva; solamente per politica
aveva promesso cose che non avea in animo di mantenere; e quando sulla
soglia dell'Abazia di Saint-Gilles, dopo avere giurato sulle reliquie
dei Santi e sul corpo stesso del Signore che sarebbe stato alle
promesse, presentò le spalle nude alla verga del legato, non diede che
un turpe spettacolo di spergiuro e d'ignominia. Una circostanza notevole
si aggiunse ad aggravare il castigo e a dargli un carattere speciale.
Perocché all'uscire di chiesa, tanta era la folla, da non permettere a
Raimondo di muovere neppure un passo; onde apertagli una porta segreta
che metteva nei sepolcreti, si trovò a passare nudo e fustigato davanti
alla tomba di Pietro di Castelnau.
Pochi giorni dopo questo fatto, avvenuto il 18 giugno
1209, il legato Milone se ne partì per Lione per raggiungere l'armata
dei crociati, capitanata dal duca di Borgogna, dai conti di Nevers, di
S. Paolo, di Bar e di Montfort, e da altri distinti personaggi, nonché
da alcuni prelati. Innocenzo III aveva ordinato che se il conte di
Tolosa fosse stato assolto, i domini che direttamente gli appartenevano,
fossero rispettati; si facesse però marciare l'esercito contro i di lui
vassalli ed alleati, onde ridurli a sommissione.
Le truppe adunque si avanzarono verso la Linguadoca,
e non erano ancora a Valenza che il conte Raimondo già le precedeva,
vestito anch'egli da crociato, fu assediato Beziers, che preso d'assalto
all'improvviso, rimase preda del furor soldatesco, senza che si avesse
riguardo alcuno né all'età, né al sesso, e neppure alla religione
medesima. I legati nelle lettere mandate al Pontefice fanno ascendere il
numero dei morti quasi a ventimila; e questo massacro da nessuno voluto
e nemmeno previsto, è pur troppo uno di quegli avvenimenti che hanno
gettato sulla guerra Albigese quel marchio di terrore, che nessuno
storico varrà mai a cancellare. Alla presa di Beziers tenne dietro
quella di Carcassona. Gli abitanti si arresero, e così ebbero salva la
vita; la città però fu abbandonata al saccheggio. Non poteva cominciar
peggio una guerra in sé giustissima.
Fino ad ora anima e capo della crociata era stato
l'abate di Citeaux; ma dopo la presa di Beziers e di Carcassona, i
crociati, di cui molti pensavano di ritirarsi, credettero meglio di
eleggersi a capo un militare. La scelta fu rimessa ad un consiglio
composto dell'abate di Citeaux, di due vescovi, e di quattro cavalieri,
i quali giudicarono il più degno del comando Simone conte di Montfort.
Discendente dalla casa di Hainaut, questo guerriero era nato da Simone
III, conte di Montfort e d'Evreux, e da una figlia di Roberto, conte di
Leicester, ed aveva in sposa Alice di Montmoreney, donna eroica come il
suo nome. Non c'era capitano più ardito, né cavaliere più religioso
del conte di Montfort; e se alle eminenti qualità che ornavano la sua
persona, avesse congiunto maggior dolcezza e disinteresse maggiore,
nessuno dei crociati d'Oriente lo avrebbe sorpassato nella gloria.
Appena però egli fu eletto al comando si vide quasi da tutti
abbandonato. Il conte di Nevers, quello di Tolosa, il duca di Borgogna,
l'un dopo l'altro si ritirarono e con lui non restarono che una trentina
di cavalieri ed un esiguo nucleo di soldati: conseguenza inevitabile di
siffatte spedizioni, alle quali come ciascuno liberamente interveniva,
così liberamente poteva ritirarsene indietro. La mia intenzione, già
l'ho detto, è solo di tracciare il disegno generale della guerra e dei
negoziati che ne seguirono; pur ciò non è facile, disputandosi la
direzione delle cose il piano dell'abate di Citeaux e quello del
Pontefice.
L'abate di Citeaux d'accordo coi principali vescovi
della Linguadoca e dei paesi circonvicini, proponeva senz'altro la
distruzione totale della casa di Tolosa: ingiusta idea e contraria ad
ogni politica. Ingiusta, perché se Raimondo VI si era ciò meritato, e
non era più possibile fidarsi di lui in avvenire, non poteva, dirsi lo
stesso del suo figlio, giovinetto ancora di dodici anni, non complice
quindi dei delitti del padre, né incapace di una cristiana educazione
sotto una tutela disinteressata; contraria ad ogni politica, in quanto
che confondendo una questione religiosa che interessava tutta la
cristianità, con una questione di famiglia, avrebbe potuto dividere gli
animi e dare un colore di ambizione ad una guerra intrapresa per ben più
alti fini. E’ vero che l'abate di Cíteaux avea avuto la rara sorte di
imbattersi nel conte di Montfort uomo nato fatto per quel suo
divisamento; e forse solo dopo averlo visto valorosamente combattere gli
era venuto in mente la distruzione della casa di Tolosa. Ma le doti
guerresche del conte di Montfort, non erano, pei sudditi e pei vassalli
di quella casa, che le prerogative di un nemico; e l'abate di Citeaux,
che avea di mira di raggiungere quanto prima il suo intento pel timore
che poi gli venissero a mancare le forze della crociata, avrebbe dovuto
sapere che quel tempo stesso che temeva di non potere avere al suo
scopo, sarebbe stato necessario anche per sostituire nel governo di un
paese una famiglia nuova ad un'antica; ed avrebbe anche dovuto temere di
cambiare una guerra cattolica in una guerra personale tra i R.aimondi ed
i Montfort. E fu appunto dall'abuso ch'ei fece della sua autorità per
far prevalere un falso divisamento, che procedettero quegli errori e
quelle violenze, che tolsero alla guerra Albigese l'impronta di santità,
che d'altronde le sarebbe dovuta.
Innocenzo III era tutt'altro uomo che l'abate di
Citeaux; e per giunta sedeva su quella cattedra privilegiata, la quale
non solo ha l'eterno Spirito che sempre l'assiste, ma per la medesima
altezza a cui si trova, è pura dalle passioni che tanto facilmente
s'insinuano anche nelle cause più belle. E se troppo spesso uno zelo
eccessivo tentò distruggere insieme uomini ed errori, il papato cercò
sempre di salvar gli uomini pur annientando l'errore. Innocenzo III non
desiderava affatto che la casa di Tolosa fosse distrutta, anzi sperava
di poter ridurre il vecchio Raimondo a sentimenti degni degli avi suoi.
Nelle stesse lettere in cui fulminava contro di lui la scomunica,
provvedeva formalmente anche al caso ch’ei si fosse
pentito; e conosciuti i trattati di Saint-Gilles, subito si era
affrettato di dare ordine che fossero rispettate le di lui terre.
Sventuratamente il Pontefice non trovò in Francia persona alcuna che lo
secondasse in queste sue generose intenzioni; onde dové cedere
anch'egli alla forza delle cose, ed i suoi sforzi, riusciti inutili, non
valsero che ad onorarne la memoria. il conte Raimondo poi, rimovendosi
da quel sistema di pacificazione che dapprima aveva adottato, contribuì
da se stesso a far trionfare i nemici della sua famiglia; e non ci volle
che l'intervento di una mano suprema, perché le cose improvvisamente
cambiassero aspetto.
Il Montfort, sebbene rimasto con pochi soldati, non
avea per questo lasciato di andare innanzi, conquistando, e poi
riperdendo, e riconquistando di nuovo alcune città; mentre il conte di
Tolosa, sicuro della sua riconciliazione con la Chiesa, pareva non
curarsi della, caduta de' suoi alleati, né de' suoi vassalli. Ma un
concilio celebratosi in Avignone dai metropolitani di Vienna, d'Arles,
d'Embrun e d'Aix, sotto la presidenza dei due legati Ugo e Milone, venne
a disturbarlo dalla sua quiete. Tal concilio infatti, che fu aperto il
16 settembre 1209, concesse al conte una dilazione di solo sei settimane
per soddisfare alle promesse fatte a Saint-Gilles; non soddisfacendole,
sarebbe di nuovo incorso nella scomunica. Raimondo dopo questa
intimazione partì subito per Roma. Ammesso all'udienza del S. Padre,
che lo accolse con dimostrazioni di sincero affetto, si lamentò del
rigore dei legati verso di lui; presentò autentici documenti di molte
chiese da lui già risarcite nei danni; si dichiarò pronto a mantenere
tutte le altre convenzioni giurate; e chiese ancora di potersi
discolpare dell'imputazione a lui fatta dell'uccisione di Pietro di
Castelnau e delle accuse di tenere pratiche segrete con gli eretici. Il
Pontefice esortò Raimondo a star fermo in questi suoi propositi, ed
ordinò che si radunasse in Francia un nuovo concilio di vescovi per
ascoltare le giustificazioni del conte, coll’esplicita ingiunzione,
che quand'anche fosse trovato colpevole la sentenza, si riservasse alla
S. Sede. Raimondo, lasciata Roma, visitò la corte dell'imperatore e
quella del re di Francia, sperandone qualche protezione; ma restò
deluso. Non poté adunque fare a meno di presentarsi al concilio al
quale era stata rimessa la sua causa, e che fu celebrato a Saint-Gilles
verso la metà di ottobre dell'anno 1210. Vi andò coll'intenzione di
scolparsi dei due capi d'accusa che gli erano mossi: di essere cioè
d'intesa con gli, eretici, e di esser complice nell'uccisione di Pietro
di Castelnau. Ma il concilio si ricusò di ascoltarlo su ciò, e solo lo
richiese di stare alla parola data di purgare le sue terre dagli eretici
e dalla gente di mala vita che le infestavano. Sia che Raimondo non
valesse a soddisfare a queste
richieste, sia che gliene mancasse la volontà, tornò
a Tolosa persuaso in cuor suo che ogni artifizio più non giovava, e che
ormai l'unica speranza era riposta nelle armi. Ciò nondimeno il
concilio si astenne da scomunicarlo, avendo il Papa riservata a sé la
sentenza; ed Innocenzo III si contentò di scrivergli una lettera forte
sì, ma insieme affettuosa in cui l'esortava, senza nessuna minaccia, ad
eseguire ciò che avea promesso . Anche il re di Aragona intervenne dal
canto suo onde impedire una rottura definitiva; ed a tale scopo
nell'inverno del 1211 furono tenute due riunioni, una a Narbona, l'altra
a Montpellier. Nella prima il conte di Tolosa rigettò apertamente
le condizioni che gli erano state imposte a
Saint-Gilles; nella seconda parve dapprima che le accettasse, ma poi
senza neppure accomiatarsi, all'improvviso se ne partì. Per la qual
cosa il re di Aragona sdegnato, fidanzò suo figlio, bambino ancora di
tre anni, ad una figlia del conte di Montfort, anch'essa della stessa età;
e di più affidò al conte il proprio figliuolo, affinché lui stesso ne
curasse l'educazione. Non molto dopo però il re si pentì di ciò che
aveva fatto, e diede la sua sorella in moglie al figlio unico di
Raimondo, onde riallacciare con tali nozze i legami, già forti, che lo
univano alla causa degli eretici.
L'abate di Citeaux fulminò finalmente la scomunica,
e spedì espressamente un messaggio al Pontefice per ottenerne la
conferma. Innocenzo accondiscese; e Raimondo si accinse allora alla
guerra, incominciando dall'assicurarsi la fedeltà dei suoi sudditi e
l'aiuto di diversi principi, specialmente dei conti di Foix e di
Comminges. Il Montfort avanzatosi fin sotto le mura di Tolosa, venne
respinto, e l'esercito Albigese s'accampò in faccia a Castelnaudary,
finché una battaglia campale lo costrinse a levare l'assedio. I
crociati trionfarono, varie città caddero nelle loro mani; anche le
terre di Foix e di Comminges furono invase dall'armata. Raimondo corse
allora nella Spagna per implorare aiuto dal re di Aragona.
Ciò che in seguito avvenne dimostra chiaramente,
come il Papa fosse tuttora dubbioso ed incerto. Infatti il re di Aragona
prima di ricorrere alle armi in difesa del suo cognato, credé bene
tentare ancora una volta la riconciliazione, e spedì legati al
Pontefice con incarico di querelarsi con lui così del conto di Montfort,
impadronitosi di feudi dipendenti dalla corona, come ancora dei legati
apostolici assolutamente irremovibili dalla determinazione presa di
rigettare ormai qualunque ravvedimento di Raimondo. Innocenzo III mosso
da queste lagnanze scrisse risentito ai legati, e loro ingiunse di
adunare a nuovo concilio i vescovi ed i signori di quelle contrade, per
trattare dei mezzi onde ristabilire la pace . Ordinò poi al conte di
Montfort di restituire al re di Aragona ed ai suoi vassalli i feudi
tolti «per non dar motivo, diceva il Pontefice, di credere aver lui
combattuto per proprio interesse e non per la causa della fede» .
Finalmente prese anche la deliberazione di sospendere
la crociata; e manifestò questa sua volontà in una lettera indirizzata
all'abate di Citeaux, già da qualche tempo creato arcivescovo di
Narbona .
Mentre però queste lettere, in data del principio
dell’anno 1213, erano per via, si era già radunato un Concilio a
Lavaur per richiesta del, re di Aragona, il quale in un memoriale avea
supplicato i legati ed i vescovi di restituire ai conti di Tolosa, di
Comminges e di Foix, ed al visconte di Béarn le terre di cui erano
stati spogliati, e di riammetterli nella comunione della Chiesa a prezzo
di qualunque soddisfazione. Che se non fosse piaciuto loro esaudirlo in
favore del vecchio Raimondo, il re li esortava ad aver riguardo almeno
del figlio. Ma il concilio rispose che quanto al conte di Tolosa, ormai
non c'era più luogo a giustificazione, avendo egli mancato più volte e
pertinacemente alla sua parola; i conti invece di Foix e di Comminges,
ed il visconte di Béarn, fossero pure ricevuti a penitenza, quando essi
lo bramassero. Questa risposta più e più insinuò nel re il sospetto
che si fosse già stabilito di distruggere la casa di Tolosa. Dichiarò
allora altamente ch'egli avrebbe appellato alla clemenza della S. Sede
per l'inesorabile rigore dei legati e dei vescovi, e che intanto avrebbe
preso sotto la sua regale protezione il conte Raimondo ed il suo
figliuolo. Il re non poteva esser sospetto di eresia, avendo già
sottomesso il suo regno come feudo alla Chiesa romana, ed avendo
valorosamente difesa la cristianità contro i Mori della Spagna. Il suo
nome quindi e la sua spada avevano un gran peso per mettere a rischio
tutta l'impresa. Fu per questo che il concilio ebbe subito premura di
spedire quattro messaggieri al Pontefice con una lettera in cui si
cercava di persuaderlo che la causa cattolica sarebbe perduta, qualora
il conte di Tolosa ed i suoi eredi non venissero privati per sempre dei
loro domini. Gli arcivescovi d'Arles, d'Aix e di Bordeaux, i vescovi di
Maguelone, di Carpentras, d'Orange, di Saint-Paul Trois-Cháteaux e di
Perigueux scrissero al S. Padre sullo stesso tenore. Innocenzo III si
dolse allora di essere stato ingannato dal re di Aragona; al quale
comandò subito di desistere dalla determinazione presa, e di far tregua
col conte di Montfort, finché fosse arrivato da Roma un cardinale per
esaminare le cose sul luogo. Ma il dado ormai era gettato; ed il re,
composta un'armata nella Catalogna e nell'Aragonia, varcava i Pirenei
per congiungere le sue truppe con quelle dei conti di Tolosa, di Foix e
di Comminges.
Montfort ricevé a Fanjeaux l'avviso che l'esercito
dei confederati, forte di quarantamila fanti e di duemila cavalli, s'era
avanzato verso Muret, piazza importantissima, situata sulla Garonna, tre
leghe al disopra di Tolosa. Fu questo per lui il momento critico della
vita. Non aveva al suo comando che ottocento cavalli incirca, ed uno
scarso numero di fanti. Tuttavia appena cominciò al albeggiare partì
subito per Muret, accompagnato dall'armata, dai vescovi di Tolosa, di
Nimes, di Uzès, di Lodève, di Beziers, d'Agde, di Comminges, e da tre
abati di Citeaux. Giunto in quello stesso giorno al monastero dei
Cisterciensi di Bolbonne, entrò in chiesa, vi pregò lungamente, e nel
riprendere la spada che aveva posata sopra l'altare, rivolse a Dio
queste parole: «O Signore che, per quanto ne fossi indegno, mi
sceglieste a combattere nel vostro nome, io prendo ora la spada sul
vostro altare, onde ricevere da Voi medesimo le armi, essendo per Voi
che io vado a combattere». Si diresse quindi a Saverdun, dove pernottò.
Il giorno appresso si accostò al Sacramento della Penitenza, scrisse il
suo testamento, che inviò all'abate di Bolbonne, con preghiera, nel
caso ch'ei fosse morto, di trasmetterlo al Pontefice; e la sera, passata
attraverso un ponte la Garonna senza essere disturbato dai nemici, si
trovò tosto dietro le torri di Muret, guardate da una trentina di
cavalieri. Era il mercoledì del 12 settembre 1213. Non ancora era
entrato in città, quando lo raggiunsero i vescovi, che per un momento
si erano allontanati da lui per recarsi a domandar pace al campo nemico.
Ma il re d'Aragona avea risposto non valer la pena, che un re e dei
vescovi venissero a parlamentare per un pugno di soldati. Malgrado
questo tentativo riuscito vano, appena cominciò ad albeggiare, i
vescovi per mezzo di un religioso fecero noto al re, che loro stessi e
tutti gli ordini ecclesiastici sarebbero andati a piedi scalzi a
scongiurarlo, affinché si venisse a migliori risoluzioni. Quanto il
conte di Tolosa avrebbe dovuto allora rammaricarsi dei suoi spergiuri e
delle sue vane umiliazioni! Come avrebbe dovuto imputare a se stesso la
colpa di aver ricusato fin da principio una guerra leale e da forti,
anziché lasciare opprimere i suoi amici e disonorar la sua causa! Ma
egli non ci vedeva più; la guerra però come l'artifizio dovevano
riuscirgli funesti. Dio vedeva il cuore di questo principe, e non
s'impietosì della triste sua sorte.
I vescovi si preparavano già ad uscire da Muret
nell'umile atteggiamento di supplicanti, quando un gruppo di cavalieri
nemici si precipitò verso le porte. Montfort ordinò allora ai suoi di
schierarsi in battaglia sulla parte bassa della città; ed egli
medesimo, dopo aver pregato in una chiesa mentre il Vescovo di Uzès
offriva il santo sacrificio, indossò la corazza, e così armato, tornò
ancora a pregare. Però nel piegare il ginocchio gli si ruppero i lacci
dalla parte inferiore dell'armatura; e nel mettere il piede sulla
staffa, fu osservato che il cavallo, alzando la testa, lo toccò.
Quantunque allora si facesse gran caso a questi incidenti, siccome a
tristi presagi, punto si turbò il cuore del prode cavaliere. Insieme a
Folco che portava in mano un Crocifisso, si diresse verso le suo truppe.
I cavalieri scesero allora a terra per adorare il Salvatore e baciarne
l'immagine; ma il vescovo di Comminges, vedendo che il tempo stringeva,
prese il Crocifisso dalle mani di Folco, da un luogo alquanto elevato
arringò con brevi parole l'armata e la benedisse. Dopo ciò tutti gli
ecclesiastici che erano presenti, si ritirarono in chiesa a pregare; e
Montfort uscì fuori della città alla testa di ottocento soldati a
cavallo, più la fanteria.
L'esercito dei confederati era schierato in una
pianura ad occidente della città. Il Montfort, uscito dalla porta
opposta, come se avesse voluto fuggire, divise il suo drappello in tre
squadre e si diresse verso il centro nemico. Dopo la fiducia che aveva
riposta in Dio, il suo piano era di rompere le linee dei nemici,
seminarvi disordine e spavento, e profittare allora di tutti quegli
incidenti che l'occhio dei grandi capitani sa scoprire nell'orrore della
mischia. La prima squadra difatti si scagliò contro l'avanguardia dei
nemici; la seconda penetrò fin nelle ultime file dove si trovava il re
d'Aragona circondato dal fiore dei suoi soldati; Montfort che veniva
dietro colla terza, investì di fianco gli Aragonesi già messi in
scompiglio. La fortuna delle armi rimase sospesa per qualche tempo;
tempo fatale perocché i battaglioni così d'improvviso sbandati, erano
piuttosto sbalorditi che disfatti, e caricando alle spalle, avrebbero
ancora potuto opprimere il Montfort. Ma un colpo ben diretto stese a
terra il re d'Aragona, e decise della battaglia. Gli Aragonesi colle
loro grida e con la fuga trassero seco anche gli altri confederati. Ed i
vescovi che pregavano angosciosamente nella chiesa di Muret, chi
prostrato a terra, chi con le mani levate a Dio, accorsi all'annunzio
della vittoria, videro tutta la pianura disseminata di fuggenti,
incalzati alle spalle dalla spada formidabile dei crociati. Così un
esercito che si era proposto di prender d'assalto la città, gettate a
terra le armi, fu distrutto, mentre si era dato ad una fuga precipitosa.
Montfort, dopo inseguiti i nemici, ripassando sul campo di battaglia,
s'imbatté nel cadavere del re d'Aragona prosteso a terra e già
spogliato delle sue vesti. Scese allora da cavallo, e piangendo baciò
il gelido corpo di quel principe sfortunato. Pietro II, re di Aragona,
era un valoroso cavaliere, amato dai sudditi, sincero cattolico, e degno
di una morte migliore. Ma i legami che univano le sue sorelle ai due
Raimondi l'avevano coinvolto nella difesa di una causa ch'egli non
riteneva più come causa contro gli eretici, ma come causa di giustizia
e di parentela.
E forse appunto perché disprezzò le preghiere dei
vescovi ed abusò in cuor suo di una vittoria che riteneva sicura, per
secreto giudizio di Dio ne rimase vittima. Montfort, dopo aver pensato
alla di lui sepoltura, a piedi scalzi rientrò in Muret, andò subito in
chiesa, a render grazie al Signore dell'aiuto ricevuto e donò ai poveri
il cavallo e l'armatura usati nella pugna. Questa memoranda battaglia,
frutto di una coscienza che si sentiva sicura di combattere per Iddio,
sarà sempre annoverata tra i più belli attestati di fede che gli
uomini abbiano mai dato sulla terra.
Anche Domenico si trovava a Muret unito ai sette
vescovi che abbiamo nominati e ai tre abati di Citeaux; anzi da alcuni
storici è stato recentemente scritto ch'egli medesimo, con la croce in
mano, stesse alla testa dei soldati. Ed a Tolosa, nel palazzo
dell'Inquisizione si mostrava nei tempi passati un crocifisso tutto ,
crivellato da frecce, che dicevasi essere quello portato da Domenico
alla battaglia di Muret. Gli storici contemporanei però non dicono
nulla di tutto questo; affermano al contrario che Domenico era rimasto
dentro la città a pregare insieme coi vescovi e coi religiosi; e
Bernardo Guidonis, uno degli scrittori della di lui vita, che abitò nel
palazzo dell'Inquisizione di Tolosa dall'anno 1308 all'anno 1322, di tal
crocifisso non ne fa affatto menzione.
La battaglia di Muret fu un colpo mortale pel conte
di Tolosa. I suoi alleati e gli abitanti della capitale del suo regno si
sottomisero al Sommo Pontefice, il quale incaricò il cardinale Pietro
di Benevento di riconciliarli con la Chiesa, e di obbligare il conte di
Montfort a rimandare in Spagna il nuovo re d'Aragona, giovanetto ch'ei
riteneva in ostaggio fin da quando era stato fidanzato colla sua figlia.
Il cardinale soddisfece a questo duplice mandato nell'inverno del 1214;
e, cosa notevole, diede anche l'assoluzione al conte di Tolosa, per
quanto quest'atto di clemenza non giovasse punto al vinto riguardo ai
suoi interessi temporali. Infatti nel seguente mese di dicembre fu
convocato un concilio a Montpellier per decidere a chi dovesse
appartenere la sovranità delle terre conquistate; ed il concilio fu
unanime nel pronunziarsi in favore del Montfort, alla cui spada forte e
valorosa era dovuto l'esito della guerra. Ciò nondimeno il Sommo
Pontefice con una lettera in data del 17 aprile 1215 dichiarò che il
Montfort avrebbe ritenuto tali domini solo temporaneamente, fino a che
il concilio Lateranense, al quale era riservata la sentenza definitiva,
si fosse pronunziato. Fu questo, un ultimo sforzo di Innocenzo III per
salvare la casa di Tolosa.
Raimondo intanto, abbandonato da tutti, si era
ritirato col figlio nella corte del re d'Inghilterra.
Il giorno 11 novembre 1215, il sole al suo levarsi
dalla parte degli Appennini, si trovò ad indorare coi suoi raggi, nella
chiesa solitaria di S. Giovanni in Laterano, l'assemblea più augusta
del mondo. Stavano colà raccolti primati e metropolitani in numero di
settantuno, più quattrocentododici vescovi, ottocento, abati e priori
di monasteri, una moltitudine di procuratori degli abati e dei vescovi
assenti, gli ambasciatori del re dei Romani, dell'imperatore di
Costantinopoli, dei re di Francia, d'Inghilterra, d'Ungheria, d'Aragona,
di Gerusalemme e dì Cipro; poi un numero sterminato di rappresentanti
di principi, di città, e di signori; e al di sopra di tutti la
veneranda figura di Innocenzo III. Era presente anche l'abate di
Citeaux, ora arcivescovo di Narbona; il conte di Montfort invece si era
fatto rappresentare dal suo fratello Guido. I due Raimondi erano venuti
in persona, come pure i conti di Foix e di Comminges. Nel giorno
stabilito per giudicare la gran causa della crociata albigese, i due
Raimondi, ed i conti di Foix e di Comminges si presentarono
all'assemblea, e tutti e quattro si prostrarono ai piedi del trono
pontificio. Fatti alzare, raccontarono come malgrado la loro
sottomissione alla Chiesa romana, e l'assoluzione che avevano ricevuta
dal legato Pietro di Benevento, fossero stati privati dei loro feudi. Un
cardinale con molta forza ed eloquenza parlò in loro favore; lo stesso
fecero l'abate di S. Tiberio ed il cantore della Chiesa di Lione, il
quale principalmente parve intenerire, il Pontefice. Ma la maggior parte
dei vescovi, e specialmente i francesi, si pronunziarono contro i
supplicanti, protestando che sarebbe finita in Linguadoca per la
religione cattolica, qualora quei principi fossero tornati al potere; e
tutto il sangue versato per questa causa, e tutti i sacrifizi fatti, non
sarebbero stati che sacrifizi e sangue sprecati. Il concilio dichiarò
adunque Raimondo VI privato de' suoi .feudi, che fin d'allora sarebbero
passati definitivamente nelle mani del conte di Montfort, ed assegnò a
Raimondo una pensione di quattrocento marchi d'argento, a condizione che
fosse andato ad abitare fuori dei suoi antichi domini. Dichiarò inoltre
che tutti i beni della dote di Leonora, moglie del conte, fossero
rispettati, e che il marchesato di Provenza sarebbe riservato al loro
figlio Raimondo, ancor giovanetto, giunto che fosse a maggiorità e se
si fosse mantenuto fedele alla Chiesa. Quanto ai conti di Foix e di
Coniminges, la loro causa fu rimandata per essere studiata meglio. E’
da notarsi che il marchesato di Provenza, riservato, pel giovane
Raimondo, si componeva ,di quelle città che suo padre avea date in
pegno alla S. Sede, qualora avesse mancato alle convenzioni di
Saint-Gilles; e che essendo stato più volte proposto al S. Padre di
riunire quel marchesato ai domini apostolici, mai l'aveva voluto fare; e
solo fece valere i suoi diritti quando si trattò di conservarlo alla
casa di Tolosa.
Chiuso il concilio, Raimondo il giovane, che con la
nobiltà de' suoi modi si era attirata la simpatia di tutti, recatosi
dal Papa per congedarsi, gli disse chiaramente che lui si credeva
ingiustamente privato del patrimonio de' suoi maggiori, soggiungendo con
ingenua e rispettosa fermezza, che non avrebbe lasciata passare
occasione alcuna per ricuperare con gloria quel che senza colpa avea
perduto. Innocenzo III commosso dinanzi all'innocenza, al coraggio e
insieme all'infelicità di quel giovine di diciotto anni, pronunziò su
di lui questa profetica benedizione:«Che: tu possa, o figlio, cominciar
bene tutte le tue azioni, e finirle ancor meglio» .
Montfort rivestito da Filippo Augusto dei titoli di
duca di Narbona e di conte di Tolosa, non godè lungamente del potere
tanto laboriosamente acquistato. Doveva terminare ancora l’anno 1216,
ed il giovane Raimondo era nuovamente divenuto padrone di una parte
della Provenza; Tolosa, già stanca di portare il giogo del nuovo conte,
aveva riaperto le porte al vecchio Raimondo richiamato dall'Inghilterra,
dove si era ritirato; un gran numero di signori al primo annunzio di
questa mutazione di cose, era corso subito a prestare giuramento di
fedeltà all'antico sovrano; ed il vincitore di Muret dové allora
comprendere che non basta vincere battaglie ed espugnare città per
acquistare il prestigio nel governo dei popoli. Per sua sventura egli
ebbe contro di sé quella preziosa forza che è nelle viscere
dell'umanità, e che rendo impossibile regnare sui popoli quando non si
regni sui loro cuori. Cacciato da Tolosa, invano da lui disarmata e
spaventata coi supplizi, il Montfort con infelice pensiero la strinse
d'assedio, senza però mai più rientrarvi. La lunghezza dell'assedio,
l'incertezza dell’avvenire, le lagnanze che per la sua inazione gli
venivan fatte dal cardinale Bertrando legato apostolico ed anche
l'abbattimento che cagionano le sventure da lungo tempo previste,
gettarono il prode cavaliere in una melanconia tale da fargli desiderare
la morte.
Il 25 giugno del 1218 gli fu annunziato di buon
mattino che i nemici stavano già in agguato nei fossati del castello.
Egli chiese allora la sua armatura, e indossatala, andò ad ascoltare la
Messa. La Messa era appena cominciata, quando un altro venne ad
avvisarlo che era stato dato l’assalto alle macchine da guerra e che
stavano in procinto di essere distrutte. «Lasciate, disse il Montfort,
ch`io vegga il Sacramento della nostra Redenzione!» Ma ecco arrivare
ancora un terzo per dire che i soldati non valevano più a far fronte.
«Eppure io non verrò, egli rispose, se prima non abbia veduto il mio
Salvatore» . Finalmente, dopo che il sacerdote ebbe elevata l'ostia,
Montfort inginocchiato a terra ed alzate al cielo le mani, profferì
queste parole: Nunc dimittis, e sortì. La sua presenza sul campo di
battaglia fece indietreggiare il nemico fino ai fossati della piazza; ma
fu l'ultima vittoria. Una pietra lo colpì nella testa; ed ei battendosi
il petto e raccomandandosi a Dio e alla Santissima Vergine Maria, cadde
morto.
La fortuna continuò a favorire i Raimondi. Di due
figli infatti che Montfort avea lasciati, il più giovane fu ucciso
sotto le mura di Castelnaudary; ed il primogenito, ormai convinto da
quattro anni d'infortuni di non esser abile a sostenere il peso
dell'eredità paterna, cedé al re di Francia tutti i suoi diritti. Il
vecchio Raimondo, tranquillo dentro la città di Tolosa, all'ombra delle
vittorie del suo figlio, ebbe tempo di rivolger gli occhi a quel Dio che
l'avea umiliato e rialzato insieme; finché un giorno, era il 12 luglio
1222, nel tornare dalla Chiesa, alla cui entrata, essendo ancora
scomunicato, era stato a pregare, si sentì male. Mandò a chiamare in
tutta fretta l'abate di Saint-Sernin, affinché lo riconciliasse colla
Chiesa. L'abate lo trovò che più non parlava; il vecchio conte però
quando lo vide, alzò gli occhi al cielo, e prese le di lui mani, le
tenne strette fra le sue fino all'ultimo respiro. Il suo corpo fu
trasportato alla chiesa dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme,
dove egli aveva scelto la sepoltura; ma a causa della scomunica, nessuno
osò seppellirlo. Lasciatolo scoperto in una bara, dopo tre secoli era
ancor là, senza che una mano pietosa avesse ardito d'inchiodare una
tavola su quella cassa consacrata ormai dalla morte e dal tempo. A
richiesta del figlio, sotto i pontificati di Gregorio XI e d'Innocenzo
IV, era stata trattata la questione della di lui sepoltura, e molti
testimoni avean provato che prima di morire aveva dato segni di verace
pentimento; ciò nonostante si temé sempre di agitar quelle ceneri, e
di rendergli onori, per quanto tardivi.
Raimondo VII sopravvisse al padre ventisei anni; più
volte seppe difendersi contro le armi stesse di Francia; ma troppo
debole per sostenerne continui assalti, nel 1228 conchiuse con S. Luigi
un trattato che pose fine a questa guerra interminabile. Le principali
condizioni della pace furono le seguenti: che Raimondo desse in sposa
l'unica sua figlia al conte di Poitiers, uno dei fratelli del re,
assegnandole per dote la contea di Tolosa; cedesse alcune terre da lui
possedute, e promettesse di esser fedele alla Chiesa, usando della sua
autorità contro gli eretici. La Chiesa ratificò questa pace, e
riammise alla sua comunione il giovane conte, il quale, in penitenza si
obbligò a servire per cinque anni la cristianità in Palestina. Solo
però venti anni dopo, pensò a soddisfare al suo dovere ed a partire
per Terra Santa; ma la morte lo prevenne. Ammalatosi a Pris, non lontano
da Rhodez, e fattosi trasportare a Milhaod, ivi mori il 27 settembre
1248, circondato dai vescovi di Tolosa, di Agen, di Cahors e di Rhodez,
dai consoli di Tolosa e da un gran numero di signori, tutti colà
accorsi a ricevere l'ultimo respiro di un principe da loro amato, ed
unico rampollo, in linea maschile, del ramo diretto di un'illustre
famiglia. Quando gli fu portato il Santissimo Viatico, il conte levatosi
dal letto, si gettò ginocchioni per terra davanti al corpo del Signore:
si avverò così anche in morte, come era stato in vita, il voto che
Innocenzo III, benedicendo il conte ancor giovanetto, avea emesso: «Che
tu possa, o figlio, cominciar bene tutte le tue azioni e finirle meglio!».