VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
CAPITOLO III.
Apostolato di S. Domenico dall'abboccamento di
Montpellier fino al principio della guerra Albigese
Fondazione del monastero di Notre-Dame di Prouille.
Quanto fra i legati apostolici ed il Vescovo di Osma
era stato stabilito, senza indugio fu mandato ad effetto. L'abate di
Citeaux partì per la Borgogna a presiedervi il capitolo generale del
suo Ordine, e promise che sarebbe tornato con buon numero di operai
evangelici. Gli altri due legati con Don Diego, con Domenico e con
alcuni preti spagnoli s'avviarono a piedi verso Narbona e Tolosa. Strada
facendo, sostavano nelle città e nelle borgate a seconda che lo Spirito
del Signore li ispirava o potevano rilevare dalle circostanze che la
loro parola sarebbe stata fruttuosa. Divisato poi che avessero di
predicare in qualche luogo, ci si fermavano più o meno, attesa
l'importanza del paese e l'impressione prodottavi. Ai cattolici
predicavano nelle chiese; con gli eretici tenevano conferenze in case
private. L'uso di tali conferenze è antichissimo. San Paolo stesso ne
teneva di frequente con gli Ebrei, e S. Agostino coi Donatisti e coi
Manichei dell'Africa. E per verità, se fra le cause dell'errore si
conta pure l'ostinazione, l'ignoranza ne, è la causa più comune. La
maggior parte degli uomini non rigettano la verità so non perché,
ignorandola, se la rappresentano sotto forme, che non hanno niente di
reale.
Uno degli obblighi dell'apostolo è adunque esporre
chiaramente la vera fede, sceverandola da tutte le opinioni particolari
che la oscurano, lasciando allo spirito umano tutta la libertà che la
parola di Dio e la Chiesa, sua interprete, gli consentono. Ma questa
esposizione non è possibile se non in quanto attira coloro che ne hanno
bisogno; ed allora solo è completa, quando permette agli avversari la
discussione, come noi ci riserbiamo il diritto di esaminare le loro
dottrine. E' questo il fine delle conferenze, onorevole palestra, dove
uomini di buona fede invitano a discutere uomini di buona fede, dove la
parola è l'arma uguale per tutti, e la coscienza il solo giudice.
Se però l'uso delle conferenze è antico, quelle
tenute cogli Albigesi rivestirono una certa novità ed arditezza tutta
propria. I cattolici non temettero di eleggere spesso ad arbitri delle
controversie gli stessi avversari, rimettendosi al loro giudizio,
invitando a presiedere l'assemblea i più celebri fra gli eretici, e
dichiarando fin da principio che sul valore delle ragioni addotte da
ambedue le parti, sarebbero stati alle loro decisioni. Quest'eroica
fiducia fruttò loro assai bene, e più volte poterono rallegrarsi di
avere confidato assai nel cuore umano; ebbero anzi le più solenni prove
dell'inesauribile disposizione al bene che sempre vi si nasconde.
Una delle prime borgate dove i nostri si fermarono fu
Caraman, non lontano da Tolosa. Con tanto successo vi annunziarono per
otto giorni la verità, che gli abitanti volevano cacciarne
a forza gli eretici; e quando i missionari partirono,
li accompagnarono per lungo tratto. - Beziers li ebbe per quindici
giorni. Ivi la piccola schiera rimase priva di Pietro di Castelnau
pregato dagli amici ad allontanarsi a cagione dell'odio particolare che
a lui, portavano gli eretici. - Una terza stazione fu fatta a Carcassona;
un’altra a Verfeuil, nelle vicinanze dì Tolosa; una quinta. a
Fanjeaux, piccola città situata in alto fra Carcassona e Pamiers.
Quest'ultima è rimasta celebre
per un fatto miracoloso, che il B. Giordano di
Sassonia racconta con queste parole: «Accadde che a Fanjeaux fosse
tenuta una clamorosa conferenza davanti ad una moltitudine di fedeli ed
infedeli. I cattolici avevano preparati diversi memoriali pieni di
argomenti e di autorità a sostegno della loro fede; esaminati però, e
confrontati insieme, fu prescelto, per opporre al memoriale che dal
canto loro avrebbero presentato gli eretici, quello del beato servo di
Dio Domenico. Di comune accordo cogli eretici furono designati tre
arbitri per giudicare da qual parte militassero ragioni migliori, e per
conseguenza più soda fosse la fede. Ma dopo molto ragionare, non
consentendo gli arbitri in una stessa sentenza, venne loro in mente di
gettare nel fuoco le due memorie, persuasi che se una fosse risparmiata
dalle fiamme, essa avrebbe contenuto senza dubbio la vera dottrina. Si
accese dunque un gran fuoco e vi si gettarono i due volumi; quello degli
eretici fu subito in fiamme, mentre l'altro che il beato servo di Dio
Domenico aveva scritto, non solamente rimase illeso, ma fu respinto via
dal fuoco stesso in presenza di tutta quanta l'assemblea. Vi si rigettò
una seconda volta e poi una terza, ed il prodigio sempre ripetutosi die'
manifestamente a conoscere da qual parte stesse la verità, e quanta
fosse la santità di chi avea scritto quel libro» . La memoria di
questo fatto è rimasta non solo nella storia, ma anche nelle tradizioni
di Fanjeaux; e nel 1325 gli abitanti di quel luogo ottennero da Carlo il
Bello di poter comprare la casa ove era avvenuto il prodigio e di
trasformarla in cappella, arricchita poi dai Sommi Pontefici di molti
privilegi Un miracolo simile accadde più tardi a Montréal, ma in
secreto, fra eretici convenuti nottetempo per esaminare un altro
memoriale del medesimo servo di Dio. Per quanto però si fossero
promessi a vicenda di occultare la cosa, pure uno di essi, convertitosi
alla fede, la rivelò.
Frattanto Domenico si era bene accorto che una delle
cause per cui l'eresia progrediva era la scaltrezza con la quale gli
eretici attiravano a sé l'educazione di nobili giovinette, che le
famiglie per mancanza di mezzi non potevano educare convenientemente
alla loro condizione. Stava quindi investigando al cospetto di Dio il da
farsi per rimediare a tanta seduzione; e credè di potervi provvedere
colla fondazione di un monastero destinato a ricevere quelle fanciulle
cattoliche che la nobiltà dei natali e la povertà insieme esponevano
alle insidie dell'eresia. Eravi a Prouille, villaggio posto in una
pianura tra Fanjeaux e Montréal, alle falde dei Pirenei, una chiesa
dedicata alla SS. Vergine e celebre da molto tempo nella venerazione dei
popoli. Domenico nutriva devozione particolare per Notre-Dame di
Prouille; spesso nei suoi viaggi apostolici ci si era fermato a pregare;
e sia che salisse i primi colli dei Pirenei, sia che ne discendesse,
l'umile santuario di Prouille gli era sempre apparso, all'entrare nella
Linguadoca, come un luogo di speranze e di consolazioni. Quivi adunque,
a fianco della chiesa, coll'approvazione e con l'aiuto del vescovo
Folco, asceso allora alla sede di Tolosa, edificò Domenico il suo
monastero. Folco era monaco cisterciense, assai noto per la purità
della vita e l'ardore della fede; ed i cattolici, di Tolosa se l'erano
scelto per vescovo, dopochè Raimondo di Rabenstens, suo predecessore,
per decreto del Pontefice ne era stato rimosso. La sua elezione ad una
sede tanto importante fu accolta con somma gioia in tutta la Chiesa; e
quando lo venne a sapere anche il legato Pietro di Castelnau, allora
gravemente infermo, sollevatosi un po' dal letto, a mani giunte ne rese
grazie al Signore. Folco ben presto fu l'amico di Domenico e di Don
Diego, e favorì quanto poté l'erezione del monastero di Prouille, cui
concesse prima l'uso e poi la proprietà della chiesa di Santa Maria,
accanto alla quale Domenico l'avea edificato. E prima di Folco,
Berengario, arcivescovo di Narbona, aveva donato alle suore, quattro
mesi appena dacché si erano riunite, la chiesa di S. Martino di Limoux
con tutte le rendite che le appartenevano. In seguito anche il conte
Simone di Montfort ed altri nobili cattolici fecero doni rimarchevoli a
Prouille, che ben presto addivenne un fiorente e celebre monastero.
Parve anzi che una grazia speciale sempre lo assistesse; perocché la
stessa guerra civile e religiosa che di lì a poco scoppiò, non si
avvicinò alle sue mura se non per venerarle. E mentre le chiese erano
spogliate, i monasteri distrutti, l'eresia in armi e spesso vittoriosa,
povere figliole del tutto indifese pregavano tranquillamente a Prouille,
all'ombra ancor giovane del loro chiostro. Le prime opere dei Santi
spirano sempre un profumo di verginità che tocca il cuore di Dio; e
Colui che protegge il filo d’erba contro la tempesta, veglia alla
culla delle grandi cose.
Quale fosse in principio l'abito e quali le regole
delle Suore di Prouille, non si sa con certezza. A capo stava una Priora
sotto la Direzione di Domenico, che ritenne l'amministrazione spirituale
e temporale del monastero, affinché le sue care figliole non fossero
disgiunte dal futuro Ordine che stava meditando, anzi ne fossero come il
primo seme. Però non permettendogli le sue cure apostoliche di fissare
in Prouille la sua residenza, commise l'amministrazione temporale del
monastero ad un abitante di Pamiers, a lui bene affetto, per nome
Guglielmo Claret; e chiamò altresì a parte della direzione spirituale
uno o due ecclesiastici, francesi o spagnoli non so, e di cui anche il
nome è rimasto sconosciuto. Una parte del monastero fuori di clausura,
fu adibita ad uso di Domenico e dei suoi coadiutori, affinché la loro
abitazione distinta, ma sotto un medesimo tetto, fosse garanzia
dell'unione che legherebbe un giorno i Frati Predicatori alle Suore
Predicatrici, due rami sbocciati da un medesimo tronco. E quando tutto
fu ultimato il 27 dicembre 1206, festa di S. Giovanni Evangelista
Domenico ebbe la consolazione di aprir le porte di Notre-Dame di
Prouille a parecchie gentildonne e giovanette che per mezzo suo aveano
desiderato consacrarsi a Dio.
Tali i primordi delle istituzioni Domenicane. Da
principio un asilo a protezione della triplice debolezza del sesso,
della nascita e della povertà, come la redenzione del mondo che cominciò
nel seno di una vergine povera e figlia di David. Notre-Dame di Prouille,
solitaria e modesta, aspettò ancora lungamente ai piedi della montagna
i fratelli e le sorelle che avrebbe avuti senza numero, e che avrebbero
portato il suo nome fino all'estremità della terra. Primogenita di un
padre che lentamente avanzava sotto la paziente direzione di Dio,
cresceva anch'essa in silenzio, onorata dall'amicizia di molti uomini
grandi e quasi cullata sulle loro ginocchia. Domenico poi, che dopo
l'abboccamento di Montpellier avea lasciato il titolo di sottopriore d'Osma,
per prender quello di Fra Domenico, aggiunse allora a questa umile e
dolce denominazione, l'altra di Priore di Prouille, onde veniva
chiamato: Fra Domenico, priore di Prouille.
Qualche tempo dopo questa fondazione, Domenico
trovandosi a Fanjeaux, fatta la predica. era rimasto, secondo il suo
solito, in Chiesa a pregare: quand'ecco che nove nobili signore si
prostrano ai suoi piedi e: «Servo di Dio, gli dicono, aiutateci. S'egli
è vero ciò che oggi voi avete predicato, ben da gran tempo il nostro
spirito è acciecato dall'errore; perocchè a coloro che voi chiamate
eretici, e noi buonomini, fino ad oggi abbiamo prestato fede ed aderito,
con tutta convinzione, ora non sappiamo più che pensare. Servo di Dio
abbiate pietà di noi e pregate il Signore Dio vostro, che ci faccia
conoscere la vera fede nella quale dobbiamo vivere e morire, per esser
salve». Domenico rimasto assorto ancora per qualche momento nella
preghiera, poi rispose loro: «Abbiate pazienza e aspettate senza
timore. Io credo che il Signore, il quale non vuole che alcuno si perda,
vi mostrerà a qual padrone abbiate servito fin qui». E tutta ad un
tratto apparve in forma di immondo animale lo spirito di errore e di
odio; e Domenico rassicurandole: «Voi potete argomentare da questo
mostro, che Dio vi ha fatto comparire dinanzi, chi sia colui che, dando
retta agli eretici, fino ad ora avete servito» . Le donne, piene di
riconoscenza verso. il Signore, sull'istante e con fermo proposito si
convertirono alla fede, cattolica; anzi alcune si consacrarono a Dio nel
monastero di Prouille.
Nella primavera dell'anno,1207 fu tenuta a Montréal
una delle solite conferenze fra albigesi e cattolici. Questi ultimi
scelsero fra gli avversari quattro arbitri ai quali furono rimessi da
ambedue le parti alcuni memoriali sulle materie controverse. La pubblica
disputa fu protratta per quindici giorni, dopo i quali gli arbitri si
ritirarono senza volersi pronunziare. Sentivano vivamente nella loro
coscienza la superiorità dei cattolici, ma non avevano coraggio di fare
una dichiarazione aperta contro il loro partito. Ciò nonostante,
centocinquanta uomini abiurarono l'eresia e ritornarono nel seno della
Chiesa. Il legato Pietro di Castelnau era presente a questa conferenza;
e poco dopo giunsero a Montréal anche l'abate di Citeaux, dodici altri
abati del medesimo Ordine e circa venti religiosi, tutti uomini di
cuore, versati nelle cose divine e d'una santità di vita degna della
missione che venivano a compiere. Avevano lasciato Citeaux allo
sciogliersi del capitolo generale, e secondo le raccomandazioni del
Vescovo d'Osma si erano messi in viaggio non portando seco che il puro
necessario. Questo rinforzo rianimò i cattolici, i quali dopo due anni
di fatiche vedevano finalmente qualche frutto dei loro sudori e
sperimentavano di non avere confidato invano sull'assistenza promessa a
tutti coloro che sinceramente si consacrano alla causa di Dio. La
provincia di Narbona era già stata evangelizzata da cima a fondo; molte
le conversioni operate; l'orgoglio degli eretici rintuzzato da virtù
superiore alle loro forze; ed i popoli spettatori di tanto risveglio,
avevano ben potuto comprendere non esser poi la Chiesa Cattolica
sull'orlo della tomba. Folco avea rialzata la dignità episcopale;
Navarre, vescovo di Conserans, lo imitava; gli altri colleghi, prima
freddi, scuotevansi anch'essi dal loro torpore; e con la fondazione del
monastero di Prouille era stata riabilitata la nobiltà cattolica
decaduta. Il più gran fatto però era quello di aver potuto riunire
insieme uomini eminenti per virtù, per dottrina e per carattere,
animati dal comune pensiero dell'apostolato; e di aver dato a questo
apostolato nascente una consistenza insperata. - Tuttavia richiedevasi
ancora maggiore unità fra questi elementi retti da quattro differenti
autorità, cioè dai legati, dai vescovi, dagli abati di Citeaux e dagli
spagnoli; per la qual cosa parlavasi spesso della necessità di fondare
un Ordine religioso che avesse per ufficio la predicazione. E se la
venuta dei cisterciensi a Montreal consolidò tutte le cose fino allora
operate, ispirò ancora un desiderio più risoluto di andare innanzi.
Anima dell'impresa era il Vescovo d'Osma, per quanto come semplice
vescovo fosse inferiore ai legati, e come straniero dipendesse
nell'esercizio del suo spirituale ministero dai prelati francesi. Ma era
stato lui che coi suoi consigli avea ridato vita ad ogni cosa quando
tutto era disperato; lui che per primo avea messo mano all'opera senza
mai voltarsi indietro; lui che si era conciliato perfino l'affezione
degli eretici, i quali andavan dicendo: «essere impossibile che un
tant'uomo non fosse predestinato alla vita; e senza dubbio non per altro
fine essere inviato fra loro, che per ammaestrarli sulla vera dottrina»
. Insomma quella forza segreta che spinge ciascun uomo verso il proprio
destino, avea innalzato Diego al di sopra di tutti. Pensò egli adunque
di tornare nella Spagna onde regolare gli affari della sua diocesi,
raccogliere offerte a vantaggio del monastero di Prouille che versava
nel momento in strettezze, e reclutare nuovi operai da condurre in
Francia, affine di stabilire sempre meglio l'impresa già bene avviata.
Fermo in questa risoluzione, riprese a piedi la via per la Spagna.
Giunto a Pamiers, Don Diego s'incontrò con il
Vescovo di Tolosa, con quello di Conserans, e con un gran numero di
Abati di diversi monasteri, i quali saputo della sua partenza, erano
venuti per salutarlo. La presenza loro fu occasione di una celebre
disputa coi Valdesi, predominanti in Pamiers sotto la protezione del
conte di Foix. Il conte invitò alternativamente a mensa i cattolici e
gli eretici, ed offrì loro il suo palazzo per tenervi la conferenza. Ad
arbitro della disputa i cattolici scelsero il più spinto fra i loro
avversari, il quale era ancora uno dei più distinti personaggi della
città. Il successo superò ogni aspettativa. Arnaldo di Campranham,
l'arbitro designato, pronunziò la sentenza in favore dei cattolici ed
abiurò l'eresia; e un altro eretico assai celebre, Durando di Huesca,
non contento di essersi convertito alla vera fede, abbracciò in seguito
la vita religiosa in Catalogna dove si era ritirato, e fu il fondatore
di una nuova congregazione sotto il nome di veri cattolici. Queste due
abiure, e non furono le sole, destarono, gran rumore nella città di
Pamiers, e meritarono ai cattolici dimostrazioni grandi di gioia e di
stima da parte del popolo. Dopo questo trionfo, degna corona di un
laborioso apostolato, Don Diego disse addio a tutti i venuti ad
ossequiarlo avanti la sua partenza dalla Francia. S’ignora se Domenico
l’avesse accompagnato fin là; forse la loro separazione ebbe luogo a
Prouille, e sotto quel tetto prediletto si videro per l'ultima volta.
Negli imperscrutabili giudizi di Dio era scritto, che essi mai più si
sarebbero incontrati su la terra.
Don Diego valicati i Pirenei, e traversata, sempre a
piedi, l'Aragona, rivide finalmente Osma, e si assise sulla sua
cattedra, vedovata per tre anni del suo pastore. Quando già stava
preparandosi a lasciare di bel nuovo la patria, Dio lo chiamò alla città
permanente degli angeli e degli uomini. Fu sepolto in una chiesa della
città vescovile, con questa breve iscrizione: Qui giace Diego di
Azevedo, vescovo di Osma, morto l’anno 1245 . La sua morte tramandata
ai posteri con tanta semplicità, ebbe nondimeno tali conseguenze da far
chiaramente rilevare la scomparsa di un uomo grande. Ne era infatti
giunta appena la voce oltre i Pirenei, che l'opera grandiosa da lui
organizzata subito venne meno. Gli abati e i religiosi di Citeaux
ripresero la via per i loro monasteri; la maggior parte degli spagnuoli
che Don Diego aveva lasciati sotto la presidenza di Domenico, se ne
tornarono nella Spagna; dei tre legati, Rodolfo era morto, Arnaldo si
era appena fatto vivo per un momento, e Pietro di Castelnau era in
Provenza, alla vigilia di cader vittima sotto i colpi di un assassino.
Un uomo solo perseverava, sempre compreso dell'antico pensiero dì
Tolosa e di Montpellier; uomo giovane straniero, senza poteri, rimasto
fino allora in seconda linea, impotente quindi a sostituirsi d'un tratto
ad un Azevedo in cui l'episcopato, l'età, la rinomanza avvaloravano di
gran lunga il genio e la virtù. Il più che poté fare Domenico adunque
fu non soccombere al terribile colpo di tale perdita, e, anche privo
dell'amico, rimanere costante. Otto anni di continue fatiche gli furono
necessari per riparare al vuoto che intorno a lui si era fatto; né ci
fu mai uomo che più penosamente di Domenico si sia spinto verso la meta
prefissa, per raggiungerla poi con una rapidità ancor più
meravigliosa.
Alcuni miracoli resero celebre la tomba di Azevedo.
Nella medesima chiesa dove riposavano le sue spoglie fu in seguito
eretta una cappella a S. Domenico: la pietà de' fedeli li volle
ravvicinati fra loro, col trasportare il corpo dell'uno sotto l'immagine
dell'altro. Ma come se Domenico non potesse permettere che stesse ai
suoi piedi chi sulla terra era stato il suo mediatore, da una mano
riverente fu tolto di là il venerabile capo, tempio una volta del
pensiero dell'amico, e dato al convento dei Frati Predicatori di Malaga.
Nonostante questi onori, la rinomanza in Azevedo non ha uguagliato il
suo merito. La Francia non lo vide che di passaggio; la Spagna lo
conobbe troppo poco; ed ei scomparve senza aver condotto a termine alcun
impresa. Dio non l’avea predestinato che a precursore di un altro uomo
più santo e più straordinario di lui. Arduo compito, per cui
richiedesi un cuore totalmente disinteressato, ed a cui Azevedo
corrispose con quella stessa semplicità che gli facea varcare a piedi i
Pirenei. Egli fu sempre dimentico di se stesso; ma la posterità di S.
Domenico ne serba riverente e grata memoria, come fu grande la sua umiltà;
ed io non posso ora separarmi da lui, se non con, la pietà di un figlio
che testé abbia chiuso gli occhi al suo genitore.
Tutto adunque andò in dispersione per la morte del
Vescovo di Osma, e Domenico si trovò quasi solo sul campo. I due o tre
cooperatori rimasti con lui, avrebbero potuto abbandonarlo da un momento
all’altro, trattenuti com'erano solo dal loro buon volere. Né questa
solitudine fu l'unica sua sventura; ché una terribile guerra venne ad
accrescerne le amarezze e le difficoltà.
Il legato Pietro di Castelnau avea detto più volte
che la religione non sarebbe rifiorita in Linguadoca, prima che il
sangue di un martire avesse irrigato il suolo; e ardentemente pregava
Dio di concedergli la grazia d'esser lui la vittima. I suoi voti furono
esauditi. Dietro premurosi inviti del conte di Tolosa lui poco prima
scomunicato, e che ora diceva volersi riconciliare colla Chiesa, Pietro
e l'abate di Citeaux, spinti da vivissimo desiderio di pace, si erano
recati a Saint-Gilles, per il richiesto abboccamento. Ma il conte non
voleva che burlarsi di loro, e mostrò col fatto di non avere avuto
altro fine nell'invito che di ottenere col terrore la liberazione dalla
scomunica, minacciando la morte ai legati, se avessero ardito partite da
Saint-Gilles prima di averlo assolto. I legati però disprezzando le suo
minacce se ne ripartirono, protetti da una scorta data loro dai
magistrati della città. La notte sostarono sulla riva del Rodano, e la
dimane, accomiatata quella gente che li aveva accompagnati, già si
disponevano a passare il fiume, quando si fecero loro innanzi due
uomini, uno de’ quali immerse la lancia nel petto di Pietro di
Castelnau. Il legato, ferito a morte, disse al suo uccisore: «Che Iddio
ti perdoni come io ti perdono» . E ripetute più volte queste parole,
ed esortati i compagni a servire intrepidamente ed instancabilmente la
Chiesa, esalò l'ultimo respiro. Il suo corpo fu trasportato all'abazia
di Saint-Gilles; l'uccisione avvenne il 15 gennaio 1208.
Quest'omicidio fu il segnale di una guerra, in cui
per quanto Domenico non avesse parte alcuna, pure fu a lui sorgente di
grandi tribolazioni nell'esercizio del suo apostolato; e gli avvenimenti
di tal guerra sono così collegati con quelli della di lui vita, che non
posso fare a meno di tracciarne rapidamente la storia.