VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
CAPITOLO II
Arrivo di S. Domenico in Francia.
Suo primo viaggio a Roma.
Colloquio a Montpellier.
Alfonso VII, re di Castiglia avendo divisato di dare
per sposa al suo figliuolo una principessa di Danimarca, scelse a
trattare l'affare il Vescovo d'Osma; il quale preso con sé Domenico,
verso la fine del 1203 se ne partì a tale scopo pel Settentrione della
Germania. Ambedue, nell'attraversare la Linguadoca, poterono verificare
coi propri occhi i progressi spaventosi degli eretici Albigesi, e
n'ebbero il cuore amaramente contristato. Giunti poi a Tolosa, Domenico
s’accorse che lo stesso loro albergatore era eretico; e per quanto il
tempo fosse ristretto - non dovevano trattenersi che una sola notte -
pure egli non volle che il suo passaggio restasse infruttuoso pel
traviato uomo. Gesù Cristo aveva detto agli Apostoli: «Quando voi
entrerete in una casa sia questo il vostro saluto: Pace a questa casa! E
se la casa n'è degna, la vostra pace discenderà sopra di essa; se poi
non ne è degna, la vostra pace ritornerà a voi» (Mt 10, 12-13). I
Santi, che tutte le parole di Gesù Cristo sentono vive nell'anima, e
conoscono la virtù di una benedizione data anche a chi l'ignori, si
credono come inviati da Dio ad ogni creatura in cui s'imbattono, e
procurano di non lasciarla, se prima non le abbiano deposto nel seno
qualche germe di misericordia. Domenico quindi non fu pago di pregare in
segreto per l'albergatore infedele, Ma passò la notte conversando, con
lui; e l'inaspettata eloquenza del forestiero sì fortemente scosse il
cuore dell'eretico, che prima dell'alba, già era ritornato alla fede. -
A questo tenne dietro un altro prodigio. Poiché Domenico tocco
fortemente e dalla conquista da lui fatta a prò della verità, e dallo
spettacolo straziante delle rovine cagionate dall'errore, concepì
allora per la prima volta l'idea di creare un Ordine tutto consacrato
alla difesa della Chiesa. Per mezzo della predicazione. E tal pensiero
subitaneo talmente s'impadronì del suo spirito, che mai più lo lasciò.
Ond'egli partì dalla Francia col segreto ormai trovato della sua futura
vocazione; quasi che la Francia, gelosa di non aver dato alla luce un
tant'uomo, avesse impetrato da Dio che almeno Domenico non avesse invano
messo piede sul suo suolo, e fosse a lei riserbata l'ispirazione suprema
della di lui vita.
Don Diego e Domenico giunti, non senza gran disagio,
a termine del loro viaggio, trovarono la corte di Danimarca disposta a
stringere gli sponsali desiderati da quella di Castiglia. Quindi
incontanente se ne partirono per darne notizia a re Alfonso, e ritornare
poi con più magnifico apparato a prender la principessa e condurla in
Spagna. Ma essa in questo frattempo morì. Don Diego liberato dalla sua
missione, spedì al re un messaggio; ed in compagnia di Domenico rivolse
i passi verso Roma.
Non v'era cristiano a quei tempi il quale si
rassegnasse a morire senza aver prima appressate le proprie labbra sulla
tomba dei Beati Apostoli Pietro e Paolo. Il poverello stesso muovevasi a
piedi da terre le più lontane per visitare le loro reliquie, e ricevere
almeno una volta in vita la benedizione del Vicario di Gesù Cristo. Don
Diego e Domenico s'inginocchiarono insieme su quella tomba che governa
il mondo; e levando umilmente la fronte dalla polvere, provarono anche
un'altra consolazione, la più grande che possa toccare ad un cristiano
quaggiù, quella di vedere sul trono pontificio un uomo degno di
occuparlo. Questi era Innocenzo III. Quali furono i sentimenti di cui fu
ripiena l'anima loro alla vista della mondiale città, la storia non lo
dice. Chi va a Roma per la prima volta ed ha l'unzione del cristianesimo
insieme alla grazia della giovinezza, questi solo può comprendere
l'emozione che essa è capace di produrre; altri nol potrà giammai. Ed
io amo la sobrietà di quegli antichi storici che tacquero quel che la
parola non vale ad esprimere.
Il Vescovo di Osma avea in mente di chiedere una
grazia al Pontefice; voleva cioè rinunziare all'episcopato per
consacrare tutto il resto della sua vita alla propagazione della fede
in, mezzo ai Cumani, popolo barbaro sui confini dell'Ungheria, e famoso
per la crudeltà dei suoi costumi. Innocenzo III però ricusò di
accondiscendere a questo eroico desiderio; e quantunque Diego facesse
premure, affinché gli fosso almeno concesso, pur conservando il
vescovato di Osma, di potere andare a predicare agli infedeli, il Papa
stette fermo nella negativa e gli comandò di tornarsene alla sua sede.
I due pellegrini adunque nella primavera del 1205
rivalicarono le Alpi coll'intenzione di tornare direttamente nella
Spagna. Cedettero tuttavia al pio desiderio di visitare, passando, uno
dei più celebri monasteri della cristianità; e facendo un largo giro,
si fermarono a bussare alla porta dell'abazia di Citeaux.
Lo spirito di S. Bernardo aleggiava ancora colà. Che
se la povertà non era più quella, pur v'erano, rimembranze assai belle
delle di lui virtù, tanto che il Vescovo d'Osma ne rimase innamorato, e
manifestò ai religiosi il desiderio di ricevere il loro abito illustre.
Gli fu concesso senza difficoltà; e coll'indossare quelle divise
monastiche, poté lenire alquanto il dolore di non esser riuscito a
farsi povero missionario in paesi infedeli. Domenico si trattenne
dall'imitare l'amico, per quanto riportasse da Citeaux grande stima e
viva affezione verso i religiosi di quell'Ordine. Ambedue quindi, dopo
breve soggiorno nell'abazia, ripresero il cammino; e scendendo, com'è
da presumere, lungo le sponde della Saona e del Rodano, raggiunsero i
sobborghi di Montpellier.
Tre uomini che a quei tempi ebbero gran parte negli
affari della Chiesa, si trovavano allora a Montpellier, cioè: Arnaldo,
abate di Citeaux; Rodolfo e Pietro di Castelnau, monaci del medesimo
Ordine. Il papa Innocenzo III li aveva nominati legati apostolici per le
provincie d'Aix, d'Arles, e di Narbona, con piene facoltà di fare
quanto avessero creduto opportuno per la repressione dell'eresia. La
loro legazione però, quantunque datasse da più di un anno, non avea
riportato alcun frutto. Il conte di Tolosa, signore di quelle provincie,
proteggeva apertamente gli eretici; tra i vescovi, chi per viltà, chi
per trascuratezza, taluni anche per essere eretici loro stessi, tutti
insomma si ricusavano d'aiutare i legati; ed il clero era talmente
caduto nel disprezzo dei popoli «che il nome di ecclesiastico - fa
notare Guglielmo di Puy Laurens - era passato in proverbio come quello
di ebreo; e invece di dire: vorrei piuttosto essere un ebreo, che far
questa o quella cosa; dicevasi da molti: vorrei piuttosto essere un
ecclesiastico. E quando i chierici uscivano in pubblico, procuravano a
bella posta d'aggiustarsi i capelli in modo da nascondere la tonsura
resa già piccolissima. Raramente i nobili indirizzavano i loro
figliuoli per la via del chiericato; e per provvedere alle chiese di cui
essi riscotevano le decime, presentavano i figli dei loro dipendenti; i
vescovi poi conferivano gli ordini a chi potevano» - . Innocenzo III
non aveva dissimulato ai suoi legati la gravezza del male; che anzi in
una lettera del 31 maggio 1204, così loro si esprimeva: «Quelli stessi
che S. Pietro avea chiamati a parte delle sue cure per vegliare sul
popolo d'Israele, non vegliano la notte sopra la greggia, ma se la
dormono; e mentre Israele è alle prese con Madian, essi si ritraggono
dalla battaglia. Il pastore degenerò in mercenario; più non pasce il
gregge, ma se medesimo; ha cura del latte e della lana, lascia poi che i
lupi entrino pur nell'ovile; non si oppone affatto quale antemurale ai
nemici della casa del Signore; ma vero mercenario, fugge davanti
all'empietà che potrebbe distruggere, e con tradimento se ne fa
protettore. Quasi tutti hanno abbandonata la causa di Dio; e fra quelli
che le son rimasti fedeli, la maggior, parte le sono inutili» .
I tre legati erano uomini di fede viva e di fermo
carattere; ma, abbandonati da tutti non avean potuto agire né per via
di autorità, né per via di persuasione. Nessun vescovo di quelle
provincie avea voluto unirsi a loro per esortare il conte Raimondo VI a
riandare colla memoria le gloriose gesta de' suoi maggiori. Né più
felice era stato il successo delle conferenze tenute con gli eretici, i
quali sempre rinfacciavano loro l'abominevole vita del clero, facendosi
forti con quelle parole di Gesù: Voi li conoscerete dai loro frutti (Mt
7,16). Quindi nonostante la virile tempra del loro animo, i legati
sconfortati sperimentavano dolorosamente esservi dei pesi impossibili a
sollevarsi dall'uomo, quando colpe accumulate hanno esposto la verità
ad esser vittima delle passioni. Ed era sotto l'incubo di questa
impressione che a Montpellier stavano deliberando sul da farsi. La
comune risoluzione era stata quella d'informare di tutto esattamente il
Pontefice, e nel tempo stesso rimettere nelle sue mani un incarico che
essi non valevano a disimpegnare né con frutto, né con onore. Ma ciò
che è disperato agli occhi degli uomini, non lo è per Iddio. La divina
Provvidenza preparava già da trent'anni una risposta ai lamenti de'
suoi servi ed alle ingiurie de' suoi nemici; e l'ora era sonata perché
questa risposta si desse. Infatti in quell'istante medesimo che i legati
avevano presa così triste determinazione, vennero a sapere che Don
Diego d'Azevedo, vescovo di Osma, era giunto a Montpellier. Subito
fecero pratiche perché li andasse a trovare, e Don Diego accondiscese
al loro invito.
Qui lasceremo parlare il B. Giordano di Sassonia.
«I legati lo accolgono con onore e lo richiedono di
consigli, sapendo bene esser lui un santo uomo, savio, e pieno di zelo
per la fede. Dotato com'era di prudenza e addentro nelle vie del
Signore, comincia egli dall'informarsi degli usi e dei costumi degli
eretici, e trova che questi facevan proseliti per la via della
persuasione, con la predicazione cioè, e con un certo apparato di
santità; mentre i legati erano circondati da grande e sfarzoso
corteggio di servi, di cavalli e di vestimenta. Ond'egli allora: - Non
è questo, fratelli miei, il modo di comportarsi; non è possibile far
rinsavire questi traviati colle parole soltanto, quando essi si fanno
forti coll'esempio. Costoro seducono le anime semplici simulando povertà
ed austerità evangelica; se voi adunque presenterete loro tutt'altro
spettacolo, edificherete poco, e distruggerete molto; né il loro cuore
sarà scosso mai. Combattete l'esempio coll'esempio; ad una finta santità
opponete la vera; per vincere l’ingannevole fasto degli apostoli
bugiardi, non c'è altra via che una provata umiltà. Fu per questo che
Paolo si trovò costretto a mostrare la sua virtù, le austerità, i
continui travagli della sua vita a coloro che si gonfiavano contro di
lui dei loro meriti e delle loro fatiche. I legati risposero: Ottimo
padre, e allora qual consiglio ci dareste? - Di fare, rispose Diego,
quello che farò io. - E pieno dello spirito del Signore, chiama quelli
del suo seguito; ordina loro di tornarsene ad Osma con tutti gli
equipaggi ed i bagagli; con sé non ritiene che un piccol numero di
ecclesiastici, dichiarando di voler rimanere in quelle contrade a difesa
della fede. Tra quelli
fatti rimanere, c'era il sottopriore Domenico, da lui
amato e stimato sommamente; quel Domenico, che fu l'istitutore
dell'Ordine dei Frati Predicatori, e che fin da quel momento non si
chiamò più sottopriore, ma Fra Domenico, uomo del Signore veramente,
per l'innocenza della vita e per lo zelo della legge di Dio. I legati
attratti dal consiglio e dall'esempio di Don Diego, senza indugio
l'imitarono. Rimandarono anch'essi i bagagli ed i servi, non conservando
con sé
altroché i libri necessari per le controversie; e a
piedi, in istato di perfetta povertà volontaria, con a capo il Vescovo
di Osma, se ne andarono a predicare la vera fede» .
Con quale arte e con quanta pazienza aveva Dio
preparato tal soluzione! Sulla riva di un fiume spagnuolo due uomini,
diversi di età, ricevono abbondantemente lo Spirito del Signore, ed a
suo tempo s'incontrano, attirati l'un l'altro dal profumo delle loro
virtù, come due alberi preziosi piantati in una stessa foresta che si
cercano e si piegano a vicenda per toccarsi. Quando poi una lunga
amicizia ha congiunto intimamente la loro vita ed i loro pensieri, un
destino imprevisto li trasporta fuori del paese natale, li fa viaggiare
per l'Europa dai Pirenei al mar Baltico, dal Tevere ai colli della
Borgogna, affinché senza neppure averlo sognato, arrivino in tempo a
dare un consiglio a uomini sconfortati, comeché di grande animo;
consiglio che cambia la faccia delle cose, salva l'onor della Chiesa e
prepara legioni di apostoli per un prossimo avvenire! I nemici della
Chiesa non ne devono aver mai letta attentamente la storia; altrimenti
avrebbero notato l'inesauribile fecondità de' suoi mezzi e l'opportunità
medesima di tanta fecondità. La Chiesa, simile a quel gigante, figlio
della terra, che raccoglieva nuovo vigore dalle sue stesse cadute, tu la
vedi ritornare per mezzo delle sventure alle virtù della sua culla, e,
nella perdita stessa della possanza avuta dal mondo, ricuperare la
naturale sua forza. Il mondo non potrà toglierle se non ciò che le ha
dato: ricchezze, nobiltà di sangue, parte del governo temporale,
privilegi, onori, protezioni: vesti tessute da mani impure, tunica di
Dejanira, che la Chiesa non deve portare sulla sua carne ch'è sacra, ma
tutt'al più sopra il sacco della sua nativa povertà. Se l'oro invece
di essere strumento della carità ed ornamento della verità, altera
l'una e l'altra, è d'uopo che vada perduto; e il inondo, spogliandone
allora la Chiesa, non fa che renderle la veste nuziale donatale dal
divino suo sposo, e che niuno varrà mai a strapparle di dosso. Come
infatti togliere la nudità a chi la vuole? Come rapire il nulla a chi
ne fa suo tesoro? Nella privazione volontaria Dio ha posto la forza
della sua Chiesa, e non v'ha mano d'uomo che possa penetrare in
quest'abisso per impossessarsi di qualche cosa. Onde i persecutori più
accorti non tanto si studiarono di spogliare, quanto di corrompere la
Chiesa; ed è questo l'ultimo gradino di depravazione possibile.
Battendo questa rotta tutto sarebbe perduto, caso mai Dio permettesse
che la corruzione fosse universale. Ma invece la corruzione genera la
vita, e la Coscienza rinasce dalle sue stesse rovine: circolo vizioso di
cui Dio solo ha il segreto e con cui governa il mondo.
Niente v'era di più disperato, delle condizioni
religiose in Linguadoca nel 1205. Il principe, un eretico appassionato;
la maggior parte dei baroni favoreggianti l’eresia; i vescovi senza
cura dei loro doveri, anzi alcuni, come il vescovo di Tolosa e
l'arcivescovo d’Auch, contaminati da pubblici delitti; il clero caduto
in disistima; i cattolici rimasti fedeli pochi di numero; l'errore
insultante con menzognere virtù ai disordini della Chiesa; lo
scoraggiamento infine in coloro stessi che in un cuore casto e forte
serbavano immacolata la fede. Eppure due cristiani passati a caso per di
là, bastano per far cambiare aspetto ad ogni cosa. Rincuorano i legati
della S. Sede, confondono gli eretici con un apostolato povero ed
austero, confermano le anime vacillanti e consolano le salde, scuotono i
vescovi dalla loro indolenza, un gran vescovo salirà allora sulla sede
di Tolosa; e se il successo rimarrà ancora in forse, pur sarà sempre
bastante per far conoscere da qual parte stia la verità, la giustizia,
l'abnegazione e la certezza di una causa divina.