VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
CAPITOLO XVII
Traslazione del corpo di S. Domenico
Canonizzazione del Santo
Per lo spazio di dodici anni trascorsi dalla morte di
Domenico, Dio manifestò luminosamente la santità del suo servo con
gran numero di miracoli avvenuti alla sua tomba o ad invocazione del suo
nome. Giorno e notte si vedevano continuamente malati sopra la pietra
che copriva le sacre reliquie, i quali se ne ripartivano poi sanati,
attribuendo al Santo la grazia della guarigione. Alle pareti circostanti
si appendevano quadri in memoria dei benefizi ricevuti, né il tempo
valse mai a cancellare i segni di una popolare venerazione. Ciò
nonostante una densa nube faceva ombra agli occhi dei frati; e mentre il
popolo glorificava il loro fondatore, essi, i suoi figliuoli, nonché
aver cura di mantenerne sempre viva la memoria, sembravano adoprarsi per
oscurarne lo splendore. Imperocchè non solo lasciavano senza alcun
ornamento il di lui sepolcro, ma per timore di essere accusati di
approfittare a scopo di lucro del culto che gli si prestava, staccavano
dalle pareti quei quadri che i devoti vi appendevano. E se pur vi era
qualcuno a cui ciò dispiacesse, nondimeno non aveva coraggio di
contraddire. Avvenne per giunta che, crescendo sempre più il numero dei
frati, fu necessario abbattere la vecchia chiesa di S. Nicolò per
fabbricarne una nuova: la tomba del S. Patriarca fu lasciata allora allo
scoperto, esposta alle piogge e a tutte le ingiurie delle stagioni.
Finalmente la cosa toccò il cuore di molti frati, i quali deliberarono
fra loro sul modo di trasportare quelle preziose reliquie in un sepolcro
più conveniente; erano però nella persuasione di non poterlo fare
senza l'autorizzazione del Romano Pontefice. «Certo che era in diritto
dei figli, dice il B. Giordano di Sassonia, dar sepoltura al loro padre;
ma permise Iddio che a compiere tal pietoso ufficio essi cercassero il
concorso di un personaggio molto più illustre di loro, appunto perché
la traslazione del glorioso Domenico acquistasse anche il carattere di
canonicità».
I frati adunque prepararono un sepolcro più degno
pel loro padre e mandarono una deputazione al Pontefice per sentire il
da farsi. Sedeva allora sul trono pontificale il vecchio Ugolino Conti,
sotto il nome di Gregorio IX, il quale ricevé i frati molto aspramente,
e li rimproverò di aver trascurato per tanto tempo di rendere l'onore
dovuto al loro patriarca. «Io ho conosciuto quell'uomo apostolico,
aggiunse, e non dubito affatto, che sia partecipe in cielo della gloria
dei santi apostoli». Gregorio avrebbe desiderato di trovarsi in persona
a quella traslazione, ma trattenuto dai doveri del suo ufficio, scrisse
all'arcivescovo di Ravenna di portarsi a Bologna coi suoi suffraganei
per assistere alla cerimonia.
Si arrivò così alla Pentecoste dell'anno 1233. Il
Capitolo generale dell'Ordine era già convocato a Bologna, sotto la
presidenza di Giordano di Sassonia, immediato successore di Domenico nel
generalato. Ossequenti agli ordini del Pontefice, erano colà convenuti
anche l'Arcivescovo di Ravenna ed i vescovi di Bologna, di Brescia, di
Modena e di Tournay. I frati, accorsi da ogni parte, erano più di
trecento; gli alberghi rigurgitavano di signori e nobili personaggi
delle città vicine; immensa l'aspettazione del popolo. «Ma intanto,
dice il B. Giordano di Sassonia, i Frati sono in preda all'angoscia:
pregano, impallidiscono, tremano pel timore che il corpo di S. Domenico,
esposto per tanto tempo alle intemperie di una vile sepoltura, apparisca
corroso dai vermi ed esali cattivo odore, diminuendo cosi il concetto
della di lui santità». Angustiati da questo pensiero, stavano
divisando di aprire segretamente la tomba del Santo; ma Dio non lo
permise. Il Potestà di Bologna, sia che glie ne fosse nato sospetto,
sia che volesse certificarsi meglio sull'autenticità delle reliquie,
fece custodire da cavalieri armati notte e giorno il sepolcro. Tuttavia
per fare con più libertà la ricognizione del corpo, e per evitare in
quel primo momento la confusione di un popolo immenso, come era allora
in, Bologna, fu stabilito che l'apertura della tomba si facesse di
notte. Il martedì di Pentecoste adunque, 24 di maggio, avanti l'aurora,
l'Arcivescovo di Ravenna e gli altri Vescovi, il Generale dell'Ordine
coi Deffinitori del Capitolo, il Potestà di Bologna, i principali
signori e cittadini, così di Bologna come delle città vicine, al
chiarore di fiaccole si radunarono intorno all'umile pietra che da
dodici anni copriva i mortali avanzi di S. Domenico. Alla presenza di
tutti, fra Stefano, priore provinciale di Lombardia, e fra Rodolfo si
misero coll'aiuto di altri frati a levare il cemento che fissava al
suolo la pietra. Si era indurito assai, e non cedé che a forza di
grimaldello. Ciò fatto, e rese visibili le pareti esterne della tomba,
fra Rodolfo con un martello ruppe un po',uno spigolo, e per mezzo di
leve si poté così sollevare, sebbene con fatica, la pietra superiore
del monumento. Non ancora si era potuta alzare del tutto, che un profumo
celestiale cominciò a spandersi dal sepolcro semiaperto; profumo mai
sentito, impossibile ad immaginare.
L'arcivescovo, i vescovi, tutti quanti insomma erano
presenti, pieni di stupore e di gioia caddero in ginocchio piangendo e
lodando il Signore. Tolta la pietra, apparve infondo alla tomba la cassa
di legno che racchiudeva le reliquie del Santo. Nella tavola superiore
c'era una piccola fessura, ed era per essa che esalava abbondantemente
quell'odore, che aveva inebriato tutti gli astanti, e che si fece ancor
più fragrante quando la cassa fu tratta fuori della fossa. Tutti si
chinarono per vedere la preziosa custodia, e i baci e le lacrime vi
caddero sopra in abbondanza. Finalmente, estratti i chiodi, fu aperta
dal di sopra la cassa, e comparvero agli occhi di tutti i frati e degli
amici le reliquie del Santo. Non vi si ritrovarono che ossa, ma ossa
piene di gloria e di vita pel celeste profumo, che da loro emanava. Dio
solo sa qual gioia inondò allora il cuore di tutti, e nessun pennello
potrebbe ritrarre quella notte profumata, quel silenzio emozionante,
quei vescovi, quei cavalieri, quei frati, tutti quei visi brillanti di
lacrime e piegati sopra una cassa a cercarvi, al chiarore di ceri, il
grande e santo uomo che dal trono di Dio certamente li rimirava, e
rispondeva alla loro pietà con quegli invisibili amplessi, che temprano
la gioia, quando è troppo forte nell'anima. I vescovi noli stimarono le
loro mani abbastanza filiali da toccare le ossa del Santo; ne lasciarono
quindi la consola-, zione e l'onore ai figli di Lui. Giordano di
Sassonia' si chinò con rispettosa devozione su quelle sacre reliquie e
le trasferì in una nuova cassa fatta di larice; legno, come dice
Plinio, che resiste all'azione del tempo. La cassa fu chiusa con tre
chiavi, una delle quali fu consegnata al Potestà di Bologna, un'altra a
Giordano di Sassonia, e la terza al Priore Provinciale di Lombardia; fu
quindi trasportata nella cappella dove si stava innalzando il monumento
destinato a custodire il, sacro deposito. Il monumento era di marmo, ma
senza alcuna scultura.
Fattosi giorno, i vescovi, il clero, i frati, i
magistrati, i signori si recarono nuovamente alla chiesa di S. Nicolò,
già rigurgitante di popolo immenso e di gente d'ogni nazione.
L'arcivescovo di Ravenna cantò la Messa, che era in quel giorno la
Messa del martedì di Pentecoste, e per felice combinazione le prime
parole del coro furono: accipite jucunditatem gloriae vestrae,
rallegratevi della vostra gloria. La cassa stava aperta e spandeva per
la chiesa soavissimo odore, che i profumi dell'incenso non valevano per
nulla a coprire. Al canto del clero e dei religiosi univasi ad
intervalli il suono delle trombe; una moltitudine infinita di fiaccole
brillava nelle mani del popolo. Non ci fu cuore, per quanto duro, che
non si aprisse alla dolce ebbrezza di quel trionfo di santità. Finita
la cerimonia e chiusa la cassa, i vescovi la riposero sotto il marmo,
affinché là, in pace ed in gloria, aspettasse il segnale della
resurrezione. Ma otto giorni dopo, per le pressanti preghiere di molte
rispettabili persone che non avevano potuto assistere alla traslazione,
fu riaperto il monumento. Giordano di Sassonia prese in mano il
venerabile capo del S. Patriarca e lo mostrò a più di trecento frati,
i quali ebbero così la consolazione di appressarvi le loro labbra,
rimaste per lungo tempo profumate da quell'ineffabile bacio. Perocché
quanto avesse toccato le ossa del Santo rimaneva impregnato del profumo
che da esse emanava. «Anche noi abbiamo sentito, dice il B. Giordano di
Sassonia, questo prezioso odore; onde di ciò che abbiamo veduto e
sentito rendiamo testimonianza. Non potevamo saziarci dall'aprire i
nostri sensi alla dolce impressione che ne causava quel profumo, per
quanto fossimo rimasti lungo tempo'presso il corpo di S. Domenico. Non
cagionava fastidio; eccitava anzi il cuore alla pietà, ed operava
miracoli. Toccavi quel corpo con la ma-no, con una cintura, con qualche
altra cosa? Subito s'imbeveva di quell'odore».
Teodoro d'Apolda fa notare a tal proposito, che anche
avanti la morte, Dio aveva privilegiato il Santo di questo segno
esteriore della purità dell'anima. Un giorno mentre a Bologna celebrava
la messa in occasione di una festa solenne, giunto che fu
all'offertorio, si accostò a lui uno studente e gli baciò la mano.
Quel giovane era dominato da una forte incontinenza, di cui forse
cercava la guarigione; baciando la mano di S. Domenico sentì tale
profumo, che gli rivelò in un tratto l'onore e la gioia. dei cuori
puri, e da quel momento, coll'aiuto di Dio, fu sempre superiore alla
corruzione delle sue inclinazioni.
Gli strepitosi miracoli che accompagnarono la
traslazione del corpo di S. Domenico, indussero Gregorio IX a non
ritardarne più a lungo la canonizzazione. Con lettera adunque degli 11
di Luglio 1233 dette commissione a tre insigni ecclesiastici, Tancredi,
arcidiacono di Bologna, Tommaso, Priore di S. Maria del Reno, Palmieri,
canonico di S. Trinità, di procedere ad un'inchiesta sulla di lui vita.
Dal 6 al 30 di Agosto l'inchiesta fu ultimata. I commissari apostolici
ascoltarono, previo giuramento, la deposizione di nove Frati, scelti fra
quelli che avevano avuto relazioni più intime con S. Domenico; questi
furono Ventura di Verona, Guglielmo di Monferrato, Amizon di Milano,
Bonvisi di Piacenza, Giovanni di Navarra, Rodolfo di Faenza, Stefano di
Spagna, Paolo di Venezia e Frugero di Penna. Tutti questi testimoni però,
ad eccezione di Giovanni di Navarra, non avevano conosciuto Domenico nei
primi tempi del suo apostolato: onde i commissari della S. Sede
credettero necessario fare una seconda inchiesta nella Linguadoca, e
delegarono a questo effetto l'abate di S. Saturnino di Tolosa,
l'arcidiacono della medesima chiesa, e quello di S. Stefano. Costoro
ascoltarono ventisei testimoni, e più di trecento rispettabilissime
persone sottoscrissero con giuramento alle deposizioni fatte dai
ventisei intorno alle virtù di S. Domenico ed al miracoli operati per
sua intercessione. Non conosciamo la data precisa di quest'atto, ma fu
certo verso la fine del 1233 o al principio del 1234.
Le deposizioni di Bologna e di Tolosa furono
esaminate a Roma dallo stesso Gregorio IX e dal S. Collegio; ed un
autore contemporaneo ci fa sapere che il Pontefice parlando, in
quell'occasione, di S. Domenico, disse: «Son certo della sua santità,
come son certo di quella dei SS. Apostoli Pietro e Paolo». La Bolla di
canonizzazione che tenne dietro a questi processi, è del seguente
tenore: «Gregorio, vescovo, servo dei servi di Dio, ai venerabili
fratelli arcivescovi e vescovi, ed ai cari figli abati, priori,
arcidiaconi, arcipreti, decani, proposti ed altri prelati delle chiese,
ai quali perverranno queste lettere, salute ed apostolica benedizione.
«La sorgente della Sapienza, il Verbo del Padre, la
cui natura è bontà, la cui opera è misericordia, che riscatta e
rigenera quelli ch'egli ha creato, e veglia fino alla consumazione dei
secoli sulla vigna che ha tratto fuori dall'Egitto, Gesù Cristo Signor
nostro, in vista dell'instabilità degli spiriti, sapientemente fa
apparir nuovi segni e fa miracoli di nuovo genere contro la diffidenza
dell'incredulità. Dopo la morte di Mosè, vale a dire dopo l'abolizione
della legge egli, adempiendo le promesse fatto ai nostri padri, monta
sulla quadriga dell'Evangelo, con in mano l'arco della parola santa,
tenuto teso durante tutto il regno giudaico. Si avanza in mezzo alle
onde del mare, cioè in mezzo alle innumerevoli nazioni, la cui salute
era figurata in Rahab, calpesta la baldanza di Gerico, cioè la gloria
del mondo, e con stupore dei popoli, subito trionfa al primo fremito
della predicazione. Il profeta Zaccaria (Zac 6) vide questo carro a
quattro cavalli uscir fuori quattro volte da due montagne di bronzo. La
prima volta era tirato da cavalli rossi: in essi erano figurati i
maestri delle nazioni, i forti della terra, coloro che, sottomessi per
la fede al Dio d'Abramo, padre dei credenti, ad esempio del loro duce e
per assicurar meglio i fondamenti della fede, tinsero i loro abiti in
rosso, vale a dire nelle acque delle tribolazioni, ed imporporarono del
loro sangue tutti gli emblemi della loro milizia, sprezzatori della
spada temporale, in vista della futura gloria; e che divenuti martiri,
cioè testimoni, sottoscrissero colla loro professione di fede il libro
della nuova legge; consacrarono col sangue d'ostie ragionevoli,
sostituito al sangue d'animali, il libro ed il tabernacolo, opera non
dell'uomo, ma di Dio e tutti i vasi del ministero evangelico,
aggiungendo alla loro confessione il peso dei miracoli; e gettando
finalmente la rete della predicazione sulla vasta estensione dei mari,
formarono di tutte le nazioni che sono sotto il cielo, la Chiesa di Dio.
Ma poiché la moltitudine ingenerò la presunzione, ed alla libertà
tenne dietro la licenza, il secondo carro fu visto tirato da cavalli di
color nero, colore di lutto e di penitenza: in questi era raffigurata
quella squadra condotta dallo spirito nel deserto, sotto la direzione
del santissimo Benedetto, altro Eliseo del nuovo Israele; squadra che
ristabilì tra i figli dei profeti la vita comune, riannodò il filo
rotto dell'unità, ed estendendosi colle buone opere fino a quella terra
dell'Aquilone, donde procede ogni mal e, fece abitare in cuori contriti
Colui che non può stare in corpi sottoposti al peccato. Dopo di che,
quasi a rinfrescare le affaticate schiere e far succedere la gioia ai
lamenti, ecco il terzo carro con cavalli bianchi, cioè coi figli degli
Ordini di Citeaux e di Flore i quali, simili a pecore ben pasciute,
pieni del latte della carità, uscirono dal bagno della penitenza con a
capo S. Bernardo, quell'ariete rivestito dall'alto dello spirito del
Signore, che li condusse nell'abbondanza delle convalli, acciocché i
passeggeri liberati da loro, cantassero inni, e fissassero sul flutti
gli accampamenti del'Dio della guerra. Mentre adunque il nuovo Israele
con questi tre eserciti si difendeva contro un egual numero di eserciti
di Filistei, sull'undecima ora, quando il giorno già piegava a sera,
cioè quando la carità si era raffreddata per l'iniquità, ed il sole
di giustizia stava anch'egli per tramontare, il padre di famiglia ha
voluto chiamare sotto le armi una milizia ancora più adatta a
proteggere la vigna piantata di sua mano, e coltivata sempre da operai
da lui mandati in diversi tempi; la quale invece era ora .non solamente
ingombra di rovi e di spine, ma pressoché distrutta da una moltitudine
ostile di piccole volpi. Ecco perché, come ora vediamo, dopo i primi
tre carri, diversi nei loro simboli, sotto la figura del quarto carro
tirato da cavalli forti e di svariato colore, Dio ha suscitato le
legioni dei Frati Predicatori e del Frati Minori, coi loro due!
prescelti pel combattimento. Uno di questi duci fu S. Domenico, uomo a
cui Dio comunicò la forza e l'ardore della fede, ed al collo del quale
attaccò, come a cavallo di sua gloria, il carro della divina
predicazione. Fanciullo egli ebbe cuore da vecchio; nella mortificazione
della carne ricercò l'autore della vita. Consacratosi a Dio sotto la
regola del B. Agostino, imitò Samuele nell'assiduo servizio del tempio,
e fu un altro Daniele nel fervore delle sue religiose aspirazioni.
Coraggioso atleta, camminò pei sentieri della giustizia e per le vie
della santità; non cessò mai dal far la guardia al tabernacolo e
dall'esercitare gli uffici della chiesa militante; tenne la carne
sommessa alla volontà, i sensi alla ragione, e addivenuto un solo
spirito con Dio, si studiò di trasformarsi tutto in lui negli ardori
della contemplazione, senza che nel suo cuore e nelle sue opere venisse
meno l'amore del prossimo. E feriva così a morte le concupiscenze della
carne, e sfolgorava con raggi così abbaglianti l'intelletto cieco degli
empi, che ogni setta di eretici tremò, e ne esultò la Chiesa dei
fedeli. La grazia crebbe in lui con l'età, e pieno di zelo per la
salute delle anime, si consacrò tutto alla predicazione della parola di
Dio, inducendo molti altri ancora al ministero evangelico, tanto da
meritarsi anche sulla terra nome e realtà di grande. Divenuto pastore e
principe in mezzo al popolo di Dio, riuscì coi suoi' meriti ad
istituire un nuovo Ordine di Predicatori, lo regolò coi suoi esempi, e
non cessò di stabilirlo e confermarlo sempre più con autentici ed
evidenti miracoli. Imperocchè fra gli altri segni che nel corso della
sua vita mortale manifestarono la sua possanza e santità, ebbe il
potere di rendere la parola ai muti, la vista ai ciechi, l'udito al
sordi, le gambe ai paralitici, la salute ad una moltitudine di infermi;
onde a con siffatti prodigi si fa chiaramente manifesto qual fosse lo
spirito che animava la polvere di quel santissimo corpo. Noi adunque,
che trattammo familiarmente con lui i quando occupavamo nella Chiesa un
grado inferiore e che nel tenore di vita ch'egli menava avemmo insigni
prove della sua santità, ora che testimoni degni di fede ci hanno
comprovato la verità dei suoi miracoli, noi, con l'ovile dei fedeli che
al .Signore è piaciuto di affidare alle nostre cure, crediamo che
Domenico potrà giovarci, per grazia di Dio, colla sua intercessione, e
dopo averci consolati in terra della sua dolce amicizia, ci vorrà ora
aiutare dal cielo col suo valevole patrocinio. Laonde, dietro il
consiglio e l'assenso dei nostri fratelli e prelati assistenti alla sede
apostolica, abbiamo deliberato di registrare il suo nome nell'albo dei
Santi. Adunque fermamente decretiamo, e colla presente Bolla ordiniamo a
tutti voi di celebrare e di far celebrare solennemente la sua Festa alle
none di Agosto, giorno precedente a quello in cui egli depose il carico
della sua carne e ricco di meriti entrò nella città dei Santi, affinché
Dio, ch'egli tanto onorò in vita, conceda anche a noi, mosso dalle di
lui preci, la grazia nel presente secolo e la gloria nel futuro. Volendo
poi che il sepolcro di questo gran confessore, che illustra la Chiesa
con straordinari miracoli, sia degnamente frequentato e venerato, a
tutti i fedeli che confessati e comunicati il giorno della Festa del
Santo visiteranno con devozione e riverenza il suo sepolcro, concediamo
la remissione di un anno di penitenza, confidando per questo nella
misericordia dell'Onnipotente Iddio e nell'autorità dei Beati Apostoli
Pietro e Paolo. Dato a Rieti, il giorno 11 di Luglio, anno ottavo del
nostro Pontificato».
Gregorio IX fu l'ultimo, eccettuatone S. Giacinto, a
sopravvivere fra tutti i grandi uomini, amici di S. Domenico, che
avevano contribuito al compimento dei di lui disegni. Egli morì il 21
Agosto 1241, in età di novantasette anni; trenta dei quali fu cardinale
e quattordici Papa, senza che mai la maestà degli anni o lo splendore
delle dignità sorpassassero in lui i meriti personali. Giureconsulto,
uomo di lettere, diplomatico, a tutti questi doni di corpo e di spirito,
aggiungeva un animo veramente magnanimo, dove poterono trovar posto
anche S. Domenico e S. Francesco, ambedue da esso canonizzati. Forse mai
più ci sarà dato di vedere intorno ad un sol uomo, quale fu S.
Domenico, tanti altri uomini della tempra di un Azevedo, di un Montfort,.
di un Folco, di un Reginaldo, di un Giordano di Sassonia, di un S.
Giacinto, di un Innocenzo III, di un Onorio III, di un Gregorio IX; né
tante virtù e nazioni ed avvenimenti si vedranno concorrere ad opera si
grande, in tempo cotanto limitato.
In seguito alla Bolla di canonizzazione il culto di
san Domenico presto si diffuse per l'Europa, ed in moltissimi luoghi gli
furono eretti altari. Bologna però si distinse sempre nel suo zelo
verso il grande, concittadino donatole dalla morte. Nel 1267 si trasferì
nuovamente il corpo di lui dalla tomba senza sculture in cui riposava,
in una tomba più ricca e più adorna. Questa seconda traslazione fu
fatta dall’Arcivescovo di Ravenna, alla presenza di molti altri
Vescovi, del Capitolo generale dei Frati Predicatori, del potestà e
degli anziani di Bologna. Fu aperta la cassa, e dall’alto di una
tribuna innalzata fuori della chiesa di S. Niccolò, fu mostrato a tutto
il Popolo il capo del Santo, fatto prima baciare al vescovi ed ai frati.
Nel 1383 fu riaperta la cassa per la terza volta, e toltone il capo del
Santo, fu riposto in un reliquiario di argento, affinché i fedeli
potessero più facilmente venerare il prezioso deposito. Finalmente il
16 Luglio 1473 fu rinnovato il monumento con nuovi marmi e bellissime
sculture, opera di Niccolò Pisano, secondo lo stile del cinquecento,
rappresentanti diversi fatti della vita di S. Domenico. Io non starò
qui a descriverle; le vidi due volte, e tutte e due le volte
osservandole genuflesso, sentii, fra la pace di quella tomba, che una
mano divina doveva aver guidato quella dell'artista, forzando il gelido
marmo ad esprimere sensibilmente l'incomparabile bontà di quel cuore di
cui ricopre la polvere. Dal 1473 il glorioso sepolcro non è stato più
toccato, e sono ormai trascorsi quattro secoli senza che occhio umano
abbia più vedute quelle sacre ossa e neppure la cassa che le racchiude:
il mondo non è stato più degno di tale spettacolo. Domenico è stato
vinto, in quanto può essere vinto chi per trecento anni è rimasto
invitto sul campo di battaglia. Come gli uomini tutti e le grandi opere
del medio evo, anch'egli ha dovuto soffrire l'ingratitudine di una
ingannata posterità, ed aspettare tranquillamente nel suo muto e
sigillato sepolcro, la giustizia di una nuova comparsa, che non è in
potere degli uomini negare per sempre a coloro che li hanno serviti. Già
molti fra i contemporanei del Santo hanno veduto rialzate dalla storia
le loro statue. Io non credo di aver fatto altrettanto; ma il tempo
impugnerà la penna dopo di me; ed io senza tema, né gelosia, lascio a
lui la cura di dar l'ultima mano.