VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
CAPITOLO XIV
Quinto viaggio di S. Domenico a Roma
Morte del B. Reginaldo
Il B. Giordano di Sassonia entra nell’Ordine
L’anno 1219, Domenico, scendendo nel colmo
dell'estate la rapia china delle Alpi, rivedeva per l'ultima volta la
fertile e vasta pianura della Lombardia, destinata a possederlo in uno
dei momenti più solenni della sua vita. La Vecchia Castiglia lo aveva
nutrito nell’infanzia e nella giovinezza; la Linguadoca se lo era
goduto nel più bel periodo della virilità; a Roma, come al suo centro,
l'aveva sempre portato l'ardore della sua fede; la Lombardia ne doveva
essere la tomba. S'ignora per quale strada vi entrasse; gli storici
primitivi, senza tracciarne l'itinerario, ad un tratto ce lo fanno
trovare a Bologna. Con immensa gioia fu ricevuto da tutti i frati del
Convento di San Niccolò, retto allora dal B. Reginaldo; ed il primo suo
atto fu la rinunzia dei possedimenti. Oderico Galliani, cittadino di
Bologna, aveva di recente donato ai Frati, con tutte le formalità
legali, alcune sue terre di un valore considerevole. Domenico stracciò
alla presenza del vescovo il contratto, e dichiarò esser sua volontà
che i religiosi giorno per giorno mendicassero il pane, senza accumular
mai ricchezze e possessioni. Nessuna virtù di fatti egli avea più cara
della povertà. Una sola e rozza tonaca era la sua veste d'ogni
stagione, senza vergognarsi di presentarsi, così umilmente vestito,
dinanzi ai più grandi signori. Voleva quindi che anche i suoi frati lo
imitassero; che abitassero in case modeste, e che neppure all'altare
usassero seta o porpora, vasi d'oro o d'argento, tranne il calice. Con
uguale spirito di parsimonia e di penitenza regolava la tavola: due
pietanze ai frati, una sola per sé. Rodolfo di Faenza, procuratore del
convento di Bologna, raccontava che avendo egli qualche volta fatto
miglior trattamento ai religiosi mentre vi si trovava Domenico, il Santo
l'aveva chiamato e gli aveva detto all'orecchio: «Ma voi uccidete i
frati colle vostre pietanze!».
Quando nel Convento di S. Niccolò veniva a mancare
il pane o il vino, cosa che di tanto in tanto accadeva, fra Rodolfo
andava allora a trovar Domenico, il Santo gli dava ordine di andare con
lui in chiesa a pregare; e la Provvidenza disponeva le cose in modo che
sempre era dato di rimediare al desinare. Un giorno di digiuno tutta; la
comunità stava già a refettorio, quando il fratello Bonvisi si accostò
a Domenico per dirgli che non c'era nulla da mangiare. Il Santo pieno di
contentezza, levò gli occhi e le mani al cielo, e rese grazie a Dio
d'essere così povero. Ben tosto però due giovani sconosciuti entrarono
in refettorio, uno con pani, l’altro con fichi secchi, e ne fecero
distribuzione ai religiosi. Un'altra volta non essendoci in convento che
due soli pani, Domenico ordinò che fossero divisi in piccoli pezzi;
quindi benedisse il paniere, e disse al fratello, che serviva alla
mensa, di fare il giro delle tavole distribuendone due o tre pezzetti a
ciascuno. Fatto il primo giro, comandò il Santo che se ne facesse un
secondo e più ancora, finché tutti fossero sazi. Ordinariamente i
frati non bevevano che acqua; solo pei malati procuravasi un po' di
vino. Un giorno l'infermiere andò da Domenico a lamentarsi di non
trovar punto vino pel malati, e gli mostrò il vaso vuoto. Il servo di
Dio si, mise allora, secondo il suo solito, a pregare, esortando per
umiltà ancora gli altri a fare lo stesso; e quando l'infermiere riprese
il vaso dei vino, lo trovò pieno.
Gli storici poco ci han detto dell’esultanza dei
frati di Bologna all'arrivo di Domenico fra loro; ma si può argomentar
facilmente l'effetto della di lui comparsa in mezzo ad uomini che, pur
senza conoscerlo, si eran fatti suoi figli. Ora vedevano coi proprii
occhi quello spagnolo, che per mezzo di un francese li aveva convertiti
a Dio, e che, risuscitando le meraviglie dei primitivi tempi della
Chiesa, aveva raccolto da tutte le parti della cristianità una società
di apostoli. Lo vedevano! e le virtù, i miracoli, la parola, il
sembiante di lui presentavano tale spettacolo, che la loro fantasia mai
avrebbe immaginato. Nel breve tempo che Domenico stette fra loro, la
santa e già numerosa famiglia si accrebbe ancora, causa l'ascendente
ch'egli aveva, così dentro come fuori del monastero. Udiamo, fra le
altre cose, in qual modo singolare avvenne la vestizione di Stefano di
Spagna: «Mentre io studiava a Bologna, è Stefano stesso che racconta,
arrivò maestro Domenico e cominciò a predicare agli studenti, come
pure agli altri. Andai a confessarmi da lui, e mi parve riconoscere in
lui un grande amore per me. Una sera mentre ero all'albergo, già seduto
a cena coi miei compagni, giunsero due frati e mi
dissero: - Fra Domenico vuol vedervi, e desidera che veniate senza,
indugio. - Risposi che sarei andato subito dopo la cena. Ma essi: - No,
no; vi vuole sull'istante. - Allora mi alzai, e lasciato tutto, giunsi
con loro a S. Niccolò, dove trovai Maestro Domenico in mezzo a una
moltitudine di frati, ai quali egli disse: - Insegnategli come si fa la
prostrazione. - E quando me l'ebbero insegnato, io mi prostrai con tutta
docilità, ed egli mi rivestì senz'altro dell'abito dei Frati
Predicatori, dicendomi: - Eccovi le armi colle quali voi sconfiggerete
il demonio per tutta la vostra vita. - Restai allora meravigliato assai,
né ripenso senza stupore all'istinto pel quale Domenico così in fretta
mi fece chiamare e mi donò l'abito di Frate Predicatore. Imperocchè
non avendomi egli mai parlato di entrare in religione, senza dubbio fu
mossa, in far ciò, da ispirazione e rivelazione divina».
Come prima avea fatto a Parigi, così a Bologna
Domenico attuò il suo piano di mandar frati nelle principali città
dell'alta Italia per predicarvi e fondarvi conventi. Era irremovibile
dalla massima prediletta: Bisogna seminare il grano e non ammucchiarlo;
e Milano e Firenze accolsero alla loro volta colonie di Frati
Predicatori. Inoltre parve opportuno a Domenico che fra Reginaldo
lasciasse Bologna per recarsi a Parigi. Si riprometteva assai dalla
eloquenza e dalla rinomanza di lui per dare l'ultima mano allo
stabilimento dell'Ordine in Francia. I frati di Bologna videro con amaro
rincrescimento allontanarsi da loro Reginaldo e piansero per essere così
presto staccati dalle mammelle della mamma, come si esprime il B.
Giordano di Sassonia, il quale però soggiunge subito: «ma tutte queste
cose avvenivano per volontà di Dio. C'era un non so che di meraviglioso
nella maniera con cui il beato servo di Dio, Domenico, inviava qua e là
i suoi frati per tutte le parti della cristianità, malgrado che qualche
volta altri facesse delle rimostranze; né lieve ombra di esitazione
indebolì mai la sua fiducia. Si diceva ch'egli sapeva già del buon
esito per rivelazione dello Spirito Santo. In verità, chi oserebbe
dubitarne? Non aveva seco da principio che pochi frati, semplici,
illetterati la maggior parte, eppure avea osato spargerli a piccoli
drappelli per tutta la Chiesa; di guisa che non mancarono le accuse da
parte dei figlioli del secolo, i quali giudicano sempre secondo la loro
prudenza, di voler distruggere il già fatto, anzi che innalzare un
grandioso edifizio. Ma Domenico accompagnava i suoi figli colle sue
preghiere, e la virtù del Signore pensava a moltiplicarli».
Anche Domenico verso la fine del mese di Ottobre partì
da Bologna. Valicò l'Appennino dirigendosi verso Firenze, e sostò per
qualche tempo sulle rive dell’Arno, là, dove in seguito sarebbero
sorti i due celebri conventi di S. Maria Novella e di S. Marco. I Frati
uffiziavano allora una piccola chiesa, accanto alla quale abitava una
donna chiamata Bena, conosciuta per le sregolatezze della vita, e che il
Signore, per giusto castigo, lasciava esposta agli assalti dello spirito
maligno. All'udir le prediche di Domenico ella si convertì, e le
preghiere del Santo la liberarono dai demoni che la tormentavano. Ma la
pace riacquistata fu per lei occasione di ricaduta; e un anno appresso
essa stessa confessò a Domenico, il quale di nuovo si trovava a
Firenze, qual cattivo uso avesse fatto della liberazione ottenuta.
Domenico la richiese allora se desiderasse ritornare al primitivo stato;
e dietro risposta che si rimetteva in tutto a Dio ed a lui, il Santo
pregò il Signore di fare il meglio per la salute di cotal femmina.
Trascorsi alcuni giorni, lo spirito maligno nuovamente la invase, e tal
castigo dei suoi antichi falli fu per lei principio di meriti e di
perfezione. Bena prese in seguito il velo monacale col nome di Suor
Benedetta. Di lei ancora si legge che, essendo Domenico tornato a
Firenze, mosse a lui vive lagnanze perché un ecclesiastico la
molestava, causa l'ossequio ch'essa aveva per i Frati. Ed il motivo era
perché quel prete non poteva soffrire che fosse stata concessa a loro
la chiesa., di cui egli era Cappellano. Ma Domenico rispose a Suor
Benedetta: « Abbiate pazienza, o figlia. Costui che vi molesta, sarà
presto uno dei nostri, e si sobbarcherà nell'Ordine a grandi e lunghe
fatiche».
Domenico, trovò a Viterbo il Sommo Pontefice Onorio
III, dal quale, in data del 15 novembre 1219, ottenne lettere di
raccomandazione pei vescovi e prelati della Spagna; raccomandazioni che,
agli 8 di dicembre furono estese agli arcivescovi, vescovi, abati e
prelati di tutta la cristianità. Il 17 poi del medesimo mese il Papa da
Civitacastellana fece donazione a Domenico ed ai suoi frati del convento
di S. Sisto, posto al di là del monte Celio, tenuto fino a quel giorno
dall'Ordine in virtù di una semplice cessione orale. Nell'atto non si
fa affatto menzione delle monache di S. Sisto; e ciò, senza dubbio,
perché formavano coi Frati un solo e medesimo Ordine, temporalmente e
spiritualmente governato dal Maestro Generale.
Non era questa la prima volta che il santo Patriarca
vedeva Viterbo. Già tre anni prima, di ritorno in Francia dopo la
conferma dell'Ordine, vi era stato col cardinale Capocci, da cui aveva
ricevuto in dono una cappella e un monastero sotto il titolo di S.
Croce, posti sopra un'altura, vicina alla città, ed anche una chiesa,
che si veniva costruendo lì accanto. Il cardinale si era indotto a fare
erigere tale chiesa in onore della SS. Vergine, per un sogno avuto; e
l'amicizia grande che avea con Domenico, lo spinse a donarla a lui anche
prima che fosse ultimata, pel timore che il tempo tradisse la sua buona
volontà. Difatti non poté godere la, soddisfazione di vederla
compiuta; ma prima di morire ne assicurò all'Ordine il possesso, e
sotto il titolo di S. Maria di Gradi divenne uno dei più celebri
conventi della provincia Romana. Dell'antica cappella di S. Croce
rimangono tuttora alcuni ruderi; ivi Domenico passò intere notti, e
fino al secolo scorso ne furono ornamento le tracce del suo, sangue.
Il capo d'anno del 1220 Domenico lo passò a Roma.
Dalla frase di uno storico si rileva avere egli in tal circostanza
distribuito alle monache di S. Sisto dei cucchiai di ebano, da lui
stesso portati dalla Spagna. Santa semplicità di un tant'uomol In mezzo
agli affari, di un lungo viaggio, il gentile pensiero di fare un dono a
povere monache, gli aveva fatto portare sulle proprie spalle, per tutto
un cammino di sei o settecento leghe, quel ricordo del suo paese! Sulle
proprie spalle, perché Domenico non avrebbe mai permesso che altri si
caricasse del suo bagaglio.
Frattanto Reginaldo giunto a Parigi, vi annunziava il
Vangelo con tutta l'autorità della sua eloquenza e della sua fede. Dopo
Domenico era egli l'astro più fulgido della nuova religione. Tutti i
frati tenevano gli occhi su di lui; e senza prevedere la morte troppo
imminente del loro fondatore, si compiacevano nel pensiero che, ad ogni
caso, non sarebbe stato lui il solo capace di sostenere la sua opera. Ma
Iddio mostrò ben presto la vanità di questi sentimenti di amore e di
ammirazione. Reginaldo, nel momento, appunto che ispirava di sé la più
grande aspettazione cadde gravemente malato. Matteo di Francia, Priore
di S. Giacomo, gli fece allora capire che l'ultima battaglia era vicina,
e lo richiese se avesse desiderio di ricevere l'estrema unzione. «Io
non temo il combattimento, rispose Reginaldo, l'aspetto anzi con gioia;
ed aspetto ancora la Madre di Misericordia, che mi unse a Roma di sua
propria mano, nella quale io confido assai. Ma perché non sembri che
disprezzi l'unzione della Chiesa, ho piacere di riceverla e ve la
domando». I frati, almeno la maggior parte, non sapevano nulla del modo
misterioso con cui Reginaldo era stato chiamato alla religione, avendo
egli pregato Domenico di non parlarne finch'ei vivesse. Ma nel punto
solenne della morte, tornandogli in mente tanto insigne favore, non poté
trattenersi dal farvi allusione; ed un sentimento di riconoscenza svelò
così un segreto, fino allora dall'umiltà tenuto nascosto. Anche
un'altra volta egli aveva detto a Matteo di Francia parole allusive,
conservateci dalla storia; quando cioè a Matteo, il quale si
meravigliava di veder Reginaldo entrato in un Ordine così austero,
sapendo invece quanto delicatamente prima avesse vissuto ed in qual
rinomanza l'avea conosciuto fin da quando era nel secolo Reginaldo
rispose: «Non c'è nessun merito da parte mia; anche troppo me ne sono
sempre compiaciuto». Reginaldo cessò di vivere sulla fine di gennaio
del 1220; il giorno preciso non lo sappiamo. I frati lo trasportarono
nella chiesa di Notre-Dame-des-Champs, vicino a S. Giacomo, dove avevano
il diritto di sepoltura. Dal monumento in cui quelle reliquie furon
deposte operarono vari miracoli, e per ben quattrocento anni furono
onorato di un culto, di cui pareva dovesse eternarsene la tradizione. Ma
nel 1614 la chiesa di NotreDame-des-Champs fu data alle Carmelitane
della riforma di S. Teresa; e col trasferire ch'esse fecero nell'interno
del monastero il corpo di Reginaldo, la sua memoria, malgrado
l'ereditaria tradizione, cessò a poco a poco di essere popolare, e
divenne, come la sua tomba, il secreto di coloro soltanto che conoscono
ed abitano in ispirito l'antichità. Presentemente neppure il monumento
esiste più; disparve insieme colla chiesa e col monastero di
Notre-Dame-des-Champs. Così il fondatore del convento di Bologna, colui
che i frati appellavano il loro bastone, che era stato chiamato
all'Ordine dalla Vergine medesima, che da Lei era stato miracolosamente
unto e risanato, che aveva dato la forma ultima e sacra all'abito
domenicano, il B. Reginaldo non ebbe più nessun culto neppure
nell'Ordine dei Frati Predicatori, di cui fu uno dei più belli
ornamenti per la santità della vita, per la potenza della parola, e per
il grande numero di figli che ad esso generò. Tanta fecondità in lui
non venne meno che alla morte; infatti alla vigilia stessa della sua
ultima e breve malattia emetteva ancora dal suo ceppo rigogliosi
rampolli.
Il lettore si ricorderà di quello studente sassone
conosciuto da Domenico a Parigi, e di cui volle ancora provare la
vocazione, tuttochè manifesta. A cogliere questo fiore prezioso, che la
mano di Domenico, quasi trattenuta da un delicato presentimento, avea
rispettato onde onorare e consolare la fine prematura di uno de' suoi
figli più illustri, era stato predestinato Reginaldo. Ed ecco come
Giordano di Sassonia racconta il suo ingresso nell'Ordine e quello del
suo amico, Enrico di Colonia: «La notte medesima in cui l'anima del
santo uomo Reginaldo se ne volò al cielo, io, non ancora frate di
abito, ma che già avea fatto nelle sue mani voto di esserlo, vidi in
sogno i frati su di una nave. Ad un tratto la nave si affondò, ma i
frati erano salvi dal naufragio. Penso che quella nave fosse Reginaldo,
considerato dai frati come il loro bastone. Un altro vide sognando una
limpida fonte che improvvisamente cessò di gettare acqua, ma che fu
sorrogata da altre due sorgenti zampillanti fuori. Io credo che anche
questa visione si riferisse a qualche cosa di reale; ma conosco troppo
la sterilità del mio spirito per osare di darne l'interpretazione.
Questo so che nelle mani di Reginaldo non furon fatte a Parigi che due
professioni, la mia e quella di fra Enrico, che fu poi Priore di
Colonia: uomo ch’io amava di tale affetto, che non ho sentito per
altri mai; vaso di onore e di perfezione, anima insomma così bella, che
io non ricordo di averne conosciuta l'eguale. Il Signore si affrettò a
chiamarlo a sé; è per questo che non sarà vano dir qualche cosa delle
sue virtù.
«Enrico, di nobili natali, era stato nominato, ancor
giovanissimo, canonico di Utrecht. Un canonico di quella chiesa, persona
rispettabile e molto religiosa, l'avea educato fin dai più teneri anni
nel timore di Dio. Gli aveva insegnato coll'esempio a vincere il mondo,
crocifiggendo la carne e facendo opere buone; voleva che lavasse i piedi
ai poverelli, che frequentasse la chiesa, fuggisse il male, avesse in
dispregio il lusso, amasse la castità. Ed il giovane, di buonissima
indole, piegavasi docile al giogo della virtù; di guisa che i buoni
costumi crebbero in lui presto come gli anni, ed a vederlo l'avresti
preso per un angiolo: tanto e virtù e natura sembravano in lui una
medesima cosa. Andò poi a Parigi; e lo studio della teologia, a
preferenza di ogni altra scienza, non tardò ad innamorarlo, dotato come
egli era d'ingegno vivissimo e di mente perfettamente ordinata.
C'incontrammo nel medesimo albergo, e ben presto dall'esser commensali
di corpo, nacque una dolce e stretta amicizia, fra le nostre anime. In
quel tempo si trovava a Parigi anche fra Reginaldo, di felice memoria, e
vi predicava con tanto ardore che io, mosso dalla grazia del Signore,
feci voto dentro di me d'entrare nel suo Ordine: sembrandomi d'aver
ritrovata là quella via sicura di salvezza, quale appunto, prima di
conoscere i Frati, me l'ero sovente rappresentata. Presa tale
risoluzione, cominciai a desiderare che anche il compagno e l'amico
dell'anima mia facesse lo stesso voto, riscontrando in lui tutte quelle
disposizioni di natura e di grazia richieste in un frate Predicatore.
Egli a ricusarsi, ed io a stringerlo con nuove istanze, finché ottenni
che andasse a confessarsi da fra Reginaldo. Al suo ritorno aprimmo il
profeta Isaia come per trovarvi qualche consiglio, e ci cadde
sott'occhio questo passo: Il Signore mi ha dato lingua erudita, affinché
io sappia sostenere con la parola colui che cade; e la mattina mi
sveglia, affinché alla sua voce io porga attento le orecchie. Il
Signore Dio mi ha fatto ascoltar la sua voce, ed io non mi tiro
indietro, né contradico(Is 50, 4-5). Mentre che io gli interpretava
queste parole, così bene rispondenti alle disposizioni del suo cuore e
che eran per lui come un avviso del cielo, esortandolo a sottomettere la
sua gioventù al giogo dell'obbedienza, notammo più sotto queste due
altre parole: «stiamo insieme, che ci avvertivano di non separarci l'un
dall'altro, e di consacrare la nostra vita al medesimo ideale. Fu
alludendo a ciò che, trovandosi egli in Germania ed io in Italia, mi
scrisse un giorno: Dov'è ora quello stiamo insieme? Voi a Bologna ed io
a Colonia! Io dunque gli diceva: - Qual merito più grande vi può
essere, qual più gloriosa corona che di partecipare della povertà del
Cristo e de' suoi apostoli, e dell'avere abbandonato il secolo per amor
suo? - Ma per quanto tali ragioni gli sembrassero convincenti, pur la
volontà rimaneva sempre ostinata a resistere.
«La notte stessa in cui tenevamo questi discorsi,
egli andò ad assistere al Mattutino nella chiesa della B. Vergine, e si
trattenne fino all'alba a pregare la gran Madre di Dio di voler piegare
in lui quello, che ancora vi era di ribelle. E non sentendo per nulla
addolcita dalla preghiera la durezza del suo cuore, uscì in queste
parole: - Ora sì che conosco, o Vergine benedetta, che non c'è
misericordia per me, e che per me non c'è posto nella famiglia dei
poveri di Cristo. - Ciò disse con grande rincrescimento, pel desiderio
ardente che aveva di abbracciare la povertà volontaria, avendogli il
Signore una volta fatto conoscere quanto essa valesse nel giorno del
giudizio. La cosa avvenne così: Ei vide in sogno G. Cristo sopra il suo
tribunale, e due innumerabili schiere di persone, una delle quali era
giudicata, e l'altra giudicava insieme con Gesù. Mentre che egli,
sicuro in coscienza, contemplava tranquillamente un tale spettacolo, uno
di coloro che stavano accanto al giudice, stese ad un tratto la mano
verso di lui e gli gridò: - O tu, che sei laggiù in basso, che hai tu
mai lasciato per il Signore? - Si trovò confuso, non sapendo che
rispondere; e perciò desiderava assai la povertà, quantunque gli
mancasse il coraggio di abbracciarla. Onde uscì di chiesa tutto
costernato di non avere ottenuta tutta quella forza che avea domandata.
Ma Colui che dall'alto ha cura degli umili, scosse finalmente dalle
fondamenta il suo cuore, rivi di lacrime sgorgarono in abbondanza dai
suoi occhi, la sua anima si aprì con grande espansione al Signore.
Tutta la durezza che l'opprimeva era stata vinta, e il giogo di G.
Cristo, prima così ripugnante alla sua immaginazione, gli apparve, com'è
veramente, il più soave e leggero. Pieno di entusiasmo si levò tosto,
corse da fra Reginaldo, nelle sue mani emise i voti, poi venne da me; e
mentre io considerava nel suo angelico volto le tracce delle lacrime,
richiestolo dove fosse stato, così mi rispose: - Ho fatto un voto al
Signore e l'adempirò. - Ciò nonostante differimmo ambedue a prender
l'abito fino a quaresima; nel frattempo acquistammo un altro compagno,
che fu fra Leone, successore di fra Enrico nella carica di Priore.
«Giunto il giorno in cui la Chiesa col misterioso
rito delle ceneri ricorda ai fedeli che ritorneranno in quella polvere,
donde trassero origine, ci preparammo ambedue ad adempire i nostri voti.
Gli altri compagni non sapevano niente delle risoluzioni di Enrico, ed
uno di loro, vistolo sortir di casa gli disse: - Enrico, e dove vai? - A
Betania, egli rispose; e l'allusione cadeva appunto sulla parola
ebraica, che significa casa di ubbidienza. Ci recammo adunque tutti e
tre a S. Giacomo, ed entrammo appunto nel momento in cui i frati
cantavano: immutemur habitu. Essi non aspettavano una tal visita, ma
tuttochè inaspettata, giunse sempre gradita; e noi ci spogliammo del
vecchio uomo per rivestirci del nuovo, mentre i frati andavano cantando
a parole quella cosa stessa che noi facevamo».
Reginaldo non assisté alla vestizione di Giordano di
Sassonia e di Enrico di Colonia: prima ancora di aver consumato
quest'ultima opera, se n'era ritornato a Dio; simile all'aloe, che
fiorendo muore e mai non vede i suoi frutti.