VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
CAPITOLO XIII
Viaggio di S. Domenico in Spagna ed in Francia.
Sue veglie nella grotta di Segovia
Modo di viaggiare e sistema di vita del Santo
Dopo un anno di fatiche, fondati finalmente i
conventi di S. Sisto e di S. Sabina, Domenico rivolse il pensiero ai
suoi primi figlioli inviati in lontane regioni; e fu preso dal desiderio
di rivederli, per animarli sempre più, e ringraziare con essi il
Signore così dei mali come dei beni che loro aveva mandati. Partì
adunque da Roma nell'autunno del 1218, in compagnia di alcuni religiosi
del suo Ordine e di un Frate Minore, chiamato Alberto, che si unì a
loro nel viaggio. Arrivati non so in qual parte della Lombardia, si
fermarono in un albergo, e si misero a tavola insieme agli altri
viaggiatori, che ivi si trovavano. Fu portata della carne, ma Domenico
ed i suoi non ne mangiarono. L'ostessa al vedere che questi si
contentavano del solo pane e di un po' di vino, s'indispettì contro il
Santo e lo ricolmò di ingiurie. Invano, Domenico con grande pazienza e
con buone procurò di calmarla; né lui, né gli altri commensali
valsero a frenare in nessun modo quel torrente di maledizioni. Alla fine
il Santo con tutta dolcezza le disse: «Figlia mia, affinché impariate
a ricevere con più carità i servi di Dio, non fosse altro per rispetto
al gran Signore a cui essi servono, io pregherò Gesù Cristo che
v'imponga silenzio». Appena dette queste parole, l'ostessa addivenne
muta. Otto mesi dopo, tornando Domenico dalla Spagna e ripassando per il
medesimo luogo, rivide l'ostessa, la quale gettatasi, piangendo
dirottamente, ai suoi piedi, lo scongiurò dì perdonarle. Egli le fece
il segno della croce sulla bocca, e subito le ritornò la loquela. Fra
Alberto, il quale ci ha raccontato questo fatto, narra ancora come
essendo stata lacerata da un cane la tonaca di Domenico, questi ne
ricongiunse le parti con la mota, e riparò così lo strappo.
Valicate le Alpi, Domenico si trovò a ripassare per
le vie della Linguadoca a lui sì note; tutto però in quelle contrade
era cambiato. Egli non poté avere neppure la consolazione di pregare
sulla tomba del conte di Montfort, suo magnifico amico; poiché le di
lui spoglie mortali erano state trasportate all'Abbazia di Fontevraud,
lungi da quella terra della quale egli era stato duca e conte, non
valendo più la sua spada, venuta meno con lui, a proteggerne colà
neppure la tomba. Domenico quindi, dato in fretta un bacio a S. Romano
di Tolosa e a Notre-Dame di Prouille, affrettò il passo verso la sua
patria, da cui mancava da quindici anni. Ne era partito semplice
canonico di Osma; ora vi ritorna apostolo, taumaturgo, fondatore di un
Ordine, legislatore, patriarca, martello delle eresie del suo tempo, uno
dei più strenui difensori della Chiesa e della verità. Queste glorie
erano il solo equipaggio, queste il solo bagaglio di Domenico; e chi lo
avesse incontrato nelle gole dei Pirenei coll'occhio rivolto alla
Spagna, l'avrebbe scambiato con un mendicante qualunque, che da paesi
stranieri andasse a rifugiarsi sotto il bel solo d'Iberia. Verso qual
parte diresse egli dapprima i suoi passi? Forse verso la valle del Duero?
O forse era atteso nel palazzo, da cui la morte avea cacciato il padre e
la madre sua? Si recò forse a Gumiel d'Izan a pregare sulla loro tomba,
o ad Osma su quella di Azevedo? L’Abbazia di S. Domenico di Silos lo
vide forse su quel pavimento, dove la sua madre era stata consolata da
enimmatici presagi? La storia tace su tutto ciò; d’altronde non era
necessario raccontare quello che il cuore del Santo da se stesso ci
avrebbe fatto conoscere. Egli avea imparato da Gesù Cristo a nobilitare
tutti i naturali sentimenti, senza distruggerne alcuno; ed il primo
luogo in cui con certezza lo ritroviamo in Spagna, è prova della
tenerezza sempre nutrita pel suo paese natale, La storia difatti lo
rimette in vista a Segovia, città vicina ad Osma e fra le prime della
Castiglia, ricoverato nella casa di una povera donna, la quale ben
presto ebbe a rallegrarsi del gran tesoro, che aveva accolto presso di sé.
Fin dal tempo che dimorava nella Linguadoca Domenico era stato solito
portare sul suo corpo un ruvido cilizio di lana o di crine. Essendo
adunque a Segovia presso la detta donna, si levò la camicia di lana che
aveva, per prenderne un’altra di tessuto più ruvido. La buona donna
se ne accorse, e per sentimento di venerazione, chiuse in un forziere la
camicia, che il Santo si era levata. Dopo qualche tempo, mentre essa era
fuori di casa, la camera prese fuoco e tutti i mobili furono distrutti;
solo il forziere che conteneva le migliori sue robe e la reliquia,
rimase intatto.
Un altro miracolo eccitò la pubblica riconoscenza
degli abitanti di Segovia verso Domenico. Si era già alle feste di
Natale del 1218, ed un'ostinata siccità aveva sempre impedito di poter
seminare. Tutto il popolo, adunato fuori della città, innalzava comuni
preci al Signore per implorare la fine di tale flagello. Domenico,
levatosi di mezzo alla folla, rivolse al popolo buone parole, che però
non valsero a dissipare la generale inquietezza, e finalmente esclamò:
«Ma via, cessate, o fratelli miei, da questi vostri timori, e confidate
nella misericordia del Signore; oggi stesso cadrà pioggia abbondante,
che muterà in gioia la vostra tristezza» . Il cielo infatti, che non
dava indizio alcuno di pioggia cominciò a poco a poco ad oscurarsi, le
nuvole si addensarono, finché una forte pioggia interruppe il discorso
del Santo, e sciolse la folla. I cittadini di Segovia consacrarono la
memoria di questo miracolo con una cappella eretta nel luogo stesso dove
il fatto avvenne.
Un'altra volta Domenico intervenne ad un consiglio
dei primati della città; e dopo che furono lette le lettere del re, così
egli prese a dire: «Voi avete inteso, fratelli miei, quale sia la
volontà del re terreno e mortale; ascoltate ora i comandamenti del re
immortale e celeste». Un signore, inteso questo, si alzò e disse
infuriato: «Che forse questo parolaio avrebbe intenzione di tenerci qui
tutto il giorno, e d'impedirci perfino di pranzare?» E bardato il
cavallo, se ne andò. Il servo di Dio soggiunse: «Voi ora ve ne andate;
ma non terminerà l'anno, e in questo luogo medesimo dove ora siete, il
vostro cavallo resterà senza cavaliere; e per campare dai vostri
nemici, indarno cercherete rifugio nella torre, che avete edificato nel
vostro palazzo». La profezia si avverò appuntino; avanti che l'anno
terminasse quel signore fu ucciso insieme ad un suo parente, nel luogo
stesso ove Domenico gli aveva rivolta la parola.
Segovia è posta fra due colline divise da un fiume.
Sulla collina di tramontana, fuori delle mura della città, Domenico
avea scoperta una rustica grotta, molto adatta per darsi alla
contemplazione e farvi penitenza. Là vicino gettò le fondamenta di un
convento, al quale diede il nome di S. Croce; e mentre il convento si
veniva costruendo secondo la consueta semplice architettura, che al
Santo piaceva tanto, egli fece della vicina grotta i suo oratorio
notturno passandovi buona parte della notte in preghiere e in ogni sorta
di spirituali esercizi.
Il giorno era tutto per gli altri, per la
predicazione, pei viaggi, per gli affari; ma giunta l'ora che il sole,
scomparendo dall'orizzonte, dispone tutto a riposo, anch’egli si
ritirava dal mondo in cerca di quel conforto di cui la sua anima ed il
suo corpo sentivano tanto bisogno. Dopo Compieta Domenico restava sempre
in coro; non permetteva però che alcuno lo imitasse,
sia per non imporre un peso superiore alle loro
forze, sia per un santo timore che si venissero a scoprire i suoi
segreti commerci col Signore. Ma l'altrui curiosità più d'una volta la
vinse sulle sue precauzioni. Alcuni frati, per osservare le sue veglie,
nascondevansi; ed è così che noi abbiamo potuto conoscerne i più
toccanti particolari. Quando adunque credevasi solo, protetto nel suoi
slanci amorosi dal silenzio e dalle ombre della notte, entrava con Dio
in espansioni ineffabili. Il tempio, simbolo della città eterna degli
angeli e dei Santi, diventava per lui come un essere vivo, che egli
inteneriva colle sue lacrime, coi suoi gemiti, colle sue grida. Ne
faceva il giro, fermandosi a pregare ad ogni altare, ora profondamente
inchinato, ora in ginocchio, ora prostrato. Ordinariamente cominciava
dal riverire Gesù Cristo con un'inclinazione profonda, come se
l'altare, simbolo e memoria del di lui sacrifizio, fosse lo stesso Gesù.
Poi prostravasi colla faccia per terra, e ripeteva a voce spiccata
queste parole del Vangelo: Signore, abbiate pietà dì me peccatore; e
queste altre di David: l'anima mia è umiliata fino a terra; datemi voi
la vita, secondo la vostra promessa; ed altre simili. Alzatosi,
riguardava fissamente il crocifisso, e faceva un certo numero di
genuflessioni, sempre guardando la croce e pregando. A quando a quando
la muta contemplazione veniva interrotta da questa esclamazione:
Signore, io grido a voi; deh! non volgetevi dall'altra parte, non vi
nascondete a me; o da altre simili, prese dalla Scrittura. Alle volte
genufletteva per molto tempo; la sua parola non avea più forza di
salire dal cuore fino alle labbra; pareva che egli col suo spirito
penetrasse i cieli; rasciugavasi le lacrime che gli scorrevano sulle
guance; il suo cuore ora anelante, come quello del viaggiatore vicino
alla patria. Qualche altra volta stava ritto in piedi, con le mani
aperte avanti a sé a mo` di libro, sicché pareva che leggesse
attentamente, o alzate fino alle spalle, come uomo che ascolta, o posate
sugli occhi per raccogliersi in meditazioni più profonde. Vedevasi
anche ritto sulla punta de' piedi, colla faccia rivolta al cielo, con le
mani prima giunte al di sopra della testa a guisa di freccia, e poi
disgiunte in atteggiamento di supplicante, e poi ricongiunte ancora,
come fosso stato esaudito; e mentre si trovava in tale stato, in cui non
pareva più cittadino della terra, era solito esclamare: Signore,
esauditemi, mentre vi prego, mentre innalzo le mie mani verso la vostra
santa abitazione. Avea ancora un altro modo di pregare, che però
praticava raramente, quando cioè voleva ottenere da Dio qualche grazia
straordinaria, ed era quello di star ritto, con le braccia distese in
croce, ad imitazione di Gesù Cristo morente ed invocante il Padre con
quelle onnipotenti parole, che salvarono il mondo. Con tono grave e
distinto Domenico allora ripeteva: Signore, ho gridato, ho tese le mie
mani a voi tutto il giorno, a voi ho tese le mie mani: e la mia anima vi
sta dinanzi siccome arida terra. Deh! esauditemi prontamente. Di questo
modo di preghiera si servì quando richiamò a vita il giovane
Napoleone; ma quelli che erano presenti non intesero le parole da lui
pronunziate, né ardirono mai domandargliele.
Oltre i bisogni e gli avvenimenti giornalieri, che
ispiravano a Domenico queste speciali preghiere, egli teneva sempre
presente, allo spirito la causa della Chiesa, e pregava per la
dilatazione della fede nel cuore dei cristiani, per i popoli ancora
schiavi dell’errore, per le anime penanti del purgatorio. «Tanto era
il suo amore per le anime, riferisce un testimone nel processo di
canonizzazione, che non solamente si estendeva a tutti i fedeli, ma
anche agl'infedeli e per fino a quelli che soffrono nell'inferno, pei
quali versava lacrime in abbondanza» . E le lacrime non gli bastavano.
Tre volte per notte vi mescolava ancora il suo sangue, per soddisfare
così, quanto era da lui, quella sete ardente del sacrifizio, che è la
parte generosa dell'amore. Si flagellava le spalle con catenelle
annodate; e la grotta di Segovia, testimone di tutti questi eccessi di
penitenza, conservò per più secoli tracce del sangue di lui. In cuor
suo divideva quel sangue in tre parti: la prima in isconto de' suoi
peccati; la seconda pei peccati dei vivi; e la terza per quelli dei
morti. Più d'una volta costrinse qualche fratello a flagellarlo,
affinché più grande fosse l'umiliazione e il dolore del suo sacrifizio.
Verrà giorno in cui al cospetto del cielo e della terra gli angeli del
Signore porteranno sopra l’altare del giudizio due coppe piene; una
mano giustissima le peserà, ed a gloria eterna dei Santi sì farà
manifesto, che ogni goccia di sangue versato dall’amore ne risparmiò
dei fiumi.
Dopo aver lungamente vegliato, pregato, pianto,
offerto insomma tutto se stesso in olocausto, se la campana del
Mattutino non gli annunziava ancora la levata de' suoi frati, Domenico
saliva a visitarli, quasi per troppo tempo ne fosse stato lontano. Piano
piano entrava nelle loro celle, faceva sopra, di essi il segno della
santa croce, e se durante il sonno qualcuno s’era un po' scoperto, lo
ricopriva; quindi tornava, in coro ad aspettarli. Qualche volta durante
questi pietosi misteri della notte, lo sorprendeva il sonno; allora, o
si appoggiava ad un altare, o si distendeva sul pavimento. Suonata l'ora
del Mattutino, andava cogli altri frati, e salmeggiava con tutta
l'anima, giulivamente. Dopo l'Ufficio, ritiravasi a dormire in qualche
angolo della casa, perocchè egli non avea cella propria come gli altri
frati; e, vestito co m'era, si adagiava nel primo canto che gli
capitasse, sopra un banco, sulla paglia, sulla nuda terra, e alle volte
sulla bara stessa dei morti. Dormiva così poco, che spesso si
addormentava a tavola durante il pasto.
Domenico, da Segovia dove lasciò priore Fra
Corbalano, passò a Madrid. Anche là trovò un convento in costruzione,
per opera forse di Pietro di Madrid, uno di quelli che al tempo della
dispersione dei frati, Domenico aveva inviati nella Spagna. Ma
trovandosi l'edifizio fuori delle mura della città, Domenico ne cambiò
destinazione; ed in luogo dei frati ci stabilì le suore, dedicando il
monastero a S. Domenico di Silos. Col tempo il nome di Silos cadde in
dimenticanza, e per una trasformazione inavvertita, di cui tutti e
nessuno furono complici, il convento restò dedicato al suo fondatore.
E’ degno di nota come il santo Patriarca nella Spagna, come in Francia
ed in Italia, mettesse lo stesso zelo nel fondare monasteri di religiose
e conventi di frati, tenendo sempre presente che Notre-Dame di Prouille
era stata la primizia del suo istituto. E delle sollecite cure per le
suore di Madrid, abbiamo un documento' storico in una lettera, che egli
scrisse loro dopo la fondazione del monastero, così concepita: «Fra
Domenico, maestro dei
Predicatori, alla madre Priora, e a tutte le
religiose del monastero di Madrid, saluto ed avanzamento di vita per la
grazia di Dio, Signor nostro. Ci rallegriamo assai e rendiamo grazie a
Dio pel vostro profitto spirituale e per avervi egli liberate dal fango
di questo mondo. Combattete, o figlie, il vostro antico avversario con
la preghiera e coi digiuni; imperocchè quegli solamente sarà coronato,
che da prode avrà saputo combattere. Fino al presente non, avevate casa
corrispondente a tutte l'esigenze delle regole della religione; ma ora
non ci sarebbe più scusa di sorta, perché, grazie a Dio, godete di
abitazione perfettamente adatta pei vostri religiosi doveri. Voglio
adunque che da qui innanzi il silenzio sia osservato in tutti i luoghi
indicati dalle costituzioni dell'Ordine, vale a dire, nel coro, nel
refettorio, nei corridoi; e che in tutto e dappertutto viviate secondo
le, regole. Nessuna d i voi esca fuori del monastero, né alcuno vi
entri, ad eccezione del vescovo o di qualche altro prelato, il quale
venga per causa di predicazione o di visita canonica. Non omettete le
discipline e le vigilie; siate obbedienti alla vostra superiora; non
perdete il tempo in conversazioni inutili. E perché, non potendo noi
sovvenire ai vostri bisogni temporali, non vogliamo neppure aggravarli,
proibiamo a qualsiasi frate di ricever novizie a carico vostro; ciò
apparterrà solamente alla Priora col consiglio del monastero. Diamo poi
autorità al carissimo nostro fratello Mannes, che tanto si è adoperato
per voi, fino a farvi raggiungere il santo stato in cui vi trovate, di
disporre, regolare e ordinare le cose in quel modo che gli sembrerà più
opportuno, sicché voi viviate santamente e religiosamente. Egli vi
visiti, vi corregga, e possa anche deporre la priora, qualora lo trovi
necessario; sempre però col consenso della maggior parte delle
religiose. Rimettiamo inoltre alla di lui prudenza il concedervi le
opportune dispense. Addio in Cristo» .
Molti altri conventi di Spagna si attribuiscono
l'onore di essere stati fondati o almeno cominciati da Domenico; gli
storici primitivi però tacciono su ciò; ed anche noi ci asterremo dal
riferire tali pretese, non troppo conformi al breve soggiorno del Santo
nella Spagna. Ricorderemo solo Palenza, dove Domenico passò dieci anni
della sua giovinezza, e dove par certo che istituisse una confraternita
del Rosario e vi fondasse un convento sotto il nome di S. Paolo.
Rifacendo il cammino verso la Francia, a Guadalascara,
non lontano da Madrid, Domenico fu abbandonato da tutti i frati che
aveva seco, eccettuato fra Adamo e due conversi, che gli restarono
fedeli. Egli allora, rivoltosi ad uno di questi gli domandò, se anche
lui volesse lasciarlo. «A Dio non piaccia, rispose il frate, che io
lasci il capo per seguire i piedi» . Di tale abbandono Domenico era già
stato avvisato in una visione. Senza turbarsi si mise allora a pregare
per le pecorelle smarrite, e finì per aver la consolazione di vederle
quasi tutte ritornate all'ovile. Forse fu a loro riguardo che Domenico,
trovandosi a mensa nelle, vicinanze di Tolosa, e non essendovi che una
tazza di vino, per otto persone, miracolosamente lo accrebbe, «per
compassione, dicono gli storici, di alcuni frati, che nel secolo erano
stati delicatamente nutriti».
Domenico ritrovò a Tolosa Bertrando di Garriga, uno
de' suoi più antichi discepoli. Insieme s'incamminarono per Parigi, e
lungo la strada visitarono Roc-Amadour, antico santuario della SS.
Vergine, e celebre meta di pellegrinaggi posto in una ripida e selvaggia
solitudine di Querey.- «Consacrata una notte a tal devozione, il giorno
seguente, cammin facendo, furono raggiunti da pellegrini alemanni, i
quali, avendoli intesi recitare devotamente salmi e litanie, s'unirono a
loro. Al primo villaggio che incontrarono, questi nuovi compagni
invitarono i nostri a pranzare insieme; e cosi fu per quattro giorni. Il
quinto giorno il beato Domenico disse, sospirando, a Bertrando di
Garriga: - Fra Bertrando, mi pesa sulla coscienza vedere che noi
mietiamo delle cose temporali da questi pellegrini, senza che seminiamo
in loro niente di spirituale. Perciò, se vi piace, mettiamoci in
ginocchio, e domandiamo a Dio la grazia d'intendere e di parlare la loro
lingua, affinché possiamo predicare loro il Signor nostro Gesù Cristo.
Così fecero, e con grande stupore dei pellegrini cominciarono a parlare
in tedesca. Per quattro giorni
che furono ancora, insieme ragionarono sempre di Gesù;
finché, giunti ad Orléans, dopo essersi accomiatati e raccomandati
scambievolmente alle particolari orazioni di ciascuno, i pellegrini
presero la via di Chartres, e Domenico e Bertrando quella di Parigi. Il
giorno seguente il beato Padre disse a Bertrando: «Eccoci, o fratello,
ormai giunti a Parigi; se i nostri fratelli, venissero a sapere del
miracolo che il Signore ha fatto, ci riterrebbero come santi, mentre non
siamo che peccatori; se poi la cosa giungesse fino alle orecchie del
pubblico, l'umiltà nostra si troverebbe a gran cimento: per questo vi
proibisco di parlarne a qualsiasi prima della mia morte».
Entrati in Parigi dalla porta d'Orléans, il primo
tra i fabbricati che attrasse lo sguardo di Domenico, fu il convento di
S. Giacomo, già abitato da trenta religiosi. Quantunque il santo
Patriarca vi si fermasse solo pochi giorni, pure ebbe tempo di dar
l'abito al giovane Guglielmo di Monferrato, da lui conosciuto a Roma
nella casa del cardinale Ugolino, e che gli avea promesso di farsi frate
predicatore, appena ultimato il corso di due anni di teologia
all'Università di Parigi. Fu allora ch'egli sciolse il voto. Un altro
felice incontro per Domenico avvenne nella persona d'un baccelliere
sassone, chiamato Giordano; giovane d'ingegno, eloquente, amabile, vero
servo di Dio, nato nella diocesi di Paderborn dalla nobile famiglia dei
conti di Ebernstein, si era recato a Parigi per dissetarsi alle sorgenti
della scienza divina; e mosso da Dio, che l'avea predestinato a primo
successore di Domenico nel governo supremo dei Frati Predicatori, si
sentì come attratto verso il grande uomo, di cui sarebbe rimasto
l'erede, e gli rivelò le vive impressioni del Cristo sul suo cuore.
Avvicinarsi a Domenico e restarne avvinti era tutt'uno; ma questa volta
egli non volle affrettare i movimenti dell'anima eletta che gli si era
presentata, e si limitò a consigliare al giovane sassone di
assoggettarsi al giogo di Dio col prender l'ordine del diaconato,
lasciandolo ancora esposto alle diverse influenze celesti, in attesa
della mano che, giunto a maturità, l'avrebbe colto.
Non v'ha cosa che dimostri cosi bene quanta arditezza
e forza d'animo fosse in Domenico, come l'azione da lui esercitata
durante la sua breve dimora nel Convento di S. Giacomo. Dopo quasi un
anno di assiduo lavoro praticato da eminenti personaggi, i religiosi
avevano raggiunto il numero di trenta; e tutta la premura di questa
comunità nascente era di crescere ancora di forze e di numero, quando,
giunto Domenico e gettato uno sguardo su quel piccolo drappello di
francesi, lo trova già bastante a popolare la Francia di Frati
Predicatori. Dietro suo ordine, Pietro Cellani parte per Limoges,
Filippo per Reims, Guerrico per Metz, Guglielmo per Poitiers, alcuni
altri per Orléans, tutti colla missione di predicare nelle suddette
città e fondarvi conventi. A Pietro Cellani, che oppone la sua
ignoranza e la mancanza di libri, Domenico con intrepida fiducia in Dio
risponde: « Va pure e non aver paura, o mio figlio; due volte al giorno
mi ricorderò di te presso il Signore. Non dubitare, tu farai acquisto
di molte anime e riporterai gran frutto, che crescerà e si moltiplicherà
poiché il Signore sarà con te» .- Pietro Cellani raccontò più tardi
ai suoi più intimi, che in tutte le sue tribolazioni interne ed
esterne, sempre si era ricordato della promessa fattagli; e che
raccomandandosi a Dio ed a Domenico, gli era riuscito sempre bene tutto.
Domenico partì da Parigi uscendo per la porta di Borgogna. A Chátillon-sur-Sein
richiamò a vita il nipote di un ecclesiastico da cui era stato
alloggiato. Il fanciullo era caduto dall'ultimo piano della casa, ed era
stato trovato morto. Lo zio fece un gran pranzo in onore del Santo; ma
Domenico, vedendo che la madre del bambino, presa dalla febbre, non
mangiava, benedisse un'anguilla e glie la offrì, dicendole di mangiarne
in: virtù di Dio; quel rimedio subito la sanò.
«Dopo questi avvenimenti, il glorioso Padre, in
compagnia di un fratello converso, di nome Giovanni, ritornò in Italia.
Mentre valicavano le Alpi lombarde, fra Giovanni a un tratto si sentì
venir meno per la fame, tanto da non poter più andare innanzi e nemmeno
levarsi da terra. Il pietoso Padre gli disse. Che avete, figliolo, che
non potete più camminare? Ed egli: - Padre santo, muoio di fame. Il
Santo allora: - Fatevi coraggio, figliolo; camminiamo ancora un poco, e
troveremo qualche luogo dove ristorare le nostre forze. - Ma il fratello
a ripetere che non gli era più possibile muovere un passo. Allora il
Santo, con quella bontà e commiserazione di cui era pieno, fece ricorso
al solito mezzo, alla preghiera. Pregò brevemente il Signore, e poi
rivolto al fratello: - Alzatevi, gli disse, o figlio andate là in quel
luogo, che ci sta dinnanzi, e prendete tutto quello che ci troverete. -
Si alzò il fratello, sebbene con grande stento; si trascinò fino al
luogo indicato, non più lontano di un tiro di pietra, e vi trovò un
pane di meravigliosa bianchezza, involto in un pannolino parimenti
bianchissimo. Portò il pane al Santo, che gli ordinò di non mangiarne
fino a che gli fossero tornate le forze. Quando egli ebbe finito, l'uomo
di Dio gli domandò se ora, che aveva soddisfatta la fame, poteva
camminare. Rispose di sì. - Alzatevi allora, riprese il Santo,
involgete il. pane avanzato nel pannolino e riportatelo dove l'avete
trovato. - Il fratello obbedì e ripresero il viaggio. Allontanatisi un
poco, il fratello cominciò a dire fra sé e sé: - O mio Dio! e chi può
aver portato là quel pane, e da qual luogo? Non sono io stupido a non
«averlo domandato ancora? - E rivolto al Santo: - Padre. santo, gli
disse, ma da dove era egli venuto quel pane, o chi l'aveva posato là? -
Allora quel vero amante e custode dell'umiltà gli rispose: - Non avete
voi mangiato quanto vi bisognava? - E Il fratello: - SI. - Adunque,
soggiunse il Santo, se avete mangiato quanto vi bisognava, rendetene
grazie a Dio, e non vi curate d'altro» . Fermiamoci per un momento col
pensiero su questi sentieri delle Alpi lombarde; e, viaggiatori noi
stessi dietro le loro orme pietose, gustiamo il piacere di seguirli più
da vicino.
Domenico viaggiava sempre a piedi, con un bastone in
mano ed un fagotto di panni sulle spalle. Fuori dell'abitato si levava
anche le scarpe, ed a piedi nudi proseguiva il cammino. So qualche sasso
lo feriva, diceva sorridendo: « Ecco la nostra penitenza». Passando
una volta in compagnia di fra Bonvisi per un luogo, tutto seminato di
ciottoli taglienti: « Oh, me infelice! soggiunse, qui un giorno fui
costretto a calzarmi. - E perché? Gli domandò il compagno. - Perché
aveva piovuto assai». - Approssimandosi a qualche villaggio, Domenico
rimetteva le scarpe, per ritoglierle quando ne fosse uscito. Se poi
s'imbatteva a dover traversare qualche fiume o torrente, faceva il segno
della Croce sulle acque, e per dare esempio ai suoi compagni,
arditamente vi entrava per primo. Cominciava a piovere? Ed egli intonava
ad alta voce l'Ave Maris Stella, o il Veni Creator Spiritus. Non portava
seco né oro, né argento, né moneta si rimetteva completamente alla
mercé degli uonini e della Provvidenza. Più volentieri di tutto
alloggiava nei conventi; mai però si fermava a piacer suo, ma sempre
secondo le fatiche sostenute o il desiderio de suoi compagni di viaggio.
Mangiava senza distinzione quello che gli ospiti offrivano, eccettuata
la carne. Perocchè anche in viaggio osservava rigorosamente l'astinenza
ed i digiuni dell'Ordine, sebbene dispensasse i compagni. Più era
trattato male, più ne rimaneva soddisfatto. Anche da malato fu veduto
mangiar radici e frutta, piuttosto che cibi delicati. Se sapeva di
doversi fermare in casa di secolari, estingueva prima la sete ad una
fontana, temendo che il bisogno di bere facesse scapitare la modestia
del religioso e fosse di scandalo ai commensali. Alle volte andava
mendicando il pane di porta in porta, e ringraziava con tanta umiltà
chi glie ne dava, che si metteva perfino in ginocchio. Dormiva vestito
sulla paglia o sopra una panca. Anche in viaggio non tralasciava nessuna
delle sue pratiche di pietà.
Tutti i giorni, a meno che non gli mancasse la
chiesa, offriva a Dio con grande abbondanza di lacrime, il santo
sacrificio: celebrare i divini misteri, e non sentirsene intenerito, gli
sarebbe stato impossibile. Quando, seguendo l'ordine delle cerimonie,
era prossimo l'arrivo di, Colui, ch'egli avea sommamente amato fin dai
più teneri anni, ognuno si accorgeva della viva emozione di tutto il
suo essere. Una lacrima chiamava l'altra su quel viso pallido e
raggiante ad un tempo. Recitava l'orazione domenicale con un accento così
serafico, da render quasi sensibile la presenza del Padre che sta ne'
cieli. La mattina stava e faceva stare in silenzio fino alle nove i suoi
compagni di viaggio; così pure la sera dopo Compieta. Nell'altro tempo
parlava sempre di Dio; ora in forma di conversazione, ora di
controversie teologiche o in ogni altro modo che gli fosse venuto in
mente. Talvolta, specialmente trovandosi in luoghi solitari, pregava i
suoi compagni a staccarsi un po' da lui, ripetendo loro con molta grazia
queste parole del profeta Osea: Io lo condurrò nella solitudine e gli
parlerò al cuore; e precedendoli o seguendoli, si metteva a meditare
qualche passo della Scrittura. I compagni osservarono che durante queste
meditazioni il Santo faceva spesso un gesto intorno al viso, come per
cacciare insetti importuni; ed attribuirono a questa meditazione, per
lui famigliare, delle sacre pagine, la profonda cognizione ch'egli ne
aveva. Tanta era l'abitudine di star con Dio, che non gli veniva quasi
mai fatto di levar gli occhi da terra; né mai si ritirava nelle case
dove era ospitato, senza prima essere entrato in qualche chiesa a
pregare, purché ve ne fosse. Dopo pranzo era solito ritirarsi in una
camera a leggere l'Evangelo di S. Matteo e l'Epistole di S. Paolo, che
sempre portava con sé. Sedutosi, apriva il libro, si faceva il segno
della Croce e leggeva attentamente. Ben presto però la parola divina lo
rapiva; incominciava a gesticolare come parlasse ad altri; ora sembrava
che ascoltasse, ora che disputasse, ora che lottasse; sorrideva. e
piangeva alternativamente; fissava lo sguardo in qualche parte, poi
chinava gli occhi, parlava sottovoce, battevasi il petto. Dalla lettura
passava alla meditazione alla contemplazione senza mai posare. A quando
a quando baciava con affetto il libro, come per ringraziarlo della
felicità che gli procurava; ed assorto sempre più in questa santa
voluttà, colle mani o col cappuccio coprivasi la faccia. Sopraggiunta
la notte portavasi alla chiesa per le consuete veglie e penitenze; e
quando non gli era dato di avere una chiesa a sua disposizione, si
ritirava in una camera appartata; ciò nonostante i forti gemiti
interrompevano, suo malgrado, il sonno dei compagni. All'ora del
Mattutino svegliava i suoi compagni per dir l’ufficio in comune, e
quando alloggiava in qualche convento, anche di altro Ordine, batteva
alle porte dei religiosi, sollecitandoli ad alzarsi e discendere in
coro.
Nei suoi viaggi, dovunque passasse, sempre predicava
nelle città, nei villaggi, nei castelli e perfino nei monasteri; e la
sua parola era di fuoco. Iniziato pei lunghi studi fatti a Palenza e ad
Osma a tutti i misteri della cristiana teologia, le cose della fede
uscivano dal suo cuore piene d'amore, che rivelava anche ai più
ostinati la verità. Un giovane rapito da questa eloquenza gli domandò
in quali libri l'avesse appresa. «Figlio mio, rispose Domenico, più
che in altri, nel libro della carità; questo insegna tutto». Anche sul
pulpito scoppiava spesso in lacrime, ed era preso abitualmente da quella
soprannaturale melanconia, che dà il profondo sentimento delle cose
invisibili. Allorchè apparivano da lontano i tetti delle case di una
città o di una borgata, il pensiero delle serie e dei peccati degli
uomini subito lo immergeva in una triste preoccupazione, che si
rifletteva anche sul suo volto. Rapidamente passava alle più diverse
espressioni dell'amore; sulle rughe della sua fronte era un continuo
alternarsi di sentimenti di gioia, di tristezza, di serenità; cosa che
conferiva alla maestà di un tant'uomo un fascino incredibile. «Sapeva
essere amabile con tutti, dice uno dei testimoni nel processo di
canonizzazione, coi ricchi, coi poveri, coi giudei ed infedeli, assai
numerosi nella Spagna; e da tutti era riamato, se ne eccettui gli
eretici ed i nemici della Chiesa, che dalle sue dispute e prediche
rimanevano conquisi».