VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
CAPITOLO XII
Fondazione dei conventi di S. Giacomo di Parigi,
e di S. Niccolò di Bologna.
I frati inviati da Domenico a Parigi dopo la riunione
di Prouille, si erano divisi in due gruppi: Mannes, Michele di Fabra ed
Oderico giunsero al loro oro destino il 12 settembre; Matteo di Francia,
Bertrando di Garriga, Giovanni di Navarra e Lorenzo d'Inghilterra
arrivarono tre settimane più tardi. Scelsero l'abitazione nel centro
della città, in una casa presa affitto, accanto all'ospedale di
Notre-Dame, alle porte del vescovato. Se ne eccettui Matteo di Francia,
che aveva passata una parte della sua gioventù alle scuole
dell'Università, nessuno di loro era conosciuto in Parigi. I primi
dieci mesi quindi li passarono nelle più grandi strettezze, confortati
solo dal pensiero di Domenico e da una rivelazione avuta da Lorenzo
d'Inghilterra sul futuro loro destino.
Giovanni di Barastre, decano in quel tempo di San
Quintino, cappellano del re e professore all'Università di Parigi, avea
fondato presso una porta della città, chiamata la porta di Narbona o d'Orléans,
un ospizio pei forestieri poveri. La cappella dell'ospizio era stata
dedicata a S. Giacomo Apostolo, assai celebre nella Spagna, la cui tomba
fu uno dei termini nei grandi pellegrinaggi del mondo cristiano. Sia che
i frati spagnoli si recassero colà per devozione, sia per altre
ragioni, Giovanni di Barastre venne a sapere esservi a Parigi dei nuovi
religiosi, i quali predicavano il Vangelo alla maniera degli Apostoli.
Cercò subito di conoscerli, e conosciutili, li ammirò, li amò,
comprese l'importanza della loro missione, e senz'altro il 6 agosto li
mise in possesso dell'ospizio di San Giacomo, da lui fatto edificare per
Gesù Cristo, personificato nei forestieri poveri, il quale, in
riconoscenza, gl’inviava ospiti più illustri assai di quello che
Giovanni si sarebbe aspettato, e trasformava il modesto asilo della
porta d'Orléans in abitazione di apostoli, in scuola di dotti, in tomba
di re. Il 3 maggio del 1221 Giovanni di Barastre confermò con atto
autentico la donazione fatta ai frati, e l'Università di Parigi, a
richiesta di Onorio III, rinunciò a tutti i diritti ch’essa aveva su
quel luogo, a condizione però che i suoi dottori, a titolo di
fratellanza, vi fossero onorati in morte coi medesimi suffragi
spirituali dei membri dell'Ordine.
Provveduti così di stabile e pubblica dimora, i
Frati cominciarono ad esser sempre più conosciuti. Era un accorrere ad
ascoltarli; ed essi moltiplicavano le conquiste specialmente fra quella
moltitudine di studenti che da ogni parte d'Europa conveniva a Parigi,
portandovi, insieme al genio diverso delle nazioni, il comune ardore
della gioventù. Nell'estate del 1219 il convento di S. Giacomo contava
già trenta religiosi. Fra tutti quelli però che allora presero
l'abito, il solo, di cui sia rimasta memoria, è Enrico di Marbourg. Da
più anni era stato mandato a Parigi da un suo zio, cavaliere molto
cristiano, che abitava nella città di Marbourg. Lo zio, dopo morte, gli
era apparso in sogno, e gli aveva detto: «Prendi la croce in espiazione
delle mie colpe, e vai al di là dei mari. Tornato che sarai da
Gerusalemme, troverai a Parigi un nuovo Ordine di Predicatori, ai quali
ti unirai anche tu. Non ti spaventi la loro povertà, né ti ritragga
l'esiguo loro numero; perocché diverranno un popolo, e saranno potenti
per la salute delle anime» . Andò Enrico oltremare, e tornato a Parigi
quando i Frati vi si erano già stabiliti, abbracciò senza esitazione
la loro regola, e fu uno dei primi e più celebri predicatori del
convento di S. Giacomo. Il re S. Luigi prese ad amarlo, e lo condusse
seco in Palestina l'anno 1254. Morì ritornando in Francia in compagnia
del re.
Ecco un tratto di storia riguardante i primordi dei
Frati a Parigi: «Accadde che due frati itineranti, non avendo mangiato
ancor nulla alle tre del dopo pranzo, si domandavano l’un l'altro come
soddisfare alla fame in un paese povero e sconosciuto come quello che
attraversavano. Or mentre tenevano tali discorsi, un uomo, in abito da
viaggio, si fece loro innanzi e disse: - Di che andate voi ragionando, o
uomini di poca fede? Cercate prima di tutto il regno di Dio, ed il resto
vi sarà dato in abbondanza. Avete avuto tanta fede da sacrificare tutto
per Iddio, ed ora avete paura ch'Egli vi lasci senza pane? Traversate
questo campo, e giù nella valle sottostante troverete un villaggio.
Entrato in chiesa, e vedrete che il prete di quella chiesa v'inviterà;
sopraggiungerà poi anche un cavaliere, il quale vorrà che in ogni modo
andiate da lui; allora il patrono della chiesa per sciogliere ogni
litigio condurrà il prete, il cavaliere e voi a casa sua, e sarete
trattati magnificamente. Confidate adunque nel Signore, ed eccitate
questa fiducia anche nei vostri fratelli. - Ciò detto, scomparve ed
ogni cosa avvenne come era stato annunziato. I frati tornati a Parigi
raccontarono l'accaduto a fra Enrico e agli altri frati, pochi di numero
e poverissimi, che allora si trovavano colà» .
L'estrema povertà del convento di Parigi fu forse,
la causa per cui due religiosi, cioè Giovanni di Navarra e Lorenzo
d'Inghilterra, fecero in modo dì riunirsi a Domenico in Roma. Giunti
che vi furono, e fu nel gennaio del 1219, il Santo ordinò a Giovanni di
Navarra di andare a Bologna, insieme ad un altro religioso, chiamato
dagli storici «un certo Bertrando» per distinguerlo da Bertrando di
Garriga. Poco dopo inviò colà anche Michele di Uzero e Domenico di
Segovia, tornati dalla Spagna, e tre altri frati, Riccardo, Cristiano e
Pietro, che era laico. il piccolo drappello poté ottenere a Bologna,
non si sa come, una casa ed una chiesa detta S. Maria di Mascarella; però
versavano in grandi strettezze, impotenti, com'essi erano, a sostenere
le esigenze di una grande città, in cui la religione, gli affari, i
piaceri hanno il loro corso ordinario, ed in cui la novità stessa non
attira a sé l’ammirazione, che a difficili condizioni. Tutto però
cambiò aspetto all'arrivo di un uomo, Reginaldo, che ritornato dalla
Terra Santa, fu a Bologna il 21 dicembre 1218. La città ne fu subito
scossa. Niente è paragonabile ai successi della divina eloquenza di
lui; in otto giorni Reginaldo fu padrone di Bologna. Ecclesiastici,
giureconsulti, professori, studenti d'Università, entrarono a gara in
un Ordine poco prima affatto sconosciuto, anzi disprezzato; ed alcuni
fra i più spiritosi, giunsero al punto di doversi astenere
dall'ascoltarlo, per timore di esser sedotti dalla sua parola. «Quando
fra Reginaldo, di santa memoria, predicava a Bologna, scrive uno
storico, attirando all'Ordine rinomati dottori ed ecclesiastici, maestro
Moneta, uomo celebre in tutta la Lombardia, e che allora insegnava le
arti, dietro la conversione di tanti uomini, cominciò a temere di se
medesimo; e procurava di star lontano da fra Reginaldo, cercando di
tenerne lontani i suoi scolari. Nondimeno il giorno della festa di S.
Stefano i suoi discepoli insisterono per andare con lui al sermone; e
sia che per riguardo a loro, sia che per altri motivi non se ne potesse
liberare, propose di andar prima ad ascoltar la Messa a S. Procolo. Vi
andarono ed ascoltarono non una, ma tre Messe. Moneta cercava a bella
posta di tirarla in lungo, per poi non fare più in tempo alla predica.
Ma i suoi scolari lo sollecitavano; ond'egli finalmente: - E andiamo. -
Quando giunsero alla chiesa il sermone non era ancora terminato; però
tanta era la calca della gente, che Moneta fu costretto a rimanere sulla
porta. Ciò nonostante, tendere per un momento l'orecchio, ed esser
vinto fu tutt'una. L'oratore in quel momento esclamava: - Ecco ch'io
veggo i cieli aperti! Sì, i cieli sono aperti per chi vuol vedere e per
chi vuole entrare; le porte sono aperte per chi vuol passare. Non
chiudete il vostro cuore, e la bocca, e le mani, affinché anche i cieli
non si chiudano dinanzi a voi. Perché indugiate? I cieli sono aperti. -
Reginaldo era appena sceso del pulpito, che Moneta fu subito a trovarlo;
gli aprì il suo cuore, gli espose le sue condizioni, e fece voto
d'obbedienza nelle sue mani. Legato com'era da molti impegni, di
consenso con fra Reginaldo, vestì ancora per un anno l'abito secolare;
in questo frattempo si studiò con ogni mezzo di condurre a Reginaldo
sempre più ascoltanti e discepoli. Vi conduceva ora l'uno, ora l'altro;
e ad ogni nuova conquista pareva che anche lui prendesse l'abito,
insieme a quelli che lo prendevano» .
Il convento di S. Maria della Mascarella non bastando
più a contenere i frati, Reginaldo per mezzo del cardinale Ugolino,
allora legato apostolico in quelle provincie, ottenne dal vescovo di
Bologna la chiesa di S. Nicolò delle Vigne, vicino alle mura, in aperta
campagna. Rodolfo cappellano della chiesa, uomo dabbene e pieno di timor
di Dio, non che opporsi alla generosità del vescovo verso i Frati,
prese l'abito egli stesso. Raccontava che prima della venuta dei Frati a
Bologna, una povera donna., molto disprezzata dagli uomini, ma
prediletta da Dio, spesso si metteva a pregare vicino alla vigna dove
poi sorse il convento di S. Niccolò. E quando altri si beffava di lei,
come se adorasse la vigna: «O miseri ed insensati, rispondeva; se
sapeste quali uomini abiteranno questo luogo, quali avvenimenti vi si
succederanno, anche voi vi prostrereste ad adorare il Signore. Il mondo
intero sarà illuminato da coloro che qui abiteranno».
Un altro frate, Giovanni di Bologna, narrava che i
coltivatori della vigna di S. Nicolò spesso vi avevano veduto delle
fiammelle ed altri splendori. Fra Chiarino si ricordava che quando era
ancor fanciullo, passando un giorno vicino a quella vigna, suo padre gli
aveva detto: «In questo luogo spesse volte sono stati uditi angelici
canti; e questo, o figlio, è un grande presagio per l'avvenire». Ed
opponendo il fanciullo che, potevano essere canti di uomini, il padre
avea risposto: «ben altra è la voce degli uomini e quella degli
angeli, da non distinguerle» .
Nella primavera del 1219 i Frati passarono a S. Nccolò,
dove, e per le prediche di Reginaldo, e per la fama delle loro virtù,
nonché per una speciale protezione di Dio, che di tanto in tanto si
manifestava con fatti, meravigliosi, continuarono a moltiplicarsi. Uno
studente dell'Università fu chiamato all'Ordine nel seguente modo. Una
notte gli parve, dormendo, di trovarsi solo in un campo assalito da una
tempesta, e di darsi a correre alla casa più vicina, per bussare e
domandare ospitalità. Ma sentì invece una voce che rispondeva: «Io
sono. la Giustizia; e poiché tu non sei giusto non entrerai nella mia
casa». Bussò allora ad un'altra porta, ed anche lì gli fu risposto:
«Io, sono la Verità, e non ti posso ricevere, perché la Verità
libera quelli soli, che l'amano». Si rivolse altrove, e ne venne
parimenti respinto con queste parole: «Io sono la Pace, e non v'ha pace
per l'empio, ma solamente per l'uomo di buona volontà». Finalmente
bussò ad una terza porta, ed una persona aprendogli: «Io sono la
Misericordia, gli disse; se vuoi campare dalla tempesta, vai al convento
di San Nicolò, dove sono i Frati Predicatori. Là troverai la stalla
della penitenza, la greppia della continenza, l'erba della dottrina,
l'asino della semplicità, il bue della discrezione, Maria che
t'illuminerà, Giuseppe che t'aiuterà, Gesù che ti farà salvo». Lo
studente, svegliatosi, prese il sogno come un avvertimento, e ci si
attenne.
Non erano già umane attrattive che cooperavano alla
conversione di questi giovani e di altri uomini omai avanti nella
carriera dei pubblici uffici; che niente era più duro della vita dei
Frati Predicatori. La povertà di un Ordine nascente si faceva sentire
con ogni genere di privazioni; pel corpo e per lo spirito, affranti
dalle fatiche apostoliche, il principale ristoro erano l'astinenza ed il
digiuno; brevi notti passate malamente su duro letto, succedevano a
lunghe giornate di lavoro; le più piccole trasgressioni della regola
erano punite severamente. Un fratello converso, avendo accettato senza
permesso del superiore non so qual pezzo di ruvida stoffa, ebbe per
penitenza da Reginaldo di scoprirsi, come allora si costumava, le
spalle, per ricevere alla presenza di tutti gli altri la disciplina. Il
colpevole si ricusò; e Reginaldo fattolo spogliare fino alle spalle dai
fratelli, con gli occhi lacrimosi e levati al cielo: «O Cristo Signor
nostro, disse, che al vostro servo Benedetto deste la possanza di
cacciare il demonio dal corpo dei suoi monaci con le verghe della
disciplina, concedete anche a me la grazia di vincere la tentazione di
questo povero fratello col, medesimo mezzo». Ciò detto lo batté con
tanta forza, che i frati presenti, se ne impietosirono fino alle
lacrime. Cosi si domava la natura in quegli uomini, capaci d'altronde di
sottostare a simili trattamenti: e di questa vittoria riportata su di
loro stessi con la repressione cruenta dell'orgoglio e dei sensi, se ne
servivano poi gloriosamente contro il mondo. Imperocché, e che poteva
ormai il mondo su cuori così fortificati contro gli assalti
dell'ignominia e del dolore? Cosa meravigliosa! La religione adopra ad
innalzamento dell'uomo quei mezzi stessi, di cui il mondo si serve per
avvilirlo; lo restituisce a libertà, facendolo schiavo; lo fa re,
quando appunto lo crocifigge.
Né le austerità del chiostro erano le prove più
dure pei giovani e per gli illustri novizi che si presentavano alla
porta di S. Niccolò di Bologna. Principal pericolo per le istituzioni
nascenti è la novità stessa in cui, come in oscuro orizzonte, vanno
vagando le cose, che non hanno ancora storia. Quando un'istituzione, è
provata dai secoli, emana dalle sue pietre come un profumo di stabilità,
che rassicura l'uomo da tutte le dubbiezze del suo spirito. Ivi si
adagia tranquillamente, come un fanciullo sulle ginocchia del suo avo;
ivi è cullato, come il mozzo sopra un vascello, che cento volte abbia
traversato l'oceano. Le opere nuove invece hanno una triste
corrispondenza con le parti più deboli del cuore umano, ed a vicenda
si, turbano. Né S. Nicolò di Bologna fu immune dalle cupe tempeste,
che secondo le leggi della Provvidenza, debbono provare e purificare
tutte le opere divine, in cui, entri l'uomo come strumento. «Quando
ancora, dice uno storico, l'Ordine dei Predicatori era come piccolo
gregge o piantagione novella, i frati del convento di Bologna furono
presi da così fiera tentazione di scoraggiamento, che molti di essi
stavano già pensando a quale altro Ordine sarebbe stato meglio passare,
persuasi che il loro, così recente e così debole, non avrebbe potuto
durarla a lungo. Due dei più ragguardevoli avevano anzi ottenuto
licenza da un legato apostolico di entrare fra i Cistercensi, e ne
avevano presentate le lettere a fra Reginaldo, una volta decano d'Orléans,
e allora vicario del beato Domenico. Fra Reginaldo, adunato il capitolo,
espose con gran dolore la cosa; tutti i frati furono presi allora da
incredibile turbamento di spirito, e proruppero in pianto. Muto e con
gli occhi levati al cielo, Reginaldo parlava in cuor suo a Dio, in cui
avea riposte tutte le sue speranze. Fra Chiaro il Toscano, uomo di molta
bontà e di grave autorità, il quale era stato professore di arti e di
diritto canonico, e fu poi Priore della provincia romana, penitenziere e
cappellano del Papa, si alzò a parlare. Aveva appena terminato il suo
discorso, che entrò maestro Orlando di Cremona, famoso dottore e
professore di filosofia in Bologna, ed il primo dei Frati Predicatori,
che insegnasse teologia a Parigi. Era solo; ed ebbro anziché pieno
dello spirito del Signore, domandò senz'altro di prender l'abito. Fra
Reginaldo, quasi fuori di sé per la gioia, si tolse allora il suo
scapolare e glie lo mise. Il sacrestano cominciò allora a suonar la
campana, i frati intuonarono il Veni creator Spiritus, proseguendo a
cantar tutto l'inno con voci soffocate dall'abbondanza delle lacrime di
gioia, uomini, donne, studenti, riempirono la chiesa; alla notizia, che
poi si sparse, la città tutta ne fu commossa; si ravvivò la devozione
nei frati; ogni tentazione, ogni timore scomparve, e i due che avevano
deliberato di mutar Ordine, corsero in mezzo al capitolo e rinunziando
al permesso apostolico già ottenuto, promisero di rimanere perseveranti
fino alla morte».
Ecco come sorsero i due conventi di S. Niccolò di
Bologna, e di S. Giacomo di Parigi, le due pietre angolari dell’edifizio
domenicano. Là, al caldo delle più celebri università d’Europa, si
vennero maturando elette schiere di dottori e di apostoli; là si
adunarono ogni anno, o nell'uno o nell'altro dei due conventi, i
rappresentanti di tutte le provincie dell'Ordine; là, di secolo in
secolo fiorirono uomini, non superati mai dai loro contemporanei, i
quali perpetuarono fra i popoli il rispetto dovuto alla religione, che
li aveva nutriti. S. Niccolò di Bologna ebbe la gloria di aver fra le
sue mura, Domenico negli ultimi giorni della sua vita, e di esserne la
tomba: S. Giacomo di Parigi, divenne per altri rispetti, celebre
sepoltura. Teneramente prediletto dal re S. Luigi, custodì sotto i suoi
marmi i precordi di moltissimi reali di Francia. Roberto sesto figlio di
quel santo monarca, e stipite della casa Borbone, fu ivi levato al fonte
battesimale dal B. Umberto, quinto Generale dell'Ordine, e vi fu poi
sepolto: il figlio, il nipote ed il pronipote colà lo raggiunsero, e i
loro avanzi mortali non formarono che un solo sepolcro, sul quale fu
scolpita questa iscrizione: «Qui riposa la stirpe de' Borboni - Qui il
primo principe di tal casato è racchiuso - In questo sepolcro è quasi
il germe dei re» . Singolare destino! Il convento di S. Giacomo dove la
casa dei Borboni nella persona del suo primo capo era stata battezzata,
e dove le prime quattro generazioni riposavano in pace, fu appunto il
luogo da cui partirono i primi colpi che dal trono di Francia. I più
implacabili nemici della monarchia tennero le loro congreghe in quel
chiostro desolato , ed il nome, che i Domenicani francesi avevano tanto
glorificato, non suonò più che sangue nella bocca delle nazioni.
Presentemente di S. Giacomo non appariscono più neppur le rovine. Un
ammasso di case e di baracche ne copre con ignobile ombra gli avanzi, e
tanta è la noncuranza in cui è caduto, che forse la famiglia stessa
dei Borboni non sa più che là era la tomba dei suoi maggiori.