VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
CAPITOLO XI
Soggiorno di S. Domenico a S. Sabina.
S. Gia cinto ed il B. Ceslao entrano nell'Ordine
Miracolosa unzione fatta dalla Vergine Santissima
sul B. Reginaldo.
I frati, dopo lasciato S. Sisto, abitarono presso la
Chiesa di S. Sabina, sull'Aventino. Secondo una vecchia epigrafe la
fondazione di S. Sabina rimonterebbe al principio del quinto secolo,
sotto il pontificato di Celestino I, per cura di un prete dell’Illiria
chiamato Pietro. Le sue mura si elevano sulla parte più alta e più
scoscesa del monte, al di sopra di una stretta riva, dove il Tevere,
allontanandosi da Roma, mormora frangendo le onde negli avanzi del ponte
difeso da Orazio Coclite contro Porsenna. Due ordini di colonne antiche
sorreggenti il tetto a travatura, dividono la chiesa in tre navate,
terminata ciascuna ,da un altare. E’la primitiva forma basilicale in
tutto lo splendore della sua semplicità. Le ossa di S. Sabina, morta
per Gesù Cristo ai tempi di Adriano, con le reliquie preziose di altri
martiri, riposano sotto l'altare maggiore, presso il luogo del martirio
della Santa, per quanto la tradizione ha potuto farlo conoscere.
Il palazzo Sabelli, abitato da Onorio III, era
contiguo alla chiesa di S. Sabina; e di lassù fu spedita la bolla di
approvazione dell'Ordine dei Frati Predicatori. Dalle finestre di questo
palazzo, di cui una parte fu ceduta a Domenico, l’occhio spaziava
liberamente sul centro di Roma, fino a riposarsi sulla colline del
Vaticano.
Due vie scoscese e tortuose conducono alla città;
una che va a riuscire al Tevere, l'altra ad un angolo del monte
Palatino, presso la chiesa di S. Anastasia. Per quest'ultima Domenico
andava da S. Sabina a S. Sisto; e per più di sei mesi quasi, ogni
giorno discese e risalì quell'orta, per portare da un convento
all'altro l'ardore della sua carità; talché nessun sentiero della
terra conserva meglio l'impronta de' suoi passi.
Il viaggiatore che entri in S. Sabina, anche oggi uno
dei principali monumenti di Roma, e percorra con'attenzione quelle
religiose navate, troverà in una cappella laterale antichi affreschi,
uno de' quali rappresenta Domenico, che dona l'abito di Frate
Predicatore ad un giovane, il quale gli sta dinanzi inginocchiato,
mentre un altro è disteso per terra. Il volto di ambedue questi giovani
è nascosto allo spettatore, pure ei si sente commosso. Sono due
polacchi, Giacinto e Ceslao Odrowaz, venuti a Roma in compagnia del loro
zio Ivo Odrowaz, eletto vescovo di Cracovia. Condotti a S. Sisto,
probabilmente dal cardinale Ugolino, antico condiscepolo di Ivo
all'Università di Parigi, si trovarono presenti alla resurrezione del
giovane Napoleone. Avendo il vescovo pregato Domenico di dargli alcuni
Frati Predicatori per la Polonia, il Santo gli rispose di non averne
neppure uno pratico della lingua e dei costumi polacchi; soggiungendo
che il miglior mezzo per propagare l'Ordine nella Polonia e nelle
regioni del Nord, sarebbe stato che qualcuno del suo seguito si fosse
sentito di prenderne l'abito. Giacinto e Ceslao si offrirono allora
spontaneamente a Domenico. Si dice che fossero fratelli; certo
appartenevano alla medesima famiglia, somigliantissimi di cuore come di
parentado. Consacratisi a Gesù Cristo colla: vita sacerdotale, avevano
fatto nella loro patria molto onore al Maestro; la giovinezza stessa
pareva in essi una virtù. Giacinto era canonico della chiesa di
Cracovia, Ceslao prefetto o proposto della chiesa di Sandomir. Presero
insieme l'abito a S. Sabina con due. altri compagni di viaggio,
ricordati nella storia domenicana coi nomi di Enrico di Moravia ed
Enrico di Teutonia. Così anche la Polonia e la Germania, soli paesi
d'Europa che fino allora non avessero dati figlioli all'Ordine dei Frati
Predicatori, offrirono in quel giorno il loro tributo, su quella
misteriosa collina, che i romani non comprendevano nel loro sacro
recinto, ed il cui nome significa soggiorno d'uccelli .
Come son semplici e insieme meravigliose le vie del
Signore! Ugolino Conti, italiano, e Ivo Odrowaz, polacco, s'incontrano
all'Università di Parigi; là passano insieme qualche giorno della loro
gioventù; poi il tempo, che conferma o dilegua le amicizie come ogni
altra cosa, apre fra i loro cuori un abisso di quaranta e più anni.
Ivo, promosso all'episcopato, è costretto a portarsi a Roma, e ritrova
fra i porporati l'amico della sua giovinezza. Un giorno il cardinale
conduce il suo ospite a S. Sisto per fargli conoscere un uomo, di cui
neppure il nome gli era giunto mai alle orecchie; ed in quel giorno
stesso la virtù di un tale uomo splendidamente si manifesta con un atto
della più grande possanza, con un comando imperioso sulla vita e sulla
morte. Ed Ivo ne rimane sorpreso, e chiede subito a Domenico alcuni
frati, senza neppure immaginare d'esser lui andato prima a Parigi, e ora
venuto a Roma, per condurre a Domenico quattro nobili figli del
Settentrione, predestinati da Dio a fondar conventi di Frati Predicatori
in Germania, in Polonia, in Prussia, e perfino nel cuore della Russia.
Giacinto e i suoi compagni non rimasero a S. Sabina
che pochissimo tempo. Appena ebbero sufficiente cognizione delle regole
dell'Ordine, se ne ripartirono col vescovo di Cracovia. Passando per
Friesach, città degli antichi Norici, fra la Drava ed il Murli, si
sentirono mossi dallo Spirito Santo ad'annunziarvi la divina parola. La
loro predicazione scosse talmente quel paese che, avvalorati da tale
successo, deliberarono senz'altro di fondarvi un convento. Fu eretto
difatti in sei mesi e popolato da gran numero di frati, sotto la
direzione di Ermanno il Teutonico.
Giunti a Cracovia, il vescovo donò loro una casa di
legno, appartenente al vescovato, perché ne facessero un convento.
Queste le primizie dell'Ordine nelle regioni settentrionali. Ceslao fondò
poi i conventi di Praga e di Breslavia; e Giacinto, prima di morire,
giunse a piantar le tende domenicane fino a Kiow, sotto gli occhi dei
greci scismatici e in mezzo allo strepito delle invasioni barbariche.
Sembrava che il Mezzogiorno ed il Settentrione
facessero a gara nell'inviare a Domenico numerosissimi operai. C'era in
Francia un celebre dottore per nome Reginaldo, che avea insegnato per
cinque anni diritto canonico a Parigi, ed ora decano del capitolo di S.
Agostino d'Orleans. Nell'anno 1218 si recò a Roma per visitarvi la
tomba dei Santi Apostoli, col proposito di passar poi a Gerusalemme a
venerarvi il santo sepolcro di Cristo. Questo duplice pellegrinaggio
doveva essere, secondo lui, il preludio di un nuovo genere di vita, che
aveva in animo di abbracciare. « Dio gli avea ispirato di abbandonar
tutto e darsi a predicare il Vangelo; ed egli si preparava a questo
nobile ministero, senza però saper dire a se stesso come l'avrebbe
adempiuto. Ignorava che esistesse già un Ordine di Predicatori; e
parlando confidenzialmente con un cardinale, gli aprì il suo cuore,
manifestandogli di voler lasciar tutto, per predicare dovunque Gesù
Cristo, in uno stato di perfetta povertà. Allora il cardinale gli
disse: Ecco, vi è un Ordine sorto d'a poco tempo che ha per scopo di
unire insieme la pratica della povertà con l'ufficio della predicazione
ed il Maestro stesso di questo nuovo Ordine si trova ora qui, a Roma, e
predica anch'egli la parola di Dio. Udito ciò, il maestro Reginaldo andò
tutto sollecito in cerca del Beato Domenico per aprirgli l'animo suo. La
vista del Santo e la grazia del suo parlare subito lo attrassero; risolvé
senz'altro di entrare nell'Ordine. L'avversità però, prova di tutti i
santi propositi, non tardò a contrastare anche questo. Reginaldo cadde
malato così gravemente, che i medici disperavano ormai di salvarlo, e
pareva destinato a soccombere sotto gli assalti della morte. Il Beato
Domenico, dolente di dover perdere un figliuolo prima ancora di averlo
potuto stringere al seno, si rivolse alla divina misericordia,
scongiurandola vivamente, come egli stesso raccontò poi ai frati, di
non strappargli un figliolo concepito appena, anziché nato; e di
concedergli che vedesse almeno la luce, fosse pure per breve tempo.
Mentre Domenico così, pregava, la beata Vergine Maria, madre di Dio e
Signora dell'universo, accompagnata da due giovani donzelle
d'incomparabile bellezza, apparve a maestro Reginaldo. Era egli desto, e
giaceva in letto, arso da una febbre ardente, quando udì la Regina del
Cielo parlargli in questo modo: Domandami quel che vuoi, ed io te lo
concederò. Mentre Reginaldo stava deliberando fra sé e sé, una delle
donzelle, che accompagnavano la Beata Vergine, gli suggerì di non
chieder nulla, ma di rimettersi alla volontà della Regina delle
misericordie; ed egli ben volentieri acconsentì. Allora Maria colla
virginea sua mano gli fece un'unzione sugli occhi, sulle orecchie, sul
naso, sulla bocca, sulle mani, sui reni e sui piedi, pronunziando
insieme alcune parole corrispondenti a ciascuna unzione. Io ho potuto
risapere soltanto le parole proferite nell'unzione dei reni e dei piedi.
Ungendo dunque i reni Essa disse: - Che i tuoi reni siano cinti col
cingolo della castità. - Ed ungendo i piedi: - Che i tuoi piedi siano
forti per la predicazione del Vangelo di pace. - Poi gli mostrò l'abito
dei Frati Predicatori, soggiungendo: - Ecco l'abito del tuo Ordine - e
disparve. Unto che fu dalla madre di Colui, che ha il segreto di rendere
a tutti la sanità, Reginaldo si sentì subito guarito; e la mattina
seguente quando Domenico venne a visitarlo e gli domandò premurosamente
come si trovasse, gli rispose di non aver più male alcuno; e raccontò
la visione. Con animo pieno di gratitudine resero allora insieme e
devotamente, come io penso, grazie a quel Dio, che atterra e suscita,
che affanna e che consola; ed i medici restarono meravigliati di una
guarigione istantanea e tanto insperata, non sapendo qual mano avesse
apprestato il rimedio» .
Tre giorni dopo, mentre Reginaldo stava seduto con
Domenico e con un religioso dell'Ordine degli Ospitalieri, fu ripetuta
visibilmente su di lui la miracolosa unzione, come se l'augusta Madre di
Dio attribuisse a quell'atto un’importanza speciale, e le premesse di
eseguirlo dinanzi a testimoni. In verità Reginaldo era in quel momento
il rappresentante dell'Ordine dei Frati Predicatori, e la Regina del
cielo e della terra stringeva alleanza per suo mezzo con l'Ordine
intero. Il Rosario era stata la prima manifestazione di tale alleanza, e
come un gioiello donato all'Ordine nel suo battesimo: l'unzione di
Reginaldo, indizio di virilità e di confermazione, doveva anch'essa
avere il suo segno durevole e commemorativo. Fu per questo che la Beata
Vergine, mostrando al nuovo frate l’abito dell'Ordine, non glielo
presentò quale allora si portava, ma con un notevole cambiamento, di
cui è d’uopo ora parlare.
Dicemmo già che Domenico, per lungo tempo canonico
di Osma, aveva continuato a portarne l'abito anche in Francia, e l'avea
anzi adottato per il suo Ordine. Consisteva tale abito in una tonaca di
lana bianca con sopra una cotta di lino, e poi un mantello ed un
cappuccio di lana nera. Nell'abito invece che la Vergine SS. mostrò a
Reginaldo, la cotta di lino era surrogata da uno scapolare di lana
bianca, semplice striscia o telo di stoffa, che, scendendo davanti e di
dietro fino alle ginocchia, copre le spalle ed il petto. Di tale specie
di vestimento se ne parla anche nelle vite dei monaci d'Oriente, i quali
l'usarono, senza dubbio, a rifinimento della tonaca, quando il lavoro od
il caldo li costringeva a deporre il mantello. Nato adunque nel deserto
da un sentimento di pudore, e quasi velo sopra il cuore dell'uomo, lo
scapolare divenne nella tradizione cristiana simbolo della purità, e
per conseguenza l'abito di Maria, regina de' Vergini. Nel tempo stesso
adunque che Ella nella persona di Reginaldo cingeva del cingolo della
castità i reni dell'Ordine e ne fortificava i piedi per la predicazione
del Vangelo di pace, gli additava ancora nello scapolare il simbolo
esteriore di quell'angelica virtù, senza la quale è impossibile di
sentire e di annunziare le cose del cielo.
Dopo questo grande avvenimento, uno dei più celebri
nella storia domenicana, Reginaldo partì per Terra Santa; vedremo poi
quando ne ritornasse. L'Ordine intanto, lasciata la cotta di lino, prese
lo scapolare di lana, divenuto d'allora in poi la parte principale e
caratteristica dell'abito domenicano. Quando difatti il frate
predicatore fa la sua professione, il Priore, nel riceverne i voti, gli
benedice solo lo scapolare; né alcuno può uscir mai dalla cella senza
averlo indosso, neppure quando è portato alla tomba. La Vergine
Santissima, manifestò anche in altri modi la materna sua tenerezza
verso l'Ordine. «Una sera Domenico era rimasto in chiesa a pregare; ne
uscì alla mezzanotte, passando pel dormitorio dove i frati nelle
rispettive celle riposavano. Fatto ciò che doveva, si pose nuovamente a
pregare in un'estremità del corridoio; e, volti per caso gli occhi
all'altra estremità, vide tre donne che si avanzavano. Quella di mezzo
era la più bella e la più veneranda. Una delle compagne portava un
magnifico vaso, l'altra un'aspersorio che presentava alla Signora.
Questa aspergeva i frati, facendo sopra di essi il segno della croce;
giunta però alla porta di un certo frate passò innanzi senza
benedirlo. Domenico, notato chi fosse quel frate, si diresse verso colei
che benediceva, giunta ormai a metà del corridoio ov'era sospesa una
lampada; e prostrato ai suoi piedi la supplicò, sebbene l'avesse già
conosciuta, di dirgli chi ella fosse. In quel tempo non si cantava
ancora dai frati e dalle suore di Roma la bella e devota antifona Salve
Regina, ma solamente si recitava in ginocchio dopo Compieta. La donna
adunque che benediceva, rispose al B. Domenico - Io sono colei, che
invocate tutte le sere; ed allorché ripetete eja ergo advocata nostra,
anch'io mi prostro a pregare mio figlio per la conservazione di questo
Ordine. - Poscia il beato Domenico le richiese ancora chi fossero le due
giovani donne, che l'accompagnavano. E la Vergine benedetta: - Una,
rispose, è Cecilia, l'altra Caterina. - Il beato Domenico le domandò
ancora perché avesse lasciato un frate senza benedire; e gli fu
risposto: - perché non era in una conveniente positura. - E terminato
che fu il giro, e benedetti gli altri frati, disparve. Il beato Domenico
tornò allora a pregare nel luogo stesso di prima; appena cominciata la
preghiera fu rapito in spirito fino a Dio. Vide allora il Signore che
aveva alla destra la Vergine benedetta, rivestita, sembravagli, di una
cappa colore zaffiro; e guardando ancor meglio vide innanzi a Dio
religiosi di tutti gli Ordini, meno che del suo, di cui non ce n'era
neppur uno. Ciò gli cagionò amaro pianto; né si sentì il coraggio di
avvicinarsi di più al Signore e alla sua santa Madre. La Madonna gli
fece cenno di accostarsi, ma non avea ardire di farlo; finché il
Signore stesso lo chiamò. Allora si fece innanzi, e piangendo
amaramente, si prostrò ai loro piedi. Il Signore gli ordinò di
alzarsi, ed alzato che fu, gli disse: - Perché piangi? - Piango,
rispose, perché vedo qui religiosi di tutti gli Ordini, e nessuno del
mio. - Ed il Signore a lui: - Vuoi tu vedere il tuo Ordine? - Sì, o
Signore, rispose tremando. - Il Signore pose allora la mano sulla spalla
della beata Vergine, e disse al beato Domenico- Io ho affidato il tuo
Ordine a mia Madre. - E poi soggiunse: - Vuoi assolutamente vedere il
tuo Ordine? - E Domenico: - Sì, o Signore. - Allora la beata Vergine
aprì il manto che aveva indosso e stesolo dinanzi al beato Domenico in
modo da ricoprire colla sua immensità tutta la patria celeste,
apparvero sotto di esso una moltitudine di Frati Predicatori. Si prostrò
allora il beato Domenico per rendere grazie a Dio ed alla sua Madre, la
Vergine Maria; e la visione disparve. Suonava la campana del Mattutino
quando Domenico ritornò al sensi. Finito Mattutino, egli convocò i
frati in capitolo, e dopo un bel discorso sull'amore e sulla devozione
ch'essi dovevano avere verso la Beata Vergine, narrò loro la visione.
All'uscir poi dal Capitolo fermò in disparte il frate, che la Beata
Vergine non aveva benedetto, e con dolcezza lo richiese se mai avesse
taciuto qualche peccato secreto; perocchè costui avea fatto al beato
Domenico la confessione generale. - Padre
santo, rispose, niente mi rimorde nella coscienza, se
non forse che questa notte, svegliatomi, mi son trovato scoperto nel
letto. - Il beato Domenico prese occasione da ciò per ordinare che i
frati, qualunque fosse il luogo dove riposassero, si ponessero sempre in
letto cinti ai reni e con le calze. Il Santo stesso raccontò la visione
a Suor Cecilia e alle altre monache di S. Sisto, ma come avuta da un
altro; i frati però, che erano presenti, facevano segno alle suore che
l'aveva avuta lui medesimo» .
La seconda domenica di quaresima, cioè pochi giorni
dopo il trasferimento delle suore a S. Sisto, Domenico fece in chiesa
una solenne predica alla presenza di molto popolo, e cacciò il demonio
dal corpo d'una donna, che co' suoi gridi disturbava gli astanti.
Un'altra volta, presentatosi inaspettatamente alla ruota del monastero,
domandò alla rotaia come stessero le suore Teodora, Tedrana e Ninfa; ed
avutane risposta che avevano la febbre, egli soggiunse: «Andate a dire
da parte mia che io do loro ordine di non aver più, febbre» . La
rotaia andò, e dal momento che intimò loro l'ordine del Santo, esse si
sentirono guarite.
«Era costume del venerabile Padre di spendere tutto
il giorno a guadagnare anime, sia con la predicazione, sia confessando,
sia praticando altre opere di carità. La sera poi andava a trovare le
suore, ed in presenza anche dei frati faceva loro un discorso o una
conferenza sui doveri dell'Ordine; perocché da lui stesso furono in ciò
istruite. Or avvenne che una sera tardò più del solito ad arrivare, e
le suore, persuase che ormai non venisse più, terminate le preghiere,
si ritirarono nelle loro celle. Ma ecco che ad un tratto suona la
campanella con la quale i fratelli davano il segnale alle suore che il
beato Padre era venuto a trovarlo. Si affrettarono esse allora di andare
in chiesa, ed aperta la grata, trovarono ch'egli era già seduto co'
suoi frati ad aspettarle. Il beato Domenico disse loro: - Figlie mie, io
ritorno dalla pesca, e il Signore mi ha fatto prendere un gran pesce. Ed
intendeva parlare di fra Gaudione, unico figlio di un certo signore
Alessandro, cittadino romano ed uomo munificentissimo da lui ricevuto
nell’Ordine. Tenne poi un lungo discorso, che fu a tutti di grande
consolazione; e dopo soggiunse: - Sarà bene, o figliole, che beviamo un
poco. - E chiamato fra Ruggero, che era il canovaio, gli disse di
portare del vino ed una tazza. Il fratello portò tutto, ed il beato
Domenico gli fece empir la tazza fino all'orlo; poi la benedì, bevve
per il primo, e dopo lui bevvero tutti gli altri frati che erano
presenti, fra chierici e laici in numero di venticinque. E tutti bevvero
finché loro piacque, senza che il vino diminuisse nella tazza. Quando
tutti i frati ebbero bevuto, il beato Domenico soggiunse: - Voglio che
bevano anche queste mie figlie. - E chiamata suor Nubia: Andate, le
disse, alla ruota, prendete la tazza e date da bere a tutte le suore. -
Andò essa con una compagna, portò la tazza che era pienissima, senza
versarne nemmeno una goccia, e prima bevve la priora, poi tutte le altre
finché ne vollero; ed il beato Padre ripeteva sovente: - Bevete a
piacer vostro, o mie figliole. - Erano esse centoquattro, e tutte
bevvero a piacimento loro; nondimeno la tazza restò sempre piena, come
se non si fosse fatto altro che versarvi continuamente vino; e quando fu
riportata via, era piena ugualmente fino all’orlo. Dopo tutto questo,
Domenico disse: - Il Signore vuole ch'io vada a S. Sabina. - Fra
Tancredi priore dei frati, e fra Oddone, priore delle monache, e gli
altri frati, e la priora con le suore furono tutti a scongiurarlo di non
partire, soggiungendo: - Ma, Padre santo, l'ora è tarda; siamo vicini
alla mezzanotte, e non conviene di mettersi in cammino. Ma egli, anziché
arrendersi alle loro preghiere, rispose: - Il Signore vuole
assolutamente ch'io parta; ci farà accompagnare da un angiolo. - E
preso con sé Tancredi, priore dei frati, e Oddone, priore delle
monache, si dispose a partire. Alla porta della chiesa, mentre tutti e
tre stavano per uscire, ecco che secondo la promessa del beato Domenico
un giovane di ammirabile bellezza, con in mano un bastone, come chi
debba porsi in viaggio, si offrì di unirsi a loro. Il beato Domenico
fece passare innanzi a sé i due compagni; il giovane si trovò così
alla testa ed egli dietro a tutti: e con quest'ordine andarono fino alla
porta della chiesa di S. Sabina, che trovarono chiusa. Il giovane, che
li avea preceduti, si appoggiò allora ad una parte della porta, la
quale subito si aprì; vi entrò egli per primo; e dietro di lui
entrarono i frati, ultimo il beato Domenico. Di poi il giovane ne riuscì,
e la porta si richiuse. Fra Tancredi disse al beato Domenico: - chi era
quel giovane, che ci ha accompagnati? Figlio mio, rispose, era un
angiolo inviato dal Signore per nostra scorta. - Frattanto suonò il
mattutino, e i frati, scesi in coro, si meravigliarono di trovarvi
Domenico co' suoi compagni, curiosi di sapere come fossero entrati,
mentre le porte erano chiuse.
«C'era in convento un novizio, cittadino romano, che
si chiamava fra Giacomo, il quale vinto da una fiera tentazione, avea
risoluto di lasciar l'Ordine appena finito il Mattutino; quando cioè si
sarebbero aperte le porte della chiesa. Domenico, avutane rivelazione,
finito il Mattutino fece chiamare il novizio, e dolcemente l'esortò a
non cedere alle arti del nemico, ma a perseverare con coraggio nel
servizio di Cristo. Ma il giovane sordo a quei consigli, ed a quelle
preghiere, alzatosi risolutamente, si levò l'abito, soggiungendo di
essere ormai irrevocabilmente deciso di andarsene. Il pietosissimo
Padre, mosso a compassione, soggiunse: - Figliuol mio, aspetta ancora un
poco, e poi farai quel che più ti piacerà. - E prostrato a terra si
pose a pregare. Si conobbe allora quali fossero i meriti del beato
Domenico al cospetto di Dio, e con quanta facilità ottenesse da Lui
quanto desiderava. Poiché non avea egli finita la sua preghiera, che già
il giovane, piangente ai suoi piedi, lo scongiurava di rendergli
l'abito, che, vinto da una tentazione, avea dismesso, promettendo che
mai più avrebbe abbandonato l'Ordine. Il venerabile Padre gli restituì
allora l'abito, ammonendolo nuovamente di restar fermo nel servizio di
Cristo. E così fu; fra Giacomo visse lungamente nell'Ordine e in modo
edificantissimo. Il giorno appresso, Domenico in mattinata tornò co'
suoi frati a S. Sisto; questi raccontarono in sua presenza a Suor
Cecilia ed alle altre monache tutto l'accaduto; ed il beato confermò
allora la narrazione con queste parole: - Figlie mie, il nemico di Dio
voleva rapire una pecora dall'ovile del Signore, ma il Signore l'ha
liberata dalle sue granfie».
L’anno 1575, sotto il pontificato di Gregorio XIII,
le monache di S. Sisto, lasciato il loro antico monastero a motivo della
malaria della campagna romana, si ritirarono sul Quirinale, nel nuovo
monastero dei Santi Domenico e Sisto, portando seco l'immagine della SS.
Vergine. San Sisto allora, spogliato di tutto, restò là nella
solitudine, sotto il solo usbergo delle sue memorie. Non marmi preziosi,
non bronzi cesellati, non colonne tolte dal cristianesimo alle antichità
profane, non tavole di pittori immortali, nulla insomma di ciò che
colpisce lo sguardo, invita a visitarlo. Il viaggiatore che, dal
sepolcro di Cecilia Metella e dal bosco della ninfa Egeria tornando in
Roma per la via Appia trova a destra un grande e squallido edifizio,
sormontato da un alto campanile - così rari in Roma - passa innanzi
senza neppure chiederne nome. Che importa a lui di S. Sisto vecchio? E
coloro stessi che rintracciano con amore le vestigia dei Santi, non
conoscono il tesoro che sta nascosto fra quelle mura, rimaste sempre
nella loro umiltà. Anche essi tirano innanzi, senza che indizi o alcuno
li avverta che in quel luogo abitò uno dei più grandi uomini del
cristianesimo, e vi operò tanti miracoli. Il cortile esterno, la
chiesa, la fabbrica del monastero, il recinto, rimangono tuttora., e
fino agli ultimi tempi della Rivoluzione francese i generali dell'Ordine
vi conservarono un appartamento. Nel secolo passato, in primavera ed in
autunno, soleva passarvi alcuni giorni il Sommo Pontefice Benedetto XIII,
che ne restaurò la chiesa cadente. Presentemente, il corpo del
monastero è trasformato in pubbliche officine, tranne la famosa sala
del Capitolo, ove Domenico risuscitò tre morti, ed ove ora è eretto
un'altare nel luogo stesso in cui Domenico offrì il santo Sacrifizio
pel giovane Napoleone. La chiesa è rimasta una delle stazioni del clero
romano, ed il mercoledì della terza settimana di Quaresima vi si
celebrano solennemente i divini uffici .
A S. Sabina è toccata miglior sorte. E’ vero che
fino dall'anno 1273, sotto il pontefice Gregorio X, cessò di essere la
residenza del generale dell'Ordine, passato al convento di S. Maria
sopra Minerva, nel centro di Roma; e solitario, come la via Appia, è
l'Aventino, dove neppur gli uccelli, suoi primi ospiti, abitano più.
Ma, una colonia di figli di S. Domenico è rimasta sempre all’ombra
delle mura di S. Sabina, alla cui, conservazione influì molto anche la
bellezza della sua, architettura. Nella chiesa, su un tronco di colonna,
vedesi una grossa pietra nera, che la tradizione vuole sia stata gettata
dal demonio contro Domenico, per disturbargli le sue notturne
meditazioni; e nel convento si trova la piccola cella, dove egli
talvolta si ritirava, e la sala, dove diede l'abito a S. Giacinto ed al
B. Ceslao. In un angolo del giardino poi, un arancio piantato da
Domenico offre ancora i suoi pomi d'oro alla mano pietosa del cittadino
e del forestiere.