VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
CAPITOLO X
Quarto viaggio di S. Domenico a Roma
Fondazione dei conventi di S. Sisto e di S.
Sabina
Miracoli che accompagnarono queste due fondazioni
Inviati qua e là i suoi frati, Domenico rimase
ancora per qualche tempo nella Linguadoca. Ne abbiamo la prova in un
trattato da lui conchiuso il dì 11 del seguente settembre, a proposito
delle decime già accordategli da Folco. Trattavasi di sapere fina a
qual punto si estendesse tal diritto; e fu convenuto che ne fossero
escluse quelle parrocchie che contassero meno di dieci famiglie; di più
furono eletti alcuni arbitri per comporre tutte le difficoltà che in
avvenire fossero potute nascere. Ciò fatto, Domenico con un solo
compagno, Stefano di Metz, riprese a piedi, com'era suo uso, la via
delle Alpi. La storia lo perde di vista fino a Milano, dove lo ritrova
alle porte della collegiata di S. Nazario a chiedere ospitalità a quei
canonici; i quali, in grazia dell'abito che indossava, lo ricevettero
come uno dei loro.
Giunto a Roma, sua prima cura fu di cercare un luogo
adatto per la fondazione di un convento. Ai piedi del monte Celio dalla
parte di mezzogiorno, lungo la via Appia e di fronte alle rovine
gigantesche delle terme di Caracalla, sorgeva, un'antica chiesa dedicata
a S. Sisto II, Papa e martire, dove altri cinque papi e martiri come lui
gli stavano accanto nella stessa tomba. A un lato della chiesa rifatta
da poco, eravi un convento quasi interamente costruito; però il
silenzio profondo che regnava intorno alla chiesa ed al convento, facea
contrasto coi recenti lavori, di cui per tutto apparivano segni
manifesti: chiaro indizio che inaspettato avvenimento avea interrotto
l'esecuzione di un qualche bel progetto. Ed in verità per la morte
d'Innocenzo III era stata sospesa la restaurazione di quel celebre ed
antico luogo, destinato dal Papa a raccogliere sotto una medesima regola
varie religiose, che vivevano in Roma con troppa libertà. Domenico, che
ignorava tutto questo, si affrettò a chiedere al Pontefice chiesa e
monastero; ed Onorio III a viva voce glie li cedè.
In tre o quattro mesi Domenico potè riunire in San
Sisto non meno di cento religiosi; ed una rapida e prodigiosa fecondità
successe a quella lentezza, che parve fino allora regolare i di lui
destini. Quest'uomo, che non avea cominciato la sua vera carriera che a
trentacinque anni, dopo averne spesi altri dodici a formare soli sedici
discepoli, se li vede al fine prostrarsi a’ suoi piedi con
quell'abbondanza con cui le spighe mature cadono sotto la falce, del
mietitore. Né c'è da stupirne. E’ legge di natura come di grazia che
una forza lungamente compressa, rotti i legami e le resistenze, dia
fuori con impeto. Così in tutti gli avvenimenti c'è un punto di
maturità che ne rende il successo prontissimo, non meno che
inevitabile. San Sisto posto sulla strada che percorrevano in altri
tempi i trionfatori romani per salire al Campidoglio, pel corso di un
anno fu spettatore di scene assai più meravigliose degli spettacoli a
cui i generali di Roma aveano accostumata la via Appia. In nessun altro
luogo o tempo Domenico dié meglio a conoscere l'autorità da Dio
conferitagli sulle anime; e mai la natura l'obbedì con più rispettosa
sudditanza. Siamo al momento più solenne della sua vita.
Bisognò da principio condurre a termine il
monastero. In questo frattempo Domenico riprese il corso delle sue
predicazioni nelle chiese, e delle solite istruzioni nel palazzo del
Papa: ed ogni giorno colla sua eloquenza riusciva a guadagnare qualche
nuovo discepolo per popolare quanto prima la parte abitabile del
convento. Uscito la mattina col suo solito bastone, la sera ritornava
con la preda, e l'edificio spirituale di S. Sisto progrediva così di
pari passo con quello materiale. Il demonio, geloso di così felici
risultati, si provò a turbarne la gioia. Un giorno, mentre i frati
accompagnavano l'architetto sotto una volta per sentire se era da
restaurarsi o da abbattersi, la volta cadde e seppellì l'architetto tra
le macerie. Fu immensa la desolazione dei frati radunati intorno alle
macerie che ricoprivano il corpo di quell'infelice, tutti timorosi per
l'anima di lui, forse colto in cattivo punto, e per le male voci che si
sarebbero levate nel volgo; né, cosi costernati, sapevano più che
fare. Ma ecco che arriva Domenico, e fatto trar fuori dai sassi quel
corpo frantumato, lo fa portare dinanzi a sé, rivolge una preghiera a
Colui che ha promesso di nulla negare alla fede; e la vita obbediente
alla di lui preghiera, rianima quelle membra sanguinanti, che stavano lì
dinanzi.
Un'altra volta Giacomo di Melle era malato tanto
gravemente che gli erano stati amministrati tutti i Sacramenti. I frati
raccolti intorno al suo letto cercavano colle preghiere di aiutare
quell'anima al gran passo, dolenti al sommo di perdere un uomo, pel
momento quasi necessario, non trovandosi fra loro altri, che in Roma
fosse come lui conosciuto. Domenico, a tanta ambascia de' suoi
figliuoli, ordinò che lo lasciassero solo nella camera, e chiusa la
porta, si mise a pregare così fervorosamente che valse a trattenere la
vita sulle labbra di quel morente.
L'ufficio di procuratore di cui era rivestito Giacomo
di Melle, era ordinato a provvedere coll'aiuto della Provvidenza ai
bisogni temporali di S. Sisto, privo affatto di rendite, e che si
manteneva colle elemosine giornaliere raccolte dai frati di porta in
porta. Una mattina Giacomo di Melle fece sapere a Domenico che non vi
era pel desinare che due o tre pani. Parve che Domenico godesse di tal
notizia; ed ordinò al procuratore che di quel poco di pane ne facesse
quaranta pezzetti, quanti erano i religiosi, suonando alla solita ora la
mensa. Entrati i frati in refettorio, ciascuno non si trovò davanti che
un piccolissimo boccone di pane; pure recitate le preghiere quasi con
maggior fervore del solito, si posero a mensa. Domenico, seduto alla
tavola priorale, stava col cuore rapito in Dio. Quand'ecco che due
giovani vestiti di bianco entrano nel refettorio, ed avanzandosi fino
alla tavola dov'era Domenico, depositano i pani che avevano dentro i
loro mantelli.
Lo stesso miracolo accadde ancora un'altra volta; e
fu accompagnato da tali circostanze, che merita sentirlo raccontare
dalla bocca stessa dell'antichità. «Quando i frati abitavano ancora a
S. Sisto, ed erano quasi in numero di cento, un giorno il B. Domenico
comandò a fra Giovanni di Calabria ed a fra Alberto Romano di andare
per la città a raccogliere elemosine. Girarono, ma sempre indarno,
dalla mattina fino all'ora di terza. Ripresa perciò la via del
convento, erano già presso la Chiesa di S. Anastasia, quando una donna
molto affezionata all'Ordine, visto che non riportavano a casa niente,
diede loro un pane, dicendo: - Non voglio che ve ne torniate al convento
del tutto a mani vuote. - Poco però si erano da lei allontanati, che si
avvicinò loro un uomo, chiedendo istantemente un po' di carità. Si
scusarono sulle prime di non potergli dar nulla, non avendo niente
neppur per loro; ma quegli insisteva sempre più, ed essi rivoltisi l'un
l'altro: - A che ci serve, dissero, un pane? diamolo a lui per amor di
Dio. E glielo dettero; e subito lo persero di vista. Al rientrare in
convento, il pietoso Padre, a cui lo Spirito Santo aveva tutto rivelato,
si fece loro incontro con volto tutto lieto e sereno, dicendo: -
Figlioli, non avete riportato nulla? - No, padre. - E gli raccontarono
ciò che era loro accaduto, e del pane donato al mendico. - Quel povero
era un angelo del Signore, riprese il Santo, e il Signore saprà ben e
come provvedere ai suoi figliuoli; andiamo a pregare. - Ed andò in
chiesa. Uscitone poco dopo, disse ai fratelli conversi di chiamare la
comunità a refettorio. Questi risposero: - Ma, padre santo, come volete
che chiamiamo i religiosi, se non c'è nulla da mangiare? - Ed
indugiavano a bella posta ad eseguir l'ordine ricevuto. Allora il beato
padre fece chiamare fra Ruggero, il dispensiere, e gli comandò di
riunire i frati pel desinare, ché il Signore avrebbe provveduto ai loro
bisogni. Si stesero adunque le tovaglie, si apparecchiò, e, dato il
segno, tutta la comunità entrò in refettorio. Il beato padre benedì
la mensa, e tutti si sedettero. Fra Enrico Romano, cominciò la lettura.
Il beato Domenico intanto, con le mani giunte poggiate sopra la tavola,
pregava. Ed ecco comparire nel mezzo del refettorio, com'egli per
ispirazione dello Spirito Santo avea promesso, due bellissimi giovani,
ministri della divina Provvidenza, i quali portavano pani in due candide
tovaglie, che pendevano dalle loro spalle davanti e di dietro.
Cominciando dalle file inferiori, uno a destra e l'altro a sinistra,
posero davanti ad ogni frate un pane di ammirabile bellezza. Giunti
dinanzi al beato Domenico, dopo di aver posto anche davanti a lui un
pane intiero, chinarono la
testa e disparvero, senza che nessuno sino a questo
giorno abbia saputo donde fossero venuti e dove se ne ritornassero. Il
beato Domenico disse allora ai fratelli: - Miei fratelli, mangiate il
pane, che il Signore vi ha mandato. - Poi rivolto a quelli che
servivano, ordinò loro di portare un po' di vino. Ma essi risposero: -
Padre santo, non ce n'è. - Allora il beato Domenico, ripieno dello
spirito di profezia, replicò: - Andate alla botte e attingete pei frati
il vino che il Signore ha mandato loro. - Andarono e trovarono la botte
piena di vino eccellente, che si affrettarono di portare in tavola. Ed
il beato Domenico disse: - Bevete, miei fratelli, il vino che il Signore
vi ha mandato. - Mangiarono adunque e bevvero a loro piacimento, sia
quel giorno, che il seguente ed il terzo ancora. Ma dopo la refezione
del terzo giorno Domenico ordinò che il rimanente del pane e del vino
fosse distribuito ai poveri, né permise che se ne ritenesse punto in
casa. Durante quei tre giorni nessuno andò a cercare l'elemosina,
avendo Dio mandato pane e vino in abbondanza. Quindi il beato padre fece
un bel discorso ai frati, esortandoli a non diffidar mai della divina
Provvidenza, neppure nelle strettezze più estreme. Fra Tancredi, priore
del convento, fra Ottone e fra Enrico di Roma, fra Lorenzo
d'Inghilterra. fra Gaudione, fra Giovanni Romano, e molti altri si
trovarono presenti a questo miracolo, e lo riferirono a Suor Cecilia ed
alle altre Suore, che ancora abitavano sempre a S. Maria in Trastevere,
e portarono loro anche un po' di quel pane e di quel vino, che esse
conservarono per lungo tempo come preziose reliquie.
«Fra Alberto mandato dal beato Domenico con un
compagno a cercare l'elemosina, fu uno di quei due, di cui il Santo
predisse a Roma la morte. L'altro fu fra Gregorio, uomo di bellissime
sembianze e pieno di grazia, il quale per primo, se ne volò al Signore,
dopo ricevuti devotamente i santi Sacramenti. Tre giorni dopo anche
Alberto, ricevuti con egual pietà i Sacramenti, passò da questo
carcere tenebroso, alla splendida magione dei cieli» .
Quest'ingenuo racconto ci fa penetrare nell'intimo
della famiglia di S. Sisto, e meglio di ogni altra descrizione ci
riporta ai primitivi tempi dell'Ordine. Si vede come senza oro né
argento sorgessero popolosi monasteri, come la fede supplisse ai beni di
fortuna, e quale squisita semplicità fosse in quegli uomini, sebbene la
maggior parte di essi avesser abitato sontuosi palazzi. Il Tancredi, ad
esempio, priore di S. Sisto, era cavaliere di nascita, ed avea occupato
onorifico ufficio nella corte dell'imperatore Federico II. Si trovava
egli a Bologna sul principio dell'anno 1218, quando Domenico, come
vedremo a suo luogo, inviò colà alcuni suoi frati; ed un giorno, senza
sapere neppur lui il perché, si mise a considerare il pericolo che
correva la sua eterna salute. Turbato da questo subito pensiero, rivolse
una preghiera alla Santissima Vergine; e la notte seguente apparsagli in
sogno la Madonna, gli disse: «Entra nel mio Ordine». Tancredi si
svegliò in quel momento, e poi riprese sonno. In questo secondo sonno
vide due uomini rivestiti dell'abito dei Frati Predicatori, uno dei
quali vecchio, che così gli disse: «Tu domandi alla Santissima Vergine
che t'indirizzi nella via della salute; vieni con noi e sarai salvo» .
Ma egli, che non conosceva affatto l'abito di quei religiosi, credé
tutto un'illusione. Al mattino alzatosi, pregò l'albergatore che lo
conducesse ad una chiesa per ascoltare la Messa. L'albergatore lo
condusse ad una piccola chiesa detta Santa Maria di Mascarella, da poco
tempo affidata ai Frati Predicatori. Appena entrato, Tancredi s'imbatté
in due frati, tra cui riconobbe subito quel vecchio apparsogli in sogno.
Assestati allora i suoi affari, prese senz'altro l’abito dell'Ordine,
ed andò a Roma a raggiunger Domenico.
Fra Enrico, di cui è fatta menzione nel racconto di
Suor Cecilia, era un nobile giovane romano. I suoi parenti, indignati di
vederlo frate, aveano deliberato di strapparlo via dal convento; ma
saputolo Domenico, fece partir subito dal convento, prendendo, per via
Nomentana, il giovane con alcuni compagni. I parenti lo inseguirono e lo
raggiunsero alle sponde dell'Aniene, quando aveva già passato il fiume.
Vedendosi sul punto di cadere nelle loro mani, Enrico alzò il cuore a
Dio, invocandone protezione pei meriti del suo servo Domenico; ed ecco
che le acque del fiume gonfiarono a vista d'occhio, rendendo così
impossibile ai cavalieri di raggiungere l'altra riva. Questi allora si
ritirarono, ed Enrico poté tornare tranquillamente a S. Sisto.
Fra Lorenzo d'Inghilterra, testimonio anch'esso del
miracolo dei pani, era quel medesimo inviato da Domenico a Parigi al
momento della dispersione dei frati nelle varie regioni, ritornato da
poco insieme a Giovanni di Navarra. Anche due altri frati, Domenico di
Segovia e Michele di Uzero erano tornati dalla Spagna senza aver
riportato alcun frutto.
Frattanto Onorio III avea ripreso il progetto del suo
predecessore, di riunire cioè in un solo monastero e sotto la medesima
regola alcune religiose sparse in diverse case di Roma; e ne fece parola
a Domenico, siccome l'uomo più adatto per una impresa così delicata.
Domenico ben volentieri accettò la proposta del Pontefice, tanto più
che vedeva in ciò un mezzo di riportare S. Sisto alla sua primitiva
destinazione, fondandovi un monastero di Religiose Domenicane sul
modello di Notre-Dame di Prouille. Solamente domandò al Papa la
cooperazione di alcuni Cardinali, i quali supplissero colla loro autorità
alla sua pochezza. Ed il Papa ne designò tre: Ugolino, vescovo di
Ostia; Stefano di Fossanova, del titolo dei Santi Apostoli; e Niccolò,
vescovo Tusculano. In cambio poi di S. Sisto, Onorio donò a Domenico la
chiesa di S. Sabina sul monte Aventino, ed una parte del proprio
palazzo, che si trovava a fianco della chiesa. Si incominciarono adunque
le necessarie modificazioni: a S. Sisto per ricevervi le suore, a S.
Sabina per trasferirvi i frati.
Per quanto Domenico fosse preoccupato da questo
duplice impegno, pur tuttavia continuava le sue predicazioni. Un giorno
che doveva predicare in San Marco, una donna abbandonò tutto, anche il
figlioletto malato, per andare ad ascoltarlo. Tornata dopo predica a
casa, trovò il bambino morto. La sua speranza non fu allora meno viva
del suo dolore; e dato in braccio alla donna di casa il bambino, senza
neppur prender tempo per versare una lacrima, vaa San Sisto. Chi dalla
via Appia entra nel cortile di S. Sisto, trova a sinistra la chiesa ed
il monastero, e dinanzi a sé la porta di una stanza bassa ed isolata,
chiamata il Capitolo. Domenico era ritto sulla porta del Capitolo quando
la desolata madre entrò nel cortile. Corse essa difilato verso di lui,
gli pose ai piedi l'esanime corpicino e con sguardi e con preghiere
scongiurò il Santo a ridonargli il figliolo. Domenico si ritirò per un
momento dentro il Capitolo, poi ritornò sulla porta, e fatto il segno
della croce sul fanciullo si chinò, lo prese per mano, lo alzò e lo
rese sano e salvo alla madre, ordinandolo di non dire nulla a nessuno
dell'accaduto. Ma che? subito se ne sparse la notizia per tutta Roma; il
Papa avrebbe anzi voluto che il miracolo fosse pubblicato dai pulpiti in
tutte le chiese, se Domenico non si fosse opposto, fino a minacciare di
lasciar Roma per sempre e recarsi fra gl'infedeli. Ciò nonostante la
cosa suscitò gran rumore, e la venerazione per Domenico giunse al
sommo. Dovunque egli compariva, e nobili e popolani si affollavano
intorno a lui siccome ad un angiolo di Dio; e chi poteva giungere a
toccarlo si credeva al sommo della felicità. Tagliavano persino i lembi
del suo mantello per farne reliquie; tanto che lo ridussero in modo, che
gli copriva appena le ginocchia. Qualche volta i frati impedivano che
gli tagliuzzassero così le vesti; ed egli allora: «Lasciateli fare; lo
fanno per devozione» . Del miracolo or ora riferito furono testimoni
fra Tancredi, fra Oddone, fra Enrico, fra Gregorio, fra Alberto e molti
altri ancora.
Per quanto però la santità di Domenico fosse
manifesta, neppure lui riusciva a vincere tutte le difficoltà, che
insorgevano contro la riunione a S. Sisto delle religiose sparse per
Roma, non volendo affatto la maggior parte di esse rinunziare alla
libertà, fino allora goduta, di potere uscire dal monastero e di
visitare i parenti. Ma Dio venne in aiuto al suo servo. Eravi allora in
Roma un monastero di donzelle, chiamato, dal luogo dove si trovava, S.
Maria in Trastevere. In esso si conservava un'immagine della Santissima
Vergine, di quelle che la tradizione attribuisce al pennello di S. Luca:
immagine celebre assai e venerata dal popolo, perché, portata in
processione per la città dal pontefice S. Gregorio, l'aveva liberata
dal flagello della peste, ed ancora perché si riteneva che, trasportata
dal papa Sergio III nella basilica di San Giovanni in Laterano, da se
stessa fosse tornata alla sua antica dimora. La badessa di detto
monastero adunque e tutte le altre monache, una sola eccettuata, si
offrirono volontariamente a Domenico, e nelle sue mani fecero
professione di ubbidienza ad un'unica condizione, che avessero potuto
portare con loro l'immagine della SS. Vergine; che se l'immagine da se
medesima avesse poi lasciato S. Sisto per tornare alla sua chiesa
primitiva, anche il loro voto di ubbidienza sarebbe stato nullo.
Domenico accettò la condizione, e con l'autorità che gli era stata
conferita, proibì loro di mai più oltrepassare la soglia del
monastero. Queste religiose appartenevano alle prime famiglie della
nobiltà romana. Onde saputosi dai parenti che esse si erano obbligate a
quella riforma, furono subito a S. Maria per dissuaderle da quanto
avevano promesso, tacciando Domenico, acciecati com'erano dalla
passione, di uomo sconosciuto ed avventuriero. I loro discorsi
intiepidirono l'ardore delle religiose, talchè molte si pentirono del
voto emesso. Domenico internamente avvertito di ciò, si recò una
mattina a, visitarle, e dopo celebrata la Messa, alla fine di un
discorso, soggiunse: «Io so, mie figliole, che voi provate rammarico
della vostra risoluzione, e che volete camminare fuori della via
tracciatavi dal Signore. Solo quelle allora che sono ancora fedeli,
facciano di nuovo la professione nelle mie mani» . Tutte, la badessa a
capo, rinnovarono insieme l'atto che le spogliava della loro libertà.
Domenico prese allora le chiavi del monastero, e vi pose a guardia
alcuni fratelli conversi, i quali giorno e notte invigilassero, con
proibizione alle Suore di parlare a chicchessia senza testimoni.
Giunte le cose a questo punto, i cardinali Ugolino,
Stefano di Fossanova. e Niccolò, si riunirono a San Sisto il giorno
delle Ceneri dell'anno 1228, cioè il 28 febbraio, cadendo in quell'anno
la Pasqua ai 15 di aprile. Anche la badessa di S. Maria in Trastevere vi
si era recata con le sue monache per dimettersi solennemente dal suo
ufficio, e cedere a Domenico ed ai frati tutti i diritti del monastero.
«Mentre adunque il beato Domenico stava seduto coi cardinali, presenti
la badessa e le sue figlie, ecco che entra un uomo, strappandosi i
capelli e gridando disperatamente. - Che c'è, che c'è? gli fu
domandato. - Il nipote di Monsignore Stefano, rispose, è caduto da
cavallo, ed è morto! - Il giovane si chiamava Napoleone. A tal notizia
lo zio, venuto meno, si abbandonò sul petto del beato Domenico. Ne tu
tosto sollevato; ed il beato Domenico, alzatosi, lo spruzzò di acqua
benedetta: lasciatolo quindi fra le braccia degli altri, egli corse sul
luogo dove giaceva il corpo del giovane, tutto calpestato e orribilmente
malconcio. Ordinò il Santo che fosse trasportato subito in una camera
Separata; intanto fra Tancredi e gli altri frati preparassero per la
Messa. Il beato Domenico, i cardinali, i frati, la badessa, le monache
si portarono allora al luogo dov'era l'altare, ed il beato Domenico
celebrò la Messa, commosso fino alle lacrime. Giunto all'elevazione del
corpo del Signore, tenendolo, come suol farsi, in alto, egli medesimo
apparve alzato da terra di un cubito, e tutti, lo videro e ne rimasero
dallo stupore. Terminata la Messa, i cardinali, la badessa, le monache,
tutti insomma i presenti, ritornarono dov'era il corpo del morto, e
Domenico, accostatosi al cadavere, colle sue santissimo mani ne
ricompose le membra, poi si prostrò a terra pregando fervidamente e
piangendo. Per tre volte mise le sue mani su quel corpo esanime, e per
tre volte si prostrò. Alzatosi la terza volta, fece il segno della
croce sul defunto, e stando ritto dalla parte dove questi aveva la
testa, con le mani levate al cielo e col corpo alzato da terra più d'un
cubito, gridò al alta voce: - O giovane Napoleone, io ti dico nel Nome
di Nostro Signor Gesù Cristo: alzati. - E d'un tratto, alla vista di
tutti gli accorsi alla notizia di così grave disgrazia, il giovane si
alzò sano e salvo, dicendo al beato Domenico: Padre, datemi da
mangiare. - Il beato Domenico gli dié da mangiare e da bere, e lo rese
festante allo zio cardinale, senza che rimanesse traccia di alcuna
ferita» .
Quattro giorni dopo, cioè la prima domenica di
quaresima, le monache di S. Maria in Trastevere, quelle di S. Bibiana e
di altri monasteri, con alcune altre donne secolari, in tutte
quarantaquattro, entrarono in S. Sisto. Fra esse c'era anche Suor
Cecilia, di anni diciassette, monaca di S. Maria in Trastevere; quella
Suor Cecilia, alla quale siam debitori di averci fatto conoscere i
principali tratti della vita del santo Patriarca nel tempo di cui ora
parliamo. Ce li ha conservati in una memoria fatta scrivere sotto sua
dettatura, vero capolavoro di narrazione per semplicità e verità .
La notte del giorno stesso in cui le monache fecero
l’ingresso in S. Sisto, vi fu trasferita anche l'immagine di S. Maria
in Trastevere. Si preferì la notte, perché i romani si opponevano a
questa traslazione. Domenico, accompagnato dai cardinali Stefano e
Niccolò, e da molta altra gente che lo precedeva e seguiva con in mano
fiaccole accese, portava l'immagine sulle proprie spalle. Erano tutti
scalzi. Le monache, anch'esse a piedi nudi, aspettarono in orazione
l'immagine a S. Sisto, dove felicemente fu collocata.
Tutti questi fatti, compreso il viaggio dalla Francia
a Roma, avvennero nello spazio di soli cinque o sei mesi, cioè dall'11
settembre 1217 al principio del marzo dell'anno seguente. E nonostante
tali e tante occupazioni, Domenico trovava ancor tempo per altre
particolari opere di carità.
Recavasi spesso a visitare le murate, donne che
volontariamente si chiudevano fra anguste mura per non uscirne mai più.
Ve n'erano in diverse parti della città, nelle deserte pendici del
monte Palatino, nel fondo delle vecchie torri da guerra, fra gli archi
degli acquedotti, sentinelle dell'eternità, collocate fra le rovine.
Domenico sul tramontar del giorno le visitava, pensava sempre a mettere
in serbo un po' di forza per recarsi fino a loro; e dopo aver predicato
in mezzo alla folla, andava a predicare nella solitudine. Una di queste
murate, di nome Lucia, che abitava dietro la chiesa di S. Anastasia,
sulla via di S. Sisto, aveva un braccio corroso fino all'osso da un male
crudele. Domenico la sanò una sera con una semplice benedizione.
Un'altra, il cui petto era pasto ai vermi, stava chiusa in una torre,
vicino alla porta di S. Giovanni in Laterano. Domenico l'andava a
confessare, e di tanto in tanto le portava la Santa Comunione. Una volta
la richiese di fargli vedere uno di quei vermi che la tormentavano, e
che lei con grande amore custodiva nel seno, quasi ospiti inviati dalla
Provvidenza. Bona, così chiamavasi, accondiscese al desiderio di
Domenico. Ma nella mano del Taumaturgo il verme si cangiò in una pietra
preziosa, ed il petto di Bona tornò mondo, siccome quello di un
fanciullo.
Domenico era allora nella pienezza della maturità.
Il suo corpo, la sua anima avevano raggiunto quello stadio della vita,
in cui la vecchiezza non è ancora che perfezione e grazia del vigore.
Giusto di statura e magro nella persona, aveva un bel viso leggermente
colorito di sangue, begli occhi, e capelli e barba di un biondo
piuttosto acceso. Sulla fronte e fra le sopracciglia appariva come un
chiaro splendore, che gli attirava rispetto ed ammirazione. Era sempre
lieto e piacevole, quando le afflizioni del prossimo non lo muovevano a
compassione. «Le mani aveva lunghe e belle; la voce maestosa e sonora;
mai fu calvo, e la religiosa corona dei suoi capelli restò sempre
intiera, seminata solo da qualche capello bianco» .
Così ce lo dipinge Suor Cecilia, che lo conobbe nei
più bei tempi di S. Sisto e di S. Sabina.