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GIUSEPPE BARZAGHI

SOLILOQUI SUL DIVINO

MEDITAZIONI SUL SEGRETO CRISTIANO

edizioni studio domenicano

TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

© 1997 - PDUL Edizioni Studio Domenicano Via dell'Osservanza 72 - 40136 Bologna - ITALIA - Tei. 051/582034

Finito di stampare nel mese di novembre 1997 presso le Grafiche Dehoniane - Bologna

giuseppe barzaghi è sacerdote domenicano. Nato a Monza (MI) il 5.3.1958. Dottore in Filosofìa (Univ. Cattolica di Milano) e Teologia (Pont. Univ. S. Tommaso in Roma). Docente di epistemologia teologica (Univ. Cattolica di Milano e Studio Teologico Accademico Bolognese) e filosofia teoretica (Ateneo domenicano di Bologna). Socio della Pontificia Accademia di S. Tommaso d'Aquino. Direttore della rivista Divus Thomas.

Principali pubblicazioni: Metafisica della cultura cristiana (ESD, Bologna 1990); La meditazione (ESD, Bologna 1992);

L'essere, la ragione, la persuasione (ESD, Bologna 1994); La filosofia della predicazione (ESD, Bologna 1995); Dio e ragione. La teologia filosofica di S. Tommaso d'Aquino (ESD, Bologna 1996); Dialettica della Rivelazione. Proposta di una sistematica teologica (ESD, Bologna 1996); Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell'essere (ESD, Bologna 1997).

Flevi Adoratione Passus Benedictae Umbrae Paradisi Genua Flectens

IL SEGRETO

Non ne posso più!

Non ne posso più! Io tra poco scoppio. Mi sento tutto ribollire. Non so neppure se si tratti di un ribollire fisico o spirituale.

E inutile che io continui a ripetermi che devo stare calmo: è anche questa una forma di tortura, che non fa altro che alimentare la tempesta,

Non riesco più a sopportare i discorsi che sento fare sul cristianesimo.

Dio mio, che tormento! A volte non riesco neppure a sopportare di sentir pronunciare la parola Gesù.

Perché tutto questo alone di falsa dolcezza? Perché ci si crogiola in racconti sospesi a mezz'aria tra una storia che vuole o deve essere cruda e una fantasia addomesticata e bugiarda?

Ma chi si accontenta della pura storia? Che cosa vuoi dire che un fatto è storico? Forse che ha la garanzia della verità?

Più vado avanti e più mi convinco che alla classica divisione binaria del senso del termine stona occorre aggiungere un terzo senso: alla storia come res gestae - cioè gli avvenimenti - e alla storia come rerum gestarum - cioè la ricerca o la ricostruzione dei fatti storici e delle loro cause - si deve aggiungere la storia come frettala...

La storia come ricerca e ricostruzione degli accadimenti è sempre accompagnata da una buona dose di soggettività, di pareri personali, di punti di vista opinabili, di interessi di parte.

Chissà se arriva a cogliere obiettivamente il suo bersaglio, oppure lo coglie per il semplice fatto che il suo bersaglio è precostituito e già colpito prima ancora di essere mirato.

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Quando ci penso, mi viene in mente la barzelletta del pescatore che racconta a un amico come è andata la pesca. Un pesciolino di pochi centimetri diventa un tonno...

Oppure, quando non ci si fonda sulla testimonianza diretta, ma ci si affida alla documentazione mediata di altri - si riportano cioè le voci - la cosa si trasforma in chiacchiera, diceria, con le solite espansioni del caso: la leggera sordità, per il movimento di cerume nell'orecchio, dopo una nuotata, alla fine della "comunicazione di notizia" diventa una sordità permanente per embolia...

La storia è quasi sempre un gioco all'espansione: ci si diverte a gonfiare le notizie e a drammatizzarle per renderle più credibili, cioè più realistiche... E poi ci si accorge che questo reale è tutto fantasticato frottolosamente\ (Non è un errore di stampa:

frettolosamente = neologismo avverbiale da trottola; come frettolosamente viene da fretta. Che poi la trottola storica dipenda dalla fretta della narrazione o del narratore è questione che lascio volentieri risolvere ad altri).

Viva il razionalismo - almeno qui.

Ho sempre gustato a fondo la celebre pagina del Discorso sul metodo (parte prima) di Cartesio relativa alla storia. Dice Cartesio: «Le favole fanno immaginare come possibili molti avvenimenti che non lo sono per nulla e... le storie più fedeli, ammesso che non cambino ne aumentino il valore delle cose per renderle più degne di esser lette, omettono quasi sempre le circostanze più basse e meno illustri; e da ciò deriva che il resto non appare più quello che è».

D'altra parte, un fatto è un fatto: da solo non dice niente; oppure non dice altro oltre al fatto che c'è, che succede o che è successo qualcosa.

Il che cosa sia poi il qualcosa che succede, o che è successo, non è un fatto, ma un'essenza: qualcosa di stabile, che non ha niente a che vedere con l'accadere.

Ciò che accade è un qualcosa di determinato: ciò che conta è il qualcosa che accade, non l'accadere di questo qualcosa. L'accadere come accadere è anonimo.

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Quanto all'accadere, la nascita di un uomo e l'accensione di un fiammifero sono uno stesso fatto. Solo dal punto di vista del che cosa (cioè l'essenza) accade, si può rilevare la differenza e il diverso grado di importanza dell'accadimento.

Perciò l'accadimento, l'evento in quanto evento, non ha un grande valore.

Ecco, è forse proprio questo concetto che mi infastidisce tanto nel modo narrativo con cui sento farfugliare la "proposta" cristiana.

Non sopporto più il sentir parlare di "Evento" cristiano, insistendo sulla nozione di "Evento". La riduzione del Cristianesimo ad evento è uno svilimento del Cristianesimo stesso.

Ed è ovvio che questa insistita sottolineatura dell'Evento intende essere proposta come una qualificazione essenziale del Cristianesimo. Si insiste nel dire: "II Cristianesimo è un Evento, anzi è l'Evento per eccellenza".

Bella trovata! Così si introduce l'insignificante nel significato: si fa diventare insignificante ciò che si vuoi invece caricare di significato !

Se in quanto fatto, accadimento, evento, l'accensione di un fiammifero e la nascita di un uomo sono equivalenti, l'introduzione della fattualità nell'ordine dell'essenza del Cristianesimo equivale alla riduzione del valore del Cristianesimo all'accensione di un fiammifero...

Mi inchino a tanta arguzia... e a tanta... elasticità mentale!

Però, anche se siamo nell'era della plastica e della gomma, mi ostino a pensare che l'intelletto non sia un derivato del petrolio, ne sia fatto di caucciù - pur riconoscendo le ovvie eccezioni che il caso menzionato comporta...

E che enfasi ridicola accompagna questa strana teologia dell'evento, quando diventa omelia.

"Dio,... colui che è da sempre,... l'eterno,... irrompe nella storia; si fa uno di noi e cammina accanto a noi...".

Mentre pronunciava queste parole, il predicatore che ho ascoltato teneva gli occhi chiusi, la testa rivolta verso l'alto e

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soppesava quello che diceva con pause che volevano significare l'importanza e la solennità del suo dire.

Eh sì, quanta ispirazione ci vuole per dire delle corbellerie! O comunque ci vuole del gran coraggio per spacciare come ispirate delle sciocchezze.

Stando a questa sontuosa descrizione, l'essenza del Cristianesimo si risolverebbe in una passeggiata con un extraterrestre, camuffato da uomo, dopo che è precipitato sulla terra.

Certo che se le cose stessero proprio in questi termini, il Cristianesimo sarebbe la trama di un film ad effetti speciali. A saperlo raccontare e interpretare bene dal pulpito, si farebbe il record di incassi nelle questue della messa domenicale...

Perché sono delle corbellerie? E presto detto.

Per prima cosa, Dio è certamente eterno, anzi è la stessa eternità, ma questo non è mica sinonimo di essere da sempre e per sempre. Eterno non è ciò che non ha principio ne fine perché ha una durata interminabile. A questa condizione anche il tempo sarebbe eterno: una durata infinita di istanti successivi.

Ma l'eternità non è il tempo. Non la si misura allo stesso modo. La durata dell'eterno è un istante insuccessivo, cioè assolutamente permanente. L'eternità è tutta insieme in un istante, non è da sempre e per sempre come se fosse estesa all'infinito in modo indeterminato. /

Per favore, non cominciamo a fantasticare un Dio con la barba e i capelli bianchi alla Matusalemme!

In secondo luogo, Dio non irrompe nella storia, perché non irrompe da nessuna parte. Con buona pace dei sostenitori della tesi della assoluta onnipotenza divina, Dio non può far parte dei nuclei speciali antisommossa.

Dio non irrompe da nessuna parte perché, in forza della presenza di immensità, è ovunque. Così il sempre successivo del tempo è permeato da sempre dalla presenza insuccessiva di Dio.

In terzo luogo, Dio non può proprio farsi uno di noi, perché Dio non può farsi proprio un bei niente. Dio non può mutare, divenire: quindi non può farsi o divenire l'altro da sé.

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Un Dio che cambia non è Dio. Se cambiasse, ciò dipenderebbe o dall'acquisire qualcosa o dal perdere qualcosa. Nell'uno, come nell'altro caso, Dio sarebbe o prima o dopo mancante di qualcosa: non sarebbe cioè l'assoluta perfezione, alla quale - appunto - non manca assolutamente nulla.

In quarto luogo - ma si tratta di una conseguenza -, Dio non cammina accanto a noi, perché non può divenire (camminare) e non può esserci accanto, visto che è in noi, come in ogni cosa, per la sua presenza di immensità.

Come sono stanco di sentire quelle fanfaronate contrabbandate per esigenze di linguaggio pastorale, quando invece sono il velo pietoso che nasconde l'ignoranza o l'insufficienza di un prete.

Non riesco più a trattenermi perché sento che si tratta di un tradimento. Anche mio, se sto zitto.

La cosa tragica è che se le cose stessero in quei termini, se il Cristianesimo fosse davvero quella "passeggiata con l'extraterrestre", io mi tirerei fuori dalla comitiva.

Ho paura di non saper più credere.

Sto per lungo tempo davanti al tabernacolo, ma non riesco a partorire nessun affetto o pensiero teologico...

"Davanti a tè sto come una bestia, Signore!".

Il silenzio claustrale mi soffoca e mi protegge...

Unica consolazione è la compagnia angelica.

10 sono uno gnostico che sa ancora gridare: "abbi pietà di me, Signore!".

Ten ten ten ten ten ten...

11 suono, quasi lieve e monotono, della campanella che indica all'esterno l'inizio dell'ufficiatura corale, mi richiama a un senso di pietà.

E tutto si rappacifica.

E come una dolce sconfitta. Si soccombe volentieri perché la giusta serietà della vita smorza ogni violenza e attutisce ogni clamore sguaiato.

Per provarla e riprovarla, a volte mi metto a guardare, ascoltando il ricercar a tré deH'Offerta Musicale di]. S. Bach, lo spet-

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tacolo apparentemente desolante delle case diroccate o quelle che negli anni settanta venivano occupate: imbrattate di scritte;

panni stesi dove ci si sarebbe aspettati di vedere delle colorite ed eleganti fioriere. Che strano senso di pace si coglie nell'accet-tare ciò che è perché è, così com'è.

E la bellezza della resa di fronte a ciò che è giusto perché irreversibilmente è così com'è. Il giusto gode di una particolare bellezza: non è esaltante, ne avvilente.

E una specie di solitudine eroica, come quella che può evocare la tonalità di do minore.

Non è la storia che è maestra di vita, ma è la vita che è maestra a se stessa.

La vita non ha segreti fuori di sé. La vita stessa è il segreto più profondo.

Non si può disprezzare la vita. Lo stesso disprezzo della vita è paradossalmente un'esigenza vitale: è dettato dalla vita che vuole una maggior pienezza di sé.

Così, anche il Cristianesimo, con il suo profondo segreto, il suo mistero, appartiene all'ordine della vita. Non può essere altrimenti.

Il segreto cristiano è un segreto vitale.

Forse è proprio questo il motivo per il quale sento come un tradimento la descrizione dell'essenza del Cristianesimo in termini sgradevolmente fiabeschi o di una asettica fenomenologia da enciclopedia delle religioni.

Nella sua essenza, il Cristianesimo è vita. E il segreto di questa vita è Dio stesso.

Sì, il Cristianesimo è il coinvolgimento della vita divina con la vita umana e il coinvolgimento della vita umana con la vita divina.

La parola che racchiude in sé questo segreto è la parola Grazia.

La Grazia è infatti la partecipazione della vita divina alla creatura ragionevole. L'uomo, in forza della Grazia, è in comunione con la vita divina, perché la vita divina si manifesta come presente nella vita umana.

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II segreto cristiano è dunque il segreto della divinizzazione della vita umana e della umanizzazione della vita divina.

Perché non si parla più della Grazia? Oppure, se se ne parla, se ne parla in termini più fumosi di una intossicante liturgia manierista?

Forse aveva ragione mio nonno quando mi diceva: "Un tempo c'erano i calici di legno e le teste d'oro; adesso ci sono i calici d'oro e le teste di legno ! ".

Io aggiungerei che ci sono anche le teste di gomma...

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LA GENIALITÀ

Secondo me la vita cristiana è una vita geniale: la vita tipica di un genio.

Lo so benissimo che quando lo dico mi attiro le critiche un po' di tutti: sia dei benpensanti, sia dei malpensanti.

I benpensanti, quelli che si fanno paladini indefessi della tradizione, vedono in questo il capovolgimento di uno schema intangibile: una specie di violenza modernistica al senso genuino delle formulazioni dogmatiche della dottrina cristiana.

I malpensanti, cioè quelli che sono "contro" ad oltranza, avvertono il medesimo capovolgimento come un'astuzia propagandistica, una forma di camuffamento della vecchia e "stantia" dottrina sotto le sembianze di una superficiale o apparente novità, fatta soltanto di parole.

Insomma, per i benpensanti è come se io dicessi che si può mangiar carne il venerdì di quaresima; per i malpensanti, invece, è come se io dicessi che il venerdì di quaresima si può mangiare la carne rancida con abbondanti spezie: perché in quanto rancida non è più carne; in quanto speziata non è mica rancida...

Che guaio, eh?

Eh sì, è un'impresa davvero difficile accontentare "palati" tanto fini.

E se si trattasse davvero soltanto di palato, il guaio sarebbe ancora più grave.

Come si fa a pensare con il palato?

Questo sì sarebbe un vero "capovolgimento" fuor di metafora, non il mio.

E poi, visto che si tratta di pensare: prima ancora di essere benpensanti o malpensanti, occorre essere pensanti, punto e

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basta. I pregiudizi, buoni o cattivi che siano, devono essere sempre esclusi.

Ebbene, è proprio il pensiero che spinge a dire che la vita cristiana è una vita che possiede i modi tipici della genialità.

Il pensiero che dice queste cose è la teologia, cioè la scienza che vuole comprendere in modo ragionevole la fede. Non per dimostrarne il contenuto - non sono mica stupido -: una fede dimostrata non è più fede! Ma per capire quello che si crede, per non credere l'incredibile!

A volte, proprio per mancanza di questa riflessione critica, si arrivano a credere delle cose che non stanno ne in cielo ne in terra: pure fantasie, che non c'entrano niente con il dogma di fede.

Penso davvero che si possa dare il caso di gente che creda di credere.

Se si crede ciò che non va creduto, perché è incredibile, ma non lo si sa tale - cioè non si sa che è incredibile -, il permanére del credere è malriposto.

Per esempio, se si crede che la Trinità è costituita da tré individui, si crede di credere nella Trinità, perché di fatto non si erede nella Trinità: le tré persone trinitarie non sono tré individui di natura divina.

In questo caso, non si crede ciò che si può credere - cioè ciò che fonda il credere -, e quindi il credere svanisce come tale (cioè nella sua sostanza) e ciò che permane è la sua parvenza: il credere di credere.

L'incredibile è nulla come credibile; dunque il credere l'incredibile è credere nulla, cioè nulla come credere: non si crede nulla, cioè non si crede.

Ciò che rimane - se si continua a credere - è appunto la parvenza del credere, non la sua sostanza.

E questo è un altro guaio.

Ma la teologia non si fa certo denunciando i guai. Occorre pensare criticamente. La teologia è la comprensione razionale della fede.

Se dunque si cerca di capire che cosa vuoi dire che la vita cristiana è vita di grazia e che la vita di grazia è la stessa vita

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divina, la conclusione teologica non può non essere che questa:

la vita cristiana è la vita del genio.

Sì, perché ai nostri occhi Dio è un genio; dunque chi ha la vita stessa di Dio è egli stesso un genio.

La genialità in che cosa consiste?

Beh, geniale è una persona che rende semplice il complesso, che coglie di botto gli elementi essenziali o semplici - elementari -di un composto; o ancora, che sa comporre, sintetizzare, mettere insieme cose che sembrano incomponibili.

Insomma è qualcuno che sa fare bene la sintesi perché sa far bene l'analisi.

Non so, per fare un esempio - forse banale, ma certamente efficace -: geniale è l'intuizione per la quale si possono sommare pere e mele.

Mi spiego. Quanto fa cinque pere più tré mele? Certo non si può rispondere: otto mele o otto pere. Non si sommano pere e mele! E allora come la si mette?

Ecco, la somma è impossibile, finché non si ha l'intuizione che ti fa cogliere ciò che di più semplice ed elementare si coglie nelle pere e nelle mele, e che dunque possiede la forza di essere principio unificatore o di sintesi.

E vero che non si sommano le pere come pere con le mele come mele, ma le pere come frutta con le mele come frutta sì.

Cinque pere più tré mele fa otto frutti! Questa è la sintesi del complesso, dell'apparentemente incomponibile, sulla base di un'intuizione semplificatrice.

Il colpo di genio è qualcosa del genere.

E la genialità è una vita che ha come propria dinamica questo procedimento. Per questo motivo dico che Dio è geniale per eccellenza.

Dio coglie con un unico atto la totalità delle cose nelle loro infinite differenze come qualcosa di assolutamente semplice.

E una legge metafisica: Dio è semplicissimo nella sua assoluta perfezione. In quanto semplicissimo, egli è la sua stessa attività, il suo stesso atto di conoscere e di amare; in quanto assoluta perfezione, non ha niente di estraneo a sé: è tutto.

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Dunque, Dio è l'assoluto conoscere che coglie immediatamente tutto in se stesso. Capisce tutto al volo; a uno schioccar di dita. Più geniale di così... E uno che capisce tutto... per istinto\

Ecco, sì, Dio capisce tutto per istinto. "Per istinto" è l'espressione giusta. Evidentemente si tratta di una istintività spirituale, non di tipo sensibile, perché Dio è assolutamente immateriale.

Ma si tratta davvero di una istintualità.

L'istinto è una sorta di stimolo, un'inclinazione naturale a certe operazioni.

Istintivi per eccellenza sono gli animali. Gli animali si muovono per istinto, cioè per un'inclinazione determinata dalla natura. Il leone caccia per istinto, la pecora fugge il lupo per istinto.

Anche l'uomo compie alcune azioni per istinto, proprio perché è per essenza un animale. Per istinto fuggiamo il pericolo;

per istinto cerchiamo il piacere; per istinto aggrediamo il male che ci minaccia.

D'altra parte è la stessa sensibilità che vive d'istinto. La vista coglie istintivamente i colori e le figure, così anche l'udito coglie istintivamente i suoni, l'olfatto gli odori, il gusto i sapori e il tatto le forme, la mollezza e porosità dei corpi.

Ogni senso coglie immediatamente e infallibilmente il sensibile suo proprio.

E così stretta l'associazione tra sensibilità e istinto, che anche quando si trasporta questa nozione a livello più spirituale o comunque psicologico, il riferimento metaforico al senso è d'obbligo.

Per questo motivo, per indicare il particolare acume di una persona, cioè la sua particolare capacità di cogliere il semplice dentro il complesso - o di sintetizzare il complesso nel semplice -, si usano le espressioni esclamative: "che occhio!", "che orecchio!", "che naso!", "che palato!", "che tatto!".

Questo, appunto, per dire che quella persona vede spiritualmente in profondità, o che capisce anche il tema nascosto sotto un discorso piuttosto articolato; oppure che ha un fiuto e un gusto tanto raffinati da individuare gli elementi o i principi portanti di una tesi; o ancora che ha una grandissima sensibilità,

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che le consente di percepire le sfumature che rendono partico-larmente efficace un discorso o una opinione.

L'istinto indica così un'indole e anche un talento.

Il talentuoso sembra uno che non faccia assolutamente fatica a fare ciò che fa: sembra che gli venga naturalmente, appunto per natura, cioè per istinto.

E questo è proprio del genio. Il genio è appunto un talentuoso. Il genio semplifica, senza banalizzare!

Il genio è un istintivo sul piano spirituale, e dunque un intuitivo.

Ma se si considera bene la cosa, questa istintività spirituale del genio, nell'ordine umano è semplicemente una abbreviazione dei passaggi o una semplificazione accelerata degli stessi passaggi che sono l'anima della razionalità, cioè della dinamica discorsiva dell'intelletto umano.

Il nostro intelletto non intuisce nulla: capisce per passaggi e per costruzione di concetti elaborati attraverso un complesso di informazioni.

Quindi, la genialità naturale dell'uomo non è assolutamente istintiva o intuitiva: è discorsiva.

Questo vuoi dire che anche l'uomo più talentuoso, cioè più dotato da madre natura di qualità, di doti intellettive e psicologiche, deve sempre far ricorso a una certa concentrazione e a una attività di richiamo delle nozioni che ha elaborato.

Certo è più veloce di uno meno dotato, ma si tratta comunque di una maggiore velocità, la quale implica sempre un movimento non istantaneo.

E anche queste doti naturali vengono sempre raffinate con l'esercizio, cioè con un allenamento: il genio è sempre frutto di pazienza e disciplina nell'ordine umano.

Così non è, evidentemente, per Dio.

Dio raccoglie tutta la sua comprensione nell'intuitività dell'istante, come l'occhio vede all'istante il colore.

In Dio, vi è effettivamente un istinto spirituale allo stato puro: Dio stesso è questo istinto spirituale.

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A differenza dell'istinto o della spontaneità del senso, che coglie il sensibile proprio come il suo tutto, ma che non è il tutto, Dio coglie intuitivamente il tutto, la totalità delle cose, nei loro minimi particolari e nelle loro reciproche e universali relazioni, in un colpo solo.

Con un semplice sguardo!

L'intuizione è appunto questo sguardo [intueri - da cui intui-tus - in latino vuoi dire appunto guardar dentro).

Se la grazia comunica la vita divina all'uomo (2 Pt 1, 4), essa comunica anche questa intuitività, istintività di Dio. Comunica o partecipa appunto la genialità di Dio.

Sul piano soprannaturale, cioè della vita intima di Dio, si può essere effettivamente degli intuitivi e degli istintivi.

Anzi, non può essere altrimenti: lo spirito divino, Dio, non è discorsivo, è un lampo. Così, coloro che sono divinizzati dalla grazia sono dei lampi: «come scintille nella stoppia correranno qua e là» (Sap 3, 7).

Reso divino dalla grazia, l'uomo è mosso da questo principio superiore come per istinto. «Quelli che sono mossi dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio» {Rm 8, 14).

Esser mossi assolutamente, piuttosto che essere agenti, cioè attori delle proprie azioni in modo deliberativo, per scelta ponderata, è proprio degli animali: perché sono mossi dalla natura, cioè dall'istinto. Allo stesso modo - commenta S. Tommaso d'Aquino -, l'uomo, partecipe della grazia dello Spirito Santo, non agisce principalmente attraverso la propria volontà deliberata, ma per l'istinto dello Spirito Santo, che lo inclina a un agire che è divino -senza che sia tolto l'umano {In Rm, commento a Rm 8,14).

Ecco, divinizzato dalla grazia, l'uomo è un animale divino.

Guidato da un istinto divino, dall'intuizione divina, dallo sguardo divino, egli vede ciò che Dio vede, guarda ciò che Dio guarda e come lo vede e lo guarda Dio, con il medesimo colpo di genio.

Questo è il vero segreto cristiano.

Chissà se per intenderlo bisogna essere benpensanti o malpensanti.

Forse basta essere pensanti e basta.

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LO SGUARDO DI DIO

E difficile teorizzare, speculare seriamente all'interno della fede.

Eppure è assolutamente necessario, indispensabile. La fede va compresa: occorre capire ciò che si crede.

E per capire occorre andare all'essenza di una cosa. Bisogna arrivare a cogliere ciò che in tutto e per tutto determina una cosa. Così che, una volta che la si è ben determinata, non la si può confondere con un'altra.

Come si fa a determinare l'essenza di una cosa? Sembra facile dire che cos'è una cosa, ma non è così...

L'essenza è qualcosa di semplice: ne è prova il fatto che quando diciamo di limitarci all'essenziale intendiamo proprio dire che non vogliamo complicare le cose e la vita.

Ma quando il discorso si sposta sull'essenza delle cose, il limitarsi all'essenziale vuoi dire andarlo a scovare.

Allora il semplice diventa figlio del complicato!

Il semplice, o meglio la conoscenza del semplice, è frutto della semplificazione; la semplificazione è frutto della purificazione e la purificazione non è del tutto indolore...

Per capire, bisogna saper smontare e rimontare.

Frange, fronzoli, fronzolini e fronzoletti vanno tutti interdetti. Toh, che bella rima baciata! Anche se francamente preferirei baciare qualcosa d'altro, piuttosto che una rima...

E anche questa è una fatica in più.

Gli accessori, i fronzoli eccetera, sono importanti e belli, ma possono essere un ostacolo per chi mira al nocciolo della questione o vuoi guardare la realtà nella sua pura nudità-(e dai, oggi

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deve essere o il giorno delle rime o il giorno dei baci..., speriamo bene).

Dunque, se andare all'essenziale vuoi dire mettere a nudo crudamente il reale, strappandogli i fronzoli di dosso, la stessa cosa deve essere fatta nei confronti della dottrina cristiana, così che, una volta denudata, appaia in tutto il suo abbagliante ed essenziale splendore.

Come si arriva a dire che il segreto cristiano, l'essenza del cristianesimo, consiste nel possedere lo stesso sguardo di Dio?

Lo so che adesso devo fare un salto mortale: devo buttarmi a capofitto nella fede, abbracciandola con la ragione e penetrandola con l'intelletto.

E uno strano amplesso: si è assedianti e assediati nello stesso tempo. Questo vuoi dire ragionare nella fede - non prima della fede.

E come ogni abbraccio, anche questo deve essere insieme potente e delicato. Se non fosse potente, non darebbe fiducia;

se non fosse delicato, non sarebbe fiducioso.

Nell'amplesso si da tutto e si prende tutto: è il prezzo dolcemente crudo della sincerità.

Dio mio, sta' a vedere che adesso mi metto a fare il mistico...

Comunque sia, prima ragioniamo un pochino crudamente.

E, crudezza per crudezza, prendiamo come dato basilare il male e la sofferenza che ci sono, indiscutibilmente, nel mondo.

Si tratta di un dato di fatto, e contro un fatto non si discute. Discutere con un fatto, che di suo è banalmente dato, è banalizzare la discussione stessa.

Ebbene, c'è il male, c'è la sofferenza, ma c'è anche Dio; che è somma bontà e somma intelligenza.

Come risolve la teodicea questo annoso problema? Come è compossibile l'esistenza di Dio sommo bene e del male? L'uno non è la negazione dell'altro? Dunque, se esiste Dio non può esistere il male; oppure se esiste il male, non è vero che esiste Dio.

Dato che è incontestabilmente vero che esiste il male, allora vien da concludere che Dio non esiste.

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Se uno dei contrari è infinito - e Dio è Bene infinito -, l'altro -cioè il male - viene distrutto. Ma il male c'è, dunque non esiste Dio!

Ma la teodicea risolve in un altro modo il problema, superando l'obiezione.

Alla bontà infinita di Dio, proprio perché infinita, compete il trarre il bene anche dal male che essa permette.

Si potrebbe anche dire che Dio permette un male per trame un bene maggiore. Dio lo può.

Obiezione vostro onore: chi ha mai visto questo bene maggiore che consegue alla permissione di un male?

Chi ha mai visto il bene maggiore che è stato tratto dalla permissione dell'Olocausto degli Ebrei, durante la seconda guèrra mondiale?

Chi ha mai visto il bene maggiore tratto dalla permissione della morte per leucemia di un bambino innocente?

Chi ha mai visto... va bene, adesso basta, perché le obiezioni di questo tenore le conosciamo tutte: e non possono non essere accolte.

E poi, Giuseppe, ricordati che stai ragionando nella fede! Quindi devi mantenere fermo che esiste Dio e che è sommo bene; anzi devi anche aggiungere - e questo è proprio tipico della fede cristiana - che la Bontà di Dio è misericordiosa, pietosa, redentrice. Dio si incarna, muore e risorge per la salvezza dell'uomo.

Sì, va bene; ma insisto: tutto questo ha forse tolto il male e la sofferenza dal mondo? No!

E se tutto questo è in funzione del dono della grazia all'uomo: chi è in possesso della grazia di Dio forse non patisce più? Oppure per lui il male non esiste più? Non può più morire bimbo innocente per leucemia o in un campo di sterminio... ?

Che trottola!

Questa grazia divina non è mica miracolosa!

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Questo deve essere chiaro: la grazia di cui si sta parlando non è la grazia nel senso del miracolo ! Altrimenti chi la possiede dovrebbe essere sempre miracolato: dovrebbe essere in uno stato permanente di miracolo. Ma uno stato permanente di miracolo non è più miracoloso.

Il miracolo è straordinario; lo stato permanente è ordinario: se lo straordinario diventa ordinario, non è più straordinario, no?

D'altra parte, se questa grazia fosse il miracolo, quelli che non sono beneficiati dal miracolo, quelli che non fossero esauditi nella loro richiesta di un miracolo, non avrebbero la grazia.

Perché?

Subito nella mente si scatenano gli interrogativi più angosciami e tormentosi: "chissà che cosa ha fatto per non trovare ascolto presso Dio".,. Oppure: "se non è colpa sua, sarà per colpa di qualcuno dei suoi"...

Ma è lo stesso Vangelo che bacchetta questo tipo di inquisizione straziante: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco? Rispose Gesù: Ne lui ha peccato, ne i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9, 3).

Rimane comunque poi il dato di fatto che il miracolo, in questi casi - a differenza dell'episodio evangelico che segue alla sentenza di Gesù appena citata -, non avviene.

Dunque, occorre pensare in un altro modo la "manifestazione dell'opera di Dio".

Dire che una cosa è manifesta, vuoi dire che una cosa è visibile. Quindi si ritorna daccapo: chi vede il bene migliore che è tratto dalla permissione del male?

Se non è visibile a noi, certo non può non essere visibile a Dio! Dunque, chi lo vede è Dio. Il bene migliore che nasce dalla permissione del male cade infallibilmente sotto lo sguardo di Dio.

La conclusione logica non può essere che questa: per poterlo vedere, occorre avere lo stesso sguardo di Dio!

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La grazia divina, donando la partecipazione alla stessa vita di Dio, dona anche lo sguardo di Dio.

Certo che mettersi dal punto di vista di Dio per vedere le cose, restando comunque uomini, non è affare di poca consistenza. Ma le cose non possono non essere che così.

Tutto il segreto cristiano è chiuso in questa formula: vedere le cose dal punto di vista di Dio!

Noi siamo divinizzati dalla grazia per questo scopo. Se si ragiona all'interno della fede, si vede subito che non esiste una soluzione alternativa.

Non si può togliere Dio; non si può negare l'esistenza del male; la grazia divina non toglie il male: dunque, l'unica soluzione è ammettere che la grazia divina faccia vedere il male dal punto di vista di Dio, come lo vede Dio.

Quindi la preghiera cristiana, nella sua essenza, è la richiesta a Dio di rendere manifesto a noi il suo modo di vedere il male, sempre avvolto nel bene migliore: che vuoi dire avvolto in Dio!

E ovvio che c'è anche la richiesta del toglimento del male: "liberaci dal male", recitiamo nel Padre nostro. Ma se non fossimo esauditi in questa richiesta? Allora ricomincerebbe la sequenza di quegli interrogativi angosciosi che il Vangelo bacchetta.

Quindi la richiesta essenziale è e rimane quella di vedere le cose come le vede Dio.

Del male e dell'esperienza della sofferenza noi non riusciamo a capire proprio niente.

Signore, Dio mio, questo male che mi tortura e che non posso togliere da me e che solo tu puoi togliere - ma non è detto che tu lo tolga - almeno fammelo vedere come lo vedi tu, così che io possa capirci qualcosa.

Se per tè va bene così, almeno fallo vedere anche a me come lo vedi tu, così che possa andar bene anche per me.

I beati del paradiso, coloro per i quali lo sguardo di Dio è diventato definitivamente ed evidentemente connaturale, sono in questa condizione: per questo sono beati, pur vedendo le stesse cose che vediamo noi.

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Essi vedono il male ricompreso nell'intero che è lo sguardo di Dio. Vedere l'intero alla luce stessa dell'intéro, senza ricorsi formali all'astrazione, significa vedere il tutto nella sua densità priva di fratture.

Certo, la condizione dei beati è una condizione particolare della vita cristiana: è la vita cristiana nella sua piena perfezione e realizzazione. Essi sono sotto il regime della visione diretta di Dio e di tutto il mondo in Dio.

Noi non siamo in una condizione sostanzialmente diversa: la grazia è la vita stessa di Dio. La nostra grazia è la stessa dei beati del paradiso,

Ciò che cambia è il regime: noi siamo sotto il regime della fede, cioè della non visione. Ma i contenuti sono gli stessi.

Noi conosciamo Dio e tutto in Dio come essi conoscono Dio e tutto in Dio: noi non vedendo, essi vedendo.

Nel regime della fede, noi sappiamo senza vedere; nel regime della visione beatifica, i beati sanno vedendo.

Ma c'è, pur nella diversità di questi due regimi, un elemento comune che occorre evidenziare, oltre a quello della identica sostanza del contenuto saputo - cioè Dio e tutto in Dio -: si tratta del modo della conoscenza.

In forza della grazia e della presenza dei doni dello Spirito Santo, sia nel regime di fede, sia nel regime di visione, il modo divino di conoscere per contatto esperienziale diretto della realtà fa sì che la conoscenza sia accompagnata dal gusto.

Gustare ciò che si sa: è come capire una cosa profonda senza essere capaci di spiegarla pienamente; ma si è sicuri d'averla capita. Ecco, questo modo accompagna sia il regime della fede, sia il regime della visione.

Questo modo divino si chiama vita mistica.

La vita mistica, con la sua intuitività, spontaneità, istintività, genialità divina, accomuna V esperienza della fede e quella della visione.

E nella vita mistica che trova il proprio ambiente lo sguardo divino, perché è lo stesso sguardo di Dio.

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Ecco, lo sapevo e me lo sentivo che a furia di baci, abbracci e dolcezze questo assedio razionale della fede avrebbe partorito un pensiero mistico...

Eppure me lo ripeto sempre: meglio un logico sporcaccione che un mistico ebete! Eh sì, perché il logico sporcaccione è sporcaccione lui, ma rende logici gli altri; il mistico ebete è mistico lui ma rende ebeti gli altri...

A meno che non ci sia una logica mistica, o una mistica logica: questo sarebbe il massimo!

Essere logici nel Logos... Mi sento tanto abelardiano... (pietro abelardo, Epz'ria/d XJJJ).

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IL MESTIERE DEL TEOLOGO

Spesso, affrontando il tema della teologia, si è tentati di pensare a una disciplina che nulla ha a che vedere con il mondo.

Fare teologia - si pensa - è questione che può riguardare soltanto i preti; e siccome i preti tengono fino all'inverosimile al loro isolamento da sacrestia rispetto a tutto ciò che appartiene al mondo, allora fare teologia è roba da sacrestia.

E un po' come rivestire di paramenti polverosi le pareti della chiesa, per creare a tutti i costi l'illusione della festa per qualcosa che di suo non sembra proprio essere festoso, o mascherare con luci, lumi e lumini ^atmosfera una realtà che nella sua nuda e cruda verità non sembra avere un interno diverso dal suo esterno. Bisogna camuffare per richiamare o rinviare a qualcosa che deve essere tutt'altro.

Ovvio che in questo modo la teologia sembri proprio un artificio onirico, che nasconda dietro le sue metafore di circostanza il mestiere del prete "colto".

Se le si guarda anche da un punto di vista per così dire clericale, le cose non stanno tanto diversamente.

E logico che la teologia tratti di Dio - lo dice lò stesso nome, no? - Ma proprio perché Dio è Dio, il Separato o Sacro per eccellenza, la teologia non è qualcosa di questo mondo, ma dell'Altro:... dell'altro mondo! E i suoi cultori o specialisti devono possederne lo stile inconfondibile.

In questo modo, perciò, da entrambi i punti di vista, risulta che la teologia è roba da "Marziani": alieni o alienati che siano... Logico rifiutarla e deriderla.

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Da questo giudizio, che ha certo un fondamento nelle costumanze comuni e usuali del nostro tempo, non posso non sentirmi profondamente infastidito.

E penso che non possa non far ribollire il sangue a ogni teologo che fatichi con dignità sotto le esigenze scientifiche della propria disciplina, le istanze culturali del tempo in cui vive, le domande o i dubbi che anch'egli si pone come uomo e gli stessi problemi che la fede cristiana non risolve, ma solleva.

Altrettanta perplessità deve suscitare anche una teologia che per rinnovarsi trascuri o diserti volutamente il senso della totalità per ritagliarsi il proprio cantuccio asettico e invulnerabile nei simbolismi fumosi di un liturgismo asfissiante.

Realisticamente parlando, è anche insufficiente raccogliere le istanze della cosiddetta "teologia della secolarizzazione" per ritrovare il contatto con il mondo,

Questa teologia, infatti, sostiene essa pure un dualismo radicale: il mondo, per essere mondo, deve essere senza Dio, così come Dio per essere inteso correttamente deve essere totalmente altro dal mondo. Si tratta di una teologia dell'abbandono: in Cristo crocefisso Dio ha rivelato la sua assenza dal mondo, ha abbandonato l'uomo a se stesso.

Anche in questo caso, siamo sempre posti di fronte a una teologia della "ritirata".

Possiamo ricondurre tutto questo a un duplice ordine di cause: la confusione tra religione e fede - o meglio, tra gli atti esterni di religione e la fede -, e l'ingenuo o incompetente rifiuto del pensiero metafisico.

Ora, la religione è una virtù morale che appartiene, come parte potenziale, alla virtù cardinale della giustizia. Attraverso la religione, noi tributiamo a Dio il culto che gli è dovuto, così come abbiamo il dovere di restituire a un altro ciò che da lui abbiamo ricevuto. E la legge della giustizia: dare a ciascuno il suo.

Universalmente parlando, dunque, il culto, cioè l'insieme delle azioni esterne che si coordinano nella liturgia, è il livello simbolico che sta a significare un atteggiamento inferiore.

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Da Dio abbiamo ricevuto il nostro essere creaturale: dunque per giustizia dovremmo restituirgli il nostro essere creaturale. Ma questo è evidentemente impossibile; restituire l'essere creaturale significa annichilirsi: soltanto Dio può annichilire qualcosa, perché tale azione implica la stessa potenza metafisica che occorre per creare (per ridurre al nulla occorre saper trarre dal nulla).

Tutto questo è impossibile metafisicamente, ma possibile simbolicamente.

La cosa non pone soverchie difficoltà: visto che non è possibile restituire realmente il proprio essere creaturale a Dio, si ricorre a una restituzione simbolica.

I sacrifici esterni, con l'offerta di beni che vengono assolutamente dedicati a Dio attraverso la stessa distruzione - per significare che non si può recuperare più quel bene che si è dedicato a Dio - sono soltanto rimando al sacrificio interno, alla oblazione inferiore che sola li può sostenere.

E l'oblazione interiore copre la stessa esistenza, la stessa estensione della vita con tutto il suo realistico tessuto di interesse, di energia, di passione, di scommessa, di rischio, di fatica, di coscienza e di sapienza.

Il sacrifìcio esterno, invece si colloca, nella sua valenza puramente simbolica, in una situazione determinata e zonale, in un ambito che specificamente viene qualificato come religioso. Non copre tutto, ma si distingue da tutto il resto come una categoria precisissima.

Dobbiamo dire che la categoria religiosa del sacrificio o dell'oblazione esterna non è la vita: anzi, può arrivare a dissociarla o obliarla, creando all'interno della coscienza delle fratture morali come - nel caso dell'eccesso di religione - la superstizione.

Al contrario, l'oblazione o sacrificio interiore è l'"in sé" della vita: non può assolutamente dissociarla o alienarla da se stessa.

In effetti, a guardar bene, la fede soprannaturale, teologale, ha più la fisionomia del sacrificio intcriore che quella della religione o dei suoi atti esterni.

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Essa è un sacrificio della mente, che immerge la vita intera dell'uomo nel mistero stesso di Dio, nell'attesa della sua piena manifestazione gloriosa.

Essa copre tutta la vita, perché per essa è in gioco la vita. Animata e vivificata dalla carità, la fede teologale coinvolge in sé tutto senza concreti residui, giacché la soprannatura non toglie la natura ma la presuppone e la perfeziona nel suo stesso ordine, pur elevandola sopra se stessa.

Tutto questo è dunque chiaro: di fronte alla religione - spazio del sacro -, sì distingue il più ampio spazio di ciò che chiamiamo profano.

Nella fede, invece, la distinzione tra sacro e profano scompare, si eclissa, perché la vita non ammette confini o steccati. Il soprannaturale investe tutta l'estensione della vita dell'uomo e la penetra in tutta la sua comprensione, seppur in maniera accidentale - cioè senza manomettere la sostanza naturale.

A queste condizioni, la confusione tra religione e fede o vita di grazia comporta l'erezione di un confine indebito nei confronti dell'orizzonte della vita soprannaturale concreta, così come la sua interpretazione in modo fantasioso e spettacolare. E questo l'errore più grave che sta all'origine dei guasti che sto denunciando !

I clericalisti separano Dio dal mondo; i secolaristi separano il mondo da Dio. E Dio diventa un altro mondo e questo mondo diventa un altro Dio.

Rimane da considerare la seconda causa che concorre a questa interpretazione delle relazioni, o meglio non relazioni, che intercorrono tra Dio e mondo.

A mio parere, essa deve essere rintracciata nelle ingenuità metafisiche di un pensiero poco avvezzo alla vera speculazione.

Ora, il rifiuto o almeno l'assenza della metafìsica è certamente un grande difetto della nostra cultura. Il pensiero è sempre pensiero del tutto o comunque alla luce del tutto, dell'intero.

Senza questa prospettiva e senza questo oggetto il pensiero si autoelide e diviene semplicemente parola insensata. Il pensare è sempre speculativo o relativo, nel senso che conosce per relazio-

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ni e relazioni: certo con una gradualità crescente, corrispondente al maggiore o minor grado di verificazione fattuale di una nozione o di un asserto.

Dobbiamo contestualizzare: ogni cosa è in contesto, perché il molteplice che ci si offre nell'esperienza è ordinato, appartiene a un ordine. E noi siamo soggetti razionali perché possediamo una facoltà conoscitiva che sa riconoscere queste intelaiature: la ragione.

Ordine e ragione sono trascendentalmente relati, così che se si toglie l'uno si toglie l'altra e viceversa.

Importantissimo: una ragione che non sia dell'ordine è nulla come ragione. È vero che esistono degli ordini parziali o particolari, ma proprio perché tali suppongono un ordine universale. Se parliamo di ordine economico, ordine politico, ordine etico ecc., questo presuppone che conosciamo più o meno esplicitamente che cosa sia l'ordine in quanto tale, l'ordine e basta.

La cosa è dunque indiscutibile: questo è lo spazio che com-pete alla speculazione metafisica e alla dialettica.

L'inspiegabile, però, è che spesso i cultori del pensiero metafìsico cadono essi stessi in pericolose fantasticherie quando indulgono eccessivamente alla immaginazione - anche se è indispensabile la conversici ad phantasmata - nel dare contenuto al rigore formale del proprio pensare.

In questo caso si cade nella fabulizzazione del reale e con ragione si sono sollevate e si sollevano le critiche più dure al pensiero metafisico, così espresso.

Ma questo svolazzare iperrealistico non ha proprio nulla a che vedere con la metafisica, così come ogni semplicistico oltre-passamento dell'esperienza.

In ogni caso, a scanso di equivoci, si pensi che metafisico non è ciò che è al di là del fisico, ma il fondamento strutturale dell'ente che è dato nell'esperienza. In questa prospettiva, occorre superare la maldestra opposizione tra immanenza e trascendenza.

Occorre intendere queste due nozioni in modo relativo o speculativo e non esclusivo - come vedremo. Il pensare Dio

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come assolutamente trascendente implica l'inevitabile equivoco di localizzarlo: come se fosse qualcosa di diverso dal mondo, che viene caratterizzato dalla nozione di immanenza.

Proponiamoci almeno che si possa arrivare a calibrare sempre meglio il nostro pensiero e il nostro linguaggio metafisico, per non intraprendere discorsi che, ignorando le rigorose vie della ragione, si prefìggano mete illusorie e teorie impensabili.

Tante sono le cose che si possono dire, ma che non si possono pensare!

Penso proprio d'aver pensato quello che ho detto... anche perché non erano tante le cose che si potevano dire...

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IL RAGIONARE DIVINO

Quali sono le cose che valgono un sacrificio senza che sia richiesto per necessità di mezzo?

Forse mi esprimo male. Vediamo se riesco a spiegarmi meglio.

Per che cosa si sente che ci si sacrificherebbe volentieri, quasi fosse una spontaneità naturale il sacrificarsi e non un debito, un dovere morale, o un atto per volontà deliberata o addirittura calcolata?

C'è qualcosa che è capace, per sua natura, di strapparti a tè stesso e di dissolverti in se stessa?

Insomma, c'è qualcosa che abbia come legge intrinseca il sacrificio? Che abbia nel sacrifìcio il senso più profondo della sua verità e del suo essere! ?

Lo so che uno pensa subito al sacrificio che un genitore può fare per i fìglioletti, o che un eroe può fare per sostituirsi ad altri nel pericolo o nelle semplici difficoltà.

Ma questi gesti sono ancora classificabili sotto la categoria del dovuto, ove vige un imperativo morale.

E vero che un genitore si sacrificherebbe spontaneamente per il figlio: ma appunto si tratta di un gesto che implica di suo una esigenza morale, anche se il genitore sente la cosa nel sangue, prima che nella valutazione della coscienza!

Ma sai, supposto che un genitore non arrivi a tanto, il giudizio negativo che viene pronunciato nei suoi riguardi è di ordine morale, più che psicologico.

La cosa che cerco, invece, è ciò che per sua natura, indipendentemente dalla valutazione morale - anzi escludendola -implica il sacrificio.

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Beh, meglio di così non sono capace di impostare la domanda. Forse mi conviene passare subito alla risposta e poi motivarla. Così si può arrivare subito al fatidico: ah, ecco perché!

Dunque, dunque, vediamo un po'.

Mettiamola brutalmente così: una bella donna non ti strappa forse gli occhi? !

Non cominciamo subito a spaventarci per niente. Non è mica un'eresia, no? In fin dei conti, la donna, secondo la narrazione biblica, non è la creatura che Dio ha fatto per ultima?

Beh, ogni artista fa sempre alla fine il suo capolavoro...

O, comunque, il tocco di grazia è sempre alla fine dell'esecuzione dell'opera d'arte.

Se poi si aggiunge che ciò che è ultimo nell'esecuzione è primo nell'intenzione dell'artefice, allora l'importanza della donna raggiunge proporzioni non solo cosmiche ma addirittura cosmo-gonicbe.

Ecco, adesso aggiungi il caso che la donna sia anche bella: e la catastrofe degli occhi è compiuta!

La bellezza la si avverte prima negli occhi. Sembra che tè li strappi via!

E la bellezza quella cosa che implica spontaneamente il sacrificio. Almeno, originariamente, il sacrificio della vista.

Un conto è vedere, un conto è guardare.

Si vedono più cose, ma se ne guarda una sola!

Il guardare aggiunge al vedere l'attrattiva, il fascino, l'interesse e... la consumazione di energia.

Uno che vede più cose non presta attenzione a nessuna di esse; uno che guarda attentamente una cosa non presta attenzione ad altro: è tutto energeticamente assorbito nella sua contemplazione!

Dunque si può dire che lo sguardo, o il guardare compiaciuto è il sacrifìcio della vista, del vedere.

E questo sguardo compiaciuto è tale perché risucchiato dalla bellezza.

La bellezza si manifesta come in uno stordimento mistico.

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Non si tratta di un rimbambimento demenziale - anche se qualcuno può arrivare a scambiarlo per questa patologia -; ma è l'ebbrezza della ragione che trova in un oggetto se stessa, la sua più piena espressione.

E l'ebbrezza della ragione, perché la ragione si trova misteriosamente nel proprio ambiente vitale, pur soggiornando in un giardino estraneo. E lo spirituale che si scopre condensato nel sensibile.

E un sacrificio, perché è come se la ragione, per trovare il piacere di se stessa, dovesse - per una legge di natura e quindi spontanea, non morale - rinunciare a se stessa, alla propria aurea solitudine.

Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale! Fin nella più tattile delle esperienze: dove si contempla il bello con la spiritualità razionale che permea lo stesso senso tattile.

L'esperienza del bello è un'esperienza sacrificale perché è un'esperienza razionale.

Nel bello la ragione si ritrova perché in esso si consuma la legge del sacrificio, che è la sua legge, la legge della stessa ragione.

E vero che uno potrebbe obiettarmi che l'esperienza del bello si accompagna sempre al piacere (S. Tommaso afferma che si dicono belle le cose che viste piacciono); il che non combina bene con il sacrificio...

Però mi vien subito da rispondere che esiste anche un piacere legato alla dimensione del sacrificio inteso nella stessa linea estetica.

Una donna apprezza di più il sentirsi dire semplicemente che è bella o che è tanto bella che non si può stare un minuto senza vederla? Mi sembra scontato che il secondo apprezzamento sia quello più gradito.

O ancora: una donna gradisce di più il dono di una pianticella in vaso o il dono di un fiore reciso? Anche in questo caso mi sembra scontata la risposta: il fiore reciso. Anche questo è segno di sacrificio!

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Anche nella conoscenza umana, ha maggior valore e si avverte con maggior gusto la conquista del sapere con il ragionamento che non l'assunzione di verità appiccicate all'intelletto come francobolli.

C'è più gusto ed è più bello, pur essendo guidati da un maestro, a impostare e risolvere problemi, a dissolvere dubbi o contrastare obiezioni, che non ad accettare acriticamente il vero.

Lo so bene che quello che conta è sapere la verità; ma un conto è essere nel vero senza saperlo e un conto è essere nel vero sapendo di essere nel vero: questo è il valore del sapere critico. Si è nel vero sapendo di essere nel vero quando si conosce la verità sapendo che è escluso il suo contrario.

(Non è la stessa cosa sapere che A è A e. sapere che A è non non A o che A non è non A: nel secondo caso si è passati attraverso il cimento con il dubbio della possibile identità di A anche con non A, e lo si è sconfitto. Materialmente si sa la stessa cosa, ma in due modi diversi; uno ingenuo e l'altro critico).

Il ragionare implica la bellezza arcana del sacrificio!

Il ragionare porta in sé qualcosa di attraente e bello tanto quanto la bellezza femminile, sempre compagna del divino.

E il ragionare divinamente sulle cose divine ha un che di inventivo, accogliente e fecondo quanto il genio femminile.

Ragionare divinamente sul divino vuoi dire speculare.

A che cosa serve speculare? Che cosa vuoi dire speculare? Parlare di speculazione significa parlare di una conoscenza di tipo riflesso secondo un duplice titolo.

Una conoscenza di riflesso è anzitutto la conoscenza di una cosa attraverso un'altra, così come guardando uno specchio vi vediamo riflessa l'immagine di qualcosa che non è lo specchio stesso. Si tratta dunque di una conoscenza relativa o di rinvio.

Relativa non nel senso della superficialità o inconsistenza -così come può opporsi alla conoscenza cosiddetta assoluta della scienza -, ma nel senso della opposizione alla conoscenza assoluta perché isolata, decontestualizzata e primitiva o fenomenologica, quale è quella rilevativa di un semplice dato immediatamente immotivato (nudo e crudo).

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Infatti, la conoscenza che esercitano i sensi è appunto assoluta in questo modo: l'occhio coglie perfettamente il colore, ma non sa che relazione vi sia tra il colore e la porosità di un corpo.

E la ragione che conosce le relazioni tra le cose e i loro diversi aspetti.

La stessa ragione può arrivare ad elaborare delle nozioni la cui comprensione non è immediata, ma abbisogna di un aggancio con altro.

Si dice infatti speculativo un enunciato che non è comprensibile in se stesso, ma per rinvio a un altro enunciato o a un fatto che lo postula come toglimento di apparente contraddizione, o soluzione di una problematica empiricamente insolubile.

E il caso per esempio delle nozioni di potenza passiva, quale condizione intrinseca del moto, oppure di Dio come lo stesso Essere per sé sussistente, oppure della nozione di creazione. Prese in se stesse sono assolutamente insignificanti e inintelligibili;

in quanto ordinate alla soluzione del problema della apparente contraddizione del divenire, diventano semanticamente comprensibili e teoreticamente incontrovertibili. Ma si capiscono solo relativamente appunto, specularmente o speculativamente.

Giudizi o concetti, invenzioni-scoperte della ragione, che in quanto sedano Vhybris perpetrata solo apparentemente contro la intelligibilità dell'essere da parte della contraddizione, assurgono a rango di assoluta verità. Non possono patire negazione, pena l'assurdo. Da idee diventano realtà perché la realtà immediatamente data le richiama osmoticamente, attraverso i suoi apparenti vuoti o buchi logico-metafisici. Se le si vuole chiamare "tappabuchi", lo si può fare: ma con tutto il rispetto dovuto a chi è in grado di turare con la sua forza sicura una falla, o salvare da ciò che si reputa inoppugnabilmente una falla.

Ancora: conoscenza riflessa o di riflesso vuoi dire anche conoscenza per riflessione.

Vuoi dire meditazione. Il che implica certamente il ricorso alle energie più profonde della nostra interiorità, sia intellettuale che affettiva o passionale.

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Non c'è vera speculazione che non coinvolga contemplativamente tutta la persona pensante. Scendere in profondità per riflessione significa elevarsi alle altezze più rarefatte della sinossi, del colpo d'occhio.

Nella speculazione, il rigorismo formale non è mai a scapito dell'interesse della materia investigata.

Ora, penetrando un po' più in profondità, chiediamoci: qual è la legge della speculazione? Qual è il metodo speculativo?

La prima risposta potrebbe essere questa: sia dal punto di vista teoretico, sia dal punto di vista psicologico la speculazione possiede una legge o un metodo appunto sacrificale.

Psicologicamente è senza dubbio uno sforzo.

Non è soltanto l'intelletto che è coinvolto in questa attività, anche se ovviamente l'intelletto è l'organo della speculazione: si tratta di un'attività di pensiero.

Tutte le facoltà sensitive di ordine interno prendono parte ad essa, nel modo che è loro proprio e in funzione della comprensione umana che non può fare a meno della sensibilità. Senso comune, cogitativa, fantasia, memoria, passioni della nostra sensibilità emotiva, ma anche i sensi esterni, tutti concorrono all'o-pus speculativum umano.

Trattandosi di facoltà organiche, cioè legate a un organo corporeo, il loro esercizio implica fatica e perciò sacrificio.

E occorre una grande forza di volontà nel non desistere di fronte al primo ostacolo che si frapponga verso la meta dell'in-terpretazione e della comprensione. Anche questo implica sacrificio.

Niente di più affascinante, nella sacrifìcalità speculativa, del giocò concettuale che si situa nella sua stessa dimensione teoretica.

A mio giudizio, la legge teoretica della speculazione è una legge sacrificale perché la nostra ragione giùnge alla comprensione e alla interpretazione di un dato attraverso le vie deWafia-lisi e della sintesi.

Nella conoscenza speculativa di un dato noi decomponiamo e ricomponiamo, smontiamo e rimontiamo, distruggiamo e rico-

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struiamo, sacrifichiamo conoscitivamente l'oggetto sacrificando le nostre energie nell'atto di comprenderlo.

Ecco: assimilazione. Si tratta di un meccanismo di assimilazione reciproca: assimiliamo l'oggetto assimilandoci ad esso.

La radice e al contempo la forma di questa legge teoreticamente sacrificale dell'analisi e della sintesi è la dialettica.

E certo si danno diverse definizioni di dialettica, così come diversi sono i modi di valutarla. Devo per forza di cose dunque precisare il senso con il quale io uso questa parola.

Per dialettica intendo il processo logico per il quale arriviamo alla comprensione di un concetto attraverso la sua decostruzione e ricostruzione teoretica, oppure arriviamo alla comprensione della verità incontrovertibile di un enunciato cimentandolo con il suo antagonista contraddittorio: il che vuoi dire appunto seguire le linee del metodo analitico-sintetico.

In particolare, la dialettica, qualificata come processo logico, si ambienta in un quadro che volutamente trascende le leggi ontologiche. Perciò, non intendo qui riferirmi a modelli idealistici o materialistici della dialessi. Il luogo specifico di questo metodo è quello della logica e della conoscenza calibrata speculativamente.

Questo metodo dialettico si sviluppa secondo due vie. La via di risoluzione e la via di composizione.

Alla via di risoluzione o di giudizio corrisponde propriamente l'analisi e si caratterizza come propriamente razionale.

Essa discorre dal complesso al semplice, cioè risolve il complesso nel semplice. Si tratta cioè del viaggio speculativo che la ragione compie per raggiungere l'intelligenza di un dato. E la fase decostruttiva.

Muovendosi in senso contrario, la via di composizione o di invenzione, invece, corrisponde alla sintesi.

L'intelletto, conoscendo il semplice o l'elementare stimola nuovamente il processo razionale verso la scoperta delle connessioni che gli elementi hanno tra loro o con altri dati. Il semplice viene ricomposto nel complesso. Qui si raggiunge la comprensione del dato, con il reticolato delle sue relazioni.

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Qui ci vuole un esempio.

Vediamo un po'. Che cosa facciamo quando cerchiamo di capire come funziona un meccanismo come quello di un orologio?

Lo smontiamo, per vedere come è fatto; ma non basta, occorre rimontarlo così come era prima, ricomporne gli elementi, gli ingranaggi, senza trascurarne alcuno, altrimenti non possiamo dire di aver capito come esso funzioni - anche perché, se mi rimane in mano anche una semplicissima e trascurabile... vitina, l'orologio non funziona.

Ora - raffiniamo teoreticamente l'esempio -, pensiamo ai passaggi che si fanno nello studio logico di una nozione.

Quando si passa dall'individuo alla specie e dalla specie al genere, fino ai trascendentali nell'ordine della loro sequenza, si segue la via di risoluzione: dal complesso al semplice, dal particolare al più universale (Tizio - uomo - animale - vivente - essente).

Quando invece si passa dal più universale al particolare, dal genere alla specie e dalla specie all'individuo, si segue la via di composizione, perché si devono connettere tra loro le nozioni semplici: le nozioni più universali si particolarizzano attraverso l'aggiunta di differenze che le contraggono (vivente -+- sensitivo = animale; animale + razionale = uomo; uomo + questo = Tizio).

Fondamentalmente, quando passiamo dalla conoscenza delle proprietà di una cosa all'essenza della stessa cosa - che ne è la ragione causale - procediamo in modo risolutivo (per esempio dalla libertà o dalla capacità di scienza passiamo alla razionalità:

perché uno non può essere libero o fare scienza se non in forza della ragione).

Anche quando dimostriamo l'esistenza di Dio a partire dal mondo, risalendo dall'effetto alla sua causa, procediamo analiticamente o per risoluzione.

Operiamo in modo compositivo, invece, quando passiamo dalla conoscenza dell'essenza alle sue proprietà (per esempio dalla razionalità segue la capacità di fare scienza e di scegliere);

oppure quando dimostriamo che Dio è creatore, componendo

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la nozione di Dio con la nozione di creazione, quasi ridiscendendo da Dio al mondo, dalla causa all'effetto.

Ragionare è un sacrifìcio.

Ragionare sul divino è un sacrificio divino.

E proprio così anche nel segreto cristiano: dobbiamo risolverei in Dio per scoprire che siamo composti con Dio.

E il metodo circolare della grazia che è attraente e accondiscendente come una bella donna.

Speriamo almeno che la bella donna non sia così complicata però...

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IL SOLILOQUIO SUL DIVINO

La teologia, prima di essere un discorso su Dio, è un soliloquio sul divino.

Sembra tanto strano?

A me pare tanto normale invece.

Non sto parlando della semplice teologia filosofica, quella che partendo dalla realtà del mondo arriva a Dio con la guida della pura ragione naturale.

Qui sto riflettendo o speculando sulla teologia soprannaturale, quella scienza che cerca la comprensione della fede attraverso la ragione.

Questo discorso teologico è dunque già fondato su Dio, perché ha come suo principio o presupposto la fede rivelata.

E vero - fin troppo ovvio - che trattandosi di una scienza, anche questa teologia è un esercizio della ragione; anzi, io direi che è l'esercizio per eccellenza della ragione, perché lo stimolo riflessivo, che essa riceve dai misteri soprannaturali, è imparagonabile.

E notevole lo sforzo di raffinamento concettuale nel tentativo di verificare la non evidente contraddittorietà dei misteri rivelati, come anche le ragioni di convenienza proposte a favore della loro verità.

E il solito discorso per cui non si può credere l'incredibile, e per cui il credibile, in concreto, si accompagna a dei motivi che rafforzano la sua credibilità - non che lo facciano credere!

Ma è pur sempre una scienza che parla di Dio a partire da Dio.

La fede teologale è, in modo inevidente per noi, la stessa conoscenza che Dio ha di se stesso. Quindi è un modo di conoscere Dio dal punto di vista di Dio.

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Se la teologia in questione è basata strutturalmente sulla fede, deve essere anch'essa fondamentalmente una conoscenza di Dio dal punto di vista di Dio.

Non è un'immagine devota, ma un'affermazione di grande spessore epistemologico, quella sentenza di S. TommasO d'A-quino, secondo la quale la teologia è una scienza subalterna alla scienza di Dio e dei beati [Summa Theologtae,!, 1, 2).

Quindi, il ragionare all'interno di questa scienza non deve dimenticare questa particolarissima prospettiva.

Si tratta di un ragionare divino almeno sotto due aspetti.

Prima di tutto perché ha per oggetto principale Dio stesso, in se stesso; in secondo luogo - ma non per secondaria importanza - perché considera Dio dal punto di vista di Dio.

Esisterebbe anche un terzo aspetto del ragionare divino, quello per il quale lo stesso modo di procedere è divino: si tratta di quella modalità geniale conferita dalla partecipazione della stessa vita divina attraverso la grazia.

Ma questa modalità mistica ha la movenza dell'intuizione e non del ragionamento; quindi non appartiene alla struttura della scienza teologica.

Non è facile ragionare dal punto di vista di Dio.

Bisogna indossare panni che non sono i propri.

È facile cadere in inganno. Per questo occorre il controllo critico della ragione. Si deve ragionare dal punto di vista di Dio, non immaginare di essere Dio, come nelle espressioni "se io fossi Dio, che cosa farei? ".

Sto parlando di teologia, non di fantasia devota o... pietosa\

E per ragionare dal punto di vista di Dio, occorre scoprire in noi stessi la condizione che è il requisito naturale, indispensabile per questo discorrere.

Come Dio è solo e nella sua solitudine è tutto, così, per poter ragionare dal punto di vista di Dio, occorre scoprire il senso metafisico della solitudine del pensiero, che chiude in sé tutto.

Sì, voglio dire che prima ancora di riflettere su contenuti precisi, bisogna riflettere sulla stessa capacità di riflettere.

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Occorre sentirsi avvolti in qualcosa di intrascendibile, come Dio è intrascendibile, perché non ha nulla che gli cada al di fuori: non c'è nulla che cada fuori di Dio e quindi lo trascenda!

Questo tipo di esperienza, che non può essere classificata altrimenti che come metafisica - sì perché è strutturale, fondamentale, incondizionata e condizionante -, è possibile solo nella nostra introspezione.

Nel guardare dentro noi stessi scopriamo la dimensione solitària e onninclusiva del pensiero.

Solitària perché onninclusiva e onninclusiva perché solitària.

Si tratta di un principio analitico: ciò che è solo non manca di nulla e ciò che non manca di nulla è solo!

In una battuta: l'intero o tutto è a sé stante!

L'atto del pensare è intrascendibile e, dunque, onninclusivo.

Formidabile! Se penso che ci sono cose che non penso e non penserò mai, io le sto già pensando. Non si può scappar fuori dal pensiero, perché non c'è un fuori del pensiero. Il pensiero come atto è intrascendibile.

E se non c'è un fuori non c'è neppure un dentro il pensiero. E chiaro: se ci fosse un dentro, per antitesi relativa ci sarebbe pure un fuori, ma se il fuori non c'è, neppure il dentro c'è.

Dentro e fuori il pensiero sono modi di dire che appartengono all'analisi psicologica o cosmologica del pensiero, non alla sua dimensione metafisica.

Se considero il pensiero in termini cosmologici o psicologici (comunque sia, la psicologia è una parte della cosmologia o filosofia della natura), il pensiero è una facoltà umana, ben distinta , dalle altre; non è il tutto dell'uomo; ha un'origine ed è subordinato alla causalità, per cui subisce gli influssi della storia.

Ma in linea descrittiva o fenomenologica, il pensare come atto si presenta con una imponenza tale da non poter essere assolutamente "catalogato".

Quando cerco di descrivere il pensiero come atto o il pensare, non posso fare a meno di presentarlo come l'estensione infinita dell'essere, che non esclude nulla da sé - cioè esclude il nulla, perché appunto è nulla, non c'è.

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II pensiero e l'essere sono la stessa cosa perché, come nulla è fuori dell'essere, così nulla è fuori del pensiero.

Perciò il pensiero è la trasparenza del tutto, cioè dell'essere, contro il quale sta il nulla, cioè niente.

So benissimo che mi si potrebbe accusare di immanentismo -del resto, se mi hanno dato del panteista, vuoi che non mi diano anche dell'immanentista? La caccia alle streghe non è mai finita. Ma la strega che suggerisce questi pensieri si chiama Mente: non posso lasciarla, sarei demente\

L'immanenza dell'essere al pensiero non è fisica, è intenzionale. Si tratta dell'immanenza del manifesto alla sua manifestazione, del pensato al pensare, del rivelato alla sua rivelazione.

Pensare che qualcosa cada fuori dal pensare è contradditto-rio.

Tutto è manifesto e dunque immanente al pensiero che lo manifesta o che è il luogo metafisico della manifestazione, cioè

10 stesso manifestare.

Tutto è manifesto nel senso che tutto è pensato, non nel senso che tutto sia conosciuto. Una cosa è pensare e una cosa è conoscere.

Il rapporto che intercorre tra pensare e conoscere è lo stesso che si da tra l'indeterminato e il determinato. L'indeterminato non è altro che il determinato appreso indeterminatamente.

Il pensiero è la manifestazione indeterminata del tutto, come

11 conoscere è la manifestazione determinata di qualcosa.

Il pensiero è la manifestazione indeterminata del tutto o il tutto in quanto indeterminatamente manifesto. Il conoscere, invece, è la manifestazione determinata di qualcosa, o la cosa in quanto determinatamente manifesta.

Pensando il tutto, tutte le cose in modo indeterminato, penso anche questa penna, ma non in quanto ferina ne in quanto questa penna; il riferimento alla penna e a questa penna appartiene determinatamente alla formalità del conoscere, cioè del sapere che cos'è una cosa o questa cosa, la penna - appunto.

Il pensiero del tutto indeterminatamente è il pensiero dell'essere, giacché l'essere è il tutto pensato in modo indeterminato.

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E siccome nella conoscenza si procede sempre dal generico allo specifico, il pensiero precede il conoscere: nel senso che il pensare è la condizione indispensabile al conoscere - intendendo la conoscenza nel senso intellettivo e non semplicemente sensitivo o animale.

Per usare una metafora si potrebbe dire che il pensiero sta ai concetti della conoscenza come la luce sta alle cose visibili. Senza luce non si possono vedere le cose sensibili; così, senza il pensare non è possibile conoscere concettualmente.

Uscendo dalla metafora, si deve dire che il pensare è l'orizzonte a-specifico dei contenuti, secondo la loro condizione di possibilità, cioè è l'ambito dell'incontraddittorietà: una cosa per essere tale, deve essere possibile, cioè incontraddittoria.

Questa condizione di possibilità, cioè l'incontraddittorietà, è condizione sia dell'intelligibilità sia dell'essere. Un cerchio quadrato è inconoscibile perché è contraddittorio e dunque inintelligibile e impossibile ontologicamente. Questo perché è impensabile! Pensiero e essere coincidono.

Il conoscere, invece, è l'ambito dei contenuti specifici, cioè concettualizzati. Il conoscere si riferisce ai concetti; il pensare si riferisce alla condizione di possibilità dei concetti.

L'essere, come ciò che è inteso dal pensiero, è un contenuto a-specifico, perché l'essere non è ne genere, ne specie, contenendo tutto e non escludendo nulla (Generi e specie, invece, si distinguono per esclusioni e quindi per il fatto di non essere tutto. Il genere vegetale esclude l'animale; così una specie ha ciò che un'altra specie non ha, perché le differenze specifiche si escludono vicendevolmente dal medesimo soggetto generico: un animale non può essere insieme razionale e non razionale o bruto).

Non c'è nulla che cada fuori dell'essere, se non appunto il non essere, che in quanto tale non c'è e quindi non può essere qualcosa che è fuori dell'essere. Se tutto è nell'essere, nulla di positivo vi si può contrapporre, quindi tutte le differenze che si riscontrano tra le cose sono tutte essere.

L'essere è il contenuto a-tematico, cioè non esplicito, del pensare, perché, se il pensare è l'ambito della non contradditto-

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rietà, essendo questa fondata ultimamente su quel soggetto che è l'essere, l'essere è il contenuto implicito ad ogni altro contenuto esplicito: è il contenuto implicito del conoscere che specificamente si orienta a contenuti espliciti, concettualmente definiti o definibili.

La legge della non contraddizione, la verità originaria è questa: l'essere non è il non essere, cioè il positivo non è il negativo. Questa è la condizione di possibilità dei contenuti, sia nell'ordine intelligibile, sia nell'ordine reale.

Quindi il contenuto fondamentale e fondativo del pensare come tale è l'essere, che è il soggetto di questa legge. Ma è il soggetto non esplicito.

Non c'è bisogno di esplicitare l'essere per pensare e quindi per ambientare, secondo l'incontraddittorietà - intelligibilità e possibilità -, il conoscere nelle sue specifiche determinazioni.

Non c'è bisogno di aver letto Parmenide o Aristotele, o d'aver studiato per benino tutta la logica e la metafìsica per capire che una banana non è e non può essere un chiodo. La regia implicita di questa consapevolezza specifica è data dal pensare ;o dal pensiero, che intende l'essere e la sua legge: l'incontraddittorietà.

L'essere è il contenuto inteso implicitamente dal pensiero che non ha come riferimento immediato un contenuto specifico, come invece l'ha il conoscere.

Il pensare corrisponde all'attività dell'intelletto agente, così Come viene descritta nella filosofia aristotelico-tomista.

L'intelletto agente ha la funzione di rendere intelligibile l'oggetto della conoscenza, che è l'attività dell'intelletto possibile. La facoltà conoscitiva è l'intelletto possibile, non l'intelletto agente.

L'atto di intellezione è insieme atto dell'intelletto agente e dell'intelletto possibile. L'intelletto agente e l'intelletto possibile concorrono all'unico atto dell'intellezione con le loro proprie operazioni (cf. S. tommaso D'AQUINO, De ventate, 10, 8c).

L'intelletto possibile conosce i contenuti che vengono resi intelligibili, cioè conoscibili, dall'intelletto agente.

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Ma l'intelletto agente, anche se non è propriamente conoscente, è pur sempre un intelletto; in che cosa consiste la sua intellettualità?

Io direi che consiste neW intendere la condizione di intelligibilità, di sensatezza, di possibilità, di incontraddittorietà dei contenuti conoscitivi. E siccome questa condizione è il soggetto della legge di non contraddizione, cioè l'essere, l'intelletto agente intende l'essere.

S. Tommaso dice semplicemente - riportando una sentenza di Averroè - che i primi princìpi sono come strumenti dell'intelletto agente (cf. De Ventate, 10, 13). Ora, siccome i primi princìpi sono tutti fondati sulla legge di non contraddizione e questa è fondata sull'essere, dire che l'intelletto agente ha come strumenti i primi princìpi equivale a dire che intende la legge di non contraddizione e, dunque, che intende l'essere.

Si tratta però del modo intellettivo dell'intendere e non del conoscere, perché chi conosce - semplificando grossolanamente il linguaggio tecnico - è l'intelletto possibile e non l'intelletto agente.

Dunque, l'intendere è un sapere non ancora concettuale, cioè non specifico. L'intendere l'essere non è ancora conoscere esplicitamente l'essere.

L'immagine che viene usata per indicare l'attività dell'intelletto agente è quella della luce. Come la luce è la condizione di visibilità dei colori e delle figure, così l'atto dell'intelletto agente è la condizione di intelligibilità e di conoscibilità dei contenuti della conoscenza, cioè dell'atto dell'intelletto possibile.

E come ci si rende conto della luce perché si vedono i colori e le figure, così in ogni intelligibile ci si rende conto della presenza dell'atto dell'intelletto agente, non come oggettivamente dato ma come condizione di intelligibilità (cf. S. tommaso d'aquino, In 1 Sententiarum, d. 3, 4, 5 e.). Noi non vediamo propriamente la luce ma ci rendiamo conto della luce vedendo i colori e le figure.

Se non ci fossero cose visibili non per questo la luce non ci sarebbe o smetterebbe la sua funzione: semplicemente non ci

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renderemmo conto della sua presenza, perché noi scorgiamo la luce come mezzo per il quale conosciamo - o meglio - percepiamo i colori.

Allo stesso modo l'intelletto agente è sempre in azione anche se non ci sono concetti, cioè non ci sono oggetti di conoscenza.

L'intelletto agente è sempre in atto secondo la sua sostanza (cf. S. tommaso d'aquino, In 3 De Anima, 1. IO): è il suo stesso operare, non per essenza - evidentemente; solo Dio è tale - ma per concomitanza (cf. S. tommaso D'AQUINO, Summa Theologiae, I, 54, 1, adi). Altrimenti sarebbe nelle stesse condizioni dell'intelletto possibile, che deve essere attivato, e per questo non è per sé agente, pur essendo principio del proprio atto.

Il fatto che non sempre conosciamo, non impedisce che sempre intendiamo. Il conoscere dipende dall'attivazione esterna dell'intelletto possibile, cui viene offerto il materiale intelligibile da parte dell'intelletto agente che lo astrae dai dati sensibili.

Se non viene offerto questo materiale, non si da conoscenza, cioè non c'è attività da parte dell'intelletto possibile, ma questo non esclude la continua attività d'intendere dell'intelletto agente (cf. S. tommaso D'AQUINO, De Ventate, 10, 8, ad 11 in contr.).

Da questo punto di vista, la luce che caratterizza per metafora l'intelletto agente è lo stesso essere: l'intelletto agente è la condizione di intelligibilità dei contenuti conoscibili - è la luce che li rende visibili -; è la condizione di incontraddittorietà, di sensatezza, di possibilità, di logicità e di realizzabilità dei contenuti. Ma questa condizione è fondamentalmente l'essere: dunque, questa luce dell'intelletto agente coincide con l'essere.

Questo vuoi appunto dire che pensiero e essere si identificano.

D'altra parte, si deve riconoscere che se parliamo dell'essere, che è il contenuto inteso dal pensare, questo contenuto è anche conosciuto.

Il contenuto positivamente indeterminato del pensare diventa specifico, quando per riflessione lo si determina con la nozione a-specifica per eccellenza, cioè la nozione di essere o ente, o essente. In questo modo, però, la nozione a-specifìca viene conosciuta in modo specifico.

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La nozione di e»fó o essente è diversa dalla nozione di piatto;

eppure il piatto è un ente, rientra nella nozione di ente come tutte le altre nozioni o cose. Eppure noi parliamo dell'ente come se parlassimo di una delle diverse cose specifiche che conosciamo.

Quando mettiamo a tema l'essere o l'ente, o essente, corriamo quindi il rischio di fraintenderlo; soprattutto se ci affidiamo a un pensiero metafìsico maldestro.

Ma è proprio della metafìsica trattare dell'ente in quanto ente, o dell'essere in quanto essere in modo criticamente controllato. E se ciò avviene, con queste modalità critiche - appunto -, la metafìsica diviene anche l'anima scientifica della riflessione più profonda sul pensare.

S. Tommaso d'Aquino dice che l'intelletto agente è una certa somiglianzà della verità increata che si riverbera in noi (cf. De Ventate, 11, 1). In un certo modo, esso è. il divino in noi, prima della manifestazione del divino soprannaturale attraverso la grazia.

Aristotele - trattando l'argomento dal punto di vista psicologico - dice che questo intelletto, pur essendo nella nostra anima, viene dal di fuori e solo è divino: separato, impassibile, eterno, immortale (cf. De anima, 5, 430 a 10-23).

La stessa cosa va dunque affermata del pensiero, del pensare.

Il pensare ha un'estensione infinita quanto l'essere: solo Dio è infinito in atto. Se il nostro pensare non si identifica assolutamente con Dio, perché pensare tutto non significa per noi conoscere tutto - Dio invece è questa identità assoluta di pensare e conoscere, la pura trasparenza totale e concreta, determinatissi-ma di tutto -, esso è però riflesso di Dio.

Riflesso comunque misterioso come misterioso è il divino.

Esso è luce che illumina i contenuti di conoscenza e per questo è convisibile insieme ad essi e con la loro concomitanza:

come la luce è convisibile con i colori e le figure, che invece sono l'oggetto diretto della visione.

Ma come la luce da sola - cioè senza nulla che possa essere illuminato - è invisibile e dunque tenebra; così il pensare senza i

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contenuti della conoscenza non si comporta come luce, ma come ombra.

Sì, il nostro pensiero, visto in se stesso, è l'ombra di Dio.

Il pensiero è pensiero delle cose; quando è pensiero di se stesso sembra pensiero di nulla: eppure è pensare, sempre in atto, immortale, eterno, solo. Sembra pensiero di nulla perché il pensiero non è nessuna cosa, ma non che sia nulla come pensare.

Per fare teologia, discorrendo di Dio dal punto di vista di Dio, occorre prima di tutto compiere questa riflessione sul divino in noi.

Dobbiamo immergerci in questa solitudine di contatto con l'ombra eterna dell'eterno e incominciare a discorrere con noi stessi come fossimo i soli o il tutto.

Il nostro primo discorso teologico è un soliloquio sul divino! Un soliloquio ammirato e disilluso nello stesso tempo. Ammirato per la scoperta; disilluso perché il divino non si meraviglia, non si stupisce e coglie l'eterna uguaglianza o giustizia del tutto. Tutto è così com'è, perché così è.

Questo soliloquio divino sul divino è Yepisteme, lo "star sopra" nel vedere o considerare; al punto principale o culminante.

Vedere tutto dal Principio o meglio dal punto di vista dell'Intero. Qui c'è la vera solitudine, perché l'Intero è Uno, non si accompagna mai.

E questa solitudine è una specie di onnipotenza: si è soli in quanto solidi: all'intero non manca nulla, pena contraddizione.

E la solidità non contrasta con la solidarietà.

Il solido ha tutto, è in comunione con tutto e quindi è solidale.

E la solitudine, così intesa - l'essere per sé, non l'allontanamento da tutti - è così anche la con-solawne più alta, perché il solo è tale in quanto sa stare con se stesso, presso se stesso, trovando in se stesso il proprio tesoro.

Ma il tesoro della solitudine del divino è pur sempre una grande vertigine, perché è un vedere la profondità del tutto dal suo stesso punto di vista.

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Punto di vista eterno, come eterno è Dio e come eterno è il tutto.

L'ente in quanto ente è eterno; Dio è eterno; il pensiero è eterno.

Il segreto dell'universo è nascosto nel segreto eterno dell'anima, nel suo pensare. La vita cristiana è nascosta in questo segreto e insieme è la sua rivelazione.

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LA TEOLOGIA

La teologia è femmina.

Meno male!

Eh sì, perché almeno posso dire anch'io d'avere un po' di dimestichezza con l'altro sesso.

Quando sento certi discorsi stupidi sulle donne mi viene il nervoso. E vero che certe volte sono, per'così dire, meritati - le donne non sono mica tutte uguali. Ma il più delle volte sono francamente discorsi "con la cresta in testa" - supposto per benevolenza che di testa si tratti...

Sono quasi sempre discorsi di dominio, di superiorità, di supremazia, ma ahimè ristretti tanto quanto un... pollaio.

(Pollaio per pollaio, è anche vero però che i giudizi più cattivi sulle donne li ho sentiti pronunciare proprio da donne...).

Io però dalla testa non mi tolgo l'idea che la teologia sia femmina!

Forse, lo dico per istinto: la teologia mi fa sempre "girar la testa"!

Come la filosofìa; anche la filosofia è femmina. Sì, anche la filosofia mi fa girar la testa.

Mi piace accompagnarmi a tutte e due.

Però non mi sento bigamo, ne soffro di torcicollo.

E poi, filosofìa e teologia sono di una femminilità particolare:

non sono femminili semplicemente perché sono scienze; guarda quante scienze ci sono... tutte sono femmine.

Ma non di quella femminilità che fa girar la testa:, non tutte le donne sono uguali.

Filosofia e teologia sono la quintessenza della femminilità. Fanno girare la testa perché esigono {'adorazione.

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Sì, sì, ho detto proprio adorazione!

L'adorazione è un atteggiamento che si addice a chi si rivolge a qualcosa di grande, dignitoso, anzi di assoluto.

Adorare vuoi dire rivolgere {ad} la bocca (os-oris) a qualcuno, sia per chiedere o implorare, sia per significare sottomissione e dipendenza.

(La bocca è un organo importantissimo per la vita: serve a ricevere gli alimenti, serve a respirare; è il luogo fisico della parola e quindi dell'espressione del pensiero; ma è anche il luogo fisico per l'espressione dell'affettività. Gli amanti vogliono mangiarsi, come se in questo gesto metaforico fosse racchiuso il senso della reciproca adorazione per l'assolutezza del rappòrto:

si autoincludono perché insieme sono assoluti).

La femminilità evoca di per sé qualcosa di assoluto.

Il senso dell'assolutezza che è legata alla femminilità mi sembra evidente nella prerogativa appunto tutta femminile dell'intuito.

Non è un caso che l'intuizione sia prerogativa della femminilità. Non voglio certo cadere nelle grossolanità di uno sciocco determinismo biologico, ma mi pare proprio che, in qualche modo, la sessualità femminile predisponga al meglio questa importantissima e profonda qualità psicologica - e di riflesso mistica.

Sessualmente - cioè dal punto di vista fisico - la femminilità è strutturata secondo due criteri: V accoglienza e il dono.

Questo è lo straordinario circuito che sta alla base di quella proprietà fisica che è la maternità.

La conseguenza sul piano psicologico è in generale la gratuità, appunto, del modo proprio della femminilità di atteggiarsi secondo l'accoglienza e il dono.

In modo più specifico, però, questa proprietà generale assume dei caratteri più determinati, legati alle tré dimensioni psicologiche dell'anima, cioè la conoscenza, l'affetto e l'azione.

Ebbene, la gratuità sul piano del conoscere si configura come intuizione, cioè conoscere senza passare attraverso la concatenazione necessitante del ragionamento formalmente conchiuso; sul piano dell'affetto, la gratuità prende corpo nella sensibi-

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htà, che sa anticipare e sorpassare la figura del dovere; sul piano dell'azione, infine, la gratuità è la straordinaria capacità di sacrificio: la generazione è sempre un rischio, che la donna - non so perché -, anche dopo diversi rischi, per istinto sente di correre volentieri.

E verissimo che non tutte le donne sono uguali, ma ut in plu-ribus (nella maggior parte dei casi) le cose stanno proprio così.

Non so perché, ma di fronte a queste qualità io sento il bisogno di inginocchiarmi e adorare.

Mi si potrebbe certamente obiettare che tutto questo appartiene a un immaginario culturale che vuole la donna fatta in questa maniera. Ma io mi chiedo: qual è il fondamento di questo immaginario? Anche il mito ha sempre un fondamento reale!

E poi, questa realtà che ho indicato è crudamente reale: si tratta della sessualità.

So benissimo che il concetto di donna-angelo, tipico della poetica stilnovistica, risponde a una ideologia particolare; ma cocciuto come sono, devo trovarne una giustificazione che superi i criteri ideologici.

Ci può essere una ragione metafìsica, strutturale. Se c'è, questa ragione può essere una ulteriore motivazione, poi, della femminilità della filosofìa e della teologia.

Per me la ragione c'è, eccome c'è! Dunque, dunque, la cosa va presa così. La sessualità femminile può essere presa sotto due aspetti: l'aspetto funzionale - che è quello che ho appena considerato: sì, la maternità è legata alla funzione procreativa - e l'a-spetto estetico.

Ecco, sotto l'aspetto estetico è innegabile che la femminilità esprima qualcosa di eccelso: la bellezza.

Mi sembra abbastanza evidente la differenza che c'è tra il corpo maschile e quello femminile. Il corpo maschile è banalmente funzionale; quello femminile, invece, ha una funzionalità metafunzionale: insomma, voglio dire che la struttura sessuale del corpo femminile evoca qualcosa di diverso dalla sua funzione.

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La particolare struttura del corpo femminile è espressione della bellezza. La struttura sessuale del corpo femminile è una struttura complessa e armoniosa: i due ingredienti fondamentali del bello.

La struttura sessuale della donna è complessa proprio in ragione della sua particolare funzione; eppure si tratta di una complessità armoniosa, dalla quale traspare chiaramente un ordine, soprattutto nella debita proporzione delle parti.

Le stesse forme, il timbro vocale, la postura e l'andamento generale, che sono conseguenze o proprietà naturalmente legate a questa struttura, sono il livello più appariscente di questa armonia. E sono anche il fondamento immediato del godimento estetico. Belle si dicono le cose che viste piacciono.

E la bellezza è indice di assolutezza: la bellezza è chiusa in se stessa, non rinvia ad altro da sé. Se rinviasse ad altro da se stessa, dipenderebbe da questo altro, sarebbe in relazione con questo altro e conscguentemente in armonia con esso: cioè sarebbe bellezza questo coordinamento armonioso. E così, di nuovo, la bellezza sarebbe racchiusa in se stessa!

Anche se si ipotizzasse una relatività o coordinamento di dipendenza all'infinito, bello è appunto il coordinamento; il quale, non essendo relativo ad altro - perché è per essenza il coordinamento come tale -, sarebbe la bellezza.

Dunque, la bellezza dice assoluto. Non per nulla essa va annoverata tra le proprietà trascendentali dell'ente: come l'ente e l'essere è intrascendibile; non rinvia ad altro da sé perché si autoinclude.

Se dunque la sessualità della donna esprime bellezza, essa esprime per ciò stesso assolutezza. Qualcosa di divino, senza bisogno di rinviare a Dio.

Adesso però veniamo al dunque!

Perché le proprietà della femminililtà si ritrovano nella teologia e nella filosofia?

Anzitutto le proprietà funzionali.

La maternità comprende: l'accoglienza, la fecondità e il dono.

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Allo stesso modo e proporzionalmente, la scienza teologica comprende il problema, l'argomento e la conclusione.

Toh, guarda che proporzione c'è tra questi elementi.

L'accoglienza corrisponde al problema; la fecondità corrisponde all'argomento o all'argomentare; il dono corrisponde alla conclusione.

L'accoglienza corrisponde al problema, perché come l'accoglienza è principio della fecondità, così il problema è il principio della scienza. Sì, la scienza ha sempre come proprio punto di partenza il problema. Far scienza vuoi dire risolvere un problema e aver scienza di qualcosa vuoi dire possedere la soluzione di un problema.

La scienza non è forse la conoscenza certa ed evidente della verità di un enunciato in forza del suo perché proprio? Ecco, se si deve conoscere il perché di qualcosa - e quindi averne scienza -, dal perché si devono prendere le mosse nella ricerca.

L'ultimo nell'ordine dell'esecuzione, deve essere il primo nell'ordine dell'intenzione. "Perché l'uomo è libero?": "Perché è ra-zionale!". Il primo perché (?) è problematizzante; il secondo perché (!) è motivante.

L'esordio del fare scienza è sempre la posizione [positio) di una tesi che va provata, sostenuta, motivata, giustificata. In quanto tesi, essa è il problema: in quanto problema, essa è ciò che va risolto.

Il problema e il problematizzare sono segno di accoglienza:

sono l'atto dell'intelligenza che chiede di essere fecondata.

E la fecondità corrisponde all'argomentare, perché l'argomentare è l'attività della mente nell'atto di concepire.

Sì, con l'argomentazione si intende concepire la soluzione (resolutio) del problema. Anzi, si è nello stesso atto di concepirla.

Il concepimento intellettivo ha caratteristiche simili alle proprietà della femminilità legate alla sua dimensione feconda e gratuita, ma sul piano psichico: l'intuitività, la sensibilità, la sacrificalità.

L'argomentare è Y antitesi del problema, perché ne ricerca la soluzione. E il momento critico per eccellenza, perché si accom-

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pagna alla criticità di indeterminazione del problema e produce una criticità determinata dal giudizio risolutivo.

Per argomentare occorre escogitare un mezzo argomentativo, inventare il cardine dell'argomentazione: questo cardine è l'elemento sul quale poggia il giudizio risolutivo del problema ed è quindi visto come il cardine del perché motivante.

A questa invenzione del medio dimostrativo o argomentativo corrisponde l'intuizione. Entrambe hanno a che fare con l'elementare, perché risolvere vuoi dire sciogliere, analizzare fino a raggiungere il semplice che è nascosto nel complesso-, così come l'intuire.

Per argomentare non basta semplicemente discorrere, occorre il colpo d'occhio che afferra il principio del discorrere, per non dis-correre a vuoto: vagare qua e là senza concludere niente.

Perché il discorrere non sia a vuoto, occorre cogliere il principio; ma questa invenzione o intuizione non è semplice prerogativa dell'intelletto puro. Il serbatoio dei contenuti intellettivi è l'esperienza.

Ecco, alla sensibilità corrisponde proprio a questo contatto con l'esperienza, che è la fonte dei contenuti conoscitivi. I princìpi propri delle scienze si decantano a partire dall'esperienza:

non sono dedotti da altri, ne sono innati.

Si potrebbe dire che l'invenzione del principio e l'esperienza sono proporzionalmente simili all'intuitività e alla sensibilità, anche perché in entrambi i rapporti vige la relazione tra ciò che è formale e ciò che è materiale.

L'invenzione sta all'esperienza, come l'intuitività sta alla sensibilità e come la forma sta alla materia. Il che vuoi dire che l'e-sperienza-sensibilità si rapportano all'invenzione-intuizione come la materia alla forma.

Come la forma inquadra - per così dire - con rigore i contenuti (cioè la materia), così la materia da consistenza e quindi interesse al sapere.

La sacrificami, la capacità di sacrificio - qualità per nulla passiva ma attiva, tanto quanto l'aggressività dell'istinto femmi-

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nile orientato alla maternità - corrisponde alla complessiva dinamica dialettica dell'argomentare.

Lo so che questa è una delle mie idee fisse: la dialettica ha un'anima sacrificale! Smontare e rimontare; scomporre e ricomporre: questa è la sua anima.

Da ultimo, il dono o il parto della mente che segue il concepimento dialettico: ad esso corrisponde quindi la conclusione dell'argomentazione.

A questo punto la scienza è compiuta nella sua femminilità. La sua accoglienza^ la sua fecondità esplodono nella sintesi, che compone (compositio] la tesi con il suo motivo; che conosce la verità con il suo perché; che, comprende il complesso perché ha scoperto il semplice.

Un esempino schematico per vedere tutto di colpo non ci sta male,a questo punto.

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Beh, queste proprietà funzionali della femminilità si trovano in ogni scienza. Ma nella teologia e nella filosofia esse si trovano in modo eccellente, perché in queste si aggiunge l'aspetto estetico della femminilità: quello che Va girar la testa!

Nella teologia e nella filosofìa, infatti, queste proprietà funzionali della femminilità vengono colte per riflessione nella loro dimensione estetica. Le altre scienze non sanno e non possono mettere a tema se stesse, riflettere su se stesse, e questo impedisce loro questa esperienza estetica da capogiro.

Se un matematico apprezza la bellezza dell'argomentare matematico non lo fa in quanto matematico, perché la matematica si occupa della quantità in quanto misurabile e non dell'armonia in quanto armonia.

Questo apprezzamento lo fa in quanto filosofo. E la filosofia che può esprimersi in questi termini, perché ha un punto di visione più elevato e onnicomprensivo. Quindi può riflettere sullo stesso argomentare come tale e in tutte le sue diverse specie.

Ma nella filosofia e nella teologia si da anche il compiacimento del considerare per considerare. Questo sguardo compiaciuto è tipico della contemplazione. E la contemplazione vede tutte le cose, considera ogni cosa dal punto di vista della bellezza.

Il contemplare è paragonabile al movimento circolare. Immagine usata dal pensiero neoplatonico per indicare il fatto che oggetto della considerazione contemplativa è una medesima cosa, colta sempre sotto il medesimo aspetto.

Come quando si resta attoniti a bocca aperta e sguardo spalancato di fronte allo spettacolo della bellezza. Ti gira o non ti gira la testa? ! Anche questo è un moto circolare, no? !

Ma la femminilità della teologia e della filosofìa comporta forse uno sdoppiamento del loro cultore? Come si può far girare la propria testa per due donne diverse, di una bellezza straordinaria e l'una e l'altra? Alla fine mi sa proprio che il povero cultore si ritrovi come l'asino di Buridano: non nel senso che muoia di fame, ma nel senso che resti - come è il caso - un asino...

No, niente paura, non si corre questo rischio, perché filosofìa e teologia non sono due donne diverse: ne antagoniste, ne

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subordinate l'una all'altra (che strana idea devozionistica e pietosa quella di vedere nella teologia la padrona e nella filosofia la schiava... per dire certe cose non occorre farsi girare la testa... bisogna averla svitata del tutto...).

Non c'è teologia senza filosofia, perché la teologia è la comprensione della fede attraverso la ragione fìlosofìca.

La teologia, come scienza, risolve i propri asserti problematici in due princìpi: uno di fede teologale e uno di ragione filoso-fìca. Questi due princìpi sono le due premesse sillogistiche, o il perché della dialettica teologica.

Come non si da conclusione senza premesse, così non si da teologia senza fede e senza filosofia. La teologia è un'opera che compete insieme alla fede e alla ragione fìlosofìca. E fin troppo evidente, quindi, che la teologia non può essere contraria alla filosofia, ne essere una padrona dispotica che usa la filosofìa come una schiava: la teologia non esiste prima della filosofia per poterla usare\

Applichiamo l'esempio schematico di prima:

A N A L I S I

R E S O L U T I O

PERCHÉ

PREMESSE

mi. Cristo è Dio

che ha assunto la natura umana

Ma. ogni uomo è libero

Cristo è libero

PROBLEMA TESI

CONCLUSIONE SINTESI

S I N T E S I

C

o

M P O

S

I

T I O

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La premessa minore è di fede; la premessa maggiore è di filosofìa: la conclusione è teologia, cioè l'approfondimento o la comprensione razionale della fede. Non si toglie il credere, cioè la fede, ma la si comprende più in profondità, esplicitandone le virtualità.

La teologia è dunque il risultato dell'applicazione della ragione fìlosofìca alla fede teologale. O, se si preferisce, la teologia è la filosofìa coinvolta dalla grazia divina nella conoscenza di Dio e del divino.

Teologia e filosofìa, dunque, non sonò due donne diverse, con due bellezze da capogiro diverse. Sono la medesima donna, con tutta la sua esplosiva femminilità sul piano naturale e su quello soprannaturale.

La teologia è la filosofia elevata dalla grazia: è la divinizzazione della filosofìa, o la manifestazione della divinità intrinseca della filosofia.

Adesso, però: dorso della mano alla fronte, perché questa è stata una bella sudata, in tutti i sensi...

nota

Mi è venuta in mente una cosa che mi sembra bella: l'aggiungo qui.

Penso di aver escogitato un modo per riuscire a intendere filosoficamente l'idea di donna-angelo.

Non intendo riferirmi alla donna angelicata dei trovatori, per i quali - se non ho capito male - l'angelicita della donna era una qualificazione negativa: la donna è intesa come angelo per il fatto che si rifiuta sdegnosamente, quasi con disprezzo...

No, no, mi riferisco alla donna-angelo stilnovistica e soprattutto all'idea che in Dante - per esempio - essa esprime nella simbologia teologica di Beatrice.

Beatrice, la donna amata da Dante, è per lui figura della teologia: è figura della disciplina razionale più alta perché conduce alla contemplazione dell'Assoluto.

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Ebbene, in che modo si può giustificare fìlosoficamente questa immagine dell'angelicita della donna? (evidentemente intendendo per giustificazione filosofica, in questo caso, non la dimostrazione incontrovertibile di ciò che si sta dicendo, ma molto più semplicemente un discorso che renda ragionevole e conveniente ciò che si dice).

Il principio chiave penso che possa essere espresso così: la donna, in forza della propria femminilità, esprime sempre l'idea di attività o di atto.

Sì, fisiologicamente parlando, la donna è attiva. Il principio attivo nell'ordine della sessualità non è quello maschile ma quello femminile.

Lo so bene che Freud sostiene il contrario, ma questa autorità non può essere invocata per sostenere un'idea che è evidentemente sbagliata.

Freud dice che la femmina è sessualmente passiva e si sente tale perché subisce la penetrazione: di qui nascerebbe nella femmina il senso di dipendenza e la sua forma inconscia di "invidia del pene".

Ma questa interpretazione bio-psicologica della femminililtà mi sembra proprio maldestra.

Fisiologicamente parlando, la femmina è attiva e non passiva. E'ia femmina che concepisce, non il maschio! Sul piano biologico, è la femmina che produce il nuovo; è la femmina che è fonte di novità.

Il principio "meccanico" della penetrazione non ha alcun valore. Mi vien quasi da ridere: quando ci nutriamo, è il cibo che penetra la bocca o è la bocca che mangia il cibo?

In opposizione a Freud, la psicologia dell'interpersonalità (K. Horney) capovolge la dirczione dell'invidia inconscia.

Non è la femmina a invidiare il pene, ma è il maschio che invidia la superiorità fisiologica della femmina. Il maschio sublimerebbe, dunque, con la sua straordinaria forza di lavoro questa invidia per supercompensare l'inferiorità fisiologica nella funzione riproduttiva.

Dunque, la femminilità esprime attività e quindi atto.

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Per questo motivo, quando rileggo quel brano di S. Tomma-so, nel quale si dice che l'amante sta all'amato come la materia sta alla forma (3 Sententiarum, 27, 1, 1 ad 5), non posso fare a meno di pensare che quella relazione non sia reciproca tra il maschio e la femmina, ma che sia semplicemente la relazione che lega il maschio alla femmina.

Dice S. Tommaso: «Vi sono due tipi di unione. L'una produce un'unità relativa, come l'unione di elementi aggregati, che si toccano solo superficialmente; e questa non è l'unione d'amore, giacché l'amante viene condotto nell'intimo dell'amato, come si è detto. L'altra è l'unione che produce un'unità assoluta, come l'unione dei continui, e della forma e della materia; e questa è l'unione d'amore, perché l'amore fa sì che l'amato sia forma dell'amante».

L'amante, dunque, sta all'amato come la materia alla forma.

In questa tesi, in virtù del realismo analogico, parametri di ordine metafisico divengono il criterio per interpretare un fatto e una dinamica di ordine psicologico - così come, in altre circostanze, parametri di ordine psicologico divengono criterio interpretativo o esplicativo della struttura metafìsica.

Psicologicamente parlando, queste affermazioni vanno intese in questo senso.

L'amore è una passione, cioè un moto dell'appetito sensitivo. Ora, l'appetito sensitivo è una potenza passiva e, come ogni realtà passiva, trova il proprio perfezionamento quando viene ad essere determinato dalla forma del principio attivo suo proprio, cioè ad esso proporzionato.

L'oggetto appetibile è infatti ciò che muove e determina l'appetito e ne costituisce: il termine di acquietamento, come per altro verso la forma intelligibile è il principio motivante e determinante l'intelletto: la ricerca e il dubbio cessano quando l'intelletto viene informato cioè determinato dalla forma intelligibile, così da fissarsi nel possesso della conoscenza.

Allo stesso modo, l'appetito, una volta imbevuto o impregnato dalla forma del bene che è il suo oggetto, si fissa in esso amandolo. L'amore è appunto questa specie di trasformazione

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dell'affetto nella cosa amata: l'appetito concupiscibile riceve dal bene appreso una prima trasformazione di armonizzazione (coaptatio} o proporzione al bene stesso, come compiacimento e affascinamento, che è appunto l'amore.

In questo senso il bene amato diviene forma dell'affetto, e poiché tutto ciò che diviene forma di qualcosa diviene uno con esso, l'amante, attraverso l'amore, diviene una cosa sola con l'amato, che si è costituito come forma dell'amante.

L'unità a modo sostanziale, che si viene a creare tra l'amante e l'amato, fa sì che l'amante percepisca l'amato come un alter ego.

Sempre in forza di questa unità quasi sostanziale prodotta dall'amore, l'amato diviene criterio o regola delle azioni dell'amante, perché la forma di una cosa è il principio e la regola del suo agire: l'amante viene inclinato dall'amore ad agire secondo le esigenze dell'amato.

E tutto ciò che l'amante fa o sopporta per l'amato risulta perciò piacevole: l'agire in conformità alla propria natura-forma è sempre sommamente piacevole e spontaneo.

E interessante notare come l'analogia o la proporzione tra la materia e la forma sia adeguata a descrivere anche le caratteristiche più tipiche dell'amore nei suoi stessi effetti, anche se si passa a una significazione metaforica.

Si dice infatti che l'amore produce una ferita, perché come la forma raggiunge l'intimo di ciò che essa informa e viceversa, così l'amante è permeato dall'amato, quasi restandone trafitto.

Siccome poi la trasformazione di un soggetto implica la perdita della sua forma originaria per acquisirne una nuova, in forza dell'amore l'amante perde in qualche modo la sua forma e separandosi in certo modo da se stesso tende all'amato: in questo senso si dice che l'amore produce l'estasi e il fervore.

D'altra parte, come un'entità naturale non perde la propria forma se non in quanto vengono a mancare quelle disposizioni per le quali la forma era ricevuta nella materia, così occorre che Ramante in qualche modo perda quelle condizioni terminali che lo costituivano come entità autonoma o originaria, ben determinata e chiusa in sé; in questo senso si dice che l'amore causa uno

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struggimento, una liquefactio: il cuore si scioglie, si liquefa e come liquido non sta dentro i propri limiti.

Ma l'aspetto, per così dire, più crudelmente esaltante dell'analogia nell'ilemorfismo d'amore è il parallelismo con la morte.

Di fatto, l'amante spira dolcemente in certo senso, quasi a modo sacrificale, perdendo - come si è detto - le proprie connotazioni per assumere la nuova forma dell'amato.

In questa linea, l'analisi teoretica o fìlosofica realistica trova perfetta sintonia con le sublimazioni affettive del canto poetico:

I' vo come colui ch'è fuor di vita

che pare, a chi lo sguarda, ch'orno sia

fatto di rame o di pietra o di legno,

che si conduca sol per maestria

e porti ne lo core una ferita

che sia, com'egli è morto, aperto segno.

(G. cavalcanti, Tu m'hai sì piena di dolor la mente}

Se dunque la materia dice passività e la forma, invece, atto, allora il maschio sta dalla parte della materia e la femmina dalla parte della forma.

E l'uomo-amante che si relaziona alla donna-amata come la materia si rapporta alla forma: non viceversa.

Nella lettera agli Efesini (5, 25), si dice che l'uomo deve amare la propria moglie come Cristo ha amato la Chiesa e ha sacrificato se stesso per lei. L'idea è la stessa: è l'uomo che deve immolarsi, sacrificarsi, morire per la donna.

Ma mi pare che si possa procedere ancora oltre queste affermazioni fino a giungere alla concezione angelica della donna.

Se la forma è il principio attivo ed è anche capace di sussistenza autonoma, ci troviamo di fronte al caso dell'anima umana e dell'angelo.

Ebbene, l'idea della donna-angelo potrebbe essere recuperata filosofìcamente proprio in questa prospettiva: si tratterebbe della idealizzazione piena e assoluta della attualità o attività del femminile.

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L'angelizzazione della donna dipende dall'idealizzazione dell'aspetto attivo che è legato alla femminilità.

Un'idealizzazione che tien conto non solo della dimensione di attualità o dell'essere principio attivo, ma anche del fatto che ciò che è attivo non ha bisogno di riferirsi ad altro per ricevere, ma è come perfettamente autonomo e sussistente: appunto come un angelo.

Questo diviene poi motivo di ammirazione e anche di contemplazione. Ma questo l'ho già detto.

Quello che si può aggiungere al riguardo è che proprio perché la donna può divenire oggetto di contemplazione, anche da questo punto di vista può assumere la fisionomia ideale dell'angelo.

S. Tommaso dice che anche un angelo può essere, oggetto della contemplazione e fonte di una certa beatitudine: addirittura più elevata di quella che si può raggiungere attraverso l'esercizio delle scienze speculative.

«Nulla impedisce che si possa raggiungere una certa beatitudine imperfetta nella contemplazione degli angeli; e anche più alta di quella che si può ottenere nella considerazione delle scienze speculative» (Summa Theologiae, 1-11, 3, 7).

Insomma: è meglio guardare un angelo che studiare...

Più di così non so dire, ma penso che neppure si possa dire di più...

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FESPLOSIONE DEL DOGMA

Compito della teologia è far esplodere il dogma, cioè l'immutabile verità di fede.

Evidentemente, esplodere non va preso nel senso negativo della distruzione. Una teologia che distruggesse il dogma distruggerebbe se stessa, perché il dogma, cioè la fede dogmatica, è il suo presupposto. La teologia è pur sempre la comprensione razionale della fede teologale.

L'esplosione del dogma di fede va intesa, in questa circostanza, nel senso con il quale si dice che è esplosa la primavera. È ovvio che con questa espressione non si intende dire che la primavera sia distrutta, ma che si è manifestata con tutta la sua ricchezza di colori, di forme e profumi.

E siccome questa manifestazione compare tutta insième, quasi all'improvviso, per il tramontare repentino e inatteso del grigiore invernale, fa rumore: esplode come un applauso.

Eppure tutta questa ricchezza era covata dalla natura, nascosta nel suo grembo sotto le coltri oscure dell'inverno.

Allo stesso modo, i contenuti più affascinanti della verità di fede, sono nascosti sotto le coltri apparentemente rigide delle definizioni dogmatiche.

Spesso si accusa il dogma di essere ormai incomprensibile, non rispondente alla sensibilità della cultura attuale e quindi estraneo all'interesse delle stesse persone di fede o comunque praticanti.

In parte, questa obiezione è vera, è fondata. Ma appunto in parte, cioè tiene conto solo di una parte del fondamento sul quale si struttura la comprensione di qualcosa.

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Una cosa può essere incomprensibile o perché in sé oscura, o perché è oscura o opaca l'intelligenza di chi vuole comprenderla. C'è un difetto nella comprensione sia dal punto di vista dell'oggetto che deve essere compreso, sia dal punto di vista del soggetto che vuole comprendere.

Ma, supposto che l'opacità più radicale sia quella che sta dalla parte del soggetto, quella oggettiva - cioè quella dalla parte dell'oggetto - è pur sempre riducibile alla opacità del soggetto.

Sì, voglio dire che l'oggetto è quello che è; l'unica assoluta opacità o impermeabilità che esso può avere nei confronti dell'intelligenza è l'opacità che lo toglie di mezzo come oggetto, cioè lo annulla come oggetto, nel senso che si identifica con il suo non essere assoluto. Questo non essere assoluto è la contraddizione.

Un oggetto è assolutamente impermeabile alla comprensione dell'intelligenza se è in sé contraddittorio, cioè nullo come oggettività. Il contraddittorio, per definizione, non è: e come tale non è intelligibile, è inintelligibile.

Non può essere compreso il contraddittorio, perché il contraddittorio è nulla e il comprendere nulla è nulla come comprendere, cioè non si da.

L'assolutamente incomprensibile è il contraddittorio; il contraddittorio non è: dunque l'assoluta incomprensibilità dalla parte dell'oggetto non c'è.

Un oggetto assolutamente incomprensibile non è neppure oggetto!

Dunque, resta fermo il fatto che se si da una opacità nella comprensione, questa dipende dal difetto o finitezza della capacità di comprendere, che sta tutta dalla parte del soggetto.

Siamo noi che non siamo capaci di comprendere, cioè di prendere insieme (cum-prehendere). , : .

Anche l'oggetto può avere una relativa incomprensibilità, nel senso che, data la sua sproporzione rispetto alle nostre capacità di comprensione, viene da noi significato o inteso solo prospetticamente.

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Non riuscendo a vederlo tutto insieme, lo vediamo prima in un modo, poi in un altro, poi in un altro ancora. Con il rischio di confondere i modi prospettici della considerazione, cioè le sfaccettature, con la natura o la totalità dell'oggetto stesso.

E quello che avviene quando ci facciamo - come si dice -un'idea di una persona: identifichiamo quella persona con le caratteristiche che in modo più saliente ci hanno colpito, o abbiamo potuto constatare. Il rischio è di identificarla con quelle caratteristiche, buone o cattive che siano, pregi e difetti: è inevitabile.

E inevitabile perché noi conosciamo le cose così come esse si presentano al nostro sguardo; ma non è detto che il modo con il quale esse si presentano al nostro sguardo esaurisca il loro essere o il loro modo di essere.

Noi non vediamo simultaneamente il davanti e il dietro, il sotto e il sopra, il dentro e il fuori, un fianco e l'altro di una cosa.

Per questo motivo noi discorriamo, cioè passiamo da un punto di vista all'altro per capire.

Per capire qualcosa noi dobbiamo formarci diverse idee della stessa cosa. E quando, per la sua straordinaria ricchezza di perfezione, un oggetto può suscitare in noi molte idee, che non riusciamo a coordinare tra loro, quell'oggetto diviene per noi -cioè relativamente a noi - incomprensibile. ' '

Questo vale soprattutto per Dio e la conoscenza che nói possiamo avere di lui.

Dio è lo stesso Essere per sé sussistente; è infinito in perfezione: solo Dio può comprendere adeguatamente se stesso, esaurendo la propria comprensibilità, perché è intelligenza infinita. Quindi, l'intelletto umano, essendo finito nella sua capacità di comprensione, non può comprendere totalmente Dio.

L'intelletto umano può arrivare a formarsi diverse idee intorno alla essenza di Dio, ma non può averne una conoscenza adeguatamente esaustiva: neppure per sintesi delle idee che possiede, perché sono concetti specifici che non possono per ciò stesso essere adeguati ad esprimere ciò che è metaspecifico.

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Mi sembra evidente che quando diciamo che Dio - cioè lo stesso Essere per sé sussistente - è Padre, attribuiamo un concetto ben determinato, specifico, esclusivo di altri concetti - per esempio quello di Madre - alla realtà che di suo non esclude nulla perché include tutto. E così via.

Il che vuoi dire che questo insieme di denominazioni ha una funzione evocativa; oppure, nel caso delle denominazioni metafisiche, cioè adeguate ad indicare ciò che è metaspecifico, la difficoltà della comprensione sta tutta nella scoperta della loro dimensione sintetica.

I trascendentali (realtà, uno, altro, vero, bene, bello) sono modi diversi di significare l'ente o essere; non sono modi diversi di essere! Indicano la stessa realtà in modi diversi o prospettici. Se si distinguono tra loro, vuoi dire che significano in modo diverso.

E questo presuppone che, anche se la distinzione che si trova tra di essi è solo di ordine concettuale e non reale, tuttavia si tratta di significati diversi tra loro.

Dire vero non vuoi dire immediatamente uno o bene. Occorre una riflessione per cogliere l'identità reale di questi diversi significati concettuali.

Arrivare a capire o a scoprire l'identità sotto la diversità è capire anche il valore della diversità.

È la stessa esperienza di gusto che si prova nell'uso o nella scoperta dei significati sinonimi, oppure nell'invenzione delle etimologie delle parole.

Così, per esempio, è gustoso e istruttivo scoprire i sinonimi di bellezza: formosità (per la proporzione delle forme), avvenen-W (per il confarsi a chi l'apprezza), attrattiva (perché attira a sé), appariscenza (per la chiarezza o luminosità della sua presenza), venustà (per il riferimento mitico a Venus, dea dell'amore e madre delle Grazie), grazia (per la piacevolezza che l'accompagna), splendore (per l'abbondanza della luminosità e visibilità), stupendità (per lo stordimento contemplativo che suscita in chi la vede), fascinosità (per l'incantesimo che segretamente insinua in chi la percepisce).

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Anche l'etimologia - cioè la ricerca dell'origine delle parole -non è meno gustosa e istruttiva.

Per esempio, bello, anche sul piano nominale, e una conseguenza del bene. Bello, infatti, deriva dal latino bellus: termine che a sua volta deriva dall'antico benus (per bonus) attraverso il diminutivo benulus-benlus, da cui appunto bellus.

Scoprire l'identità nella diversità. Ci si sente coinvolti inu-sualmente nell'usuale e si scopre la straordinarietà dell'ordinario: che botto, eh? !

Far esplodere il dogma vuoi dire scoprire il valore concreto di parole che sembrano lontane le mille miglia dalla nostra esperienza.

È uno scoprire il valore concreto di un significato per noi prima astratto: insieme riesci anche a valutare e apprezzare quel significato astratto, che ti sembrava avulso dalla realtà; anzi quel significato per tè non è più astratto, ma è diventato concretissimo. L'inusuale è ormai usuale!

La novità fa sempre un gran botto! Ma questo è un gran botto concettuale, perché la realtà è sempre quello che è, così com'è...

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IL PUNTO DI VISTA DELL'ETERNO

Non è facile adattarsi a un nuovo punto di vista. Si prova un grande sconcerto.

Non che si vedano cose diverse da quelle sempre viste. No!

Il fatto è che vedendole da un punto di vista diverso, le si vede in modo diverso: e le stesse cose quasi paiono irriconoscibili.

Oppure - e la cosa mi sembra più giusta detta così - noi siamo irriconoscibili a noi stessi, per il fatto di vedere le cose in modo diverso dal consueto.

Sì, il punto di vista è proprio a tal punto determinante, da cambiare il volto delle cose.

Cambiare il volto delle cose vuoi dire appunto girarle,, voltarle. In fondo, meditare significa proprio questo.

Meditare vuoi dire considerare sempre la stèssa cosa cambiando il punto di vista prospettico della considerazione. Meditare è quasi un misurare con la mente, il che implicajl soffermarsi del pensiero su una cosa spostando di volta in volta l'angolo della considerazione.

Se il contemplare è paragonabile al movimento circolare della mente - considerare la stessa cosa, sempre sotto lo stesso aspetto -, il meditare è paragonabile al movimento a spirale o elicoidale della stessa mente: al permanere della cosa, varia l'aspetto che di essa viene considerato, in forza della variazione della prospettiva.

Meditare vuoi dunque dire essere capaci di conciliare l'identico con il diverso; o per meglio dire, saper conciliare le diverse prospettive in riferimento al medesimo ed identico oggetto.

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È vero che il punto di vista dell'etemo appartiene per sé al movimento contemplativo della mente - considerare sempre la stessa cosa sotto lo stesso aspetto -: con-siderare è il fissare attentamente una stella, quasi per leggervi il decreto eterno del destino. Ma ora si tratta di comporre la considerazione eterna dell'eterno con la variazione o l'innovazione temporale con la quale l'eterno appare.

Questo compito, o questa abilità, appartiene al meditare.

Da sempre, nel corso della storia del pensiero, si assiste all'opposizione di tempo ed eternità, così come si oppongono il mobile e l'immobile, il mutevole e l'immutabile.

E si tratta di un'opposizione radicale, giacché i due termini si escludono vicendevolmente. Se una cosa è etema non può essere temporale; e, viceversa, se una cosa è temporale non può essere eterna.

Si tratta di un'opposizione che caratterizza anche due modi di pensare e le relative scuole di pensiero.

Da una parte abbiamo, così, i sostenitori della'temporalità del tutto: sono coloro che affermano l'assolutezza del divenire e della storia. Dall'altra parte, invece, abbiamo colorò che affermano il valore di ciò che si contrappone al temporale e al divenire e quindi l'assolutezza di ciò che è immutabile e dunque eterno.

I primi vedono nell'eterno la negazione della storia, la negazione del divenire: l'immutabile blocca tutto e non lascia spaziò alla libertà, alla novità del progetto umano.

I secondi, invece, vedono nell'immutabile la spiegazione del mutevole, la sua stessa condizione metafìsica. Non che l'immutabile tolga il mutevole: l'immutabile è la condizione per la quale il mutevole può essere. Senza l'immutabile, il mutevole non sarebbe.

La prima posizione rappresenta l'istanza della filosofìa moderna e contemporanea, che rigetta assolutamente il pensiero metafisico classico, con il suo ricorso alla trascendenza divina per salvare l'immutabilità dell'essere che nel divenire viene annullato.

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II rifiuto della trascendenza immutabile del divino è motivata dal dover sacrificare ad essa tutta la ricchezza dell'essere mondano. L'affermazione di Dio trascendente e della dimensione trascendente di tutti i valori, rappresenterebbero - per il pensiero contemporaneo - il rifiuto dell'umano.

Indiscutibilmente emblematico di questa posizione è il pensiero di Nietzsche. La morte di Dio è la condizione della vita dell'uomo.

La seconda posizione, invece, è evidentemente quella del pensiero classico, o comunque delle scuole anche contemporanee che ad esso si ispirano. Ciò che questo pensiero propone ha il suo emblema nella dottrina platonica.

Secondo Fiatone esistono due piani dell'essere: uno sensibile, diveniente, mutevole; l'altro metasensibile, ideale, immutabile.

L'essere sensibile, quello mondano, non è il vero essere, per Fiatone: il vero essere è quello trascendente e ideale, iperuranio, cioè quello che "sta al di là".

In questa prospettiva, la vita dell'uomo deve essere orientata più all'aldilà che all'aldiqua. La vera vita non è questa che viviamo nell'ordine della sensibilità, ma quella che vivremo nell'aldilà (Fedone}.

L'eternità è quindi vista come la salvezza delle cose, in quanto esse vengono possedute e dominate dall'eterno Dio: in se stesse, le cose sarebbero nulla, perché travolte dal flusso inesorabile del divenire.

Ma tra tempo ed eternità esiste effettivamente questo contrasto insanabile, per cui l'una sarebbe la negazione dell'altro e viceversa?

Oppure questo contrasto è in realtà fìttizio, frutto di una maldestra interpretazione sia del tempo, sia dell'etemo?

Il filosofo contemporaneo Emanuele Severino - il teoreta più rigoroso che io conosca - ritiene che sia la posizione classica, sia la posizione contemporanea si rifacciano a un medesimo errore.

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E l'errore che sta a fondamento dei due apparenti antagonisti è la "fede nel divenire"', cioè la persuasione che le cose siano nulla. Il nichilismo è la matrice comune alle due posizioni.

«Pensare che le cose escono dal nulla e vi ritornano è pensare che le cose sono nulla, ossia che l'essere è il nulla» (E. seve-RINO, La follia dell'angelo, Milano 1997, p. 250). L'uscire dal nulla e il ritornare nel nulla delle cose è l'interpretazione che la classicità e la contemporaneità danno del divenire.

Tutto l'Occidente è persuaso della nullità delle cose, anche se in modo non esplicito, giacché il nichilismo dell'Occidente sta appartato nel "nascondiglio più sicuro", cioè in quella che per l'Occidente è l'evidenza originaria: la fede nel divenire, come oscillazione delle cose tra l'essere e il nulla.

Severino denuncia quale follia questa interpretawne del divenire (cf. op. cit., p. 52).

Follia, perché identifica l'essere e il nulla, o se si preferisce usare il paradigma dell'opposizione originaria, questa follia identifica il positivo e il negativo.

Ma il positivo non è il negativo, l'essere non è il non essere!

interpretawne, perché non si limita a ciò che consta, ma lo trascende con un di più che viene iniettato erroneamente, cioè sulla base di un errore.

E l'errore è appunto l'essere persuasi della nientità dell'ente. Persuasione che ha addirittura una fondazione teoretica ritenuta incontrovertibile, tanto quanto la verità dell'essere: il principio di non contraddizione.

Il principio di non contraddizione, che vuole essere la difesa più rigorosa della incontraddittorietà dell'essere, in realtà è esso stesso «la forma peggiore della contraddizione: proprio perché la contraddizione viene nascosta nella formula stessa con la quale ci si propone di evitarla e di bandirla dall'essere» (E. severino, ritornare a Parmenide, in id., Essenza del nichilismo, Milano 1995, p. 22).

Secondo l'acuta analisi di Severino, il principiò di non contraddizione è in se stesso contraddittorio perché ammette un

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tempo nel quale si da quella identità di essere e non essere che invece lo stesso principio di non contraddizione intende respingere.

E in effetti, anche a me pare che dire che una cosa non può essere e non essere nello stesso tempo, significhi dire che può essere e non essere in tempi diversi, cioè che non si dia contraddizione nell'ammettere un tempo in cui quella stessa cosa non sia.

Ma mi viene da dire: se la cosa fosse diversa dall'essere, potrebbe essere indifferente all'essere e al non essere; e di conseguenza questa indifferenza garantirebbe l'incontraddittorietà del tempo in cui la cosa non è.

Ma la cosa non è un che di diverso dall'essere! Se infatti fosse tale, essa sarebbe non essere - tertium non datur - e allora nel momento in cui si predicasse l'essere della cosa si predicherebbe l'essere del non essere: il che è contraddittorio!

Se la cosa fosse diversa dall'essere, non sarebbe; dire che ciò-che-non-è è, implica contraddizione: l'identificazione del positivo e del negativo.

Quindi, se la cosa è l'essere e non un che di diverso o altro dall'essere, non v'è neppure un tempo in cui si possa predicare di essa il non essere. Non c'è un tempo in cui la cosa possa non essere, perché quel tempo o istante sarebbe l'identità simultanea dell'essere e del non essere: ciò che appunto il principio di non contraddizione intende condannare.

Dunque, non si può consentire che la cosa sia nel tempo, perché non si può consentire che l'essere sia hel tempo.

Ma direi anche di più - o forse è comunque la stessa affermazione vista da un'altra angolatura -: il tempo, come non essere dell'essere, non è, non c'è, come non c'è o non si da il non essere dell'essere!

«L'essere è, mentre il nulla non è»: questa è la verità o il destino dell'essere, secondo la celebre espressione di Parmenide (fr. 6, w. 1-2). Quindi l'essere non può non essere; l'essere non

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può essere afflitto dal nulla perché il nulla non è: in quanto nulla non c'è e non può far niente.

Il fare del nulla è nulla come fare, quindi lascia intatto l'essere nella sua beata indifferenza olimpica al nulla, perché non può temere ciò che non c'è!

Il nulla non fa ne caldo ne freddo all'essere: ncque calidum neque frigidum ens reliquit! . , : ,,

In questo senso, direi che la posizione parmenidea - ma so bene che non è proprio così totalmente parmenidea - di Severino rispecchia l'incontrovertibile verità dell'essere: la sua giustizia.

L'essere in quanto essere è dunque eterno. L'essere non può essere nel tempo; ma non è neppure sopra il tempo, quasi che il tempo avesse il dominio su qualcosa.

Dal punto di vista dell'essere, il divenire e il tempo, intesi o interpretati come vicenda della costruzione e distruzione dell'essere, non sono!

Dunque, con Severino, non posso non ammettere che la variazione che pur si constata e'che viene chiamata divenire, non è il venire dal nulla e il tornare nel nulla delle cose, ma l'apparire e scomparire, nell'orizzonte della nostra esperienza, di ciò che è eterno.

Il divenire va inteso come «il processo della rivelazione dell'immutabile» (E. severino, Poscritto, in id., Essenza del nichilismo, cit., p. 89).

Solo se il divenire viene interpretato in termini di essere e non essere «allora la verità dell'essere proclama l'immutabilità dell'essere; ma se il divenire è definito secondo le determinazioni che autenticamente gli convengono in quanto contenuto dell'apparire - e cioè come il processo della rivelazione dell'essere -, allora l'immutabilità e il divenire dell'essere non valgono più come termini tra loro contraddittori» (Ibid.).

Occorre dunque abituarsi a pensare e vedere le cose dal punto di vista dell'eterno, cioè dell'essere come tale.

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E il Cristianesimo sopporta una tale considerazione? Oppure anche il Cristianesimo è coinvolto nella "folle" persuasione dell'Occidente per cui l'essere è niente?

I concetti di creazione dal nulla, di incarnazione, di salvezza sopportano il vaglio critico della verità dell'essere?

Io penso proprio di sì. Anzi penso che il punto di vista della verità dell'essere, cioè dell'eterno, sia il punto di vista adeguato per capirli e non fraintenderli fantasiosamente.

Eh sì, perché è proprio il Cristianesimo il punto di vista eterno, sull'eterno.

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CETERNO NEL CRISTIANESIMO

II punto cruciale dell'obiezione che la verità dell'essere rivolge al Cristianesimo è questo.

Il Cristianesimo è nichilista: è immerso nella follia dell'Occidente, che è inconsciamente persuaso della nientità dell'ente.

Anzi, lo stesso Cristianesimo è promotore e banditore di questa follia, giacché la stessa affermazione di Dio trascendente, creatore e signore del mondo, implica la derivazione dell'essere del mondo dal nulla e la sua reversibilità nel nulla da cui è tratto -in forza della onnipotente Tecnica di Dio.

Ma «liberato dal nichilismo, il Messaggio ha la possibilità di appartenere alla verità dell'essere. Incomincia cioè ad essere, per la verità, un problema» (E. severino, Risposta alla Chiesa, in id., Essenza del nichilismo, cit., p. 344).

Che cosa vuoi dire liberare dal nichilismo il Messaggio cristiano? E che cosa vuoi dire che, libero dal nichilismo, il Messaggio cristiano comincia ad essere problema per la verità?

Beh, vediamo un po': se non ho capito male, problema è «ciò che la verità non è in grado di smentire o confermare» (E. severino, II sentiero del Giorno, in id., Essenza del nichilismo, p. 166).

Questo vuoi dire che il problema supera le capacità di determinazione della verità, intesa come un dire incontrovertibile -cioè incontestabile, che non può essere smentito - e anche come ciò che è detto in questo modo: cioè la verità dell'essere (cf.ZW.,p.l58).

E la verità dell'essere è appunto la contestazione del nichilismo, la sua negazione, la sua incontrovertibile smentita: l'essere in quanto essere, l'ente in quanto ente è immutabile, non può non essere, è eterno.

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Dunque, il messaggio cristiano comincia a diventare problema per la verità una volta che, smesso il linguaggio nichilistico della metafìsica, comincia a parlare la lingua della verità, cioè la lingua del Giorno - in contrapposizione alla lingua della Notte, cioè quella della metafisica nichilistica, per la quale l'ente può esser niente -.

In questa linea di riflessione, la creazione, se viene intesa necessariamente nel senso per cui la creatura sarebbe potuta essere nulla o potrebbe tornare nel nulla, non può essere accolta dalla verità dell'essere. E in questo modo - secondo Severino -«resta definitivamente precluso ogni incontro tra la verità dell'essere e il Cristianesimo» (Alienazione e salvezza della verità, in id., Essenza del nichilismo, cit., p. 274).

Nel caso invece in cui il concetto di creazione fosse inteso in conformità alla verità dell'essere - e quindi espresso nella lingua del Giorno -, allora divenendo problema, cioè possibilità per la verità, troverebbe ascolto da parte della verità dell'essere.

Perché la creazione sia un'autentica possibilità della verità dell'essere, essa deve essere interpretata come «una determinazione che riguarda l'apparire e lo sparire dell'essere» (E. severino, Poscritto, in id., Essenza del nichilismo, cit., p. 11.5): perché l'essere non viene dal nulla ne può tornare nel nulla.

Dunque, la parola creazione, nella lingua del Giorno, significa "teofania".

Il verbo gignesthai che compare nel prologo del Vangelo secondo Giovanni, a proposito della creazione di tutte le cose per mezzo del Verbo (Gv 1,3), non va quindi inteso come un «diventare essere» delle cose, ma come un «mantenersi e trarsi fuori dal loro nascondimento» (E. severino, II sentiero del Giorno, in id., Essenza del nichilismo, cit., p. 164).

La problematicità della creazione per la verità dell'essere sta nel fatto che, intesa in questo senso, essa porta pur con sé la possibilità che giunga ad apparire ciò che sarebbe potuto non apparire: «è il problema della libertà dell'apparire dell'essere» (J-W.).

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Problema perché si da anche la possibilità opposta: cioè la possibilità dello «sviluppo necessario della rivelazione dell'eterno» (E. severino, Poscritto, in id., Essenza del nichilismo, cit., p. 115).

Una riflessione del medesimo tenore deve essere fatta anche a proposito dell'incarnazione.

Anche l'incarnazione ha la possibilità di divenire significativa per la verità dell'essere, una volta illuminata dalla verità dell'essere, cioè una volta che si sia incamminata lungo il sentiero del Giorno, che è l'affermazione dell'immutabilità dell'essere, l'eternità dell'essere.

Dice espressamente Severino: «Affinchè la "storia della salvezza" divenga problema, il "Verbo" deve essere allora innanzi tutto pensato come eternamente "presso Dio" ed eternamente "presso la carne": e il suo diventar carne deve innanzitutto significare che il Verbo che è eternamente presso la carne è entrato nell'apparire» {Risposta alla Chiesa, in Essenza del nichilismo, cit., p. 381).

Ora, queste due tesi di Severino sono state dichiarate ufficialmente come incompatibili con la dottrina cattolica (cf. l'Appendice a Risposta alla Chiesa, in Essenza del nichilismo, cit., pp. 386-387). Ma è proprio del tutto assurdo cercare un punto di contatto, o individuare il punto di vista dal quale queste tesi, così importanti, solenni e rigorose possano essere conciliabili con il senso cattolico della dottrina rivelata?

Del resto, è la stessa vita cristiana, vita di grazia, vita divina, che ci obbliga a vedere tutto dal punto di vista di Dio, cioè dell'eterno.

Io penso proprio che sia possibile. E questo consentirebbe, da un punto di vista filosoficò, l'accoglimento del Cristianesimo come problema e possibilità da parte della verità dell'essere -come si diceva.

Dio mio, dammi intelligenza e aiutami ad esprimermi come meglio posso. S. Tommaso dice che non esiste una dottrina a tal punto falsa da non contenere in sé del vero (Summa Theologtae, I-II, 102,5, ad 4); io devo tentare questa via di conciliazione.

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Se poi dovessi fallire, avrei sempre con me la gioia dell'aver pensato cose che sono grandi, e la letizia della compagnia angelica che contempla eternamente l'eterno sènza fallire.

Anzitutto la creazione.

E vero che la creazione indica l'azione per la quale Dio trae dal nulla tutte le cose. Ma questa definizione di creazione va intesa correttamente.

Il dal nulla che compare nella definizione della creazione, e che comporta la problematicità principale della nozione, non sta ad indicare evidentemente una realtà. Il nulla non può essere una realtà, perché è nulla. Se il nulla è nulla, non c'è!

Quindi, quando si dice che la creazione è dal nulla non si intende dire che il nulla sia il serbatoio dal quale Dio trae fuori tutte le cose. Questo serbatoio è nullo perché non c'è.

Il dal nulla indica semplicemente il fatto che nulla funge da presupposto all'azione del creare. La creazione non è la trasformazione di una materia preesistente.

Dunque, se nulla è presupposto all'azione creatrice di Dio, c'è soltanto l'azione creatrice che è fondamento di se stessa.

E poiché l'azione di Dio è Dio stesso, dire che la creazione è dal nulla vuoi dire che essa non aggiunge assolutamente nulla a Dio.

; La stessa creatura è detta dal nulla di se stessa e di un soggetto preesistente, perché essa non aggiunge nulla a Dio.

Il mondo non aggiunge assolutamente nulla a Dio. Dio più mondo fa sempre Dio. Dio non può subire ne incremento ne decremento, essendo tutto l'essere, infinitamente perfetto.

In questo senso, non solo si può dire, ma si deve dire con Severino che «il mondo è nulla come novità o incremento rispetto a Dio» (Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, cit.,p. 60). • :' ' '

Guardando anche più a fondo la cosa, cioè da un punto di vista metafisico classico, si può trarre la medesima conclusione.

E non mi pare proprio che la metafisica debba necessariamente essere intesa come la dottrina nichilistica per eccellenza.

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Lo stesso Severino riconosce che può essere qualificato come "metafisico" il pensiero che esprima la «differenza tra l'apparire (che tuttavia è un ente) e l'essere (ossia la totalità degli enti) - la differenza tra ciò che del tutto si cela e ciò che di esso si manifesta» {Risposta ai critici, in Essenza del nichilismo, cit., p. 315).

Dunque, anzitutto cerco di argomentare secondo i parametri della metafisica che Severino definisce come nichilista; poi cerco di istituire un'analogia tra questi parametri e quelli del pensiero metafisico non nichilista.

Un momentino solo, che vado a prendere il mio saggio Dialettica della Rivelazione (Bologna 1996), perché lì mi pare di essermi espresso a questo riguardo in modo abbastanza chiaro. Dunque, dunque, vediamo un po': ecco, è alle pagine 39-45.

«In termini strettamente metafisici, direi che per capire questa situazione ontologica del mondo creato occorre fare delle distinzioni.

Dio non è totalmente altro dal mondo, ne totalmente identico, ma identico nel modo di essere diverso, o diverso nel modo di essere identico. Questo perché, se fosse totalmente altro, sarebbe un altro mondo, cioè sarebbe limitato e non infinito in perfezione, giacché il mondo creato gli si aggiungerebbe nella totalità dell'essere, mentre Dio è l'Essere per sé sussistente.

In questo quadro non può neppure essere totalmente identico, cioè essere il mondo simpliciter, perché in questo caso il mondo non rinvierebbe all'altro da sé, mentre invece rinvia.

E dunque non resta che la soluzione della identità-diversità, così come tra gli estremi della equivocità (prima ipotesi) e della univocità (seconda ipotesi) sta la soluzione dell'analogia.

Ragionando in dettaglio: il mondo è altro da Dio per la sua composizione metafisica di essenza e essere - essendo invece Dio semplicemente il suo stesso essere per essenza -; senza questa composizione, il mondo è uguale a Dio e distinto solo per distinzione di ragione ragionata.

E chiaro che questo lo si può sostenere per via speculativa:

non si può vedere come Dio componga la creatura, cioè come crei. Per questo non si deve immaginare che Dio perda parte di sé per porsi fuori di sé come creatura.

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Rigore per rigore, la cosa può essere maggiormente evidenziata analizzando il concetto stesso di creatura.

Ora, la creatura può essere considerata sotto diversi aspetti o punti di vista. Se consideriamo la creatura per sé o a se - cioè secondo la sua dipendenza causale -, la creatura è nulla: è dal nulla di se stessa e di un soggetto preesistente, per definizione.

Variando prospettiva, invece, consideriamo la creatura in se, cioè nella sua costituzione ontologica. Ebbene, in questo secondo caso si possono dare due modi di considerare la creatura: il modo reduplicativo e il modo specificativo.

Assemblando i concetti sul versante della considerazione reduplicativa, cioè della considerazione della creatura in quanto creatura. Dio e mondo sono perfettamente distinti, in quanto il mondo possiede un essere per partecipazione creaturale, mentre Dio è il suo stesso essere.

In senso reduplicativo, la creatura è il composto ontologico di essentia + esse. Si tratta cioè del concreto sussistente esistente, non per sé, ma per altro. E tanto importante questa relazione all'alterila di Dio, causa creatrice, che la dipendenza della creatura dal Creatore, in questa prospettiva reduplicativa, è di ordine trascendentale: l'essere per partecipazione diventa inintelligibile senza l'essenziale rinvio al partecipante.

Tematizzando lo statuto ontologico della creatura in prospettiva specificativa, invece, le cose cambiano. Parlare della creatura in senso specificativo, significa intendere la creatura non in quanto creatura, ma in quanto tale specie di creatura.

Per facilitare la riflessione con un esempio: se si intende l'uomo come creatura in senso reduplicativo, allora l'uomo è definibile come qualsiasi creatura, cioè come un soggetto che ha l'essere per partecipazione; se invece si intende la creatura umana in senso specificativo, allora la si definirà secondo la sua specie, cioè come animale razionale, senza alcun riferimento all'essere che essa ha per partecipazione.

In questa prospettiva, i concetti cominciano ad essere piuttosto delicati. E ovvio che la creatura in senso specificativo si identifica con la sua essenza specifica. Non che la creatura sia la

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propria essenza - solo Dio è la propria essenza -, ma nel plesso compositivo di essenza e essere, la creatura in senso specificativo sta dalla parte dell'essenza.

La cosa però richiede un'ulteriore distinzione.

L'essenza specifica della creatura, infatti, può essere intesa come il coprincipio reale del costituirsi della creatura insieme al suo proprio atto d'essere, oppure come il risultato di un'astrazione intellettiva, per la quale prescindiamo dall'atto d'essere della creatura, perché questo non rientra nella definizione dell'essenza specifica della creatura.

In dettaglio: se consideriamo l'essenza specifica della creatura per semplice astrazione dal suo atto d'essere proprio [in forza del quale esiste, e quindi si potrebbe dire che questa astrazione è un prescindere intellettivo dal fatto di esistere, più che una considerazione dell'essenza nella sua costitutività metafìsica], l'essenza della creatura, non implicando appunto per essenza l'essere partecipato, viene colta come un assoluto.

L'essenza della creatura, intesa in questo modo, non rinvia a Dio, dice assoluta autonomia. Pensando la creatura in questa prospettiva, non la si pensa come creatura, perché la relazione di dipendenza causale fuoriesce dall'essenza e si aggiunge come relazione accidentale: si tratta cioè di una relazione predicamen-tale e non trascendentale - come invece nel caso della considerazione reduplicativa.

In questa prospettiva, si può correttamente parlare di autonomia del mondo e delle sue leggi proprie. Così, il mondo è perfettamente distinto da Dio.

Nel considerare invece l'essenza come coprincipio concreto del costituirsi della creatura con il suo atto d'essere, l'essenza della creatura non è la creatura, ma non è neppure un nulla, senza l'atto d'essere proprio. ,

L'essenza della creatura, nella sua concretezza ontologica, se non è il nulla e non è neppure la creatura, perché non è in composizione reale con il suo atto d'essere proprio, non può che essere Dio: tertìum non datur. . .

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In questa prospettiva, consideriamo la creatura nella sua realtà precreaturale: essa è dunque Dio.

È Dio, o la stessa essenza di Dio, in quanto Dio pensa se stesso come partecipabile e intelligibile dall'altro da sé.

Ma, in questo modo, abbiamo raggiunto il punto nodale della riflessione per la quale abbiamo determinato che il mondo, cioè la creatura, in questa particolare prospettiva si identifica con Dio. Il mondo è l'intelligibilità di Dio per noi; è il modo con il quale Dio non solo ci si manifesta, ma manifesta la sua essenza per noi.

Metafìsicamente parlando, la distinzione-identità del mondo da Dio si gioca dunque tutta sul modo di considerare l'essenza della creatura e la sua relazione con l'atto d'essere suo proprio».

Questa identità-distinzione tra Dio e mondo è uno dei modi con i quali è pensabile l'immanenza o la presenza di Dio nel mondo.

Si tratta del modo per il quale il mondo è la trasparenza di Dio, la diafonia di Dio. Evidentemente non è la trasparenza di Dio a se stesso: Dio non ha mica bisogno di pensarsi attraverso il mondo... Se Dio ne avesse bisogno non sarebbe Dio, no?

Il mondo è il modo per il quale Dio è naturalmente trasparente a noi. Dio, conoscendo se stesso, conosce anche tutte le possibili creature, come sue realizzazioni similitudinarie nell'ordine creaturale. Queste sono il mondo in Dio. Il mondo attuale è l'insieme di alcune di queste similitudini creaturali dell'essenza di Dio, Non di tutte, perché altrimenti il mondo sarebbe Dio assolutamente.

(L'attuazione distinta di tutti i possibili è impossibile perché non tutti i possibili sono distintamente compossibili. Non ci può essere insieme Marte abitato e Marte disabitato: pur essendo possibile un universo in cui Marte sia abitato, mentre nell'attuale universo Marte non è abitato. Non è possibile che il mondo sia insieme assolutamente giusto e bisognoso di misericordia: pur essendo possibile un mondo assolutamente giusto, diverso dall'attuale, che è luogo di misericordia. Tutti i possibili

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sono compossibili invece nella loro attualità indistinta che è l'essere divino, l'Essere assoluto).

Se c'è una cosa che Dio non può fare è creare un mondo perfetto quanto egli è perfetto: creerebbe un altro Dio; ma un Dio creato non è più Dio. Non si possono dare due infiniti in perfezione nell'essere. Per distinguersi, l'uno dovrebbe avere ciò che l'altro non ha: quindi non sarebbero infiniti in perfezione...

Il mondo attuale è quindi un modo con il quale Dio si rende intelligibile, comprensibile in una forma proporzionata naturalmente a un'intelligenza che non sia la sua. Il mondo è la comprensibilità che Dio vuoi dare di sé all'altro da sé.

In questo senso il mondo è la diafania di Dio. Questo risulta dal considerare la creatura dal punto di vista della sua essenza in quanto suo coprincipio reale, senza l'atto d'essere partecipato.

Ma il mondo è anche la presenza di immensità di Dio. Dio è ovunque, onnipresente in quanto causa dell'essere delle creature. La causa dell'essere deve essere presente al suo effetto perché l'effetto sia ed è presente finché l'effetto di fatto è.

Questa immanenza di Dio nel mondo si mette in evidenza considerando la creatura dal punto di vista dell'essere, del suo atto d'essere, partecipatele da Dio.

Da ultimo, si può parlare del mondo come presenza speculare di Dio. Il mondo è lo specchio di Dio. Dio si riflette nelle sue creature. Ciò che si vede riflesso in uno specchio è la stessa realtà che in esso si riflette. Ma non si può confondere il riflesso con la realtà riflessa: guardando lo specchio, nello specchio si vede la realtà che in esso si riflette. Lo specchio rinvia: segnala una presenza rinviando ad altro da sé.

Questa immanenza di Dio nel mondo risulta dal considerare la creatura in quanto creatura, nel suo complesso metafisico di essenza + essere. In questo quadro però prevale il rinvio sulla semplice presenza. : ', .

Vediamo adesso la cosa in un quadro non nichilistico.

E ovvio che il linguaggio deve essere diverso. Allora occorre istituire un parallelismo analogico.

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Se la creatura, nel quadro cosiddetto nichilistico, è la composizione di essenza + essere, nel linguaggio del Giorno essa dovrà essere concepita come l'ente che appare e scompare.

Dico l'ente che appare e scompare, e non semplicemente che appare, perché se appare e scompare vuoi dire che non necessariamente appare: quindi è l'ente che è in composizione con il suo apparire. Se non fosse in composizione con il suo apparire e fosse il suo stesso apparire, apparirebbe sempre: il che non è.

In questo stesso senso si dice che la creatura è il composto di essenza e essere, perché essa non ha necessariamente l'essere -anche se di fatto può possederlo da sempre e per sempre.

Quindi, la creatura è l'ente che appare, ma potrebbe non apparire.

Severino dice: «Dal punto di vista della verità dell'essere, la possibilità della creazione è la possibilità che nello spettacolo eterno dell'apparire giunga ad apparire ciò che sarebbe potuto non apparire; ossia che in quel momento dell'eterno che è l'attuale apparire, l'eterno si riveli più di quanto non sia destinato ad apparire» (Poscritto, in Essenza del nichilismo, cit., p. 115).

Io però direi che la creazione non è semplicemente il giungere ad apparire, ma la condizione dell'apparire-scomparire.

E necessario che l'essere appaia. O meglio, è necessario~chè l'apparire trascendentale - cioè la condizione dell'apparire e dello sparire dell'essere eterno: l'apparire nel quale appare che l'apparire di un ente scompare - sia, non possa non essere.

«Se dell'eterno non apparisse nulla, l'apparire... sarebbe apparire di nulla e quindi non sarebbe, e cioè sarebbe un niente» (E. seveeino, ibid., p. 100). Dunque l'apparire trascendentale - cioè l'orizzonte ultimo dell'apparire, l'apparire come tale, il pensiero - non può non essere.

Ma perché l'apparire sia, occorre che l'essere appaia.

Se l'essere eterno appare processualmente, non appare totalmente. Ciò che appare processualmente, cioè appare e scompare, si presenta come isolato dal tutto.

«Proprio perché l'apparire dell'immutabile è processuale, l'immutabile si rivela in parte. Il che vuoi dire che la parte non si

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rivela nel tutto, non appare in quella beata compagnia, in cui pur si trova; e essenzialmente si trova» (E. severino, ibid., p.101).

L'essere che appare e scompare è l'essere astrattamente manifesto, cioè non avvolto nel tutto, che è il concreto.

L'essere come tale è l'essere «che non manca di nulla»; l'essere che appare è «la sintesi dell'essere e del suo apparire»: questa è la differenza ontologica (E. sevekjno, ibid., p. 113).

Ebbene, secondo me, proprio questa differenza ontologica, che intercorre tra l'essere in sé, nella sua pienezza concreta, e l'essere composto con il suo apparire astratto dall'intero, rappresenta la condizione della creaturalità, anche nella metafisica classica debitamente concettualizzata e letta nella luce del Giorno.

L'essere in sé rappresenta l'essenza come coprincipio reale con l'atto d'essere della creatura: qui esso e in composizione con l'apparire.

E come l'essenza della creatura (cioè del mondo), senza l'atto d'essere è la stessa essenza di Dio nella sua concretezza - il pensiero che Dio ha di sé come pienezza di intelligibilità per un'intelligenza diversa da quella divina -, così da esserne sul piano creaturale la diafania; allo stesso modo, o nello stesso senso si può pensare questa affermazione di Severino: «II mondo (ciò che appare) è Dio in quanto si rivela nella coscienza finita (la cui finitezza è appunto il suo valere come un apparire astratto dell'essere)» {ibid., p. 105).

Se l'uomo è l'eterno sguardo sull'apparire-scomparire dell'essere, l'eterno apparire dell'apparire eterno dell'essere, sempre manifesto, è invece Dio. E la scienza di Dio.

«Il mondo è un'immagine di Dio, o, meglio, è l'esito di una comprensione astratta della totalità dell'immutabile» (E. severino, Stornare a Parmenide, in ÌD., Essenza del nichilismo, cit., p.60). _ , :; _ . _ _ _ ..

Se l'apparire è eterno e i dati particolari, anche quando non appaiono, sono e sono nell'eterno apparire insuccessivo del tutto, l'apparire trascendentale (in cui tutto è eternamente manifesto) è la scienza di Dio: l'assolutamente concreto.

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Questa conclusione non può non derivare dal ritenere che esista un «apparire infinito della totalità dell'essere» che è la «Gioia"» (E. severino, La follia dell'angelo, cit., p. 66; cf. p. 174).

L'apparire infinito si distingue dall'apparire finito perché non è come quest'ultimo astratto e processuale.

Ed è "Gioia" perché è il toglimento di ogni contraddizione:

dove il tutto non è una semplice forma vuota accanto ad altre forme che pur rientrano nel tutto (dunque la contraddizione del finito in cui il tutto è una parte di se stesso).

La "Gioia" è il toglimento di ogni contraddizione, cioè di ogni astrattezza, perché è il coglimento del tutto nella sua pienezza concreta.

Se questa "Gioia" è l'uomo nel suo più profondo essere se stesso (cf. E. seveeino, ibid., p. 50), questo - secondo me - è tale però perché è l'inconscia presenza di Dio, che nell'apparire trascendentale - cioè nel pensiero in quanto distinto dal conoscere - appare come ombra.

Del resto, l'introduzione della figura della creazione non va intesa come nullifìcazione dell'essere (assurdo!), ma come ammissione di un intero in cui ogni ente è salvo ab aeterno, pur apparendo e scomparendo dallo spettacolo del mondo.

Passiamo ora a considerare quanto riguarda l'incarnazione.

Si può dire che Dio sia eternamente incarnato?

La risposta è sì. Ma occorre precisare bene come al solito la prospettiva del giudizio.

Se si considera l'incarnazione dalla parte di Dio, si può dire che Dio è eternamente incarnato.

Infatti, l'incarnazione non è altro che l'assunzione della natura umana da parte di Dio. Ora l'assunzione è l'azione divina per la quale la natura umana è unita a Dio; ma l'agire di Dio è Dio stesso (Dio è il suo stesso agire!). E quindi è eterno tanto quanto Dio.

Perciò l'assunzione della natura umana da parte di Dio, cioè l'incarnazione, è eterna. Vedendo le cose dalla parte di Dio, si può dire che Dio e eternamente incarnato.

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E vero però che Severino solleva anche un'altra obiezione a proposito della plausibilità del mistero dell'incarnazione.

Questa obiezione riguarda la possibilità dell'unione ipostatica, cioè dell'unione della natura umana e della natura divina nell'unica persona del Verbo.

Commentando in modo critico l'argomento tomistico, secondo il quale la predicazione degli opposti della persona di Cristo implica la compresenza in Cristo di due nature in un'unica persona, Severino denuncia l'assurdità del mistero dell'unione ipostatica proprio in base agli stessi princìpi argomentativi tomistici, che invece vorrebbero mostrarne la non evidente assurdità.

Di Cristo si dice che è morto e che è immortale. Ora l'attribuzione di predicati opposti a un medesimo soggetto è contrad-dittoria, se non interviene una distinzione che indichi rispetti o riferimenti diversi per quella predicazione.

Per esempio: non si può dire che la stessa mano sia insieme grande e piccola; ma se si distinguono rispetti o riferimenti diversi per questa predicazione l'assurdo scompare: la mano è grande rispetto al dito e piccola rispetto alla gamba.

Allo stesso modo, S. Tommaso sostiene la possibilità dell'attribuzione di predicati opposti alla medesima persona di Cristo, perché tale predicazione avviene secondo rispetti o riferimenti diversi, che tolgono la contraddizione.

Così, Cristo è insieme mortale e immortale: mortale secondo la natura umana, immortale secondo la natura divina. Perciò in Cristo si deve ammettere la sussistenza dell'unica persona divina del Verbo in due nature: quella umana e quella divina.

Ma Severino osserva che i predicati opposti di cui si fa menzione sono rispettivamente proprietà (cioè predicati necessari) delle due nature: la natura umana è necessariamente mortale e la natura divina è necessariamente immortale.

Perciò, l'opposizione tra gli attributi si riversa nelle rispettive nature, le quali, a loro volta, manifestano così la loro reciproca opposizione.

In questo senso, le due nature, che nell'argomento tomistico vengono invocate o introdotte come elementi risolutivi della

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contraddizione, sono esse stesse contraddittorie o motivo di contraddizione.

Le due nature «secondo cui gli opposti sono predicati di Cristo, sono cioè esse stesse degli opposti; ossia i diversi rispetti o riferimenti - cioè le due diverse nature, Valiud et aliud secondo cui vengono predicati de eodem gli opposti (proprietà umane e divine) - sono essi stessi degli opposti e quindi non riescono a costituirsi come i rispettivi diversi secondo cui vengono predicati dello stesso gli opposti» (E. seveeino, Pensieri sul cristianesimo, Milano 1995, p, 229).

Per questo motivo è assurdo dire che lo stesso soggetto sia insieme uomo e Dio.

Ma mi pare di poter controargomentare osservando che anche in questo caso esiste un principio che toglie la contraddizione, per riferimento a rispetti diversi.

Infatti la natura divina viene predicata della persona divina di Cristo (cioè il Verbo) per identità; la natura umana, invece, viene attribuita alla medesima persona per assunzione.

La natura divina si identifica con la persona divina; la natura umana non si identifica con la persona divina. Questo vuoi dire che l'essere Dio della persona di Cristo, cioè del Verbo, si predica in modo assolutamente necessario; l'essere uomo, invece, si predica della persona del Verbo in modo contingente o non assolutamente necessario, perché tale natura è assunta liberamente da Dio.

Non appartiene alla persona divina il sussistere necessariamente nella natura umana, mentre appartiene alla stessa persona il sussistere necessariamente nella natura divina.

Dunque, la predicazione delle due nature della medesima persona di Cristo, cioè del Verbo, non è secondo il medesimo rispetto, ma secondo rispetti diversi: il necessario (rispetto a Dio) e il libero (rispetto alla natura umana).

Che poi, dalla parte di Dio - come ho detto - l'assunzione libera della natura umana sia eterna come eterno è Dio, non significa che ciò sia necessario: non è necessario che la natura umana sia eternamente unita a Dio, anche se di fatto Dio ha eternamente assunto la natura umana.

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LA CONOSCENZA DI FEDE

Che tormento sentirsi dire: "Beato tè che hai la fede...". Intendendo per fede la fede cristiana.

Sì, è un tormento! Sembra che la fede sia qualcosa di pacificante e capace di risolvere tutti i problemi.

Ma se è proprio la fede che solleva problemi e genera dubbi!

E poi, che cosa sciocca dire "beato tè che hai la fede": come se la beatitudine consistesse nell'aver fede!

Ma siamo pazzi? La beatitudine è un atto di visione: beato è colui che vede chiaramente la verità, non chi è all'oscuro.

Del resto, la dottrina cristiana insegna che la beatitudine promessa è la visione aperta di Dio, quando la fede - con la sua oscurità - è tolta definitivamente.

Non so proprio se sia più tormentoso, o più sciocco, quel modo di dire. Ma forse si deve dire che è tormentoso perché è sciocco. Lo sciocco da sempre fastidio, no?

E si tratta di un fastidio tanto più grave quanto più importante è l'oggetto che si mette in discussione..

Sai, se si mettessero in ballo cose ridicole, poco importerebbe: ci si riderebbe sopra. Ma se la posta in gioco è alta, le cose cambiano.

Nessuno ha piacere ad essere preso per il naso nelle cose che contano e per le quali si da l'anima.

Così è anche in questo caso. La fede è troppo cruciale nel suo valore - debitamente inteso. Lo dico sinceramente.

In fin dei conti, aver fede è sempre un atto dell'intelletto. E l'intelletto è ciò che di più intimo possediamo e ciò che più intimamente e apertamente ci collega al vero.

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E vero che la fede suscita problemi, data la sua non evidenza, ma la fede ha in sé una certezza che sembra oltrepassare l'inevidenza stessa.

Come si possono conciliare questi due aspetti? Già, anche questo è un problema tormentoso.

Si può dire che la fede, per il fatto di essere certa ma relativa all'inevidente, sia assurda? Si può dire che la fede, essendo certezza di ciò che è dubbio sia contraddittoria?

Se la fede fosse contraddittoria non esisterebbe: quindi coloro che credono o dicono di credere, in realtà credono di credere. Questa è la tesi più volte ribadita da Severino.

E la motivazione di questa tesi sta in questa analisi.

La fede che salva non esita (cf. Me 11, 23. 16, 16). Ma l'esitare è condizione della fede, perché la fede si riferisce al non evidente, il quale genera l'esitazione tipica del dubbio. Dunque la fede che salva non esiste (cf. E. severino, Pensieri sul cristianesimo, cit., pp. 87-100).

Non esiste perché non si da una certezza inesitante fondata sull'esitazione propria dell'incerto. Si può dare fede solo se l'oggetto della sua adesione non è evidentemente vero, cioè non carpisce invincibilmente l'assenso dell'intelletto. Ma se questa è la condizione dell'oggetto della fede, la sua certezza è dubbia.

Ciò che non è evidente non costringe all'assenso,, perché potrebbe non essere vero.

L'intelletto è costretto all'assenso solo da una verità evidente:

immediata o mediata che sia.

Per esempio, l'affermazione che il tutto è superiore alla parte è un'affermazione immediatamente evidente: non ha bisogno di essere dimostrata e l'intelletto non può non accettarla, essendo costretto dalla sua immediata evidenza.

Nello stesso modo, l'affermazione che la somma degli angoli interni di un triangolo è pari a 180 gradi è una verità evidente, anche se frutto di una dimostrazione: questa volta è la dimostrazione che costringe l'intelletto all'assenso.

In entrambi i casi l'evidenza è tale per cui è impossibile pensare il contrario: significherebbe affermare l'assurdo, cioè identificare il tutto con la parte e il triangolo con il non triangolo.

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Ma la verità cui aderisce la fede non è tale da presentarsi con l'evidenza di se stessa, immediata o mediata che sia. Anzi, la verità che è oggetto di fede non si presenta affatto: non è evidente. Per questo motivo, potrebbe non trattarsi di verità.

Ciò che si accetta per fede, potrebbe essere smentito, negato, visto che non si presenta con le condizioni della necessaria costrizione dell'assenso dell'intelletto.

Per esempio, non è evidente che Dio sia unità numerica di natura e trinità di persone: non è neppure possibile dimostrarlo. Dunque, accanto a questa affermazione sta sempre la possibilità della sua negazione, cioè della sua smentita.

Ma un'affermazione che può essere smentita non è certa, bensì dubbia. Quindi la fede nella trinità implica il dubbio, cioè il ritenere che sia possibile la non trinità di Dio. Se fosse infatti evidentemente impossibile la non trinità di Dio, essa sarebbe immediatamente o mediatamente (cioè dimostrativamente) certa e quindi indubitabile per l'intelletto.

Il fatto che non sia evidente fa sì che la verità di fede possa essere negata, smentita: il che testimonia della sua dubitabilità.

L'intelletto, non costretto all'assenso dall'evidenza, è dubbioso e tale rimane anche nell'atto di fede.

Perciò la fede si accompagna all'esitazione del dubbio e non all'inesitazione dell'evidenza.

Ohibò, come rispondere a queste osservazioni critiche?

Certamente non sono banali. E proprio perché non sono banali ma fondamentali consentono di approfondire in modo più pieno la stessa nozione di fede per averne una conoscenza più adeguata.

Troppo spesso, infatti, si scambia per fede ciò che fede non è.

Anzitutto occorre riconoscere che se la fede implica il dubbio, la fede è certamente un atto intelligente, e quindi non è un vago sentimentalismo mal riposto.

E un atto intelligente perché problematizza: il dubitare e porre dei problemi è segno di una certa intelligenza - è ovvio che poi dipende dal modo con il quale sono posti i problemi e da come si esercita il dubbio: non basta dire "mah, boh" per

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dimostrare la propria intelligenza-; il porre problemi non è segno di pigrizia intellettiva, perché implica la ricérca di una soluzione.

Proprio in quanto accompagnata dal problema e dal dubbio, la fede è atto dell'intelletto e si riferisce al vero (se le cose stanno o non stanno come si dice che stiano), che è l'oggetto proprio dell'intelletto.

E quindi, da questo punto di vista, l'obiezione potrebbe essere valutata come un apprezzamento: certo, capovolgendo in senso positivo l'istanza critica negativa.

Ma l'obiezione vera e propria riguarda il fondamento incerto della certezza di fede: la fede salvifica dovrebbe escludere il dubbio, mentre invece non può non convivere con esso.

Credere vuoi dire non vedere; se non si vede e si è nell'oscurità si dubita: dunque per credere si deve dubitare. Questo vuoi dire che il dubbio è fondamento della fede.

Tuttavia, mi pare che le cose debbano essere intese in un altro modo.

Il dubbio è fondamento della fede non nel senso che per credere bisogna dubitare: se si dubita si dubita, non si crede!

Il dubbio è fondamento della fede nel senso che il credere è l'oltrepassamento del dubbio: se non si presentasse il dubbio non si potrebbe neppure dare il suo oltrepassamento.

Il dubbio è la condizione per la quale la fede appare come oltrepassamento del dubbio. Quando si crede, il dubbio non c'è! Quando si dubita, la fede non c'è! Non si da simultaneità o identità formale di fede e dubbio.

Anche la scienza, in questo senso, si fonda sul dubbio, perché è una soluzione, cioè l'oltrepassamento di un problema, di qualcosa rispetto al quale si è dubbiosi.

E vero, però, che la scienza, una volta superato il dubbio in modo incontrovertibile, non è più messa in discussione dall'intelletto; la fede, invece, può essere messa in discussione.

Si ha fede, si crede perché qualcosa continua a rimanere per sé inevidente: il che non gratifica l'intelletto che è fatto per vedere. In questo senso, la fede si accompagna al dubbio.

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Ma non è la fede che si crogiola nel dubbio, ne è l'intelletto che nella fede dubita.

L'intelletto, considerando il valore conoscitivo della fede -cioè valutando la fede per quello che è: un assenso che non è costretto dall'evidenza della verità -, ne scorge l'incertezza o problematicità.

L'atto di fede, infatti è un assenso dell'intelletto, che tende ad oltrepassarsi nell'evidenza. Credere è «cum assensione cogitare»: accettare meditando (cf. S. tommaso D'AQUINO, Summo Theologiae,H-}l,2,l).

L'intelletto non può accontentarsi della fede, ma con la fede, per la fede e nella fede gode di una percezione del reale altrimenti inattingibile.

Con la fede, nella fede e per la fede, l'intelletto non gode dell'evidenza obiettiva, ma possiede una certezza soggettiva equivalente all'evidenza obiettiva.

Per intendere questa affermazione occorre ribaltare lo schema secondo il quale l'intelletto raggiunge la fede e attraverso la fede conosce: se la fede non è dell'evidente, l'intelletto rimane soggettivamente incerto, perché lo strumento di cui si avvale per conoscere - la fede appunto - è acquistato senza evidenza.

Ma la fede teologale non è un acquisto dell'intelletto. La fede teologale è un habitus infuso da Dio nell'intelletto umano. Si tratta di una qualità per la quale divinamente l'intelletto emette l'atto del credere.

La fede non segue l'atto dell'intelletto, ma lo precede per infusione: rende così capace l'intelletto di un atto che è soprannaturale, cioè più divino che umano. In questo senso la fede è soggettivamente certissima.

La fede teologale è soggettivamente certa perché è la partecipazione alla stessa conoscenza di Dio. E la conoscenza che Dio ha di se stesso, partecipata all'intelletto umano.

L'oggetto della fede teologale è la deità, l'essenza stessa di Dio. Ora soltanto Dio può conoscere essenzialmente Dio.

Il motivo dell'assenso di fede non può dunque essere che Dio, perché soltanto Dio conosce perfettamente se stesso.

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Perciò il credere, da questo punto di vista, non può essere esitante: Dio non esita.

Ma si potrebbe anche aggiungere che la vera fede salvifica è quella informata, accompagnata dalla carità, che nel suo grado perfetto implica l'esercizio dei doni dello Spirito Santo.

Ebbene, da questo punto di vista, la fede è a tal punto connaturalizza all'intelletto - o meglio l'intelletto è a tal punto connaturalizzato dai doni della scienza, dell'intelletto e della sapienza ai modi dell'agire divino -, che l'atto di credere diviene qualcosa di spontaneo, paragonabile a un'intuizione sensibile: quasi una percezione immediata del concreto.

La fede salvifica è in questo senso inesitante. E la partecipazione alla conoscenza di Dio; è la conoscenza che Dio ha disé; è il conoscere dunque le cose dal punto di vista di Dio. '

La fede teologale è conoscere le cose dal puntò di vista dell'eterno, cioè secondo il loro valore assoluto.

Obiettare che questo discorso è però un discorso di fede, può ottenere come risposta che, ammesso il punto di vista della verità dell'essere, questo discorso ha la possibilità della verità e di porsi come il cuore della stessa verità dell'essere.

Arrivato a questa conclusione, però, devo in qualche modo ricredermi dell'invettiva scagliata contro la sciocca esclama2Ìone "beato tè che hai la fede!". Eh sì, perché in fin dei conti è pròprio vera..; i

Ma forse il ricredermi totalmente sarebbe un errore ancora più grande.

La fede mi mette a contatto con quel contenuto che è Dio stesso; la carità e i doni dello Spirito Santo mi connaturalizzano al modo di conoscere di Dio, come per intuizione. Questa fede è salvifica e non ha tentennamenti: nel credere, in questo senso, non si esita, perché è un atto mistico.

Ciò che Gesù dice a riguardo della infallibilità dell'agire con la fede, nella fede e per la fede va inteso nella linea della partecipazione alla vita di Dio: «Abbiate fede in Dio! In verità vi dico:

chi dicesse a questo monte: Levati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò

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gli sarà accordato. Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato» (Me 11, 22-24).

La fede formata dalla carità, la fede salvifica, non ha tentennamenti perché è la partecipazione alla vita di Dio.

Lo spostare le montagne è un'immagine che sta a indicare propriamente questa condizione: Dio può tutto; nel credere si può tutto perché questa fede teologale formata dalla carità, cioè dalla grazia, è la partecipazione alla vita divina.

Sarebbe come dire: chi ha questa fede è Dio; o in lui si manifesta Dio. Anche se non sposta le montagne!

Ma la fede, considerata nella sua dimensione obiettiva, cioè di oggetto da credersi, rimane sproporzionata all'intelletto umano.

I contenuti della fede: Trinità, incarnazione, sacramenti ecc., non sono verità evidenti per l'intelletto dell'uomo. Come tali suscitano dei problemi nella loro veste - per dir così - teoretica. In questo senso dico che queste verità di fede non sono soluzione di problemi ma sollevano problemi.

E si tratta di problemi tutt'altro che di secondaria qualità per l'intelletto.

Su questi problemi si arrovella la riflessione teologica, per capire che cosa si deve credere.

Il cristianesimo è più facile da vivere piuttosto che da comprendere! •

La fede salvifica non da la beatitudine, ma da una certezza di "Gioia" (nel senso severiniano del termine).

La fede come oggetto del credere senza vedere, invece, è un sapere che si accompagna al problema e stimola l'intelligenza.

Se "beato tè che hai la fede" vuoi dire, per un verso, "beato Dio e chi è come lui" e, per un altro verso, "beato chi trova stimoli intellettuali nel credere", bene: sono pronto a chiedere scusa per la mia "sciocca" invettiva...

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LA DIVINIZZAZIONE

Adesso bisogna mettersi in una posizione contemplativa, come al mare: mani dietro alla testa, occhi chiusi e viso rivolto al sole... del pensiero.

Si deve cominciare a riflettere sulla natura delia grazia santificante.

Occorre avere chiaramente presente il discorso fatto sulla identità-diversità tra Dio e il mondo.

Qual è l'essenza della grazia?

La grazia è la partecipazione alla stessa vita di Dio.

Allora, problemino dei problemini: la grazia santificante è la partecipazione della creatura ragionevole alla stessa vita di Dio. Ma non ho provato metafisicamente che si da una presenza di immensità di Dio in ogni creatura? E che l'essenza della creatura, come co-principio reale dell'atto d'essere, è la stessa essenza di Dio?

Dio non è già in tutto?

Come si risolve questo problema? Che bisogno c'è di una partecipazione alla vita divina, se Dio è già presente in ogni cosa?

Dio è presente per immensità in ogni creatura. Quindi, visto che è incontrovertibilmente vero che Dio è presente per immensità e per diafania in ogni creatura, come si fa a dire che si da un nuovo modo di presenza di Dio attraverso la grazia santificante? Visto che il primo dato - cioè la presenza di immensità e diafania di Dio nel mondo - è incontrovertibile, cioè non patisce negazione (negarlo vuoi dire contraddirsi), si sarebbe tentati di supporre che la presenza di grazia in realtà sia una presenza soltanto per modo di dire e non una realtà.

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E il modo speciale con il quale si dice che Dio è presente nelle creature ragionevoli con la grazia sarebbe una pura denominazione estrinseca, cioè un nome semplicemente attribuito ma non indicativo di una realtà.

La grazia non sarebbe una qualità e quindi dovremmo dire che è un modo di dire. Ma se si conclude così, si va contro le esplicite affermazioni scritturistiche, secondo le quali l'uomo è realmente deificato (cf. Gv 1,12; 3,5; 1 Gv 3,1. 9; Tt 3,5; Gc 1,18;

mi,23;2pn,4). ,,

Dunque: se si esclude la tesi della presenza metafisica di Dio nel mondo, si entra in contraddizione; se interpretiamo la grazia in modo puramente nominale, si negano contenuti esplicitamente rivelati.

Allora, come si devono conciliare le due cose?

La conciliazione non può che essere di ordine speculativo. Bisogna cioè trovare la soluzione intermedia che renda ragione, da una parte, della presenza di immensità e di diafania di Dio in ogni creatura, e, dall'altra, della presenza speciale di Dio, della vita divina, attraverso la grazia, nella creatura ragionevole.

Si potrebbe risolvere il problema in questo modo.

La presenza di immensità di Dio in ogni creatura è la presenza della causa dell'essere all'effetto perché l'effetto sia. Questo è ciò che si deve concludere metafisicamente dal fatto che Dio è Creatore del mondo: Dio dev'essere presente immanentemente al mondo conferendogli l'essere, così come io sono presente al mio parlare: se io smettessi di parlare, il parlare sparirebbe.

Io sono il parlante e l'effetto è il parlare; ma l'attività del parlare c'è finché continuo a parlare: solo se non smetto di parlare.

Dio è presente nel mondo, conferendo al mondo l'essere. Se il mondo ha l'essere è perché lì c'è Dio che gli conferisce l'essere. Sto parlando con il linguaggio della metafisica tomista. Ma non si deve pensare questa tesi metafisica in modo immaginoso. Non si deve pensare che... io sono qui e Dio è accanto a me e mi tiene nell'essere... no!

Dio, l'essere assoluto, permea tutta l'entità.

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Si dice che Dio è più intimo a noi di noi stessi perché Dio, con l'atto creativo, permea ogni creatura.

Dunque, con questo atto creativo,'con questa causalità d'essere, Dio è presente per immensità in ogni creatura, in quanto costituisce la creatura. •

Questo, però, non vuoi dire che la presenza d'immensità di Dio nelle creature divinizzi le creature.

Ho detto che la creatura in senso reduplicativo, cioè in senso stretto, è essenza più atto d'essere; la presenza d'immensità di Dio nelle creature dipende dal fatto che questo soggetto essenziale partecipa dell'atto d'essere e quindi, in quanto partecipa dell'atto d'essere, è distinto da Dio, perché Dio è lo stesso Essere per sé sussistente (non per partecipazione).

Quindi, Dio è presente nella creatura per immensità in quanto conferisce alla creatura questa partecipazione dell'atto d'essere e, in forza di questa partecipazione, la creatura si distingue dal Creatore. .

In forza di questa partecipazione Dio non da la vita divina alla creatura; Dio da alla creatura la vita creaturale, perché in forza dell'atto d'essere partecipato, la creatura viene costituita come creatura, cioè altro da Dio.

In questo senso, questa partecipazione dell'atto d'essere non è la partecipazione della vita divina. , ;

Questo serve già a dire che questa presenza d'immensità non può essere identificata assolutamente con la presenza di grazia.

D'altra parte, però, si dice che la presenza di grazia è la presenza della stessa vita di Dio nella creatura ragionevole: questo vorrà dire che la presenza di grazia non è una presenza che si estenda ad ogni creatura; è una presenza che si riferisce alla sola creatura ragionevole.

Questo mi fa capire che, anche dal punto di vista della grazia, nella sua definizione non c'è una perfetta coincidenza con la presenza di immensità, perché la presenza d'immensità è determinata dalla causalità con cui Dio costituisce la creatura, ogni creatura.

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La presenza di grazia non è riferita a questa causalità e non si riferisce a tutte le creature, ma alle creature ragionevoli. Quindi, non si identifica certo semplicemente con la presenza d'immensità.

Per questo motivo, S. Tommaso dice che la grazia santificante è un modo speciale con il quale Dio si rende presente nella creatura ragionevole, oltre a quello di immensità.

Assodato questo, si deve cercar di vedere in che cosa consista la presenza di grazia, visto che non può essere identica sim-pliciter con la presenza d'immensità e visto che non può essere una semplice denominazione estrinseca (Lo ripeto: non è per modo di dire; non si dice che un uomo ha la grazia perché è gradito a Dio. No, è in grazia perché ontologicamente partecipa della vita di Dio).

Vediamo un po'. Occorre penetrare questo concetto.

Siccome penetrare un concetto o una tesi, sia in teologia, sia in filosofìa, vuoi dire porre un problema, allora anche in quest'altro caso si porrà un problema.

Posto che la presenza di grazia non si identifichi simpliciter con la presenza d'immensità e che non sia per modum dici; se realmente la grazia è partecipazione alla vita divina, non di tutte le creature ma di quelle ragionevoli: come è possibile che la vita divina, essendo Dio stesso, cioè un sussistente, si comunichi ad altro da sé, quando il sussistente è incomunicabile per definizione?

Il sussistente è incomunicabile perché è l'individuo. Si può comunicare qualche cosa che appartiene all'ordine specifico o universale, ma l'individuo no.

I genitori non si sono comunicati a noi per generarci; hanno comunicato la natura umana, non la loro individualità.

Io, Giuseppe, non sono ne Carlo, ne Paola. I miei genitori sono due individui perfettamente distinti tra loro e da me, tanto è vero che mio papa è morto e io ci sono ancora.

Ciò che mi è stato comunicato è la natura umana, non la loro individualità: io ho la mia individualità, loro hanno la loro.

L'individuo come tale è incomunicabile.

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Ora, dire individuo vuoi dire il sussistente. Sussiste la specie uomo? No. Dov'è la specie uomo? Nell'iperuranio. E dov'è l'i-peruranio? Nelle teste bacate di quelli che ci credono!

La specie uomo è un universale. Allora io posso dire che questo è un uomo, quello è un uomo, quell'altro ancora è un uomo, perché applico una nozione universale a tanti individui. Questo perché la specie non sussiste, non è un individuo!

L'obiezione che l'aristotelismo rivolgeva al platonismo può essere espressa così: "Tu ipostatizzi, cioè, rendi individuo sussistente una specie, cioè un'idea. Ma stai attento perché se ipostatizzi una specie, non puoi dire che gli individui materiali siano partecipazione di quell'idea, perché quell'idea è incomunicabile, se è individuo. Se è comunicabile non è più un individuo, cioè, non è più nell'iperuranio che vuoi tu. Non è un sussistente ontologico". L'individuo è incomunicabile.

Ora, Dio è un individuo: metafisicamente è un sussistente, non è una forma partecipata da individui diversi. Ed è a tal punto semplice da identificare la propria individualità con tutti i propri attributi. Per cui Dio è vita? Sì, è la stessa vita divina per sé sussistente. .

Allora, se la vita in Dio è per sé sussistente (cioè, è individuo), è impossibile che si comunichi.

Ma ho detto che la grazia santificante è la partecipazione della vita divina? Questo suppone che vi sia una comunicazione della vita divina: e ciò è impossibile.

Se la vita divina è per sé sussistente, è anche incomunicabile. E allora, come la mettiamo?

Soluzione. E vero che l'individuo, il sussistente, è incomunicabile ontologicamente, ma che lo sia anche ghòseologicamente non è vero !

Aristotele dice che l'anima, nel conoscere, è in qualche modo tutte le cose: il che vuoi dire che l'anima è capace di diventare conoscitivamente il mondo. L'anima diventa tutte le cose conoscitivamente, non ontologicamente.

Questa capacità di essere l'altro in quanto altro, senza perdere se stessi, si chiama intenzionalità conoscitiva. Siccome questa

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intenzionalità è aperta all'infinito, non si può escludere che Dio si comunichi intenzionalmente a questa intenzionalità.

Quando si dice che la partecipazione alla vita divina, da parte della creatura ragionevole, suppone una capacità passiva proprio dalla parte della creatura ragionevole di ricevere la vita divina, questa capacità passiva (che in termini tecnici classici si chiama potenza obbedienziale) non è altro che la spiritualità dell'anima.

Si tratta, cioè, della capacità intenzionale aperta all'infinito.

Questo vuoi dire che non si può escludere che Dio possa comunicarsi a questa apertura intenzionale infinita dell'anima ra-gionevole.

Quindi, quando si dice 'che Dio è presente per presenza di grazia con la sua vita o che comunica la sua vita alla creatura ragionevole, si deve intendere questa affermazione in questo senso: "Dio si comunica in modo nuòvo alla conoscenza e alla affettività dell'uomo".

Questa partecipazione della grazia di Dio non è uh prendere un pezzo di Dio. Questa presenza di grazia è una presenza ontologica, ma presupposta l'intenzionalità. i

Dio non è un sasso. E puro spirito! Quindi, la presenza ontologica di uno spirito a uno spirito chfe cosa vuoi che sia?: conoscenza e affettività!

Questo, però, non vuoi dire che la grazia sia solo sul piano morale. Sul piano morale vorrebbe infatti dire che solo per modo di dire l'anima è in grazia: essa sarebbe gradita a Dio,-ma Dio non le si comunicherebbe attraverso la conoscenza e l'affettività. No, questo va escluso. Dio si comunica realmente alla conoscenza e all'affettività, ma come conosciuto e come amato:

non si può prendere un pezzo di spirito!

Quindi, è possibile questa comunicazione? Sì. Qual è la condizione di possibilità, dalla parte della creatura, di ricevere questa comunicazione della vita .divina? L'intenzionalità del conoscere e dell'amare. E questa intenzionalità è la potenza obbedienziale. ,

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Ma come va intesa questa capacità (che è passiva da parte dell'uomo: potenza obbedienziale) di ricevere la vita divina, che è infinita?

È il pensiero come atto. L'atto del pensare ha un'estensione infinita. ; '•

Tu prova a pensare che c'è qualche cosà che non pensi: la stai pensando! Pensa che il tuo pensiero ha dei limiti: pensando i limiti li hai già oltrepassati. Non ti ho detto: "Vedrai che tu conosci tutto, perché non c'è niente che tu non conosca"; no, ti ho detto che non c'è niente di reale o possibile (l'impossibile, l'assurdo non è pensabile perché non è, ne può essere) che tu non pensi.

Pensare non vuoi dire conoscere. Ci sono tante cose che non conosco, però le penso e pensandole so che io non le conosco:

sono ignorante, però le penso.

Ho già riflettuto abbastanza su questo punto.

Dire che l'estensione del pensièro come atto è infinita, vuoi dire che è capace di Dio. Non lo esige: se lo esigesse, il nostro pensiero sarebbe Dio; e allora non potrebbe neppure esigerlo, non sentirebbe il bisogno di conoscere.

Non esige di conoscere Dio, però non si può escludere che, data la sua (del pensiero come atto) estensione infinita, se a Dio piace di comunicarsi alla nostra conoscenza e affettività, lo possa fare. Questo non lo si può escludere.

Quindi, c'è dalla parte dell'uomo una condizione di possibilità di ricevere la comunicazione della vita divina e quindi di parteciparne.

Che cos'è questa potenza obbedienziale per la quale, se Dio vuoi comunicarsi alla creatura ragionevole, può farlo senza che la creatura scompaia?

Questa condizione è la spiritualità della nostra anima razionale o, per dirla in termini moderni, l'estensione infinita del pensiero come atto. Il pensiero, come tale, non ha limiti quanto all'estensione; quanto alla comprensione sì: mica capiamo tutto noi! Ma l'estensione è infinita.

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Quindi Dio può benissimo comunicarsi a questa capacità, perché non è un'esigenza ma una capacità: essa non esige che Dio si comunichi, ma non esclude che Dio possa comunicarsi.

Sulla base di questa potenza obbedienziale, che è l'estensione infinita del pensiero come atto, come attività, è verifìcato quell'assioma che dice: finitus est capax infiniti in potentia oboe-dientiali (il finito è capace dell'infinito, per capacità obbedien-ziale).

Essendo il creatore dell'universo, Dio può benissimo far sì che le sue creature si modifichino a suo beneplacito, anche oltrepassando le loro leggi specifiche. Il miracolo è il caso del-l'obbedienza radicale dell'ordine creaturale a Dio.

Ebbene, nel caso dell'uomo e della partecipazione della grazia, non si verifica un miracolo, perché ciò che avviene non supera la capacità naturale passiva dell'uomo, permanendo la sua integra natura. La natura umana non scompare, ne subisce violenza, perché porta in sé, per definizione, questa capacità infinita.

La pianta - per esempio - non ha questa capacità; quindi Dio non può comunicarsi alla pianta in quanto pianta, con la sua vita divina, ma dovrebbe prima trasformare la pianta in uomo -cioè snaturare la pianta.

L'uomo e l'angelo, invece, hanno questa capacità o potenza, perché hanno una conoscenza spirituale, cioè una conoscenza di pensiero che è estensivamente infinita.

Dunque, dalla parte della creatura ragionevole si da la condizione di possibilità della partecipazione della vita divina.

Adesso bisogna invece risolvere il problema della identità della grazia, cioè della vita divina comunicata all'uomo.

Perché dico che occorre risolvere il problema dell'identità della grazia, cioè della vita divina comunicata all'uomo?

Perché, quando usiamo l'espressione "comunicazione", è ovvio distinguere un comunicante (Dio), un comunicato (vita divina) e un recettore di comunicazione (l'uomo).

Ora, pensando metafisicamente questi termini, uno deve dire: "Devo togliermi dalla testa che questo comunicante sia diverso dal comunicato, perché ciò che Dio comunica è Dio

Ili

stesso; e devo togliermi dalla testa anche che la comunicazione all'uomo sia per traslazione, cioè per spostamento locale: Dio non viaggia...".

Comunicare, per noi, è un passare "da" un punto "a" un altro, da un luogo a un altro. Ma Dio non passa da un luogo all'altro. Dio non è localizzato.

E allora, che cosa vuoi dire che Dio comunica la propria vita divina alla creatura ragionevole, se Dio non è in un luogo per cui da quel luogo manda la sua vita divina a tè che sei in un altro luogo rispetto a lui?

Dio è presente per immensità in ogni creatura; ma la presenza d'immensità non può coincidere con la presenza di grazia sic et simpliciter. La presenza di grazia è un modo nuovo di presenza di Dio - tanto è vero che si realizza solo nelle creature ragionevoli -, ma Dio non può comunicarsi come se venisse dall'altro mondo: da dove verrebbe?

Vedi che bisogna stare attenti quando si usano queste parole, perché potremmo essere ancora fuorviati e interpretare in termini fisici questa partecipazione?

Come si risolve questa seconda faccenda?

Bisognerebbe dire che questa presenza di grazia, con cui si dice che Dio si comunica alla creatura ragionevole, in realtà c'è già.

Non è che Dio sia da un'altra parte e poi ti si comunichi: per la presenza d'immensità, Dio è già lì. Dio non si aggiunge a Dio!

È vero che la presenza di grazia non si identifica con la presenza d'immensità, però, prova a pensare: "La presenza di grazia non dipenderà forse dalla presenza d'immensità?".,. Certo che dipende!

Se ti chiedi dov'è Dio, tu rispondi che è presente in tè, nella tua intimità e nella tua intimità più intima. Allora, se ti dona la grazia, da dove viene questa grazia?

E ovvio che c'è già. Se Dio è già presente, la presenza di grazia presuppone questa presenza di Dio; presuppone la presenza d'immensità. Eppure non si identifica con la presenza d'immensità.

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Per fare la sintesi speculativa, dunque, occorre mettere insieme queste idee.

1) La presenza di grazia non si identifica con la presenza d'immensità, perché abbiamo detto che questa c'è sia nell'uomo sia nella pianta, però la presenza di grazia si realizza nell'uomo ma non nella pianta: quindi non si identificano.

2) La presenza di grazia si realizza nell'uomo in forza della sua capacità intenzionale: è cioè qualcosa che si pone a livello della conoscenza e dell'affettività spirituali, che hanno una apertura infinita.

3) Questa comunicazione della vita divina, che è la grazia, non deve essere intesa nel senso di una traslocazione: Dio è già presente per immensità.

Dunque, dunque, dunque: per mettere insieme queste tré idee, uno dovrebbe pensare così. ,

Dio è ontologicamente già presente ovunque.

La presenza di grazia è una presenza a livello ontologico? Sì, ma si è detto che questa presenza a livello ontologico è nuova, eppure non deve farci pensare a Dio come a un ente fisico che tisicamente entra in un altro ente fisico: Dio è spirito e presuppone, come condizione di comunicabilità, dalla parte dell'uomo, la spiritualità.

Allora, sta' a vedere che questa presenza di grazia è tutta in un modo nuovo di conoscere e di amare Dio che già è presente per immensità in ogni creatura e direttamente nell'uomo.

Solo nella creatura ragionevole è possibile questo riconoscimento; nella pianta - o in qualsiasi altro ente non dotato di pensiero, di spirito - non lo è, perché non possiede la condizione di possibilità.

Il problema si risolve perciò dicendo che la presenza di grazia, la partecipazione alla vita, divina, si realizza attraverso la manifestazione alla coscienza dell'uomo - cioè all'intelligenza e all'affettività dell'uomo - della presenza di immensità di Dio, a modo di oggetto sperimentabile affettivamente.

Dunque, la grazia santificante è la manifestazione alla coscienza dell'uomo della presenza d'immensità di Dio, non in

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quanto presenza di immensità, ma in quanto presenza di Dio come amico.

Ma Dio, come amico è già presente per immensità, quindi la grazia santificante è un vedere in modo nuovo la presenza di immensità di Dio. '

La grazia santificante fa vedere in modo nuovo la presenza di immensità di Dio. La grazia santificante fa vedere in modo nuovo, non necessario alla natura dell'uomo, la presenza d'immensità di Dio, non più come presenza di immensità (cioè presenza per cui Dio costituisce come creatura la creatura), ma come presenza di amico.

La grazia si dice tale, perché questa manifestazione non è necessaria perché l'uomo sia uomo.

Non è necessaria perché la creatura sia creatura. La presenza d'immensità è necessaria perché la creatura sia creatura, perché l'uomo sia uomo; ma questa manifestazione che ti fa vedere sperimentalmente che questa presenza d'immensità è la presenza di un soggetto personale amico, non è necessaria perché l'uomo sia uomo.

Dunque, è gratuita!

Perciò, quest'operazione di chiarificazione di quell'ombra di Dio, che è l'atto del pensare dell'uomo, la fa direttamente Dio.

E, rispetto a quest'operazione di rivelazione, l'uomo è semplicemente passivo. ,

L'atto del pensare, come atto dell'intelletto agente che è condizione della possibilità dei contenuti conoscibili - giacché intenziona l'essere e la sua legge di incontraddittorietà -, non esige per essere tale il suo capovolgimento, così che in esso si presenti immediatamente l'essere assoluto, cioè Dio. Per sua natura l'atto dell'intelletto agente, il pensare, con la sua apertura infinita, è fatto per la presentazione alla conoscenza di contenuti obiettivamente finiti. Non esige, per essere se stesso, un contenuto obiettivamente infinito.

Quindi, con Giovanni di S. Tommaso (cf. Cursus Theol., In I, q. 43, d. 37, a. 3), si deve concludere che la grazia santificante è la manifestazione della presenza d'immensità di Dio nella

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creatura ragionevole, non a modo di causa che costituisce la creaturalità, ma a modo di oggetto sperimentabile affettivamente. Non per nulla nella vita mistica si avverte la presenza di Dio. Come stando sdraiati al sole, con gli occhi chiusi, si percepisce attraverso le palpebre lo splendore invasivo della sua luce, senza vederla direttamente.

nota

II nostro intelletto ha un atto di pensiero che è aperto all'infinito, ma non ha una comprensione infinita.

Come chiarire questa particolarità?

Occorre fare una distinzione tra oggetto adeguato e oggetto proprio dell'intelletto umano.

Che cosa si intende per oggetto proprio?

Per oggetto proprio di una facoltà, si intende ciò che una facoltà considera immediatamente, come specifica determinazione del suo modo di operare.

Oggetto proprio di una facoltà conoscitiva è ciò che essa considera direttamente, quale elemento specificativo del suo operare.

Qual è questo oggetto che determina specificamente la facoltà conoscitiva che è l'intelletto umano, in quanto intelletto umano? Risposta: è la quiddità, l'essenza delle cose materiali, o sensibili.

Se dunque l'oggetto proprio dell'intelletto umano è l'essenza delle cose materiali - cioè i concetti astratti dall'esperienza sensibile -, è naturale per l'intelletto umano conoscere le cose che non sono riconducibili all'esperienza sensibile? No!

E l'intelletto umano le può capire? No!

Allora, qual è l'estensione della comprensione dell'intelletto umano? Fino a dove si può estendere la comprensione dell'intelletto umano? Si può estendere a tutte le cose che sono sensibili, cioè quelle che sono oggetto della nostra esperienza sensibile; e da queste realtà noi astraiamo le nozioni universali.

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Le cose che non sono oggetto di esperienza sensibile non rientrano nell'ordine della comprensibilità dell'intelletto umano.

Ora, tutte le cose sono sensibili? No. Questo fatto allora ci dice che l'intelletto umano - se è capace di comprendere solo le cose che sono di ordine sensibile - non capisce le cose che sono di ordine non sensibile. A meno che non ci sia una riducibilità delle nozioni riferite a realtà puramente spirituali (metasensibili) alle cose sensibili.

Quindi, la capacità di comprensione dell'intellètto umano si estende ad ogni ente? No ! Si estende soltanto agli enti sensibili. Tanto è vero che noi possiamo naturalmente parlare di Dio, amare Dio per riconduzione della nozione di Dio alle realtà sensibili: l'uomo ha bisogno di essere guidato alla conoscenza e all'amore di Dio attraverso le cose sensibili (cf. S. tommaso d'aquino, Summa Theologzae, II-II, 82, 3, ad2).

Che cosa vuoi dire? Vuoi dire che l'uomo conosce e ama Dio conoscendo e amando le cose sensibili. Perché? Perché l'oggetto proprio dell'intelletto umano è l'essenza astratta dalle cose sensibili: quindi, se esistono cose non sensibili, l'uomo non le capisce, perché non sono proporzionate alla sua intelligenza.

Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu. Non c'è niente nell'intelletto che prima non sia stato nella nostra sensibilità.

E quando parliamo anche delle cose più spirituali, abbiamo sempre bisogno di fare degli esempi sensibili, perché il nostro intelletto funziona così.

Ma c'è anche un oggetto adeguato all'intelletto, in quanto intelletto (sia angelico, umano o divino).

L'oggetto adeguato all'intelletto in quanto intelletto è l'ente.

Noi pensiamo l'ente.

L'ente, ciò che è, è forse soltanto sensibile? No. L'ente è l'ente: che sia sensibile o metasensibile, l'ente è ente.

E c'è qualcosa che cada al di fuori dell'ente? Sì. Il non ente, cioè niente: niente cade al di fuori dell'ente.

Dunque, se l'intelletto in quanto intelletto intenziona l'ente, vuoi dire che intenziona tutto.

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Non c'è niente che l'intelletto in quanto intelletto - e quindi l'intelletto umano in quanto intelletto - non possa pensare.

Questo intendo dire parlando del pensiero come atto e della sua estensione infinita.

Quanto all'oggetto proprio, parliamo di comprensione. Che cosa può comprendere l'intelletto umano? Tutto? No, soltanto quelle nozioni astratte dall'esperienza; e siccome non tutta la realtà è esperibile, l'intelletto umano non capisce tutto.

Ma l'oggetto adeguato dell'intelletto umano in quanto intelletto è l'ente.

C'è qualcosa che sia estraneo all'ente? Niente! Quindi, tutto rientra nell'ente. Se l'intelletto umano intenziona l'ente, ciò vuoi dire che ha un'estensione pari all'ente: non c'è niente che non possa rientrare nella pensabilità da parte dell'intelletto.

Ma questo non vuoi dire che l'intelletto capisca tutto.

Quindi, non c'è pericolo di idealismo. Dire che tutto rientra nel pensiero, perché fuori del pensiero non c'è nulla - essendo il pensiero pensiero dell'essere-, non è idealismo.

Questo lo dico sempre ed è una delle affermazioni filosofi-che più importanti. Che difficoltà c'è?

Un conto è dire che non c'è niente fuori del pensiero, perché il pensiero ha una intenzionalità infinita - dovuta al suo oggetto adeguato, che è l'ente - e un conto è dire che non c'è niente fuori del pensiero, perché il pensiero produce l'essere.

L'idealismo sostiene la produttività del pensiero rispetto all'essere.

Questa produttività non consta. Ciò che consta è l'identità intenzionale di pensiero e essere, di pensiero e tutto.

In questo ambiente nasce il soliloquio sul divino.

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L'ESPERIENZA DI GRAZIA

L'esperienza di grazia non è un semplice riconoscimento della coscienza, per cui basta concentrarsi e uno vede la presenza d'immensità. Non ho detto questo !

Non voglio che quello che ho detto sia confuso con certi me-ditazionismi trascendentali... Non sto dicendo che basta che ci si concentri e con la meditazione trascendentale si raggiunge DÌO.'

Questa manifestazione è operata da Dio: quindi è assolutamente gratuita.

E poi non può essere confusa con la conoscenza teoretica che abbiamo di Dio. La conoscenza e l'amore di Dio non sono forse già possibili nell'ordine naturale? Sì !

Del resto, un conto è la conoscenza teoretica di Dio, anche sul piano di una semplice immediatezza di senso comune, per cui si ammette Dio per l'ordine che si trova nel mondo. Questa affermazione non è un'affermazione di grazia, è un'affermazione di intelletto, di senso comune.

E S. Tommaso dice che anche l'amore di Dio sopra ogni cosa è nell'ordine naturale - seppure in modo implicito -, perché ogni creatura, ogni realtà ama, desidera la propria perfezione. Ognuno di noi desidera essere perfetto, anche se non lo si dice tematicamente.

Ognuno di noi desidera la propria felicità e, se la desidera, vuoi dire che ancora non ce l'ha. E in che cosa consiste la felicità? Consiste nel possedere quel bene o quel complesso di beni che si suppone ti rendano felice. Se li desideri, vuoi dire che non li hai; ma se supponi che il loro possesso ti renda felice, vuoi dire che ti sono proporzionati: a tal punto che, se li possedessi, ti sentiresti realizzato.

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Dove trovi questi beni? In qualche cosa che pensi essere superiore a tè, ma in qualche modo conforme alla tua natura. Io non desidero avere la testa d'acciaio, perché non mi servirebbe a nulla. Se l'avessi, non potrei neppure pensare: sai quanto mi interessa?!

Desidero qualcosa che sia conforme alla mia natura. Perciò penso che questo complesso di beni, che io non ho, si trovino nella causa che mi ha creato. Quindi amo più la causa creatrice, Dio, di quanto ami me stesso.

Se tutto questo avviene naturalmente, è impossibile che io vada a pensare che la conoscenza naturale e l'amore naturale di Dio possano essere confusi con la conoscenza e l'amore soprannaturali, cioè dovuti alla grazia.

C'è una bella differenza tra la conoscenza teoretica di Dio e la conoscenza sperimentale di Dio, che è dovuta alla grazia.

La presenza di immensità la riconosco teoreticamente, ma non ne faccio esperienza; la presenza di amicizia, invece, la riconosco in forza di una manifestazione soprannaturale.

Ecco, per fare un esempio, l'esperienza della mia animazione è una conoscenza diversa della mia anima da quella che io posso averne, invece, a livello teoretico - come quando dico che vivo in forza della mia anima, che è l'unica forma sostanziale del mio corpo.

In questo senso, la conoscenza della presenza d'immensità di Dio in tutte le cose e anche in me è posseduta soltanto in modo teoretico: bisogna dimostrarla; non è che la si percepisca.

Quindi, non si tratta di un'esperienza.

Allora, se la presenza d'immensità si presenta a modo di esperienza, tale modalità non è nell'ordine naturale: quindi è frutto di una rivelazione soprannaturale.

Bellissimo e veramente significativo quel passo del profeta Isaia (25, 7) dove si legge: «Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti».

Che cosa vuoi dire? Questa è l'essenza!

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Dio non aggiunge qualcosa: no ! Dio toglie il velo agli occhi dei popoli. Che cosa si vede? La presenza di Dio!

Ecco: l'essenza del cristianesimo è una rivelazione, non un'aggiunta.

Ma la grazia, si dice, è un accidente che si aggiunge alla natura dell'uomo!

Ebbene, la grazia santificante va intesa in due modi.

a) Se la si intende come accidente che si aggiunge alla natura umana - cioè come qualità che si aggiunge all'essenza dell'anima razionale -, la grazia è l'azione disvelativa da parte di Dio. E l'azione con la quale Dio, in modo assolutamente gratuito, si rivela in modo permanente: è l'azione divina di permanente disvelamento di Dio.

b) Ma che cos'è per essenza la grazia? È la vita divina. E dove si trova la vita divina? Su Marte? No!

Per presenza d'immensità, Dio è presente in ogni creatura:

quindi l'essenza della grazia è la vita divina resa sperimentalmente conoscibile e amabile per l'uomo attraverso l'azione rive-lativa gratuita di Dio.

Quindi, bisogna distinguere due cose nella grazia: a) il modo di essere della grazia e b) l'essenza della grazia.

Quanto al modo di essere, la grazia è un accidente. Il suo modo di essere è un accidente e l'accidente si aggiunge all'essenza dell'anima e inerisce all'essenza dell'anima.

Ma questo accidente è soltanto l'aggiunta dell'azione con la quale Dio toglie il velo, rivela!

Togliendo il velo, che cosa manifesta?

Manifesta l'essenza della grazia, che è la vita divina e la vita divina già presente nell'anima dell'uomo.

Dio non si aggiunge a Dio!

nota

Soltanto Dio può capire se stesso. La sua comprensione da parte di altri deve passare attraverso una mediazione che sia

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proporzionata a un intelletto non divino. Per questo motivo dico che la prima rivelazione è il mondo.

Siccome rivelare vuoi dire manifestare, Dio manifesta se stesso nel mondo: sia nel senso che il mondo è lo specchio di Dio, sia nel senso per cui Dio manifesta se stesso nel mondo perché il mondo, nella sua essenza, è la trasparenza di Dio, è la diafania di Dio.

L'esperienza di grazia, dunque, se è la manifestazione da parte di Dio della sua presenza di immensità e di diafania nel mondo, a modo di oggetto sperimentabile, porta a percepire Dio nel mondo: nella e attraverso la stessa essenza del mondo.

La grande mistica Angela da Foligno arrivava a dire: «Tutto è pieno del Verbo». Vedeva il Verbo ovunque. Eppure, una pianta non è il Verbo, io non sono il Verbo, questo foglio non è il Verbo... Ma l'esperienza mistica porta a questa diagnosi percettiva,

Non ho detto che la grazia sia soltanto una presa di coscienza! Perché se per presa di coscienza si intende che con una mia riflessione io riesco a percepire sperimentalmente, immediatamente, la presenza di Dio, questo non è vero.

Se in forza della mia autoriflessione arrivassi a percepire la presenza di Dio, sarei Dio. Soltanto Dio comprende Dio!

Ma se il percepire esperienzialmente Dio è frutto di grazia, questo non vuoi dire che sia presa di coscienza per autoriflessione: sarà presa di coscienza perché, per puro dono divino, mi si manifesta qualcosa la cui manifestazione a me non è dovuta. Non sono fatto per percepirla da me; riesco a percepirla perché Dio me la fa percepire.

Questo vuoi dire che è frutto di grazia. In un duplice senso:

sia perché è assolutamente gratuito - non è dovuto alla natura -e poi perché la grazia, nella sua essenza, è la vita stessa di Dio.

Per questo c'è identità sostanziale tra presenza d'immensità e presenza di grazia; mentre c'è distinzione quanto al modo, perché la presenza di grazia è un modo nuovo, operato direttamente da Dio - non necessario al costituirsi della creatura - di conoscere la presenza di immensità.

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Bisogna fare la sintesi fra queste due còse: l'identità-diversità tra Dio e mondo e la presenza di grazia santificante, come condizione di esperienza della identità.

Si deve anche riflettere su un altro aspetto.

C'è una specie di incongruenza tra il dire che la grazia è un accidente che inerisce all'essenza dell'anima umana - e in quanto accidente è finita -, e il dire che, essendo la vita stessa di Dio, è infinita.

La grazia sarebbe insieme finita e infinita: contraddizione.

No, non c'è contraddizione, perché un conto è il modo di essere, un conto è l'essenza.

Quanto al modo di essere, la grazia è un accidente, finito, che inerisce all'essenza dell'anima eia si può pensare come un'aggiunta, come si è detto.

La grazia, come accidente finito, è semplicemente l'azione gratuita - non necessaria per la natura - di Dio che si rivela, a livello incipiente.

Ma se considero l'essenza della grazia, essendo la grazia la vita stessa di Dio, non può che essere infinita.

Dunque, quanto al modo di essere è finita e quanto all'essenza è infinita.

L'essenza infinita della grazia ha come suo presupposto di possibilità, dalla parte dell'uomo, la potenza obbedienziale, cioè l'estensione infinita del pensiero come atto - o, per dirla in termini tomistici, l'intelletto che intenziona atematicamente l'ente, al di fuori del quale non c'è nulla e quindi ha un'estensione infinita.

Come accidente, invece, la grazia è qualcosa di finito; e questo qualcosa di finito si aggiunge all'essenza dell'anima umana perché è l'operazióne divina con la quale Dio toglie il velo. È l'aiuto non dovuto, gratuito, col quale Dio toglie il velo e manifesta la sua presenza di vita infinita.

Non ho detto che l'azione della grazia sia finita, ho detto che la grazia santificante, quanto al suo modo di essere, è un accidente e, come accidente, è finita e quindi si aggiunge all'essenza dell'anima.

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Ma questa aggiunta all'essenza dell'anima dipende dal fatto che si tratta dell'azione di Dio!

Vediamo un esempio per intendere bene questa cosa.

Il processo della giustificazione o santificazione^ o divinizzazione (sono termini concettualmente equivalenti) è il processo per il quale Dio infonde la grazia.

Quando un uomo è giustificato, santificato, divinizzato?

Quando possiede la grazia santificante.

La grazia santificante, nel processo della giustificazione -cioè nel processo per il quale uno viene divinizzato - è infusa all'inizio del processo o al termine del processo?

Certo, quando uno pensa all'espressione "è giustificato", intende ovviamente il termine del processo: la grazia sembra infusa alla fine.

E allora, prima, all'inizio che cosa c'è, se al termine del processo è donata la grazia?

Si risponderà: una predisposizione.

Va bene. Ma questa predisposizione da chi dipende, da chi è operata?

Dalla grazia! Perché la natura, la capacità dell'anima razionale è obbedienzialmente passiva: non può predisporsi attivamente a ciò che la supera. Se si disponesse attivamente ne sarebbe attivamente capace e allora sarebbe una capacità esattiva: se la natura potesse esigere la grazia, cioè la vita divina, avrebbe una capacità divina, cioè si negherebbe come semplice recettore.

Non ci si può preparare attivamente a ricevere ciò che ci è sproporzionato: l'attività di preparazione sarebbe proporzionata allo sproporzionato, il quale non sarebbe più tale...

Non resta che ammettere, dunque, che è lo stesso sproporzionato che proporziona a sé il soggetto che lo può ricevere, avendone questi una capacità passiva semplicemente obbedien-ziale.

Si deve dunque concludere che è la stessa grazia che predispone l'anima razionale a riceverla.

Perciò, la grazia santificante non è infusa alla fine, ma all'inizio del processo della divinizzazione.

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Nel processo della giustificazione o divinizzazione, è la medesima grazia che, all'inizio, viene infusa a modo di azione attuale da parte di Dio, e al termine viene posseduta abitualmente.

Per questo dico che, all'inizio, la grazia è l'atto con il quale Dio opera sull'anima. Al termine di quest'operazione, l'anima si dice giustificata o divinizzata.

Quindi, la grazia santificante (quella che giustifica, che manifesta la presenza di Dio come vita divina partecipata, relazione di amicizia con Dio, presupposta la presenza di Dio per immensità ecc.) non è qualcosa di diverso dalla grazia come azione iniziale che da origine al processo di giustificazione.

E la stessa grazia che è ricevuta originariamente come atto e terminalmente è posseduta come abito.

Vediamo di fare un esempio.

Per incendiare della legna verde occorre che il fuoco ne asciughi prima gli umori, così che, una volta rinsecchita, la legna sia capace di ricevere il fuoco e di incendiarsi.

Il fuoco che adesso arde in quella legna, che prima era verde, è lo stesso fuoco che ha presieduto al suo essiccamento.

Allo stesso modo, la grazia che si dice attualmente operante sull'anima dell'uomo perché è l'azione di Dio che manifesta, è la medesima grazia che poi si dice presente abitualmente nell'uomo perché è il manifestato.

Sempre allo stesso modo e nello stesso senso, è il fuoco che predispone la legna alla ricezione di se stesso, così come è la stessa grazia che predispone l'anima razionale a riceverla.

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I GRADI DELL'ESPERIENZA DI GRAZIA

La grazia fa sì che si disveli alla coscienza dell'uomo la presenza d'immensità di Dio a modo di amicizia.

Bene. Ma se si tratta di un modo di amicizia lo si dovrebbe sentire, lo si dovrebbe avvertire. Se è una presenza fruibile, spe-rimentabile, la si dovrebbe sperimentare.

Nella teologia classica, la grazia santificante viene descritta come una partecipazione fisica della vita divina. Fisica, perché sperimentabile, non nel senso che se ne prenda un pezzo (Dio non può essere fatto a pezzetti...).

L'aggettivo fisico va qui inteso come contrapposto amorale.

Fisico si contrappone a morale come sperimentabile si contrappone a ciò che è per modo di dire.

E se uno non sperimenta la presenza di amicizia di Dio, vuoi dire che non ha la grazia?

Dunque, dunque, dunque, vediamo un po' còme risolvere questo problema.

Senti un po'. Abbiamo detto che la grazia santificante ha un aspetto finito e un aspetto infinito'.

L'aspetto infinito è quello essenziale, perché è la vita stessa di Dio. L'aspetto finito, invece, è il suo modo di essere: un accidente che inerisce all'essenza dell'anima razionale.

Questo accidente è un habitus. Si tratta cioè di una qualità in forza della quale il soggetto si trova disposto in un certo modo in se stesso e nel suo operare.

Quando questa disposizione non fa altro che determinare la condizione del soggetto in se stesso, si dice abito entitativo (perché riguarda l'entità, l'essere e non l'operare: per esempio la salute, la bellezza, il vigore sono abiti entitativi).

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Quando, invece, dispone le facoltà operative secondo il loro agire si chiama operativo (per esempio, la scienza è un abito operativo dell'intelletto speculativo; la prudenza è un abito operativo dell'intelletto pratico; la giustizia è un abito operativo della volontà. E così via per tutte le altre virtù...).

La grazia santificante, rendendoci partecipi della natura divina, è un abito entitativo: cioè ci da la natura di Dio.

Ora, è vero che quanto alla sua essenza è infinita - è la stessa vita di Dio - ma quanto al suo modo di essere è finita: è'un accidente, che inerisce all'essenza dell'anima, è un abito.

Da questo punto di vista, la grazia santificante è qualcosa di creato - o meglio di concreato: è ciò per cui l'uomo è una creatura nuova.

Ebbene, da questo punto di vista - quello della sua finitezza -la grazia santificante è immediatamente operativa?

Risposta: no! Non può essere immediatamente operativa perché soltanto Dio è immediatamente operativo.

Soltanto Dio è, infatti, il suo stesso operare.

Dire che un soggetto è immediatamente operativo vuoi dire che agisce in forza del suo stesso essere, non in forza di facoltà operative. Soltanto Dio è il suo operare: la sostanza di Dio è la sua operazione,

Dio è volere, Dio è vivere, Dio è pensare. Non si dovrebbe dire che Dio ha il volere, che Dio ha la vita, che Dio ha il pensiero, anche se usualmente parliamo del volere di Dio, della vita di Dio, del pensiero di Dio, come se Dio fosse un soggetto diverso dal suo pensare, dal suo volere, dal suo vivere. Questo è dovuto al nostro modo di esprimerci dipendente dal fatto che la nostra conoscenza ha per oggetto proprio le nozioni astratte dai dati sensibili. Tutti i nostri concetti e i modi espressivi dei concetti sono plasmati su questa realtà. Usiamo il concreto per indicare il sussistente - per es. uomo è il soggetto della natura umana, che non è l'uomo - e l'astratto per indicare la forma per cui il sussistente ha quella determinata natura - per es. umanità è ciò per cui l'uomo è uomo, ma non è l'uomo in concreto -;

usiamo il verbo per indicare l'operare. In Dio non si da distin-

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zione tra soggetto e forma o natura, e neppure tra soggetto e operare; ma per il nostro modo di concettualizzare e di esprimerci, lo trattiamo grammaticalmente come se fosse una creatura, cioè un composto.

Io parlo, ma non sono il parlare e neppure il mio parlare. Io non mi risolvo nel mio parlare. Dio, invece, si risolve nella sua operazione e l'operare di Dio si risolve nell'essere di Dio.

Dio è semplicissimo, non è un soggetto che agisce, è un sog-getto-operazione. L'essere di Dio è il suo pensare, è il suo volere, è il suo vivere, per assoluta identità.

Questo vuoi dire che è immediatamente operativo, cioà non agisce per mezzo d'altro, per mezzo di facoltà operative: non ha facoltà perché è esso stesso operare sussistente.

Ora, se si da un soggetto che non si identifica con il suo operare, tale soggetto non sarà immediatamente operativo. Se c'è un soggetto che non è le sue operazioni, se agisce, agirà in forza di qualcosa di diverso dal suo essere (se agisse in forza del suo essere si identificherebbe con il suo operare).

Se agissimo in forza del nostro essere, noi ci identificheremmo con il nostro operare. Ma noi non operiamo in forza del nostro essere. Noi possiamo essere e non operare: per esempio, io sono qui e sto zitto; vedi che il mio parlare non coincide con il mio essere. Questo vuoi dire che non c'è identità tra essere e operare.

Noi operiamo non in forza del nostro essere, ma in forza di qualcosa di aggiunto, cioè delle facoltà operative.

Dunque, la domanda era: è possibile che la grazia santificante, come accidente entitativo, sia immediatamente operativa?

La risposta è no. No, perché l'unico soggetto immediatamente operativo è Dio; tutto ciò che è diverso da Dio non è immediatamente operativo.

Quindi, la grazia santificante, sebbene si identifichi, quanto all'essenza, con Dio, quanto al modo di essere è un accidente che inerisce all'essenza dell'anima razionale. Secondo questo aspetto, la grazia santificante non è immediatamente operativa, perché si distingue da Dio: Dio non è accidente, non ha un modo accidentale di essere.

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Se è distinta da Dio, il suo operare non si identifica con il suo essere: quindi la grazia santificante non è immediatamente operativa.

E allora attraverso quali - chiamiamole così - facoltà può operare? Quali sono le facoltà operative della grazia?

Sono le virtù infuse. Virtù teologali e virtù morali infuse:

questo sono le quasi-facoltà operative della grazia santificante.

Se la grazia santificante rende sperimentabile la presenza di Dio come amico, perché non lo si sente, non lo si vede?

Ma sì che lo si vede! Lo si vede attraverso la quasi-facoltà operativa della fede, che presiede alla conoscenza di grazia.

In forza della fede non si vede propriamente, ma si conosce in modo nuovo, soprannaturale, Dio in se stesso.

E sulla base della fede - che si possiede in forza della grazia -che conosciamo in modo nuovo Dio.

Quindi, Dio si rende presente, in modo nuovo, alla conoscenza dell'uomo attraverso la grazia, in forza dell'operazione della fede teologale.

Allo stesso modo, Dio si rende presente, in modo nuovo, attraverso la grazia, all'affettività dell'uomo, in forza della carità teologale.

Occorre, dunque, analizzare queste quasi-facoltà operative della grazia santificante per vedere più da vicino come e in che misura esse consentano l'esperienza di Dio.

Anzitutto bisogna chiarire perché sono quasi-facoltà operative e non facoltà in senso stretto.

Non si deve confondere la grazia con un altro essere cosciente che è in noi e che agisce in noi. La grazia non rende biperso-naii.

La grazia è una qualità che inerisce all'essenza della nostra anima, quindi la sua sostanza personale siamo noi. Le sue facoltà operative sono le nostre facoltà operative.

Come non si da grazia santificante senza l'essenza dell'anima razionale, così non si danno fede, speranza, carità, prudenza, fortezza, giustizia e temperanza infuse, senza le facoltà operative della nostra anima.

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Quindi la fede presuppone la grazia, ma presuppone soprattutto l'intelletto, perché se uno non ha l'intelletto non può emettere l'atto di fede.

Perciò, le vere facoltà operative sono l'intelletto, la volontà e gli appetiti sensitivi - per quanto concerne le virtù morali infuse.

La grazia santificante, se agisce attraverso la fede, la speranza, la carità e le virtù morali infuse, si dice che agisce attraverso queste virtù, in forza delle facoltà operative dell'anima - così come si dice che da una natura nuova all'uomo in forza della sua inesione all'essenza dell'anima.

Se non ci fosse l'anima razionale, la grazia santificante non si darebbe e, conseguentemente, non si darebbero la fede, la speranza e la carità se non ci fossero l'intelletto e la volontà.

Siccome la grazia santificante ci rende partecipi della natura di Dio, allora anche l'operare, in forza della grazia santificante, dovrà essere divino.

Quindi, le facoltà operative dell'uomo, dell'anima razionale -intelletto, volontà, appetiti sensitivi - dovranno connaturalizzarsi a questa dinamica.

In che modo si connaturalizzano? Attraverso le virtù infuse, che sono quindi le quasi-facoltà operative della grazia santificante.

Non si può dire che la fede sia l'intelletto della grazia; che la carità ne sia la volontà ecc., perché la grazia non ha ne intelletto ne volontà: la grazia non è una sostanza, è un accidente.

Come agisce la grazia? Sì, agisce,attraverso la fede, la speranza e la carità, supponendo, però, le facoltà operative dell'anima razionale - così come suppone l'essenza dell'anima.

Quindi, come agisce la grazia attraverso la fede?

Esercitando atti intellettivi di fede.

Come agisce la grazia attraverso la carità?

Esercitando atti volontari di carità.

Quindi, se non c'è l'intelletto, se non c'è la volontà, la grazia non può emanare le sue quasi-facoltà operative (in questo caso, la fede e la carità).

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In questo senso parlo di quasi-facoltà operative, per togliere di mezzo il dualismo per cui si immaginerebbe dentro di noi un esserino che si chiama grazia, che conosce con la fede, ama con la carità e così via.

No, siamo noi ad agire.

Non è la grazia santificante che agisce con l'intelletto, è l'anima razionale che agisce con l'intelletto; non è la grazia santificante che agisce con la volontà, è l'anima razionale che agisce con la volontà.

Allora la grazia santificante come agisce? Muovendo l'intelletto come intelletto e la volontà come volontà?

No. Muove l'intelletto, muove la volontà - come muove gli altri appetiti - ma in forza di una disposizione soprannaturale.

Per questo dico che la grazia ha le sue quasi-facoltà operative, cioè ciò per cui vengono informate, qualificate, soprannaturalmente anche le facoltà operative dell'anima e non solo l'essenza dell'anima.

Con la fede, la grazia informa l'intelletto; con la carità e la speranza, informa la volontà; con la virtù morale infusa della giustizia, informa ancora la volontà; con la temperanza infusa, informa l'appetito sensitivo concupiscibile; con la fortezza infusa, informa l'appetito sensitivo irascibile.

In forza di queste sue prime attuazioni Operative, la grazia santificante da forma soprannaturale alle facoltà operative dell'anima razionale.

Da questo discende, come conclusione, che se la grazia santificante consente questo nuovo modo di conoscere Dio, questa presenza nuova di Dio al conoscere umano avviene attraverso la fede.

Non vedo Dio: ma con la fede lo conosco per speculum et in aenigmate.

Almeno in questo primo grado (perché bisogna distinguere diversi gradi e misure di questa realizzazione della presenza della vita divina in noi), uno non sente "ne caldo ne freddo". Con la fede recita con convinzione il credo e dice: "Credo in un solo Dio, Padre onnipotente..."; ma non sente un particolare trasporto, "non sente ne caldo ne freddo".

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Quindi, con la fede non senti niente: conosci ciò che Dio conosce.

Il modo nuovo è relativo al contenuto: tu sai che Dio è Uno e Trino. Chi lo sa prima di tè? Dio! Allora sei ammesso alla conoscenza di ciò che solo Dio conosce di Dio.

Vedi che è un modo nuovo di conoscere Dio? Sì, quanto al contenuto. In forza della grazia, attraverso la fede, tu hai un modo nuovo di presenza conoscitiva di Dio.

Ma la fede - restando per adesso sul piano della conoscenza -è il primo grado in cui si rende presente, in modo nuovo, al conoscere umano la vita divina, perché la fede non è il grado ultimo di questa conoscenza per grazia.

Con la visione beatifica, la fede viene spazzata via.

La visione beatifica è ancora conseguenza della grazia.

Con il lumen gloriae - l'habitus che scalza la fede teologale e consente la visione immediata di Dio, che chiamiamo paradiso -otteniamo il grado massimo della conoscenza di Dio: sperimentiamo Dio vedendolo chiaramente.

Il grado minimo di questa conoscenza è la fede.

Con la fede, noi abbiamo il medesimo contenuto di conoscenza della gloria, cioè della visione beatifica.

Che cosa cambia? Cambia soltanto il modo con il quale questo contenuto è avvertito. Nella fede, in realtà, non è avvertito, non hai un'esperienza vitale di ciò che conosci, di ciò che è Dio -che pure ti si rivela.

Nella gloria (cioè nella visione beatifica), invece, tu vedi chiaramente Dio: vedi chiaramente ciò che prima non vedevi.

Il "ciò-che" rimane uguale, identico: "ciò-che" credi e "ciò-che" vedi sunt idem; ma un conto è credere e un conto è vedere.

Il cambiamento sta nel passare dal non-vedere al vedere, non nel passare da un contenuto a un altro: il contenuto è sempre uguale,

II contenuto della fede e il contenuto della visione sono identici: Dio in se stesso, la Deità.

La definizione della grazia come manifestazione della presenza d'immensità di Dio a modo di amicizia sperimentabile, dove ha la sua piena espansione? Nella visione beatifica.

131

Dove ha la sua anticipazione? Nella fede teologale.

Qualcosa del genere va detto anche a riguardo della carità.

Che cosa fa la carità?

La carità è la prima attivazione operativa della grazia santificante quanto alla volontà, quanto all'amore.

In forza della carità teologale, noi amiamo ciò che Dio ama.

Che differenza c'è tra la carità e la fede?

Si può dire che esista, anche nel caso della carità, un grado diverso tra la carità dell'uomo viatore e la carità del comprenso-re - cioè del beato del paradiso?

Si può dire che si da un grado diverso nel nostro attuale amore di carità rispetto al nostro medesimo amore di carità in paradiso - cioè nella visone beatifica -, come si da un grado diverso tra la nostra fede e la visone beatifica (non quanto al contenuto, ma quanto al modo di non-vedere e vedere)?

Nel caso della carità non c'è un grado diverso.

La medesima carità che abbiamo nella condizione della fede, l'abbiamo nella condizione della visione.

Il medesimo grado di intensità di amore che esercitiamo ora è il grado di intensità d'amore che è sperimentato in paradiso.

Nel caso della carità, l'identità permane sostanzialmente e modalmente. Per questo la carità si dice superiore alla fede: perché ha una vitalità tale da permanere in paradiso, mentre la fede in paradiso non c'è più.

Per questo motivo, si dovrebbe dire "beato tè che hai la carità" e non "beato tè che hai la fede": è la carità che identifica sostanzialmente e modalmente il "cielo" e la "terra",

La carità è identica al-di-qua e al-di-là, per cui, in forza della carità, non c'è ne al-di-qua ne al-di-là. ,

In forza della carità - che è identica di qua e di là, in questa vita e nell'altra, nella presente e nella futura, su questa terra e in paradiso - non c'è ne questa terra ne paradiso, ne presente ne futuro.

Quindi, in forza della carità, il paradiso è già qui.

Siccome l'affetto e il conoscere non sono la stessa còsa, tu non vedi questa identità, perché sei nella fede. Ma in forza della gloria - del lumen gloriae - tu vedi questa identità.

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Con la fede non la vedi; non vedi che sei già in paradiso con la grazia: lo devi credere, ma non lo vedi che ci sei già. Con la gloria lo vedi che ci sei.

Ma, di fatto, adesso, anche nel regime della fede, ci sei o non ci sei?

Sì, ci sei: con la carità ci sei già, perché è identica sia qui che in paradiso.

In forza della carità, il paradiso è già qui. Uguale è anche l'intensità.

La fede non è la piena manifestazione, la piena esperienza di Dio; è l'inizio della manifestazione.

Un conto è vedere e un conto è non-vedere. Un conto è sapere non-vedendo e un conto è sapere vedendo.

La fede è nel regime del non-vedere; la visione beatifica è nel regime del vedere.

La differenza, poi, tra la carità e la fede è questa.

Mentre con la fede noi conosciamo sostanzialmente ciò che Dio conosce di sé, ma non allo stesso modo, con la carità noi amiamo ciò che Dio ama, con lo stesso amore di Dio, con il suo stesso modo. Per questo motivo, la carità non ha variazione in questa vita e nell'altra vita.

Quindi per la carità non c'è distinzione tra questa vita e l'altra, neppure modalmente. Questa vita e l'altra sono la stessa cosa.

Si da una possibilità intermedia tra il semplice regime di fede e il regime di visione beatifica, per il quale, già in questa vita si può dare un livello di manifestazione - sempre in forza della grazia - della presenza di Dio sperimentabile?

Il grado pieno della manifestazione sarebbe la visione beatifica; il grado incipiente sarebbe la fede.

Esiste un grado intermedio tra la semplice fede, che non è sperimentale, e il grado ultimo della visione beatifica, che è perfettamente sperimentale?

Sì, si da un grado intermedio!

E il grado della vita mistica.

E la vita mistica in che cosa consiste?

E forse un'anticipazione della visione beatifica?

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No. È forse un oltrepassamento della fede? No, non può essere un oltrepassamento della fede, perché, una volta che hai oltrepassato la fede, c'è la visione: ti ho detto che la vita mistica è un livello intermedio, per cui non c'è un oltrepassamento della fede.

Anzi, non c'è vita mistica se non presupponendo la fede.

Come si definisce infatti la vita mistica?

Secondo la scuola tomista, la vita mistica non è un episodio straordinario, legato a una pluralità di interventi gratuiti da parte di Dio, quasi fosse qualcosa di miracoloso.

La vita mistica è lo sviluppo ordinario della vita di grazia.

E come si descrive questa vita mistica?

Beh, si definisce così: "una semplice intuizione della verità divina, procedente dalla fede vivificata dalla carità e illuminata dai doni della sapienza, dell'intelletto e della scienza".

La vita mistica non oltrepassa la fede, nel senso di sostituirla, perché si tratta di una intuizione procedente dalla fede: senza fede non c'è vita mistica. L'unica quasi-facoltà operativa della grazia santificante, in riferimento alla conoscenza, prima della visione è la fede.

Quindi, se la vita mistica riguarda questa vita e l'unico modo per conoscere Dio in se stesso in questa vita è dato dalla fede, la mistica si aggiunge alla fede e non la sostituisce.

Però, non si identifica semplicemente con la fede.

Quindi che cosa fa?

Presupposto il dato sostanziale della fede - cioè il regime della non-visione -, aggiunge a questo dato l'aspetto esperienwle.

E in questo senso la vita mistica è intermedia tra la semplice fede e la visione.

La visione è vedere con esperienza; la fede è non-vedere senza esperienza; la vita mistica è non-vedere con esperienza.

In altri termini: a) la fede è sapere non-vedendo, senza esperienza; b) la visione beatifica è sapere vedendo sperimentalmente;

e) la vita mistica è sapere sperimentalmente, pur non-vedendo.

Quindi, la vita mistica è intermedia tra la fede e la visione, però sta più dalla parte della fede che della visione, perché presuppone essenzialmente la fede.

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Come si può determinare questo aspetto esperienziale che accompagna la mistica, pur presupponendo nella mistica il dato di fede?

Appunto dicendo che la vita mistica è un'intuizione della verità divina, a partire dalla fede.

La fede non è un'intuizione. La fede è un assenso certo dell'intelletto alla verità rivelata da Dio, in forza della sua autorità:

quindi non è un'intuizione; è un giudizio. La vita mistica, invece, è un'intuizione.

Dunque, presupposto l'assenso dell'intelletto, determinato dall'abito della fede teologale, la vita mistica aggiunge, appunto, questo aspetto intuitivo di sguardo compiaciuto.

L'intuizione è uno sguardo compiaciuto.

Sguardo compiaciuto vuoi dire che uno, in un battibaleno, resta rapito. Intueor, in latino, vuoi dire guardo.

Questo guardare non è il vedere. Guardare è un vedere con coinvolgimento.

Si può guardare senza vedere? No!

Si può vedere senza guardare? Sì!

Allora, parallelamente, supposto che l'aver fede sia un sapere come il vedere, non è detto che uno sappia gustando quello che sa. Il sapere non necessariamente è coinvolgente.

Tanto è vero che si può dare una fede informe, cioè in uno stato privo della carità teologale e dell'azione abitualmente vivificante dalla grazia (grazia abituale). Lo stato di peccato mortale implica proprio questa condizione: si ha la fede, ma non si ha la carità.

Quindi, se la fede sta dalla parte del sapere senza coinvolgimento, la mistica sta, invece, dalla parte del guardare, cioè è un vedere o sapere con coinvolgimento.

Tu sai una cosa e sei coinvolto con essa perché ti piace saperla, la gusti. Tu non vedi semplicemente; tu guardi!

Non dici: "stavo vedendo". No, tu dici: "stavo guardando".

Sapevi di essere rapito, stavi guardando. Il guardare è sempre intenzionale, il vedere, invece, no.

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Quindi la mistica aggiunge al semplice vedere lo sguardo. Questo vuoi dire il termine intuizione,

La vita mistica è un'intuizione della verità divina, ma non a livello di visione beatifica, perché siamo nel regime della fede. Ma non è neppure semplicemente fede. Come il guardare aggiunge al vedere il compiacimento del vedere.

Che cosa fa sì che la fede nella mistica sia intuitiva e gustativa?

E l'esercizio dei doni dello Spirito Santo.

I doni dello Spirito Santo aggiungono questo aspetto modale di gusto nel sapere le cose di fede. Quindi, il guardare compiaciuto appartiene al regime della fede in forza dei doni dello Spirito Santo.

Ma i doni dello Spirito Santo che cosa fanno?

I doni dello Spirito Santo danno un modo di sapere che è divino.

La fede è la conoscenza di un contenuto sostanzialmente divino; ma il modo della fede è umano, tanto è vero che tu devi avere fede, devi credere, devi deliberare sull'avere fede.

Invece, il piano dovuto all'esercizio dei doni dello Spirito Santo - che presuppone questo piano sostanziale dei contenuti divini - aggiunge il modo divino del sapere: non deliberi ma operi spontaneamente.

Ecco perché, in forza dei doni dello Spirito Santo, la vita mistica viene più assimilata all'esperienza della visione beatifica:

perché, nella visione beatifica, non soltanto conosciamo ciò che Dio conosce, ma nello stesso modo con cui Dio lo conosce.

Nell'esperienza mistica, noi - presupposta la fede - conosciamo ciò che Dio conosce, nel modo con cui Dio lo conosce: sul piano sperimentale, ma non sul piano del sapere per visione. Perché, siamo nel regime di fede, cioè del sapere senza vedere.

Ma il fatto che noi possediamo questo compiacimento di gusto di ciò che si sa, assimila l'esperienza mistica all'esperienza della visione.

Quindi, la vita mistica, l'esperienza mistica, è intermedia tra la fede e la visione beatifica. Il suo essere intuizione, sguardo

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compiaciuto, impone la fede ma soprattutto l'esercizio dei doni dello Spirito Santo.

Evidentemente, l'esercizio di quei doni dello Spirito Santo che riguardano la conoscenza: cioè i doni della sapienza, della scienza e dell'intelletto.

Il dono della sapienza riguarda la conoscenza della Trinità divina in se stessa e per se stessa. Il dono della scienza, invece, riguarda la conoscenza delle realtà creaturali, in ordine alla conoscenza che si ha di Dio in se stesso; il dono dell'intelletto riguarda la conoscenza della verità divina nel suo aspetto di non patire negazione (uno è fermamente certo anche se non vede;

ma è fermo come se vedesse).

In forza della sapienza, uno gusta la verità divina in se stessa:

per esempio, che Dio sia Trinità.

Un conto è dire: "Io credo che Dio sia Padre, Figlio e Spirito Santo: Unità numerica della natura e Trinità delle Persone, uguali e distinte"; altra cosa è intuire la Trinità come attività continua di generazione-spirazione coinvolgente tutto l'essere.

Nel caso del dono della scienza non consideri più Dio in se stesso, ma consideri le creature: non perché dalle creature possiamo ascendere al Creatore, ma perché consideri le creature così come le considera Dio. E un sapere che guarda le creature alla luce di Dio: quindi è un valutarle alla luce di Dio, così come Dio le valuta.

In questi due casi, sia la sapienza che la scienza considerano positivamente il contenuto rivelato.

Il dono dell'intelletto, invece, lo considera negativamente: io posso, cioè, avere delle obiezioni (la difficoltà che è legata al credere: il credere non è vedere) nei confronti del contenuto dogmatico della fede.

Il dono dell'intelletto è il dono per il quale tu sei portato a credere invincibilmente, con certezza invincibile i contenuti della fede, qualsiasi fosse l'obiezione riferita contro di essi.

Tu non hai l'evidenza, hai la certezza morale. Eppure è invincibile quella tua certezza, che va anche contro qualsiasi altra

13.7

pretesa evidenza contraria - pretesa evidenza, perché non è di fatto tale, ma la si suppone tale.

Quindi, il dono dell'intelletto, che ha questa funzione di certificarti il contenuto di fede contro qualsiasi obiezione rivolta alla fede - obiezione che tu non sei in grado di valutare con la tua ragione -, dipende più dall'intelletto o dall'affetto?

Dipende più dall'affetto. Perciò, questo mi fa capire che se vale per il dono l'intelletto, che vede negativamente, a maggior ragione questa dimensione affettiva vale per il dono della sapienza e per il dono della scienza. In essi, l'aspetto di gusto è accompagnato da qualcosa di positivo: tu non consideri le obiezioni, le critiche che vengono fatte, ma consideri in se stessa la realtà che credi.

Questo fa capire come la vita mistica supponga la fede formata dalla carità, cioè dall'affettività soprannaturale.

Perciò, la vita mistica è tale in quanto la presenza della carità dispone la conoscenza umana a subire l'influsso dei doni dello Spirito Santo, che consentono l'intuizione.

Che cosa scompare nella visione beatifica dell'esperienza mistica? La fede: perché alla fede si sostituisce la visione. Ma tutto il resto permane. I doni dello Spirito Santo permangono nella gloria, perché sono ciò che consente l'adattamento modale dell'operazione umana all'operare divino.

Questo adattamento modale permane nello stato di gloria -cioè in paradiso - perché in esso non scompare l'uomo.

Nello stato di gloria, però, l'uomo è immediatamente coinvolto nella vita stessa di Dio: in modo evidente, immediato.

Nella visione beatifica, non ci sono concetti intermedi. Non è che il beato veda Dio attraverso un concetto più perfetto di quello che abbiamo adesso.

Niente concetti: Dio informa immediatamente l'intelletto dell'uomo. Quindi, l'intelletto dell'uomo rimane perfettamente coinvolto nella visione di Dio.

Come è possibile che permanga l'intelletto umano, essendo coinvolto immediatamente - cioè senza le modalità che sarebbe-

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ro connaturali all'intelletto umano, in quanto intelletto umano -in questa visione di Dio, in questa vita divina?

Con un adattamento ulteriore. E con un adattamento ulteriore a quello del puro lume della gloria, che sostituisce la fede teologale.

Questo adattamento ulteriore, modale, è dato ancora dai doni dello Spirito Santo.

Altrimenti impazziresti, perché tu non hai l'intelletto di Dio! O hai l'adattamento, che ti consente di essere coinvolto immediatamente nel vortice della vita divina senza dare i numeri, o è evidente che tu, lì dentro, non ci vai!

Impazzisci per la sofferenza.

Il lume della gloria implica perciò la presenza della carità e dei doni dello Spirito Santo! L'alternativa - cioè la mancanza del lume della gloria, della carità e dei doni dello Spirito Santo -sarebbe l'inferno.

L'inferno e il paradiso sono uno stato. O meglio sono due stati, dovuti al diverso e opposto riflesso che risulta nell'anima dell'uomo dalla medesima presenza di Dio.

Tu vedi il vortice della vita divina e senti male: è l'inferno. L'inferno si definisce come il totale distacco da Dio accompagnato dalla sofferenza per quel motivo.

Ma tu sai che Dio non è staccato da tè: Dio è presente ovun-que. Ci può essere un luogo in cui Dio non sia presente? No!

L'inferno è lo stato in cui l'uomo è completamente centrifugato dal vortice della vita divina. E estroflesso da Dio per il fatto che non è coinvolto in Dio. Dio è lì presente, ma gli fa male.

Non è coinvolto in Dio e la presenza di Dio gli fa male, perché non possiede l'adattamento alla vita nel vortice. Non ha il lume della gloria, la carità e i doni dello Spirito Santo.

Facciamo questo esempio.

Noi abbiamo la capacità di percepire solo una certa gamma di suoni e a un certo grado di intensità, e a questo si associa anche il gusto nell'ascolto. Ecco, ora facciamo una prova per vedere chi ha l'orecchio capace di gustare l'intensità e l'armonia potente dei suoni musicali e chi, invece, non ce l'ha.

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Prendo un potente impianto stereofonico e incomincio ad alzare gradualmente il volume, che so io... dei Carmina Burana di Cari Orff.

Uno degli ascoltatori dice: "basta non ne posso più!"; altri, invece, dicono: "che bello!".

Ecco: uno soffre e altri si beano rispetto alla medesima realtà.

I beati, in paradiso, sono coinvolti nella stessa dinamica del vivere, del pensare, dell'amare di Dio.

La presenza di Dio, ad alcuni fa bene, ad altri fa male.

L'inferno va interpretato così. Non nel senso che alcuni vengano messi in qualche caverna ai lavori forzati... o addirittura distrutti. Così come tu non puoi pensare che il paradiso sia un annullarci in Dio.

No, no, l'uomo rimane. La presenza di Dio, per qualcuno diventa dannazione, per altri è beatitudine.

Per quanto riguarda la pena del senso, si può dire che, come nei beati la gloria dell'anima ridonda in tutto il corpo, così la sofferenza dei dannati si ripercuote sul corpo.

Non è questione di luogo, ma di modo con cui viene fatta esperienza di Dio: positiva o negativa.

A priori io posso stabilire che, essendo Dio ovunque, ciò che cambia è il modo della presenza con cui si manifesta Dio ovunque a tutti i soggetti. Che poi ci siano degli spazi, o ci possano essere dei luoghi riservati ai beati o ai dannati, questo non lo so, ne è importante... Inferno e paradiso sono degli stati.

Chissà quale sarà lo stato di chi arriverà alla fine di questa lettura...

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LA CONTEMPLAZIONE

Tacere e stare nel segreto delle cose: nel silenzio della voce e con l'adorazione del pensiero si trova Dio.

È un modo di dire? No; metafisicamente è così: il mondo è l'intelligibilità che Dio da di se stesso all'uomo. Nel mondo l'uomo trova il senso di Dio.

Appartarsi, essere nascosti, in silenzio, a spiare la bellezza eterna che traluce da ogni poro della realtà.

La bellezza è l'oggetto formale della contemplazione. La si coglie nel sacrificio degli occhi e dello sguardo.

Dissolversi in pura presenza intenzionale, temendo di sciupare, con eccessivo chiacchiericcio meditativo, la purezza del bene che vuoi trasparire ad ogni costo.

Lo sguardo.

Mai, come in questa contemplazione, si può avvertire quanto l'anima, con la sua infinità {anima fit quodammodo omnia}, si rifletta nello sguardo.

Gli occhi sono lo specchio dell'anima: avere negli occhi l'eternità... ci si perde o ci si salva all'infinito.

A contemplare con lo sguardo illuminato dalla fede nel Logos, si avverte quanto sia importante l'interprete per il creatore.

E una legge che vale nell'arte, ma anche in quell'arte assoluta che è l'opera di Dio.

Si arriva a percepire che nella propria solitudine ha consistenza il tutto. Se non ci fossi io: nulla!

Completamente impossibile opporre la contemplazione del Ciclo alla contemplazione della Terra.

Quanto più è tellurica, avvertita nel pulsare della carne e del sangue, tanto più la contemplazione è paradisiaca: perché la

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creazione geme e soffre come nelle doglie del parto aspettando la manifestazione della gloria redentiva di Dio:

II mondo è il pensiero di Dio.

Pensando il mondo, Dio pensa se stesso e pensando se stesso, Dio pensa il mondo.

Noi siamo il pensiero di Dio. Io sono il pensiero di Dio.

Il pensiero che Dio ha di me, il suo conoscermi, non è qualcosa di diverso da me. Dio non mi conosce in una idea universale. Dio mi conosce in individuo.

L'idea di Giuseppe, in Dio, non può essere una rappresentazione universale o appunto ideale di me stesso. Altrimenti Dio sarebbe come una comune intelligenza creata che conosce in questo modo mediato.

No, no, l'idea di Giuseppe in Dio è a tal punto individua e precisissima nell'indicarmi, da coincidere perfettamente con me.

L'idea di Giuseppe, in Dio, sono io. Io sono l'idea che Dio ha di me!

E se le idee di Dio sono Dio stesso - perché Dio è semplicissimo -, io sono Dio.

Le idee di Dio non sono qualcosa in Dio, o meglio, il loro essere qualcosa coincide con quel qualcosa che è l'essenza di Dio.

Le idee di Dio sono il modo con il quale Dio pensa se stesso, la sua essenza. Non sono qualcosa di diverso dall'essenza di Dio, cioè da Dio.

Quindi, in Dio, io sono Dio: Giuseppe, in Dio, è Dio.

Ma si da forse qualcosa che sia fuori di Dio? C'è un fuori di Dio?

No! Nulla è fuori di Dio. Dio è l'Essere assoluto, rispetto al quale nulla cade al di fuori.

Dio è tutto: nulla gli manca; nulla gli è estraneo; nulla gli è esterno. «In lui viviamo, ci muoviamo, esistiamo» (At 17, 28).

Perciò, sia in Dio, sia fuori di Dio, io sono Dio. Dio non ha ne dentro ne fuori, se non per modo di dire.

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Ma il modo di dire metafisico per eccellenza è quello della prospettiva divina: vedere tutto dal punto di vista di Dio, cioè in Dio.

Per questo tutto è in Dio, perché Dio è tutto.

Contemplare, vuoi dire appunto vedere tutto dal punto di vista di Dio.

Vedere il tutto dal punto di vista del tutto.

Contemplare deriva da templum che, in latino, indica, tra l'altro, un luogo visibile da ogni parte o dal quale si può vedere ogni parte (Varrone).

Si tratta, perciò, di un vedere assoluto: vedere il tutto dal punto di vista del tutto.

Vedere l'essere dal punto di vista dell'essere; vedere l'Essere assoluto dal punto di vista dell'Essere assoluto.

Che cosa non vede chi vede colui che vede tutto? (gregorio magno),

Ma il nostro è un vedere spettacolare. E un vedere coinvolgente, perché coinvolto.

Gli stessi occhi spectant, guardano, osservano, considerano, valutano.

Non si tratta di quella meraviglia che è sempre frutto dell'ignoranza e che vuole oltrepassarsi nella ricerca.

Si tratta piuttosto di uno stupore. Non dello stupore dello stupido perché ignora; ma dello stupore di chi è instup'idìto perché completamente coinvolto, avvolto da una presenza assoluta.

Non si cerca altro.

Lo spettacolo contemplativo fissa quasi attonito lo sguardo, immerso nella giustizia dell'essere: che è, così com'è, perché è.

Sì, nella contemplazione, ciò che vale per il pensiero vale anche per il senso e ciò che vale per il senso vale anche per il pensiero.

Sensibilità e spiritualità non si contrastano nel contemplare. Anzi, sono a vicenda maestro e discepolo.

La spiritualità permea la sensibilità spalancandola all'infinito. La sensibilità immerge la spiritualità nella concretezza dell'infinito.

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Quanto più uno è tattilmente sensibile, tanto più appare acuto intellettivamente (Cf. S. tommaso D'AQUINO, In De sensu et sensato, 1.9). Perciò la contemplazione deve permeare il tatto e lasciarsi guidare dal tatto.

E se questo vale per il tatto a maggior ragione deve valere per i sensi più alti: la vista e l'udito.

Soprattutto la vista: la sede dello sguardo sensibile.

Occorre imparare a concentrarsi negli occhi.

A volte mi pare di essere un demone che si affaccia alla finestra degli occhi, per scrutare divinamente il divino delle forme sensibili.

Quelle forme che sono il punto in cui la vista converge con il tatto.

Quelle forme che sono poi le species (da spedo che vuoi dire guardare), le visibilità concettuali dell'intelletto.

Quelle forme che sono la bellezza - speciositas - dell'essere e che toccano lo stesso intelletto.

La contemplazione è debitrice dell'estetica. E l'estetica è la sensibilità nobilitata dalla ridondanza dello spirito: è la sensazione, la percezione coronata dall'aureola del divino.

Si arriva a sentire la commozione negli occhi. Concentrando l'energia nello sguardo, si avverte la gioia negli occhi.

Che pienezza di attrazione attonita c'è nello sguardo concentrato nell'esperienza del bello. È la consumazione della vista, nel senso del suo compimento, della sua perfezione.

Lo sguardo è coinvolto con tutto per via del coinvolgimento del tutto nella forma, nella bellezza della giustizia dell'essere.

E una specie di solitudine la situazione della contemplazione. Il coinvolgimento con il bello, o meglio con il tutto dal suo punto di vista più alto, che è la bellezza, ha un che di isolamento.

L'esperienza del bello non è utile, non è ordinata ad altro:

è fine a se stessa. Per questo appare corne isolata e immotivata. È compenso a se stessa.

Anche il tatto, che tra tutti i sensi è forse quello maggiormente finalizzato a scopi pratici, nell'esperienza estetica smette questa sua caratteristica per assumere quella del puro gusto.

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II piacere e la gioia non possono avere altro motivo che se stessi: sono fini a se stessi.

Questa solitudine della contemplazione sensitiva è conseguenza della solitudine della contemplazione spirituale, o meglio dell'ambiente spirituale della contemplazione.

Entrando immediatamente nell'atto del pensiero, si coglie una strana solitudine piena. C'è un'atmosfera rarefatta: sembra la quintessenza aristotelica. L'etere, aither da aitho: ardo, splendo; oppure da aeitheo: corro sempre.

Quod semper currit sempiterno tempore: il moto perpetuo.

Etimologie incerte e forse un po' fantasiose, ma che danno certo l'idea di questo affascinante luogo metafisico che è il pensiero.

La vertigine del vuoto è la stessa vertigine del pieno.

Quando l'anima è indicibilmente piena e ricca di pensiero, sembra indicibilmente vuota e assente.

Proprio come un cuore malinconico, che non sappia trovare altra pace che la sua incomunicabile tristezza.

Contemplare è come immergersi nell'acqua profonda. E come restarvi in apnea il più possibile.

E come nuotare nello spirito, nel pensiero puro.

I movimenti più lenti sono i più efficaci sott'acqua: sei più veloce quanto meno ti agiti!

L'udito è permeato dal sibilo del silenzio.

Apprezzi la tua corporeità: la senti tutta.. Sembra che la sensibilità partecipi dello spirito o che lo spirito si affacci alla sensibilità.

E come volare, nell'aria.

Sei avvolto mentre avvolgi.

E una dolcezza sicura, senza l'euforia o l'entusiasmo incontrollato.

Come quella delle Variazioni Goldberg diJ. S. Bach.

«È una musica... che non conosce ne inizio ne fine, una musica senza vero punto culminante e senza una vera risoluzione: una musica che è come gli amanti di Baudelaire "mollement blancés sur l'aile / du tourbillon intelligent"» (G. gould, Lala del turbine intelligente, Milano 1990, p. 63).

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Cullarsi nell'aria come cullare ed essere cullati insieme. In fondo, è proprio come l'esperienza dell'innamorato.

10 la descriverei così.

Vorrei essere avvolgente come l'aria, per abbracciarti sempre, sema esser sentito.

Vorrei esser trasparente come l'aria per guardarti sempre, senza esser visto.

"Vorrei esser penetrante come Varia, per sussurrarti cose indicibili, senza esser udito.

Vorrei esser forte come l'aria, per sorreggerti sempre, senza esserti di peso.

Resto eternamente fisso, dimentico di tutto e di tutti, in un incantesimo del respiro, , perché sei tu che mi manchi • come l'aria.

Contemplare è un po' perdersi nel pensiero, per trovarsi con il tutto.

È perdersi nel pensiero, per trovarsi in Dio. Nel linguaggio del Giorno.

11 pensiero è l'apparire trascendentale/l'orizzonte intrascen-dibile dell'apparire.

L'apparire trascendentale, il pensiero, la coscienza assòluta -la coscienza dell'autocoscienza - è la condizione di possibilità dell'apparire-scomparire degli eterni - cioè del divenire, secondo la verità dell'essere -.

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E la condizione di possibilità dell'apparire dello stesso scomparire. E cioè la condizione di possibilità dell'apparire dell'ap-parire-scomparire.

Anche l'apparire che appare è un eterno. Anche l'apparire dello scomparire è un etemo. Anche l'apparire-scomparire è un eterno.

Ma se l'apparire che appare è un eterno, deve apparire anche quando scompare.

Si deve dare un apparire trascendentale nel quale appaiono eternamente gli eterni.

L'apparire trascendentale, come condizione dell'apparire-scomparire degli eterni, è la coscienza più la coscienza della propria differenza rispetto alla coscienza nella quale appaiono eternamente gli eterni.

Se l'apparire trascendentale o pensiero, nel quale si da l'apparire dell'apparire-scomparire, è la coscienza o il pensiero astratto del tutto; l'apparire trascendentale o pensiero, nel quale appare eternamente l'apparire eterno degli eterni, è il pensiero di Dio: è la scienza di Dio.

Il pensiero di Dio, la scienza di Dio va dunque ammessa come condizione dell'apparire eterno degli eterni: è la coscienza o pensiero concreto del tutto.

Il rapporto tra i due orizzonti trascendentali non può che essere di identità: se fossero totalmente diversi, non sarebbero orizzonti trascendentali. Sarebbero infatti compresi in un orizzonte più ampio, che solo sarebbe trascendentale, cioè onnicomprensivo.

Però, il rapporto è sempre anche una distinzione: un conto è l'apparire dell'apparire-scomparire, la condizione di possibilità eterna dell'apparire dello scomparire; un conto è l'apparire eterno dell'apparire e basta, l'apparire eterno degli eterni.

Quindi, tra i due orizzonti trascendentali c'è insieme identità e distinzione. Come c'è identità e distinzione tra concreto e astratto.

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Ciò che cambia è il modo di vedere le cose. L'astratto è lo stesso concreto visto isolatamente dal tutto.

Il pensiero che pensa il tutto, ma non vede tutto è il pensiero astraente o astratto; il pensiero che pensa tutto e lo vede è il pensiero concreto.

Il pensiero astratto, o di visione astratta, è il pensiero umano, o nel suo versante umano; il pensiero concreto è il pensiero divino, o nel suo versante divino.

Per scoprire l'identità occorre - per così dire - un capovolgimento psichico. Occorre che l'ombra appaia come luce.

E ciò che fa la grazia santificante.

La contemplazione soprannaturale, attraverso la manifestazione della grazia, coglie l'identità.

Nella contemplazione della grazia, si coglie l'eternità del tutto. Degli stessi istanti.

Come una fotografia, in cui l'istante è immortalato, così lo sguardo del pensiero è attonito nell'apprezzamento del tutto nel tutto e in ogni singola sua parte.

Ma non si tratta della percezione di un fotogramma dopo l'altro.

L'eternità non è fissismo.

L'eterno non è stasi.

L'eternità è la coscienza in istante del possesso di una vita assoluta.

Ecco ciò che appare nella percezione contemplativa. In ogni singolo istante è presente il senso del tutto. Il concreto è tale perché è la presenza del tutto.

E il flusso vitale universale presente in ogni istante.

L'essenza di ogni singola creatura è la stessa essenza di Dio:

è diafania di Dio.

La percezione contemplativa, soprannaturale, di questa realtà è il senso più radicale della comunione dei santi.

Elisabetta della Trinità ha intitolato - in modo molto significativo, da questo punto di vista - un suo ritiro spirituale in questo modo: "Come si può trovare il Cielo sulla Terra".

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E la scoperta consiste nella vita mistica, cioè nella contemplazione della grazia.

La contemplazione mistica, dunque, non separa il Cielo dalla Terra, ma trova il Cielo in Terra.

Perciò si deve poter dire che le stesse sofferenze non sono ostacolo a questa beatitudine mistica - come, del resto, prova la stessa vicenda dolorosa della giovane Elisabetta della Trinità.

La mistica è l'essenza della vita cristiana.

E la vita cristiana non toglie la sofferenza. Anzi ne è il segreto glorioso.

Il mistero della passione-morte-risurrezione di Cristo, coronato dal mistero dell'Ascensione, esprime il senso più profondo della divinizzazione della sofferenza.

Il mistero dell'Ascensione di Cristo in Cielo, con le sue piaghe, dice che appartiene all'essenza del cristianesimo il vivere divinamente la sofferenza.

Lo stesso Paradiso è il vedere la Gloria delle proprie fatiche e sofferenze cieche.

La contemplazione cristiana è vedere le cose dal punto di vista di Dio.

Ma, dal punto di vista di Dio, si vede solo Dio, perché Dio vede tutto vedendo se stesso. E, vedendo se stesso, non si vede assolutamente come "Dio".

Dio è l'Essere Assoluto. Non è in relazione ad altro.

Il vero e proprissimo nome di Dio è Essere Assoluto, lo stesso Essere per sé sussistente.

Questo nome è incomunicabile. Il nome "Dio", invece, non è proprissimo dell'Essere Assoluto, perché è comunicabile per analogia (Cf. S. tommaso D'AQUINO, Summa Theologiae, I, 13). Ed è comunicabile perché indica una certa superiorità nell'ordine - e quindi in un qualsiasi ordine.

L'ordine dice relazione, è relazione, quindi il nome "Dio" esprime implicitamente una relazione di dipendenza a sé.

Dio, in quanto Essere Assoluto, è irrelato e neppure può avere una relazione di dipendenza da altro da sé.

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Questo vuoi dire che per Dio non c'è "Dio".

Dio è senza "Dio".

Vedere le cose dal punto di vista di Dio è, dunque, vedere solo Dio senza vedere "Dio". E vedere Dio senza "Dio".

In questo senso, si può dire che la vita cristiana, la vita di grazia, sia vivere con Dio senza "Dio".

O, secondo l'espressione bonhoerreriana - debitamente intesa -: «Con e al cospetto di Dio, noi viviamo senza Dio» (Lettera del 16.7.1944).

Raptus,

ubi tempus aeternum nominatw, ibimens, obscure nata, aeternatur. Tactus purus, olini lapsus, ob rapinam agii captus. Sistit umbra et mundanum, sed ubique lux et grafia. Nt'xus angelo, tango arcanum.

 

INDICE

II segreto .....p. 9

La genialità...p. 16

Lo sguardo di Dio......p. 22

II mestiere del teologo ......p. 29

II ragionare divino ...p. 35

II soliloquio sul divino...........p. 44

La teologia..........p. 55

L'esplosione del dogma ............p. 70

II punto di vista dell'eterno........p. 75

L'eterno nel Cristianesimo....p.. 82

La conoscenza di fede..p. 96

La divinizzazione..p. 103

L'esperienza di grazia...............p. 117

I gradi dell'esperienza di grazia.........p. 124

La contemplazione..p. 140

 

 

 

 

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