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GIUSEPPE BARZAGHI
SOLILOQUI SUL DIVINO
MEDITAZIONI SUL SEGRETO CRISTIANO
edizioni studio domenicano
TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI
© 1997 - PDUL Edizioni Studio Domenicano Via
dell'Osservanza 72 - 40136 Bologna - ITALIA - Tei. 051/582034
Finito di stampare nel mese di novembre 1997 presso le
Grafiche Dehoniane - Bologna
giuseppe barzaghi è sacerdote domenicano. Nato a Monza
(MI) il 5.3.1958. Dottore in Filosofìa (Univ. Cattolica di Milano) e
Teologia (Pont. Univ. S. Tommaso in Roma). Docente di epistemologia
teologica (Univ. Cattolica di Milano e Studio Teologico Accademico
Bolognese) e filosofia teoretica (Ateneo domenicano di Bologna). Socio
della Pontificia Accademia di S. Tommaso d'Aquino. Direttore della rivista
Divus Thomas.
Principali pubblicazioni: Metafisica della cultura
cristiana (ESD, Bologna 1990); La meditazione (ESD, Bologna
1992);
L'essere, la ragione, la persuasione (ESD, Bologna
1994); La filosofia della predicazione (ESD, Bologna 1995); Dio
e ragione. La teologia filosofica di S. Tommaso d'Aquino (ESD, Bologna
1996); Dialettica della Rivelazione. Proposta di una sistematica
teologica (ESD, Bologna 1996); Diario di metafisica. Concetti e
digressioni sul senso dell'essere (ESD, Bologna 1997).
Flevi Adoratione Passus Benedictae Umbrae Paradisi Genua
Flectens
IL SEGRETO
Non ne posso più!
Non ne posso più! Io tra poco scoppio. Mi sento tutto
ribollire. Non so neppure se si tratti di un ribollire fisico o
spirituale.
E inutile che io continui a ripetermi che devo stare
calmo: è anche questa una forma di tortura, che non fa altro che
alimentare la tempesta,
Non riesco più a sopportare i discorsi che sento fare sul
cristianesimo.
Dio mio, che tormento! A volte non riesco neppure a
sopportare di sentir pronunciare la parola Gesù.
Perché tutto questo alone di falsa dolcezza? Perché ci
si crogiola in racconti sospesi a mezz'aria tra una storia che vuole o
deve essere cruda e una fantasia addomesticata e bugiarda?
Ma chi si accontenta della pura storia? Che cosa vuoi dire
che un fatto è storico? Forse che ha la garanzia della verità?
Più vado avanti e più mi convinco che alla classica
divisione binaria del senso del termine stona occorre aggiungere un
terzo senso: alla storia come res gestae - cioè gli avvenimenti -
e alla storia come rerum gestarum - cioè la ricerca o la
ricostruzione dei fatti storici e delle loro cause - si deve
aggiungere la storia come frettala...
La storia come ricerca e ricostruzione degli accadimenti
è sempre accompagnata da una buona dose di soggettività, di pareri
personali, di punti di vista opinabili, di interessi di parte.
Chissà se arriva a cogliere obiettivamente il suo
bersaglio, oppure lo coglie per il semplice fatto che il suo bersaglio è
precostituito e già colpito prima ancora di essere mirato.
10
Quando ci penso, mi viene in mente la barzelletta del
pescatore che racconta a un amico come è andata la pesca. Un pesciolino
di pochi centimetri diventa un tonno...
Oppure, quando non ci si fonda sulla testimonianza
diretta, ma ci si affida alla documentazione mediata di altri - si
riportano cioè le voci - la cosa si trasforma in chiacchiera, diceria,
con le solite espansioni del caso: la leggera sordità, per il movimento
di cerume nell'orecchio, dopo una nuotata, alla fine della
"comunicazione di notizia" diventa una sordità permanente per
embolia...
La storia è quasi sempre un gioco all'espansione: ci si
diverte a gonfiare le notizie e a drammatizzarle per renderle più
credibili, cioè più realistiche... E poi ci si accorge che questo
reale è tutto fantasticato frottolosamente\ (Non è un
errore di stampa:
frettolosamente = neologismo avverbiale da trottola; come
frettolosamente viene da fretta. Che poi la trottola storica dipenda dalla
fretta della narrazione o del narratore è questione che lascio volentieri
risolvere ad altri).
Viva il razionalismo - almeno qui.
Ho sempre gustato a fondo la celebre pagina del Discorso
sul metodo (parte prima) di Cartesio relativa alla storia. Dice
Cartesio: «Le favole fanno immaginare come possibili molti avvenimenti
che non lo sono per nulla e... le storie più fedeli, ammesso che non
cambino ne aumentino il valore delle cose per renderle più degne di esser
lette, omettono quasi sempre le circostanze più basse e meno illustri; e
da ciò deriva che il resto non appare più quello che è».
D'altra parte, un fatto è un fatto: da solo non dice
niente; oppure non dice altro oltre al fatto che c'è, che succede o che
è successo qualcosa.
Il che cosa sia poi il qualcosa che succede, o che è
successo, non è un fatto, ma un'essenza: qualcosa di stabile, che non ha
niente a che vedere con l'accadere.
Ciò che accade è un qualcosa di determinato: ciò che
conta è il qualcosa che accade, non l'accadere di questo qualcosa.
L'accadere come accadere è anonimo.
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Quanto all'accadere, la nascita di un uomo e l'accensione
di un fiammifero sono uno stesso fatto. Solo dal punto di vista del
che cosa (cioè l'essenza) accade, si può rilevare la differenza e il
diverso grado di importanza dell'accadimento.
Perciò l'accadimento, l'evento in quanto evento, non ha
un grande valore.
Ecco, è forse proprio questo concetto che mi infastidisce
tanto nel modo narrativo con cui sento farfugliare la
"proposta" cristiana.
Non sopporto più il sentir parlare di
"Evento" cristiano, insistendo sulla nozione di
"Evento". La riduzione del Cristianesimo ad evento è uno
svilimento del Cristianesimo stesso.
Ed è ovvio che questa insistita sottolineatura
dell'Evento intende essere proposta come una qualificazione essenziale del
Cristianesimo. Si insiste nel dire: "II Cristianesimo è un
Evento, anzi è l'Evento per eccellenza".
Bella trovata! Così si introduce l'insignificante nel
significato: si fa diventare insignificante ciò che si vuoi invece
caricare di significato !
Se in quanto fatto, accadimento, evento, l'accensione di
un fiammifero e la nascita di un uomo sono equivalenti, l'introduzione
della fattualità nell'ordine dell'essenza del Cristianesimo equivale alla
riduzione del valore del Cristianesimo all'accensione di un fiammifero...
Mi inchino a tanta arguzia... e a tanta... elasticità
mentale!
Però, anche se siamo nell'era della plastica e della
gomma, mi ostino a pensare che l'intelletto non sia un derivato del
petrolio, ne sia fatto di caucciù - pur riconoscendo le ovvie eccezioni
che il caso menzionato comporta...
E che enfasi ridicola accompagna questa strana teologia
dell'evento, quando diventa omelia.
"Dio,... colui che è da sempre,... l'eterno,...
irrompe nella storia; si fa uno di noi e cammina accanto a noi...".
Mentre pronunciava queste parole, il predicatore che ho
ascoltato teneva gli occhi chiusi, la testa rivolta verso l'alto e
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soppesava quello che diceva con pause che volevano
significare l'importanza e la solennità del suo dire.
Eh sì, quanta ispirazione ci vuole per dire delle
corbellerie! O comunque ci vuole del gran coraggio per spacciare come
ispirate delle sciocchezze.
Stando a questa sontuosa descrizione, l'essenza del
Cristianesimo si risolverebbe in una passeggiata con un extraterrestre,
camuffato da uomo, dopo che è precipitato sulla terra.
Certo che se le cose stessero proprio in questi termini,
il Cristianesimo sarebbe la trama di un film ad effetti speciali. A
saperlo raccontare e interpretare bene dal pulpito, si farebbe il
record di incassi nelle questue della messa domenicale...
Perché sono delle corbellerie? E presto detto.
Per prima cosa, Dio è certamente eterno, anzi è la
stessa eternità, ma questo non è mica sinonimo di essere da sempre e per
sempre. Eterno non è ciò che non ha principio ne fine perché ha una
durata interminabile. A questa condizione anche il tempo sarebbe eterno:
una durata infinita di istanti successivi.
Ma l'eternità non è il tempo. Non la si misura allo
stesso modo. La durata dell'eterno è un istante insuccessivo, cioè
assolutamente permanente. L'eternità è tutta insieme in un istante, non
è da sempre e per sempre come se fosse estesa all'infinito in modo
indeterminato. /
Per favore, non cominciamo a fantasticare un Dio
con la barba e i capelli bianchi alla Matusalemme!
In secondo luogo, Dio non irrompe nella storia, perché
non irrompe da nessuna parte. Con buona pace dei sostenitori della tesi
della assoluta onnipotenza divina, Dio non può far parte dei
nuclei speciali antisommossa.
Dio non irrompe da nessuna parte perché, in forza della
presenza di immensità, è ovunque. Così il sempre successivo del tempo
è permeato da sempre dalla presenza insuccessiva di Dio.
In terzo luogo, Dio non può proprio farsi uno di noi,
perché Dio non può farsi proprio un bei niente. Dio non può mutare,
divenire: quindi non può farsi o divenire l'altro da sé.
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Un Dio che cambia non è Dio. Se cambiasse, ciò
dipenderebbe o dall'acquisire qualcosa o dal perdere qualcosa. Nell'uno,
come nell'altro caso, Dio sarebbe o prima o dopo mancante di qualcosa: non
sarebbe cioè l'assoluta perfezione, alla quale - appunto - non manca
assolutamente nulla.
In quarto luogo - ma si tratta di una conseguenza -, Dio
non cammina accanto a noi, perché non può divenire (camminare) e non
può esserci accanto, visto che è in noi, come in ogni cosa, per la sua
presenza di immensità.
Come sono stanco di sentire quelle fanfaronate
contrabbandate per esigenze di linguaggio pastorale, quando invece sono il
velo pietoso che nasconde l'ignoranza o l'insufficienza di un prete.
Non riesco più a trattenermi perché sento che si tratta
di un tradimento. Anche mio, se sto zitto.
La cosa tragica è che se le cose stessero in quei
termini, se il Cristianesimo fosse davvero quella "passeggiata con
l'extraterrestre", io mi tirerei fuori dalla comitiva.
Ho paura di non saper più credere.
Sto per lungo tempo davanti al tabernacolo, ma non riesco
a partorire nessun affetto o pensiero teologico...
"Davanti a tè sto come una bestia, Signore!".
Il silenzio claustrale mi soffoca e mi protegge...
Unica consolazione è la compagnia angelica.
10 sono uno gnostico che sa ancora gridare: "abbi
pietà di me, Signore!".
Ten ten ten ten ten ten...
11 suono, quasi lieve e monotono, della campanella che
indica all'esterno l'inizio dell'ufficiatura corale, mi richiama a un
senso di pietà.
E tutto si rappacifica.
E come una dolce sconfitta. Si soccombe volentieri perché
la giusta serietà della vita smorza ogni violenza e attutisce ogni
clamore sguaiato.
Per provarla e riprovarla, a volte mi metto a guardare,
ascoltando il ricercar a tré deH'Offerta Musicale di]. S. Bach, lo
spet-
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tacolo apparentemente desolante delle case diroccate o
quelle che negli anni settanta venivano occupate: imbrattate di scritte;
panni stesi dove ci si sarebbe aspettati di vedere delle
colorite ed eleganti fioriere. Che strano senso di pace si coglie
nell'accet-tare ciò che è perché è, così com'è.
E la bellezza della resa di fronte a ciò che è giusto
perché irreversibilmente è così com'è. Il giusto gode di una
particolare bellezza: non è esaltante, ne avvilente.
E una specie di solitudine eroica, come quella che può
evocare la tonalità di do minore.
Non è la storia che è maestra di vita, ma è la vita che
è maestra a se stessa.
La vita non ha segreti fuori di sé. La vita stessa è il
segreto più profondo.
Non si può disprezzare la vita. Lo stesso disprezzo della
vita è paradossalmente un'esigenza vitale: è dettato dalla vita che
vuole una maggior pienezza di sé.
Così, anche il Cristianesimo, con il suo profondo
segreto, il suo mistero, appartiene all'ordine della vita. Non può essere
altrimenti.
Il segreto cristiano è un segreto vitale.
Forse è proprio questo il motivo per il quale sento come
un tradimento la descrizione dell'essenza del Cristianesimo in termini
sgradevolmente fiabeschi o di una asettica fenomenologia da enciclopedia
delle religioni.
Nella sua essenza, il Cristianesimo è vita. E il segreto
di questa vita è Dio stesso.
Sì, il Cristianesimo è il coinvolgimento della vita
divina con la vita umana e il coinvolgimento della vita umana con la vita
divina.
La parola che racchiude in sé questo segreto è la parola
Grazia.
La Grazia è infatti la partecipazione della vita divina
alla creatura ragionevole. L'uomo, in forza della Grazia, è in comunione
con la vita divina, perché la vita divina si manifesta come presente
nella vita umana.
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II segreto cristiano è dunque il segreto della
divinizzazione della vita umana e della umanizzazione della vita divina.
Perché non si parla più della Grazia? Oppure, se se ne
parla, se ne parla in termini più fumosi di una intossicante liturgia
manierista?
Forse aveva ragione mio nonno quando mi diceva: "Un
tempo c'erano i calici di legno e le teste d'oro; adesso ci sono i calici
d'oro e le teste di legno ! ".
Io aggiungerei che ci sono anche le teste di gomma...
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LA GENIALITÀ
Secondo me la vita cristiana è una vita geniale: la vita
tipica di un genio.
Lo so benissimo che quando lo dico mi attiro le critiche
un po' di tutti: sia dei benpensanti, sia dei malpensanti.
I benpensanti, quelli che si fanno paladini indefessi
della tradizione, vedono in questo il capovolgimento di uno schema
intangibile: una specie di violenza modernistica al senso genuino delle
formulazioni dogmatiche della dottrina cristiana.
I malpensanti, cioè quelli che sono "contro" ad
oltranza, avvertono il medesimo capovolgimento come un'astuzia
propagandistica, una forma di camuffamento della vecchia e
"stantia" dottrina sotto le sembianze di una superficiale o
apparente novità, fatta soltanto di parole.
Insomma, per i benpensanti è come se io dicessi che si
può mangiar carne il venerdì di quaresima; per i malpensanti, invece, è
come se io dicessi che il venerdì di quaresima si può mangiare la carne
rancida con abbondanti spezie: perché in quanto rancida non è più
carne; in quanto speziata non è mica rancida...
Che guaio, eh?
Eh sì, è un'impresa davvero difficile accontentare
"palati" tanto fini.
E se si trattasse davvero soltanto di palato, il guaio
sarebbe ancora più grave.
Come si fa a pensare con il palato?
Questo sì sarebbe un vero "capovolgimento" fuor
di metafora, non il mio.
E poi, visto che si tratta di pensare: prima ancora di
essere benpensanti o malpensanti, occorre essere pensanti, punto e
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basta. I pregiudizi, buoni o cattivi che siano, devono
essere sempre esclusi.
Ebbene, è proprio il pensiero che spinge a dire che la
vita cristiana è una vita che possiede i modi tipici della genialità.
Il pensiero che dice queste cose è la teologia, cioè la
scienza che vuole comprendere in modo ragionevole la fede. Non per
dimostrarne il contenuto - non sono mica stupido -: una fede dimostrata
non è più fede! Ma per capire quello che si crede, per non
credere l'incredibile!
A volte, proprio per mancanza di questa riflessione
critica, si arrivano a credere delle cose che non stanno ne in cielo ne in
terra: pure fantasie, che non c'entrano niente con il dogma di fede.
Penso davvero che si possa dare il caso di gente che creda
di credere.
Se si crede ciò che non va creduto, perché è
incredibile, ma non lo si sa tale - cioè non si sa che è incredibile -,
il permanére del credere è malriposto.
Per esempio, se si crede che la Trinità è costituita da
tré individui, si crede di credere nella Trinità, perché di fatto non
si erede nella Trinità: le tré persone trinitarie non sono tré
individui di natura divina.
In questo caso, non si crede ciò che si può credere -
cioè ciò che fonda il credere -, e quindi il credere svanisce come tale
(cioè nella sua sostanza) e ciò che permane è la sua parvenza: il
credere di credere.
L'incredibile è nulla come credibile; dunque il credere
l'incredibile è credere nulla, cioè nulla come credere: non si crede
nulla, cioè non si crede.
Ciò che rimane - se si continua a credere - è appunto la
parvenza del credere, non la sua sostanza.
E questo è un altro guaio.
Ma la teologia non si fa certo denunciando i guai. Occorre
pensare criticamente. La teologia è la comprensione razionale della fede.
Se dunque si cerca di capire che cosa vuoi dire che la
vita cristiana è vita di grazia e che la vita di grazia è la stessa vita
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divina, la conclusione teologica non può non essere che
questa:
la vita cristiana è la vita del genio.
Sì, perché ai nostri occhi Dio è un genio; dunque chi
ha la vita stessa di Dio è egli stesso un genio.
La genialità in che cosa consiste?
Beh, geniale è una persona che rende semplice il
complesso, che coglie di botto gli elementi essenziali o semplici -
elementari -di un composto; o ancora, che sa comporre, sintetizzare,
mettere insieme cose che sembrano incomponibili.
Insomma è qualcuno che sa fare bene la sintesi perché sa
far bene l'analisi.
Non so, per fare un esempio - forse banale, ma certamente
efficace -: geniale è l'intuizione per la quale si possono sommare pere e
mele.
Mi spiego. Quanto fa cinque pere più tré mele? Certo non
si può rispondere: otto mele o otto pere. Non si sommano pere e mele! E
allora come la si mette?
Ecco, la somma è impossibile, finché non si ha
l'intuizione che ti fa cogliere ciò che di più semplice ed elementare si
coglie nelle pere e nelle mele, e che dunque possiede la forza di essere
principio unificatore o di sintesi.
E vero che non si sommano le pere come pere con le mele
come mele, ma le pere come frutta con le mele come frutta sì.
Cinque pere più tré mele fa otto frutti! Questa è la
sintesi del complesso, dell'apparentemente incomponibile, sulla base di
un'intuizione semplificatrice.
Il colpo di genio è qualcosa del genere.
E la genialità è una vita che ha come propria dinamica
questo procedimento. Per questo motivo dico che Dio è geniale per
eccellenza.
Dio coglie con un unico atto la totalità delle cose nelle
loro infinite differenze come qualcosa di assolutamente semplice.
E una legge metafisica: Dio è semplicissimo nella sua
assoluta perfezione. In quanto semplicissimo, egli è la sua stessa
attività, il suo stesso atto di conoscere e di amare; in quanto assoluta
perfezione, non ha niente di estraneo a sé: è tutto.
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Dunque, Dio è l'assoluto conoscere che coglie
immediatamente tutto in se stesso. Capisce tutto al volo; a uno schioccar
di dita. Più geniale di così... E uno che capisce tutto... per
istinto\
Ecco, sì, Dio capisce tutto per istinto. "Per
istinto" è l'espressione giusta. Evidentemente si tratta di una
istintività spirituale, non di tipo sensibile, perché Dio è
assolutamente immateriale.
Ma si tratta davvero di una istintualità.
L'istinto è una sorta di stimolo, un'inclinazione
naturale a certe operazioni.
Istintivi per eccellenza sono gli animali. Gli animali si
muovono per istinto, cioè per un'inclinazione determinata dalla natura.
Il leone caccia per istinto, la pecora fugge il lupo per istinto.
Anche l'uomo compie alcune azioni per istinto, proprio
perché è per essenza un animale. Per istinto fuggiamo il pericolo;
per istinto cerchiamo il piacere; per istinto aggrediamo
il male che ci minaccia.
D'altra parte è la stessa sensibilità che vive
d'istinto. La vista coglie istintivamente i colori e le figure, così
anche l'udito coglie istintivamente i suoni, l'olfatto gli odori, il gusto
i sapori e il tatto le forme, la mollezza e porosità dei corpi.
Ogni senso coglie immediatamente e infallibilmente il
sensibile suo proprio.
E così stretta l'associazione tra sensibilità e istinto,
che anche quando si trasporta questa nozione a livello più spirituale o
comunque psicologico, il riferimento metaforico al senso è d'obbligo.
Per questo motivo, per indicare il particolare acume di
una persona, cioè la sua particolare capacità di cogliere il semplice
dentro il complesso - o di sintetizzare il complesso nel semplice -, si
usano le espressioni esclamative: "che occhio!", "che
orecchio!", "che naso!", "che palato!", "che
tatto!".
Questo, appunto, per dire che quella persona vede
spiritualmente in profondità, o che capisce anche il tema nascosto sotto
un discorso piuttosto articolato; oppure che ha un fiuto e un gusto tanto
raffinati da individuare gli elementi o i principi portanti di una tesi; o
ancora che ha una grandissima sensibilità,
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che le consente di percepire le sfumature che rendono
partico-larmente efficace un discorso o una opinione.
L'istinto indica così un'indole e anche un talento.
Il talentuoso sembra uno che non faccia assolutamente
fatica a fare ciò che fa: sembra che gli venga naturalmente, appunto per
natura, cioè per istinto.
E questo è proprio del genio. Il genio è appunto un
talentuoso. Il genio semplifica, senza banalizzare!
Il genio è un istintivo sul piano spirituale, e dunque un
intuitivo.
Ma se si considera bene la cosa, questa istintività
spirituale del genio, nell'ordine umano è semplicemente una abbreviazione
dei passaggi o una semplificazione accelerata degli stessi passaggi che
sono l'anima della razionalità, cioè della dinamica discorsiva
dell'intelletto umano.
Il nostro intelletto non intuisce nulla: capisce per
passaggi e per costruzione di concetti elaborati attraverso un complesso
di informazioni.
Quindi, la genialità naturale dell'uomo non è
assolutamente istintiva o intuitiva: è discorsiva.
Questo vuoi dire che anche l'uomo più talentuoso, cioè
più dotato da madre natura di qualità, di doti intellettive e
psicologiche, deve sempre far ricorso a una certa concentrazione e a una
attività di richiamo delle nozioni che ha elaborato.
Certo è più veloce di uno meno dotato, ma si tratta
comunque di una maggiore velocità, la quale implica sempre un movimento
non istantaneo.
E anche queste doti naturali vengono sempre raffinate con
l'esercizio, cioè con un allenamento: il genio è sempre frutto di
pazienza e disciplina nell'ordine umano.
Così non è, evidentemente, per Dio.
Dio raccoglie tutta la sua comprensione nell'intuitività
dell'istante, come l'occhio vede all'istante il colore.
In Dio, vi è effettivamente un istinto spirituale allo
stato puro: Dio stesso è questo istinto spirituale.
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A differenza dell'istinto o della spontaneità del senso,
che coglie il sensibile proprio come il suo tutto, ma che non è il tutto,
Dio coglie intuitivamente il tutto, la totalità delle cose, nei loro
minimi particolari e nelle loro reciproche e universali relazioni, in un
colpo solo.
Con un semplice sguardo!
L'intuizione è appunto questo sguardo [intueri -
da cui intui-tus - in latino vuoi dire appunto guardar dentro).
Se la grazia comunica la vita divina all'uomo (2 Pt
1, 4), essa comunica anche questa intuitività, istintività di Dio.
Comunica o partecipa appunto la genialità di Dio.
Sul piano soprannaturale, cioè della vita intima di Dio,
si può essere effettivamente degli intuitivi e degli istintivi.
Anzi, non può essere altrimenti: lo spirito divino, Dio,
non è discorsivo, è un lampo. Così, coloro che sono divinizzati dalla
grazia sono dei lampi: «come scintille nella stoppia correranno qua e
là» (Sap 3, 7).
Reso divino dalla grazia, l'uomo è mosso da questo
principio superiore come per istinto. «Quelli che sono mossi dallo
Spirito di Dio, sono figli di Dio» {Rm 8, 14).
Esser mossi assolutamente, piuttosto che essere agenti,
cioè attori delle proprie azioni in modo deliberativo, per scelta
ponderata, è proprio degli animali: perché sono mossi dalla natura,
cioè dall'istinto. Allo stesso modo - commenta S. Tommaso d'Aquino -,
l'uomo, partecipe della grazia dello Spirito Santo, non agisce
principalmente attraverso la propria volontà deliberata, ma per l'istinto
dello Spirito Santo, che lo inclina a un agire che è divino -senza che
sia tolto l'umano {In Rm, commento a Rm 8,14).
Ecco, divinizzato dalla grazia, l'uomo è un animale
divino.
Guidato da un istinto divino, dall'intuizione divina,
dallo sguardo divino, egli vede ciò che Dio vede, guarda ciò che Dio
guarda e come lo vede e lo guarda Dio, con il medesimo colpo di genio.
Questo è il vero segreto cristiano.
Chissà se per intenderlo bisogna essere benpensanti o
malpensanti.
Forse basta essere pensanti e basta.
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LO SGUARDO DI DIO
E difficile teorizzare, speculare seriamente all'interno
della fede.
Eppure è assolutamente necessario, indispensabile. La
fede va compresa: occorre capire ciò che si crede.
E per capire occorre andare all'essenza di una cosa.
Bisogna arrivare a cogliere ciò che in tutto e per tutto determina una
cosa. Così che, una volta che la si è ben determinata, non la si può
confondere con un'altra.
Come si fa a determinare l'essenza di una cosa? Sembra
facile dire che cos'è una cosa, ma non è così...
L'essenza è qualcosa di semplice: ne è prova il fatto
che quando diciamo di limitarci all'essenziale intendiamo proprio dire che
non vogliamo complicare le cose e la vita.
Ma quando il discorso si sposta sull'essenza delle cose,
il limitarsi all'essenziale vuoi dire andarlo a scovare.
Allora il semplice diventa figlio del complicato!
Il semplice, o meglio la conoscenza del semplice, è
frutto della semplificazione; la semplificazione è frutto della
purificazione e la purificazione non è del tutto indolore...
Per capire, bisogna saper smontare e rimontare.
Frange, fronzoli, fronzolini e fronzoletti vanno tutti
interdetti. Toh, che bella rima baciata! Anche se francamente preferirei
baciare qualcosa d'altro, piuttosto che una rima...
E anche questa è una fatica in più.
Gli accessori, i fronzoli eccetera, sono importanti e
belli, ma possono essere un ostacolo per chi mira al nocciolo della
questione o vuoi guardare la realtà nella sua pura nudità-(e dai, oggi
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deve essere o il giorno delle rime o il giorno dei
baci..., speriamo bene).
Dunque, se andare all'essenziale vuoi dire mettere a nudo
crudamente il reale, strappandogli i fronzoli di dosso, la stessa cosa
deve essere fatta nei confronti della dottrina cristiana, così che, una
volta denudata, appaia in tutto il suo abbagliante ed essenziale
splendore.
Come si arriva a dire che il segreto cristiano, l'essenza
del cristianesimo, consiste nel possedere lo stesso sguardo di Dio?
Lo so che adesso devo fare un salto mortale: devo buttarmi
a capofitto nella fede, abbracciandola con la ragione e penetrandola con
l'intelletto.
E uno strano amplesso: si è assedianti e assediati nello
stesso tempo. Questo vuoi dire ragionare nella fede - non prima
della fede.
E come ogni abbraccio, anche questo deve essere insieme
potente e delicato. Se non fosse potente, non darebbe fiducia;
se non fosse delicato, non sarebbe fiducioso.
Nell'amplesso si da tutto e si prende tutto: è il prezzo
dolcemente crudo della sincerità.
Dio mio, sta' a vedere che adesso mi metto a fare il
mistico...
Comunque sia, prima ragioniamo un pochino crudamente.
E, crudezza per crudezza, prendiamo come dato basilare il
male e la sofferenza che ci sono, indiscutibilmente, nel mondo.
Si tratta di un dato di fatto, e contro un fatto non si
discute. Discutere con un fatto, che di suo è banalmente dato, è
banalizzare la discussione stessa.
Ebbene, c'è il male, c'è la sofferenza, ma c'è anche
Dio; che è somma bontà e somma intelligenza.
Come risolve la teodicea questo annoso problema? Come è
compossibile l'esistenza di Dio sommo bene e del male? L'uno non è la
negazione dell'altro? Dunque, se esiste Dio non può esistere il male;
oppure se esiste il male, non è vero che esiste Dio.
Dato che è incontestabilmente vero che esiste il male,
allora vien da concludere che Dio non esiste.
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Se uno dei contrari è infinito - e Dio è Bene infinito
-, l'altro -cioè il male - viene distrutto. Ma il male c'è, dunque non
esiste Dio!
Ma la teodicea risolve in un altro modo il problema,
superando l'obiezione.
Alla bontà infinita di Dio, proprio perché infinita,
compete il trarre il bene anche dal male che essa permette.
Si potrebbe anche dire che Dio permette un male per trame
un bene maggiore. Dio lo può.
Obiezione vostro onore: chi ha mai visto questo bene
maggiore che consegue alla permissione di un male?
Chi ha mai visto il bene maggiore che è stato tratto
dalla permissione dell'Olocausto degli Ebrei, durante la seconda guèrra
mondiale?
Chi ha mai visto il bene maggiore tratto dalla permissione
della morte per leucemia di un bambino innocente?
Chi ha mai visto... va bene, adesso basta, perché le
obiezioni di questo tenore le conosciamo tutte: e non possono non essere
accolte.
E poi, Giuseppe, ricordati che stai ragionando nella fede!
Quindi devi mantenere fermo che esiste Dio e che è sommo bene; anzi devi
anche aggiungere - e questo è proprio tipico della fede cristiana - che
la Bontà di Dio è misericordiosa, pietosa, redentrice. Dio si incarna,
muore e risorge per la salvezza dell'uomo.
Sì, va bene; ma insisto: tutto questo ha forse tolto il
male e la sofferenza dal mondo? No!
E se tutto questo è in funzione del dono della grazia
all'uomo: chi è in possesso della grazia di Dio forse non patisce più?
Oppure per lui il male non esiste più? Non può più morire bimbo
innocente per leucemia o in un campo di sterminio... ?
Che trottola!
Questa grazia divina non è mica miracolosa!
25
Questo deve essere chiaro: la grazia di cui si sta
parlando non è la grazia nel senso del miracolo ! Altrimenti chi la
possiede dovrebbe essere sempre miracolato: dovrebbe essere in uno stato
permanente di miracolo. Ma uno stato permanente di miracolo non è più
miracoloso.
Il miracolo è straordinario; lo stato permanente è
ordinario: se lo straordinario diventa ordinario, non è più
straordinario, no?
D'altra parte, se questa grazia fosse il miracolo, quelli
che non sono beneficiati dal miracolo, quelli che non fossero esauditi
nella loro richiesta di un miracolo, non avrebbero la grazia.
Perché?
Subito nella mente si scatenano gli interrogativi più
angosciami e tormentosi: "chissà che cosa ha fatto per non trovare
ascolto presso Dio".,. Oppure: "se non è colpa sua, sarà per
colpa di qualcuno dei suoi"...
Ma è lo stesso Vangelo che bacchetta questo tipo
di inquisizione straziante: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi
genitori, perché egli nascesse cieco? Rispose Gesù: Ne lui ha peccato,
ne i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere
di Dio» (Gv 9, 3).
Rimane comunque poi il dato di fatto che il miracolo, in
questi casi - a differenza dell'episodio evangelico che segue alla
sentenza di Gesù appena citata -, non avviene.
Dunque, occorre pensare in un altro modo la
"manifestazione dell'opera di Dio".
Dire che una cosa è manifesta, vuoi dire che una cosa è
visibile. Quindi si ritorna daccapo: chi vede il bene migliore che è
tratto dalla permissione del male?
Se non è visibile a noi, certo non può non essere
visibile a Dio! Dunque, chi lo vede è Dio. Il bene migliore che nasce
dalla permissione del male cade infallibilmente sotto lo sguardo di Dio.
La conclusione logica non può essere che questa: per
poterlo vedere, occorre avere lo stesso sguardo di Dio!
26
La grazia divina, donando la partecipazione alla stessa
vita di Dio, dona anche lo sguardo di Dio.
Certo che mettersi dal punto di vista di Dio per vedere le
cose, restando comunque uomini, non è affare di poca consistenza. Ma le
cose non possono non essere che così.
Tutto il segreto cristiano è chiuso in questa formula:
vedere le cose dal punto di vista di Dio!
Noi siamo divinizzati dalla grazia per questo scopo. Se si
ragiona all'interno della fede, si vede subito che non esiste una
soluzione alternativa.
Non si può togliere Dio; non si può negare l'esistenza
del male; la grazia divina non toglie il male: dunque, l'unica soluzione
è ammettere che la grazia divina faccia vedere il male dal punto di vista
di Dio, come lo vede Dio.
Quindi la preghiera cristiana, nella sua essenza, è la
richiesta a Dio di rendere manifesto a noi il suo modo di vedere il male,
sempre avvolto nel bene migliore: che vuoi dire avvolto in Dio!
E ovvio che c'è anche la richiesta del toglimento del
male: "liberaci dal male", recitiamo nel Padre nostro. Ma
se non fossimo esauditi in questa richiesta? Allora ricomincerebbe la
sequenza di quegli interrogativi angosciosi che il Vangelo bacchetta.
Quindi la richiesta essenziale è e rimane quella di
vedere le cose come le vede Dio.
Del male e dell'esperienza della sofferenza noi non
riusciamo a capire proprio niente.
Signore, Dio mio, questo male che mi tortura e che non
posso togliere da me e che solo tu puoi togliere - ma non è detto che tu
lo tolga - almeno fammelo vedere come lo vedi tu, così che io possa
capirci qualcosa.
Se per tè va bene così, almeno fallo vedere anche a me
come lo vedi tu, così che possa andar bene anche per me.
I beati del paradiso, coloro per i quali lo sguardo di Dio
è diventato definitivamente ed evidentemente connaturale, sono in questa
condizione: per questo sono beati, pur vedendo le stesse cose che vediamo
noi.
27
Essi vedono il male ricompreso nell'intero che è lo
sguardo di Dio. Vedere l'intero alla luce stessa dell'intéro, senza
ricorsi formali all'astrazione, significa vedere il tutto nella sua
densità priva di fratture.
Certo, la condizione dei beati è una condizione
particolare della vita cristiana: è la vita cristiana nella sua piena
perfezione e realizzazione. Essi sono sotto il regime della visione
diretta di Dio e di tutto il mondo in Dio.
Noi non siamo in una condizione sostanzialmente
diversa: la grazia è la vita stessa di Dio. La nostra grazia è la stessa
dei beati del paradiso,
Ciò che cambia è il regime: noi siamo sotto il
regime della fede, cioè della non visione. Ma i contenuti sono gli
stessi.
Noi conosciamo Dio e tutto in Dio come essi conoscono Dio
e tutto in Dio: noi non vedendo, essi vedendo.
Nel regime della fede, noi sappiamo senza vedere; nel
regime della visione beatifica, i beati sanno vedendo.
Ma c'è, pur nella diversità di questi due regimi, un
elemento comune che occorre evidenziare, oltre a quello della identica
sostanza del contenuto saputo - cioè Dio e tutto in Dio -: si tratta del modo
della conoscenza.
In forza della grazia e della presenza dei doni dello
Spirito Santo, sia nel regime di fede, sia nel regime di visione, il modo
divino di conoscere per contatto esperienziale diretto della realtà
fa sì che la conoscenza sia accompagnata dal gusto.
Gustare ciò che si sa: è come capire una cosa profonda
senza essere capaci di spiegarla pienamente; ma si è sicuri d'averla
capita. Ecco, questo modo accompagna sia il regime della fede, sia il
regime della visione.
Questo modo divino si chiama vita mistica.
La vita mistica, con la sua intuitività, spontaneità,
istintività, genialità divina, accomuna V esperienza della fede e
quella della visione.
E nella vita mistica che trova il proprio ambiente
lo sguardo divino, perché è lo stesso sguardo di Dio.
28
Ecco, lo sapevo e me lo sentivo che a furia di baci,
abbracci e dolcezze questo assedio razionale della fede avrebbe partorito
un pensiero mistico...
Eppure me lo ripeto sempre: meglio un logico sporcaccione
che un mistico ebete! Eh sì, perché il logico sporcaccione è
sporcaccione lui, ma rende logici gli altri; il mistico ebete è mistico
lui ma rende ebeti gli altri...
A meno che non ci sia una logica mistica, o una mistica
logica: questo sarebbe il massimo!
Essere logici nel Logos... Mi sento tanto abelardiano... (pietro
abelardo, Epz'ria/d XJJJ).
29
IL MESTIERE DEL TEOLOGO
Spesso, affrontando il tema della teologia, si è tentati
di pensare a una disciplina che nulla ha a che vedere con il mondo.
Fare teologia - si pensa - è questione che può
riguardare soltanto i preti; e siccome i preti tengono fino
all'inverosimile al loro isolamento da sacrestia rispetto a tutto ciò che
appartiene al mondo, allora fare teologia è roba da sacrestia.
E un po' come rivestire di paramenti polverosi le pareti
della chiesa, per creare a tutti i costi l'illusione della festa per
qualcosa che di suo non sembra proprio essere festoso, o mascherare con
luci, lumi e lumini ^atmosfera una realtà che nella sua nuda e
cruda verità non sembra avere un interno diverso dal suo esterno. Bisogna
camuffare per richiamare o rinviare a qualcosa che deve essere tutt'altro.
Ovvio che in questo modo la teologia sembri proprio un
artificio onirico, che nasconda dietro le sue metafore di circostanza il mestiere
del prete "colto".
Se le si guarda anche da un punto di vista per così dire
clericale, le cose non stanno tanto diversamente.
E logico che la teologia tratti di Dio - lo dice lò
stesso nome, no? - Ma proprio perché Dio è Dio, il Separato o Sacro
per eccellenza, la teologia non è qualcosa di questo mondo, ma
dell'Altro:... dell'altro mondo! E i suoi cultori o specialisti devono
possederne lo stile inconfondibile.
In questo modo, perciò, da entrambi i punti di vista,
risulta che la teologia è roba da "Marziani": alieni o alienati
che siano... Logico rifiutarla e deriderla.
30
Da questo giudizio, che ha certo un fondamento nelle
costumanze comuni e usuali del nostro tempo, non posso non sentirmi
profondamente infastidito.
E penso che non possa non far ribollire il sangue a ogni
teologo che fatichi con dignità sotto le esigenze scientifiche della
propria disciplina, le istanze culturali del tempo in cui vive, le domande
o i dubbi che anch'egli si pone come uomo e gli stessi problemi che la
fede cristiana non risolve, ma solleva.
Altrettanta perplessità deve suscitare anche una teologia
che per rinnovarsi trascuri o diserti volutamente il senso della totalità
per ritagliarsi il proprio cantuccio asettico e invulnerabile nei
simbolismi fumosi di un liturgismo asfissiante.
Realisticamente parlando, è anche insufficiente
raccogliere le istanze della cosiddetta "teologia della
secolarizzazione" per ritrovare il contatto con il mondo,
Questa teologia, infatti, sostiene essa pure un dualismo
radicale: il mondo, per essere mondo, deve essere senza Dio, così come
Dio per essere inteso correttamente deve essere totalmente altro dal
mondo. Si tratta di una teologia dell'abbandono: in Cristo crocefisso Dio
ha rivelato la sua assenza dal mondo, ha abbandonato l'uomo a se stesso.
Anche in questo caso, siamo sempre posti di fronte a una
teologia della "ritirata".
Possiamo ricondurre tutto questo a un duplice ordine di
cause: la confusione tra religione e fede - o meglio, tra gli atti esterni
di religione e la fede -, e l'ingenuo o incompetente rifiuto del pensiero
metafisico.
Ora, la religione è una virtù morale che appartiene,
come parte potenziale, alla virtù cardinale della giustizia. Attraverso
la religione, noi tributiamo a Dio il culto che gli è dovuto, così come
abbiamo il dovere di restituire a un altro ciò che da lui abbiamo
ricevuto. E la legge della giustizia: dare a ciascuno il suo.
Universalmente parlando, dunque, il culto, cioè l'insieme
delle azioni esterne che si coordinano nella liturgia, è il livello
simbolico che sta a significare un atteggiamento inferiore.
31
Da Dio abbiamo ricevuto il nostro essere creaturale:
dunque per giustizia dovremmo restituirgli il nostro essere creaturale. Ma
questo è evidentemente impossibile; restituire l'essere creaturale
significa annichilirsi: soltanto Dio può annichilire qualcosa, perché
tale azione implica la stessa potenza metafisica che occorre per creare
(per ridurre al nulla occorre saper trarre dal nulla).
Tutto questo è impossibile metafisicamente, ma possibile
simbolicamente.
La cosa non pone soverchie difficoltà: visto che non è
possibile restituire realmente il proprio essere creaturale a Dio, si
ricorre a una restituzione simbolica.
I sacrifici esterni, con l'offerta di beni che vengono
assolutamente dedicati a Dio attraverso la stessa distruzione - per
significare che non si può recuperare più quel bene che si è dedicato a
Dio - sono soltanto rimando al sacrificio interno, alla oblazione
inferiore che sola li può sostenere.
E l'oblazione interiore copre la stessa esistenza, la
stessa estensione della vita con tutto il suo realistico tessuto di
interesse, di energia, di passione, di scommessa, di rischio, di fatica,
di coscienza e di sapienza.
Il sacrifìcio esterno, invece si colloca, nella sua
valenza puramente simbolica, in una situazione determinata e zonale, in un
ambito che specificamente viene qualificato come religioso. Non copre
tutto, ma si distingue da tutto il resto come una categoria precisissima.
Dobbiamo dire che la categoria religiosa del sacrificio o
dell'oblazione esterna non è la vita: anzi, può arrivare a dissociarla o
obliarla, creando all'interno della coscienza delle fratture morali come -
nel caso dell'eccesso di religione - la superstizione.
Al contrario, l'oblazione o sacrificio interiore è
l'"in sé" della vita: non può assolutamente dissociarla o
alienarla da se stessa.
In effetti, a guardar bene, la fede soprannaturale,
teologale, ha più la fisionomia del sacrificio intcriore che quella della
religione o dei suoi atti esterni.
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Essa è un sacrificio della mente, che immerge la vita
intera dell'uomo nel mistero stesso di Dio, nell'attesa della sua piena
manifestazione gloriosa.
Essa copre tutta la vita, perché per essa è in gioco la
vita. Animata e vivificata dalla carità, la fede teologale coinvolge in
sé tutto senza concreti residui, giacché la soprannatura non toglie la
natura ma la presuppone e la perfeziona nel suo stesso ordine, pur
elevandola sopra se stessa.
Tutto questo è dunque chiaro: di fronte alla religione -
spazio del sacro -, sì distingue il più ampio spazio di ciò che
chiamiamo profano.
Nella fede, invece, la distinzione tra sacro e profano
scompare, si eclissa, perché la vita non ammette confini o steccati. Il
soprannaturale investe tutta l'estensione della vita dell'uomo e la
penetra in tutta la sua comprensione, seppur in maniera accidentale -
cioè senza manomettere la sostanza naturale.
A queste condizioni, la confusione tra religione e fede o
vita di grazia comporta l'erezione di un confine indebito nei confronti
dell'orizzonte della vita soprannaturale concreta, così come la sua
interpretazione in modo fantasioso e spettacolare. E questo l'errore più
grave che sta all'origine dei guasti che sto denunciando !
I clericalisti separano Dio dal mondo; i secolaristi
separano il mondo da Dio. E Dio diventa un altro mondo e questo
mondo diventa un altro Dio.
Rimane da considerare la seconda causa che concorre a
questa interpretazione delle relazioni, o meglio non relazioni, che
intercorrono tra Dio e mondo.
A mio parere, essa deve essere rintracciata nelle
ingenuità metafisiche di un pensiero poco avvezzo alla vera speculazione.
Ora, il rifiuto o almeno l'assenza della metafìsica è
certamente un grande difetto della nostra cultura. Il pensiero è sempre
pensiero del tutto o comunque alla luce del tutto, dell'intero.
Senza questa prospettiva e senza questo oggetto il
pensiero si autoelide e diviene semplicemente parola insensata. Il pensare
è sempre speculativo o relativo, nel senso che conosce per relazio-
33
ni e relazioni: certo con una gradualità crescente,
corrispondente al maggiore o minor grado di verificazione fattuale di una
nozione o di un asserto.
Dobbiamo contestualizzare: ogni cosa è in contesto,
perché il molteplice che ci si offre nell'esperienza è ordinato,
appartiene a un ordine. E noi siamo soggetti razionali perché possediamo
una facoltà conoscitiva che sa riconoscere queste intelaiature: la
ragione.
Ordine e ragione sono trascendentalmente relati, così che
se si toglie l'uno si toglie l'altra e viceversa.
Importantissimo: una ragione che non sia dell'ordine è
nulla come ragione. È vero che esistono degli ordini parziali o
particolari, ma proprio perché tali suppongono un ordine universale. Se
parliamo di ordine economico, ordine politico, ordine etico ecc., questo
presuppone che conosciamo più o meno esplicitamente che cosa sia l'ordine
in quanto tale, l'ordine e basta.
La cosa è dunque indiscutibile: questo è lo spazio che
com-pete alla speculazione metafisica e alla dialettica.
L'inspiegabile, però, è che spesso i cultori del
pensiero metafìsico cadono essi stessi in pericolose fantasticherie
quando indulgono eccessivamente alla immaginazione - anche se è
indispensabile la conversici ad phantasmata - nel dare contenuto al
rigore formale del proprio pensare.
In questo caso si cade nella fabulizzazione del reale e
con ragione si sono sollevate e si sollevano le critiche più dure al
pensiero metafisico, così espresso.
Ma questo svolazzare iperrealistico non ha proprio nulla a
che vedere con la metafisica, così come ogni semplicistico
oltre-passamento dell'esperienza.
In ogni caso, a scanso di equivoci, si pensi che
metafisico non è ciò che è al di là del fisico, ma il fondamento
strutturale dell'ente che è dato nell'esperienza. In questa prospettiva,
occorre superare la maldestra opposizione tra immanenza e trascendenza.
Occorre intendere queste due nozioni in modo relativo o
speculativo e non esclusivo - come vedremo. Il pensare Dio
34
come assolutamente trascendente implica l'inevitabile
equivoco di localizzarlo: come se fosse qualcosa di diverso dal
mondo, che viene caratterizzato dalla nozione di immanenza.
Proponiamoci almeno che si possa arrivare a calibrare
sempre meglio il nostro pensiero e il nostro linguaggio metafisico, per
non intraprendere discorsi che, ignorando le rigorose vie della ragione,
si prefìggano mete illusorie e teorie impensabili.
Tante sono le cose che si possono dire, ma che non si
possono pensare!
Penso proprio d'aver pensato quello che ho detto... anche
perché non erano tante le cose che si potevano dire...
35
IL RAGIONARE DIVINO
Quali sono le cose che valgono un sacrificio senza che sia
richiesto per necessità di mezzo?
Forse mi esprimo male. Vediamo se riesco a spiegarmi
meglio.
Per che cosa si sente che ci si sacrificherebbe
volentieri, quasi fosse una spontaneità naturale il sacrificarsi e non un
debito, un dovere morale, o un atto per volontà deliberata o addirittura
calcolata?
C'è qualcosa che è capace, per sua natura, di strapparti
a tè stesso e di dissolverti in se stessa?
Insomma, c'è qualcosa che abbia come legge intrinseca il
sacrificio? Che abbia nel sacrifìcio il senso più profondo della sua
verità e del suo essere! ?
Lo so che uno pensa subito al sacrificio che un genitore
può fare per i fìglioletti, o che un eroe può fare per sostituirsi ad
altri nel pericolo o nelle semplici difficoltà.
Ma questi gesti sono ancora classificabili sotto la
categoria del dovuto, ove vige un imperativo morale.
E vero che un genitore si sacrificherebbe spontaneamente
per il figlio: ma appunto si tratta di un gesto che implica di suo una
esigenza morale, anche se il genitore sente la cosa nel sangue, prima che
nella valutazione della coscienza!
Ma sai, supposto che un genitore non arrivi a tanto, il
giudizio negativo che viene pronunciato nei suoi riguardi è di ordine
morale, più che psicologico.
La cosa che cerco, invece, è ciò che per sua natura,
indipendentemente dalla valutazione morale - anzi escludendola -implica il
sacrificio.
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Beh, meglio di così non sono capace di impostare la
domanda. Forse mi conviene passare subito alla risposta e poi motivarla.
Così si può arrivare subito al fatidico: ah, ecco perché!
Dunque, dunque, vediamo un po'.
Mettiamola brutalmente così: una bella donna non ti
strappa forse gli occhi? !
Non cominciamo subito a spaventarci per niente. Non è
mica un'eresia, no? In fin dei conti, la donna, secondo la narrazione
biblica, non è la creatura che Dio ha fatto per ultima?
Beh, ogni artista fa sempre alla fine il suo capolavoro...
O, comunque, il tocco di grazia è sempre alla fine
dell'esecuzione dell'opera d'arte.
Se poi si aggiunge che ciò che è ultimo nell'esecuzione
è primo nell'intenzione dell'artefice, allora l'importanza della donna
raggiunge proporzioni non solo cosmiche ma addirittura cosmo-gonicbe.
Ecco, adesso aggiungi il caso che la donna sia anche
bella: e la catastrofe degli occhi è compiuta!
La bellezza la si avverte prima negli occhi. Sembra che
tè li strappi via!
E la bellezza quella cosa che implica spontaneamente il
sacrificio. Almeno, originariamente, il sacrificio della vista.
Un conto è vedere, un conto è guardare.
Si vedono più cose, ma se ne guarda una sola!
Il guardare aggiunge al vedere l'attrattiva, il fascino,
l'interesse e... la consumazione di energia.
Uno che vede più cose non presta attenzione a nessuna di
esse; uno che guarda attentamente una cosa non presta attenzione ad altro:
è tutto energeticamente assorbito nella sua contemplazione!
Dunque si può dire che lo sguardo, o il guardare
compiaciuto è il sacrifìcio della vista, del vedere.
E questo sguardo compiaciuto è tale perché risucchiato
dalla bellezza.
La bellezza si manifesta come in uno stordimento mistico.
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Non si tratta di un rimbambimento demenziale - anche se
qualcuno può arrivare a scambiarlo per questa patologia -; ma è
l'ebbrezza della ragione che trova in un oggetto se stessa, la sua più
piena espressione.
E l'ebbrezza della ragione, perché la ragione si trova
misteriosamente nel proprio ambiente vitale, pur soggiornando in un
giardino estraneo. E lo spirituale che si scopre condensato nel sensibile.
E un sacrificio, perché è come se la ragione, per
trovare il piacere di se stessa, dovesse - per una legge di natura e
quindi spontanea, non morale - rinunciare a se stessa, alla propria aurea
solitudine.
Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è
razionale! Fin nella più tattile delle esperienze: dove si contempla il
bello con la spiritualità razionale che permea lo stesso senso tattile.
L'esperienza del bello è un'esperienza sacrificale
perché è un'esperienza razionale.
Nel bello la ragione si ritrova perché in esso si consuma
la legge del sacrificio, che è la sua legge, la legge della stessa
ragione.
E vero che uno potrebbe obiettarmi che l'esperienza del
bello si accompagna sempre al piacere (S. Tommaso afferma che si dicono
belle le cose che viste piacciono); il che non combina bene con il
sacrificio...
Però mi vien subito da rispondere che esiste anche un
piacere legato alla dimensione del sacrificio inteso nella stessa linea
estetica.
Una donna apprezza di più il sentirsi dire semplicemente
che è bella o che è tanto bella che non si può stare un minuto senza
vederla? Mi sembra scontato che il secondo apprezzamento sia quello più
gradito.
O ancora: una donna gradisce di più il dono di una
pianticella in vaso o il dono di un fiore reciso? Anche in questo caso mi
sembra scontata la risposta: il fiore reciso. Anche questo è segno di
sacrificio!
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Anche nella conoscenza umana, ha maggior valore e si
avverte con maggior gusto la conquista del sapere con il ragionamento che
non l'assunzione di verità appiccicate all'intelletto come francobolli.
C'è più gusto ed è più bello, pur essendo guidati da
un maestro, a impostare e risolvere problemi, a dissolvere dubbi o
contrastare obiezioni, che non ad accettare acriticamente il vero.
Lo so bene che quello che conta è sapere la verità; ma
un conto è essere nel vero senza saperlo e un conto è essere nel vero
sapendo di essere nel vero: questo è il valore del sapere critico. Si è
nel vero sapendo di essere nel vero quando si conosce la verità sapendo
che è escluso il suo contrario.
(Non è la stessa cosa sapere che A è A e. sapere
che A è non non A o che A non è non A: nel secondo caso si
è passati attraverso il cimento con il dubbio della possibile identità
di A anche con non A, e lo si è sconfitto. Materialmente si sa la
stessa cosa, ma in due modi diversi; uno ingenuo e l'altro critico).
Il ragionare implica la bellezza arcana del sacrificio!
Il ragionare porta in sé qualcosa di attraente e bello
tanto quanto la bellezza femminile, sempre compagna del divino.
E il ragionare divinamente sulle cose divine ha un che di
inventivo, accogliente e fecondo quanto il genio femminile.
Ragionare divinamente sul divino vuoi dire speculare.
A che cosa serve speculare? Che cosa vuoi dire speculare?
Parlare di speculazione significa parlare di una conoscenza di tipo
riflesso secondo un duplice titolo.
Una conoscenza di riflesso è anzitutto la conoscenza di
una cosa attraverso un'altra, così come guardando uno specchio vi vediamo
riflessa l'immagine di qualcosa che non è lo specchio stesso. Si tratta
dunque di una conoscenza relativa o di rinvio.
Relativa non nel senso della superficialità o
inconsistenza -così come può opporsi alla conoscenza cosiddetta assoluta
della scienza -, ma nel senso della opposizione alla conoscenza assoluta
perché isolata, decontestualizzata e primitiva o fenomenologica, quale è
quella rilevativa di un semplice dato immediatamente immotivato (nudo e
crudo).
39
Infatti, la conoscenza che esercitano i sensi è appunto
assoluta in questo modo: l'occhio coglie perfettamente il colore, ma non
sa che relazione vi sia tra il colore e la porosità di un corpo.
E la ragione che conosce le relazioni tra le cose e i loro
diversi aspetti.
La stessa ragione può arrivare ad elaborare delle nozioni
la cui comprensione non è immediata, ma abbisogna di un aggancio con
altro.
Si dice infatti speculativo un enunciato che non è
comprensibile in se stesso, ma per rinvio a un altro enunciato o a un
fatto che lo postula come toglimento di apparente contraddizione, o
soluzione di una problematica empiricamente insolubile.
E il caso per esempio delle nozioni di potenza passiva,
quale condizione intrinseca del moto, oppure di Dio come lo stesso Essere
per sé sussistente, oppure della nozione di creazione. Prese
in se stesse sono assolutamente insignificanti e inintelligibili;
in quanto ordinate alla soluzione del problema della
apparente contraddizione del divenire, diventano semanticamente
comprensibili e teoreticamente incontrovertibili. Ma si capiscono solo relativamente
appunto, specularmente o speculativamente.
Giudizi o concetti, invenzioni-scoperte della
ragione, che in quanto sedano Vhybris perpetrata solo
apparentemente contro la intelligibilità dell'essere da parte della
contraddizione, assurgono a rango di assoluta verità. Non possono patire
negazione, pena l'assurdo. Da idee diventano realtà perché la realtà
immediatamente data le richiama osmoticamente, attraverso i suoi apparenti
vuoti o buchi logico-metafisici. Se le si vuole chiamare
"tappabuchi", lo si può fare: ma con tutto il rispetto dovuto a
chi è in grado di turare con la sua forza sicura una falla, o salvare da
ciò che si reputa inoppugnabilmente una falla.
Ancora: conoscenza riflessa o di riflesso vuoi dire anche
conoscenza per riflessione.
Vuoi dire meditazione. Il che implica certamente il
ricorso alle energie più profonde della nostra interiorità, sia
intellettuale che affettiva o passionale.
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Non c'è vera speculazione che non coinvolga
contemplativamente tutta la persona pensante. Scendere in profondità per
riflessione significa elevarsi alle altezze più rarefatte della sinossi,
del colpo d'occhio.
Nella speculazione, il rigorismo formale non è mai a
scapito dell'interesse della materia investigata.
Ora, penetrando un po' più in profondità, chiediamoci:
qual è la legge della speculazione? Qual è il metodo speculativo?
La prima risposta potrebbe essere questa: sia dal punto di
vista teoretico, sia dal punto di vista psicologico la speculazione
possiede una legge o un metodo appunto sacrificale.
Psicologicamente è senza dubbio uno sforzo.
Non è soltanto l'intelletto che è coinvolto in questa
attività, anche se ovviamente l'intelletto è l'organo della
speculazione: si tratta di un'attività di pensiero.
Tutte le facoltà sensitive di ordine interno prendono
parte ad essa, nel modo che è loro proprio e in funzione della
comprensione umana che non può fare a meno della sensibilità. Senso
comune, cogitativa, fantasia, memoria, passioni della nostra sensibilità
emotiva, ma anche i sensi esterni, tutti concorrono all'o-pus
speculativum umano.
Trattandosi di facoltà organiche, cioè legate a un
organo corporeo, il loro esercizio implica fatica e perciò sacrificio.
E occorre una grande forza di volontà nel non desistere
di fronte al primo ostacolo che si frapponga verso la meta
dell'in-terpretazione e della comprensione. Anche questo implica
sacrificio.
Niente di più affascinante, nella sacrifìcalità
speculativa, del giocò concettuale che si situa nella sua stessa
dimensione teoretica.
A mio giudizio, la legge teoretica della speculazione è
una legge sacrificale perché la nostra ragione giùnge alla comprensione
e alla interpretazione di un dato attraverso le vie deWafia-lisi e
della sintesi.
Nella conoscenza speculativa di un dato noi decomponiamo
e ricomponiamo, smontiamo e rimontiamo, distruggiamo e rico-
41
struiamo, sacrifichiamo conoscitivamente l'oggetto
sacrificando le nostre energie nell'atto di comprenderlo.
Ecco: assimilazione. Si tratta di un meccanismo di
assimilazione reciproca: assimiliamo l'oggetto assimilandoci ad esso.
La radice e al contempo la forma di questa legge
teoreticamente sacrificale dell'analisi e della sintesi è la dialettica.
E certo si danno diverse definizioni di dialettica, così
come diversi sono i modi di valutarla. Devo per forza di cose dunque
precisare il senso con il quale io uso questa parola.
Per dialettica intendo il processo logico per il quale
arriviamo alla comprensione di un concetto attraverso la sua decostruzione
e ricostruzione teoretica, oppure arriviamo alla comprensione della
verità incontrovertibile di un enunciato cimentandolo con il suo
antagonista contraddittorio: il che vuoi dire appunto seguire le linee del
metodo analitico-sintetico.
In particolare, la dialettica, qualificata come processo
logico, si ambienta in un quadro che volutamente trascende le leggi
ontologiche. Perciò, non intendo qui riferirmi a modelli idealistici o
materialistici della dialessi. Il luogo specifico di questo metodo è
quello della logica e della conoscenza calibrata speculativamente.
Questo metodo dialettico si sviluppa secondo due vie. La
via di risoluzione e la via di composizione.
Alla via di risoluzione o di giudizio corrisponde
propriamente l'analisi e si caratterizza come propriamente razionale.
Essa discorre dal complesso al semplice, cioè risolve il
complesso nel semplice. Si tratta cioè del viaggio speculativo che la
ragione compie per raggiungere l'intelligenza di un dato. E la fase
decostruttiva.
Muovendosi in senso contrario, la via di composizione o di
invenzione, invece, corrisponde alla sintesi.
L'intelletto, conoscendo il semplice o l'elementare
stimola nuovamente il processo razionale verso la scoperta delle
connessioni che gli elementi hanno tra loro o con altri dati. Il semplice
viene ricomposto nel complesso. Qui si raggiunge la comprensione del dato,
con il reticolato delle sue relazioni.
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Qui ci vuole un esempio.
Vediamo un po'. Che cosa facciamo quando cerchiamo di
capire come funziona un meccanismo come quello di un orologio?
Lo smontiamo, per vedere come è fatto; ma non basta,
occorre rimontarlo così come era prima, ricomporne gli elementi, gli
ingranaggi, senza trascurarne alcuno, altrimenti non possiamo dire di aver
capito come esso funzioni - anche perché, se mi rimane in mano anche una
semplicissima e trascurabile... vitina, l'orologio non funziona.
Ora - raffiniamo teoreticamente l'esempio -, pensiamo ai
passaggi che si fanno nello studio logico di una nozione.
Quando si passa dall'individuo alla specie e dalla specie
al genere, fino ai trascendentali nell'ordine della loro sequenza, si
segue la via di risoluzione: dal complesso al semplice, dal particolare al
più universale (Tizio - uomo - animale - vivente - essente).
Quando invece si passa dal più universale al particolare,
dal genere alla specie e dalla specie all'individuo, si segue la via di
composizione, perché si devono connettere tra loro le nozioni semplici:
le nozioni più universali si particolarizzano attraverso l'aggiunta di
differenze che le contraggono (vivente -+- sensitivo = animale; animale +
razionale = uomo; uomo + questo = Tizio).
Fondamentalmente, quando passiamo dalla conoscenza delle
proprietà di una cosa all'essenza della stessa cosa - che ne è la
ragione causale - procediamo in modo risolutivo (per esempio dalla
libertà o dalla capacità di scienza passiamo alla razionalità:
perché uno non può essere libero o fare scienza se non
in forza della ragione).
Anche quando dimostriamo l'esistenza di Dio a partire dal
mondo, risalendo dall'effetto alla sua causa, procediamo analiticamente o
per risoluzione.
Operiamo in modo compositivo, invece, quando passiamo
dalla conoscenza dell'essenza alle sue proprietà (per esempio dalla
razionalità segue la capacità di fare scienza e di scegliere);
oppure quando dimostriamo che Dio è creatore, componendo
43
la nozione di Dio con la nozione di creazione, quasi
ridiscendendo da Dio al mondo, dalla causa all'effetto.
Ragionare è un sacrifìcio.
Ragionare sul divino è un sacrificio divino.
E proprio così anche nel segreto cristiano: dobbiamo
risolverei in Dio per scoprire che siamo composti con Dio.
E il metodo circolare della grazia che è attraente e
accondiscendente come una bella donna.
Speriamo almeno che la bella donna non sia così
complicata però...
44
IL SOLILOQUIO SUL DIVINO
La teologia, prima di essere un discorso su Dio, è un
soliloquio sul divino.
Sembra tanto strano?
A me pare tanto normale invece.
Non sto parlando della semplice teologia filosofica,
quella che partendo dalla realtà del mondo arriva a Dio con la guida
della pura ragione naturale.
Qui sto riflettendo o speculando sulla teologia
soprannaturale, quella scienza che cerca la comprensione della fede
attraverso la ragione.
Questo discorso teologico è dunque già fondato su Dio,
perché ha come suo principio o presupposto la fede rivelata.
E vero - fin troppo ovvio - che trattandosi di una
scienza, anche questa teologia è un esercizio della ragione; anzi, io
direi che è l'esercizio per eccellenza della ragione, perché lo stimolo
riflessivo, che essa riceve dai misteri soprannaturali, è imparagonabile.
E notevole lo sforzo di raffinamento concettuale nel
tentativo di verificare la non evidente contraddittorietà dei misteri
rivelati, come anche le ragioni di convenienza proposte a favore della
loro verità.
E il solito discorso per cui non si può credere
l'incredibile, e per cui il credibile, in concreto, si accompagna a dei
motivi che rafforzano la sua credibilità - non che lo facciano credere!
Ma è pur sempre una scienza che parla di Dio a partire da
Dio.
La fede teologale è, in modo inevidente per noi, la
stessa conoscenza che Dio ha di se stesso. Quindi è un modo di conoscere
Dio dal punto di vista di Dio.
45
Se la teologia in questione è basata strutturalmente
sulla fede, deve essere anch'essa fondamentalmente una conoscenza di Dio
dal punto di vista di Dio.
Non è un'immagine devota, ma un'affermazione di grande
spessore epistemologico, quella sentenza di S. TommasO d'A-quino, secondo
la quale la teologia è una scienza subalterna alla scienza di Dio e dei
beati [Summa Theologtae,!, 1, 2).
Quindi, il ragionare all'interno di questa scienza non
deve dimenticare questa particolarissima prospettiva.
Si tratta di un ragionare divino almeno sotto due aspetti.
Prima di tutto perché ha per oggetto principale Dio
stesso, in se stesso; in secondo luogo - ma non per secondaria importanza
- perché considera Dio dal punto di vista di Dio.
Esisterebbe anche un terzo aspetto del ragionare divino,
quello per il quale lo stesso modo di procedere è divino: si tratta di
quella modalità geniale conferita dalla partecipazione della stessa vita
divina attraverso la grazia.
Ma questa modalità mistica ha la movenza dell'intuizione
e non del ragionamento; quindi non appartiene alla struttura della scienza
teologica.
Non è facile ragionare dal punto di vista di Dio.
Bisogna indossare panni che non sono i propri.
È facile cadere in inganno. Per questo occorre il
controllo critico della ragione. Si deve ragionare dal punto di
vista di Dio, non immaginare di essere Dio, come nelle espressioni
"se io fossi Dio, che cosa farei? ".
Sto parlando di teologia, non di fantasia devota o... pietosa\
E per ragionare dal punto di vista di Dio, occorre
scoprire in noi stessi la condizione che è il requisito naturale,
indispensabile per questo discorrere.
Come Dio è solo e nella sua solitudine è tutto, così,
per poter ragionare dal punto di vista di Dio, occorre scoprire il senso
metafisico della solitudine del pensiero, che chiude in sé tutto.
Sì, voglio dire che prima ancora di riflettere su
contenuti precisi, bisogna riflettere sulla stessa capacità di
riflettere.
46
Occorre sentirsi avvolti in qualcosa di intrascendibile,
come Dio è intrascendibile, perché non ha nulla che gli cada al di
fuori: non c'è nulla che cada fuori di Dio e quindi lo trascenda!
Questo tipo di esperienza, che non può essere
classificata altrimenti che come metafisica - sì perché è strutturale,
fondamentale, incondizionata e condizionante -, è possibile solo nella
nostra introspezione.
Nel guardare dentro noi stessi scopriamo la dimensione
solitària e onninclusiva del pensiero.
Solitària perché onninclusiva e onninclusiva perché
solitària.
Si tratta di un principio analitico: ciò che è solo non
manca di nulla e ciò che non manca di nulla è solo!
In una battuta: l'intero o tutto è a sé stante!
L'atto del pensare è intrascendibile e, dunque,
onninclusivo.
Formidabile! Se penso che ci sono cose che non penso e non
penserò mai, io le sto già pensando. Non si può scappar fuori dal
pensiero, perché non c'è un fuori del pensiero. Il pensiero come atto è
intrascendibile.
E se non c'è un fuori non c'è neppure un dentro
il pensiero. E chiaro: se ci fosse un dentro, per antitesi relativa ci
sarebbe pure un fuori, ma se il fuori non c'è, neppure il dentro c'è.
Dentro e fuori il pensiero sono modi di dire che
appartengono all'analisi psicologica o cosmologica del pensiero, non alla
sua dimensione metafisica.
Se considero il pensiero in termini cosmologici o
psicologici (comunque sia, la psicologia è una parte della cosmologia o
filosofia della natura), il pensiero è una facoltà umana, ben distinta ,
dalle altre; non è il tutto dell'uomo; ha un'origine ed è subordinato
alla causalità, per cui subisce gli influssi della storia.
Ma in linea descrittiva o fenomenologica, il pensare come
atto si presenta con una imponenza tale da non poter essere assolutamente
"catalogato".
Quando cerco di descrivere il pensiero come atto o il
pensare, non posso fare a meno di presentarlo come l'estensione infinita
dell'essere, che non esclude nulla da sé - cioè esclude il nulla,
perché appunto è nulla, non c'è.
47
II pensiero e l'essere sono la stessa cosa perché, come
nulla è fuori dell'essere, così nulla è fuori del pensiero.
Perciò il pensiero è la trasparenza del tutto, cioè
dell'essere, contro il quale sta il nulla, cioè niente.
So benissimo che mi si potrebbe accusare di immanentismo
-del resto, se mi hanno dato del panteista, vuoi che non mi diano anche
dell'immanentista? La caccia alle streghe non è mai finita. Ma la strega
che suggerisce questi pensieri si chiama Mente: non posso
lasciarla, sarei demente\
L'immanenza dell'essere al pensiero non è fisica, è
intenzionale. Si tratta dell'immanenza del manifesto alla sua
manifestazione, del pensato al pensare, del rivelato alla sua rivelazione.
Pensare che qualcosa cada fuori dal pensare è
contradditto-rio.
Tutto è manifesto e dunque immanente al pensiero che lo
manifesta o che è il luogo metafisico della manifestazione, cioè
10 stesso manifestare.
Tutto è manifesto nel senso che tutto è pensato, non nel
senso che tutto sia conosciuto. Una cosa è pensare e una cosa è
conoscere.
Il rapporto che intercorre tra pensare e conoscere è lo
stesso che si da tra l'indeterminato e il determinato. L'indeterminato non
è altro che il determinato appreso indeterminatamente.
Il pensiero è la manifestazione indeterminata del tutto,
come
11 conoscere è la manifestazione determinata di qualcosa.
Il pensiero è la manifestazione indeterminata del tutto o
il tutto in quanto indeterminatamente manifesto. Il conoscere, invece, è
la manifestazione determinata di qualcosa, o la cosa in quanto
determinatamente manifesta.
Pensando il tutto, tutte le cose in modo indeterminato,
penso anche questa penna, ma non in quanto ferina ne in quanto questa
penna; il riferimento alla penna e a questa penna appartiene
determinatamente alla formalità del conoscere, cioè del sapere che
cos'è una cosa o questa cosa, la penna - appunto.
Il pensiero del tutto indeterminatamente è il pensiero
dell'essere, giacché l'essere è il tutto pensato in modo indeterminato.
48
E siccome nella conoscenza si procede sempre dal generico
allo specifico, il pensiero precede il conoscere: nel senso che il pensare
è la condizione indispensabile al conoscere - intendendo la conoscenza
nel senso intellettivo e non semplicemente sensitivo o animale.
Per usare una metafora si potrebbe dire che il pensiero
sta ai concetti della conoscenza come la luce sta alle cose visibili.
Senza luce non si possono vedere le cose sensibili; così, senza il
pensare non è possibile conoscere concettualmente.
Uscendo dalla metafora, si deve dire che il pensare è
l'orizzonte a-specifico dei contenuti, secondo la loro condizione di
possibilità, cioè è l'ambito dell'incontraddittorietà: una cosa per
essere tale, deve essere possibile, cioè incontraddittoria.
Questa condizione di possibilità, cioè l'incontraddittorietà,
è condizione sia dell'intelligibilità sia dell'essere. Un cerchio
quadrato è inconoscibile perché è contraddittorio e dunque
inintelligibile e impossibile ontologicamente. Questo perché è
impensabile! Pensiero e essere coincidono.
Il conoscere, invece, è l'ambito dei contenuti specifici,
cioè concettualizzati. Il conoscere si riferisce ai concetti; il pensare
si riferisce alla condizione di possibilità dei concetti.
L'essere, come ciò che è inteso dal pensiero, è un
contenuto a-specifico, perché l'essere non è ne genere, ne specie,
contenendo tutto e non escludendo nulla (Generi e specie, invece, si
distinguono per esclusioni e quindi per il fatto di non essere tutto. Il
genere vegetale esclude l'animale; così una specie ha ciò che un'altra
specie non ha, perché le differenze specifiche si escludono
vicendevolmente dal medesimo soggetto generico: un animale non può essere
insieme razionale e non razionale o bruto).
Non c'è nulla che cada fuori dell'essere, se non appunto
il non essere, che in quanto tale non c'è e quindi non può essere
qualcosa che è fuori dell'essere. Se tutto è nell'essere, nulla di
positivo vi si può contrapporre, quindi tutte le differenze che si
riscontrano tra le cose sono tutte essere.
L'essere è il contenuto a-tematico, cioè non esplicito,
del pensare, perché, se il pensare è l'ambito della non contradditto-
49
rietà, essendo questa fondata ultimamente su quel
soggetto che è l'essere, l'essere è il contenuto implicito ad ogni altro
contenuto esplicito: è il contenuto implicito del conoscere che
specificamente si orienta a contenuti espliciti, concettualmente definiti
o definibili.
La legge della non contraddizione, la verità originaria
è questa: l'essere non è il non essere, cioè il positivo non è il
negativo. Questa è la condizione di possibilità dei contenuti, sia
nell'ordine intelligibile, sia nell'ordine reale.
Quindi il contenuto fondamentale e fondativo del pensare
come tale è l'essere, che è il soggetto di questa legge. Ma è il
soggetto non esplicito.
Non c'è bisogno di esplicitare l'essere per pensare e
quindi per ambientare, secondo l'incontraddittorietà - intelligibilità e
possibilità -, il conoscere nelle sue specifiche determinazioni.
Non c'è bisogno di aver letto Parmenide o Aristotele, o
d'aver studiato per benino tutta la logica e la metafìsica per capire che
una banana non è e non può essere un chiodo. La regia implicita di
questa consapevolezza specifica è data dal pensare ;o dal
pensiero, che intende l'essere e la sua legge: l'incontraddittorietà.
L'essere è il contenuto inteso implicitamente dal
pensiero che non ha come riferimento immediato un contenuto specifico,
come invece l'ha il conoscere.
Il pensare corrisponde all'attività dell'intelletto
agente, così Come viene descritta nella filosofia aristotelico-tomista.
L'intelletto agente ha la funzione di rendere
intelligibile l'oggetto della conoscenza, che è l'attività
dell'intelletto possibile. La facoltà conoscitiva è l'intelletto
possibile, non l'intelletto agente.
L'atto di intellezione è insieme atto dell'intelletto
agente e dell'intelletto possibile. L'intelletto agente e l'intelletto
possibile concorrono all'unico atto dell'intellezione con le loro proprie
operazioni (cf. S. tommaso D'AQUINO, De ventate, 10, 8c).
L'intelletto possibile conosce i contenuti che vengono
resi intelligibili, cioè conoscibili, dall'intelletto agente.
50
Ma l'intelletto agente, anche se non è propriamente
conoscente, è pur sempre un intelletto; in che cosa consiste la sua
intellettualità?
Io direi che consiste neW intendere la condizione
di intelligibilità, di sensatezza, di possibilità, di
incontraddittorietà dei contenuti conoscitivi. E siccome questa
condizione è il soggetto della legge di non contraddizione, cioè
l'essere, l'intelletto agente intende l'essere.
S. Tommaso dice semplicemente - riportando una sentenza di
Averroè - che i primi princìpi sono come strumenti dell'intelletto
agente (cf. De Ventate, 10, 13). Ora, siccome i primi princìpi
sono tutti fondati sulla legge di non contraddizione e questa è fondata
sull'essere, dire che l'intelletto agente ha come strumenti i primi
princìpi equivale a dire che intende la legge di non contraddizione e,
dunque, che intende l'essere.
Si tratta però del modo intellettivo dell'intendere e non
del conoscere, perché chi conosce - semplificando grossolanamente il
linguaggio tecnico - è l'intelletto possibile e non l'intelletto agente.
Dunque, l'intendere è un sapere non ancora concettuale,
cioè non specifico. L'intendere l'essere non è ancora conoscere
esplicitamente l'essere.
L'immagine che viene usata per indicare l'attività
dell'intelletto agente è quella della luce. Come la luce è la condizione
di visibilità dei colori e delle figure, così l'atto dell'intelletto
agente è la condizione di intelligibilità e di conoscibilità dei
contenuti della conoscenza, cioè dell'atto dell'intelletto possibile.
E come ci si rende conto della luce perché si vedono i
colori e le figure, così in ogni intelligibile ci si rende conto della
presenza dell'atto dell'intelletto agente, non come oggettivamente dato ma
come condizione di intelligibilità (cf. S. tommaso d'aquino, In 1
Sententiarum, d. 3, 4, 5 e.). Noi non vediamo propriamente la luce ma
ci rendiamo conto della luce vedendo i colori e le figure.
Se non ci fossero cose visibili non per questo la luce non
ci sarebbe o smetterebbe la sua funzione: semplicemente non ci
51
renderemmo conto della sua presenza, perché noi scorgiamo
la luce come mezzo per il quale conosciamo - o meglio - percepiamo i
colori.
Allo stesso modo l'intelletto agente è sempre in azione
anche se non ci sono concetti, cioè non ci sono oggetti di conoscenza.
L'intelletto agente è sempre in atto secondo la sua
sostanza (cf. S. tommaso d'aquino, In 3 De Anima, 1. IO): è
il suo stesso operare, non per essenza - evidentemente; solo Dio è tale -
ma per concomitanza (cf. S. tommaso D'AQUINO, Summa Theologiae, I,
54, 1, adi). Altrimenti sarebbe nelle stesse condizioni dell'intelletto
possibile, che deve essere attivato, e per questo non è per sé agente,
pur essendo principio del proprio atto.
Il fatto che non sempre conosciamo, non impedisce che
sempre intendiamo. Il conoscere dipende dall'attivazione esterna
dell'intelletto possibile, cui viene offerto il materiale intelligibile da
parte dell'intelletto agente che lo astrae dai dati sensibili.
Se non viene offerto questo materiale, non si da
conoscenza, cioè non c'è attività da parte dell'intelletto possibile,
ma questo non esclude la continua attività d'intendere dell'intelletto
agente (cf. S. tommaso D'AQUINO, De Ventate, 10, 8, ad 11 in
contr.).
Da questo punto di vista, la luce che caratterizza per
metafora l'intelletto agente è lo stesso essere: l'intelletto agente è
la condizione di intelligibilità dei contenuti conoscibili - è la luce
che li rende visibili -; è la condizione di incontraddittorietà, di
sensatezza, di possibilità, di logicità e di realizzabilità dei
contenuti. Ma questa condizione è fondamentalmente l'essere: dunque,
questa luce dell'intelletto agente coincide con l'essere.
Questo vuoi appunto dire che pensiero e essere si
identificano.
D'altra parte, si deve riconoscere che se parliamo
dell'essere, che è il contenuto inteso dal pensare, questo
contenuto è anche conosciuto.
Il contenuto positivamente indeterminato del pensare
diventa specifico, quando per riflessione lo si determina con la nozione
a-specifica per eccellenza, cioè la nozione di essere o ente, o essente.
In questo modo, però, la nozione a-specifìca viene conosciuta in modo
specifico.
52
La nozione di e»fó o essente è diversa dalla
nozione di piatto;
eppure il piatto è un ente, rientra nella nozione di ente
come tutte le altre nozioni o cose. Eppure noi parliamo dell'ente come se
parlassimo di una delle diverse cose specifiche che conosciamo.
Quando mettiamo a tema l'essere o l'ente, o essente,
corriamo quindi il rischio di fraintenderlo; soprattutto se ci affidiamo a
un pensiero metafìsico maldestro.
Ma è proprio della metafìsica trattare dell'ente in
quanto ente, o dell'essere in quanto essere in modo criticamente
controllato. E se ciò avviene, con queste modalità critiche - appunto -,
la metafìsica diviene anche l'anima scientifica della riflessione più
profonda sul pensare.
S. Tommaso d'Aquino dice che l'intelletto agente è una
certa somiglianzà della verità increata che si riverbera in noi (cf. De
Ventate, 11, 1). In un certo modo, esso è. il divino in noi, prima
della manifestazione del divino soprannaturale attraverso la grazia.
Aristotele - trattando l'argomento dal punto di vista
psicologico - dice che questo intelletto, pur essendo nella nostra anima, viene
dal di fuori e solo è divino: separato, impassibile, eterno,
immortale (cf. De anima, 5, 430 a 10-23).
La stessa cosa va dunque affermata del pensiero, del
pensare.
Il pensare ha un'estensione infinita quanto l'essere: solo
Dio è infinito in atto. Se il nostro pensare non si identifica
assolutamente con Dio, perché pensare tutto non significa per noi
conoscere tutto - Dio invece è questa identità assoluta di pensare e
conoscere, la pura trasparenza totale e concreta, determinatissi-ma di
tutto -, esso è però riflesso di Dio.
Riflesso comunque misterioso come misterioso è il divino.
Esso è luce che illumina i contenuti di conoscenza e per
questo è convisibile insieme ad essi e con la loro concomitanza:
come la luce è convisibile con i colori e le figure, che
invece sono l'oggetto diretto della visione.
Ma come la luce da sola - cioè senza nulla che possa
essere illuminato - è invisibile e dunque tenebra; così il pensare senza
i
53
contenuti della conoscenza non si comporta come luce, ma
come ombra.
Sì, il nostro pensiero, visto in se stesso, è l'ombra
di Dio.
Il pensiero è pensiero delle cose; quando è pensiero di
se stesso sembra pensiero di nulla: eppure è pensare, sempre in atto,
immortale, eterno, solo. Sembra pensiero di nulla perché il pensiero non
è nessuna cosa, ma non che sia nulla come pensare.
Per fare teologia, discorrendo di Dio dal punto di vista
di Dio, occorre prima di tutto compiere questa riflessione sul divino in
noi.
Dobbiamo immergerci in questa solitudine di contatto con
l'ombra eterna dell'eterno e incominciare a discorrere con noi stessi come
fossimo i soli o il tutto.
Il nostro primo discorso teologico è un soliloquio sul
divino! Un soliloquio ammirato e disilluso nello stesso tempo. Ammirato
per la scoperta; disilluso perché il divino non si meraviglia, non si
stupisce e coglie l'eterna uguaglianza o giustizia del tutto. Tutto è
così com'è, perché così è.
Questo soliloquio divino sul divino è Yepisteme,
lo "star sopra" nel vedere o considerare; al punto principale o
culminante.
Vedere tutto dal Principio o meglio dal punto di vista
dell'Intero. Qui c'è la vera solitudine, perché l'Intero è Uno,
non si accompagna mai.
E questa solitudine è una specie di onnipotenza: si è
soli in quanto solidi: all'intero non manca nulla, pena
contraddizione.
E la solidità non contrasta con la solidarietà.
Il solido ha tutto, è in comunione con tutto e quindi è
solidale.
E la solitudine, così intesa - l'essere per sé, non
l'allontanamento da tutti - è così anche la con-solawne più
alta, perché il solo è tale in quanto sa stare con se stesso, presso se
stesso, trovando in se stesso il proprio tesoro.
Ma il tesoro della solitudine del divino è pur sempre una
grande vertigine, perché è un vedere la profondità del tutto dal suo
stesso punto di vista.
54
Punto di vista eterno, come eterno è Dio e come eterno è
il tutto.
L'ente in quanto ente è eterno; Dio è eterno; il
pensiero è eterno.
Il segreto dell'universo è nascosto nel segreto eterno
dell'anima, nel suo pensare. La vita cristiana è nascosta in questo
segreto e insieme è la sua rivelazione.
55
LA TEOLOGIA
La teologia è femmina.
Meno male!
Eh sì, perché almeno posso dire anch'io d'avere un po'
di dimestichezza con l'altro sesso.
Quando sento certi discorsi stupidi sulle donne mi viene
il nervoso. E vero che certe volte sono, per'così dire, meritati - le
donne non sono mica tutte uguali. Ma il più delle volte sono francamente
discorsi "con la cresta in testa" - supposto per benevolenza che
di testa si tratti...
Sono quasi sempre discorsi di dominio, di superiorità, di
supremazia, ma ahimè ristretti tanto quanto un... pollaio.
(Pollaio per pollaio, è anche vero però che i giudizi
più cattivi sulle donne li ho sentiti pronunciare proprio da donne...).
Io però dalla testa non mi tolgo l'idea che la teologia
sia femmina!
Forse, lo dico per istinto: la teologia mi fa sempre
"girar la testa"!
Come la filosofìa; anche la filosofia è femmina. Sì,
anche la filosofia mi fa girar la testa.
Mi piace accompagnarmi a tutte e due.
Però non mi sento bigamo, ne soffro di torcicollo.
E poi, filosofìa e teologia sono di una femminilità
particolare:
non sono femminili semplicemente perché sono scienze;
guarda quante scienze ci sono... tutte sono femmine.
Ma non di quella femminilità che fa girar la testa:, non
tutte le donne sono uguali.
Filosofia e teologia sono la quintessenza della
femminilità. Fanno girare la testa perché esigono {'adorazione.
56
Sì, sì, ho detto proprio adorazione!
L'adorazione è un atteggiamento che si addice a chi si
rivolge a qualcosa di grande, dignitoso, anzi di assoluto.
Adorare vuoi dire rivolgere {ad} la bocca (os-oris)
a qualcuno, sia per chiedere o implorare, sia per significare
sottomissione e dipendenza.
(La bocca è un organo importantissimo per la vita: serve
a ricevere gli alimenti, serve a respirare; è il luogo fisico della
parola e quindi dell'espressione del pensiero; ma è anche il luogo fisico
per l'espressione dell'affettività. Gli amanti vogliono mangiarsi, come
se in questo gesto metaforico fosse racchiuso il senso della reciproca
adorazione per l'assolutezza del rappòrto:
si autoincludono perché insieme sono assoluti).
La femminilità evoca di per sé qualcosa di assoluto.
Il senso dell'assolutezza che è legata alla femminilità
mi sembra evidente nella prerogativa appunto tutta femminile dell'intuito.
Non è un caso che l'intuizione sia prerogativa della
femminilità. Non voglio certo cadere nelle grossolanità di uno sciocco
determinismo biologico, ma mi pare proprio che, in qualche modo, la
sessualità femminile predisponga al meglio questa importantissima e
profonda qualità psicologica - e di riflesso mistica.
Sessualmente - cioè dal punto di vista fisico - la
femminilità è strutturata secondo due criteri: V accoglienza e il
dono.
Questo è lo straordinario circuito che sta alla base di
quella proprietà fisica che è la maternità.
La conseguenza sul piano psicologico è in generale la gratuità,
appunto, del modo proprio della femminilità di atteggiarsi secondo
l'accoglienza e il dono.
In modo più specifico, però, questa proprietà generale
assume dei caratteri più determinati, legati alle tré dimensioni
psicologiche dell'anima, cioè la conoscenza, l'affetto e l'azione.
Ebbene, la gratuità sul piano del conoscere si configura
come intuizione, cioè conoscere senza passare attraverso la
concatenazione necessitante del ragionamento formalmente conchiuso; sul
piano dell'affetto, la gratuità prende corpo nella sensibi-
57
htà, che
sa anticipare e sorpassare la figura del dovere; sul piano dell'azione,
infine, la gratuità è la straordinaria capacità di sacrificio:
la generazione è sempre un rischio, che la donna - non so perché -,
anche dopo diversi rischi, per istinto sente di correre volentieri.
E verissimo che non tutte le donne sono uguali, ma ut
in plu-ribus (nella maggior parte dei casi) le cose stanno proprio
così.
Non so perché, ma di fronte a queste qualità io sento il
bisogno di inginocchiarmi e adorare.
Mi si potrebbe certamente obiettare che tutto questo
appartiene a un immaginario culturale che vuole la donna fatta in questa
maniera. Ma io mi chiedo: qual è il fondamento di questo immaginario?
Anche il mito ha sempre un fondamento reale!
E poi, questa realtà che ho indicato è crudamente reale:
si tratta della sessualità.
So benissimo che il concetto di donna-angelo, tipico della
poetica stilnovistica, risponde a una ideologia particolare; ma cocciuto
come sono, devo trovarne una giustificazione che superi i criteri
ideologici.
Ci può essere una ragione metafìsica, strutturale. Se
c'è, questa ragione può essere una ulteriore motivazione, poi, della
femminilità della filosofìa e della teologia.
Per me la ragione c'è, eccome c'è! Dunque, dunque, la
cosa va presa così. La sessualità femminile può essere presa sotto due
aspetti: l'aspetto funzionale - che è quello che ho appena
considerato: sì, la maternità è legata alla funzione procreativa - e
l'a-spetto estetico.
Ecco, sotto l'aspetto estetico è innegabile che la
femminilità esprima qualcosa di eccelso: la bellezza.
Mi sembra abbastanza evidente la differenza che c'è tra
il corpo maschile e quello femminile. Il corpo maschile è banalmente
funzionale; quello femminile, invece, ha una funzionalità metafunzionale:
insomma, voglio dire che la struttura sessuale del corpo femminile evoca
qualcosa di diverso dalla sua funzione.
58
La particolare struttura del corpo femminile è
espressione della bellezza. La struttura sessuale del corpo femminile è
una struttura complessa e armoniosa: i due ingredienti fondamentali del
bello.
La struttura sessuale della donna è complessa proprio in
ragione della sua particolare funzione; eppure si tratta di una
complessità armoniosa, dalla quale traspare chiaramente un ordine,
soprattutto nella debita proporzione delle parti.
Le stesse forme, il timbro vocale, la postura e
l'andamento generale, che sono conseguenze o proprietà naturalmente
legate a questa struttura, sono il livello più appariscente di questa
armonia. E sono anche il fondamento immediato del godimento estetico.
Belle si dicono le cose che viste piacciono.
E la bellezza è indice di assolutezza: la bellezza è
chiusa in se stessa, non rinvia ad altro da sé. Se rinviasse ad altro da
se stessa, dipenderebbe da questo altro, sarebbe in relazione con questo
altro e conscguentemente in armonia con esso: cioè sarebbe bellezza
questo coordinamento armonioso. E così, di nuovo, la bellezza sarebbe
racchiusa in se stessa!
Anche se si ipotizzasse una relatività o coordinamento di
dipendenza all'infinito, bello è appunto il coordinamento; il quale, non
essendo relativo ad altro - perché è per essenza il coordinamento come
tale -, sarebbe la bellezza.
Dunque, la bellezza dice assoluto. Non per nulla essa va
annoverata tra le proprietà trascendentali dell'ente: come l'ente e
l'essere è intrascendibile; non rinvia ad altro da sé perché si
autoinclude.
Se dunque la sessualità della donna esprime bellezza,
essa esprime per ciò stesso assolutezza. Qualcosa di divino, senza
bisogno di rinviare a Dio.
Adesso però veniamo al dunque!
Perché le proprietà della femminililtà si ritrovano
nella teologia e nella filosofia?
Anzitutto le proprietà funzionali.
La maternità comprende: l'accoglienza, la fecondità e il
dono.
59
Allo stesso modo e proporzionalmente, la scienza teologica
comprende il problema, l'argomento e la conclusione.
Toh, guarda che proporzione c'è tra questi elementi.
L'accoglienza corrisponde al problema; la fecondità
corrisponde all'argomento o all'argomentare; il dono corrisponde alla
conclusione.
L'accoglienza corrisponde al problema, perché come
l'accoglienza è principio della fecondità, così il problema è il
principio della scienza. Sì, la scienza ha sempre come proprio punto di
partenza il problema. Far scienza vuoi dire risolvere un problema e aver
scienza di qualcosa vuoi dire possedere la soluzione di un problema.
La scienza non è forse la conoscenza certa ed evidente
della verità di un enunciato in forza del suo perché proprio? Ecco, se
si deve conoscere il perché di qualcosa - e quindi averne scienza
-, dal perché si devono prendere le mosse nella ricerca.
L'ultimo nell'ordine dell'esecuzione, deve essere il primo
nell'ordine dell'intenzione. "Perché l'uomo è libero?":
"Perché è ra-zionale!". Il primo perché (?) è
problematizzante; il secondo perché (!) è motivante.
L'esordio del fare scienza è sempre la posizione [positio)
di una tesi che va provata, sostenuta, motivata, giustificata. In
quanto tesi, essa è il problema: in quanto problema, essa è ciò che va
risolto.
Il problema e il problematizzare sono segno di
accoglienza:
sono l'atto dell'intelligenza che chiede di essere
fecondata.
E la fecondità corrisponde all'argomentare, perché
l'argomentare è l'attività della mente nell'atto di concepire.
Sì, con l'argomentazione si intende concepire la
soluzione (resolutio) del problema. Anzi, si è nello stesso atto
di concepirla.
Il concepimento intellettivo ha caratteristiche simili
alle proprietà della femminilità legate alla sua dimensione feconda e
gratuita, ma sul piano psichico: l'intuitività, la sensibilità, la
sacrificalità.
L'argomentare è Y antitesi del problema, perché
ne ricerca la soluzione. E il momento critico per eccellenza, perché si
accom-
60
pagna alla criticità di indeterminazione del problema e
produce una criticità determinata dal giudizio risolutivo.
Per argomentare occorre escogitare un mezzo argomentativo,
inventare il cardine dell'argomentazione: questo cardine è
l'elemento sul quale poggia il giudizio risolutivo del problema ed è
quindi visto come il cardine del perché motivante.
A questa invenzione del medio dimostrativo o argomentativo
corrisponde l'intuizione. Entrambe hanno a che fare con l'elementare,
perché risolvere vuoi dire sciogliere, analizzare fino a raggiungere il
semplice che è nascosto nel complesso-, così come l'intuire.
Per argomentare non basta semplicemente discorrere,
occorre il colpo d'occhio che afferra il principio del discorrere,
per non dis-correre a vuoto: vagare qua e là senza concludere
niente.
Perché il discorrere non sia a vuoto, occorre cogliere il
principio; ma questa invenzione o intuizione non è semplice prerogativa
dell'intelletto puro. Il serbatoio dei contenuti intellettivi è
l'esperienza.
Ecco, alla sensibilità corrisponde proprio a questo
contatto con l'esperienza, che è la fonte dei contenuti conoscitivi. I
princìpi propri delle scienze si decantano a partire dall'esperienza:
non sono dedotti da altri, ne sono innati.
Si potrebbe dire che l'invenzione del principio e
l'esperienza sono proporzionalmente simili all'intuitività e alla
sensibilità, anche perché in entrambi i rapporti vige la relazione tra
ciò che è formale e ciò che è materiale.
L'invenzione sta all'esperienza, come l'intuitività sta
alla sensibilità e come la forma sta alla materia. Il che vuoi dire che
l'e-sperienza-sensibilità si rapportano all'invenzione-intuizione come la
materia alla forma.
Come la forma inquadra - per così dire - con rigore i
contenuti (cioè la materia), così la materia da consistenza e quindi
interesse al sapere.
La sacrificami, la capacità di sacrificio - qualità per
nulla passiva ma attiva, tanto quanto l'aggressività dell'istinto femmi-
61
nile orientato alla maternità - corrisponde alla
complessiva dinamica dialettica dell'argomentare.
Lo so che questa è una delle mie idee fisse: la
dialettica ha un'anima sacrificale! Smontare e rimontare; scomporre e
ricomporre: questa è la sua anima.
Da ultimo, il dono o il parto della mente che segue il
concepimento dialettico: ad esso corrisponde quindi la conclusione dell'argomentazione.
A questo punto la scienza è compiuta nella sua
femminilità. La sua accoglienza^ la sua fecondità esplodono nella sintesi,
che compone (compositio] la tesi con il suo motivo; che conosce
la verità con il suo perché; che, comprende il complesso perché ha
scoperto il semplice.
Un esempino schematico per vedere tutto di colpo non ci
sta male,a questo punto.
S I N T E S I
C
o
M P O
S
I
T I O
A ;
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i PERCHÉ PRE1V
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N
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A
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L
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mi. l'uomo è razionale;
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Ma. ogni razionale è libero
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I
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? l'uomo è libero
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0
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PROBLEMA CONCLUS
|
L
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|
U'
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TESI SINTE
|
T
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|
I
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|
0 .
|
|
62
Beh, queste proprietà funzionali della femminilità si
trovano in ogni scienza. Ma nella teologia e nella filosofia esse si
trovano in modo eccellente, perché in queste si aggiunge l'aspetto
estetico della femminilità: quello che Va girar la testa!
Nella teologia e nella filosofìa, infatti, queste
proprietà funzionali della femminilità vengono colte per riflessione
nella loro dimensione estetica. Le altre scienze non sanno e non possono
mettere a tema se stesse, riflettere su se stesse, e questo impedisce loro
questa esperienza estetica da capogiro.
Se un matematico apprezza la bellezza dell'argomentare
matematico non lo fa in quanto matematico, perché la matematica si occupa
della quantità in quanto misurabile e non dell'armonia in quanto armonia.
Questo apprezzamento lo fa in quanto filosofo. E la
filosofia che può esprimersi in questi termini, perché ha un punto di
visione più elevato e onnicomprensivo. Quindi può riflettere sullo
stesso argomentare come tale e in tutte le sue diverse specie.
Ma nella filosofia e nella teologia si da anche il
compiacimento del considerare per considerare. Questo sguardo compiaciuto
è tipico della contemplazione. E la contemplazione vede tutte le cose,
considera ogni cosa dal punto di vista della bellezza.
Il contemplare è paragonabile al movimento circolare.
Immagine usata dal pensiero neoplatonico per indicare il fatto che oggetto
della considerazione contemplativa è una medesima cosa, colta sempre
sotto il medesimo aspetto.
Come quando si resta attoniti a bocca aperta e sguardo
spalancato di fronte allo spettacolo della bellezza. Ti gira o non ti gira
la testa? ! Anche questo è un moto circolare, no? !
Ma la femminilità della teologia e della filosofìa
comporta forse uno sdoppiamento del loro cultore? Come si può far girare
la propria testa per due donne diverse, di una bellezza straordinaria e
l'una e l'altra? Alla fine mi sa proprio che il povero cultore si ritrovi
come l'asino di Buridano: non nel senso che muoia di fame, ma nel senso
che resti - come è il caso - un asino...
No, niente paura, non si corre questo rischio, perché
filosofìa e teologia non sono due donne diverse: ne antagoniste, ne
63
subordinate l'una all'altra (che strana idea
devozionistica e pietosa quella di vedere nella teologia la padrona e
nella filosofia la schiava... per dire certe cose non occorre farsi girare
la testa... bisogna averla svitata del tutto...).
Non c'è teologia senza filosofia, perché la teologia è
la comprensione della fede attraverso la ragione fìlosofìca.
La teologia, come scienza, risolve i propri asserti
problematici in due princìpi: uno di fede teologale e uno di ragione
filoso-fìca. Questi due princìpi sono le due premesse sillogistiche, o
il perché della dialettica teologica.
Come non si da conclusione senza premesse, così non si da
teologia senza fede e senza filosofia. La teologia è un'opera che compete
insieme alla fede e alla ragione fìlosofìca. E fin troppo evidente,
quindi, che la teologia non può essere contraria alla filosofia, ne
essere una padrona dispotica che usa la filosofìa come una schiava: la
teologia non esiste prima della filosofia per poterla usare\
Applichiamo l'esempio schematico di prima:
A N A L I S I
R E S O L U T I O
PERCHÉ
PREMESSE
mi. Cristo è Dio
che ha assunto la natura umana
Ma. ogni uomo è libero
Cristo è libero
PROBLEMA TESI
CONCLUSIONE SINTESI
S I N T E S I
C
o
M P O
S
I
T I O
64
La premessa minore è di fede; la premessa maggiore è di
filosofìa: la conclusione è teologia, cioè l'approfondimento o la
comprensione razionale della fede. Non si toglie il credere, cioè la
fede, ma la si comprende più in profondità, esplicitandone le
virtualità.
La teologia è dunque il risultato dell'applicazione della
ragione fìlosofìca alla fede teologale. O, se si preferisce, la teologia
è la filosofìa coinvolta dalla grazia divina nella conoscenza di Dio e
del divino.
Teologia e filosofìa, dunque, non sonò due donne
diverse, con due bellezze da capogiro diverse. Sono la medesima donna, con
tutta la sua esplosiva femminilità sul piano naturale e su quello
soprannaturale.
La teologia è la filosofia elevata dalla grazia: è la
divinizzazione della filosofìa, o la manifestazione della divinità
intrinseca della filosofia.
Adesso, però: dorso della mano alla fronte, perché
questa è stata una bella sudata, in tutti i sensi...
nota
Mi è venuta in mente una cosa che mi sembra bella:
l'aggiungo qui.
Penso di aver escogitato un modo per riuscire a intendere
filosoficamente l'idea di donna-angelo.
Non intendo riferirmi alla donna angelicata dei trovatori,
per i quali - se non ho capito male - l'angelicita della donna era una
qualificazione negativa: la donna è intesa come angelo per il fatto che
si rifiuta sdegnosamente, quasi con disprezzo...
No, no, mi riferisco alla donna-angelo stilnovistica e
soprattutto all'idea che in Dante - per esempio - essa esprime nella
simbologia teologica di Beatrice.
Beatrice, la donna amata da Dante, è per lui figura della
teologia: è figura della disciplina razionale più alta perché conduce
alla contemplazione dell'Assoluto.
65
Ebbene, in che modo si può giustificare fìlosoficamente
questa immagine dell'angelicita della donna? (evidentemente intendendo per
giustificazione filosofica, in questo caso, non la dimostrazione
incontrovertibile di ciò che si sta dicendo, ma molto più semplicemente
un discorso che renda ragionevole e conveniente ciò che si dice).
Il principio chiave penso che possa essere espresso così:
la donna, in forza della propria femminilità, esprime sempre l'idea di
attività o di atto.
Sì, fisiologicamente parlando, la donna è attiva. Il
principio attivo nell'ordine della sessualità non è quello maschile ma
quello femminile.
Lo so bene che Freud sostiene il contrario, ma questa
autorità non può essere invocata per sostenere un'idea che è
evidentemente sbagliata.
Freud dice che la femmina è sessualmente passiva e si
sente tale perché subisce la penetrazione: di qui nascerebbe nella
femmina il senso di dipendenza e la sua forma inconscia di "invidia
del pene".
Ma questa interpretazione bio-psicologica della
femminililtà mi sembra proprio maldestra.
Fisiologicamente parlando, la femmina è attiva e non
passiva. E'ia femmina che concepisce, non il maschio! Sul piano biologico,
è la femmina che produce il nuovo; è la femmina che è fonte di novità.
Il principio "meccanico" della penetrazione non
ha alcun valore. Mi vien quasi da ridere: quando ci nutriamo, è il cibo
che penetra la bocca o è la bocca che mangia il cibo?
In opposizione a Freud, la psicologia
dell'interpersonalità (K. Horney) capovolge la dirczione dell'invidia
inconscia.
Non è la femmina a invidiare il pene, ma è il maschio
che invidia la superiorità fisiologica della femmina. Il maschio
sublimerebbe, dunque, con la sua straordinaria forza di lavoro questa
invidia per supercompensare l'inferiorità fisiologica nella funzione
riproduttiva.
Dunque, la femminilità esprime attività e quindi atto.
66
Per questo motivo, quando rileggo quel brano di S.
Tomma-so, nel quale si dice che l'amante sta all'amato come la materia sta
alla forma (3 Sententiarum, 27, 1, 1 ad 5), non posso fare a meno
di pensare che quella relazione non sia reciproca tra il maschio e la
femmina, ma che sia semplicemente la relazione che lega il maschio alla
femmina.
Dice S. Tommaso: «Vi sono due tipi di unione. L'una
produce un'unità relativa, come l'unione di elementi aggregati, che si
toccano solo superficialmente; e questa non è l'unione d'amore, giacché
l'amante viene condotto nell'intimo dell'amato, come si è detto. L'altra
è l'unione che produce un'unità assoluta, come l'unione dei continui, e
della forma e della materia; e questa è l'unione d'amore, perché l'amore
fa sì che l'amato sia forma dell'amante».
L'amante, dunque, sta all'amato come la materia alla
forma.
In questa tesi, in virtù del realismo analogico,
parametri di ordine metafisico divengono il criterio per interpretare un
fatto e una dinamica di ordine psicologico - così come, in altre
circostanze, parametri di ordine psicologico divengono criterio
interpretativo o esplicativo della struttura metafìsica.
Psicologicamente parlando, queste affermazioni vanno
intese in questo senso.
L'amore è una passione, cioè un moto dell'appetito
sensitivo. Ora, l'appetito sensitivo è una potenza passiva e, come ogni
realtà passiva, trova il proprio perfezionamento quando viene ad essere
determinato dalla forma del principio attivo suo proprio, cioè ad esso
proporzionato.
L'oggetto appetibile è infatti ciò che muove e determina
l'appetito e ne costituisce: il termine di acquietamento, come per altro
verso la forma intelligibile è il principio motivante e determinante
l'intelletto: la ricerca e il dubbio cessano quando l'intelletto viene
informato cioè determinato dalla forma intelligibile, così da fissarsi
nel possesso della conoscenza.
Allo stesso modo, l'appetito, una volta imbevuto o
impregnato dalla forma del bene che è il suo oggetto, si fissa in esso
amandolo. L'amore è appunto questa specie di trasformazione
67
dell'affetto nella cosa amata: l'appetito concupiscibile
riceve dal bene appreso una prima trasformazione di armonizzazione (coaptatio}
o proporzione al bene stesso, come compiacimento e affascinamento, che è
appunto l'amore.
In questo senso il bene amato diviene forma dell'affetto,
e poiché tutto ciò che diviene forma di qualcosa diviene uno con esso,
l'amante, attraverso l'amore, diviene una cosa sola con l'amato, che si è
costituito come forma dell'amante.
L'unità a modo sostanziale, che si viene a creare tra
l'amante e l'amato, fa sì che l'amante percepisca l'amato come un alter
ego.
Sempre in forza di questa unità quasi sostanziale
prodotta dall'amore, l'amato diviene criterio o regola delle azioni
dell'amante, perché la forma di una cosa è il principio e la regola del
suo agire: l'amante viene inclinato dall'amore ad agire secondo le
esigenze dell'amato.
E tutto ciò che l'amante fa o sopporta per l'amato
risulta perciò piacevole: l'agire in conformità alla propria
natura-forma è sempre sommamente piacevole e spontaneo.
E interessante notare come l'analogia o la proporzione tra
la materia e la forma sia adeguata a descrivere anche le caratteristiche
più tipiche dell'amore nei suoi stessi effetti, anche se si passa a una
significazione metaforica.
Si dice infatti che l'amore produce una ferita, perché
come la forma raggiunge l'intimo di ciò che essa informa e viceversa,
così l'amante è permeato dall'amato, quasi restandone trafitto.
Siccome poi la trasformazione di un soggetto implica la
perdita della sua forma originaria per acquisirne una nuova, in forza
dell'amore l'amante perde in qualche modo la sua forma e separandosi in
certo modo da se stesso tende all'amato: in questo senso si dice che
l'amore produce l'estasi e il fervore.
D'altra parte, come un'entità naturale non perde la
propria forma se non in quanto vengono a mancare quelle disposizioni per
le quali la forma era ricevuta nella materia, così occorre che Ramante in
qualche modo perda quelle condizioni terminali che lo costituivano come
entità autonoma o originaria, ben determinata e chiusa in sé; in questo
senso si dice che l'amore causa uno
68
struggimento, una liquefactio: il cuore si
scioglie, si liquefa e come liquido non sta dentro i propri limiti.
Ma l'aspetto, per così dire, più crudelmente esaltante
dell'analogia nell'ilemorfismo d'amore è il parallelismo con la morte.
Di fatto, l'amante spira dolcemente in certo senso, quasi
a modo sacrificale, perdendo - come si è detto - le proprie connotazioni
per assumere la nuova forma dell'amato.
In questa linea, l'analisi teoretica o fìlosofica
realistica trova perfetta sintonia con le sublimazioni affettive del canto
poetico:
I' vo come colui ch'è fuor di vita
che pare, a chi lo sguarda, ch'orno sia
fatto di rame o di pietra o di legno,
che si conduca sol per maestria
e porti ne lo core una ferita
che sia, com'egli è morto, aperto segno.
(G. cavalcanti, Tu m'hai sì piena di dolor la mente}
Se dunque la materia dice passività e la forma, invece,
atto, allora il maschio sta dalla parte della materia e la femmina dalla
parte della forma.
E l'uomo-amante che si relaziona alla donna-amata come la
materia si rapporta alla forma: non viceversa.
Nella lettera agli Efesini (5, 25), si dice che l'uomo
deve amare la propria moglie come Cristo ha amato la Chiesa e ha
sacrificato se stesso per lei. L'idea è la stessa: è l'uomo che deve
immolarsi, sacrificarsi, morire per la donna.
Ma mi pare che si possa procedere ancora oltre queste
affermazioni fino a giungere alla concezione angelica della donna.
Se la forma è il principio attivo ed è anche capace di
sussistenza autonoma, ci troviamo di fronte al caso dell'anima umana e
dell'angelo.
Ebbene, l'idea della donna-angelo potrebbe essere
recuperata filosofìcamente proprio in questa prospettiva: si tratterebbe
della idealizzazione piena e assoluta della attualità o attività del
femminile.
69
L'angelizzazione della donna dipende dall'idealizzazione
dell'aspetto attivo che è legato alla femminilità.
Un'idealizzazione che tien conto non solo della dimensione
di attualità o dell'essere principio attivo, ma anche del fatto che ciò
che è attivo non ha bisogno di riferirsi ad altro per ricevere, ma è
come perfettamente autonomo e sussistente: appunto come un angelo.
Questo diviene poi motivo di ammirazione e anche di
contemplazione. Ma questo l'ho già detto.
Quello che si può aggiungere al riguardo è che proprio
perché la donna può divenire oggetto di contemplazione, anche da questo
punto di vista può assumere la fisionomia ideale dell'angelo.
S. Tommaso dice che anche un angelo può essere, oggetto
della contemplazione e fonte di una certa beatitudine: addirittura più
elevata di quella che si può raggiungere attraverso l'esercizio delle
scienze speculative.
«Nulla impedisce che si possa raggiungere una certa
beatitudine imperfetta nella contemplazione degli angeli; e anche più
alta di quella che si può ottenere nella considerazione delle scienze
speculative» (Summa Theologiae, 1-11, 3, 7).
Insomma: è meglio guardare un angelo che studiare...
Più di così non so dire, ma penso che neppure si possa
dire di più...
70
FESPLOSIONE DEL DOGMA
Compito della teologia è far esplodere il dogma, cioè
l'immutabile verità di fede.
Evidentemente, esplodere non va preso nel senso
negativo della distruzione. Una teologia che distruggesse il dogma
distruggerebbe se stessa, perché il dogma, cioè la fede dogmatica, è il
suo presupposto. La teologia è pur sempre la comprensione razionale della
fede teologale.
L'esplosione del dogma di fede va intesa, in questa
circostanza, nel senso con il quale si dice che è esplosa la
primavera. È ovvio che con questa espressione non si intende dire che
la primavera sia distrutta, ma che si è manifestata con tutta la sua
ricchezza di colori, di forme e profumi.
E siccome questa manifestazione compare tutta insième,
quasi all'improvviso, per il tramontare repentino e inatteso del grigiore
invernale, fa rumore: esplode come un applauso.
Eppure tutta questa ricchezza era covata dalla natura,
nascosta nel suo grembo sotto le coltri oscure dell'inverno.
Allo stesso modo, i contenuti più affascinanti della
verità di fede, sono nascosti sotto le coltri apparentemente rigide delle
definizioni dogmatiche.
Spesso si accusa il dogma di essere ormai incomprensibile,
non rispondente alla sensibilità della cultura attuale e quindi estraneo
all'interesse delle stesse persone di fede o comunque praticanti.
In parte, questa obiezione è vera, è fondata. Ma appunto
in parte, cioè tiene conto solo di una parte del fondamento sul quale si
struttura la comprensione di qualcosa.
71
Una cosa può essere incomprensibile o perché in sé
oscura, o perché è oscura o opaca l'intelligenza di chi vuole
comprenderla. C'è un difetto nella comprensione sia dal punto di vista
dell'oggetto che deve essere compreso, sia dal punto di vista del soggetto
che vuole comprendere.
Ma, supposto che l'opacità più radicale sia quella che
sta dalla parte del soggetto, quella oggettiva - cioè quella dalla parte
dell'oggetto - è pur sempre riducibile alla opacità del soggetto.
Sì, voglio dire che l'oggetto è quello che è; l'unica
assoluta opacità o impermeabilità che esso può avere nei confronti
dell'intelligenza è l'opacità che lo toglie di mezzo come oggetto, cioè
lo annulla come oggetto, nel senso che si identifica con il suo non essere
assoluto. Questo non essere assoluto è la contraddizione.
Un oggetto è assolutamente impermeabile alla comprensione
dell'intelligenza se è in sé contraddittorio, cioè nullo come
oggettività. Il contraddittorio, per definizione, non è: e come tale non
è intelligibile, è inintelligibile.
Non può essere compreso il contraddittorio, perché il
contraddittorio è nulla e il comprendere nulla è nulla come comprendere,
cioè non si da.
L'assolutamente incomprensibile è il contraddittorio; il
contraddittorio non è: dunque l'assoluta incomprensibilità dalla parte
dell'oggetto non c'è.
Un oggetto assolutamente incomprensibile non è neppure
oggetto!
Dunque, resta fermo il fatto che se si da una opacità
nella comprensione, questa dipende dal difetto o finitezza della capacità
di comprendere, che sta tutta dalla parte del soggetto.
Siamo noi che non siamo capaci di comprendere, cioè di prendere
insieme (cum-prehendere). , : .
Anche l'oggetto può avere una relativa
incomprensibilità, nel senso che, data la sua sproporzione rispetto alle
nostre capacità di comprensione, viene da noi significato o inteso solo
prospetticamente.
72
Non riuscendo a vederlo tutto insieme, lo vediamo prima in
un modo, poi in un altro, poi in un altro ancora. Con il rischio di
confondere i modi prospettici della considerazione, cioè le
sfaccettature, con la natura o la totalità dell'oggetto stesso.
E quello che avviene quando ci facciamo - come si dice
-un'idea di una persona: identifichiamo quella persona con le
caratteristiche che in modo più saliente ci hanno colpito, o abbiamo
potuto constatare. Il rischio è di identificarla con quelle
caratteristiche, buone o cattive che siano, pregi e difetti: è
inevitabile.
E inevitabile perché noi conosciamo le cose così come
esse si presentano al nostro sguardo; ma non è detto che il modo con il
quale esse si presentano al nostro sguardo esaurisca il loro essere o il
loro modo di essere.
Noi non vediamo simultaneamente il davanti e il dietro, il
sotto e il sopra, il dentro e il fuori, un fianco e l'altro di una cosa.
Per questo motivo noi discorriamo, cioè passiamo da un
punto di vista all'altro per capire.
Per capire qualcosa noi dobbiamo formarci diverse idee
della stessa cosa. E quando, per la sua straordinaria ricchezza di
perfezione, un oggetto può suscitare in noi molte idee, che non riusciamo
a coordinare tra loro, quell'oggetto diviene per noi -cioè relativamente
a noi - incomprensibile. ' '
Questo vale soprattutto per Dio e la conoscenza che nói
possiamo avere di lui.
Dio è lo stesso Essere per sé sussistente; è infinito
in perfezione: solo Dio può comprendere adeguatamente se stesso,
esaurendo la propria comprensibilità, perché è intelligenza infinita.
Quindi, l'intelletto umano, essendo finito nella sua capacità di
comprensione, non può comprendere totalmente Dio.
L'intelletto umano può arrivare a formarsi diverse idee
intorno alla essenza di Dio, ma non può averne una conoscenza
adeguatamente esaustiva: neppure per sintesi delle idee che possiede,
perché sono concetti specifici che non possono per ciò stesso essere
adeguati ad esprimere ciò che è metaspecifico.
73
Mi sembra evidente che quando diciamo che Dio - cioè lo
stesso Essere per sé sussistente - è Padre, attribuiamo un concetto ben
determinato, specifico, esclusivo di altri concetti - per esempio quello
di Madre - alla realtà che di suo non esclude nulla perché include
tutto. E così via.
Il che vuoi dire che questo insieme di denominazioni ha
una funzione evocativa; oppure, nel caso delle denominazioni metafisiche,
cioè adeguate ad indicare ciò che è metaspecifico, la difficoltà della
comprensione sta tutta nella scoperta della loro dimensione sintetica.
I trascendentali (realtà, uno, altro, vero, bene, bello)
sono modi diversi di significare l'ente o essere; non sono modi
diversi di essere! Indicano la stessa realtà in modi diversi o
prospettici. Se si distinguono tra loro, vuoi dire che significano in modo
diverso.
E questo presuppone che, anche se la distinzione che si
trova tra di essi è solo di ordine concettuale e non reale, tuttavia si
tratta di significati diversi tra loro.
Dire vero non vuoi dire immediatamente uno o
bene. Occorre una riflessione per cogliere l'identità reale di
questi diversi significati concettuali.
Arrivare a capire o a scoprire l'identità sotto la
diversità è capire anche il valore della diversità.
È la stessa esperienza di gusto che si prova nell'uso o
nella scoperta dei significati sinonimi, oppure nell'invenzione delle
etimologie delle parole.
Così, per esempio, è gustoso e istruttivo scoprire i
sinonimi di bellezza: formosità (per la proporzione delle forme), avvenen-W
(per il confarsi a chi l'apprezza), attrattiva (perché attira a
sé), appariscenza (per la chiarezza o luminosità della sua
presenza), venustà (per il riferimento mitico a Venus, dea
dell'amore e madre delle Grazie), grazia (per la piacevolezza che
l'accompagna), splendore (per l'abbondanza della luminosità e
visibilità), stupendità (per lo stordimento contemplativo che
suscita in chi la vede), fascinosità (per l'incantesimo che
segretamente insinua in chi la percepisce).
74
Anche l'etimologia - cioè la ricerca dell'origine delle
parole -non è meno gustosa e istruttiva.
Per esempio, bello, anche sul piano nominale, e una
conseguenza del bene. Bello, infatti, deriva dal latino bellus:
termine che a sua volta deriva dall'antico benus (per bonus)
attraverso il diminutivo benulus-benlus, da cui appunto bellus.
Scoprire l'identità nella diversità. Ci si sente
coinvolti inu-sualmente nell'usuale e si scopre la straordinarietà
dell'ordinario: che botto, eh? !
Far esplodere il dogma vuoi dire scoprire il valore
concreto di parole che sembrano lontane le mille miglia dalla nostra
esperienza.
È uno scoprire il valore concreto di un significato per
noi prima astratto: insieme riesci anche a valutare e apprezzare quel
significato astratto, che ti sembrava avulso dalla realtà; anzi quel
significato per tè non è più astratto, ma è diventato concretissimo.
L'inusuale è ormai usuale!
La novità fa sempre un gran botto! Ma questo è un gran
botto concettuale, perché la realtà è sempre quello che è, così
com'è...
75
IL PUNTO DI VISTA DELL'ETERNO
Non è facile adattarsi a un nuovo punto di vista. Si
prova un grande sconcerto.
Non che si vedano cose diverse da quelle sempre viste. No!
Il fatto è che vedendole da un punto di vista diverso, le
si vede in modo diverso: e le stesse cose quasi paiono irriconoscibili.
Oppure - e la cosa mi sembra più giusta detta così - noi
siamo irriconoscibili a noi stessi, per il fatto di vedere le cose in modo
diverso dal consueto.
Sì, il punto di vista è proprio a tal punto
determinante, da cambiare il volto delle cose.
Cambiare il volto delle cose vuoi dire appunto girarle,,
voltarle. In fondo, meditare significa proprio questo.
Meditare vuoi dire considerare sempre la stèssa cosa
cambiando il punto di vista prospettico della considerazione. Meditare è
quasi un misurare con la mente, il che implicajl soffermarsi del pensiero
su una cosa spostando di volta in volta l'angolo della considerazione.
Se il contemplare è paragonabile al movimento circolare
della mente - considerare la stessa cosa, sempre sotto lo stesso aspetto
-, il meditare è paragonabile al movimento a spirale o elicoidale della
stessa mente: al permanere della cosa, varia l'aspetto che di essa viene
considerato, in forza della variazione della prospettiva.
Meditare vuoi dunque dire essere capaci di conciliare
l'identico con il diverso; o per meglio dire, saper conciliare le diverse
prospettive in riferimento al medesimo ed identico oggetto.
76
È vero che il punto di vista dell'etemo appartiene per
sé al movimento contemplativo della mente - considerare sempre la stessa
cosa sotto lo stesso aspetto -: con-siderare è il fissare
attentamente una stella, quasi per leggervi il decreto eterno del destino.
Ma ora si tratta di comporre la considerazione eterna dell'eterno con la
variazione o l'innovazione temporale con la quale l'eterno appare.
Questo compito, o questa abilità, appartiene al meditare.
Da sempre, nel corso della storia del pensiero, si assiste
all'opposizione di tempo ed eternità, così come si oppongono il mobile e
l'immobile, il mutevole e l'immutabile.
E si tratta di un'opposizione radicale, giacché i due
termini si escludono vicendevolmente. Se una cosa è etema non può essere
temporale; e, viceversa, se una cosa è temporale non può essere eterna.
Si tratta di un'opposizione che caratterizza anche due
modi di pensare e le relative scuole di pensiero.
Da una parte abbiamo, così, i sostenitori della'temporalità
del tutto: sono coloro che affermano l'assolutezza del divenire e della
storia. Dall'altra parte, invece, abbiamo colorò che affermano il valore
di ciò che si contrappone al temporale e al divenire e quindi
l'assolutezza di ciò che è immutabile e dunque eterno.
I primi vedono nell'eterno la negazione della storia, la
negazione del divenire: l'immutabile blocca tutto e non lascia spaziò
alla libertà, alla novità del progetto umano.
I secondi, invece, vedono nell'immutabile la spiegazione
del mutevole, la sua stessa condizione metafìsica. Non che l'immutabile
tolga il mutevole: l'immutabile è la condizione per la quale il mutevole
può essere. Senza l'immutabile, il mutevole non sarebbe.
La prima posizione rappresenta l'istanza della filosofìa
moderna e contemporanea, che rigetta assolutamente il pensiero metafisico
classico, con il suo ricorso alla trascendenza divina per salvare
l'immutabilità dell'essere che nel divenire viene annullato.
77
II rifiuto della trascendenza immutabile del divino è
motivata dal dover sacrificare ad essa tutta la ricchezza dell'essere
mondano. L'affermazione di Dio trascendente e della dimensione
trascendente di tutti i valori, rappresenterebbero - per il pensiero
contemporaneo - il rifiuto dell'umano.
Indiscutibilmente emblematico di questa posizione è il
pensiero di Nietzsche. La morte di Dio è la condizione della vita
dell'uomo.
La seconda posizione, invece, è evidentemente quella del
pensiero classico, o comunque delle scuole anche contemporanee che ad esso
si ispirano. Ciò che questo pensiero propone ha il suo emblema nella
dottrina platonica.
Secondo Fiatone esistono due piani dell'essere: uno
sensibile, diveniente, mutevole; l'altro metasensibile, ideale,
immutabile.
L'essere sensibile, quello mondano, non è il vero essere,
per Fiatone: il vero essere è quello trascendente e ideale, iperuranio,
cioè quello che "sta al di là".
In questa prospettiva, la vita dell'uomo deve essere
orientata più all'aldilà che all'aldiqua. La vera vita non è questa che
viviamo nell'ordine della sensibilità, ma quella che vivremo nell'aldilà
(Fedone}.
L'eternità è quindi vista come la salvezza delle cose,
in quanto esse vengono possedute e dominate dall'eterno Dio: in se stesse,
le cose sarebbero nulla, perché travolte dal flusso inesorabile del
divenire.
Ma tra tempo ed eternità esiste effettivamente questo
contrasto insanabile, per cui l'una sarebbe la negazione dell'altro e
viceversa?
Oppure questo contrasto è in realtà fìttizio, frutto di
una maldestra interpretazione sia del tempo, sia dell'etemo?
Il filosofo contemporaneo Emanuele Severino - il teoreta
più rigoroso che io conosca - ritiene che sia la posizione classica, sia
la posizione contemporanea si rifacciano a un medesimo errore.
78
E l'errore che sta a fondamento dei due apparenti
antagonisti è la "fede nel divenire"', cioè la persuasione
che le cose siano nulla. Il nichilismo è la matrice comune alle
due posizioni.
«Pensare che le cose escono dal nulla e vi ritornano è
pensare che le cose sono nulla, ossia che l'essere è il nulla» (E.
seve-RINO, La follia dell'angelo, Milano 1997, p. 250). L'uscire
dal nulla e il ritornare nel nulla delle cose è l'interpretazione che la
classicità e la contemporaneità danno del divenire.
Tutto l'Occidente è persuaso della nullità delle cose,
anche se in modo non esplicito, giacché il nichilismo dell'Occidente sta
appartato nel "nascondiglio più sicuro", cioè in quella che
per l'Occidente è l'evidenza originaria: la fede nel divenire, come
oscillazione delle cose tra l'essere e il nulla.
Severino denuncia quale follia questa interpretawne
del divenire (cf. op. cit., p. 52).
Follia, perché identifica l'essere e il nulla, o se
si preferisce usare il paradigma dell'opposizione originaria, questa
follia identifica il positivo e il negativo.
Ma il positivo non è il negativo, l'essere non è il non
essere!
interpretawne, perché non si limita a ciò che
consta, ma lo trascende con un di più che viene iniettato erroneamente,
cioè sulla base di un errore.
E l'errore è appunto l'essere persuasi della nientità
dell'ente. Persuasione che ha addirittura una fondazione teoretica
ritenuta incontrovertibile, tanto quanto la verità dell'essere: il
principio di non contraddizione.
Il principio di non contraddizione, che vuole essere la
difesa più rigorosa della incontraddittorietà dell'essere, in realtà è
esso stesso «la forma peggiore della contraddizione: proprio perché la
contraddizione viene nascosta nella formula stessa con la quale ci si
propone di evitarla e di bandirla dall'essere» (E. severino, ritornare
a Parmenide, in id., Essenza del nichilismo, Milano 1995, p.
22).
Secondo l'acuta analisi di Severino, il principiò di non
contraddizione è in se stesso contraddittorio perché ammette un
79
tempo nel
quale si da quella identità di essere e non essere che invece lo stesso
principio di non contraddizione intende respingere.
E in effetti, anche a me pare che dire che una cosa non
può essere e non essere nello stesso tempo, significhi dire che può
essere e non essere in tempi diversi, cioè che non si dia contraddizione
nell'ammettere un tempo in cui quella stessa cosa non sia.
Ma mi viene da dire: se la cosa fosse diversa dall'essere,
potrebbe essere indifferente all'essere e al non essere; e di conseguenza
questa indifferenza garantirebbe l'incontraddittorietà del tempo in cui
la cosa non è.
Ma la cosa non è un che di diverso dall'essere! Se
infatti fosse tale, essa sarebbe non essere - tertium non datur - e
allora nel momento in cui si predicasse l'essere della cosa si
predicherebbe l'essere del non essere: il che è contraddittorio!
Se la cosa fosse diversa dall'essere, non sarebbe; dire
che ciò-che-non-è è, implica contraddizione: l'identificazione
del positivo e del negativo.
Quindi, se la cosa è l'essere e non un che di diverso o
altro dall'essere, non v'è neppure un tempo in cui si possa predicare di
essa il non essere. Non c'è un tempo in cui la cosa possa non essere,
perché quel tempo o istante sarebbe l'identità simultanea dell'essere e
del non essere: ciò che appunto il principio di non contraddizione
intende condannare.
Dunque, non si può consentire che la cosa sia nel tempo,
perché non si può consentire che l'essere sia hel tempo.
Ma direi anche di più - o forse è comunque la stessa
affermazione vista da un'altra angolatura -: il tempo, come non essere
dell'essere, non è, non c'è, come non c'è o non si da il non essere
dell'essere!
«L'essere è, mentre il nulla non è»: questa è la verità
o il destino dell'essere, secondo la celebre espressione di
Parmenide (fr. 6, w. 1-2). Quindi l'essere non può non essere; l'essere
non
80
può essere afflitto dal nulla perché il nulla non è: in
quanto nulla non c'è e non può far niente.
Il fare del nulla è nulla come fare, quindi lascia
intatto l'essere nella sua beata indifferenza olimpica al nulla, perché
non può temere ciò che non c'è!
Il nulla non fa ne caldo ne freddo all'essere: ncque
calidum neque frigidum ens reliquit! . , : ,,
In questo senso, direi che la posizione parmenidea - ma so
bene che non è proprio così totalmente parmenidea - di Severino
rispecchia l'incontrovertibile verità dell'essere: la sua giustizia.
L'essere in quanto essere è dunque eterno. L'essere
non può essere nel tempo; ma non è neppure sopra il tempo, quasi che il
tempo avesse il dominio su qualcosa.
Dal punto di vista dell'essere, il divenire e il tempo,
intesi o interpretati come vicenda della costruzione e distruzione
dell'essere, non sono!
Dunque, con Severino, non posso non ammettere che la variazione
che pur si constata e'che viene chiamata divenire, non è il venire dal
nulla e il tornare nel nulla delle cose, ma l'apparire e scomparire,
nell'orizzonte della nostra esperienza, di ciò che è eterno.
Il divenire va inteso come «il processo della rivelazione
dell'immutabile» (E. severino, Poscritto, in id., Essenza del
nichilismo, cit., p. 89).
Solo se il divenire viene interpretato in termini di
essere e non essere «allora la verità dell'essere proclama
l'immutabilità dell'essere; ma se il divenire è definito secondo le
determinazioni che autenticamente gli convengono in quanto contenuto
dell'apparire - e cioè come il processo della rivelazione dell'essere -,
allora l'immutabilità e il divenire dell'essere non valgono più come
termini tra loro contraddittori» (Ibid.).
Occorre dunque abituarsi a pensare e vedere le cose dal
punto di vista dell'eterno, cioè dell'essere come tale.
81
E il Cristianesimo sopporta una tale considerazione?
Oppure anche il Cristianesimo è coinvolto nella "folle"
persuasione dell'Occidente per cui l'essere è niente?
I concetti di creazione dal nulla, di incarnazione, di
salvezza sopportano il vaglio critico della verità dell'essere?
Io penso proprio di sì. Anzi penso che il punto di vista
della verità dell'essere, cioè dell'eterno, sia il punto di vista
adeguato per capirli e non fraintenderli fantasiosamente.
Eh sì, perché è proprio il Cristianesimo il punto di
vista eterno, sull'eterno.
82
CETERNO NEL CRISTIANESIMO
II punto cruciale dell'obiezione che la verità
dell'essere rivolge al Cristianesimo è questo.
Il Cristianesimo è nichilista: è immerso nella follia
dell'Occidente, che è inconsciamente persuaso della nientità dell'ente.
Anzi, lo stesso Cristianesimo è promotore e banditore di
questa follia, giacché la stessa affermazione di Dio trascendente,
creatore e signore del mondo, implica la derivazione dell'essere del mondo
dal nulla e la sua reversibilità nel nulla da cui è tratto -in forza
della onnipotente Tecnica di Dio.
Ma «liberato dal nichilismo, il Messaggio ha la
possibilità di appartenere alla verità dell'essere. Incomincia cioè ad
essere, per la verità, un problema» (E. severino, Risposta alla
Chiesa, in id., Essenza del nichilismo, cit., p. 344).
Che cosa vuoi dire liberare dal nichilismo il Messaggio
cristiano? E che cosa vuoi dire che, libero dal nichilismo, il Messaggio
cristiano comincia ad essere problema per la verità?
Beh, vediamo un po': se non ho capito male, problema
è «ciò che la verità non è in grado di smentire o confermare» (E.
severino, II sentiero del Giorno, in id., Essenza del
nichilismo, p. 166).
Questo vuoi dire che il problema supera le capacità di
determinazione della verità, intesa come un dire incontrovertibile -cioè
incontestabile, che non può essere smentito - e anche come ciò che è
detto in questo modo: cioè la verità dell'essere (cf.ZW.,p.l58).
E la verità dell'essere è appunto la contestazione del
nichilismo, la sua negazione, la sua incontrovertibile smentita: l'essere
in quanto essere, l'ente in quanto ente è immutabile, non può non
essere, è eterno.
83
Dunque, il messaggio cristiano comincia a diventare
problema per la verità una volta che, smesso il linguaggio nichilistico
della metafìsica, comincia a parlare la lingua della verità, cioè la
lingua del Giorno - in contrapposizione alla lingua della Notte, cioè
quella della metafisica nichilistica, per la quale l'ente può esser
niente -.
In questa linea di riflessione, la creazione, se
viene intesa necessariamente nel senso per cui la creatura sarebbe potuta
essere nulla o potrebbe tornare nel nulla, non può essere accolta dalla
verità dell'essere. E in questo modo - secondo Severino -«resta
definitivamente precluso ogni incontro tra la verità dell'essere e il
Cristianesimo» (Alienazione e salvezza della verità, in id., Essenza
del nichilismo, cit., p. 274).
Nel caso invece in cui il concetto di creazione fosse
inteso in conformità alla verità dell'essere - e quindi espresso nella
lingua del Giorno -, allora divenendo problema, cioè possibilità
per la verità, troverebbe ascolto da parte della verità dell'essere.
Perché la creazione sia un'autentica possibilità della
verità dell'essere, essa deve essere interpretata come «una
determinazione che riguarda l'apparire e lo sparire dell'essere» (E.
severino, Poscritto, in id., Essenza del nichilismo, cit.,
p. 11.5): perché l'essere non viene dal nulla ne può tornare nel nulla.
Dunque, la parola creazione, nella lingua del
Giorno, significa "teofania".
Il verbo gignesthai che compare nel prologo del
Vangelo secondo Giovanni, a proposito della creazione di tutte le cose per
mezzo del Verbo (Gv 1,3), non va quindi inteso come un «diventare
essere» delle cose, ma come un «mantenersi e trarsi fuori dal loro
nascondimento» (E. severino, II sentiero del Giorno, in id., Essenza
del nichilismo, cit., p. 164).
La problematicità della creazione per la verità
dell'essere sta nel fatto che, intesa in questo senso, essa porta pur con
sé la possibilità che giunga ad apparire ciò che sarebbe potuto non
apparire: «è il problema della libertà dell'apparire dell'essere» (J-W.).
84
Problema perché si da anche la possibilità opposta:
cioè la possibilità dello «sviluppo necessario della rivelazione
dell'eterno» (E. severino, Poscritto, in id., Essenza del
nichilismo, cit., p. 115).
Una riflessione del medesimo tenore deve essere fatta
anche a proposito dell'incarnazione.
Anche l'incarnazione ha la possibilità di divenire
significativa per la verità dell'essere, una volta illuminata dalla
verità dell'essere, cioè una volta che si sia incamminata lungo il
sentiero del Giorno, che è l'affermazione dell'immutabilità dell'essere,
l'eternità dell'essere.
Dice espressamente Severino: «Affinchè la "storia
della salvezza" divenga problema, il "Verbo" deve essere
allora innanzi tutto pensato come eternamente "presso Dio" ed
eternamente "presso la carne": e il suo diventar carne deve
innanzitutto significare che il Verbo che è eternamente presso la carne
è entrato nell'apparire» {Risposta alla Chiesa, in Essenza del
nichilismo, cit., p. 381).
Ora, queste due tesi di Severino sono state dichiarate
ufficialmente come incompatibili con la dottrina cattolica (cf.
l'Appendice a Risposta alla Chiesa, in Essenza del nichilismo,
cit., pp. 386-387). Ma è proprio del tutto assurdo cercare un punto di
contatto, o individuare il punto di vista dal quale queste tesi, così
importanti, solenni e rigorose possano essere conciliabili con il senso
cattolico della dottrina rivelata?
Del resto, è la stessa vita cristiana, vita di grazia,
vita divina, che ci obbliga a vedere tutto dal punto di vista di Dio,
cioè dell'eterno.
Io penso proprio che sia possibile. E questo
consentirebbe, da un punto di vista filosoficò, l'accoglimento del
Cristianesimo come problema e possibilità da parte della verità
dell'essere -come si diceva.
Dio mio, dammi intelligenza e aiutami ad esprimermi come
meglio posso. S. Tommaso dice che non esiste una dottrina a tal punto
falsa da non contenere in sé del vero (Summa Theologtae, I-II,
102,5, ad 4); io devo tentare questa via di conciliazione.
85
Se poi dovessi fallire, avrei sempre con me la gioia
dell'aver pensato cose che sono grandi, e la letizia della compagnia
angelica che contempla eternamente l'eterno sènza fallire.
Anzitutto la creazione.
E vero che la creazione indica l'azione per la quale Dio
trae dal nulla tutte le cose. Ma questa definizione di creazione va intesa
correttamente.
Il dal nulla che compare nella definizione della
creazione, e che comporta la problematicità principale della nozione, non
sta ad indicare evidentemente una realtà. Il nulla non può essere una
realtà, perché è nulla. Se il nulla è nulla, non c'è!
Quindi, quando si dice che la creazione è dal nulla non
si intende dire che il nulla sia il serbatoio dal quale Dio trae fuori
tutte le cose. Questo serbatoio è nullo perché non c'è.
Il dal nulla indica semplicemente il fatto che
nulla funge da presupposto all'azione del creare. La creazione non è la
trasformazione di una materia preesistente.
Dunque, se nulla è presupposto all'azione creatrice di
Dio, c'è soltanto l'azione creatrice che è fondamento di se stessa.
E poiché l'azione di Dio è Dio stesso, dire che la
creazione è dal nulla vuoi dire che essa non aggiunge assolutamente nulla
a Dio.
; La stessa creatura è detta dal nulla di se stessa e di
un soggetto preesistente, perché essa non aggiunge nulla a Dio.
Il mondo non aggiunge assolutamente nulla a Dio. Dio più
mondo fa sempre Dio. Dio non può subire ne incremento ne decremento,
essendo tutto l'essere, infinitamente perfetto.
In questo senso, non solo si può dire, ma si deve dire
con Severino che «il mondo è nulla come novità o incremento rispetto a
Dio» (Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, cit.,p.
60). • :' ' '
Guardando anche più a fondo la cosa, cioè da un punto di
vista metafisico classico, si può trarre la medesima conclusione.
E non mi pare proprio che la metafisica debba
necessariamente essere intesa come la dottrina nichilistica per
eccellenza.
86
Lo stesso Severino riconosce che può essere qualificato
come "metafisico" il pensiero che esprima la «differenza
tra l'apparire (che tuttavia è un ente) e l'essere (ossia la totalità
degli enti) - la differenza tra ciò che del tutto si cela e ciò che di
esso si manifesta» {Risposta ai critici, in Essenza del
nichilismo, cit., p. 315).
Dunque, anzitutto cerco di argomentare secondo i parametri
della metafisica che Severino definisce come nichilista; poi cerco di
istituire un'analogia tra questi parametri e quelli del pensiero
metafisico non nichilista.
Un momentino solo, che vado a prendere il mio saggio Dialettica
della Rivelazione (Bologna 1996), perché lì mi pare di essermi
espresso a questo riguardo in modo abbastanza chiaro. Dunque, dunque,
vediamo un po': ecco, è alle pagine 39-45.
«In termini strettamente metafisici, direi che per capire
questa situazione ontologica del mondo creato occorre fare delle
distinzioni.
Dio non è totalmente altro dal mondo, ne totalmente
identico, ma identico nel modo di essere diverso, o diverso nel modo di
essere identico. Questo perché, se fosse totalmente altro, sarebbe un
altro mondo, cioè sarebbe limitato e non infinito in perfezione, giacché
il mondo creato gli si aggiungerebbe nella totalità dell'essere, mentre
Dio è l'Essere per sé sussistente.
In questo quadro non può neppure essere totalmente
identico, cioè essere il mondo simpliciter, perché in questo caso
il mondo non rinvierebbe all'altro da sé, mentre invece rinvia.
E dunque non resta che la soluzione della
identità-diversità, così come tra gli estremi della equivocità (prima
ipotesi) e della univocità (seconda ipotesi) sta la soluzione
dell'analogia.
Ragionando in dettaglio: il mondo è altro da Dio per la
sua composizione metafisica di essenza e essere - essendo invece Dio
semplicemente il suo stesso essere per essenza -; senza questa
composizione, il mondo è uguale a Dio e distinto solo per distinzione di
ragione ragionata.
E chiaro che questo lo si può sostenere per via
speculativa:
non si può vedere come Dio componga la creatura, cioè
come crei. Per questo non si deve immaginare che Dio perda parte di
sé per porsi fuori di sé come creatura.
87
Rigore per rigore, la cosa può essere maggiormente
evidenziata analizzando il concetto stesso di creatura.
Ora, la creatura può essere considerata sotto diversi
aspetti o punti di vista. Se consideriamo la creatura per sé o a se -
cioè secondo la sua dipendenza causale -, la creatura è nulla: è dal
nulla di se stessa e di un soggetto preesistente, per definizione.
Variando prospettiva, invece, consideriamo la creatura in
se, cioè nella sua costituzione ontologica. Ebbene, in questo secondo
caso si possono dare due modi di considerare la creatura: il modo reduplicativo
e il modo specificativo.
Assemblando i concetti sul versante della considerazione
reduplicativa, cioè della considerazione della creatura in quanto
creatura. Dio e mondo sono perfettamente distinti, in quanto il mondo
possiede un essere per partecipazione creaturale, mentre Dio è il suo
stesso essere.
In senso reduplicativo, la creatura è il composto
ontologico di essentia + esse. Si tratta cioè del concreto
sussistente esistente, non per sé, ma per altro. E tanto importante
questa relazione all'alterila di Dio, causa creatrice, che la dipendenza
della creatura dal Creatore, in questa prospettiva reduplicativa, è di
ordine trascendentale: l'essere per partecipazione diventa inintelligibile
senza l'essenziale rinvio al partecipante.
Tematizzando lo statuto ontologico della creatura in
prospettiva specificativa, invece, le cose cambiano. Parlare della
creatura in senso specificativo, significa intendere la creatura non in
quanto creatura, ma in quanto tale specie di creatura.
Per facilitare la riflessione con un esempio: se si
intende l'uomo come creatura in senso reduplicativo, allora l'uomo è
definibile come qualsiasi creatura, cioè come un soggetto che ha l'essere
per partecipazione; se invece si intende la creatura umana in senso
specificativo, allora la si definirà secondo la sua specie, cioè come
animale razionale, senza alcun riferimento all'essere che essa ha per
partecipazione.
In questa prospettiva, i concetti cominciano ad essere
piuttosto delicati. E ovvio che la creatura in senso specificativo si
identifica con la sua essenza specifica. Non che la creatura sia la
88
propria essenza - solo Dio è la propria essenza -, ma nel
plesso compositivo di essenza e essere, la creatura in senso specificativo
sta dalla parte dell'essenza.
La cosa però richiede un'ulteriore distinzione.
L'essenza specifica della creatura, infatti, può essere
intesa come il coprincipio reale del costituirsi della creatura insieme al
suo proprio atto d'essere, oppure come il risultato di un'astrazione
intellettiva, per la quale prescindiamo dall'atto d'essere della creatura,
perché questo non rientra nella definizione dell'essenza specifica della
creatura.
In dettaglio: se consideriamo l'essenza specifica della
creatura per semplice astrazione dal suo atto d'essere proprio [in forza
del quale esiste, e quindi si potrebbe dire che questa astrazione è un
prescindere intellettivo dal fatto di esistere, più che una
considerazione dell'essenza nella sua costitutività metafìsica],
l'essenza della creatura, non implicando appunto per essenza l'essere
partecipato, viene colta come un assoluto.
L'essenza della creatura, intesa in questo modo, non
rinvia a Dio, dice assoluta autonomia. Pensando la creatura in questa
prospettiva, non la si pensa come creatura, perché la relazione di
dipendenza causale fuoriesce dall'essenza e si aggiunge come relazione
accidentale: si tratta cioè di una relazione predicamen-tale e non
trascendentale - come invece nel caso della considerazione reduplicativa.
In questa prospettiva, si può correttamente parlare di
autonomia del mondo e delle sue leggi proprie. Così, il mondo è
perfettamente distinto da Dio.
Nel considerare invece l'essenza come coprincipio concreto
del costituirsi della creatura con il suo atto d'essere, l'essenza della
creatura non è la creatura, ma non è neppure un nulla, senza l'atto
d'essere proprio. ,
L'essenza della creatura, nella sua concretezza
ontologica, se non è il nulla e non è neppure la creatura, perché non
è in composizione reale con il suo atto d'essere proprio, non può che
essere Dio: tertìum non datur. . .
89
In questa prospettiva, consideriamo la creatura nella sua
realtà precreaturale: essa è dunque Dio.
È Dio, o la stessa essenza di Dio, in quanto Dio pensa se
stesso come partecipabile e intelligibile dall'altro da sé.
Ma, in questo modo, abbiamo raggiunto il punto nodale
della riflessione per la quale abbiamo determinato che il mondo, cioè la
creatura, in questa particolare prospettiva si identifica con Dio. Il
mondo è l'intelligibilità di Dio per noi; è il modo con il quale Dio
non solo ci si manifesta, ma manifesta la sua essenza per noi.
Metafìsicamente parlando, la distinzione-identità del
mondo da Dio si gioca dunque tutta sul modo di considerare l'essenza della
creatura e la sua relazione con l'atto d'essere suo proprio».
Questa identità-distinzione tra Dio e mondo è uno dei
modi con i quali è pensabile l'immanenza o la presenza di Dio nel mondo.
Si tratta del modo per il quale il mondo è la trasparenza
di Dio, la diafonia di Dio. Evidentemente non è la trasparenza di
Dio a se stesso: Dio non ha mica bisogno di pensarsi attraverso il
mondo... Se Dio ne avesse bisogno non sarebbe Dio, no?
Il mondo è il modo per il quale Dio è naturalmente
trasparente a noi. Dio, conoscendo se stesso, conosce anche tutte le
possibili creature, come sue realizzazioni similitudinarie nell'ordine
creaturale. Queste sono il mondo in Dio. Il mondo attuale è l'insieme di
alcune di queste similitudini creaturali dell'essenza di Dio, Non di
tutte, perché altrimenti il mondo sarebbe Dio assolutamente.
(L'attuazione distinta di tutti i possibili è impossibile
perché non tutti i possibili sono distintamente compossibili. Non ci può
essere insieme Marte abitato e Marte disabitato: pur essendo possibile un
universo in cui Marte sia abitato, mentre nell'attuale universo Marte non
è abitato. Non è possibile che il mondo sia insieme assolutamente giusto
e bisognoso di misericordia: pur essendo possibile un mondo assolutamente
giusto, diverso dall'attuale, che è luogo di misericordia. Tutti i
possibili
90
sono compossibili invece nella loro attualità indistinta
che è l'essere divino, l'Essere assoluto).
Se c'è una cosa che Dio non può fare è creare un mondo
perfetto quanto egli è perfetto: creerebbe un altro Dio; ma un Dio creato
non è più Dio. Non si possono dare due infiniti in perfezione
nell'essere. Per distinguersi, l'uno dovrebbe avere ciò che l'altro non
ha: quindi non sarebbero infiniti in perfezione...
Il mondo attuale è quindi un modo con il quale Dio si
rende intelligibile, comprensibile in una forma proporzionata naturalmente
a un'intelligenza che non sia la sua. Il mondo è la comprensibilità che
Dio vuoi dare di sé all'altro da sé.
In questo senso il mondo è la diafania di Dio. Questo
risulta dal considerare la creatura dal punto di vista della sua essenza
in quanto suo coprincipio reale, senza l'atto d'essere partecipato.
Ma il mondo è anche la presenza di immensità di
Dio. Dio è ovunque, onnipresente in quanto causa dell'essere delle
creature. La causa dell'essere deve essere presente al suo effetto perché
l'effetto sia ed è presente finché l'effetto di fatto è.
Questa immanenza di Dio nel mondo si mette in evidenza
considerando la creatura dal punto di vista dell'essere, del suo atto
d'essere, partecipatele da Dio.
Da ultimo, si può parlare del mondo come presenza
speculare di Dio. Il mondo è lo specchio di Dio. Dio si riflette
nelle sue creature. Ciò che si vede riflesso in uno specchio è la stessa
realtà che in esso si riflette. Ma non si può confondere il riflesso con
la realtà riflessa: guardando lo specchio, nello specchio si vede la
realtà che in esso si riflette. Lo specchio rinvia: segnala una presenza
rinviando ad altro da sé.
Questa immanenza di Dio nel mondo risulta dal considerare
la creatura in quanto creatura, nel suo complesso metafisico di essenza +
essere. In questo quadro però prevale il rinvio sulla semplice presenza.
: ', .
Vediamo adesso la cosa in un quadro non nichilistico.
E ovvio che il linguaggio deve essere diverso. Allora
occorre istituire un parallelismo analogico.
91
Se la creatura, nel quadro cosiddetto nichilistico, è la
composizione di essenza + essere, nel linguaggio del Giorno essa dovrà
essere concepita come l'ente che appare e scompare.
Dico l'ente che appare e scompare, e non semplicemente che
appare, perché se appare e scompare vuoi dire che non necessariamente
appare: quindi è l'ente che è in composizione con il suo apparire. Se
non fosse in composizione con il suo apparire e fosse il suo stesso
apparire, apparirebbe sempre: il che non è.
In questo stesso senso si dice che la creatura è il
composto di essenza e essere, perché essa non ha necessariamente l'essere
-anche se di fatto può possederlo da sempre e per sempre.
Quindi, la creatura è l'ente che appare, ma potrebbe non
apparire.
Severino dice: «Dal punto di vista della verità
dell'essere, la possibilità della creazione è la possibilità che nello
spettacolo eterno dell'apparire giunga ad apparire ciò che sarebbe potuto
non apparire; ossia che in quel momento dell'eterno che è l'attuale
apparire, l'eterno si riveli più di quanto non sia destinato ad
apparire» (Poscritto, in Essenza del nichilismo, cit., p.
115).
Io però direi che la creazione non è semplicemente il giungere
ad apparire, ma la condizione dell'apparire-scomparire.
E necessario che l'essere appaia. O meglio, è
necessario~chè l'apparire trascendentale - cioè la condizione
dell'apparire e dello sparire dell'essere eterno: l'apparire nel quale
appare che l'apparire di un ente scompare - sia, non possa non
essere.
«Se dell'eterno non apparisse nulla, l'apparire...
sarebbe apparire di nulla e quindi non sarebbe, e cioè sarebbe un
niente» (E. seveeino, ibid., p. 100). Dunque l'apparire
trascendentale - cioè l'orizzonte ultimo dell'apparire, l'apparire come
tale, il pensiero - non può non essere.
Ma perché l'apparire sia, occorre che l'essere appaia.
Se l'essere eterno appare processualmente, non appare
totalmente. Ciò che appare processualmente, cioè appare e scompare, si
presenta come isolato dal tutto.
«Proprio perché l'apparire dell'immutabile è
processuale, l'immutabile si rivela in parte. Il che vuoi dire che
la parte non si
92
rivela nel tutto, non appare in quella beata compagnia, in
cui pur si trova; e essenzialmente si trova» (E. severino, ibid.,
p.101).
L'essere che appare e scompare è l'essere astrattamente
manifesto, cioè non avvolto nel tutto, che è il concreto.
L'essere come tale è l'essere «che non manca di nulla»;
l'essere che appare è «la sintesi dell'essere e del suo apparire»:
questa è la differenza ontologica (E. sevekjno, ibid., p.
113).
Ebbene, secondo me, proprio questa differenza ontologica,
che intercorre tra l'essere in sé, nella sua pienezza concreta, e
l'essere composto con il suo apparire astratto dall'intero, rappresenta la
condizione della creaturalità, anche nella metafisica classica
debitamente concettualizzata e letta nella luce del Giorno.
L'essere in sé rappresenta l'essenza come coprincipio
reale con l'atto d'essere della creatura: qui esso e in composizione con
l'apparire.
E come l'essenza della creatura (cioè del mondo), senza
l'atto d'essere è la stessa essenza di Dio nella sua concretezza - il
pensiero che Dio ha di sé come pienezza di intelligibilità per
un'intelligenza diversa da quella divina -, così da esserne sul piano
creaturale la diafania; allo stesso modo, o nello stesso senso si può
pensare questa affermazione di Severino: «II mondo (ciò che appare) è
Dio in quanto si rivela nella coscienza finita (la cui finitezza è
appunto il suo valere come un apparire astratto dell'essere)» {ibid.,
p. 105).
Se l'uomo è l'eterno sguardo sull'apparire-scomparire
dell'essere, l'eterno apparire dell'apparire eterno dell'essere, sempre
manifesto, è invece Dio. E la scienza di Dio.
«Il mondo è un'immagine di Dio, o, meglio, è l'esito di
una comprensione astratta della totalità dell'immutabile» (E. severino, Stornare
a Parmenide, in ÌD., Essenza del nichilismo, cit., p.60). _ ,
:; _ . _ _ _ ..
Se l'apparire è eterno e i dati particolari, anche quando
non appaiono, sono e sono nell'eterno apparire insuccessivo del
tutto, l'apparire trascendentale (in cui tutto è eternamente manifesto)
è la scienza di Dio: l'assolutamente concreto.
93
Questa conclusione non può non derivare dal ritenere che
esista un «apparire infinito della totalità dell'essere» che è la
«Gioia"» (E. severino, La follia dell'angelo, cit., p. 66;
cf. p. 174).
L'apparire infinito si distingue dall'apparire finito
perché non è come quest'ultimo astratto e processuale.
Ed è "Gioia" perché è il toglimento di ogni
contraddizione:
dove il tutto non è una semplice forma vuota accanto ad
altre forme che pur rientrano nel tutto (dunque la contraddizione del
finito in cui il tutto è una parte di se stesso).
La "Gioia" è il toglimento di ogni
contraddizione, cioè di ogni astrattezza, perché è il coglimento del
tutto nella sua pienezza concreta.
Se questa "Gioia" è l'uomo nel suo più
profondo essere se stesso (cf. E. seveeino, ibid., p. 50), questo -
secondo me - è tale però perché è l'inconscia presenza di Dio, che
nell'apparire trascendentale - cioè nel pensiero in quanto distinto dal
conoscere - appare come ombra.
Del resto, l'introduzione della figura della creazione non
va intesa come nullifìcazione dell'essere (assurdo!), ma come ammissione
di un intero in cui ogni ente è salvo ab aeterno, pur apparendo e
scomparendo dallo spettacolo del mondo.
Passiamo ora a considerare quanto riguarda l'incarnazione.
Si può dire che Dio sia eternamente incarnato?
La risposta è sì. Ma occorre precisare bene come al
solito la prospettiva del giudizio.
Se si considera l'incarnazione dalla parte di Dio, si può
dire che Dio è eternamente incarnato.
Infatti, l'incarnazione non è altro che l'assunzione
della natura umana da parte di Dio. Ora l'assunzione è l'azione divina
per la quale la natura umana è unita a Dio; ma l'agire di Dio è Dio
stesso (Dio è il suo stesso agire!). E quindi è eterno tanto quanto Dio.
Perciò l'assunzione della natura umana da parte di Dio,
cioè l'incarnazione, è eterna. Vedendo le cose dalla parte di Dio, si
può dire che Dio e eternamente incarnato.
94
E vero però che Severino solleva anche un'altra obiezione
a proposito della plausibilità del mistero dell'incarnazione.
Questa obiezione riguarda la possibilità dell'unione
ipostatica, cioè dell'unione della natura umana e della natura divina
nell'unica persona del Verbo.
Commentando in modo critico l'argomento tomistico, secondo
il quale la predicazione degli opposti della persona di Cristo implica la
compresenza in Cristo di due nature in un'unica persona, Severino denuncia
l'assurdità del mistero dell'unione ipostatica proprio in base agli
stessi princìpi argomentativi tomistici, che invece vorrebbero mostrarne
la non evidente assurdità.
Di Cristo si dice che è morto e che è immortale. Ora
l'attribuzione di predicati opposti a un medesimo soggetto è
contrad-dittoria, se non interviene una distinzione che indichi rispetti o
riferimenti diversi per quella predicazione.
Per esempio: non si può dire che la stessa mano sia
insieme grande e piccola; ma se si distinguono rispetti o riferimenti
diversi per questa predicazione l'assurdo scompare: la mano è grande
rispetto al dito e piccola rispetto alla gamba.
Allo stesso modo, S. Tommaso sostiene la possibilità
dell'attribuzione di predicati opposti alla medesima persona di Cristo,
perché tale predicazione avviene secondo rispetti o riferimenti diversi,
che tolgono la contraddizione.
Così, Cristo è insieme mortale e immortale: mortale
secondo la natura umana, immortale secondo la natura divina. Perciò in
Cristo si deve ammettere la sussistenza dell'unica persona divina del
Verbo in due nature: quella umana e quella divina.
Ma Severino osserva che i predicati opposti di cui si fa
menzione sono rispettivamente proprietà (cioè predicati
necessari) delle due nature: la natura umana è necessariamente mortale e
la natura divina è necessariamente immortale.
Perciò, l'opposizione tra gli attributi si riversa nelle
rispettive nature, le quali, a loro volta, manifestano così la loro
reciproca opposizione.
In questo senso, le due nature, che nell'argomento
tomistico vengono invocate o introdotte come elementi risolutivi della
95
contraddizione, sono esse stesse contraddittorie o motivo
di contraddizione.
Le due nature «secondo cui gli opposti sono predicati di
Cristo, sono cioè esse stesse degli opposti; ossia i diversi
rispetti o riferimenti - cioè le due diverse nature, Valiud et aliud
secondo cui vengono predicati de eodem gli opposti (proprietà
umane e divine) - sono essi stessi degli opposti e quindi non riescono a
costituirsi come i rispettivi diversi secondo cui vengono predicati
dello stesso gli opposti» (E. seveeino, Pensieri sul cristianesimo,
Milano 1995, p, 229).
Per questo motivo è assurdo dire che lo stesso soggetto
sia insieme uomo e Dio.
Ma mi pare di poter controargomentare osservando che anche
in questo caso esiste un principio che toglie la contraddizione, per
riferimento a rispetti diversi.
Infatti la natura divina viene predicata della persona
divina di Cristo (cioè il Verbo) per identità; la natura umana,
invece, viene attribuita alla medesima persona per assunzione.
La natura divina si identifica con la persona divina; la
natura umana non si identifica con la persona divina. Questo vuoi dire che
l'essere Dio della persona di Cristo, cioè del Verbo, si predica in modo
assolutamente necessario; l'essere uomo, invece, si predica della persona
del Verbo in modo contingente o non assolutamente necessario, perché tale
natura è assunta liberamente da Dio.
Non appartiene alla persona divina il sussistere
necessariamente nella natura umana, mentre appartiene alla stessa persona
il sussistere necessariamente nella natura divina.
Dunque, la predicazione delle due nature della medesima
persona di Cristo, cioè del Verbo, non è secondo il medesimo rispetto,
ma secondo rispetti diversi: il necessario (rispetto a Dio) e il libero
(rispetto alla natura umana).
Che poi, dalla parte di Dio - come ho detto - l'assunzione
libera della natura umana sia eterna come eterno è Dio, non significa che
ciò sia necessario: non è necessario che la natura umana sia eternamente
unita a Dio, anche se di fatto Dio ha eternamente assunto la natura umana.
96
LA CONOSCENZA DI FEDE
Che tormento sentirsi dire: "Beato tè che hai la
fede...". Intendendo per fede la fede cristiana.
Sì, è un tormento! Sembra che la fede sia qualcosa di
pacificante e capace di risolvere tutti i problemi.
Ma se è proprio la fede che solleva problemi e genera
dubbi!
E poi, che cosa sciocca dire "beato tè che hai la
fede": come se la beatitudine consistesse nell'aver fede!
Ma siamo pazzi? La beatitudine è un atto di visione:
beato è colui che vede chiaramente la verità, non chi è all'oscuro.
Del resto, la dottrina cristiana insegna che la
beatitudine promessa è la visione aperta di Dio, quando la fede - con la
sua oscurità - è tolta definitivamente.
Non so proprio se sia più tormentoso, o più sciocco,
quel modo di dire. Ma forse si deve dire che è tormentoso perché è
sciocco. Lo sciocco da sempre fastidio, no?
E si tratta di un fastidio tanto più grave quanto più
importante è l'oggetto che si mette in discussione..
Sai, se si mettessero in ballo cose ridicole, poco
importerebbe: ci si riderebbe sopra. Ma se la posta in gioco è alta, le
cose cambiano.
Nessuno ha piacere ad essere preso per il naso nelle cose
che contano e per le quali si da l'anima.
Così è anche in questo caso. La fede è troppo cruciale
nel suo valore - debitamente inteso. Lo dico sinceramente.
In fin dei conti, aver fede è sempre un atto
dell'intelletto. E l'intelletto è ciò che di più intimo possediamo e
ciò che più intimamente e apertamente ci collega al vero.
97
E vero che la fede suscita problemi, data la sua non
evidenza, ma la fede ha in sé una certezza che sembra oltrepassare l'inevidenza
stessa.
Come si possono conciliare questi due aspetti? Già, anche
questo è un problema tormentoso.
Si può dire che la fede, per il fatto di essere certa ma
relativa all'inevidente, sia assurda? Si può dire che la fede, essendo
certezza di ciò che è dubbio sia contraddittoria?
Se la fede fosse contraddittoria non esisterebbe: quindi
coloro che credono o dicono di credere, in realtà credono di credere.
Questa è la tesi più volte ribadita da Severino.
E la motivazione di questa tesi sta in questa analisi.
La fede che salva non esita (cf. Me 11, 23. 16, 16). Ma
l'esitare è condizione della fede, perché la fede si riferisce al non
evidente, il quale genera l'esitazione tipica del dubbio. Dunque la fede
che salva non esiste (cf. E.
severino, Pensieri sul cristianesimo, cit., pp. 87-100).
Non esiste perché non si da una certezza inesitante
fondata sull'esitazione propria dell'incerto. Si può dare fede solo se
l'oggetto della sua adesione non è evidentemente vero, cioè non carpisce
invincibilmente l'assenso dell'intelletto. Ma se questa è la
condizione dell'oggetto della fede, la sua certezza è dubbia.
Ciò che non è evidente non costringe all'assenso,,
perché potrebbe non essere vero.
L'intelletto è costretto all'assenso solo da una verità
evidente:
immediata o mediata che sia.
Per esempio, l'affermazione che il tutto è superiore alla
parte è un'affermazione immediatamente evidente: non ha bisogno di essere
dimostrata e l'intelletto non può non accettarla, essendo costretto dalla
sua immediata evidenza.
Nello stesso modo, l'affermazione che la somma degli
angoli interni di un triangolo è pari a 180 gradi è una verità
evidente, anche se frutto di una dimostrazione: questa volta è la
dimostrazione che costringe l'intelletto all'assenso.
In entrambi i casi l'evidenza è tale per cui è
impossibile pensare il contrario: significherebbe affermare l'assurdo,
cioè identificare il tutto con la parte e il triangolo con il non
triangolo.
98
Ma la verità cui aderisce la fede non è tale da
presentarsi con l'evidenza di se stessa, immediata o mediata che sia.
Anzi, la verità che è oggetto di fede non si presenta affatto: non è
evidente. Per questo motivo, potrebbe non trattarsi di verità.
Ciò che si accetta per fede, potrebbe essere smentito,
negato, visto che non si presenta con le condizioni della necessaria
costrizione dell'assenso dell'intelletto.
Per esempio, non è evidente che Dio sia unità numerica
di natura e trinità di persone: non è neppure possibile dimostrarlo.
Dunque, accanto a questa affermazione sta sempre la possibilità della sua
negazione, cioè della sua smentita.
Ma un'affermazione che può essere smentita non è certa,
bensì dubbia. Quindi la fede nella trinità implica il dubbio, cioè il
ritenere che sia possibile la non trinità di Dio. Se fosse infatti
evidentemente impossibile la non trinità di Dio, essa sarebbe
immediatamente o mediatamente (cioè dimostrativamente) certa e quindi
indubitabile per l'intelletto.
Il fatto che non sia evidente fa sì che la verità di
fede possa essere negata, smentita: il che testimonia della sua
dubitabilità.
L'intelletto, non costretto all'assenso dall'evidenza, è
dubbioso e tale rimane anche nell'atto di fede.
Perciò la fede si accompagna all'esitazione del dubbio e
non all'inesitazione dell'evidenza.
Ohibò, come rispondere a queste osservazioni critiche?
Certamente non sono banali. E proprio perché non sono
banali ma fondamentali consentono di approfondire in modo più pieno la
stessa nozione di fede per averne una conoscenza più adeguata.
Troppo spesso, infatti, si scambia per fede ciò che fede
non è.
Anzitutto occorre riconoscere che se la fede implica il
dubbio, la fede è certamente un atto intelligente, e quindi non è un
vago sentimentalismo mal riposto.
E un atto intelligente perché problematizza: il dubitare
e porre dei problemi è segno di una certa intelligenza - è ovvio che poi
dipende dal modo con il quale sono posti i problemi e da come si esercita
il dubbio: non basta dire "mah, boh" per
99
dimostrare la propria intelligenza-; il porre problemi non
è segno di pigrizia intellettiva, perché implica la ricérca di una
soluzione.
Proprio in quanto accompagnata dal problema e dal dubbio, la
fede è atto dell'intelletto e si riferisce al vero (se le cose stanno o
non stanno come si dice che stiano), che è l'oggetto proprio
dell'intelletto.
E quindi, da questo punto di vista, l'obiezione potrebbe
essere valutata come un apprezzamento: certo, capovolgendo in senso
positivo l'istanza critica negativa.
Ma l'obiezione vera e propria riguarda il fondamento
incerto della certezza di fede: la fede salvifica dovrebbe escludere il
dubbio, mentre invece non può non convivere con esso.
Credere vuoi dire non vedere; se non si vede e si è
nell'oscurità si dubita: dunque per credere si deve dubitare. Questo vuoi
dire che il dubbio è fondamento della fede.
Tuttavia, mi pare che le cose debbano essere intese in un
altro modo.
Il dubbio è fondamento della fede non nel senso che per
credere bisogna dubitare: se si dubita si dubita, non si crede!
Il dubbio è fondamento della fede nel senso che il
credere è l'oltrepassamento del dubbio: se non si presentasse il dubbio
non si potrebbe neppure dare il suo oltrepassamento.
Il dubbio è la condizione per la quale la fede appare
come oltrepassamento del dubbio. Quando si crede, il dubbio non c'è!
Quando si dubita, la fede non c'è! Non si da simultaneità o identità
formale di fede e dubbio.
Anche la scienza, in questo senso, si fonda sul dubbio,
perché è una soluzione, cioè l'oltrepassamento di un problema, di
qualcosa rispetto al quale si è dubbiosi.
E vero, però, che la scienza, una volta superato il
dubbio in modo incontrovertibile, non è più messa in discussione
dall'intelletto; la fede, invece, può essere messa in discussione.
Si ha fede, si crede perché qualcosa continua a rimanere
per sé inevidente: il che non gratifica l'intelletto che è fatto per
vedere. In questo senso, la fede si accompagna al dubbio.
100
Ma non è la fede che si crogiola nel dubbio, ne è
l'intelletto che nella fede dubita.
L'intelletto, considerando il valore conoscitivo della
fede -cioè valutando la fede per quello che è: un assenso che non è
costretto dall'evidenza della verità -, ne scorge l'incertezza o
problematicità.
L'atto di fede, infatti è un assenso dell'intelletto, che
tende ad oltrepassarsi nell'evidenza. Credere è «cum assensione
cogitare»: accettare meditando (cf. S. tommaso D'AQUINO, Summo
Theologiae,H-}l,2,l).
L'intelletto non può accontentarsi della fede, ma con la
fede, per la fede e nella fede gode di una percezione del reale altrimenti
inattingibile.
Con la fede, nella fede e per la fede, l'intelletto non
gode dell'evidenza obiettiva, ma possiede una certezza soggettiva
equivalente all'evidenza obiettiva.
Per intendere questa affermazione occorre ribaltare lo
schema secondo il quale l'intelletto raggiunge la fede e attraverso la
fede conosce: se la fede non è dell'evidente, l'intelletto rimane
soggettivamente incerto, perché lo strumento di cui si avvale per
conoscere - la fede appunto - è acquistato senza evidenza.
Ma la fede teologale non è un acquisto dell'intelletto.
La fede teologale è un habitus infuso da Dio nell'intelletto
umano. Si tratta di una qualità per la quale divinamente l'intelletto
emette l'atto del credere.
La fede non segue l'atto dell'intelletto, ma lo precede
per infusione: rende così capace l'intelletto di un atto che è
soprannaturale, cioè più divino che umano. In questo senso la fede è
soggettivamente certissima.
La fede teologale è soggettivamente certa perché è la
partecipazione alla stessa conoscenza di Dio. E la conoscenza che Dio ha
di se stesso, partecipata all'intelletto umano.
L'oggetto della fede teologale è la deità, l'essenza
stessa di Dio. Ora soltanto Dio può conoscere essenzialmente Dio.
Il motivo dell'assenso di fede non può dunque essere che
Dio, perché soltanto Dio conosce perfettamente se stesso.
101
Perciò il credere, da questo punto di vista, non può
essere esitante: Dio non esita.
Ma si potrebbe anche aggiungere che la vera fede salvifica
è quella informata, accompagnata dalla carità, che nel suo grado
perfetto implica l'esercizio dei doni dello Spirito Santo.
Ebbene, da questo punto di vista, la fede è a tal punto
connaturalizza all'intelletto - o meglio l'intelletto è a tal punto
connaturalizzato dai doni della scienza, dell'intelletto e della sapienza
ai modi dell'agire divino -, che l'atto di credere diviene qualcosa di
spontaneo, paragonabile a un'intuizione sensibile: quasi una percezione
immediata del concreto.
La fede salvifica è in questo senso inesitante. E la
partecipazione alla conoscenza di Dio; è la conoscenza che Dio ha disé;
è il conoscere dunque le cose dal punto di vista di Dio. '
La fede teologale è conoscere le cose dal puntò di vista
dell'eterno, cioè secondo il loro valore assoluto.
Obiettare che questo discorso è però un discorso di
fede, può ottenere come risposta che, ammesso il punto di vista della
verità dell'essere, questo discorso ha la possibilità della verità e di
porsi come il cuore della stessa verità dell'essere.
Arrivato a questa conclusione, però, devo in qualche modo
ricredermi dell'invettiva scagliata contro la sciocca esclama2Ìone
"beato tè che hai la fede!". Eh sì, perché in fin dei conti
è pròprio vera..; i
Ma forse il ricredermi totalmente sarebbe un errore ancora
più grande.
La fede mi mette a contatto con quel contenuto che è Dio
stesso; la carità e i doni dello Spirito Santo mi connaturalizzano al
modo di conoscere di Dio, come per intuizione. Questa fede è salvifica e
non ha tentennamenti: nel credere, in questo senso, non si esita, perché
è un atto mistico.
Ciò che Gesù dice a riguardo della infallibilità
dell'agire con la fede, nella fede e per la fede va inteso nella linea
della partecipazione alla vita di Dio: «Abbiate fede in Dio! In verità
vi dico:
chi dicesse a questo monte: Levati e gettati nel mare,
senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò
102
gli sarà accordato. Per questo vi dico: tutto quello che
domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà
accordato» (Me 11, 22-24).
La fede formata dalla carità, la fede salvifica, non ha
tentennamenti perché è la partecipazione alla vita di Dio.
Lo spostare le montagne è un'immagine che sta a
indicare propriamente questa condizione: Dio può tutto; nel credere si
può tutto perché questa fede teologale formata dalla carità, cioè
dalla grazia, è la partecipazione alla vita divina.
Sarebbe come dire: chi ha questa fede è Dio; o in lui si
manifesta Dio. Anche se non sposta le montagne!
Ma la fede, considerata nella sua dimensione obiettiva,
cioè di oggetto da credersi, rimane sproporzionata all'intelletto umano.
I contenuti della fede: Trinità, incarnazione, sacramenti
ecc., non sono verità evidenti per l'intelletto dell'uomo. Come tali
suscitano dei problemi nella loro veste - per dir così - teoretica. In
questo senso dico che queste verità di fede non sono soluzione di
problemi ma sollevano problemi.
E si tratta di problemi tutt'altro che di secondaria
qualità per l'intelletto.
Su questi problemi si arrovella la riflessione teologica,
per capire che cosa si deve credere.
Il cristianesimo è più facile da vivere piuttosto che da
comprendere! •
La fede salvifica non da la beatitudine, ma da una
certezza di "Gioia" (nel senso severiniano del termine).
La fede come oggetto del credere senza vedere, invece, è
un sapere che si accompagna al problema e stimola l'intelligenza.
Se "beato tè che hai la fede" vuoi dire, per un
verso, "beato Dio e chi è come lui" e, per un altro verso,
"beato chi trova stimoli intellettuali nel credere", bene: sono
pronto a chiedere scusa per la mia "sciocca" invettiva...
103
LA DIVINIZZAZIONE
Adesso bisogna mettersi in una posizione contemplativa,
come al mare: mani dietro alla testa, occhi chiusi e viso rivolto al
sole... del pensiero.
Si deve cominciare a riflettere sulla natura delia grazia
santificante.
Occorre avere chiaramente presente il discorso fatto sulla
identità-diversità tra Dio e il mondo.
Qual è l'essenza della grazia?
La grazia è la partecipazione alla stessa vita di Dio.
Allora, problemino dei problemini: la grazia santificante
è la partecipazione della creatura ragionevole alla stessa vita di Dio.
Ma non ho provato metafisicamente che si da una presenza di immensità di
Dio in ogni creatura? E che l'essenza della creatura, come co-principio
reale dell'atto d'essere, è la stessa essenza di Dio?
Dio non è già in tutto?
Come si risolve questo problema? Che bisogno c'è di una
partecipazione alla vita divina, se Dio è già presente in ogni cosa?
Dio è presente per immensità in ogni creatura. Quindi,
visto che è incontrovertibilmente vero che Dio è presente per immensità
e per diafania in ogni creatura, come si fa a dire che si da un nuovo modo
di presenza di Dio attraverso la grazia santificante? Visto che il primo
dato - cioè la presenza di immensità e diafania di Dio nel mondo - è
incontrovertibile, cioè non patisce negazione (negarlo vuoi dire
contraddirsi), si sarebbe tentati di supporre che la presenza di grazia in
realtà sia una presenza soltanto per modo di dire e non una realtà.
104
E il modo speciale con il quale si dice che Dio è
presente nelle creature ragionevoli con la grazia sarebbe una pura
denominazione estrinseca, cioè un nome semplicemente attribuito ma non
indicativo di una realtà.
La grazia non sarebbe una qualità e quindi dovremmo dire
che è un modo di dire. Ma se si conclude così, si va contro le esplicite
affermazioni scritturistiche, secondo le quali l'uomo è realmente
deificato (cf. Gv 1,12; 3,5; 1 Gv 3,1. 9; Tt 3,5; Gc
1,18;
mi,23;2pn,4). ,,
Dunque: se si esclude la tesi della presenza metafisica di
Dio nel mondo, si entra in contraddizione; se interpretiamo la grazia in
modo puramente nominale, si negano contenuti esplicitamente rivelati.
Allora, come si devono conciliare le due cose?
La conciliazione non può che essere di ordine
speculativo. Bisogna cioè trovare la soluzione intermedia che renda
ragione, da una parte, della presenza di immensità e di diafania di Dio
in ogni creatura, e, dall'altra, della presenza speciale di Dio, della
vita divina, attraverso la grazia, nella creatura ragionevole.
Si potrebbe risolvere il problema in questo modo.
La presenza di immensità di Dio in ogni creatura è la
presenza della causa dell'essere all'effetto perché l'effetto sia. Questo
è ciò che si deve concludere metafisicamente dal fatto che Dio è
Creatore del mondo: Dio dev'essere presente immanentemente al mondo
conferendogli l'essere, così come io sono presente al mio parlare: se io
smettessi di parlare, il parlare sparirebbe.
Io sono il parlante e l'effetto è il parlare; ma
l'attività del parlare c'è finché continuo a parlare: solo se non
smetto di parlare.
Dio è presente nel mondo, conferendo al mondo l'essere.
Se il mondo ha l'essere è perché lì c'è Dio che gli conferisce
l'essere. Sto parlando con il linguaggio della metafisica tomista. Ma non
si deve pensare questa tesi metafisica in modo immaginoso. Non si deve
pensare che... io sono qui e Dio è accanto a me e mi tiene nell'essere...
no!
Dio, l'essere assoluto, permea tutta l'entità.
105
Si dice che Dio è più intimo a noi di noi stessi perché
Dio, con l'atto creativo, permea ogni creatura.
Dunque, con questo atto creativo,'con questa causalità
d'essere, Dio è presente per immensità in ogni creatura, in quanto
costituisce la creatura. •
Questo, però, non vuoi dire che la presenza d'immensità
di Dio nelle creature divinizzi le creature.
Ho detto che la creatura in senso reduplicativo, cioè in
senso stretto, è essenza più atto d'essere; la presenza d'immensità di
Dio nelle creature dipende dal fatto che questo soggetto essenziale
partecipa dell'atto d'essere e quindi, in quanto partecipa dell'atto
d'essere, è distinto da Dio, perché Dio è lo stesso Essere per sé
sussistente (non per partecipazione).
Quindi, Dio è presente nella creatura per immensità in
quanto conferisce alla creatura questa partecipazione dell'atto d'essere
e, in forza di questa partecipazione, la creatura si distingue dal
Creatore. .
In forza di questa partecipazione Dio non da la vita
divina alla creatura; Dio da alla creatura la vita creaturale, perché in
forza dell'atto d'essere partecipato, la creatura viene costituita come
creatura, cioè altro da Dio.
In questo senso, questa partecipazione dell'atto d'essere
non è la partecipazione della vita divina. , ;
Questo serve già a dire che questa presenza d'immensità
non può essere identificata assolutamente con la presenza di grazia.
D'altra parte, però, si dice che la presenza di grazia è
la presenza della stessa vita di Dio nella creatura ragionevole: questo
vorrà dire che la presenza di grazia non è una presenza che si estenda
ad ogni creatura; è una presenza che si riferisce alla sola creatura
ragionevole.
Questo mi fa capire che, anche dal punto di vista della
grazia, nella sua definizione non c'è una perfetta coincidenza con la
presenza di immensità, perché la presenza d'immensità è determinata
dalla causalità con cui Dio costituisce la creatura, ogni creatura.
106
La presenza di grazia non è riferita a questa causalità
e non si riferisce a tutte le creature, ma alle creature ragionevoli.
Quindi, non si identifica certo semplicemente con la presenza
d'immensità.
Per questo motivo, S. Tommaso dice che la grazia
santificante è un modo speciale con il quale Dio si rende presente nella
creatura ragionevole, oltre a quello di immensità.
Assodato questo, si deve cercar di vedere in che cosa
consista la presenza di grazia, visto che non può essere identica sim-pliciter
con la presenza d'immensità e visto che non può essere una semplice
denominazione estrinseca (Lo ripeto: non è per modo di dire; non si dice
che un uomo ha la grazia perché è gradito a Dio. No, è in grazia
perché ontologicamente partecipa della vita di Dio).
Vediamo un po'. Occorre penetrare questo concetto.
Siccome penetrare un concetto o una tesi, sia in teologia,
sia in filosofìa, vuoi dire porre un problema, allora anche in
quest'altro caso si porrà un problema.
Posto che la presenza di grazia non si identifichi simpliciter
con la presenza d'immensità e che non sia per modum dici; se
realmente la grazia è partecipazione alla vita divina, non di tutte le
creature ma di quelle ragionevoli: come è possibile che la vita divina,
essendo Dio stesso, cioè un sussistente, si comunichi ad altro da sé,
quando il sussistente è incomunicabile per definizione?
Il sussistente è incomunicabile perché è l'individuo.
Si può comunicare qualche cosa che appartiene all'ordine specifico o
universale, ma l'individuo no.
I genitori non si sono comunicati a noi per generarci;
hanno comunicato la natura umana, non la loro individualità.
Io, Giuseppe, non sono ne Carlo, ne Paola. I miei genitori
sono due individui perfettamente distinti tra loro e da me, tanto è vero
che mio papa è morto e io ci sono ancora.
Ciò che mi è stato comunicato è la natura umana, non la
loro individualità: io ho la mia individualità, loro hanno la loro.
L'individuo come tale è incomunicabile.
107
Ora, dire individuo vuoi dire il sussistente. Sussiste la
specie uomo? No. Dov'è la specie uomo? Nell'iperuranio. E dov'è l'i-peruranio?
Nelle teste bacate di quelli che ci credono!
La specie uomo è un universale. Allora io posso dire che
questo è un uomo, quello è un uomo, quell'altro ancora è un uomo,
perché applico una nozione universale a tanti individui. Questo perché
la specie non sussiste, non è un individuo!
L'obiezione che l'aristotelismo rivolgeva al platonismo
può essere espressa così: "Tu ipostatizzi, cioè, rendi individuo
sussistente una specie, cioè un'idea. Ma stai attento perché se
ipostatizzi una specie, non puoi dire che gli individui materiali siano
partecipazione di quell'idea, perché quell'idea è incomunicabile, se è
individuo. Se è comunicabile non è più un individuo, cioè, non è più
nell'iperuranio che vuoi tu. Non è un sussistente ontologico".
L'individuo è incomunicabile.
Ora, Dio è un individuo: metafisicamente è un
sussistente, non è una forma partecipata da individui diversi. Ed è a
tal punto semplice da identificare la propria individualità con tutti i
propri attributi. Per cui Dio è vita? Sì, è la stessa vita divina per
sé sussistente. .
Allora, se la vita in Dio è per sé sussistente (cioè,
è individuo), è impossibile che si comunichi.
Ma ho detto che la grazia santificante è la
partecipazione della vita divina? Questo suppone che vi sia una
comunicazione della vita divina: e ciò è impossibile.
Se la vita divina è per sé sussistente, è anche
incomunicabile. E allora, come la mettiamo?
Soluzione. E vero che l'individuo, il sussistente, è
incomunicabile ontologicamente, ma che lo sia anche ghòseologicamente non
è vero !
Aristotele dice che l'anima, nel conoscere, è in qualche
modo tutte le cose: il che vuoi dire che l'anima è capace di diventare
conoscitivamente il mondo. L'anima diventa tutte le cose conoscitivamente,
non ontologicamente.
Questa capacità di essere l'altro in quanto altro, senza
perdere se stessi, si chiama intenzionalità conoscitiva. Siccome
questa
108
intenzionalità è aperta all'infinito, non si può
escludere che Dio si comunichi intenzionalmente a questa intenzionalità.
Quando si dice che la partecipazione alla vita divina, da
parte della creatura ragionevole, suppone una capacità passiva proprio
dalla parte della creatura ragionevole di ricevere la vita divina, questa
capacità passiva (che in termini tecnici classici si chiama potenza
obbedienziale) non è altro che la spiritualità dell'anima.
Si tratta, cioè, della capacità intenzionale aperta
all'infinito.
Questo vuoi dire che non si può escludere che Dio possa
comunicarsi a questa apertura intenzionale infinita dell'anima
ra-gionevole.
Quindi, quando si dice 'che Dio è presente per presenza
di grazia con la sua vita o che comunica la sua vita alla creatura
ragionevole, si deve intendere questa affermazione in questo senso:
"Dio si comunica in modo nuòvo alla conoscenza e alla affettività
dell'uomo".
Questa partecipazione della grazia di Dio non è uh
prendere un pezzo di Dio. Questa presenza di grazia è una presenza
ontologica, ma presupposta l'intenzionalità. i
Dio non è un sasso. E puro spirito! Quindi, la presenza
ontologica di uno spirito a uno spirito chfe cosa vuoi che sia?:
conoscenza e affettività!
Questo, però, non vuoi dire che la grazia sia solo sul
piano morale. Sul piano morale vorrebbe infatti dire che solo per modo di
dire l'anima è in grazia: essa sarebbe gradita a Dio,-ma Dio non le si
comunicherebbe attraverso la conoscenza e l'affettività. No, questo va
escluso. Dio si comunica realmente alla conoscenza e all'affettività, ma
come conosciuto e come amato:
non si può prendere un pezzo di spirito!
Quindi, è possibile questa comunicazione? Sì. Qual è la
condizione di possibilità, dalla parte della creatura, di ricevere questa
comunicazione della vita .divina? L'intenzionalità del conoscere e
dell'amare. E questa intenzionalità è la potenza obbedienziale. ,
109
Ma come va intesa questa capacità (che è passiva da
parte dell'uomo: potenza obbedienziale) di ricevere la vita divina, che è
infinita?
È il pensiero come atto. L'atto del pensare ha
un'estensione infinita. ; '•
Tu prova a pensare che c'è qualche cosà che non pensi:
la stai pensando! Pensa che il tuo pensiero ha dei limiti: pensando i
limiti li hai già oltrepassati. Non ti ho detto: "Vedrai che tu
conosci tutto, perché non c'è niente che tu non conosca"; no, ti ho
detto che non c'è niente di reale o possibile (l'impossibile, l'assurdo
non è pensabile perché non è, ne può essere) che tu non pensi.
Pensare non vuoi dire conoscere. Ci sono tante cose che
non conosco, però le penso e pensandole so che io non le conosco:
sono ignorante, però le penso.
Ho già riflettuto abbastanza su questo punto.
Dire che l'estensione del pensièro come atto è infinita,
vuoi dire che è capace di Dio. Non lo esige: se lo esigesse, il nostro
pensiero sarebbe Dio; e allora non potrebbe neppure esigerlo, non
sentirebbe il bisogno di conoscere.
Non esige di conoscere Dio, però non si può escludere
che, data la sua (del pensiero come atto) estensione infinita, se a Dio
piace di comunicarsi alla nostra conoscenza e affettività, lo possa fare.
Questo non lo si può escludere.
Quindi, c'è dalla parte dell'uomo una condizione di
possibilità di ricevere la comunicazione della vita divina e quindi di
parteciparne.
Che cos'è questa potenza obbedienziale per la quale, se
Dio vuoi comunicarsi alla creatura ragionevole, può farlo senza che la
creatura scompaia?
Questa condizione è la spiritualità della nostra anima
razionale o, per dirla in termini moderni, l'estensione infinita del
pensiero come atto. Il pensiero, come tale, non ha limiti quanto
all'estensione; quanto alla comprensione sì: mica capiamo tutto noi! Ma
l'estensione è infinita.
110
Quindi Dio può benissimo comunicarsi a questa capacità,
perché non è un'esigenza ma una capacità: essa non esige che Dio si
comunichi, ma non esclude che Dio possa comunicarsi.
Sulla base di questa potenza obbedienziale, che è
l'estensione infinita del pensiero come atto, come attività, è
verifìcato quell'assioma che dice: finitus est capax infiniti in
potentia oboe-dientiali (il finito è capace dell'infinito, per
capacità obbedien-ziale).
Essendo il creatore dell'universo, Dio può benissimo far
sì che le sue creature si modifichino a suo beneplacito, anche
oltrepassando le loro leggi specifiche. Il miracolo è il caso del-l'obbedienza
radicale dell'ordine creaturale a Dio.
Ebbene, nel caso dell'uomo e della partecipazione della
grazia, non si verifica un miracolo, perché ciò che avviene non supera
la capacità naturale passiva dell'uomo, permanendo la sua integra natura.
La natura umana non scompare, ne subisce violenza, perché porta in sé,
per definizione, questa capacità infinita.
La pianta - per esempio - non ha questa capacità; quindi
Dio non può comunicarsi alla pianta in quanto pianta, con la sua vita
divina, ma dovrebbe prima trasformare la pianta in uomo -cioè snaturare
la pianta.
L'uomo e l'angelo, invece, hanno questa capacità o
potenza, perché hanno una conoscenza spirituale, cioè una conoscenza di
pensiero che è estensivamente infinita.
Dunque, dalla parte della creatura ragionevole si da la
condizione di possibilità della partecipazione della vita divina.
Adesso bisogna invece risolvere il problema della
identità della grazia, cioè della vita divina comunicata all'uomo.
Perché dico che occorre risolvere il problema
dell'identità della grazia, cioè della vita divina comunicata all'uomo?
Perché, quando usiamo l'espressione
"comunicazione", è ovvio distinguere un comunicante (Dio), un
comunicato (vita divina) e un recettore di comunicazione (l'uomo).
Ora, pensando metafisicamente questi termini, uno deve
dire: "Devo togliermi dalla testa che questo comunicante sia diverso
dal comunicato, perché ciò che Dio comunica è Dio
Ili
stesso; e devo togliermi dalla testa anche che la
comunicazione all'uomo sia per traslazione, cioè per spostamento locale:
Dio non viaggia...".
Comunicare, per noi, è un passare "da" un punto
"a" un altro, da un luogo a un altro. Ma Dio non passa da un
luogo all'altro. Dio non è localizzato.
E allora, che cosa vuoi dire che Dio comunica la propria
vita divina alla creatura ragionevole, se Dio non è in un luogo per cui
da quel luogo manda la sua vita divina a tè che sei in un altro luogo
rispetto a lui?
Dio è presente per immensità in ogni creatura; ma la
presenza d'immensità non può coincidere con la presenza di grazia sic
et simpliciter. La presenza di grazia è un modo nuovo di presenza di
Dio - tanto è vero che si realizza solo nelle creature ragionevoli -, ma
Dio non può comunicarsi come se venisse dall'altro mondo: da dove
verrebbe?
Vedi che bisogna stare attenti quando si usano queste
parole, perché potremmo essere ancora fuorviati e interpretare in termini
fisici questa partecipazione?
Come si risolve questa seconda faccenda?
Bisognerebbe dire che questa presenza di grazia, con cui
si dice che Dio si comunica alla creatura ragionevole, in realtà c'è
già.
Non è che Dio sia da un'altra parte e poi ti si
comunichi: per la presenza d'immensità, Dio è già lì. Dio non si
aggiunge a Dio!
È vero che la presenza di grazia non si identifica con la
presenza d'immensità, però, prova a pensare: "La presenza di grazia
non dipenderà forse dalla presenza d'immensità?".,. Certo che
dipende!
Se ti chiedi dov'è Dio, tu rispondi che è presente in
tè, nella tua intimità e nella tua intimità più intima. Allora, se ti
dona la grazia, da dove viene questa grazia?
E ovvio che c'è già. Se Dio è già presente, la
presenza di grazia presuppone questa presenza di Dio; presuppone la
presenza d'immensità. Eppure non si identifica con la presenza
d'immensità.
112
Per fare la sintesi speculativa, dunque, occorre mettere
insieme queste idee.
1) La presenza di grazia non si identifica con la presenza
d'immensità, perché abbiamo detto che questa c'è sia nell'uomo sia
nella pianta, però la presenza di grazia si realizza nell'uomo ma non
nella pianta: quindi non si identificano.
2) La presenza di grazia si realizza nell'uomo in forza
della sua capacità intenzionale: è cioè qualcosa che si pone a livello
della conoscenza e dell'affettività spirituali, che hanno una apertura
infinita.
3) Questa comunicazione della vita divina, che è la
grazia, non deve essere intesa nel senso di una traslocazione: Dio
è già presente per immensità.
Dunque, dunque, dunque: per mettere insieme queste tré
idee, uno dovrebbe pensare così. ,
Dio è ontologicamente già presente ovunque.
La presenza di grazia è una presenza a livello
ontologico? Sì, ma si è detto che questa presenza a livello ontologico
è nuova, eppure non deve farci pensare a Dio come a un ente fisico
che tisicamente entra in un altro ente fisico: Dio è spirito e
presuppone, come condizione di comunicabilità, dalla parte dell'uomo, la
spiritualità.
Allora, sta' a vedere che questa presenza di grazia è
tutta in un modo nuovo di conoscere e di amare Dio che già è presente
per immensità in ogni creatura e direttamente nell'uomo.
Solo nella creatura ragionevole è possibile questo
riconoscimento; nella pianta - o in qualsiasi altro ente non dotato di
pensiero, di spirito - non lo è, perché non possiede la condizione di
possibilità.
Il problema si risolve perciò dicendo che la presenza di
grazia, la partecipazione alla vita, divina, si realizza attraverso la
manifestazione alla coscienza dell'uomo - cioè all'intelligenza e
all'affettività dell'uomo - della presenza di immensità di Dio, a modo
di oggetto sperimentabile affettivamente.
Dunque, la grazia santificante è la manifestazione alla
coscienza dell'uomo della presenza d'immensità di Dio, non in
113
quanto presenza di immensità, ma in quanto presenza di
Dio come amico.
Ma Dio, come amico è già presente per immensità, quindi
la grazia santificante è un vedere in modo nuovo la presenza di
immensità di Dio. '
La grazia santificante fa vedere in modo nuovo la presenza
di immensità di Dio. La grazia santificante fa vedere in modo nuovo, non
necessario alla natura dell'uomo, la presenza d'immensità di Dio, non
più come presenza di immensità (cioè presenza per cui Dio costituisce
come creatura la creatura), ma come presenza di amico.
La grazia si dice tale, perché questa
manifestazione non è necessaria perché l'uomo sia uomo.
Non è necessaria perché la creatura sia creatura. La
presenza d'immensità è necessaria perché la creatura sia creatura,
perché l'uomo sia uomo; ma questa manifestazione che ti fa vedere
sperimentalmente che questa presenza d'immensità è la presenza di un
soggetto personale amico, non è necessaria perché l'uomo sia uomo.
Dunque, è gratuita!
Perciò, quest'operazione di chiarificazione di
quell'ombra di Dio, che è l'atto del pensare dell'uomo, la fa
direttamente Dio.
E, rispetto a quest'operazione di rivelazione, l'uomo è
semplicemente passivo. ,
L'atto del pensare, come atto dell'intelletto agente che
è condizione della possibilità dei contenuti conoscibili - giacché
intenziona l'essere e la sua legge di incontraddittorietà -, non esige
per essere tale il suo capovolgimento, così che in esso si presenti
immediatamente l'essere assoluto, cioè Dio. Per sua natura l'atto
dell'intelletto agente, il pensare, con la sua apertura infinita, è fatto
per la presentazione alla conoscenza di contenuti obiettivamente finiti.
Non esige, per essere se stesso, un contenuto obiettivamente infinito.
Quindi, con Giovanni di S. Tommaso (cf. Cursus Theol.,
In I, q. 43, d. 37, a. 3), si deve concludere che la grazia santificante
è la manifestazione della presenza d'immensità di Dio nella
114
creatura ragionevole, non a modo di causa che costituisce
la creaturalità, ma a modo di oggetto sperimentabile affettivamente. Non
per nulla nella vita mistica si avverte la presenza di Dio. Come
stando sdraiati al sole, con gli occhi chiusi, si percepisce attraverso le
palpebre lo splendore invasivo della sua luce, senza vederla direttamente.
nota
II nostro intelletto ha un atto di pensiero che è aperto
all'infinito, ma non ha una comprensione infinita.
Come chiarire questa particolarità?
Occorre fare una distinzione tra oggetto adeguato e
oggetto proprio dell'intelletto umano.
Che cosa si intende per oggetto proprio?
Per oggetto proprio di una facoltà, si intende ciò che
una facoltà considera immediatamente, come specifica determinazione del
suo modo di operare.
Oggetto proprio di una facoltà conoscitiva è ciò che
essa considera direttamente, quale elemento specificativo del suo operare.
Qual è questo oggetto che determina specificamente la
facoltà conoscitiva che è l'intelletto umano, in quanto intelletto
umano? Risposta: è la quiddità, l'essenza delle cose materiali, o
sensibili.
Se dunque l'oggetto proprio dell'intelletto umano è
l'essenza delle cose materiali - cioè i concetti astratti dall'esperienza
sensibile -, è naturale per l'intelletto umano conoscere le cose che non
sono riconducibili all'esperienza sensibile? No!
E l'intelletto umano le può capire? No!
Allora, qual è l'estensione della comprensione
dell'intelletto umano? Fino a dove si può estendere la comprensione
dell'intelletto umano? Si può estendere a tutte le cose che sono
sensibili, cioè quelle che sono oggetto della nostra esperienza
sensibile; e da queste realtà noi astraiamo le nozioni universali.
115
Le cose che non sono oggetto di esperienza sensibile non
rientrano nell'ordine della comprensibilità dell'intelletto umano.
Ora, tutte le cose sono sensibili? No. Questo fatto allora
ci dice che l'intelletto umano - se è capace di comprendere solo le cose
che sono di ordine sensibile - non capisce le cose che sono di ordine non
sensibile. A meno che non ci sia una riducibilità delle nozioni riferite
a realtà puramente spirituali (metasensibili) alle cose sensibili.
Quindi, la capacità di comprensione dell'intellètto
umano si estende ad ogni ente? No ! Si estende soltanto agli enti
sensibili. Tanto è vero che noi possiamo naturalmente parlare di Dio,
amare Dio per riconduzione della nozione di Dio alle realtà sensibili:
l'uomo ha bisogno di essere guidato alla conoscenza e all'amore di Dio
attraverso le cose sensibili (cf. S. tommaso d'aquino, Summa Theologzae,
II-II, 82, 3, ad2).
Che cosa vuoi dire? Vuoi dire che l'uomo conosce e ama Dio
conoscendo e amando le cose sensibili. Perché? Perché l'oggetto proprio
dell'intelletto umano è l'essenza astratta dalle cose sensibili: quindi,
se esistono cose non sensibili, l'uomo non le capisce, perché non sono
proporzionate alla sua intelligenza.
Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu.
Non c'è niente nell'intelletto che prima non sia stato nella nostra
sensibilità.
E quando parliamo anche delle cose più spirituali,
abbiamo sempre bisogno di fare degli esempi sensibili, perché il nostro
intelletto funziona così.
Ma c'è anche un oggetto adeguato all'intelletto, in
quanto intelletto (sia angelico, umano o divino).
L'oggetto adeguato all'intelletto in quanto intelletto è
l'ente.
Noi pensiamo l'ente.
L'ente, ciò che è, è forse soltanto sensibile? No.
L'ente è l'ente: che sia sensibile o metasensibile, l'ente è ente.
E c'è qualcosa che cada al di fuori dell'ente? Sì. Il
non ente, cioè niente: niente cade al di fuori dell'ente.
Dunque, se l'intelletto in quanto intelletto intenziona
l'ente, vuoi dire che intenziona tutto.
116
Non c'è niente che l'intelletto in quanto intelletto - e
quindi l'intelletto umano in quanto intelletto - non possa pensare.
Questo intendo dire parlando del pensiero come atto e
della sua estensione infinita.
Quanto all'oggetto proprio, parliamo di comprensione. Che
cosa può comprendere l'intelletto umano? Tutto? No, soltanto quelle
nozioni astratte dall'esperienza; e siccome non tutta la realtà è
esperibile, l'intelletto umano non capisce tutto.
Ma l'oggetto adeguato dell'intelletto umano in quanto
intelletto è l'ente.
C'è qualcosa che sia estraneo all'ente? Niente! Quindi,
tutto rientra nell'ente. Se l'intelletto umano intenziona l'ente, ciò
vuoi dire che ha un'estensione pari all'ente: non c'è niente che non
possa rientrare nella pensabilità da parte dell'intelletto.
Ma questo non vuoi dire che l'intelletto capisca tutto.
Quindi, non c'è pericolo di idealismo. Dire che tutto
rientra nel pensiero, perché fuori del pensiero non c'è nulla - essendo
il pensiero pensiero dell'essere-, non è idealismo.
Questo lo dico sempre ed è una delle affermazioni
filosofi-che più importanti. Che difficoltà c'è?
Un conto è dire che non c'è niente fuori del pensiero,
perché il pensiero ha una intenzionalità infinita - dovuta al suo
oggetto adeguato, che è l'ente - e un conto è dire che non c'è niente
fuori del pensiero, perché il pensiero produce l'essere.
L'idealismo sostiene la produttività del pensiero
rispetto all'essere.
Questa produttività non consta. Ciò che consta è
l'identità intenzionale di pensiero e essere, di pensiero e tutto.
In questo ambiente nasce il soliloquio sul divino.
117
L'ESPERIENZA DI GRAZIA
L'esperienza di grazia non è un semplice riconoscimento
della coscienza, per cui basta concentrarsi e uno vede la presenza
d'immensità. Non ho detto questo !
Non voglio che quello che ho detto sia confuso con certi
me-ditazionismi trascendentali... Non sto dicendo che basta che ci si
concentri e con la meditazione trascendentale si raggiunge DÌO.'
Questa manifestazione è operata da Dio: quindi è
assolutamente gratuita.
E poi non può essere confusa con la conoscenza teoretica
che abbiamo di Dio. La conoscenza e l'amore di Dio non sono forse già
possibili nell'ordine naturale? Sì !
Del resto, un conto è la conoscenza teoretica di Dio,
anche sul piano di una semplice immediatezza di senso comune, per cui si
ammette Dio per l'ordine che si trova nel mondo. Questa affermazione non
è un'affermazione di grazia, è un'affermazione di intelletto, di senso
comune.
E S. Tommaso dice che anche l'amore di Dio sopra ogni cosa
è nell'ordine naturale - seppure in modo implicito -, perché ogni
creatura, ogni realtà ama, desidera la propria perfezione. Ognuno di noi
desidera essere perfetto, anche se non lo si dice tematicamente.
Ognuno di noi desidera la propria felicità e, se la
desidera, vuoi dire che ancora non ce l'ha. E in che cosa consiste la
felicità? Consiste nel possedere quel bene o quel complesso di beni che
si suppone ti rendano felice. Se li desideri, vuoi dire che non li hai; ma
se supponi che il loro possesso ti renda felice, vuoi dire che ti sono
proporzionati: a tal punto che, se li possedessi, ti sentiresti
realizzato.
118
Dove trovi questi beni? In qualche cosa che pensi essere
superiore a tè, ma in qualche modo conforme alla tua natura. Io non
desidero avere la testa d'acciaio, perché non mi servirebbe a nulla. Se
l'avessi, non potrei neppure pensare: sai quanto mi interessa?!
Desidero qualcosa che sia conforme alla mia natura.
Perciò penso che questo complesso di beni, che io non ho, si trovino
nella causa che mi ha creato. Quindi amo più la causa creatrice, Dio, di
quanto ami me stesso.
Se tutto questo avviene naturalmente, è impossibile che
io vada a pensare che la conoscenza naturale e l'amore naturale di Dio
possano essere confusi con la conoscenza e l'amore soprannaturali, cioè
dovuti alla grazia.
C'è una bella differenza tra la conoscenza teoretica di
Dio e la conoscenza sperimentale di Dio, che è dovuta alla grazia.
La presenza di immensità la riconosco teoreticamente, ma
non ne faccio esperienza; la presenza di amicizia, invece, la riconosco in
forza di una manifestazione soprannaturale.
Ecco, per fare un esempio, l'esperienza della mia
animazione è una conoscenza diversa della mia anima da quella che io
posso averne, invece, a livello teoretico - come quando dico che vivo in
forza della mia anima, che è l'unica forma sostanziale del mio corpo.
In questo senso, la conoscenza della presenza d'immensità
di Dio in tutte le cose e anche in me è posseduta soltanto in modo
teoretico: bisogna dimostrarla; non è che la si percepisca.
Quindi, non si tratta di un'esperienza.
Allora, se la presenza d'immensità si presenta a modo di
esperienza, tale modalità non è nell'ordine naturale: quindi è frutto
di una rivelazione soprannaturale.
Bellissimo e veramente significativo quel passo del
profeta Isaia (25, 7) dove si legge: «Egli strapperà su questo monte il
velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte
le genti».
Che cosa vuoi dire? Questa è l'essenza!
119
Dio non aggiunge qualcosa: no ! Dio toglie il velo
agli occhi dei popoli. Che cosa si vede? La presenza di Dio!
Ecco: l'essenza del cristianesimo è una rivelazione, non
un'aggiunta.
Ma la grazia, si dice, è un accidente che si aggiunge
alla natura dell'uomo!
Ebbene, la grazia santificante va intesa in due modi.
a) Se la si intende come accidente che si aggiunge alla
natura umana - cioè come qualità che si aggiunge all'essenza dell'anima
razionale -, la grazia è l'azione disvelativa da parte di Dio. E l'azione
con la quale Dio, in modo assolutamente gratuito, si rivela in modo
permanente: è l'azione divina di permanente disvelamento di Dio.
b) Ma che cos'è per essenza la grazia? È la vita divina.
E dove si trova la vita divina? Su Marte? No!
Per presenza d'immensità, Dio è presente in ogni
creatura:
quindi l'essenza della grazia è la vita divina resa
sperimentalmente conoscibile e amabile per l'uomo attraverso l'azione
rive-lativa gratuita di Dio.
Quindi, bisogna distinguere due cose nella grazia: a) il
modo di essere della grazia e b) l'essenza della grazia.
Quanto al modo di essere, la grazia è un accidente. Il
suo modo di essere è un accidente e l'accidente si aggiunge all'essenza
dell'anima e inerisce all'essenza dell'anima.
Ma questo accidente è soltanto l'aggiunta dell'azione con
la quale Dio toglie il velo, rivela!
Togliendo il velo, che cosa manifesta?
Manifesta l'essenza della grazia, che è la vita divina e
la vita divina già presente nell'anima dell'uomo.
Dio non si aggiunge a Dio!
nota
Soltanto Dio può capire se stesso. La sua comprensione da
parte di altri deve passare attraverso una mediazione che sia
120
proporzionata a un intelletto non divino. Per questo
motivo dico che la prima rivelazione è il mondo.
Siccome rivelare vuoi dire manifestare, Dio manifesta se
stesso nel mondo: sia nel senso che il mondo è lo specchio di Dio, sia
nel senso per cui Dio manifesta se stesso nel mondo perché il mondo,
nella sua essenza, è la trasparenza di Dio, è la diafania di Dio.
L'esperienza di grazia, dunque, se è la manifestazione da
parte di Dio della sua presenza di immensità e di diafania nel mondo, a
modo di oggetto sperimentabile, porta a percepire Dio nel mondo: nella e
attraverso la stessa essenza del mondo.
La grande mistica Angela da Foligno arrivava a dire:
«Tutto è pieno del Verbo». Vedeva il Verbo ovunque. Eppure, una pianta
non è il Verbo, io non sono il Verbo, questo foglio non è il Verbo... Ma
l'esperienza mistica porta a questa diagnosi percettiva,
Non ho detto che la grazia sia soltanto una presa di
coscienza! Perché se per presa di coscienza si intende che con una mia
riflessione io riesco a percepire sperimentalmente, immediatamente, la
presenza di Dio, questo non è vero.
Se in forza della mia autoriflessione arrivassi a
percepire la presenza di Dio, sarei Dio. Soltanto Dio comprende Dio!
Ma se il percepire esperienzialmente Dio è frutto di
grazia, questo non vuoi dire che sia presa di coscienza per
autoriflessione: sarà presa di coscienza perché, per puro dono divino,
mi si manifesta qualcosa la cui manifestazione a me non è dovuta. Non
sono fatto per percepirla da me; riesco a percepirla perché Dio me la fa
percepire.
Questo vuoi dire che è frutto di grazia. In un duplice
senso:
sia perché è assolutamente gratuito - non è dovuto alla
natura -e poi perché la grazia, nella sua essenza, è la vita stessa di
Dio.
Per questo c'è identità sostanziale tra presenza
d'immensità e presenza di grazia; mentre c'è distinzione quanto al modo,
perché la presenza di grazia è un modo nuovo, operato direttamente da
Dio - non necessario al costituirsi della creatura - di conoscere la
presenza di immensità.
121
Bisogna fare la sintesi fra queste due còse:
l'identità-diversità tra Dio e mondo e la presenza di grazia
santificante, come condizione di esperienza della identità.
Si deve anche riflettere su un altro aspetto.
C'è una specie di incongruenza tra il dire che la grazia
è un accidente che inerisce all'essenza dell'anima umana - e in quanto
accidente è finita -, e il dire che, essendo la vita stessa di Dio, è
infinita.
La grazia sarebbe insieme finita e infinita:
contraddizione.
No, non c'è contraddizione, perché un conto è il modo
di essere, un conto è l'essenza.
Quanto al modo di essere, la grazia è un accidente,
finito, che inerisce all'essenza dell'anima eia si può pensare come
un'aggiunta, come si è detto.
La grazia, come accidente finito, è semplicemente
l'azione gratuita - non necessaria per la natura - di Dio che si rivela, a
livello incipiente.
Ma se considero l'essenza della grazia, essendo la grazia
la vita stessa di Dio, non può che essere infinita.
Dunque, quanto al modo di essere è finita e quanto
all'essenza è infinita.
L'essenza infinita della grazia ha come suo presupposto di
possibilità, dalla parte dell'uomo, la potenza obbedienziale, cioè
l'estensione infinita del pensiero come atto - o, per dirla in termini
tomistici, l'intelletto che intenziona atematicamente l'ente, al di fuori
del quale non c'è nulla e quindi ha un'estensione infinita.
Come accidente, invece, la grazia è qualcosa di finito; e
questo qualcosa di finito si aggiunge all'essenza dell'anima umana perché
è l'operazióne divina con la quale Dio toglie il velo. È l'aiuto non
dovuto, gratuito, col quale Dio toglie il velo e manifesta la sua presenza
di vita infinita.
Non ho detto che l'azione della grazia sia finita, ho
detto che la grazia santificante, quanto al suo modo di essere, è un
accidente e, come accidente, è finita e quindi si aggiunge all'essenza
dell'anima.
122
Ma questa aggiunta all'essenza dell'anima dipende dal
fatto che si tratta dell'azione di Dio!
Vediamo un esempio per intendere bene questa cosa.
Il processo della giustificazione o santificazione^
o divinizzazione (sono termini concettualmente equivalenti) è il
processo per il quale Dio infonde la grazia.
Quando un uomo è giustificato, santificato, divinizzato?
Quando possiede la grazia santificante.
La grazia santificante, nel processo della giustificazione
-cioè nel processo per il quale uno viene divinizzato - è infusa
all'inizio del processo o al termine del processo?
Certo, quando uno pensa all'espressione "è
giustificato", intende ovviamente il termine del processo: la grazia
sembra infusa alla fine.
E allora, prima, all'inizio che cosa c'è, se al termine
del processo è donata la grazia?
Si risponderà: una predisposizione.
Va bene. Ma questa predisposizione da chi dipende, da chi
è operata?
Dalla grazia! Perché la natura, la capacità dell'anima
razionale è obbedienzialmente passiva: non può predisporsi
attivamente a ciò che la supera. Se si disponesse attivamente ne sarebbe
attivamente capace e allora sarebbe una capacità esattiva: se la
natura potesse esigere la grazia, cioè la vita divina, avrebbe una
capacità divina, cioè si negherebbe come semplice recettore.
Non ci si può preparare attivamente a ricevere ciò che
ci è sproporzionato: l'attività di preparazione sarebbe proporzionata
allo sproporzionato, il quale non sarebbe più tale...
Non resta che ammettere, dunque, che è lo stesso
sproporzionato che proporziona a sé il soggetto che lo può ricevere,
avendone questi una capacità passiva semplicemente obbedien-ziale.
Si deve dunque concludere che è la stessa grazia che
predispone l'anima razionale a riceverla.
Perciò, la grazia santificante non è infusa alla fine,
ma all'inizio del processo della divinizzazione.
123
Nel processo della giustificazione o divinizzazione, è la
medesima grazia che, all'inizio, viene infusa a modo di azione attuale da
parte di Dio, e al termine viene posseduta abitualmente.
Per questo dico che, all'inizio, la grazia è l'atto con
il quale Dio opera sull'anima. Al termine di quest'operazione, l'anima si
dice giustificata o divinizzata.
Quindi, la grazia santificante (quella che giustifica, che
manifesta la presenza di Dio come vita divina partecipata, relazione di
amicizia con Dio, presupposta la presenza di Dio per immensità ecc.) non
è qualcosa di diverso dalla grazia come azione iniziale che da origine al
processo di giustificazione.
E la stessa grazia che è ricevuta originariamente come
atto e terminalmente è posseduta come abito.
Vediamo di fare un esempio.
Per incendiare della legna verde occorre che il fuoco ne
asciughi prima gli umori, così che, una volta rinsecchita, la legna sia
capace di ricevere il fuoco e di incendiarsi.
Il fuoco che adesso arde in quella legna, che prima era
verde, è lo stesso fuoco che ha presieduto al suo essiccamento.
Allo stesso modo, la grazia che si dice attualmente
operante sull'anima dell'uomo perché è l'azione di Dio che manifesta, è
la medesima grazia che poi si dice presente abitualmente nell'uomo perché
è il manifestato.
Sempre allo stesso modo e nello stesso senso, è il fuoco
che predispone la legna alla ricezione di se stesso, così come è la
stessa grazia che predispone l'anima razionale a riceverla.
124
I GRADI DELL'ESPERIENZA DI GRAZIA
La grazia fa sì che si disveli alla coscienza dell'uomo
la presenza d'immensità di Dio a modo di amicizia.
Bene. Ma se si tratta di un modo di amicizia lo si
dovrebbe sentire, lo si dovrebbe avvertire. Se è una presenza fruibile,
spe-rimentabile, la si dovrebbe sperimentare.
Nella teologia classica, la grazia santificante viene
descritta come una partecipazione fisica della vita divina. Fisica,
perché sperimentabile, non nel senso che se ne prenda un pezzo (Dio non
può essere fatto a pezzetti...).
L'aggettivo fisico va qui inteso come contrapposto amorale.
Fisico si contrappone a morale come sperimentabile si
contrappone a ciò che è per modo di dire.
E se uno non sperimenta la presenza di amicizia di Dio,
vuoi dire che non ha la grazia?
Dunque, dunque, dunque, vediamo un po' còme risolvere
questo problema.
Senti un po'. Abbiamo detto che la grazia santificante ha
un aspetto finito e un aspetto infinito'.
L'aspetto infinito è quello essenziale, perché è la
vita stessa di Dio. L'aspetto finito, invece, è il suo modo di essere: un
accidente che inerisce all'essenza dell'anima razionale.
Questo accidente è un habitus. Si tratta cioè di
una qualità in forza della quale il soggetto si trova disposto in un
certo modo in se stesso e nel suo operare.
Quando questa disposizione non fa altro che determinare la
condizione del soggetto in se stesso, si dice abito entitativo (perché
riguarda l'entità, l'essere e non l'operare: per esempio la salute, la
bellezza, il vigore sono abiti entitativi).
125
Quando, invece, dispone le facoltà operative secondo il
loro agire si chiama operativo (per esempio, la scienza è un abito
operativo dell'intelletto speculativo; la prudenza è un abito operativo
dell'intelletto pratico; la giustizia è un abito operativo della
volontà. E così via per tutte le altre virtù...).
La grazia santificante, rendendoci partecipi della natura
divina, è un abito entitativo: cioè ci da la natura di Dio.
Ora, è vero che quanto alla sua essenza è infinita - è
la stessa vita di Dio - ma quanto al suo modo di essere è finita: è'un
accidente, che inerisce all'essenza dell'anima, è un abito.
Da questo punto di vista, la grazia santificante è
qualcosa di creato - o meglio di concreato: è ciò per cui l'uomo è una
creatura nuova.
Ebbene, da questo punto di vista - quello della sua
finitezza -la grazia santificante è immediatamente operativa?
Risposta: no! Non può essere immediatamente operativa
perché soltanto Dio è immediatamente operativo.
Soltanto Dio è, infatti, il suo stesso operare.
Dire che un soggetto è immediatamente operativo vuoi dire
che agisce in forza del suo stesso essere, non in forza di facoltà
operative. Soltanto Dio è il suo operare: la sostanza di Dio è la sua
operazione,
Dio è volere, Dio è vivere, Dio è pensare. Non si
dovrebbe dire che Dio ha il volere, che Dio ha la vita, che Dio ha il
pensiero, anche se usualmente parliamo del volere di Dio, della vita di
Dio, del pensiero di Dio, come se Dio fosse un soggetto diverso dal suo
pensare, dal suo volere, dal suo vivere. Questo è dovuto al nostro modo
di esprimerci dipendente dal fatto che la nostra conoscenza ha per oggetto
proprio le nozioni astratte dai dati sensibili. Tutti i nostri concetti e
i modi espressivi dei concetti sono plasmati su questa realtà. Usiamo il
concreto per indicare il sussistente - per es. uomo è il soggetto della
natura umana, che non è l'uomo - e l'astratto per indicare la forma per
cui il sussistente ha quella determinata natura - per es. umanità è ciò
per cui l'uomo è uomo, ma non è l'uomo in concreto -;
usiamo il verbo per indicare l'operare. In Dio non si da
distin-
126
zione tra soggetto e forma o natura, e neppure tra
soggetto e operare; ma per il nostro modo di concettualizzare e di
esprimerci, lo trattiamo grammaticalmente come se fosse una
creatura, cioè un composto.
Io parlo, ma non sono il parlare e neppure il mio parlare.
Io non mi risolvo nel mio parlare. Dio, invece, si risolve nella sua
operazione e l'operare di Dio si risolve nell'essere di Dio.
Dio è semplicissimo, non è un soggetto che agisce, è un
sog-getto-operazione. L'essere di Dio è il suo pensare, è il suo volere,
è il suo vivere, per assoluta identità.
Questo vuoi dire che è immediatamente operativo, cioà
non agisce per mezzo d'altro, per mezzo di facoltà operative: non ha
facoltà perché è esso stesso operare sussistente.
Ora, se si da un soggetto che non si identifica con il suo
operare, tale soggetto non sarà immediatamente operativo. Se c'è un
soggetto che non è le sue operazioni, se agisce, agirà in forza di
qualcosa di diverso dal suo essere (se agisse in forza del suo essere si
identificherebbe con il suo operare).
Se agissimo in forza del nostro essere, noi ci
identificheremmo con il nostro operare. Ma noi non operiamo in forza del
nostro essere. Noi possiamo essere e non operare: per esempio, io sono qui
e sto zitto; vedi che il mio parlare non coincide con il mio essere.
Questo vuoi dire che non c'è identità tra essere e operare.
Noi operiamo non in forza del nostro essere, ma in forza
di qualcosa di aggiunto, cioè delle facoltà operative.
Dunque, la domanda era: è possibile che la grazia
santificante, come accidente entitativo, sia immediatamente operativa?
La risposta è no. No, perché l'unico soggetto
immediatamente operativo è Dio; tutto ciò che è diverso da Dio non è
immediatamente operativo.
Quindi, la grazia santificante, sebbene si identifichi,
quanto all'essenza, con Dio, quanto al modo di essere è un accidente che
inerisce all'essenza dell'anima razionale. Secondo questo aspetto, la
grazia santificante non è immediatamente operativa, perché si distingue
da Dio: Dio non è accidente, non ha un modo accidentale di essere.
127
Se è distinta da Dio, il suo operare non si identifica
con il suo essere: quindi la grazia santificante non è immediatamente
operativa.
E allora attraverso quali - chiamiamole così - facoltà
può operare? Quali sono le facoltà operative della grazia?
Sono le virtù infuse. Virtù teologali e virtù morali
infuse:
questo sono le quasi-facoltà operative della grazia
santificante.
Se la grazia santificante rende sperimentabile la presenza
di Dio come amico, perché non lo si sente, non lo si vede?
Ma sì che lo si vede! Lo si vede attraverso la
quasi-facoltà operativa della fede, che presiede alla conoscenza di
grazia.
In forza della fede non si vede propriamente, ma si
conosce in modo nuovo, soprannaturale, Dio in se stesso.
E sulla base della fede - che si possiede in forza della
grazia -che conosciamo in modo nuovo Dio.
Quindi, Dio si rende presente, in modo nuovo, alla
conoscenza dell'uomo attraverso la grazia, in forza dell'operazione della
fede teologale.
Allo stesso modo, Dio si rende presente, in modo nuovo,
attraverso la grazia, all'affettività dell'uomo, in forza della carità
teologale.
Occorre, dunque, analizzare queste quasi-facoltà
operative della grazia santificante per vedere più da vicino come e in
che misura esse consentano l'esperienza di Dio.
Anzitutto bisogna chiarire perché sono quasi-facoltà
operative e non facoltà in senso stretto.
Non si deve confondere la grazia con un altro essere
cosciente che è in noi e che agisce in noi. La grazia non rende
biperso-naii.
La grazia è una qualità che inerisce all'essenza della
nostra anima, quindi la sua sostanza personale siamo noi. Le sue facoltà
operative sono le nostre facoltà operative.
Come non si da grazia santificante senza l'essenza
dell'anima razionale, così non si danno fede, speranza, carità,
prudenza, fortezza, giustizia e temperanza infuse, senza le facoltà
operative della nostra anima.
128
Quindi la fede presuppone la grazia, ma presuppone
soprattutto l'intelletto, perché se uno non ha l'intelletto non può
emettere l'atto di fede.
Perciò, le vere facoltà operative sono l'intelletto, la
volontà e gli appetiti sensitivi - per quanto concerne le virtù morali
infuse.
La grazia santificante, se agisce attraverso la fede, la
speranza, la carità e le virtù morali infuse, si dice che agisce
attraverso queste virtù, in forza delle facoltà operative dell'anima -
così come si dice che da una natura nuova all'uomo in forza della sua
inesione all'essenza dell'anima.
Se non ci fosse l'anima razionale, la grazia santificante
non si darebbe e, conseguentemente, non si darebbero la fede, la speranza
e la carità se non ci fossero l'intelletto e la volontà.
Siccome la grazia santificante ci rende partecipi della
natura di Dio, allora anche l'operare, in forza della grazia santificante,
dovrà essere divino.
Quindi, le facoltà operative dell'uomo, dell'anima
razionale -intelletto, volontà, appetiti sensitivi - dovranno
connaturalizzarsi a questa dinamica.
In che modo si connaturalizzano? Attraverso le virtù
infuse, che sono quindi le quasi-facoltà operative della grazia
santificante.
Non si può dire che la fede sia l'intelletto della
grazia; che la carità ne sia la volontà ecc., perché la grazia non ha
ne intelletto ne volontà: la grazia non è una sostanza, è un accidente.
Come agisce la grazia? Sì, agisce,attraverso la fede, la
speranza e la carità, supponendo, però, le facoltà operative dell'anima
razionale - così come suppone l'essenza dell'anima.
Quindi, come agisce la grazia attraverso la fede?
Esercitando atti intellettivi di fede.
Come agisce la grazia attraverso la carità?
Esercitando atti volontari di carità.
Quindi, se non c'è l'intelletto, se non c'è la volontà,
la grazia non può emanare le sue quasi-facoltà operative (in questo
caso, la fede e la carità).
129
In questo senso parlo di quasi-facoltà operative, per
togliere di mezzo il dualismo per cui si immaginerebbe dentro di noi un
esserino che si chiama grazia, che conosce con la fede, ama con la carità
e così via.
No, siamo noi ad agire.
Non è la grazia santificante che agisce con l'intelletto,
è l'anima razionale che agisce con l'intelletto; non è la grazia
santificante che agisce con la volontà, è l'anima razionale che agisce
con la volontà.
Allora la grazia santificante come agisce? Muovendo
l'intelletto come intelletto e la volontà come volontà?
No. Muove l'intelletto, muove la volontà - come muove gli
altri appetiti - ma in forza di una disposizione soprannaturale.
Per questo dico che la grazia ha le sue quasi-facoltà
operative, cioè ciò per cui vengono informate, qualificate,
soprannaturalmente anche le facoltà operative dell'anima e non solo
l'essenza dell'anima.
Con la fede, la grazia informa l'intelletto; con la
carità e la speranza, informa la volontà; con la virtù morale infusa
della giustizia, informa ancora la volontà; con la temperanza infusa,
informa l'appetito sensitivo concupiscibile; con la fortezza infusa,
informa l'appetito sensitivo irascibile.
In forza di queste sue prime attuazioni Operative, la
grazia santificante da forma soprannaturale alle facoltà operative
dell'anima razionale.
Da questo discende, come conclusione, che se la grazia
santificante consente questo nuovo modo di conoscere Dio, questa presenza
nuova di Dio al conoscere umano avviene attraverso la fede.
Non vedo Dio: ma con la fede lo conosco per speculum et
in aenigmate.
Almeno in questo primo grado (perché bisogna distinguere
diversi gradi e misure di questa realizzazione della presenza della vita
divina in noi), uno non sente "ne caldo ne freddo". Con la fede
recita con convinzione il credo e dice: "Credo in un solo Dio, Padre
onnipotente..."; ma non sente un particolare trasporto, "non
sente ne caldo ne freddo".
130
Quindi, con la fede non senti niente: conosci ciò che Dio
conosce.
Il modo nuovo è relativo al contenuto: tu sai che Dio è
Uno e Trino. Chi lo sa prima di tè? Dio! Allora sei ammesso alla
conoscenza di ciò che solo Dio conosce di Dio.
Vedi che è un modo nuovo di conoscere Dio? Sì, quanto al
contenuto. In forza della grazia, attraverso la fede, tu hai un modo nuovo
di presenza conoscitiva di Dio.
Ma la fede - restando per adesso sul piano della
conoscenza -è il primo grado in cui si rende presente, in modo nuovo, al
conoscere umano la vita divina, perché la fede non è il grado ultimo di
questa conoscenza per grazia.
Con la visione beatifica, la fede viene spazzata via.
La visione beatifica è ancora conseguenza della grazia.
Con il lumen gloriae - l'habitus che scalza la fede
teologale e consente la visione immediata di Dio, che chiamiamo paradiso
-otteniamo il grado massimo della conoscenza di Dio: sperimentiamo Dio
vedendolo chiaramente.
Il grado minimo di questa conoscenza è la fede.
Con la fede, noi abbiamo il medesimo contenuto di
conoscenza della gloria, cioè della visione beatifica.
Che cosa cambia? Cambia soltanto il modo con il quale
questo contenuto è avvertito. Nella fede, in realtà, non è avvertito,
non hai un'esperienza vitale di ciò che conosci, di ciò che è Dio -che
pure ti si rivela.
Nella gloria (cioè nella visione beatifica), invece, tu
vedi chiaramente Dio: vedi chiaramente ciò che prima non vedevi.
Il "ciò-che" rimane uguale, identico: "ciò-che"
credi e "ciò-che" vedi sunt idem; ma un conto è credere
e un conto è vedere.
Il cambiamento sta nel passare dal non-vedere al vedere,
non nel passare da un contenuto a un altro: il contenuto è sempre uguale,
II contenuto della fede e il contenuto della visione sono
identici: Dio in se stesso, la Deità.
La definizione della grazia come manifestazione della
presenza d'immensità di Dio a modo di amicizia sperimentabile, dove ha la
sua piena espansione? Nella visione beatifica.
131
Dove ha la sua anticipazione? Nella fede teologale.
Qualcosa del genere va detto anche a riguardo della
carità.
Che cosa fa la carità?
La carità è la prima attivazione operativa della grazia
santificante quanto alla volontà, quanto all'amore.
In forza della carità teologale, noi amiamo ciò che Dio
ama.
Che differenza c'è tra la carità e la fede?
Si può dire che esista, anche nel caso della carità, un
grado diverso tra la carità dell'uomo viatore e la carità del
comprenso-re - cioè del beato del paradiso?
Si può dire che si da un grado diverso nel nostro attuale
amore di carità rispetto al nostro medesimo amore di carità in paradiso
- cioè nella visone beatifica -, come si da un grado diverso tra la
nostra fede e la visone beatifica (non quanto al contenuto, ma quanto al
modo di non-vedere e vedere)?
Nel caso della carità non c'è un grado diverso.
La medesima carità che abbiamo nella condizione della
fede, l'abbiamo nella condizione della visione.
Il medesimo grado di intensità di amore che esercitiamo
ora è il grado di intensità d'amore che è sperimentato in paradiso.
Nel caso della carità, l'identità permane
sostanzialmente e modalmente. Per questo la carità si dice superiore alla
fede: perché ha una vitalità tale da permanere in paradiso, mentre la
fede in paradiso non c'è più.
Per questo motivo, si dovrebbe dire "beato tè che
hai la carità" e non "beato tè che hai la fede": è la
carità che identifica sostanzialmente e modalmente il "cielo" e
la "terra",
La carità è identica al-di-qua e al-di-là, per cui, in
forza della carità, non c'è ne al-di-qua ne al-di-là. ,
In forza della carità - che è identica di qua e di là,
in questa vita e nell'altra, nella presente e nella futura, su questa
terra e in paradiso - non c'è ne questa terra ne paradiso, ne presente ne
futuro.
Quindi, in forza della carità, il paradiso è già qui.
Siccome l'affetto e il conoscere non sono la stessa còsa,
tu non vedi questa identità, perché sei nella fede. Ma in forza della
gloria - del lumen gloriae - tu vedi questa identità.
132
Con la fede non la vedi; non vedi che sei già in paradiso
con la grazia: lo devi credere, ma non lo vedi che ci sei già. Con la
gloria lo vedi che ci sei.
Ma, di fatto, adesso, anche nel regime della fede, ci sei
o non ci sei?
Sì, ci sei: con la carità ci sei già, perché è
identica sia qui che in paradiso.
In forza della carità, il paradiso è già qui. Uguale è
anche l'intensità.
La fede non è la piena manifestazione, la piena
esperienza di Dio; è l'inizio della manifestazione.
Un conto è vedere e un conto è non-vedere. Un conto è
sapere non-vedendo e un conto è sapere vedendo.
La fede è nel regime del non-vedere; la visione beatifica
è nel regime del vedere.
La differenza, poi, tra la carità e la fede è questa.
Mentre con la fede noi conosciamo sostanzialmente ciò che
Dio conosce di sé, ma non allo stesso modo, con la carità noi amiamo
ciò che Dio ama, con lo stesso amore di Dio, con il suo stesso modo. Per
questo motivo, la carità non ha variazione in questa vita e nell'altra
vita.
Quindi per la carità non c'è distinzione tra questa vita
e l'altra, neppure modalmente. Questa vita e l'altra sono la stessa cosa.
Si da una possibilità intermedia tra il semplice regime
di fede e il regime di visione beatifica, per il quale, già in questa
vita si può dare un livello di manifestazione - sempre in forza della
grazia - della presenza di Dio sperimentabile?
Il grado pieno della manifestazione sarebbe la visione
beatifica; il grado incipiente sarebbe la fede.
Esiste un grado intermedio tra la semplice fede, che non
è sperimentale, e il grado ultimo della visione beatifica, che è
perfettamente sperimentale?
Sì, si da un grado intermedio!
E il grado della vita mistica.
E la vita mistica in che cosa consiste?
E forse un'anticipazione della visione beatifica?
133
No. È forse un oltrepassamento della fede? No, non può
essere un oltrepassamento della fede, perché, una volta che hai
oltrepassato la fede, c'è la visione: ti ho detto che la vita mistica è
un livello intermedio, per cui non c'è un oltrepassamento della fede.
Anzi, non c'è vita mistica se non presupponendo la fede.
Come si definisce infatti la vita mistica?
Secondo la scuola tomista, la vita mistica non è un
episodio straordinario, legato a una pluralità di interventi gratuiti da
parte di Dio, quasi fosse qualcosa di miracoloso.
La vita mistica è lo sviluppo ordinario della vita di
grazia.
E come si descrive questa vita mistica?
Beh, si definisce così: "una semplice intuizione
della verità divina, procedente dalla fede vivificata dalla carità e
illuminata dai doni della sapienza, dell'intelletto e della scienza".
La vita mistica non oltrepassa la fede, nel senso di
sostituirla, perché si tratta di una intuizione procedente dalla fede:
senza fede non c'è vita mistica. L'unica quasi-facoltà operativa della
grazia santificante, in riferimento alla conoscenza, prima della visione
è la fede.
Quindi, se la vita mistica riguarda questa vita e l'unico
modo per conoscere Dio in se stesso in questa vita è dato dalla fede, la
mistica si aggiunge alla fede e non la sostituisce.
Però, non si identifica semplicemente con la fede.
Quindi che cosa fa?
Presupposto il dato sostanziale della fede - cioè il
regime della non-visione -, aggiunge a questo dato l'aspetto esperienwle.
E in questo senso la vita mistica è intermedia tra la
semplice fede e la visione.
La visione è vedere con esperienza; la fede è non-vedere
senza esperienza; la vita mistica è non-vedere con esperienza.
In altri termini: a) la fede è sapere non-vedendo, senza
esperienza; b) la visione beatifica è sapere vedendo sperimentalmente;
e) la vita mistica è sapere sperimentalmente, pur
non-vedendo.
Quindi, la vita mistica è intermedia tra la fede e la
visione, però sta più dalla parte della fede che della visione, perché
presuppone essenzialmente la fede.
134
Come si può determinare questo aspetto esperienziale che
accompagna la mistica, pur presupponendo nella mistica il dato di fede?
Appunto dicendo che la vita mistica è un'intuizione
della verità divina, a partire dalla fede.
La fede non è un'intuizione. La fede è un assenso certo
dell'intelletto alla verità rivelata da Dio, in forza della sua
autorità:
quindi non è un'intuizione; è un giudizio. La vita
mistica, invece, è un'intuizione.
Dunque, presupposto l'assenso dell'intelletto, determinato
dall'abito della fede teologale, la vita mistica aggiunge, appunto, questo
aspetto intuitivo di sguardo compiaciuto.
L'intuizione è uno sguardo compiaciuto.
Sguardo compiaciuto vuoi dire che uno, in un battibaleno,
resta rapito. Intueor, in latino, vuoi dire guardo.
Questo guardare non è il vedere. Guardare è un vedere
con coinvolgimento.
Si può guardare senza vedere? No!
Si può vedere senza guardare? Sì!
Allora, parallelamente, supposto che l'aver fede sia un
sapere come il vedere, non è detto che uno sappia gustando quello che sa.
Il sapere non necessariamente è coinvolgente.
Tanto è vero che si può dare una fede informe, cioè in
uno stato privo della carità teologale e dell'azione abitualmente
vivificante dalla grazia (grazia abituale). Lo stato di peccato mortale
implica proprio questa condizione: si ha la fede, ma non si ha la carità.
Quindi, se la fede sta dalla parte del sapere senza
coinvolgimento, la mistica sta, invece, dalla parte del guardare, cioè è
un vedere o sapere con coinvolgimento.
Tu sai una cosa e sei coinvolto con essa perché ti piace
saperla, la gusti. Tu non vedi semplicemente; tu guardi!
Non dici: "stavo vedendo". No, tu dici:
"stavo guardando".
Sapevi di essere rapito, stavi guardando. Il guardare è
sempre intenzionale, il vedere, invece, no.
135
Quindi la mistica aggiunge al semplice vedere lo sguardo.
Questo vuoi dire il termine intuizione,
La vita mistica è un'intuizione della verità divina, ma
non a livello di visione beatifica, perché siamo nel regime della fede.
Ma non è neppure semplicemente fede. Come il guardare aggiunge al vedere
il compiacimento del vedere.
Che cosa fa sì che la fede nella mistica sia intuitiva e
gustativa?
E l'esercizio dei doni dello Spirito Santo.
I doni dello Spirito Santo aggiungono questo aspetto
modale di gusto nel sapere le cose di fede. Quindi, il guardare
compiaciuto appartiene al regime della fede in forza dei doni dello
Spirito Santo.
Ma i doni dello Spirito Santo che cosa fanno?
I doni dello Spirito Santo danno un modo di sapere che è
divino.
La fede è la conoscenza di un contenuto sostanzialmente
divino; ma il modo della fede è umano, tanto è vero che tu devi avere
fede, devi credere, devi deliberare sull'avere fede.
Invece, il piano dovuto all'esercizio dei doni dello
Spirito Santo - che presuppone questo piano sostanziale dei contenuti
divini - aggiunge il modo divino del sapere: non deliberi ma operi
spontaneamente.
Ecco perché, in forza dei doni dello Spirito Santo, la
vita mistica viene più assimilata all'esperienza della visione beatifica:
perché, nella visione beatifica, non soltanto conosciamo
ciò che Dio conosce, ma nello stesso modo con cui Dio lo conosce.
Nell'esperienza mistica, noi - presupposta la fede -
conosciamo ciò che Dio conosce, nel modo con cui Dio lo conosce: sul
piano sperimentale, ma non sul piano del sapere per visione. Perché,
siamo nel regime di fede, cioè del sapere senza vedere.
Ma il fatto che noi possediamo questo compiacimento di
gusto di ciò che si sa, assimila l'esperienza mistica all'esperienza
della visione.
Quindi, la vita mistica, l'esperienza mistica, è
intermedia tra la fede e la visione beatifica. Il suo essere intuizione,
sguardo
136
compiaciuto, impone la fede ma soprattutto l'esercizio dei
doni dello Spirito Santo.
Evidentemente, l'esercizio di quei doni dello Spirito
Santo che riguardano la conoscenza: cioè i doni della sapienza, della
scienza e dell'intelletto.
Il dono della sapienza riguarda la conoscenza della
Trinità divina in se stessa e per se stessa. Il dono della scienza,
invece, riguarda la conoscenza delle realtà creaturali, in ordine alla
conoscenza che si ha di Dio in se stesso; il dono dell'intelletto riguarda
la conoscenza della verità divina nel suo aspetto di non patire negazione
(uno è fermamente certo anche se non vede;
ma è fermo come se vedesse).
In forza della sapienza, uno gusta la verità divina in se
stessa:
per esempio, che Dio sia Trinità.
Un conto è dire: "Io credo che Dio sia Padre, Figlio
e Spirito Santo: Unità numerica della natura e Trinità delle Persone,
uguali e distinte"; altra cosa è intuire la Trinità come attività
continua di generazione-spirazione coinvolgente tutto l'essere.
Nel caso del dono della scienza non consideri più Dio in
se stesso, ma consideri le creature: non perché dalle creature possiamo
ascendere al Creatore, ma perché consideri le creature così come le
considera Dio. E un sapere che guarda le creature alla luce di Dio: quindi
è un valutarle alla luce di Dio, così come Dio le valuta.
In questi due casi, sia la sapienza che la scienza
considerano positivamente il contenuto rivelato.
Il dono dell'intelletto, invece, lo considera
negativamente: io posso, cioè, avere delle obiezioni (la difficoltà che
è legata al credere: il credere non è vedere) nei confronti del
contenuto dogmatico della fede.
Il dono dell'intelletto è il dono per il quale tu sei
portato a credere invincibilmente, con certezza invincibile i contenuti
della fede, qualsiasi fosse l'obiezione riferita contro di essi.
Tu non hai l'evidenza, hai la certezza morale. Eppure è
invincibile quella tua certezza, che va anche contro qualsiasi altra
13.7
pretesa evidenza contraria - pretesa evidenza, perché non
è di fatto tale, ma la si suppone tale.
Quindi, il dono dell'intelletto, che ha questa funzione di
certificarti il contenuto di fede contro qualsiasi obiezione rivolta alla
fede - obiezione che tu non sei in grado di valutare con la tua ragione -,
dipende più dall'intelletto o dall'affetto?
Dipende più dall'affetto. Perciò, questo mi fa capire
che se vale per il dono l'intelletto, che vede negativamente, a maggior
ragione questa dimensione affettiva vale per il dono della sapienza e per
il dono della scienza. In essi, l'aspetto di gusto è accompagnato da
qualcosa di positivo: tu non consideri le obiezioni, le critiche che
vengono fatte, ma consideri in se stessa la realtà che credi.
Questo fa capire come la vita mistica supponga la fede
formata dalla carità, cioè dall'affettività soprannaturale.
Perciò, la vita mistica è tale in quanto la presenza
della carità dispone la conoscenza umana a subire l'influsso dei doni
dello Spirito Santo, che consentono l'intuizione.
Che cosa scompare nella visione beatifica dell'esperienza
mistica? La fede: perché alla fede si sostituisce la visione. Ma tutto il
resto permane. I doni dello Spirito Santo permangono nella gloria, perché
sono ciò che consente l'adattamento modale dell'operazione umana
all'operare divino.
Questo adattamento modale permane nello stato di gloria
-cioè in paradiso - perché in esso non scompare l'uomo.
Nello stato di gloria, però, l'uomo è immediatamente
coinvolto nella vita stessa di Dio: in modo evidente, immediato.
Nella visione beatifica, non ci sono concetti intermedi.
Non è che il beato veda Dio attraverso un concetto più perfetto di
quello che abbiamo adesso.
Niente concetti: Dio informa immediatamente l'intelletto
dell'uomo. Quindi, l'intelletto dell'uomo rimane perfettamente coinvolto
nella visione di Dio.
Come è possibile che permanga l'intelletto umano, essendo
coinvolto immediatamente - cioè senza le modalità che sarebbe-
138
ro connaturali all'intelletto umano, in quanto intelletto
umano -in questa visione di Dio, in questa vita divina?
Con un adattamento ulteriore. E con un adattamento
ulteriore a quello del puro lume della gloria, che sostituisce la
fede teologale.
Questo adattamento ulteriore, modale, è dato
ancora dai doni dello Spirito Santo.
Altrimenti impazziresti, perché tu non hai l'intelletto
di Dio! O hai l'adattamento, che ti consente di essere coinvolto
immediatamente nel vortice della vita divina senza dare i numeri, o è
evidente che tu, lì dentro, non ci vai!
Impazzisci per la sofferenza.
Il lume della gloria implica perciò la presenza della
carità e dei doni dello Spirito Santo! L'alternativa - cioè la mancanza
del lume della gloria, della carità e dei doni dello Spirito Santo
-sarebbe l'inferno.
L'inferno e il paradiso sono uno stato. O meglio sono due
stati, dovuti al diverso e opposto riflesso che risulta nell'anima
dell'uomo dalla medesima presenza di Dio.
Tu vedi il vortice della vita divina e senti male: è
l'inferno. L'inferno si definisce come il totale distacco da Dio
accompagnato dalla sofferenza per quel motivo.
Ma tu sai che Dio non è staccato da tè: Dio è presente
ovun-que. Ci può essere un luogo in cui Dio non sia presente? No!
L'inferno è lo stato in cui l'uomo è completamente centrifugato
dal vortice della vita divina. E estroflesso da Dio per il fatto che non
è coinvolto in Dio. Dio è lì presente, ma gli fa male.
Non è coinvolto in Dio e la presenza di Dio gli fa male,
perché non possiede l'adattamento alla vita nel vortice. Non ha il lume
della gloria, la carità e i doni dello Spirito Santo.
Facciamo questo esempio.
Noi abbiamo la capacità di percepire solo una certa gamma
di suoni e a un certo grado di intensità, e a questo si associa anche il
gusto nell'ascolto. Ecco, ora facciamo una prova per vedere chi ha
l'orecchio capace di gustare l'intensità e l'armonia potente dei suoni
musicali e chi, invece, non ce l'ha.
139
Prendo un potente impianto stereofonico e incomincio ad
alzare gradualmente il volume, che so io... dei Carmina Burana di
Cari Orff.
Uno degli ascoltatori dice: "basta non ne posso
più!"; altri, invece, dicono: "che bello!".
Ecco: uno soffre e altri si beano rispetto alla medesima
realtà.
I beati, in paradiso, sono coinvolti nella stessa dinamica
del vivere, del pensare, dell'amare di Dio.
La presenza di Dio, ad alcuni fa bene, ad altri fa male.
L'inferno va interpretato così. Non nel senso che alcuni
vengano messi in qualche caverna ai lavori forzati... o addirittura
distrutti. Così come tu non puoi pensare che il paradiso sia un
annullarci in Dio.
No, no, l'uomo rimane. La presenza di Dio, per qualcuno
diventa dannazione, per altri è beatitudine.
Per quanto riguarda la pena del senso, si può dire che,
come nei beati la gloria dell'anima ridonda in tutto il corpo, così la
sofferenza dei dannati si ripercuote sul corpo.
Non è questione di luogo, ma di modo con cui viene fatta
esperienza di Dio: positiva o negativa.
A priori io posso stabilire che, essendo Dio ovunque, ciò
che cambia è il modo della presenza con cui si manifesta Dio ovunque a
tutti i soggetti. Che poi ci siano degli spazi, o ci possano essere dei
luoghi riservati ai beati o ai dannati, questo non lo so, ne è
importante... Inferno e paradiso sono degli stati.
Chissà quale sarà lo stato di chi arriverà alla fine di
questa lettura...
140
LA CONTEMPLAZIONE
Tacere e stare nel segreto delle cose: nel silenzio della
voce e con l'adorazione del pensiero si trova Dio.
È un modo di dire? No; metafisicamente è così: il mondo
è l'intelligibilità che Dio da di se stesso all'uomo. Nel mondo l'uomo
trova il senso di Dio.
Appartarsi, essere nascosti, in silenzio, a spiare la
bellezza eterna che traluce da ogni poro della realtà.
La bellezza è l'oggetto formale della contemplazione. La
si coglie nel sacrificio degli occhi e dello sguardo.
Dissolversi in pura presenza intenzionale, temendo di
sciupare, con eccessivo chiacchiericcio meditativo, la purezza del bene
che vuoi trasparire ad ogni costo.
Lo sguardo.
Mai, come in questa contemplazione, si può avvertire
quanto l'anima, con la sua infinità {anima fit quodammodo omnia},
si rifletta nello sguardo.
Gli occhi sono lo specchio dell'anima: avere negli occhi
l'eternità... ci si perde o ci si salva all'infinito.
A contemplare con lo sguardo illuminato dalla fede nel Logos,
si avverte quanto sia importante l'interprete per il creatore.
E una legge che vale nell'arte, ma anche in quell'arte
assoluta che è l'opera di Dio.
Si arriva a percepire che nella propria solitudine ha
consistenza il tutto. Se non ci fossi io: nulla!
Completamente impossibile opporre la contemplazione del
Ciclo alla contemplazione della Terra.
Quanto più è tellurica, avvertita nel pulsare della
carne e del sangue, tanto più la contemplazione è paradisiaca: perché
la
141
creazione geme e soffre come nelle doglie del parto
aspettando la manifestazione della gloria redentiva di Dio:
II mondo è il pensiero di Dio.
Pensando il mondo, Dio pensa se stesso e pensando se
stesso, Dio pensa il mondo.
Noi siamo il pensiero di Dio. Io sono il pensiero di Dio.
Il pensiero che Dio ha di me, il suo conoscermi, non è
qualcosa di diverso da me. Dio non mi conosce in una idea universale. Dio
mi conosce in individuo.
L'idea di Giuseppe, in Dio, non può essere una
rappresentazione universale o appunto ideale di me stesso. Altrimenti Dio
sarebbe come una comune intelligenza creata che conosce in questo modo
mediato.
No, no, l'idea di Giuseppe in Dio è a tal punto individua
e precisissima nell'indicarmi, da coincidere perfettamente con me.
L'idea di Giuseppe, in Dio, sono io. Io sono l'idea che
Dio ha di me!
E se le idee di Dio sono Dio stesso - perché Dio è
semplicissimo -, io sono Dio.
Le idee di Dio non sono qualcosa in Dio, o meglio, il loro
essere qualcosa coincide con quel qualcosa che è l'essenza di Dio.
Le idee di Dio sono il modo con il quale Dio pensa se
stesso, la sua essenza. Non sono qualcosa di diverso dall'essenza di Dio,
cioè da Dio.
Quindi, in Dio, io sono Dio: Giuseppe, in Dio, è Dio.
Ma si da forse qualcosa che sia fuori di Dio? C'è un
fuori di Dio?
No! Nulla è fuori di Dio. Dio è l'Essere assoluto,
rispetto al quale nulla cade al di fuori.
Dio è tutto: nulla gli manca; nulla gli è estraneo;
nulla gli è esterno. «In lui viviamo, ci muoviamo, esistiamo» (At
17, 28).
Perciò, sia in Dio, sia fuori di Dio, io sono Dio. Dio
non ha ne dentro ne fuori, se non per modo di dire.
142
Ma il modo di dire metafisico per eccellenza è quello
della prospettiva divina: vedere tutto dal punto di vista di Dio, cioè in
Dio.
Per questo tutto è in Dio, perché Dio è tutto.
Contemplare, vuoi dire appunto vedere tutto dal punto di
vista di Dio.
Vedere il tutto dal punto di vista del tutto.
Contemplare deriva da templum che, in latino,
indica, tra l'altro, un luogo visibile da ogni parte o dal quale si può
vedere ogni parte (Varrone).
Si tratta, perciò, di un vedere assoluto: vedere il tutto
dal punto di vista del tutto.
Vedere l'essere dal punto di vista dell'essere; vedere
l'Essere assoluto dal punto di vista dell'Essere assoluto.
Che cosa non vede chi vede colui che vede tutto? (gregorio
magno),
Ma il nostro è un vedere spettacolare. E un vedere
coinvolgente, perché coinvolto.
Gli stessi occhi spectant, guardano, osservano,
considerano, valutano.
Non si tratta di quella meraviglia che è sempre
frutto dell'ignoranza e che vuole oltrepassarsi nella ricerca.
Si tratta piuttosto di uno stupore. Non dello
stupore dello stupido perché ignora; ma dello stupore di chi è instup'idìto
perché completamente coinvolto, avvolto da una presenza assoluta.
Non si cerca altro.
Lo spettacolo contemplativo fissa quasi attonito lo
sguardo, immerso nella giustizia dell'essere: che è, così com'è,
perché è.
Sì, nella contemplazione, ciò che vale per il pensiero
vale anche per il senso e ciò che vale per il senso vale anche per il
pensiero.
Sensibilità e spiritualità non si contrastano nel
contemplare. Anzi, sono a vicenda maestro e discepolo.
La spiritualità permea la sensibilità spalancandola
all'infinito. La sensibilità immerge la spiritualità nella concretezza
dell'infinito.
143
Quanto più uno è tattilmente sensibile, tanto più
appare acuto intellettivamente (Cf. S. tommaso D'AQUINO, In De sensu et
sensato, 1.9). Perciò la contemplazione deve permeare il tatto e
lasciarsi guidare dal tatto.
E se questo vale per il tatto a maggior ragione deve
valere per i sensi più alti: la vista e l'udito.
Soprattutto la vista: la sede dello sguardo sensibile.
Occorre imparare a concentrarsi negli occhi.
A volte mi pare di essere un demone che si affaccia alla
finestra degli occhi, per scrutare divinamente il divino delle forme
sensibili.
Quelle forme che sono il punto in cui la vista converge
con il tatto.
Quelle forme che sono poi le species (da spedo
che vuoi dire guardare), le visibilità concettuali dell'intelletto.
Quelle forme che sono la bellezza - speciositas -
dell'essere e che toccano lo stesso intelletto.
La contemplazione è debitrice dell'estetica. E l'estetica
è la sensibilità nobilitata dalla ridondanza dello spirito: è la
sensazione, la percezione coronata dall'aureola del divino.
Si arriva a sentire la commozione negli occhi.
Concentrando l'energia nello sguardo, si avverte la gioia negli occhi.
Che pienezza di attrazione attonita c'è nello sguardo
concentrato nell'esperienza del bello. È la consumazione della vista, nel
senso del suo compimento, della sua perfezione.
Lo sguardo è coinvolto con tutto per via del
coinvolgimento del tutto nella forma, nella bellezza della giustizia
dell'essere.
E una specie di solitudine la situazione della
contemplazione. Il coinvolgimento con il bello, o meglio con il tutto dal
suo punto di vista più alto, che è la bellezza, ha un che di isolamento.
L'esperienza del bello non è utile, non è ordinata ad
altro:
è fine a se stessa. Per questo appare corne isolata e
immotivata. È compenso a se stessa.
Anche il tatto, che tra tutti i sensi è forse quello
maggiormente finalizzato a scopi pratici, nell'esperienza estetica smette
questa sua caratteristica per assumere quella del puro gusto.
144
II piacere e la gioia non possono avere altro motivo che
se stessi: sono fini a se stessi.
Questa solitudine della contemplazione sensitiva è
conseguenza della solitudine della contemplazione spirituale, o meglio
dell'ambiente spirituale della contemplazione.
Entrando immediatamente nell'atto del pensiero, si coglie
una strana solitudine piena. C'è un'atmosfera rarefatta: sembra la
quintessenza aristotelica. L'etere, aither da aitho: ardo,
splendo; oppure da aeitheo: corro sempre.
Quod semper currit sempiterno tempore: il moto
perpetuo.
Etimologie incerte e forse un po' fantasiose, ma che danno
certo l'idea di questo affascinante luogo metafisico che è il pensiero.
La vertigine del vuoto è la stessa vertigine del pieno.
Quando l'anima è indicibilmente piena e ricca di
pensiero, sembra indicibilmente vuota e assente.
Proprio come un cuore malinconico, che non sappia trovare
altra pace che la sua incomunicabile tristezza.
Contemplare è come immergersi nell'acqua profonda. E come
restarvi in apnea il più possibile.
E come nuotare nello spirito, nel pensiero puro.
I movimenti più lenti sono i più efficaci sott'acqua:
sei più veloce quanto meno ti agiti!
L'udito è permeato dal sibilo del silenzio.
Apprezzi la tua corporeità: la senti tutta.. Sembra che
la sensibilità partecipi dello spirito o che lo spirito si affacci alla
sensibilità.
E come volare, nell'aria.
Sei avvolto mentre avvolgi.
E una dolcezza sicura, senza l'euforia o l'entusiasmo
incontrollato.
Come quella delle Variazioni Goldberg diJ. S. Bach.
«È una musica... che non conosce ne inizio ne fine, una
musica senza vero punto culminante e senza una vera risoluzione: una
musica che è come gli amanti di Baudelaire "mollement blancés sur
l'aile / du tourbillon intelligent"» (G. gould, Lala del turbine
intelligente, Milano 1990, p. 63).
145
Cullarsi nell'aria come cullare ed essere cullati insieme.
In fondo, è proprio come l'esperienza dell'innamorato.
10 la descriverei così.
Vorrei essere avvolgente come l'aria, per abbracciarti
sempre, sema esser sentito.
Vorrei esser trasparente come l'aria per guardarti sempre,
senza esser visto.
"Vorrei esser penetrante come Varia, per sussurrarti
cose indicibili, senza esser udito.
Vorrei esser forte come l'aria, per sorreggerti sempre,
senza esserti di peso.
Resto eternamente fisso, dimentico di tutto e di tutti, in
un incantesimo del respiro, , perché sei tu che mi manchi • come
l'aria.
Contemplare è un po' perdersi nel pensiero, per trovarsi
con il tutto.
È perdersi nel pensiero, per trovarsi in Dio. Nel
linguaggio del Giorno.
11 pensiero è l'apparire trascendentale/l'orizzonte
intrascen-dibile dell'apparire.
L'apparire trascendentale, il pensiero, la coscienza
assòluta -la coscienza dell'autocoscienza - è la condizione di
possibilità dell'apparire-scomparire degli eterni - cioè del divenire,
secondo la verità dell'essere -.
146
E la condizione di possibilità dell'apparire dello stesso
scomparire. E cioè la condizione di possibilità dell'apparire dell'ap-parire-scomparire.
Anche l'apparire che appare è un eterno. Anche l'apparire
dello scomparire è un etemo. Anche l'apparire-scomparire è un eterno.
Ma se l'apparire che appare è un eterno, deve apparire
anche quando scompare.
Si deve dare un apparire trascendentale nel quale appaiono
eternamente gli eterni.
L'apparire trascendentale, come condizione
dell'apparire-scomparire degli eterni, è la coscienza più la coscienza
della propria differenza rispetto alla coscienza nella quale appaiono
eternamente gli eterni.
Se l'apparire trascendentale o pensiero, nel quale si da
l'apparire dell'apparire-scomparire, è la coscienza o il pensiero
astratto del tutto; l'apparire trascendentale o pensiero, nel quale appare
eternamente l'apparire eterno degli eterni, è il pensiero di Dio: è la
scienza di Dio.
Il pensiero di Dio, la scienza di Dio va dunque ammessa
come condizione dell'apparire eterno degli eterni: è la coscienza o
pensiero concreto del tutto.
Il rapporto tra i due orizzonti trascendentali non può
che essere di identità: se fossero totalmente diversi, non sarebbero
orizzonti trascendentali. Sarebbero infatti compresi in un orizzonte più
ampio, che solo sarebbe trascendentale, cioè onnicomprensivo.
Però, il rapporto è sempre anche una distinzione: un
conto è l'apparire dell'apparire-scomparire, la condizione di
possibilità eterna dell'apparire dello scomparire; un conto è l'apparire
eterno dell'apparire e basta, l'apparire eterno degli eterni.
Quindi, tra i due orizzonti trascendentali c'è insieme
identità e distinzione. Come c'è identità e distinzione tra concreto e
astratto.
147
Ciò che cambia è il modo di vedere le cose. L'astratto
è lo stesso concreto visto isolatamente dal tutto.
Il pensiero che pensa il tutto, ma non vede tutto è il
pensiero astraente o astratto; il pensiero che pensa tutto e lo vede è il
pensiero concreto.
Il pensiero astratto, o di visione astratta, è il
pensiero umano, o nel suo versante umano; il pensiero concreto è il
pensiero divino, o nel suo versante divino.
Per scoprire l'identità occorre - per così dire - un
capovolgimento psichico. Occorre che l'ombra appaia come luce.
E ciò che fa la grazia santificante.
La contemplazione soprannaturale, attraverso la
manifestazione della grazia, coglie l'identità.
Nella contemplazione della grazia, si coglie l'eternità
del tutto. Degli stessi istanti.
Come una fotografia, in cui l'istante è immortalato,
così lo sguardo del pensiero è attonito nell'apprezzamento del tutto nel
tutto e in ogni singola sua parte.
Ma non si tratta della percezione di un fotogramma dopo
l'altro.
L'eternità non è fissismo.
L'eterno non è stasi.
L'eternità è la coscienza in istante del possesso di una
vita assoluta.
Ecco ciò che appare nella percezione contemplativa. In
ogni singolo istante è presente il senso del tutto. Il concreto è tale
perché è la presenza del tutto.
E il flusso vitale universale presente in ogni istante.
L'essenza di ogni singola creatura è la stessa essenza di
Dio:
è diafania di Dio.
La percezione contemplativa, soprannaturale, di questa
realtà è il senso più radicale della comunione dei santi.
Elisabetta della Trinità ha intitolato - in modo molto
significativo, da questo punto di vista - un suo ritiro spirituale in
questo modo: "Come si può trovare il Cielo sulla Terra".
148
E la scoperta consiste nella vita mistica, cioè nella
contemplazione della grazia.
La contemplazione mistica, dunque, non separa il Cielo
dalla Terra, ma trova il Cielo in Terra.
Perciò si deve poter dire che le stesse sofferenze non
sono ostacolo a questa beatitudine mistica - come, del resto, prova la
stessa vicenda dolorosa della giovane Elisabetta della Trinità.
La mistica è l'essenza della vita cristiana.
E la vita cristiana non toglie la sofferenza. Anzi ne è
il segreto glorioso.
Il mistero della passione-morte-risurrezione di Cristo,
coronato dal mistero dell'Ascensione, esprime il senso più profondo della
divinizzazione della sofferenza.
Il mistero dell'Ascensione di Cristo in Cielo, con le sue
piaghe, dice che appartiene all'essenza del cristianesimo il vivere
divinamente la sofferenza.
Lo stesso Paradiso è il vedere la Gloria delle proprie
fatiche e sofferenze cieche.
La contemplazione cristiana è vedere le cose dal punto di
vista di Dio.
Ma, dal punto di vista di Dio, si vede solo Dio, perché
Dio vede tutto vedendo se stesso. E, vedendo se stesso, non si vede
assolutamente come "Dio".
Dio è l'Essere Assoluto. Non è in relazione ad altro.
Il vero e proprissimo nome di Dio è Essere Assoluto, lo
stesso Essere per sé sussistente.
Questo nome è incomunicabile. Il nome "Dio",
invece, non è proprissimo dell'Essere Assoluto, perché è comunicabile
per analogia (Cf. S. tommaso D'AQUINO, Summa Theologiae, I, 13). Ed
è comunicabile perché indica una certa superiorità nell'ordine - e
quindi in un qualsiasi ordine.
L'ordine dice relazione, è relazione, quindi il nome
"Dio" esprime implicitamente una relazione di dipendenza a sé.
Dio, in quanto Essere Assoluto, è irrelato e neppure può
avere una relazione di dipendenza da altro da sé.
149
Questo vuoi dire che per Dio non c'è "Dio".
Dio è senza "Dio".
Vedere le cose dal punto di vista di Dio è, dunque,
vedere solo Dio senza vedere "Dio". E vedere Dio senza
"Dio".
In questo senso, si può dire che la vita cristiana, la
vita di grazia, sia vivere con Dio senza "Dio".
O, secondo l'espressione bonhoerreriana - debitamente
intesa -: «Con e al cospetto di Dio, noi viviamo senza Dio» (Lettera del
16.7.1944).
Raptus,
ubi tempus aeternum nominatw, ibimens, obscure nata,
aeternatur. Tactus purus, olini lapsus, ob rapinam agii captus. Sistit
umbra et mundanum, sed ubique lux et grafia. Nt'xus angelo, tango arcanum.
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INDICE
II
segreto .....p. 9
La genialità...p.
16
Lo sguardo di
Dio......p. 22
II mestiere del
teologo ......p. 29
II ragionare divino
...p. 35
II soliloquio sul
divino...........p. 44
La
teologia..........p. 55
L'esplosione del
dogma ............p. 70
II punto di vista
dell'eterno........p. 75
L'eterno nel
Cristianesimo....p.. 82
La conoscenza di
fede..p. 96
La
divinizzazione..p. 103
L'esperienza di
grazia...............p. 117
I gradi
dell'esperienza di grazia.........p. 124
La
contemplazione..p. 140
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