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Andare verso l’altro senza cadere nel relativismo

Il lungo cammino della tolleranza.

Di Giovanni Parola

Com’è lento, quanto è faticoso e com’è irto di ostacoli o di malintesi il cammino della tolleranza!

Tolleranza civile, tolleranza religiosa.

La storia della società civile, come quella dei credenti di tutti i tempi, e di tutte le religioni è costellata di date infauste, di eccidi, di persecuzioni, di bagni di sangue dell’altro, del diverso da se, dello straniero.

Dovunque cada lo sguardo sulle nazioni, sui popoli, sulle religioni o sulle chiese di ogni epoca storica e di ogni luogo è un’incredibile storia di crudeltà, di cattiverie, di prepotenze, di sopraffazioni, di esclusioni di colui che non appartiene al clan, alla tribù, alla città, al popolo, alla religione.

Ma perché?

Certamente la radice dell’intolleranza sta nella paura e sono due i tipi di paura che presiedono a questo sentimento:

- la paura di perdere qualcosa che si possiede a livello fisico-materiale (riguardo al territorio abitato o ai beni materiali), a livello economico (l’impoverimento delle risorse di vita), a livello sociale (il mutamento dell’organizzazione del gruppo cui si appartiene), a livello politico (l’esercizio del potere);

- paura culturale o religiosa a livello di idee, usi e costumi o di certezze morali e religiose;

In realtà è unica la paura. Paura di perdere ciò che si possiede in maniera incerta.

In genere i diversi tipi di paura si accavallano, si incrociano, si fondono fino a diventare un’inestricabile groviglio di sentimenti e risentimenti, di pregiudizi, di occlusioni psicologiche e morali che sbarrano la porta all’altro, che ci rendono diffidenti, ci mettono in guardia, ci fanno chiudere in difesa, e lentamente ci spingono a contrattaccare, ad aggredire, a sopraffare l’ignoto.

Cinquant’anni fa era normale, dico normale, leggere sui portoni di Torino, di Milano, di Vercelli, di Abbiategrasso, la scritta fastidiosa "Non si fitta ai meridionali". In alcuni casi si leggeva addirittura: "Via i cani e i meridionali".

Tutti ricordiamo il film "Indovina chi viene a cena".

E conosciamo il klu, klux, klan della profonda America, e i pogoon degli Ebrei nei paesi dell’Est, e le guerre di religione tra cattolici e protestanti del XVI-XVII secolo, e il tentativo di occupare per motivi di fede religiosa l’Europa da parte dei musulmani del XVI-XVII secolo. E lo schiavismo che considerava i neri senz’anima? E le sopraffazioni del colonialismo? E la superiorità della razza ariana di recente memoria? E infine la feroce chiusura dei Greci-Ortodossi dei nostri giorni nei riguardi di Giovanni Paolo II? E la terribile guerra ebraico-palestinese?

Si resta interdetti, dolorosamente colpiti, afflitti, di fronte a tutto ciò, quasi ci si convince che questo è l’uomo e non resta nient’altro che arrendersi.

E invece non è così. Se si guarda con attenzione ci si accorge che il fronte della tolleranza avanza e guadagna terreno, che sono sempre più numerosi coloro che avvertono come la pace produca più frutti che la guerra o l’inimicizia. Che, come diceva Papa Benedetto XV con la pace tutto è possibile, con la guerra tutto è perduto. Ma non vogliamo fermare la nostra considerazione solo sul fronte della pace. Certo spesso si tollera il comportamento diverso dell’altro, anche se non lo si approva, per amore di pace o di un bene più grande.

Ma noi vogliamo rifarci al dovere, che ognuno di noi ha in quanto uomo, di rispettare l’altro uomo, la Persona dell’uomo. Tu sei Persona, la dimensione più elevata e nobile della realtà naturale da noi conosciuta. L’altro è Persona come Te. Nobile, dotato di intelligenza, libertà, capacità creatrice, sentimenti e volontà, proprio come Te. Tu hai il diritto di essere rispettato; l’altro lo ha ugualmente. Ecco il punto: in quanto uomini noi siamo tutti uguali,.Poveri e ricchi, giovani e vecchi, credenti e non credenti, cattolici e musulmani, ed ebrei, taoisti e induisti o che si voglia; neri e bianchi, ignoranti ed istruiti. Al rispetto di questa dignità dell’uomo dobbiamo educarci tutti quanti. E come l’intolleranza è un sentimento o un atteggiamento profondo della nostra umanità così noi dobbiamo sostituirlo con la tolleranza, un atteggiamento di fondo di amicizia, di apertura, di accoglienza, di simpatia, di disponibilità all’aiuto e al soccorsi di chi è diverso da ma o è lontano dal mio modo di essere, di pensare o di credere. Tolleranza vuol dire credere all’umanità dell’altro uomo, essere disposto al dialogo, come a gesti di aiuto e di fraternità, alla condivisione umana anche senza dovere per questo accettare modi di essere, di comportarsi, di pensare o di credere che non sono nostri e che non possiamo, o anche non dobbiamo, fare nostri. Il grande rischio della Tolleranza è quindi il relativismo. Quello che si sta verificando un po’ troppo nella società e nella cultura di oggi. Se per me è vera una cosa e per l’altro ne è vera un’altra vuol dire che non esiste una verità assoluta uguale per tutti. Ma non è così. In realtà la verità è come una scala con una serie di pioli. Più si sale e più ci si avvicina alla Verità Totale. Ma tra gli uomini ci sono quelli che sono più vicini alla cima della scala e quelli che sono ad altri livelli. Vi sono anche quelli che tentano di salire con altre scale. Di tutti va rispettata la verità che possiedono e il desiderio di verità che ognuno porta nel proprio cuore. Noi dal confronto con loro dobbiamo verificare la sincerità del nostro desiderio di verità e la validità della scala lungo la quale noi ci arrampichiamo. Ma allora, lungi da ogni relativismo e da ogni superficialità, la tolleranza può essere e deve essere una ottima occasione di revisione di vita e di convinzione dei comportamenti per avanzare con più lena verso la Verità Assoluta. Questo significa che la tolleranza è un sentimento, ma è anche frutto di intelligenza e di prudenza. La tolleranza è una vera virtù e va esercitata come tale. Col sentimento e con la ragione. Con il cuore e con la mente. E con il loro esercizio continuo. Tollerare vuol dire amare l’uomo, conoscere l’uomo, capire l’uomo, aiutare l’uomo con fraternità, con generosità, con pazienza, dandogli tempo, sopportandone, se questo è bene, le debolezze, suggerendogli le vie del bene, della verità, della dignità. Ma significa anche far camminare noi stessi speditamente per la nostra strada. E’ ciò che fa Dio con noi. E’ ciò che ha fatto tanto tempo fa Gesù con noi fino a dare la vita per noi. E ancora ci aspetta.

 

 

 

 

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