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Ignoranza esistenziale ed irresponsabilità: una diversa definizione di malattia mentale.

A cura di Vincenzo Ovallesco

Professore Associato Università di Milano

Presidente Eletto (2000 – 2003) World Federation and Society of Adolescentology

 

La comunicazione è il gioco dell’impossibile perché è rivolta all’altro e l’altro non è un prolungamento di noi stessi, ma davvero un altro, dove non c’è alcuna garanzia che quel che dico sia inteso dall’altro nel senso in cui lo dico.

Ciò accade perché quando parliamo, quando ascoltiamo, in realtà traduciamo quel che l’altro dice nella nostra visione del mondo che nessuno garantisce sia la stessa dell’altro. Per questo l’equivoco ed il fraintendimento sono le vere cose che passiamo in ogni scambio comunicativo.

Nate dall’incontro con l’altro, le prime parole erano quelle della meraviglia, del fascino, della seduzione dove lo scopo non era di far conoscere, ma di far "sentire" qualcosa. Erano parole che andavano alla cieca come i gesti da cui erano nate ed il cui senso non era una proprietà di chi le esprimeva, ma qualcosa da condividere con chi le riprendeva e, riprendendole, le significava. Erano parole che non preesistevano all’uso che se ne faceva, perciò erano comunicative e non semplicemente trasmissive; erano accompagnate da una mimica e non impassibili; erano decifrate da una situazione e non predeterminate da un codice. Ma dopo che il linguaggio è stato parlato, gli si è conferito una vita impersonale ed una forma che predetermina il senso di ogni possibile messaggio linguistico, per cui gli uomini non sono più nelle condizioni di incontrarsi nel linguaggio, ma tutt’al più nella condizione di recitare una lingua che si parla da sola.

È ciò che proverò a non fare cosciente che quando ascolto le parole sofferenti o gioiose di un amico vengo assorbito dalla sua sofferenza, dalla sua gioia e non odo più le sue parole, ma lo incontro nella sua unità di corpo, spirito, mente.

Non è un caso che un po’ lo sappiamo tutti che la malattia non si verifica nel corpo bensì nella vita e che la localizzazione di un disturbo, anche locato nella mente, ben che vada, è poco eloquente sul perché e sul come la malattia si è fatta strada.

Questo un po’ lo sanno anche i medici, ma poi, nel corso della loro, nostra formazione, il mondo della vita gradatamente scompare e con il mondo della vita anche quel corpo che è inserito in un tempo, in un luogo, in una storia, in un contesto di esperienze vissute, in un mondo sociale. Al suo posto, infatti, subentra, per lo sguardo clinico, il corpo biologico quale risulta dalle analisi di laboratorio e dalle moderne tecniche di diagnostica per immagini che offrono quella conoscenza oggettiva che oscura tutti i vissuti soggettivi che sono poi la trama profonda della malattia e ciò di cui soprattutto si soffre.

Per questo la relazione medico – paziente non può funzionare, al di là della buona volontà di noi medici perché il corpo del paziente non è il corpo che il medico vede e perché il dolore che il paziente narra non coincide esattamente con il male che il medico cerca. Il dolore è un vissuto soggettivo e si offre come un evento comunicativo totale difficilmente localizzabile. Fuoriesce dai confini del corpo e pervade l’intera vita modificando la qualità delle relazioni, la forma degli affetti, il ritmo delle attività, la considerazione di sé, fino a rendere tematica la figura della morte che lo stato di salute nasconde e sospende.

Il male è invece un dato oggettivo, localizzabile nei confini del corpo, che si lascia esprimere in quell’evento narrativo che è il linguaggio tecnico del clinico.

Questa distanza fra il linguaggio comunicativo del paziente e il linguaggio scientifico del medico, oltre a riferirsi a due nozioni diverse di "corpo", segna una incomunicabilità e la relazione medico – paziente naufraga già dal primo incontro quando il medico diventa un semplice funzionario del sapere che rappresenta e il paziente, deprivato della sua soggettività, diventa un oggetto osservato. E questo a prescindere dalla "buona volontà" dei medici, dalla loro "umanità", dalla loro "empatia" perché il medico deve imparare a vedere e pensare prima anatomicamente, poi biochimicamente, poi "per immagini" e, tra non molto, geneticamente che è un modo incompatibile con il modo con cui ogni giorno i corpi si guardano, interagiscono tra loro, godono, soffrono.

Incomincia qui, ma non finisce qui, la divaricazione tra il "corpo medico" ed il "corpo umano" che, dopo essere passato sotto lo sguardo clinico finisce nel referto del medico che dopo aver imparato a "vedere" in un modo diverso, impara anche a "parlare" e a "scrivere" in modo insolito.

Il referto infatti non è la registrazione di uno scambio verbale e neppure il riflesso di una comunicazione, ma la costruzione di una persona come paziente, come documento, come progetto configurando quello che scrive J. Comaroff: "per lo sguardo biologico, lo spirito è una categoria superflua".

Eppure per lo spirito il corpo non è un semplice oggetto fisico o uno stato fisiologico, ma è il fondamento stesso della soggettività e dell’esperienza del mondo. Forzando il corpo, il dolore, il tempo nel vicolo stretto della oggettivazione medica si obbliga il paziente impreparato a fare un incontro con la morte. E qui non parlo della morte come "evento", ma di quella cosa più terribile che è "l’esperienza" del morire. Noi infatti diamo per scontato il mondo ed i suoi oggetti finché non si impone una prova contraria. In particolare sospendiamo, per poter vivere, la consapevolezza della nostra mortalità che la malattia però risveglia all’improvviso togliendo credibilità a noi stessi ed al mondo.

E quale è lo strumento che l’uomo ha trovato per simbolizzare la sofferenza e reperire una immagine intorno a cui esso uomo possa prender forma come senso della sua esistenza? La malattia mentale a partire dalla "clinica", proprio da quella clinica che a suo tempo era nata per tutelare la cattiva coscienza della società la quale, per garantire la sua quiete e i rapporti di potere in essa vigenti, non aveva trovato di meglio che incaricare la clinica a fornire giustificazioni scientifiche che rendessero ovvia e da tutti condivisa la reclusione dei folli entro mura ben cinte.

Per rendere il suo servizio, la clinica ridusse la follia a malattia che, per essere curata, deve essere sottratta al mondo in cui essa ha origine, che è poi il mondo della vita.

Nasce così il manicomio che, come scrive Basaglia nelle Conferenze Brasiliane, "ha la sua ragion d’essere nel fatto che fa diventare razionale l’irrazionale. Infatti quando qualcuno entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato e così diventa razionale in quanto malato". La conseguenza più immediata? Il folle, liberato dalle prigioni da Pinel nel 1793, fu subito rinchiuso in un’altra prigione. Da quel giorno incomincerà il calvario del folle e la fortuna dello psichiatra. Se infatti passiamo in rassegna la storia della psichiatria vediamo emergere i nomi di grandi psichiatri, mentre dei folli esistono solo etichette: isteria, astenia, mania, ansia, depressione, schizofrenia.

È però un fatto che noi conosciamo la follia in due accezioni: come il contrario della ragione e come ciò che precede la stessa distinzione tra ragione e follia. Nella prima accezione la follia ci è nota: essa nasce da quel sistema di regole in cui la ragione consiste. Dove c’è regola c’è deroga e la storia della follia, raccontata da quegli psichiatri di cui sopra, è la storia di queste deroghe.

Ma c’è una follia che non è deroga per la semplice ragione che viene prima delle regole e delle deroghe. A conoscere questa follia non sono la psichiatria o la neuroscienza in generale, ma la religione che, delimitando e circoscrivendo l’area del sacro e tenendola ad un tempo separata dalla comunità degli uomini e accessibile attraverso ritualità codificate, ha posto le condizioni perché gli uomini potessero edificare il cosmo della ragione, il solo che essi possono abitare, senza rimuovere l’abisso del caos, la terribile apertura verso la fonte opaca e buia che chiama in causa il fondamento stesso della razionalità, perché è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in modo non oracolare e non enigmatico. Sembra infatti che ogni parola che la ragione, nel corso della sua storia, pronuncia, non sia possibile se non liberando in parte, ma solo in parte, l’antica follia. Se allora è vero che è la religione che conosce questa follia, non ci dobbiamo meravigliare che la medicina, sicuramente la medicina antica, nasce come gesto di empietà perché pensa a se stessa come evento contro l’arbitrio degli dei e quindi come atto fondativo dell’umano nel suo progressivo emanciparsi dal divino. La collera di Zeus, di cui Eschilo nel Prometeo Incatenato ha dato ampia rappresentazione, nasce dal timore che l’uomo possa divenire autosufficiente e ottenere con le tecniche ciò che un tempo poteva sperare di ottenere solo pregando gli dei. La caduta degli dei già lampeggia nel primo gesto della tecnica medica e questa luce improvvisa riconfigura il tempo e quell’ultima sua scansione: la morte, che l’uomo ha sempre pensato nelle mani di Dio.

Criterio di verità non è più lo svelarsi della natura, ma la correttezza delle procedure che confermano o negano la validità delle conoscenze. In questo modo la medicina inaugura quella nuova forma di sapere che, invece di limitarsi all’esperienza, parte da questa per approdare da un lato alla estensione del sapere e dall’altro alla trasformazione stessa della esperienza creando non più una "clinica medica", ma una "tecnica medica" che come ogni tecnica è solo ignoranza esistenziale ed irresponsabilità perché la tecnica medica, poiché funziona (questo è il problema), si propone come negazione di un atto di fede che è l’unico, tra accettazione e rifiuto, che si configura come epifania della responsabilità dell’uomo.

È evidente che quando dico atto di fede non mi riferisco solo e necessariamente alla fede Cattolico – Cristiana, ma, poiché viviamo in questo tempo, in questo spazio, in questa forma, è su questa che mi soffermerò.

È un fatto a tutti noto che oggi la maggior parte degli uomini e delle donne non professa la fede cattolico – cristiana. Quelli che si dichiarano cattolici sono solo il 18% dell’umanità e, tra questi, una buona parte sono cattolici "sociologici", come li chiama mia moglie che è una sociologa. Cioè per il fatto di vivere in Paesi e culture di tradizione cattolica, si dichiarano "cattolici" e sono fedeli ad alcune tradizioni cattoliche, ma personalmente sono o non credenti o malcredenti o credenti in qualche misura o incerti tra il credere ed il non credere. Oppure sono credenti che accettano alcuni punti della fede cristiana, ma non ne accettano altri, forse più essenziali. Perciò si tratta di credenti che, tra le verità proposte dal Cristianesimo tanto in materia di fede quanto in campo morale, fanno una scelta, accettandone alcune, che sono di proprio gusto e rigettandone altre. Oppure sono credenti insoddisfatti che, senza abbandonare formalmente il Cristianesimo, cercano ciò che – a loro parere - il Cristianesimo è incapace di dare loro in movimenti religiosi ispirati al misticismo delle religioni orientali e ne praticano con fervore i metodi di "meditazione" yoga e zen, ponendosi alla scuola di guru più o meno indiani, di lama più o meno tibetani e di rishi più o meno giapponesi di tradizione più o meno buddista!

Appare allora chiaro che per noi uomini il cuore dell’uomo è –e deve restare – un mistero impenetrabile che va sempre rispettato. Quello che possiamo fare è solamente ribadire che la fede è dono di Dio, ma è anche responsabilità dell’uomo: nessuno crede senza la grazia di Dio, ma nello stesso tempo nessuno crede senza aver detto il suo "sì" a Dio. Perciò, dinanzi alla fede l’uomo è posto tra l’accettazione ed il rifiuto che presuppongono conoscenza esistenziale e responsabilità personale.

Non è possibile leggere: " a chi mi posso rivolgere? I compagni sono malvagi, gli amici non conoscono amore. A chi mi posso rivolgere? I cuori sono avidi di possesso, l’uno ruba gli averi dell’altro. L’amabilità dilegua, l’arroganza si impone in ogni dove. A chi mi posso, oggi, rivolgere? Soltanto chi è malvagio sembra essere felice; la bontà è stata ovunque sconfitta…L’empio è diventato un amico, il compagno con il quale si condivideva la vita un nemico…Perduto è il ricordo delle belle cose passate; oggi non si ricambia più con il bene chi una volta ci ha fatto del bene…Impossibile vedere il volto degli uomini: tutti abbassano lo sguardo davanti ai propri simili…La sincerità non esiste più, il mondo è stato consegnato ai furfanti…A chi mi posso, oggi, rivolgere? L’ingiustizia ghermisce il paese e non sembra avere fine…La vita di oggi smentisce il mio sogno di ieri."

Non è possibile leggere queste mirabili espressioni e non pensare che le ho estrapolate da un qualsivoglia giornale di questa mattina. queste espressioni le troviamo invece in uno dei più antichi testi letterari della umanità risalente alla cultura antico – egizia: il "Dialogo di un uomo stanco della vita con la sua anima" datato 2600 a. C., circa.

Ciò conforta la convinzione che la biologia molecolare e la neurofisiologia potranno fare ancora molti progressi e di conseguenza avere poteri ancora maggiori; le neuroscienze potranno dirci ancora molto sul cervello e molto ancora ci dirà la neurogenetica. C’è però una cosa su cui mai potremo avere risposte da queste scienze: sull’etica, ossia sulla modalità con cui gli uomini decidono di stabilire un contratto sociale, sui valori e sui significati in base ai quali gli uomini decidono di stabilire le modalità del proprio relazionarsi. Ciò è importante perché se una fase della malattia mentale si è chiusa perché ritenuta risolta o quantomeno risolvibile, nuove e diverse forme di "malattia mentale" (la cito tra virgolette!) ha investito la nostra società: la paura della diversità che il sociale ospita e sempre più dovrà ospitare in qualunque forma la diversità si manifesta. Conoscere la diversità, accogliere la diversità, abitare la diversità, ri-conoscere la diversità sarà il banco di prova della sanità mentale dell’uomo del terzo millennio mai dimentichi però della fase di Einstein. "la cosa più incomprensibile nell’universo è la conoscenza" perché anche la diversità verrà incontrata all’interno di pratiche ed è arbitrario intenderla come fatto reale in sé al di fuori di ogni pratica per cui, ad esempio, ma solo ad esempio, anche il nazischinner si piglia cura del diverso: lo elimina!

L’unico modo di essere nel mondo consiste nell’essere nell’immagine del mondo: il mondo "in originale" non è mai dato perché non c’è. "Mondo in originale" è già una rappresentazione, una immagine del mondo. Il primo pregiudizio da cancellare, il primo idolo da abbattere sulla strada della conoscenza è che da qualche parte ci sia la cosa concreta.

Non esiste il volto, perché il volto è sempre in situazione (mentre ride, tace, piange, dorme, ecc.) e così come un volto è sempre in situazione, l’accadere è sempre in prospettiva. Voglio allora chiudere questo mio dire con le parole non di uno scienziato, non di un medico, non di chi usa la tecnica, ma di un filosofo teoretico, Carlo Sini, docente alla università di Milano:

"L’evento è l’accadere ed è questo accadere, e niente altro. Infatti accade sempre in prospettiva, determinato nel suo come. In tal modo resta infinitamente il suo che; perciò possiamo dire che accade sempre astratto dal suo che e concentrato nel suo come. Rileggi, lettore, rileggi e medita attentamente. Qualcuno ti dirà: tu sei un folle."

 

 

 

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