L’economia
dell’espressione è la ricca dote della poesia.
A differenza della
prosa essa è concisa, essenziale. I particolari, in poesia, sono
reiterati sopralluoghi sulla medesima scena, nell’ossessiva
ricerca di una precisione descrittiva che relega l’immaginazione
nel limbo delle facoltà soppresse.
La potenza
semiologica della poesia, quindi, risiede nella pregnanza occulta
di poche parole; negli interminabili viaggi mentali che una pausa
concede.
Queste
caratteristiche sono comuni all’intero corpus poetico, con
differenze strutturali e argomentative a seconda del creatore,
della corrente letteraria, del momento storico, del credo
religioso, dell’appartenenza etnica.
La cultura di un
popolo trasuda dalla lirica dei suoi rappresentanti. La poesia
segue l’evoluzione delle problematiche esistenziali, del
rapporto dell’uomo con la propria terra, con i propri spazi
interiori.
E’ possibile
utilizzare le forme espressive di un popolo come strumenti
diagnostici, per evidenziarne la storia, le tradizioni, i vizi e
le virtù.
Tra le civiltà che
alla semplicità di un verso poetico o di un gesto pittorico hanno
affidato la loro essenza vi è, prima fra tutte, quella
giapponese.
Strumento esegetico
per eccellenza che la civiltà nipponica mette a disposizione di
etnologi ed esteti è l’haiku, vessillo letterario del Giappone e formula espressiva tra
le tante, intenzionalmente affini, che questo paese produce.
L’haiku è
l’espressione poetica della mentalità giapponese. La sua
struttura, diciassette sillabe in tre versi, 5/7/5, è essenziale,
assolutamente non ridondante. Dal punto di vista storico, l’haiku
ha come antecedenti i generi poetici del waka,
“poesia giapponese”, e del renga.
Il primo ha una struttura di cinque versi per 31 sillabe;
l’altro, una sequenza ripetuta di cinque, sette, cinque, sette e
sette sillabe per verso. Il renga era una correlazione di waka,
con la differenza che due sequenze consecutive non potevano essere
composte dalla stessa persona. I primi versi del renga (5/7/5)
portarono all’haiku, che, da un punto di vista strutturale, ne
costituisce una forma più concisa.
L’haijin,
il poeta di haiku, si attiene a delle semplici ma rigorose regole
compositive: la struttura
sillabica e il soggetto,
generalmente la natura, nelle sue molteplici e variegate
rappresentazioni. Il resto è improvvisazione, spontaneità.
guardo
la luna:
nuvole
se alzo gli occhi, se li abbasso
il
sereno
Miura
Chora (1729 - 1780)
La sua spontaneità,
però, si ottiene solo dopo un rigido addestramento.
Spesso, l’haijin
lavora per mesi su un haiku, dopo aver fotografato mentalmente il
protagonista del suo componimento.
L’haijin non è un
poeta sedentario; non è meditabondo se non per affinare il
ricordo, per liberarsi dell’eccesso.
“Nell’haiku la
parsimonia di linguaggio è oggetto d’una cura che a noi pare
inconcepibile, perché non si tratta tanto di essere concisi (cioè
di restringere il significante senza diminuire l’intensità del
significato), quanto, al contrario, di agire sulle radici stesse
del senso, per ottenere che questo senso non si diffonda, non si
interiorizzi, non si faccia implicito, non si liberi, non vaghi
nell’infinito della metafora, nella sfera del simbolo. La brevità
dell’haiku non è un pensiero ricco ridotto ad una forma breve,
ma un evento breve che trova tutt’a un tratto la sua forma
esatta.” – Roland Barthes.
L’haiku è la
sensazione che anticipa la contemplazione e la subordina, anzi, la
elide. E’ la fuggevolezza dell’attimo, toccata e fuga…e mai
più!
E’ un affondo,
meglio, una stoccata; una folata di vento che ridesta l’assopito
e lo coinvolge, sbalordito spettatore, nella pittoresca, genuina e
cruda danza della vita.
L’haiku
è un’impressione, un’istantanea del mondo; non documenta,
illustra. Eppure non s’impone.