Attenzione: Queste pagine appartenevano a "L'incontro". Non sono verificate dal 2001. Avendo subito perdite consistenti di dati, e soprattutto essendo ormai datate, possono contenere errori e non rispecchiare più il pensiero degli autori. Se sei l'autore di uno o più di questi contenuti contattami a jotis@iol.it   Politica Cultura Scienze  Società  Religione Psiche  Filosofia  Ambiente Arte  Cinema Sport Napoli Università Home

Sulla temperanza  a cura di Eleonora Nesi

 Non ventilare il grano a qualsiasi vento e non camminare su qualsiasi sentiero.

Sii costante nel tuo sentimento e unica sia la tua parola.

Sii pronto nell’ascoltare, lento nel proferire una risposta.

Se conosci una cosa, rispondi al tuo prossimo, altrimenti metti una mano sulla bocca.

Nel parlare ci può essere onore o disonore, la lingua dell’uomo è la sua ro­vina.

Non far male né molto né poco, e da amico non divenire ne­mico, perché un cattivo nome si attira vergogna e disprezzo; così ac­cade al peccatore falso nelle sue prole.

Non ti abbandonare alla tua passione, perché non ti strazi come un toro fu­rioso; divorerà le tue foglie e tu perderai i tuoi frutti, si da renderti come un legno secco.

Una passione malvagia rovina chi la possiede e lo fa oggetto di scherno per i suoi nemici.

                                                                           (Sir. 5,9)

 

 

La temperanza è una virtù che modera l’attrattiva dei piaceri e rende ca­paci di equilibrio nell'uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La per­sona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili.

         Vivere bene altro non è che amare Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima e con tutto il proprio agire. Gli si dà (con la temperanza) un amore totale che nessuna sventura può far vacillare (e questo mette in evidenza la fortezza), un amore che obbedisce a Lui solo (e questo mette in evidenza la giustizia), che vigila al fine di discernere ogni cosa, nel timore di lasciarsi sorprendere dall’astuzia e della menzogna 8e questa è la prudenza).          (dal Catechismo della Chiesa Cattolica)

 

 

Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l'amore fraterno. all’amore fra­terno la ca­rità... Quindi, fratelli, cercate di rendere sempre più sicura la vo­stra vocazione e la vo­stra elezione. Se farete questo non inciamperete mai.                                                                        (2 Pt 1,5)

 

 

 

Tratto da Sulla Temperanza di Josef Pipier

 

Il primo fine a cui tende la temperanza è la “pace dell’animo” dice S. Tommaso D’Aquino, intendendo con animo il libero arbitrio, centro delle decisioni dell’uomo.

E’ quindi chiaro che non si tratta di una tranquillità soggettiva (Goethe la distingue dalla pace spirituale), non si tratta neppure di quella placidità soddisfatta, che può accompagnarsi con l’angusto orizzonte di una vita fa­cole e comoda, ne raffigura l’apatia inerte e fredda dello spirito.

Tutte queste cose non oltrepassano la superficie di una vita intellettuale e spirituale. Ma si tratta della pace che pervade la parte più intima dell’uomo: essa è il sigillo ed il frutto dell’ordine.

Fine della temperanza è l’ordinamento interiore dell’uomo, l’equilibrio interno, dal quale solo fluisce la ”pace dell’animo”.

L’elemento distintivo della temperanza (rispetto alle altre virtù cardi­nali) è il suo esclusivo rapporto all’operante stesso. La prudenza guarda alla realtà concreta di tutti gli esseri, la giustizia regola i rapporti con gli altri, con la fortezza l’uomo, dimentico di se steso, sacrifica beni e vita.

Temperanza significa: prendere di mira se stessi e la propria condi­zione, dirigere sguardo e volontà su noi stessi.

Secondo S. Tommaso la ragione esemplare e divina della temperanza sa­rebbe: il convergere dello spirito divino su se stesso.

 

 

L’uomo ha due modi di convergere su se stesso: l’uno disinteressato e ge­neroso, l’altro egoistico. Il primo solo é capace di produrre un'auto-conser­vazione, il secondo è distruttore. La temperanza è auto-conserva­zione ge­nerosa e disinteressata. L’intemperanza è auto-distruzione che si attua at­traverso il degenerare egoistico delle forze tendenti all'auto-conser­vazione. Dopo il peccalo originale, infatti, c'è nell’uomo non solo a possi­bilità, ma anche l'innaturale inclinazione ad amare più se stesso che Dio. La temperanza perciò disciplina e corregge qualsiasi egoistico sovverti­mento dell’ordine interiore, sul quale si fonda e vive la persona morale.

L’istinto naturale al godimento sensibile, nel piacere del cibo e della be­vanda e nel piacere sessuale non è altro che un eco e il riflesso delle più potenti    forze di conservazione dell'uomo. Tali impulsi primordiali del­l'esistenza umana - diretti sia alla conservazione del singo1o che della spe­cie umana per la quale sorto stati creati (Sap. 1,14) - sono congiunti alle originarie forme del godimento. È  queste energie, proprio perché sono così strettamente congiunte più radicale impulso dell'essere umano, quando degenerano egoisticamente sopraffanno nella loro irruenza distrut­trice tutte le altre forze dell’uomo. Ed è per questo che la temperanza ha qui il suo ambito più proprio: continenza e castità, incontinenza e lussuria sono le forme primarie di temperanza e d’intemperanza.

Riassumendo: castità, continenza, umiltà, mitezza, mansuetudine, studio­sitas sono le forme nelle quali si attua la temperanza; lussuria, in­conti­nenza, superbia, ira sfrenata, curiositas sono le forme dell’intemperanza.

Quindi è del tutto naturale per Tommaso d’Aquino quanto segue: come il mangiare e il bere, così anche per l’appagamento dell’istinto ses­suale natu­rale e così il piacere connesso sono buoni e senza ombra di pec­cato, natu­ralmente a condizione che in essi siano rispettati la giusta misura e l’ordine conveniente.

Quanto più una cosa è necessaria tanto più bisogna rispettare nei suoi ri­guardi l’ordine di ragione. Proprio perché è un bene così alto e necessa­rio, l’istinto sessuale richiede l’ordinamento preservante e disciplinante della ragione. L’essenza della castità-virtù è costituita esclusivamente da questo: la realizzazione dell’ordine razionale nel campo della generazione. Così per antitesi, l'essenza della lussuria, in quanto peccato, consiste nel violare e devastare l'ordine di ragione. Con ordine di ragione si intende, quindi, quell’ordine conforme alla realtà concreta, quale essa si manifesta all'uomo nella fede e nella scienza.

L’ordine di ragione importa in primo luogo: che la funzione della forza sessuale non venga repressa, impedita, ma abbia compiacimento nel ma­trimonio e nei suoi tre «beni»; secondariamente: che sia salvaguardata l'intima struttura della persona morale; terzo che non sia lesa la giustizia tra gli uomini. Cioè: si tratta della funzione della capacità generativa co­stituita nella creazione ed elevata nella nuova creazione operata da Cristo: si tratta della compagine della persona morale fondata sulla natura e sulla grazia: si tratta dell'ordinamento sociale, in quanto è garantito non solo dalla giustizia naturale, ma anche dalla superiore giustizia della caritas, cioè dell'amore soprannaturale di Dio e dell'uomo.

La castità realizza, nel campo della generazione, quell'ordine che è armo­nia con la verità acquisita e rivelata del mondo e dell'uomo.

Realizza quell'ordine che è conforme al duplice aspetto di questa ve­rità alla verità conquistata, non solo, ma anche nascosta, cioè al mistero.

Il potere distruttore dell'intemperanza trasforma le qualità della prudenza: riflessione, giudizio, risoluzione. Alla ponderatezza del consigliarsi con se stesso subentra una avventatezza e leggerezza; un giudizio precipitoso non sa attendere fino a che la ragione abbia ponderato il pro e il contro: e una retta risoluzione, qualora vi si pervenga, rimane sempre minacciata dall'in­stabilità di un cuore in balia del fluttuare delle emozioni indisciplinate del senso.

La castità, invece, non solo rende atti e pronti alla percezione della realtà, ma ci dispone ed abilita anche a quella suprema forma di armonia con il reale, nella quale coincidono il limpido affidarsi alla conoscenza e la dedi­zione generosa dell'amore, dispone cioè alla contemplazione nella quale l'uomo si volge all'Essere divino e avverte quella verità, che è il bene su­premo stesso.

Essere aperti alla verità delle cose reali e vivere la verità conosciuta: ecco l’essenza della moralità umana

La temperanza, conservando e regolando l'ordine interiore dell’uomo, lo guida alla realizzazione del vero bene e l’orienta al suo fine.

Senza di essa la corrente impetuosa delle massime tendenze che sono nel­l'intimo dell'uomo sconfinerebbe dai suoi argini naturali, foriera di distru­zioni e rovina. Perduta la sua direzione, essa non giungerebbe al mare della perfezione. La temperanza non è essa stessa la corrente: ma sponda e ar­gine. Dalla sua salvezza la corrente riceve il beneficio di poter fluire senza ostacoli; prende impeto, inclinazione e rapidità di corso.

 

 

Digiuno

 

Sant’Agostino dice: per la virtù non ha importanza alcuna la quantità e la qualità del cibo che uno mangia purché lo faccia in modo congruo agli uomini con cui vive, alla sua stessa persona e alle esigenze della sua sa­lute.

Quello che è veramente importante è la facilità e serenità d’animo con cui sa privarsene, richiedendolo necessità e dovere. Secondo S. Tom­maso il digiuno è un precetto della legge morale naturale; in quanto legge di natura è il dovere inerente alle cose stesse, direttamente fondato sull’essenza stessa della realtà creata. Chi non è ancora maturo per la per­fezione, perciò tutti noi cristiani, in generale non è in grado di salvaguar­dare il suo ordine interiore – in virtù del quale viene sedata la rivolta dei sensi e lo spirito è fatto libero e capace di spiccare il volo verso quelle mete in cui trova l’appagamento a lui conveniente e la sua pace – se non si soccorre come d’una medicina, con le risorse disciplinari del digiuno. È nostro dovere, in base all’obbligazione naturale, impegnarsi a fondo per essere realmente ciò che noi siamo per essenza: persona morale libera pa­drona di se, capace di reggere se stessa.

«Quando digiunate, non prendete come gli ipocriti una faccia malin­co­nica!» (Mt 6,16) si deve digiunare a cuor contento, senza lasciar spazio alla vanità, al darsi importanza, all’impaziente smania di innalzarsi sugli imperfetti.

La letizia serena dell’animo è la caratteristica inconfondibile nella quale si rivela l’intima autenticità della temperanza, in quanto auto-con­servazione generosa e disinteressata.

 

Umiltà

 

Excellentia, l’eccellere, il primeggiare, il valere: ecco uno dei beni nei quali l’uomo è naturalmente portato a ricercare la piena realizzazione della sua esistenza. La virtù della temperanza, della disciplina e della mi­sura, in quanto vincola questa tendenza naturale all’ordine di ragione si chiama umiltà. L’umiltà consiste nell’avere di se stessi quella stima che corri­sponde alla realtà. E con ciò abbiamo detto quasi tutto era necessario dire.

Nulla spiana la via all’intelligenza della virtù dell’umiltà come que­sto principio: umiltà o magnanimità (magnanimitas) non sono antitetiche, non si escludono a vicenda: sono virtù affini e complementari e ambedue in comune si contrappongono alla superbia e alla pusillanimità.

Che cosa infatti significa magnanimità? La magnanimità è lo slancio, il tendere dello spirito alle grandi cose. Magnanimo è colui che esige grandi cose dal suo cuore e se ne rende degno. In certo senso possiamo dire di lui che è uno spirito “selettore”; egli non si lascia attirare da qualsiasi avveni­mento, ma solo da ciò che è grande, da ciò che gli è conforme. La magna­nimità appetisce soprattutto i massimi onori; «il magnanimo tende a quelle opere che sono degne del massimo onore».

La mentalità dell’uomo comune è pronta a vedere nel magnanimo un su­perbo e conseguentemente a travisare in egual senso la vera natura dell’umiltà. La superbia non è un modo di comportarsi che si verifichi nei rapporti interumani ordinati. La superbia è un atteggiamento dell’uomo di fronte a Dio; è la negazione, contraria alla realtà, della dipendenza della creatura del suo Creatore.

In ogni peccato ci troviamo di fronte a due componenti: l’avversione a Dio e l’attaccamento ai beni caduchi. L’elemento determinante è il primo. Ora in nessun altro peccato questo elemento è così esplicito come nella super­bia.

 

La passione dell’ira

 

Questo discorso verte sull’ira, la coscienza cristiana comune suole scor­gere in essa unicamente l’aspetto d’intemperanza, l’elemento disordi­nato e negativo. Invece l’ira, proprio come la sensibilità, la concupiscenza, è una delle massime e fondamentali potenzialità della natura umana. In questa forza, cioè nell’adirarsi, abbiamo addirittura l’estrinsecazione più chiara dell’energia dell’essere umano.

Conseguire una cosa difficile a raggiungersi, superare una contra­rietà: ecco la funzione di questo appetito, sempre pronto a scendere in campo, quando un bonum arduum, attende di essere conquistato. «L’ira è data agli esseri dotati di vita animale affinché sappiano rimuovere gli osta­coli che impedi­scono all’appetito concupiscibile di tendere al suo oggetto; sia per la diffi­coltà di superare un male». L’ira è la potenza volta ad af­frontare le avver­sità essa è la vera passione di difesa e di resistenza dell’anima.

Quindi: condannare l’appetito irascibile come qualcosa d’intrinsecamente cattivo, e perciò da reprimere, equivale  condannare la sensibilità, la pas­sione e la concupiscenza; in entrambe i casi si oltraggiano le massime energie della nostra natura, si offende il Creatore, che, come dica la litur­gia della Chiesa, «ha mirabilmente costituito la dignità della natura umana».

L’ira sregolata che infrange l’ordine di ragione è evidentemente cat­tiva: è peccato. Quindi sono dal male e contrarie all’ordine: la collera, l’astio e lo spirito di vendetta, le tre forme principali di ira indisciplinata. La collera oscura lo sguardo intellettivo prima ancora che esso abbia po­tuto percepire la realtà oggettiva e giudicarla; l’astio e il rancore si arro­vellano con gioia amara nell’opporsi alla parola della verità e dell’amore; essi avvelenano l’animo come una cancrena. Infine è naturale che sia cat­tiva qualsiasi forma di ira congiunta con una volontà perversa: non occorre spendere pa­role per provarlo.

Ecco quanto l’iracondo intemperante è convinto di raggiungere nel suo fu­rore spumeggiante: tenere saldamente in mano tutto il suo essere come una clava afferrata per rotearla; proprio quando egli fallisce per in­trinseca e inevitabile necessità. Tutto questo infatti è frutto esclusivo e pe­culiare della mansuetudine e della clemenza (non sono identiche queste due virtù: la clemenza è la mansuetudine vista nel suo rapporto con l’esterno) «la mansuetudine porta l’uomo al massimo grado della padro­nanza di se». La mansuetudine però, non consiste nell’indebolire o nel re­primere l’appetito irascibile, ma nel disciplinarlo e moderarlo.

 

Disciplina del vedere

 

Studiositas, curiositas significano: disciplina e indisciplina dell’appetito naturale del conoscere: temperanza e intemperanza prima di tutto nel pia­cere della percezione sensoriale delle molteplici parvenze del mondo.

È  di Nietzsche il detto sulla sapienza«che stabilisce i confini alla co­no­scenza». Parole che significano: anche la sete del conoscere questa su­blime passione dell’essere umano, ha bisogno dell’opera regolatrice della sapienza, «affinché l’uomo non tenda smodatamente alla conoscenza delle cose».

Ora in che cosa consiste questa sregolatezza? Non già (e lo ha affer­mato San Tommaso D’Aquino da tempo contro i dispregiatori della crea­zione naturale, e urge riaffermarlo oggi nello stesso senso) nella tendenza dello spirito umano ad investigare i segreti della natura e gli arcani più re­conditi della creazione: non quindi nella scienza naturale in genere. Nella Summa Theologica si dice dello studioso filosofo che esso «è lodevole a causa della verità, raggiunta da filosofi (pagani), perché come dice la let­tera ai romani (1, 19), Dio la manifestò loro». Sullo stesso argomento, e cioè sul pugnace assalto ai misteri naturali della creazione, è pur sempre degna di nota la massima di Goethe :«Noi conosceremmo molto di più e molto me­glio se non volessimo conoscere troppo esattamente».

La magia per esempio, dice San Tommaso, sarebbe appetito smode­rato di conoscenza. È facilissimo, per noi, trovare ridicolo questo pensiero. Ep­pure non è poi tanto ridicolo il chiederci se realmente siamo ormai e del tutto alieni dal pagare la conquista dell’inaccessibile anche a prezzo della nostra salvezza. Soprattutto smoderato e insensati è il volersi cimentare ad insignorirsi di Dio tentando di decifrarne il mistero.

Noi dobbiamo credere, per esempio, alla realtà dell’azione di Dio nella storia e al suo senso ultimo. Nessun uomo però presumerà ed ardirà addi­tare un avvenimento precisandolo nelle sue circostanze di tempo e di luogo come voluto da Dio a premio o a castigo oppure a conferma o ripu­dio. Voler svelare l’incomprensibilità divina per l’uso spicciolo della vita quo­tidiana e quindi, in realtà, negarla: è una tendenza che si nasconde mi­me­tizzata sotto mille fogge diverse ed è altrettanto facile e pericolosa tanto per lo spirito più profondo come per il più superficiale. Sant’Agostino scrive nelle Confessioni :«Non mi curo di conoscere il coro degli astri, ne la mia anima domanda  responsi alle ombre: detesto tutti questi riti sacrile­ghi. Eppure  Signore, mio Dio, con quanti raggiri e suggestioni mi circui­sce il nemico, affinché io chieda un segno a Te, che devo servire in sem­plicità e fedeltà di cuore!».

L’elemento dissolvitore di questo sovvertimento, generato dalla cu­pidità visiva e costituitosi in modo, consiste nell’estinzione di una delle massime capacità umane: la capacità di raggiungere il reale. L’uomo è fatto inca­pace di raggiungere e possedere se stesso, non solo, ma anche la realtà e la verità.

Perciò quando tale mondo illusorio e chimerico minaccia di soffocare e spegnere il mondo reale, allora la canalizzazione della passione naturale del conoscere assume il carattere di una vera e propria misura di legittima e necessaria autodifesa. Quindi la studiositas significa anzitutto che l’uomo con tutta l’energia di un’autoconservazione disinteressata e gene­rosa resiste alla quasi inevitabile tentazione dell’intemperanza, che gli pre­clude radicalmente la cittadella interiore della sua vita all’invasione della tumultuante turba di falsi miraggi e di vuoti rumori. E tutto ciò per custo­dire oppure per riconquistare, in un’educazione ascetica della conoscenza e in essa sola, il nerbo costitutivo di un’esistenza umana veramente vissuta: attingere la realtà di Dio e della creazione  e a queste verità, accessibili solo nel silenzio, conformare se stessi e il mondo.

 

Il frutto della temperanza

 

È alla temperanza, in quanto realizzazione preservante e tutelante l’interiore gerarchia dell’uomo, che tocca in retaggio, in senso e misura particolarissimi, il dono della bellezza. Bella è la temperanza non solo, ma di bellezza risplende il temperante. È pacifico che noi parliamo qui della bellezza presa nel suo senso originario: splendore del vero e del bene riful­gente da ogni essere nell’ordine; non quindi nel suo significato superfi­ciale, epidermico, di una piacevolezza meramente sensibile. La bellezza della temperanza ha un volto più spirituale, più austero e più virile. È con­naturale alla sua stessa essenza non essere restia ad un contatto con la viri­lità autentica, anzi è connaturale il tendervi. Ancora: la temperanza, sor­gente e premessa della fortezza è la virtù della virilità piena e matura. L’infantile disordine dell’intemperanza invece, non solo deturpa, rovina la bellezza, ma corrompe il cuore; è massimamente a causa dell’intemperanza che l’uomo si fa incapace e restio “a mantenere il cuore intatto” contro il potere esiziale del male nel mondo.

Non è tanto facile leggere sul volto di un uomo i segni della sua giu­stizia o ingiustizia interiore. Invece la temperanza e l’intemperanza si ri­velano automaticamente e chiaramente in tutto quanto è immediata estrin­seca­zione della persona: nella compostezza o nella compostezza del viso, nel portamento del riso, nella grafia. Come l’anima stessa e come qualsiasi at­tività spirituale e intellettuale in genere, così la temperanza, in quanto or­dine interno dell’uomo non può restare puramente interna. Essere forma del corpo: ecco l’essenza stessa dell’anima.

Pochi hanno notato una cosa importantissima: quasi tutte le cupidigie mor­bose – testimoni per esse dell’ordine interno violato – sono comprese nell’ambito della temperanza, dalle morbosità sessuali all’alcolismo, dalla megalomania all’iracondia furiosa, fino all’avida bramosia di sensazioni dei dissipati. Tutte queste forme di ostinazione e depravazione egoistica hanno per compagna la disperazione: esse infatti falliscono sempre lo scopo voluto con tanta pervicacia: l’acquietamento del proprio io. È ine­vitabile: ogni ricerca egoistica di noi stessi è vana e disperata fatica. Alla base di qualunque ordinamento umano sta questa realtà naturale e prima: che l’uomo ami più Dio che se stesso. Ne consegue che chi cammina sulla via dell’egoismo perde fatalmente e inevitabilmente se stesso.

Un canale sotterraneo, invisibile collega tra loro intemperanza e di­spera­zione. L’uomo che nella sua caparbia sregolatezza si accanisce a vo­ler cer­care nell’ambizione o nel piacere il suo supremo acquietamento o compi­mento, cammina a grandi passi sulla strada della disperazione. E av­viene anche quest’altra cosa: colui che ripudiando costantemente e for­malmente il suo compiacimento, e disperando di Dio e di se stesso, anti­cipa il non compimento, quegli sa concepire il paradiso dei godimenti dis­soluti come l’unico luogo, non già delle beatitudini, ma dell’oblio, del di­menticarsi :«Nella loro disperazione si abbandonano all’intemperanza». (Efes. 4, 19)

Che il peccato sia una schiavitù e un peso appare chiarissimo nell’intemperanza: nella cupida brama invano ricercante se stessa, dell’autoconservazione egoistica.

La temperanza invece affranca e purifica. Anzitutto opera una purifi­ca­zione.

Secondo Giovanni Cassiano la purità di cuore è il senso intimo della tem­peranza «ad essa conducono la solitudine, i digiuni, veglie e peni­tenze».

Ma qual è il significato più profondo di purità? Eccolo. Purità è: la cristal­lina libertà, il generoso disinteresse dell’uomo nelle cose umane, quando la scossa di un profondo dolore lo porta ai vertici dell’esistenza oppure quando lo sfiora l’alito della morte imminente. La purità è l’incondizionato aprirsi di tutto l’essere, quell’aprirsi dal quale solo si sciolse la parola .«Ecco, io sono l’ancella del Signore».(Lc 1,38)

La purità, non è quindi solo il frutto della purificazione.

Nell’ardimentosa magnanimità del suo cuore aperto e fidente, essa sa an­che prontamente abbracciare le purificazioni divine, tremende forse e mortali, esprimendone così la virtù fecondatrice e trasformatrice.

Questo è il fine ultimo delle temperanza: virtù dell’ordine e della mi­sura.

 

 

PREGHIERA ALLA MADONNA DELL’EQUILIBRIO

 

VERGINE MADRE DI DIO

E DEGLI UOMINI, MARIA

 

Noi ti chiediamo il dono dell’equilibrio cristiano, tanto ne­cessario al mondo e alla Chiesa di oggi.

 

-       Liberaci dal male e dalle nostre meschinità, salvaci dai compro­messi e dai conformismi: dallo scoraggiamento e dall’orgoglio, dalla timidezza e dalla suffi­cienza, dall’ignoranza e dalla pre­sunzione, dall’errore, dalla du­rezza di cuore.

Donaci la tenacia nello sforzo, la calma nella sconfitta, il coraggio per ricominciare, l’umiltà nel successo.

 

Apri i nostri cuori alla santità

 

-       Donaci una perfetta semplicità, un cuore puro, l’amore alla sem­plicità e all’essenziale, la forza di impegnarci senza calcolo alcuno, la lealtà di conoscere i nostri li­miti e di rispettarli.

Accordaci la grazia di sapere acco­gliere e vivere la parola di Dio. Ac­cordaci il dono della preghiera.

 

 

 

 

 

 

Apri i nostri cuori a Dio

 

-       Noi ti chiediamo l’amore alla Chiesa, così come tuo Figlio l’ha voluta, per partecipare in essa e con essa, in fraterna comunione con tutti i membri del popolo di Dio – gerarchia e fedeli – alla salvezza degli uomini nostri fra­telli.

 

Infondici per gli uomini compren­sione e rispetto, misericordia e amore.

 

Apri il nostro cuore agli altri

 

-       Mantienici nell’impegno di vivere e di accrescere questo equilibrio, che è fede e speranza, sapienza e rettitudine, spirito di iniziativa e prudenza, apertura e interiorità, dono totale, amore.

 

Santa Maria noi ci affidiamo alla tua tenerezza. Amen.

 

 

 

 

 

 

 

 

2001

Novembre

Ottobre

Settembre

Giugno

Maggio

Aprile

Marzo

Febbraio

Gennaio

2000

Dicembre

Novembre

Ottobre

Settembre

    Politica Cultura Scienze  Società  Religione Psiche  Filosofia  Ambiente Arte  Cinema Sport Napoli Università Home