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Sulla temperanza a cura di Eleonora Nesi Non ventilare
il grano a qualsiasi vento e non camminare su qualsiasi sentiero. Sii
costante nel tuo sentimento e unica sia la tua parola. Sii pronto
nell’ascoltare, lento nel proferire una risposta. Se conosci una
cosa, rispondi al tuo prossimo, altrimenti metti una mano sulla bocca. Nel parlare ci
può essere onore o disonore, la lingua dell’uomo è la sua rovina. Non far male né
molto né poco, e da amico non divenire nemico, perché un cattivo nome si
attira vergogna e disprezzo; così accade al peccatore falso nelle sue prole. Non
ti abbandonare alla tua passione, perché non ti strazi come un toro furioso;
divorerà le tue foglie e tu perderai i tuoi frutti, si da renderti come un
legno secco. Una passione
malvagia rovina chi la possiede e lo fa oggetto di scherno per i suoi nemici.
(Sir. 5,9) La temperanza è una virtù che modera l’attrattiva
dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell'uso dei beni creati. Essa
assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i
limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti
sensibili.
Vivere bene altro non è che amare
Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima e con tutto il
proprio agire. Gli si dà (con la temperanza) un amore totale che nessuna
sventura può far vacillare (e questo mette in evidenza la fortezza), un amore
che obbedisce a Lui solo (e questo mette in evidenza la giustizia), che vigila
al fine di discernere ogni cosa, nel timore di lasciarsi sorprendere
dall’astuzia e della menzogna 8e questa è la prudenza).
(dal Catechismo della Chiesa Cattolica) Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l'amore fraterno. all’amore fraterno la carità... Quindi, fratelli, cercate di rendere sempre più sicura la vostra vocazione e la vostra elezione. Se farete questo non inciamperete mai. (2 Pt 1,5) Tratto
da Sulla Temperanza di Josef Pipier Il
primo fine a cui tende la temperanza è la “pace dell’animo” dice S.
Tommaso D’Aquino, intendendo con animo il libero arbitrio, centro delle
decisioni dell’uomo. E’
quindi chiaro che non si tratta di una tranquillità soggettiva (Goethe la
distingue dalla pace spirituale), non si tratta neppure di quella placidità
soddisfatta, che può accompagnarsi con l’angusto orizzonte di una vita facole
e comoda, ne raffigura l’apatia inerte e fredda dello spirito. Tutte queste cose non oltrepassano la superficie di
una vita intellettuale e spirituale. Ma si tratta della pace che pervade la
parte più intima dell’uomo: essa è il sigillo ed il frutto dell’ordine. Fine
della temperanza è l’ordinamento interiore dell’uomo, l’equilibrio
interno, dal quale solo fluisce la ”pace dell’animo”. L’elemento
distintivo della temperanza (rispetto alle altre virtù cardinali) è il suo
esclusivo rapporto all’operante stesso. La prudenza guarda alla realtà
concreta di tutti gli esseri, la giustizia regola i rapporti con gli altri, con
la fortezza l’uomo, dimentico di se steso, sacrifica beni e vita. Temperanza
significa: prendere di mira se stessi e la propria condizione, dirigere
sguardo e volontà su noi stessi. Secondo
S. Tommaso la ragione esemplare e divina della temperanza sarebbe: il
convergere dello spirito divino su se stesso. L’uomo
ha due modi di convergere su se stesso: l’uno disinteressato e generoso,
l’altro egoistico. Il primo solo é capace di produrre un'auto-conservazione,
il secondo è distruttore. La temperanza è auto-conservazione generosa e
disinteressata. L’intemperanza è auto-distruzione che si attua attraverso
il degenerare egoistico delle forze tendenti all'auto-conservazione. Dopo il
peccalo originale, infatti, c'è nell’uomo non solo a possibilità, ma anche
l'innaturale inclinazione ad amare più se stesso che Dio. La temperanza perciò
disciplina e corregge qualsiasi egoistico sovvertimento dell’ordine
interiore, sul quale si fonda e vive la persona morale. L’istinto
naturale al godimento sensibile, nel piacere del cibo e della bevanda e nel
piacere sessuale non è altro che un eco e il riflesso delle più potenti
forze di conservazione dell'uomo. Tali impulsi primordiali dell'esistenza
umana - diretti sia alla conservazione del singo1o che della specie umana per
la quale sorto stati creati (Sap. 1,14) - sono congiunti alle originarie forme
del godimento. È queste energie, proprio perché sono così strettamente
congiunte più radicale impulso dell'essere umano, quando degenerano
egoisticamente sopraffanno nella loro irruenza distruttrice tutte le altre
forze dell’uomo. Ed è per questo che la temperanza ha qui il suo ambito più
proprio: continenza e castità, incontinenza e lussuria sono le forme primarie
di temperanza e d’intemperanza. Riassumendo:
castità, continenza, umiltà, mitezza, mansuetudine, studiositas
sono le forme nelle quali si attua la temperanza; lussuria, incontinenza,
superbia, ira sfrenata, curiositas sono le forme dell’intemperanza. Quindi
è del tutto naturale per Tommaso d’Aquino quanto segue: come il mangiare e il
bere, così anche per l’appagamento dell’istinto sessuale naturale e così
il piacere connesso sono buoni e senza ombra di peccato, naturalmente a
condizione che in essi siano rispettati la giusta misura e l’ordine
conveniente. Quanto più una cosa è necessaria tanto più bisogna rispettare nei suoi riguardi l’ordine di ragione. Proprio perché è un bene così alto e necessario, l’istinto sessuale richiede l’ordinamento preservante e disciplinante della ragione. L’essenza della castità-virtù è costituita esclusivamente da questo: la realizzazione dell’ordine razionale nel campo della generazione. Così per antitesi, l'essenza della lussuria, in quanto peccato, consiste nel violare e devastare l'ordine di ragione. Con ordine di ragione si intende, quindi, quell’ordine conforme alla realtà concreta, quale essa si manifesta all'uomo nella fede e nella scienza. L’ordine
di ragione importa in primo luogo: che la funzione della forza sessuale non
venga repressa, impedita, ma abbia compiacimento nel matrimonio e nei suoi tre
«beni»; secondariamente: che sia salvaguardata l'intima struttura della
persona morale; terzo che non sia lesa la giustizia tra gli uomini. Cioè: si
tratta della funzione della capacità generativa costituita nella creazione ed
elevata nella nuova creazione operata da Cristo: si tratta della compagine della
persona morale fondata sulla natura e sulla grazia: si tratta dell'ordinamento
sociale, in quanto è garantito non solo dalla giustizia naturale, ma anche
dalla superiore giustizia della caritas,
cioè dell'amore soprannaturale di Dio e dell'uomo. La
castità realizza, nel campo della generazione, quell'ordine che è armonia
con la verità acquisita e rivelata del mondo e dell'uomo. Realizza
quell'ordine che è conforme al duplice aspetto di questa verità alla verità
conquistata, non solo, ma anche nascosta, cioè al mistero. Il potere distruttore dell'intemperanza trasforma le
qualità della prudenza: riflessione, giudizio, risoluzione. Alla ponderatezza
del consigliarsi con se stesso subentra una avventatezza e leggerezza; un
giudizio precipitoso non sa attendere fino a che la ragione abbia ponderato il
pro e il contro: e una retta risoluzione, qualora vi si pervenga, rimane sempre
minacciata dall'instabilità di un cuore in balia del fluttuare delle emozioni
indisciplinate del senso. La
castità, invece, non solo rende atti e pronti alla percezione della realtà, ma
ci dispone ed abilita anche a quella suprema forma di armonia con il reale,
nella quale coincidono il limpido affidarsi alla conoscenza e la dedizione
generosa dell'amore, dispone cioè alla contemplazione nella quale l'uomo si
volge all'Essere divino e avverte quella verità, che è il bene supremo
stesso. Essere
aperti alla verità delle cose reali e vivere la verità conosciuta: ecco
l’essenza della moralità umana La temperanza, conservando e regolando l'ordine
interiore dell’uomo, lo guida alla realizzazione del vero bene e l’orienta
al suo fine. Senza di essa la corrente impetuosa delle massime tendenze che sono nell'intimo dell'uomo sconfinerebbe dai suoi argini naturali, foriera di distruzioni e rovina. Perduta la sua direzione, essa non giungerebbe al mare della perfezione. La temperanza non è essa stessa la corrente: ma sponda e argine. Dalla sua salvezza la corrente riceve il beneficio di poter fluire senza ostacoli; prende impeto, inclinazione e rapidità di corso. Digiuno Sant’Agostino
dice: per la virtù non ha importanza alcuna la quantità e la qualità del cibo
che uno mangia purché lo faccia in modo congruo agli uomini con cui vive, alla
sua stessa persona e alle esigenze della sua salute. Quello
che è veramente importante è la facilità e serenità d’animo con cui sa
privarsene, richiedendolo necessità e dovere. Secondo S. Tommaso il digiuno
è un precetto della legge morale naturale; in quanto legge di natura è il
dovere inerente alle cose stesse, direttamente fondato sull’essenza stessa
della realtà creata. Chi non è ancora maturo per la perfezione, perciò
tutti noi cristiani, in generale non è in grado di salvaguardare il suo
ordine interiore – in virtù del quale viene sedata la rivolta dei sensi e lo
spirito è fatto libero e capace di spiccare il volo verso quelle mete in cui
trova l’appagamento a lui conveniente e la sua pace – se non si soccorre
come d’una medicina, con le risorse disciplinari del digiuno. È nostro
dovere, in base all’obbligazione naturale, impegnarsi a fondo per essere
realmente ciò che noi siamo per essenza: persona morale libera padrona di se,
capace di reggere se stessa. «Quando
digiunate, non prendete come gli ipocriti una faccia malinconica!» (Mt
6,16) si deve digiunare a cuor contento, senza lasciar spazio alla vanità, al
darsi importanza, all’impaziente smania di innalzarsi sugli imperfetti. La
letizia serena dell’animo è la caratteristica inconfondibile nella quale si
rivela l’intima autenticità della temperanza, in quanto auto-conservazione
generosa e disinteressata. Umiltà Excellentia, l’eccellere, il primeggiare, il valere: ecco uno dei beni nei quali
l’uomo è naturalmente portato a ricercare la piena realizzazione della sua
esistenza. La virtù della temperanza, della disciplina e della misura, in
quanto vincola questa tendenza naturale all’ordine di ragione si chiama umiltà.
L’umiltà consiste nell’avere di se stessi quella stima che corrisponde
alla realtà. E con ciò abbiamo detto quasi tutto era necessario dire. Nulla
spiana la via all’intelligenza della virtù dell’umiltà come questo
principio: umiltà o magnanimità (magnanimitas)
non sono antitetiche, non si escludono a vicenda: sono virtù affini e
complementari e ambedue in comune si contrappongono alla superbia e alla
pusillanimità. Che cosa infatti significa magnanimità? La
magnanimità è lo slancio, il tendere dello spirito alle grandi cose. Magnanimo
è colui che esige grandi cose dal suo cuore e se ne rende degno. In certo senso
possiamo dire di lui che è uno spirito “selettore”; egli non si lascia
attirare da qualsiasi avvenimento, ma solo da ciò che è grande, da ciò che
gli è conforme. La magnanimità appetisce soprattutto i massimi onori; «il
magnanimo tende a quelle opere che sono degne del massimo onore». La
mentalità dell’uomo comune è pronta a vedere nel magnanimo un superbo e
conseguentemente a travisare in egual senso la vera natura dell’umiltà. La
superbia non è un modo di comportarsi che si verifichi nei rapporti interumani
ordinati. La superbia è un atteggiamento dell’uomo di fronte a Dio; è la
negazione, contraria alla realtà, della dipendenza della creatura del suo
Creatore. In
ogni peccato ci troviamo di fronte a due componenti: l’avversione a Dio e
l’attaccamento ai beni caduchi. L’elemento determinante è il primo. Ora in
nessun altro peccato questo elemento è così esplicito come nella superbia. La passione dell’ira
Questo discorso verte sull’ira, la coscienza cristiana comune suole scorgere in essa unicamente l’aspetto d’intemperanza, l’elemento disordinato e negativo. Invece l’ira, proprio come la sensibilità, la concupiscenza, è una delle massime e fondamentali potenzialità della natura umana. In questa forza, cioè nell’adirarsi, abbiamo addirittura l’estrinsecazione più chiara dell’energia dell’essere umano. Conseguire una cosa difficile a raggiungersi, superare una contrarietà: ecco la funzione di questo appetito, sempre pronto a scendere in campo, quando un bonum arduum, attende di essere conquistato. «L’ira è data agli esseri dotati di vita animale affinché sappiano rimuovere gli ostacoli che impediscono all’appetito concupiscibile di tendere al suo oggetto; sia per la difficoltà di superare un male». L’ira è la potenza volta ad affrontare le avversità essa è la vera passione di difesa e di resistenza dell’anima. Quindi: condannare l’appetito irascibile come qualcosa d’intrinsecamente cattivo, e perciò da reprimere, equivale condannare la sensibilità, la passione e la concupiscenza; in entrambe i casi si oltraggiano le massime energie della nostra natura, si offende il Creatore, che, come dica la liturgia della Chiesa, «ha mirabilmente costituito la dignità della natura umana». L’ira sregolata che infrange l’ordine di ragione è evidentemente cattiva: è peccato. Quindi sono dal male e contrarie all’ordine: la collera, l’astio e lo spirito di vendetta, le tre forme principali di ira indisciplinata. La collera oscura lo sguardo intellettivo prima ancora che esso abbia potuto percepire la realtà oggettiva e giudicarla; l’astio e il rancore si arrovellano con gioia amara nell’opporsi alla parola della verità e dell’amore; essi avvelenano l’animo come una cancrena. Infine è naturale che sia cattiva qualsiasi forma di ira congiunta con una volontà perversa: non occorre spendere parole per provarlo. Ecco quanto l’iracondo intemperante è convinto di raggiungere nel suo furore spumeggiante: tenere saldamente in mano tutto il suo essere come una clava afferrata per rotearla; proprio quando egli fallisce per intrinseca e inevitabile necessità. Tutto questo infatti è frutto esclusivo e peculiare della mansuetudine e della clemenza (non sono identiche queste due virtù: la clemenza è la mansuetudine vista nel suo rapporto con l’esterno) «la mansuetudine porta l’uomo al massimo grado della padronanza di se». La mansuetudine però, non consiste nell’indebolire o nel reprimere l’appetito irascibile, ma nel disciplinarlo e moderarlo. Disciplina del vedere Studiositas, curiositas significano: disciplina e indisciplina dell’appetito naturale del conoscere: temperanza e intemperanza prima di tutto nel piacere della percezione sensoriale delle molteplici parvenze del mondo. È di Nietzsche il detto sulla sapienza«che stabilisce i confini alla conoscenza». Parole che significano: anche la sete del conoscere questa sublime passione dell’essere umano, ha bisogno dell’opera regolatrice della sapienza, «affinché l’uomo non tenda smodatamente alla conoscenza delle cose». Ora in che cosa consiste questa sregolatezza? Non già (e lo ha affermato San Tommaso D’Aquino da tempo contro i dispregiatori della creazione naturale, e urge riaffermarlo oggi nello stesso senso) nella tendenza dello spirito umano ad investigare i segreti della natura e gli arcani più reconditi della creazione: non quindi nella scienza naturale in genere. Nella Summa Theologica si dice dello studioso filosofo che esso «è lodevole a causa della verità, raggiunta da filosofi (pagani), perché come dice la lettera ai romani (1, 19), Dio la manifestò loro». Sullo stesso argomento, e cioè sul pugnace assalto ai misteri naturali della creazione, è pur sempre degna di nota la massima di Goethe :«Noi conosceremmo molto di più e molto meglio se non volessimo conoscere troppo esattamente». La magia per esempio, dice San Tommaso, sarebbe appetito smoderato di conoscenza. È facilissimo, per noi, trovare ridicolo questo pensiero. Eppure non è poi tanto ridicolo il chiederci se realmente siamo ormai e del tutto alieni dal pagare la conquista dell’inaccessibile anche a prezzo della nostra salvezza. Soprattutto smoderato e insensati è il volersi cimentare ad insignorirsi di Dio tentando di decifrarne il mistero. Noi dobbiamo credere, per esempio, alla realtà dell’azione di Dio nella storia e al suo senso ultimo. Nessun uomo però presumerà ed ardirà additare un avvenimento precisandolo nelle sue circostanze di tempo e di luogo come voluto da Dio a premio o a castigo oppure a conferma o ripudio. Voler svelare l’incomprensibilità divina per l’uso spicciolo della vita quotidiana e quindi, in realtà, negarla: è una tendenza che si nasconde mimetizzata sotto mille fogge diverse ed è altrettanto facile e pericolosa tanto per lo spirito più profondo come per il più superficiale. Sant’Agostino scrive nelle Confessioni :«Non mi curo di conoscere il coro degli astri, ne la mia anima domanda responsi alle ombre: detesto tutti questi riti sacrileghi. Eppure Signore, mio Dio, con quanti raggiri e suggestioni mi circuisce il nemico, affinché io chieda un segno a Te, che devo servire in semplicità e fedeltà di cuore!». L’elemento dissolvitore di questo sovvertimento, generato dalla cupidità visiva e costituitosi in modo, consiste nell’estinzione di una delle massime capacità umane: la capacità di raggiungere il reale. L’uomo è fatto incapace di raggiungere e possedere se stesso, non solo, ma anche la realtà e la verità. Perciò quando tale mondo illusorio e chimerico minaccia di soffocare e spegnere il mondo reale, allora la canalizzazione della passione naturale del conoscere assume il carattere di una vera e propria misura di legittima e necessaria autodifesa. Quindi la studiositas significa anzitutto che l’uomo con tutta l’energia di un’autoconservazione disinteressata e generosa resiste alla quasi inevitabile tentazione dell’intemperanza, che gli preclude radicalmente la cittadella interiore della sua vita all’invasione della tumultuante turba di falsi miraggi e di vuoti rumori. E tutto ciò per custodire oppure per riconquistare, in un’educazione ascetica della conoscenza e in essa sola, il nerbo costitutivo di un’esistenza umana veramente vissuta: attingere la realtà di Dio e della creazione e a queste verità, accessibili solo nel silenzio, conformare se stessi e il mondo. Il frutto della temperanza È alla temperanza, in quanto realizzazione preservante e tutelante l’interiore gerarchia dell’uomo, che tocca in retaggio, in senso e misura particolarissimi, il dono della bellezza. Bella è la temperanza non solo, ma di bellezza risplende il temperante. È pacifico che noi parliamo qui della bellezza presa nel suo senso originario: splendore del vero e del bene rifulgente da ogni essere nell’ordine; non quindi nel suo significato superficiale, epidermico, di una piacevolezza meramente sensibile. La bellezza della temperanza ha un volto più spirituale, più austero e più virile. È connaturale alla sua stessa essenza non essere restia ad un contatto con la virilità autentica, anzi è connaturale il tendervi. Ancora: la temperanza, sorgente e premessa della fortezza è la virtù della virilità piena e matura. L’infantile disordine dell’intemperanza invece, non solo deturpa, rovina la bellezza, ma corrompe il cuore; è massimamente a causa dell’intemperanza che l’uomo si fa incapace e restio “a mantenere il cuore intatto” contro il potere esiziale del male nel mondo. Non è tanto facile leggere sul volto di un uomo i segni della sua giustizia o ingiustizia interiore. Invece la temperanza e l’intemperanza si rivelano automaticamente e chiaramente in tutto quanto è immediata estrinsecazione della persona: nella compostezza o nella compostezza del viso, nel portamento del riso, nella grafia. Come l’anima stessa e come qualsiasi attività spirituale e intellettuale in genere, così la temperanza, in quanto ordine interno dell’uomo non può restare puramente interna. Essere forma del corpo: ecco l’essenza stessa dell’anima. Pochi hanno notato una cosa importantissima: quasi tutte le cupidigie morbose – testimoni per esse dell’ordine interno violato – sono comprese nell’ambito della temperanza, dalle morbosità sessuali all’alcolismo, dalla megalomania all’iracondia furiosa, fino all’avida bramosia di sensazioni dei dissipati. Tutte queste forme di ostinazione e depravazione egoistica hanno per compagna la disperazione: esse infatti falliscono sempre lo scopo voluto con tanta pervicacia: l’acquietamento del proprio io. È inevitabile: ogni ricerca egoistica di noi stessi è vana e disperata fatica. Alla base di qualunque ordinamento umano sta questa realtà naturale e prima: che l’uomo ami più Dio che se stesso. Ne consegue che chi cammina sulla via dell’egoismo perde fatalmente e inevitabilmente se stesso. Un canale sotterraneo, invisibile collega tra loro intemperanza e disperazione. L’uomo che nella sua caparbia sregolatezza si accanisce a voler cercare nell’ambizione o nel piacere il suo supremo acquietamento o compimento, cammina a grandi passi sulla strada della disperazione. E avviene anche quest’altra cosa: colui che ripudiando costantemente e formalmente il suo compiacimento, e disperando di Dio e di se stesso, anticipa il non compimento, quegli sa concepire il paradiso dei godimenti dissoluti come l’unico luogo, non già delle beatitudini, ma dell’oblio, del dimenticarsi :«Nella loro disperazione si abbandonano all’intemperanza». (Efes. 4, 19) Che il peccato sia una schiavitù e un peso appare chiarissimo nell’intemperanza: nella cupida brama invano ricercante se stessa, dell’autoconservazione egoistica. La temperanza invece affranca e purifica. Anzitutto opera una purificazione. Secondo Giovanni Cassiano la purità di cuore è il senso intimo della temperanza «ad essa conducono la solitudine, i digiuni, veglie e penitenze». Ma qual è il significato più profondo di purità? Eccolo. Purità è: la cristallina libertà, il generoso disinteresse dell’uomo nelle cose umane, quando la scossa di un profondo dolore lo porta ai vertici dell’esistenza oppure quando lo sfiora l’alito della morte imminente. La purità è l’incondizionato aprirsi di tutto l’essere, quell’aprirsi dal quale solo si sciolse la parola .«Ecco, io sono l’ancella del Signore».(Lc 1,38) La purità, non è quindi solo il frutto della purificazione. Nell’ardimentosa magnanimità del suo cuore aperto e fidente, essa sa anche prontamente abbracciare le purificazioni divine, tremende forse e mortali, esprimendone così la virtù fecondatrice e trasformatrice. Questo è il fine ultimo delle temperanza: virtù dell’ordine e della misura. PREGHIERA
ALLA MADONNA DELL’EQUILIBRIO
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2001 2000 |