Convegno dell'Anm su "Processo e organizzazione: assemblea aperta sui problemi della giustizia civile"

Roma 12 -13 dicembre 2003

Intervento conclusivo di Gianfranco Gilardi

1. Rispetto ad un dibattito che è stato così ricco ed intenso sarebbe fuori luogo tentare di tracciare delle conclusioni. Mi limiterò pertanto, anche per ragioni di tempo, a poche considerazioni, scusandomi sin da ora per il loro carattere disorganico e frammentario.

Intendo esprimere innanzi tutto, un ringraziamento agli animatori della tavola rotonda, che hanno dimostrato come sia ancora possibile portare avanti un dialogo proficuo e costruttivo esponendo con serenità le proprie opinioni anche quando – com’è naturale – esse non sono del tutto convergenti, e facendo toccare con mano che il parlarsi senza pregiudizi giova a individuare con maggior chiarezza le questioni su cui si è d’accordo oltre che a ridurre le distanze anche rispetto ai contrasti; ai relatori ed agli interventori i quali – talora anche rinunciando, al pari dei partecipanti alla tavola rotonda, ad altri impegni: e di ciò siamo loro ancora più grati – si sono avvicendati nella giornata di ieri portando un importante contributo di conoscenza, di analisi e di proposte sui temi del convegno; ai partecipanti tutti, molti dei quali non hanno potuto trattenersi a causa di impegni precedentemente assunti; agli Osservatori per la giustizia civile, che hanno dato ancora una volta un’ impronta di grande significato culturale; al gruppo di lavoro dell’ANM che in tempi assai ristretti si è sforzato di dare un contributo al dibattito sulle riforme del processo civile ed alla preparazione del convegno, dimostrando come sia del tutto naturale trovarsi ad esprimere un linguaggio comune e posizioni unitarie intorno ad obiettivi condivisi: e voglio qui ricordare, accanto ad Alessandro Pepe, Antonio Scarpa e Raffaele Sabato che hanno coordinato le due sessioni di ieri, ad Antonio Didone e Patrizia Pompei che sono intervenuti ed a Luciano Gerardis che ha letto il documento conclusivo – anche Pasquale D’Ascola, Mario Fresa, Maria Filomena De Cecco, Maura Nardin, Alfonso Pappalardo, Francesco Ranieri, i quali, al pari di Luciano Gerardis, hanno rinunciato a svolgere interventi per lasciare spazio agli altri.

Un ringraziamento, infine, voglio rivolgere anche alle signorine Cristina Carli, Emanuela Setzu e Monica Vari della segreteria amministrativa dell’ANM il cui lavoro – meno visibile, ma non per questo meno essenziale – è stato come sempre insostituibile e prezioso.

2. L’ANM era consapevole che la preparazione del convegno avrebbe incontrato difficoltà organizzative, anche a causa del susseguirsi delle iniziative degli ultimi tempi e dell’accavallarsi con altri importanti appuntamenti, di alcuni dei quali, purtroppo, siamo venuti a conoscenza troppo tardi per poter decidere un rinvio.

Nonostante queste difficoltà, in un momento storico caratterizzato dall’emergere con sempre maggiore evidenza di un "diritto diseguale" e dalla progressiva scomparsa delle garanzie giuridiche nella vita quotidiana, cui fanno riscontro fenomeni crescenti di impoverimento e di esclusione anche in ciò che riguarda i più "vecchi" diritti ed i bisogni più elementari di giustizia, l’ANM ha voluto testimoniare il proprio impegno anche sul terreno della giurisdizione civile, nella consapevolezza che il suo corretto funzionamento costituisce fattore essenziale per la tenuta dello Stato di diritto e passaggio strategico rispetto agli stessi compiti affidati al diritto punitivo.

Questo convegno intende collocarsi in una linea di continuità ideale non solo con il convegno di Roma del gennaio 2002, ma anche con le iniziative in tema di professionalità e con le giornate per la giustizia che si sono svolte a novembre in tutta Italia, facendoci tra l’altro riscoprire quanto sia importante ritrovare un linguaggio che sia più comprensibile ai cittadini perché "costretto" a ridefinirsi alla stregua dei beni della vita e dei bisogni concreti di giustizia.

Certo, la partecipazione non è stata numerosa; e ciò dipende in gran parte dalle difficoltà organizzative a cui ho fatto accenno, oltre che da ingenuità ed anche errori, al punto tale che fino a pochi giorni fa nei palazzi di giustizia non si vedeva (e forse non ancora si vede) neppure una locandina del convegno. Ma ciò conferma, in primo luogo, quanto sia impegnativo il lavoro che l’ANM deve ancora svolgere sul terreno della giustizia civile e sui temi dell’organizzazione, temi rispetto ai quali la scarsa sensibilità di molte giunte distrettuali e, reciprocamente le "diffidenze" che continuano a manifestarsi verso l’ANM (a volte - devo dirlo con franchezza - in modo del tutto ingeneroso) si alimentano reciprocamente in una curva negativa di distacchi e di incomprensioni. E conferma, insieme, proprio la premessa da cui siamo partiti nell’immaginare il convegno quella, cioè, che sui temi della giustizia nulla potrebbe essere più dannoso quanto la separatezza, l’incomunicabilità, le distanze, il procedere delle proposte in ordine sparso e ciascuna per conto suo.

3. All’ANM è stato attribuito, erroneamente, un intento polemico, quasi la volontà di escludere dal convegno le voci dissonanti rispetto a ciò che l’Associazione pensa intorno alle riforme del processo. Che non sia così, sta a dimostrarlo lo stresso pluralismo delle voci che ha caratterizzato il dibattito, ma lo conferma, prima ancora, la duplice convinzione che ci ha mosso e, cioè:

a) quella relativa alla necessità di stimolare un confronto che vada oltre il nostro specifico orizzonte professionale, nella linea del dialogo che ha costituito la caratteristica portante di tutte le iniziative assunte dall’ANM negli ultimi tempi;

b) il proposito di non mettere al centro della discussione le riforme del processo, convinti come siamo che, se al buon funzionamento della giustizia giovano anche modifiche della disciplina processuale, altre sono le urgenze del sistema giudiziario italiano.

Naturalmente, anche l’ANM – e non solo quel "milieu" di "irriducibili oppositori" a cui ha fatto riferimento il Prof. Sassani nella relazione di ieri – ha delle sue convinzioni a proposito del processo. Essa è convinta, ad esempio, che su molti aspetti esista una larghissima convergenza, ribadita con chiarezza e convinzione anche in questo convegno da qualificati esponenti dell’avvocatura e del mondo accademico e dallo stesso Sottosegretario alla giustizia, on.le Vietiti. Non vi è ragione, dunque, perché queste proposte (molte delle quali contenute nel testo del disegno di legge unificato approvato dalla Camera il luglio scorso, che anticipano a loro volta alcune di quelle previste dal disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei Ministri il 24 ottobre 2003), per quanto "minimali", non si traducano rapidamente in legge, come l’ANM ha auspicato, formulando anche suggerimenti migliorativi, in un documento generale ed in una articolata "scheda" di osservazioni tecniche sul testo unificato di disegno di legge approvato dalla Commissione giustizia della Camera il luglio scorso (ed a proposito dell’accenno, che ho sentito fare, a forme procedimentali dotate di maggiore flessibilità e meno ancorate al "mito" del giudicato, non posso fare a meno di ricordare come l’ANM abbia all’opposto sottolineato nei suoi documenti la non più differibile urgenza di una disciplina dei procedimenti camerali che – a differenza di quella prevista dal d. lgs. n. 5/2003, e conformemente a quanto indicato nelle proposte di riforma delle procedure concorsuali – valga a risolvere finalmente i problemi di "costituzionalizzazione" del rito camerale, tuttora rimesso nei suoi snodi fondamentali alla pura discrezionalità del giudice).

Su altre proposte invece non vi è accordo; e l’ANM – non per ragion ideologiche, ma nell’intendo di fornire un contributo al dibattito – ha manifestato le proprie riserve sottolineando come:

* se il processo è - e non può non essere alla luce del sistema costituzionale e, in particolare, degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione – una funzione pubblica dello Stato, l’attività processuale, anche sotto il profilo degli obblighi internazionali, non può non implicare un ruolo di impulso e di coordinamento che deve essere necessariamente individuata nella figura del giudice, essendo logicamente da escludere che il centro di imputazione possa essere individuato nelle parti. Vi è, dunque, una ragione istituzionale e, per così dire, assorbente, legata alla considerazione che, con l’iscrizione a ruolo della causa, il processo diventa automaticamente oggetto di valutazione sotto il profilo della sua "ragionevole durata";

*ogni intervento sulla disciplina processuale, specie se ispirato all’idea di incidere globalmente sul codice di rito, non può sottrarsi ad una valutazione di coerenza tra obiettivi dichiarati e risultati che possono ragionevolmente essere ottenuti; e non ho sentito una sola parola, una sola ragione, né dentro né fuori al convegno capace di chiarire perché mai una diversa configurazione del rapporto giudice - processo, quale è stata anticipato nella riforma del rito in materia commerciale e quale si prefigura nel disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei Ministri, dovrebbe favorire l’obiettivo della ragionevole durata e, comunque, di una durata più ragionevole rispetto a quella conseguibile con l’attuale configurazione (nessuno, credo, può illudersi davvero che gli ingorghi forse evitati in una trattazione senza giudice, non tornino a formarsi nella fase successiva, una volta che il giudice sia stato chiamato dalle parti a fissare l’udienza);

*ad uno Stato di diritto, che annovera tra i suoi cardini la garanzie dell’accesso alla giustizia e la promozione dell’uguaglianza sostanziale, non interessa soltanto che a pronunciare la sentenza sia il giudice, ma interessa anche il modo in cui si perviene alla pronuncia; e l’apporto del giudice, fin dalla fase iniziale del processo, alla individuazione del tema della lite, alla chiarificazione dei fatti rilevanti, alla verifica di questioni che possono impedire la prosecuzione del processo, all’indicazione delle questioni di merito e di rito rilevabili d’ufficio, alla verifica della necessità o dell’opportunità dell’estensione del contraddittorio, è stata appunto ritenuta, nell’evoluzione secolare della nostra esperienza giuridica, elemento coessenziale ad un processo concepito come metodo di ricerca della verità in una successione razionale e non dispersiva di attività;

* quanto più la società ed i conflitti che in essa si esprimono diventano complessi, tanto più – mi sembra – si rafforza l’esigenza di una struttura del processo volta a favorirne la comprensione attraverso la dialettica e l’oralità, espressione altresì del carattere democratico del processo e del diritto del cittadino ad essere ascoltato ed a concorrere direttamente alla formazione del convincimento del giudice.

4. Sappiamo bene che l’attrazione esercitata, su una parte anche consistente dell’avvocatura, da un modello di "processo senza giudice", ha ragioni ben precise: le ha ricordate ieri, esprimendo contrarietà a quel modello, il prof. Chiarloni, e le ha sottolineate – legando proprio ad esse la necessità della riforma - il prof. Sassani. Come ha detto Chiarloni, udienze "trasformate in un rituale indecoroso in cui decine di avvocati si affollano e si affannano nella stanza d’udienza" per ottenere una riserva di provvedimento o un rinvio "da un giudice che nella stragrande maggioranza dei casi nulla sa della causa affidatagli e si limita, spendendo peraltro una grande quantità del suo tempo di lavoro, a riservarsi per un provvedimento fuori udienza o a fissare i rinvii per un gran numero di fascicoli"; trattazioni slabbrate; prove testimoniali che vedono a volte gli avvocati "raccogliere direttamente le deposizioni dei testi magari nei corridoi davanti alla stanza d’udienza, scrivendo direttamente i relativi verbali"; disfunzioni nelle comunicazioni o nelle notifiche, rinvii all’ultimo momento, ritardi e altro ancora, costituiscono parte purtroppo non marginale dell’esperienza concreta del processo civile italiano, un’esperienza entro la quale finisce spesso per restar frustrata ogni illusione di oralità, di immediatezza e di concentrazione.

Ma a differenza di coloro che hanno dichiarato di nutrire una visione di "pessimismo irreversibile" rispetto alla situazione attuale, abbiamo la convinzione che un’alternativa esista e che essa consiste in un rovesciamento di metodo nella lettura della realtà. Se è vero, infatti, che quando il rapporto dialettico giudice/parti riesce ad esplicarsi fin dall’inizio in modo pieno ed effettivo, in una sequenza ordinata di atti, in un comune contraddittorio che mira a sfrondare l’inutile e il vano, in un contesto organizzativo adeguato, con un ruolo di udienze umano e tollerabile - se ne giova la speditezza del processo, ne guadagna la qualità della risposta giudiziaria, ne risulta agevolato lo stesso svolgimento dell’attività dei difensori, il rimedio non può risolversi in una resa, ma deve consistere in una reazione alle prassi deresponsabilizzanti, sforzandosi di creare le condizioni strutturali, organizzative, culturali e professionali che consentono di rendere ovunque proficua ed effettiva la dialettica interna al processo, remote le perdite di attività di udienza, rari i rinvii e - quando si verificano - sempre contenuti. In questo contesto – senza necessità di stravolgere il rapporto giudice/parti all’interno del processo, e senza continuare a moltiplicare modelli processuali che complicano la vita ai magistrati, agli avvocati, ai cancellieri e, prima di tutto, agli utenti - c’è spazio sicuramente anche per modifiche che incidano sulla scansione delle udienze, secondo le indicazioni contenute, ad esempio, negli artt. 14 e 15 del Testo unificato del disegno di legge approvato dalla Camera, o mediante la fusione tra udienza di prima comparizione e prima udienza di trattazione, come suggerito nella scheda di osservazioni tecniche predisposta dall’A.N.M., o con modalità più flessibili come quelle, ad esempio, suggerite dall’AIGA ed a cui ha fatto riferimento anche il prof. Chiarloni nella sua relazione.

Sui "mali" del processo e sui rimedi per farlo funzionare si possono avere, naturalmente, opinioni diverse; ma l’ANM è convinta che il processo non possa trasformarsi in fattore di divisione e di scontro. Esso dovrebbe costituire, all’opposto, luogo di analisi costruttiva in cui – confrontando le diverse soluzioni – si possano trovare quelle più conformi all’interesse generale della collettività. Avviare quel confronto che sino ad oggi è mancato sarebbe di grande aiuto per superare visioni astratte ed evitare soluzioni affrettate; mi pare perciò positiva la proposta, cui ha accennato il consigliere Salmé, di un tavolo di lavoro offerto dal C.S.M. e che, naturalmente, potrebbe aprirsi anche presso l’ANM od al quale, comunque, l’ANM potrebbe fornire il proprio contributo.

5. Se modifiche della disciplina del processo possono essere utili al buon funzionamento della giustizia, promuovendo questo convegno l’ANM ha inteso ribadire per l’ennesima volta – con la frustrazione e il disagio che si prova a ripetere parole logorate dall’uso per tutte le volte che si è stati costretti a ripeterle inutilmente nel tempo - che la ragionevole durata del processo postula prima ancora che si incida sulle risorse e sulla loro distribuzione, che si dia risposta al secolare problema della revisione delle circoscrizioni giudiziarie e dell’adeguatezza degli organici dei singoli uffici; che non si lascino trascorrere anni prima di dare attuazione alla legge sull’aumento dell’organico della magistratura o di ricoprire ed adeguare l’organico del personale amministrativo e degli ufficiali giudiziari; esige che non restino nella palude quei fattori di vero e proprio rinnovamento culturale, di riappropriazione della dignità e della qualità di ciascuna funzione, che sono il processo telematico, i piani di informatizzazione degli uffici giudiziari e la costruzione di un sistema statistico veridico, affidabile, idoneo a soddisfare le necessità di conoscenza del lavoro giudiziario e dinamicamente funzionale agli adattamenti organizzativi; richiede che al giudice sia data quella struttura di supporto che non ha mai avuto; che siano ridisegnati e valorizzati nella logica complessiva del servizio i compiti della magistratura onoraria, al cui riordino rimanda anche l’ormai prossima scadenza dell’art. 245 lgs. n. 51/1998; impone di far crescere nei fatti, con un serio sostegno di mezzi e di strumenti e non solo declamandoli a parole, strumenti conciliativi capaci di favorire il superamento e la composizione dei conflitti senza necessità di ricorrere al giudice; se non si risolve, conseguentemente, quel nodo cruciale costituito dal numero di cause che ogni giudice può ragionevolmente trattare senza restare schiacciato dalla mole degli arretrati destinati a crescere in continuazione.

Tutto ciò – lo sappiamo - comporta per il bilancio dello Stato spese e costi. Ma la democrazia è complessa, implica che si investa e che si spenda, perché immettere mezzi e risorse è l’unica scelta consentita dall’art. 110 della Costituzione.

6. Ma in nessun momento le responsabilità degli altri debbono far dimenticare le proprie. Uno dei valori più alti e visibili di questo convegno, quale è emerso da tanti interventi carichi di tensione morale e di vera e propria passione civile, è che l’essere indipendenti non significa comportarsi come se del modo in cui si organizza e si fa il proprio lavoro non si dovesse rendere conto a nessuno. Si assiste, invece, a sedi giudiziarie nelle quali parti ordinamentali di primaria importanza restano pressoché lettera morta; le proposte tabellari non esprimono un progetto organizzativo calato nella concreta realtà della domanda e dei bisogni di giustizia; mancano occasioni di confronto e di dibattito sui problemi dell’ufficio e sugli orientamenti giurisprudenziali; sono assenti o carenti le funzioni di vigilanza.

Non dobbiamo essere stanchi di ripetere che il corretto funzionamento dell’autogoverno rimanda anche al nodo dei criteri di scelta per ciò che concerne il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi o forse, meglio, alla coerenza nella loro applicazione; implica come precondizione assoluta e indeclinabile un flusso di informazioni completo e costante della realtà organizzativa entro cui le funzioni organizzative sono destinate ad esplicarsi; richiede effettività dei controlli e capacità di intervento contro ogni forma di sciatteria, di inettitudine o di inerzia, come richiede capacità di riconoscere le esperienze positive, di incentivarle e di favorirne la diffusione.

E qui vorrei ricordare, per contrastare quella immagine di cupa negatività tracciata nel suo intervento dal prof. Sassoni, il quale ha descritto un mondo della giustizia quasi irreparabilmente segnato dalla sconfitta, che la realtà conosce anche altre cose. Protocolli di udienza; svolgimento delle riunioni previste dall’art. 47 quater ord. giud. e di quelle connesse ai compiti propri dei dirigenti degli uffici giudiziari; analisi dei flussi di lavoro anche con la costituzione di specifici uffici statistici e di apposite commissioni di studio e di supporto; progetti organizzativi proficuamente elaborati e periodicamente monitorati; incontri di formazione decentrata e riunioni degli "Osservatori" per discutere sugli orientamenti interpretativi e sulle questioni organizzative, costituiscono aspetti di un incoraggiante fermento che anima la vita di diversi uffici giudiziari italiani, una positiva realtà in espansione che ha dimostrato nei fatti come tante cose potrebbero migliorare, in termini di efficienza e di qualità del servizio, se solo vi fosse la volontà di far funzionare gli strumenti esistenti, nel processo di cognizione come in quello di esecuzione. Nell’esperienza concreta degli uffici, che si sono posti consapevolmente l’obiettivo di governare il processo esecutivo e le procedure concorsuali, sottraendoli alla routine burocratica ed alla casualità dell’esperienza quotidiana, l’adozione di opportune procedure informatiche e di adeguati sistemi di informazione ha consentito di raggiungere risultati straordinari in termini di ordinato svolgimento delle procedure, di drastica riduzione dei tempi morti, di razionalità complessiva del servizio, con esiti soddisfacenti per la massa dei creditori e per lo stesso debitore esecutato.

Questi esempi non possono restare isolati, ma debbono trasformarsi in veri e propri criteri organizzativi di carattere generale. Deve perciò esprimersi il massimo apprezzamento all’opera di incentivazione e di diffusione perseguita dal CSM in sede di formazione professionale, sia centrale sia decentrata; al fatto che nelle ultime circolari sull’organizzazione degli uffici all’insieme di regole preordinate al rispetto del giudice naturale sia stata affiancata una ancor più esplicita configurazione delle tabelle come progetto organizzativo secondo obbiettivi di funzionalità e di efficienza, e che anche per gli uffici del giudice di pace siano state dettate direttive più precise e rigorose nel senso della maggiore trasparenza e di una migliore organizzazione del servizio; al fatto, infine, che nella delibera del 30 luglio 2003 di modifica ed integrazione della circolare n.1275/1985 sui pareri per le valutazioni di professionalità sia stata attribuita specifica evidenza, tra l’altro, al parametro relativo alla "capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro" anche in funzione della necessità di "ridurre al minimo il disagio degli utenti della giustizia e dei loro difensori". Ma sono ancora molte le cose da fare; e le hanno sottolineate ieri, tra gli altri, con grande efficacia, Luciana Barreca e Roberto Fontana.

L’ANM, anche mediante la formazione di un "libro bianco" - una ricognizione priva di definitività e di prescrittività, che si offra in ogni distretto al dibattito di tutti gli operatori, arricchendosi ogni volta di nuovi contributi, precisandosi, modificandosi, operando come strumento di discussione e di confronto anche per sollecitare miglioramenti organizzativi - intende svolgere la sua parte proponendosi come luogo di verifica e di discussione critica delle prassi, nonché come tramite di diffusione delle esperienze positive. E vorrei qui sottolineare come fatto di grande rilievo la disponibilità alla collaborazione manifestata anche oggi dagli avvocati presenti al convegno e dai loro organismi rappresentativi, una collaborazione che nell’esperienza concreta di diversi distretti giudiziari costituisce già oggi una risorsa di inestimabile valore.

7. Come ci ha ricordato in tante occasioni Carlo Verardi, l'attuazione del giusto processo passa, prima di ogni altra cosa, "da una riforma delle culture e della deontologia, che consegni al processo protagonisti culturalmente preparati, efficacemente organizzati, legati da una comunanza dei valori di fondo". All’antitesi, ancora irrisolta, tra il modello burocratico tradizionale, che non è riuscito a dare efficienza alla giustizia italiana, e la visione opposta, basata su parole d'ordine come "gerarchia degli uffici, principio di autorità, meritocrazia, che sarà forse capace di ripristinare alcuni margini di credibilità e di prestigio ma che è assoggettata all'inaccettabile costo di dividere i magistrati tra loro e di restaurare pericolosi meccanismi di controllo interno", dobbiamo contrapporre l’unico modello possibile di un giudice professionalmente preparato, capace di far fronte alla complessità con la specializzazione, consapevole che l’indipendenza non è una nicchia in cui starsene comodamente protetti ma una garanzia di impegno che il cittadino ha il diritto di vedere attuata ogni giorno.

Ciò che conta per la corretta amministrazione della giustizia, non è tanto la selezione dei più "bravi", quanto un sistema idoneo ad assicurare che ogni magistrato assolva ai propri compiti con capacità e impegno, quale che sia la funzione in concreto esercitata. E’ in questa prospettiva che l’ANM ha assunto il tema della professionalità come terreno specifico del proprio impegno, formulando - dopo un ampio e serrato dibattito - un insieme articolato di proposte di cui il CSM ha tenuto conto nella nuova circolare sulle valutazioni di professionalità.

Un rinnovamento di professionalità che vale anche per il personale amministrativo per le cancellerie, per gli "operatori" della giustizia in genere e, naturalmente, anche per l’avvocatura, chiamata essa pure a concorrere al processo di integrazione europea ed alla costruzione di uno spazio giuridico comune e che – sono parole dell’avv. Danovi - consapevole di questa sfida, rivendica come suo preciso dovere "per tutti gli avvocati in tutti i paesi difendere in ogni occasione la professionalità, tutelare la formazione dei giovani, assicurare la formazione permanete degli iscritti, garantire l’elevazione culturale e professionale, migliorare la qualità".

E’ l’etica della responsabilizzazione la via per costruire quella "leadership" - culturale e non autoritaria - cui hanno fatto riferimento il prof. Zan ed il prof. Xilo nei propri interventi. In quest’ambito di positiva proiezione verso ciò che è doveroso e concretamente possibile, non solo acquistano peso e significato la logica del coordinamento e quella della partecipazione al fine di realizzare progetti organizzativi condivisi, come il CSM si è sforzato di affermare anche attraverso le circolari in materia tabellare, ma lo stesso art. 175 c.p.c. viene ad emergere quale proiezione dell’art. 111 della Cost. La funzione direttiva del giudice, spogliata di ogni riferimento concettuale di carattere autoritario e di ogni connotazione di privilegio, si manifesta cioè oltre che come espressione di un potere-dovere che deve esplicarsi per il corretto, leale e sollecito svolgimento del processo, prima ancora come direttiva che deve operare nei confronti dello stesso magistrato, come criterio deontologico di organizzazione del lavoro di ogni singolo giudice perché, se non si è capaci di organizzare il proprio lavoro indirizzandolo verso le esigenze di buon funzionamento del servizio, è più difficile che la funzione direttiva possa poi recitarsi nel processo.

7. Come ha ricordato l’avv. Berti al congresso di Palermo dell’OUA, "nel nostro paese c’è un crisi di legalità che è difficile contrastare se si vive in uno scontro permanente che delegittima la giurisdizione. Anche perché impedisce di fare riforme serie che facciano funzionare la macchina giudiziaria, e una macchina giudiziaria che non funziona crea illegalità".

E’ la logica del dialogo la finalità principale di questo convegno. Una logica imperniata sulla convinzione che la giurisdizione resta fatalmente priva di significato se perde il contatto con la vita, se non resta ancorata come parte integrante alla realtà di ogni giorno e non riesce a dare tempestivo riscontro alle domande di giustizia, di legalità, di certezza dei rapporti giuridici, di sicurezza che le provengono dalla collettività. Se la giurisdizione non riesce a svolgere il compito, che le compete, di fattore di equilibrio sociale e di strumento di garanzia dei diritti, alle regole entro cui debbono essere ricondotte anche le spinte e le logiche del mercato si sostituirà sempre più facilmente un mercato senza regole, che farà a meno dei giudici anche perché non può attendere i tempi lunghi della giustizia.

Eppure è proprio alla giurisdizione civile - spesso lasciata ai margini di ogni dibattito e quasi dimenticata; sottoposta, dall’esterno, ad un processo continuo di erosione e di marginalizzazione e considerata ancora, all’interno, come il serbatoio a cui si può continuare ad attingere per ogni esigenza del settore penale - che spetta oggi il compito di concorrere a ricucire gli strappi, a trovare una sintesi sul terreno della difesa e dell’affermazione quotidiana dei diritti, a ricostruire una concezione unitaria della giurisdizione come strumento di promozione di uguaglianza e di legalità.

I cinquantacinque anni dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo sono stati ricordati nei giorni scorsi sottolineando amaramente che un terzo dell’umanità è privo dei fondamentali diritti politici e civili; 3 miliardi di persone vivono in condizioni di povertà;1, 3 miliardi in condizioni di "assoluta povertà".

Uscendo di qui, vorremmo impegnarci a fare in modo che ogni distretto diventi – nel più ampio circuito "virtuoso" della formazione, degli organismi associativi, dei diversi ambiti professionali, delle università, degli Osservatori - espressione di un grande laboratorio ove ogni segmento concorre con gli altri a migliorare ogni giorno il concreto funzionamento della giustizia ed a far sì che il processo torni ad essere strumento a servizio dei cittadini, e non luogo dal quale essi rifuggono spaventati dai suoi costi, dai suoi ritardi e dalle sue ingiustizie.

 

 

 

 

 

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