Una riforma contro la democrazia*

di Domenico Gallo

Non c’è niente di personale, malgrado le apparenze, nello scontro politico sulla giustizia.

I fuochi pirotecnici che il Presidente del Consiglio accende ripetutamente con le sue inusitate aggressioni alla magistratura, ai singoli giudici, non sono semplicemente frutto dei rancori personali di un uomo politico "perseguitato" dall’Autorità giudiziaria, a cagione dei fatti criminosi ascritti a lui stesso ed ai suoi principali collaboratori. Dietro lo scontro fra Berlusconi e la Giustizia non si nascondono solo questioni (ed interessi) personali, vi è un disegno "riformatore" di vasto respiro. Non solo leggi "ad personam", come la legge sulle rogatorie, la legge sul falso in bilancio, la legge sulla (sua) immunità giurisdizionale. Sullo sfondo sta emergendo, attraverso la legge di riforma dell’Ordinamento giudiziario, un disegno riformatore che incide in profondità, non tanto sulla giustizia, quanto sulla democrazia, sfigurando profondamente il modello di democrazia concepito dai costituenti.

Per quanto riguarda l’organizzazione dei pubblici poteri, la Costituzione, ha totalmente ripudiato la concezione monista del potere propria del regime fascista e, andando oltre la dottrina classica della separazione dei poteri, ha adottato il principio della distribuzione e diffusione del potere fra una pluralità di soggetti distinti, che interagiscono in un sistema di pesi e contrappesi reciproci.

In questo contesto lo snodo fondamentale del pluralismo istituzionale è dato dal sistema che garantisce l’indipendenza della magistratura (e quindi del potere giudiziario) da ogni altro potere.

La Costituzione dedica grande importanza al giudiziario e si adopera per garantire un sistema di controllo della legalità che assicuri - per quanto è possibile – ai cittadini un giudice sereno, imparziale e non condizionabile attraverso l’esercizio dei poteri politici e di governo, poiché, come recita l’art. 101 "i giudici sono soggetti soltanto alla legge".

Ciò perché i diritti fondamentali dell’uomo non sarebbero "inviolabili" (come li definisce l’art. 2 della Costituzione) se non fossero presidiati da robuste istituzioni di garanzia, la principale delle quali è costituita dal controllo di legalità effettuato da una magistratura indipendente da ogni altro potere. Per questo motivo il potere giudiziario non può essere raccordato agli altri poteri politici e/o di governo, costituendo una articolazione insopprimibile del pluralismo istituzionale, principio supremo, che contrassegna la cifra della nostra democrazia..

Ma la Costituzione non si limita a garantire l’indipendenza del corpo dei giudici e dei pubblici ministeri, sottraendo la gestione delle carriere e dei trasferimenti al potere esecutivo, attraverso l’istituzione (art. 104) del Consiglio Superiore della magistratura. Essa pretende, anche, che il potere giudiziario sia un potere diffuso sul territorio e non accentrabile (art. 25: "nessuno può essere distolto da suo giudice naturale") e che il suo esercizio non sia condizionato neppure da gerarchie interne (art. 107: "..i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni".) e sia inscindibilmente vincolato al canone dell’eguaglianza (attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale). In sostanza la Costituzione si è preoccupata di creare un ordinamento che, attraverso una serie di procedure e garanzie metta il giudice – astrattamente - in condizioni di massima libertà di coscienza ed affida l’esercizio concreto di tale potere alla responsabilità della coscienza individuale di ogni singolo magistrato. L’unico contrappeso alla libertà di coscienza del magistrato è rappresentato dal principio della pubblicità del dibattimento e dalla libertà di critica di tutti i provvedimenti giudiziari, il cui esercizio, in conformità all’art. 21 della Costituzione, rappresenta un potente fattore di crescita e fecondazione delle coscienze individuali.

Un impianto così forte di autonomia si giustifica col fatto che all’autorità giudiziaria è demandata una funzione "politica" che è essenziale per la salute della democrazia, cioè il compito di assicurare un effettivo controllo di legalità nei confronti dell’esercizio dei poteri (pubblici e privati), al fine di impedire che coloro che esercitano dei poteri possano diventare onnipotenti.

Qui è il punto. Il sistema di potere Berlusconi, che considera l’Italia una azienda di sua proprietà, non può tollerare che la sua vocazione all’onnipotenza resti mutilata dalla presenza di un argine insuperabile. Per questo la riforma della giustizia proposta dal sistema Berlusconi (Governo e maggioranza) non ha per oggetto nulla che attenga al malfunzionamento della giustizia, ma è incentrata solo ed esclusivamente sul problema dei "rapporti di forza" fra i poteri, ed ha per obiettivo la demolizione, dell’autonomia del potere giudiziario, dal punto di vista del suo funzionamento concreto.

I Costituenti previdero, con la VII disposizione transitoria e finale, che, per darsi attuazione ai principi costituzionali occorreva una "nuova legge sull’ordinamento giudiziario", che sostituisse l’ordinamento vigente, emanato dal fascismo nel 1941. Da allora non è mai stata emanata una legge organica, ma il vecchio ordinamento del 1941, attraverso una serie di modifiche, stratificate nel tempo, è stato sostanzialmente adeguato al modello costituzionale.

La legge sull’ordinamento giudiziario, quindi, è lo strumento tecnico attraverso il quale si fanno scendere in terra i principi costituzionali e si innestano nell’ordinamento. Se si vuole rimandare quei principi in cielo e renderli inoffensivi, è sull’ordinamento giudiziario che bisogna operare.

La riforma confezionata dalla Casa della Libertà è una riforma complessiva, vasta, profonda, che rivolta completamente l’ordinamento giudiziario vigente, allo scopo di cancellare o rendere al massimo inoperanti tutti (proprio tutti!) i principi articolati dalla Costituzione a garanzia del corretto ed indipendente esercizio del potere giudiziario. Dal principio che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, a quello che i magistrati si distinguono fra di loro solo per la diversità di funzioni, al principio del potere (giudiziario) diffuso, al principio della obbligatorietà dell’azione penale. Il risultato è quello di ottenere dei magistrati deboli, isolati ed intimiditi, la cui libertà di coscienza è compressa al massimo da condizionamenti di ogni tipo mentre la funzione giudiziaria è intaccata nella sua stessa essenza: quella dell’interpretazione della legge.

Qui siamo fuori dalla (grottesca quanto patetica) querelle Berlusconi/magistrati. Attraverso questa riforma avanza un nuovo ordinamento dello Stato, in cui viene rimosso lo "scandalo" del potere diviso.

Quando il potere non viene più diviso, la garanzia dei diritti non viene più assicurata e la società non ha più Costituzione, come ci insegna l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.


*Da "Rinascita" del 18 ottobre 2003

 

 

 

 

 

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