La Delega al Governo in materia di mercato del lavoro*
di Giovanni Cannella
La legge sul mercato del lavoro n. 30/2003, recentemente approvata dal parlamento, contiene sei deleghe, in tema di collocamento e intermediazione di manodopera, contratti a contenuto formativo, part time, nuove tipologie di lavoro, certificazione dei rapporti e funzioni ispettive (quest'ultima inserita in un secondo momento). Come è noto, il disegno di legge originario conteneva anche altre deleghe, in materia di incentivi all'occupazione, ammortizzatori sociali, art. 18 ed arbitrato, che sono state stralciate nel giugno del 2002, inserite in un separato provvedimento (S/848bis), e che hanno poi formato in parte oggetto del "Patto per l'Italia" del 5.7.2002. La Camera ha successivamente aggiunto nel provvedimento in esame altri due articoli, 9 e 10, in tema di socio di cooperative e benefici alle imprese artigiane, commerciali e del turismo (si tratta di norme dirette e non deleghe).
Va riproposta in primo luogo la critica, già sollevata al momento della presentazione del disegno di legge, all'uso della delega in una materia così delicata. Come è stato giustamente rilevato(1), non si è mai verificato in precedenza che venisse usato lo strumento delle deleghe per modificare, in senso peggiorativo ed incisivamente, una disciplina così delicata come quella dei rapporti di lavoro, che era stata prodotta "dal parlamento a seguito di un dibattito ricco e approfondito", ed ha implicazioni anche costituzionali, che richiedono "istanze di discussione e verifica democratica che solo nell'attività delle Camere possono essere soddisfatte pienamente". Tale strumento sembra nascondere l'intenzione (peraltro non riuscita, date le proteste che ne sono scaturite) di mettere la sordina all'impatto di una riforma epocale. Poiché le deleghe, infatti, per loro natura devono indicare solo i "principi" e i "criteri direttivi", si possono permettere ampi margini di genericità, come è avvenuto appunto per le deleghe in esame, limitando quindi il dibattito parlamentare, che spesso non può andare oltre la critica alle intenzioni che emergono dalle generiche disposizioni. Una volta approvate le deleghe, a seguito di un povero dibattito parlamentare, il Governo potrà emettere i decreti delegati, senza alcuna ulteriore effettiva verifica delle Camere (salvo che in sede di parere delle commissioni permanenti).
Ciò premesso la filosofia di fondo della legge è bene espressa nella relazione di accompagnamento dove si critica l'attuale normativa lavoristica, nella quale "alla iper-tutela degli occupati si contrappone, infatti, la sotto-tutela dei disoccupati" e si indica l'obiettivo di spostare le tutele dal rapporto al mercato, riducendo quindi le attuali tutele nel rapporto, sul presupposto della "posizione di privilegio" degli insiders rispetto agli outsiders (i disoccupati, gli emarginati dal mondo del lavoro).
La legge omette, tuttavia, di aumentare per adesso le tutele nel mercato e comincia intanto a limitare le tutele nel rapporto attraverso vari interventi, che tendono a: 1) ridurre i vincoli attualmente esistenti per i datori di lavoro a garanzia dei lavoratori, ad esempio in tema di collocamento, decentramento produttivo, trasferimento d'azienda; 2) aumentare la precarizzazione del mondo del lavoro, con la creazione di nuove tipologie di rapporti e con l'estensione dei lavori atipici ad altri settori (ad es. all'agricoltura); 3) accentuare l'autonomia collettiva e soprattutto individuale a scapito delle disposizioni inderogabili di legge; 4) marginalizzare l'intervento della magistratura del lavoro. Vediamo come, nel dettaglio, con l'esame delle singole deleghe (oltre che della norma diretta relativa ai soci delle cooperative), esame che non può essere esaustivo, dati i limiti temporali della relazione, e che limiterò quindi agli aspetti, a mio avviso, più preoccupanti e che meglio rappresentano le linee di intervento indicate.
1. La delega in materia di collocamento e intermediazione di mano d'opera
La delega debutta con alcuni criteri direttivi del tutto generici, che non possono che essere criticati in blocco anche sotto il profilo costituzionale, trattandosi di norme in bianco che potrebbero essere riempite in qualsiasi modo ed è verosimile che saranno attuate in conformità alla filosofia di fondo della riduzione dei vincoli per gli imprenditori e della corrispondente riduzione delle tutele, soprattutto quando si parla di "snellimento e semplificazione delle procedure" o "semplificazione degli oneri amministrativi e burocratici" o, infine, della redazione di testi unici sul mercato del lavoro, che rischiano di produrre l'eliminazione di una serie di disposizioni, forse onerose e burocratiche, ma tuttavia a garanzia dei lavoratori.
Peraltro in tema di collocamento la più recente legislazione è schizofrenica, perché ad esempio lo "snellimento e semplificazione delle procedure di incontro tra domanda e offerta", che costituisce il primo dei criteri direttivi della legge delega per i futuri decreti delegati, è già stata realizzata prima dell'entrata in vigore della legge delega con il D.Lgs n. 297/2002, che ha modificato un decreto legislativo del 2000 in attuazione di una precedente legge delega(2). Il D.Lgs del 2002 anticipa l'abolizione della normativa sul collocamento pubblico, con la soppressione delle liste di collocamento ordinarie e la previsione generalizzata dell'assunzione diretta al di fuori di qualsiasi lista. Il D.Lgs del 2002 anticipa anche in parte la delega sugli ammortizzatori sociali, stralciata e poi inserita nel DDL n. 848bis, attualmente all'esame del parlamento, perché interviene ad esempio in tema di perdita dello stato di disoccupazione.
Ma torniamo alla delega in esame, che tende verso una sempre maggiore "privatizzazione" del sistema del collocamento, e non solo in tema di mediazione tra domanda e offerta, ma anche di "attività di servizio", e quindi di politiche attive e preventive, "in un regime di competizione e concorrenza tra i servizi pubblici e gli operatori privati autorizzati" (relazione di accompagnamento al disegno di legge, pag. 6), relegando in realtà l'intervento pubblico a compiti di mera registrazione, e ciò in contrasto, fra l'altro, con l'invito a potenziare i servizi pubblici all'impiego contenuto nelle "Raccomandazioni" dell'Unione Europea, più volte richiamate nel Libro bianco, e nella Convenzione Oil n. 181/97.
L'intervento pubblico diventa del tutto residuale, restando limitato al sistema informativo, alle funzioni di conciliazione e di vigilanza in materia di lavoro e sugli operatori privati e pubblici, che si occuperanno di collocamento, vigilanza peraltro non meglio specificata, se non in termini di regime autorizzatorio, con possibilità peraltro del trasferimento dell'autorizzazione da un ente all'altro, sembra senza ulteriori verifiche al momento della cessione.
La delega prevede, per le imprese private di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, l'eliminazione del vincolo dell'oggetto sociale esclusivo e tali imprese potranno quindi agire sul mercato del collocamento in concorrenza con gli enti pubblici(3).
La più importante "semplificazione" per i datori di lavoro è prevista dalla delega con l'abrogazione della legge n. 1369/60 in tema di divieto di intermediazione di mano d'opera.
La delega prevede, infatti, la liceità della somministrazione di mano d'opera anche a tempo indeterminato (c.d. staff leasing), e non più quindi solo a termine come avviene oggi con il lavoro interinale. Per di più la somministrazione può essere effettuata da qualsiasi azienda, purchè autorizzata sulla base di criteri non meglio specificati, che può affiancare la somministrazione alla sua normale attività, senza alcuna garanzia di preparazione ed affidabilità, come avviene oggi per il lavoro interinale. Sono stati sottolineati gli effetti negativi di questa innovazione sulla tutela sindacale dei lavoratori che dovranno rivolgere le loro rivendicazioni ai "commercianti di lavoro" che si occupano come normale attività di ben altro(4).
La delega prevede che la somministrazione è consentita "in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo od organizzativo, individuate dalla legge o dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative", ma il limite è più apparente che reale, in quanto è ovvio che un imprenditore chiederà la somministrazione dei lavoratori solo quando gli servono, e quindi per una ragione tecnica, organizzativa e produttiva, non essendo certo disponibile a pagare a vuoto il canone. E' preoccupante peraltro il rinvio alla contrattazione anche territoriale per la determinazione dei casi consentiti di somministrazione, che apre la strada ad una diversificazione territoriale della disciplina dell'intermediazione in contrasto con il principio di eguaglianza.
Altro limite è quello relativo al caso in cui "si verifichi o possa verificarsi la lesione di diritti inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al prestatore di lavoro". Con riguardo ai diritti derivanti dalla contrattazione collettiva la norma va posta in relazione con la lett. 5), che prevede un trattamento per il lavoratore in affitto "non inferiore a quello a cui hanno diritto i dipendenti di pari livello dell'impresa utilizzatrice", dove per "trattamento", in assenza di specificazioni, deve intendersi il trattamento sia economico che normativo e quindi nessuna lesione al riguardo dovrebbe esserci. Quanto ai diritti inderogabili di legge, il pensiero va subito alle dimensioni aziendali che possono comportare conseguenze diverse in ordine ad esempio alla tutela contro i licenziamenti ingiustificati. Tuttavia la liberalizzazione dello staff leasing potrà consentire all'azienda utilizzatrice di stare bene al di sotto del limite dei 16 dipendenti e quindi il lavoratore affittato non avrebbe un trattamento deteriore rispetto ai lavoratori dipendenti, perché neppure a loro potrà applicarsi l'art. 18 (con effetti negativi quindi per tutti i lavoratori).
Va poi rilevato che la generica disciplina sull'intermediazione non consente di comprendere in quali casi la somministrazione è vietata, quando è consentito il comando e distacco (alla lettera 3 è stata inserita una delega in bianco su questo punto), quali saranno "gli indici e i codici di comportamento" per individuare l'interposizione illecita. La delega prevede che la liceità della somministrazione possa essere attestata mediante il meccanismo certificatorio di cui all'art. 5 (vedi infra), consentendo che possa essere "certificata" non tanto la natura del rapporto (come per la generale certificazione di cui si parlerà), ma addirittura la liceità anche penale di un comportamento.
Va osservato, infine, che non è chiaro il destino della somministrazione di mano d'opera nel pubblico impiego. Se infatti viene abrogata la legge n. 1369 senza deroghe con riguardo al pubblico impiego e nello stesso tempo l'art. 6 della legge in esame esclude l'applicazione dell'art. 1 a tale settore, ne consegue la libertà di somministrazione di mano d'opera nel pubblico impiego senza limite alcuno?
Coerentemente la delega allenta anche il vincolo previsto dall'art. 2112 c.c., che garantisce il lavoratore in caso di trasferimento d'azienda, riducendo il requisito dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda al solo momento del trasferimento (cioè non occorre più che l'autonomia preesista al trasferimento), con la possibilità quindi per il datore di lavoro di creare strumentali e temporanee condizioni di autonomia di un settore di lavoro, per trasferire singoli lavoratori da un'azienda all'altra senza alcun limite e senza il loro consenso (lo confessa espressamente la relazione di accompagnamento, pag. 10). In origine la norma escludeva addirittura il requisito dell'autonomia funzionale, ma la modifica è solo apparente perché il concetto di autonomia funzionale fotografato solo al momento del trasferimento non consente di essere valutato nel tempo per distinguere la struttura formale del ramo, eventualmente costituito ad hoc, dal funzionamento effettivo di un ramo autonomo.
2. La delega in materia di riordino dei contratti a contenuto formativo
La delega prevista nell'art. 2 dispone la revisione e razionalizzazione dei rapporti di lavoro con contenuto formativo, intenzione positiva che tuttavia è resa fumosa dalla genericità dei criteri direttivi, che non consentono di dare alcuna valutazione della delega. Si tratta spesso, anche in questo caso, di norme in bianco che consentiranno al Governo di intervenire incisivamente su istituti delicati come l'apprendistato e il contratto di formazione lavoro, nei quali la distinzione tra le reali necessità formative e di tirocinio e i rischi di sfruttamento dei lavoratori è spesso molto difficile. Per lo stesso motivo può essere vista con preoccupazione l'intenzione di revisionare le "misure di inserimento al lavoro, non costituenti rapporto di lavoro, mirate alla conoscenza diretta del mondo del lavoro", che potrebbero dar luogo a nuove forme di sfruttamento.
3. La delega in materia di lavoro a tempo parziale
Nella relazione di accompagnamento si criticano i D.Lgs 61/2000 e 100/2001, perché non sarebbero rispettosi della direttiva europea 97/81/CE, introducendo nuovi vincoli soprattutto in tema di clausole elastiche o flessibili.
Si afferma in particolare che le clausole elastiche non dovrebbero limitarsi a consentire solo la modifica "della collocazione temporale della prestazione lavorativa", ma dovrebbero includere anche il "lavoro intermittente" non suscettibile di esatta predeterminazione delle parti.
Si critica inoltre l'esistenza di un preavviso di modifica troppo rigoroso (nonostante il D.Lgs avesse già consentito di ridurlo a sole 48 ore), il diritto del lavoratore al rifiuto della modifica, al consolidamento dell'orario e alle maggiorazioni retributive previste.
Con la delega si consente in conseguenza qualsiasi forma flessibile ed elastica del part time verticale o misto, e cioè modifiche della ripartizione settimanale e giornaliera dell'orario di lavoro anche comunicate dal datore di lavoro giorno per giorno (o addirittura attimo per attimo come nel caso estremo del "lavoro intermittente", di cui si dirà), modifiche per le quali potrebbe essere sufficiente il consenso del lavoratore interessato in carenza dei contratti collettivi e a fronte di una maggiorazione retributiva.
In questa corsa all'eliminazione di ogni vincolo la delega consente l'esclusione di limiti al lavoro supplementare per il part-time orizzontale nei casi e con le modalità fissate dai sindacati (anche territoriali), ma anche in questo caso potrebbe bastare il semplice consenso del lavoratore in carenza dei contratti collettivi.
E' prevista inoltre l'estensione di forme flessibili ed elastiche anche ai contratti a tempo parziale a tempo determinato e l'integrale estensione del part time al settore agricolo.
L'accentuazione della flessibilità dei tempi di lavoro nel part time, con il limite del consenso individuale ovviamente condizionato dalla posizione di debolezza del lavoratore nel rapporto, rende ancora più precari questo tipo di rapporti, non consentendo ad esempio lo svolgimento di altre attività parallele programmabili in periodi sicuramente liberi, ed incidendo sulle condizioni di vita del prestatore.
La nuova disciplina costituisce inoltre un pesante attacco alla contrattazione collettiva, perché i datori di lavoro non avranno alcun interesse a sottoscrivere accordi relativi al part time, potendo contare sul più condizionabile consenso del lavoratore.
Molto discutibile è, infine, anche sul piano costituzionale la norma sulla computabilità pro rata temporis in proporzione dell'orario svolto dal lavoratore a tempo parziale, in relazione all'applicazione di tutte le norme legislative e clausole contrattuali collegate al numero dei dipendenti. Si dispone in sostanza l'abrogazione dell'art. 6, 2° comma del D.Lgs n. 61/2000 che, in deroga alla computabilità pro rata temporis, prevede la computabilità dei lavoratori part time come unità intere per i diritti sindacali previsti dal Titolo III dello Statuto dei lavoratori, reintroducendo forme di discriminazione tra lavoratori e di riduzione dello spazio sindacale nell'azienda.
Quanto poi alla pretesa necessità di adeguarsi alla direttiva europea 97/81/CE non sembra davvero che le nuove disposizioni perseguano l'obiettivo (indicato nella clausola 1 dell'accordo quadro recepito dalla direttiva) "di assicurare la soppressione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale e di migliorare la qualità del lavoro a tempo parziale", né sono conformi, con riguardo al minor rilievo attribuito alla contrattazione collettiva rispetto a quella individuale, al punto 8 delle considerazioni generali ("considerando che le parti sociali si trovano nella posizione migliore per trovare soluzioni corrispondenti ai bisogni dei datori di lavoro e dei lavoratori e che, di conseguenza, deve essere loro assegnato un ruolo centrale nell'attuazione e nell'applicazione del presente accordo"). D'altra parte il principio pro rata temporis non è obbligatorio, essendo disposto solo "dove opportuno" (clausola 4.2).
Infine l'accordo quadro (clausola 6) prevede che gli stati membri possono mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori: quindi non può affermarsi che il governo era costretto ad attuare la direttiva se meno favorevole alla disciplina precedente. Al contrario l'accordo, recepito dalla direttiva, vieta modificazioni peggiorative, stabilendo che "l'attuazione delle disposizioni del presente accordo non costituisce giustificazione valida per ridurre il livello generale di protezione dei lavoratori nell'ambito coperto dal presente accordo" (clausola 6.2). E non vi è dubbio che la legge sia peggiorativa della precedente normativa italiana sul part time.
4. La delega in materia di lavoro a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite
L'art. 4 prevede nuove figure di lavoro precario e l'estensione ad altri settori delle figure esistenti.
E' previsto, infatti, il lavoro a chiamata o intermittente (art. 4 lett. a), a cui si è già fatto cenno, che consentirebbe al committente o al datore di lavoro di chiamare il lavoratore solo in caso di necessità di volta in volta in modo discontinuo in cambio di una congrua indennità di disponibilità, oltre alla retribuzione proporzionale all'attività svolta, indennità peraltro esclusa nell'ipotesi di previsione dell'assenza di un obbligo a rispondere alla chiamata. La delega non indica alcun limite, né in ordine al preavviso di chiamata né in ordine alla durata della disponibilità nella giornata, nella settimana, nel mese, nell'anno. L'unico limite espresso riguarda la "individuazione" della fattispecie da parte della contrattazione collettiva, ma prevedendo l'intervento "in via provvisoriamente sostitutiva" del ministro del lavoro e comunque la sperimentazione, indipendentemente dalla previsione della contrattazione collettiva, per i disoccupati con meno di 25 anni o più di 45.
Così come genericamente configurata la nuova fattispecie incide pesantemente sull'organizzazione del tempo del lavoratore, che si troverà ad essere continuamente esposto alle chiamate dal datore di lavoro con evidenti effetti sulle normali condizioni di vita e familiari e con profili di incostituzionalità. La Corte costituzionale, infatti, con sentenza n. 230/1991 aveva dichiarato illegittime le clausole di flessibilità che trasformano un contratto di lavoro a tempo parziale in contratto "a chiamata". La delega non specifica se il rapporto in questione debba essere configurato come lavoro autonomo o subordinato. Tuttavia la relazione di accompagnamento precisa che l'intervento legislativo tende ad "…inquadrare questo fenomeno non tanto come sottospecie del part time, bensì come ideale sviluppo del lavoro temporaneo tramite agenzie, da inquadrarsi non necessariamente nello schema del lavoro subordinato". D'altra parte la previsione di una "eventuale non obbligatorietà per il prestatore di rispondere alla chiamata del datore di lavoro" fa pensare appunto ad una figura contrattuale che possa avere natura autonoma o subordinata(5).
Il cerchio quindi si chiude: prima si tende a rendere il rapporto part time sempre più libero, sottraendolo ai vincoli attualmente esistenti e autorizzando sempre più clausole elastiche e flessibili, poi si isola l'ipotesi più estrema del part time, nella quale la durata, la dislocazione temporale e la frequenza della prestazione è rimessa alla scelta unilaterale del datore di lavoro, trasformandola in un tipo di rapporto distinto, infine si ipotizza che un rapporto così configurato può anche essere autonomo (forse non solo nell'ipotesi in cui non vi sia l'obbligo di rispondere alla chiamata), esponendo in tal modo il lavoratore al rischio di perdere anche le altre tutele del lavoratore subordinato, magari mediante lo strumento della "certificazione", di cui si dirà.
La delega prevede, poi, oltre alla completa estensione del lavoro temporaneo al settore agricolo, la possibilità di soddisfare le quote obbligatorie di assunzione dei lavoratori disabili pro rata temporis con rapporti di lavoro interinale a termine, con conseguente ulteriore marginalizzazione di una categoria di lavoratori che già difficilmente riescono ad inserirsi in modo stabile nel mondo del lavoro. "Non è davvero difficile comprendere che a questi lavoratori, normalmente mal tollerati dai datori di lavoro, saranno offerti in futuro solo e soltanto contratti precari, così da ghettizzarli definitivamente invece di supportarne il pieno reinserimento non solo sul piano lavorativo, ma anche sociale"(6).
Un'altra nuova fattispecie di rapporto precario è il lavoro occasionale ed accessorio (art. 4 lett d), con particolare riferimento a opportunità di assistenza sociale, rese a favore di famiglie e di enti "senza fine di lucro" (modifica alla Camera), da disoccupati di lungo periodo, altri soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne, ma anche come generale fattispecie. Il rapporto verrebbe "regolarizzato" solo attraverso la tecnica di buoni corrispondenti a un certo ammontare di attività lavorativa. Come è stato detto, "la mercificazione del lavoratore raggiunge il grottesco con la previsione dell'introduzione di buoni lavoro, ossia di rapporti occasionali la cui costituzione e titolarità sarebbe incorporata in documenti rappresentativi da comprare dal tabaccaio, secondo una colorita ed efficace espressione"(7). Non è ben chiaro, peraltro, cosa debba intendersi per lavoro "occasionale ed accessorio". Il concetto di occasionalità potrebbe coincidere con quello indicato a proposito dei collaboratori (vedi art. 4 lett. c2), di cui si dirà, quantomeno con riguardo alla durata della prestazione non superiore a 30 giorni, mentre il concetto di accessorietà riferito agli enti senza fini di lucro potrebbe limitare il ricorso a tale fattispecie alle sole attività estranee ai fini istituzionali dell'ente, accessorie appunto a quei fini. Più complesso chiarire tale concetto con riguardo ad attività a favore di famiglie, anche perché ad esempio l'assistenza a persone malate o a minori in famiglia, non può certo considerarsi estranea ai "fini istituzionali" della famiglia stessa e quindi "accessoria". La norma quindi suscita perplessità e sembra destinata anch'essa a ridurre il confine della subordinazione o comunque ad aumentare il tasso di precarietà.
Viene prevista ancora (art. 4 lett. e) l'ammissibilità di prestazioni ripartite fra due o più lavoratori (c.d. job sharing), obbligati in solido nei confronti di un datore di lavoro, per l'esecuzione di un'unica prestazione lavorativa. La norma sembra mantenere la fattispecie nell'ambito del rapporto subordinato, anche se il venir meno del carattere strettamente personale della prestazione rischia di far evolvere tale rapporto verso forme di autonomia. D'altra parte un'analoga disposizione era contenuta nel disegno di legge c.d. Smuraglia (art. 3), che riguardava i lavoratori "atipici" non subordinati. Non vi è dubbio in ogni caso che la previsione è simile al lavoro a chiamata (job on call) sotto il profilo dell'incertezza del singolo lavoratore sulla durata della prestazione settimanale o giornaliera e quindi nella vita di relazione, essendo egli sempre esposto alla necessità di sostituire l'altro lavoratore, e potrebbe far nascere nuove figure di sfruttamento di uno dei lavoratori obbligati nei confronti dell'altro (potrebbero sorgere nuovi caporali capifila di una serie di lavoratori coobbligati, che prendono una percentuale sul compenso complessivo, facendo lavorare sempre gli altri).
La Camera ha inserito, infine, la nuova figura (art.4 lett. f) del lavoro a titolo di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale, di difficile accertamento che, attraverso il solito sistema della "certificazione", potrebbe estendersi fittiziamente a fattispecie attualmente considerate subordinate.
Un discorso a parte e più approfondito merita la nuova disciplina sulle collaborazioni coordinate e continuative (c.d. cococo), poiché si inserisce nell'attuale intenso dibattito tra giuristi e forze politiche per la tutela urgente di rapporti di lavoro che stanno ormai ai margini del mondo produttivo e che sono appunto oggetto di una delle proposte della CGIL, che saranno esaminate nel pomeriggio.
L'art. 4 lett. c) detta poche indicazioni, che creano però dubbi interpretativi ed impressioni contraddittorie. Da un lato, infatti, la delega sembra prevedere lodevolmente delle tutele a favore dei collaboratori (e si tratterebbe forse dell'unico settore nel quale le tutele del rapporto verrebbero aumentate invece che diminuite), dall'altro le previsioni sembrano riferirsi ad ipotesi limitate.
La delega prevede una prima direttiva al legislatore delegato, e cioè la previsione che il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa vada stipulato con "atto scritto da cui risultino la durata, determinata o determinabile, della collaborazione, la riconducibilità di questa a uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso, resi con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione, nonché l’indicazione di un corrispettivo, che deve essere proporzionato alla qualità e quantità del lavoro".
Innanzitutto una notazione. La norma adotta la definizione più ampia di collaborazione continuativa, comprendendo anche le prestazioni solo prevalentemente personali(8). Ciò premesso, occorre interrogarsi sulla previsione della forma scritta. Si tratta di forma scritta ad substantiam o ad probationem? La mancanza di ulteriori indicazioni e l'elencazione dei requisiti necessari, fanno propendere per la prima soluzione, come è confermato, d'altra parte, dallo stesso relatore del disegno di legge, il sen. Tofani, che parla appunto di atto scritto "a pena di nullità" (cfr. relazione orale). E allora se manca la forma scritta cosa succede? Al punto 5 la norma rinvia alla "previsione di un adeguato sistema sanzionatorio nei casi di inosservanza delle disposizioni di legge". E' possibile, ed auspicabile, che la legge delegata preveda sanzioni pecuniarie, analogamente a quella prevista dall'art. 10 del disegno di legge c.d. Smuraglia(9). Sembra escluso, tuttavia, in base alle dichiarazioni del relatore, che l'assenza della forma scritta possa comportare "solo" tale sanzione, come previsto nel disegno di legge c.d. Smuraglia, e non anche la nullità del contratto.
Ma la nullità del contratto quale conseguenze porterebbe sulla disciplina del rapporto? Non si può certo ritenere che, in assenza di forma scritta, il rapporto debba essere considerato subordinato, senza averne i requisiti previsti dalla giurisprudenza e non potrà quindi applicarsi la disciplina del rapporto dipendente. D'altra parte, se la forma scritta diventa essenziale al rapporto coordinato e continuativo, non potranno neppure applicarsi le specifiche disposizioni previste per tale rapporto, né quelle nuove previste nel disegno di legge in discussione, di cui si dirà, né quelle esistenti(10), salva l'eventuale problematica applicazione dell'art. 2126 c.c.(11) Da ciò consegue che l'imprenditore potrebbe non avere interesse a stipulare il contratto per iscritto con conseguente inutilità della disposizione.
Il secondo criterio direttivo riguarda la "differenziazione rispetto ai rapporti di lavoro meramente occasionali, intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivo per lo svolgimento della prestazione sia superiore a 5.000 euro". La Camera ha fortunatamente modificato la prima versione, che si limitava ad indicare "criteri temporali di durata della prestazione e/o economici di ammontare del corrispettivo" al fine di distinguere i collaboratori coordinati e continuativi dalle collaborazioni meramente occasionali, con il rischio di vedere spostata una larga fascia degli attuali collaboratori nel campo del lavoro occasionale senza alcuna tutela. Il limite temporale indicato, 30 giorni, è quantomeno ben determinato e di estensione limitata. Va considerato peraltro che la disposizione comporta l'estensione dell'attuale concetto di lavoro occasionale, che potrebbe incidere a mio avviso non solo sulle collaborazioni autonome, ma anche sui rapporti di dipendenza inferiori a 30 giorni, non essendo ragionevole ritenere che il concetto normativo di occasionalità possa mutare a secondo della natura della prestazione. Ne consegue che gli attuali lavoratori subordinati con rapporti di breve durata potrebbero essere esclusi da qualsiasi tutela non solo sostanziale, ma anche processuale per gli effetti che si riverserebbero sull'art. 409 c.p.c.
Il terzo criterio direttivo indicato nella delega è il seguente: "Riconduzione della fattispecie a uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso". La norma sembra comportare che quelle prestazioni che non possono per loro natura essere configurate con riferimento ad un programma o ad un progetto predeterminato all'inizio del rapporto o di ogni fase dovrebbero essere escluse dalla categoria dei collaboratori coordinati e continuativi ed escluse quindi non solo dalle tutele predisposte nella legge delega, ma addirittura delle precedenti tutele già esaminate. Si tratterebbe della maggior parte degli attuali collaboratori, dai pony express agli addetti ai call center, dagli amministratori di condominio ai collaboratori dei giornali, ecc., a meno di non volere estendere il significato della parola "programma" o "fase di esso" a tal punto da rendere inutile la disposizione.
La disposizione è talmente equivoca che potrebbe addirittura richiamare la vecchia distinzione, di barassiana memoria, tra locatio operis e locatio operarum, con la conseguenza che tutti i rapporti di lavoro non riconducibili ad un progetto e quindi ad una locatio operis rientrerebbero nel concetto di locatio operarum, mere energie lavorative messe a disposizione del datore di lavoro, e quindi nel concetto di subordinazione(12). Si tratterebbe di una rivoluzione copernicana con l'estensione del concetto di subordinazione a gran parte degli attuali collaboratori, che non credo proprio gli estensori della proposta intendessero attuare. Davvero l'attuale governo intende considerare subordinati tutti questi lavoratori, compresi gli amministratori di condominio o i consiglieri di amministrazione delle società?
A margine va rilevato che se nell'atto scritto previsto dalla prima direttiva non viene indicato il progetto o il programma di lavoro la conseguenza non può che essere, a mio avviso, l'inapplicabilità al rapporto della disciplina dei collaboratori coordinati. Lo stessa conseguenza si avrebbe se il contratto non prevedesse la durata del rapporto, determinata o determinabile.
La quarta direttiva riguarda la "previsione di tutele fondamentali a presidio della dignità e della sicurezza dei collaboratori, con particolare riferimento a maternità, malattia e infortunio, nonché alla sicurezza nei luoghi di lavoro, anche nel quadro di intese collettive" e costituisce di per sé una norma positiva, estendendo tutele a chi attualmente non ce l'ha.
La norma originaria (art. 8 lett. c3) non indicava le nuove tutele, limitandosi a parlare di "tutela fondamentale a presidio della dignità e della sicurezza dei collaboratori, anche nel quadro di intese collettive", ma alla Camera è stata aggiunta la frase "con particolare riferimento alla maternità, malattia o infortunio, nonché alla sicurezza nei luoghi di lavoro ", senza peraltro chiarire se si intende incrementare la tutela già prevista per tali eventi. I lavori preparatori chiariscono, d'altra parte, che non si intende prevedere un intervento legislativo "pesante", ma che anzi la tipizzazione della forma contrattuale è "finalizzata ad assicurare il conveniente esercizio dell'autonomia contrattuale delle parti". La legge dovrebbe limitarsi a chiarire alcuni diritti fondamentali: i lavori preparatori ne indicano alcuni, e cioè il compenso proporzionato alla quantità e qualità del lavoro (poi inserito nella prima direttiva), la previsione di pause settimanali ed annuali (non si parla di pause giornaliere si spera solo per una dimenticanza), peraltro poi non inserita nella delega, oltre alle già citate garanzie in caso di malattia, gravidanza e infortunio.
Non sembra quindi nel complesso, sperando di essere smentiti in sede di decreti delegati, che le nuove disposizioni risolvano il problema della tutela dei cococo, sia perché i nuovi diritti appaiono molto limitati, sia perché sembra che per gran parte degli attuali cococo i diritti verranno addirittura ridotti, dovendo considerarsi esclusi da tale categoria, e quindi anche dalle attuali tutele, i rapporti senza pretederminazione della durata del rapporto o non riconducibili a un progetto o programma (ad esempio i pony express o gli addetti ai call center), e cioè forse proprio i collaboratori più esposti e che più intensamente dovevano essere tutelati. Le tutele inoltre verrebbero escluse, se è esatta la mia interpretazione, anche per i rapporti senza contratto scritto, il che potrebbe ridurre al minimo l'utilizzazione di questa fattispecie, e la conseguente applicazione delle nuove tutele, senza un sistema sanzionatorio veramente efficace.
Va osservato che la nuova disciplina, se è corretta l'interpretazione data, sembra riprendere la vecchia teoria, molto criticata in dottrina, del tertium genus tra lavoro autonomo e subordinato (analogamente alle proposte di De Luca Tamajo-Flammia-Persiani, e in un certo senso anche alla proposta c.d. Smuraglia), perché, come si è visto, la legge distingue nell'ambito del lavoro autonomo coordinato una fattispecie, con le caratteristiche indicate, a cui attribuire una particolare tutela. Per converso, e contraddittoriamente, il Libro bianco di Maroni accoglieva la contrapposta teoria della gradualità delle tutele senza creare una terza categoria (come D'Antona, Alleva, Ichino, Pedrazzoli, Biagi, ecc.).
Nel "Patto per l'Italia" del luglio 2002, il Governo aveva previsto l'istituzione di un'apposita Commissione e di un "tavolo" di trattative con i sindacati per occuparsi di tale materia in attuazione del Libro bianco, ma non è chiaro come ciò sia compatibile con la nuova normativa approvata in questi giorni, che si pone, come si è detto, in una prospettiva diversa.
5. La delega in materia di "certificazione"
Rilevavo all'inizio che una delle fondamentali linee di intervento riconoscibili nella legge in esame è quella che tende alla marginalizzazione della giurisdizione del lavoro. Ciò appare particolarmente grave e pericoloso, perché rischia di vanificare la speciale funzione del rito del lavoro di tutela della parte processuale più debole, per riequilibrare lo svantaggio di partenza del lavoratore rispetto al datore di lavoro, in esecuzione del precetto costituzionale di eguaglianza sostanziale.
L'obiettivo di marginalizzare l'intervento del giudice del lavoro era già stato chiaramente espresso nel Libro bianco di Maroni ed invocato per risolvere la crisi della giustizia del lavoro, imputabile ovviamente ai magistrati, "sia per i tempi con cui vengono celebrati i processi, sia per la qualità professionale con cui sono rese le pronunce". Quindi, poiché i tempi della giustizia sono lunghi e la qualità professionale dei magistrati scadente, occorre ridurre al minimo il loro intervento.
Che le vere ragioni della marginalizzazione sono altre, e vanno ravvisate nell'insofferenza del mondo imprenditoriale per un controllo di legalità ritenuto troppo invasivo, è emerso in modo chiaro dal grave comportamento del Ministro della giustizia, che, sta ritardando, con risibili giustificazioni, i concorsi e la conseguente applicazione della legge sull'aumento d'organico, che prevede, tra l'altro, il raddoppio dei giudici del lavoro. Solo da poco, dopo ben due anni, il Ministro è stato costretto ad avviare la riforma del 2001: se lo avesse fatto prima e i tempi della giustizia del lavoro fossero stati ridotti di conseguenza, sarebbe stato più difficile giustificare il progetto di ridimensionamento della giurisdizione del lavoro.
Ciò premesso è evidente che tutti gli interventi contenuti nella legge delega già visti vanno in generale nella direzione della marginalizzazione della giurisdizione, perché è ovvio che l'allentamento dei vincoli per gli imprenditori e l'aumento del loro potere e della loro discrezionalità, l'estensione della precarizzazione (che sconsiglia il ricorso al giudice) e l'esaltazione dell'autonomia collettiva e soprattutto individuale riducono notevolmente lo spazio di intervento del giudice.
A ciò si aggiunge in modo specifico la delega relativa alla "certificazione" e sullo sfondo la delega sull'arbitrato di equità, inserita nel disegno di legge n. 848bis.
L'art. 5 prevede la procedura di "certificazione", a cura di enti bilaterali tra organizzazioni sindacali contrapposte o strutture pubbliche o università, in materia "di qualificazione del contratto di lavoro", ma anche in tema di rinunce e transazioni e di regolamento interno delle cooperative sociali in ordine alla tipologia dei rapporti di lavoro. Inoltre la procedura è richiamata, come si è visto, per l'accertamento della liceità della somministrazione di mano d'opera, in tema di collaboratori continuativi e di lavoro occasionale ed accessorio. Tuttavia, data la onnicomprensività del concetto di "qualificazione del contratto" deve ritenersi che la procedura potrà essere utilizzata con riguardo ad ogni tipologia di contratto di lavoro, compresi i nuovi tipi introdotti nella legge, anche se non richiamano espressamente la procedura (come il job sharing o il lavoro a titolo di aiuto).
Nella relazione di accompagnamento ci si è affrettati a rispondere alle critiche al Libro bianco sulla "certificazione", affermando che il Governo è consapevole che la Corte costituzionale e la Cassazione non consentono "la disponibilità ad opera delle parti del tipo negoziale".
In effetti la Corte costituzionale (sentenze nn. 121/93 e 115/94) esclude che lo stesso legislatore, e quindi a maggior ragione le parti, possa "negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alla garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato".
Quindi la "certificazione" dovrebbe servire solo "a dare alle parti ausilio nella più precisa definizione del testo contrattuale" e in caso di controversia il giudice dovrà tenere conto "anche del comportamento tenuto dalle parti in sede di certificazione".
Lo scopo della delega è tuttavia chiaramente rivolta a "ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro", e quindi per poter raggiungere tale risultato la "certificazione" dovrebbe avere un peso, se non decisivo, comunque molto rilevante sulla qualificazione.
Già oggi la giurisprudenza dà un notevole peso al nomen iuris usato (e molti giudici di merito gli danno ormai un peso esclusivo) e sempre più afferma che molte attività possono essere svolte indifferentemente con la forma del rapporto autonomo o subordinato in base alle scelte dei contraenti.
E facile quindi immaginare cosa succederà con l'approvazione di tale disposizione. Si tenderà a dare rilievo esclusivo alla "certificazione", a cui il lavoratore difficilmente potrà sottrarsi all'inizio del rapporto (per lavorare spesso si accetta qualsiasi condizione), mentre la formula della procedura ed anche lo stesso termine usato "certificazione", che dà un connotato quasi "legale" all'accertamento effettuato, costituiscono un notevole freno anche psicologico alla contestazione successiva, sia con riferimento alla correttezza della definizione data, sia nell'ipotesi in cui le concrete modalità del rapporto si siano poi svolte in maniera difforme da quelle indicate nella "certificazione". Mi sembra quindi che dietro questa proposta si annidino seri rischi di sfruttamento del lavoratore.
Altri faranno un'analisi più compiuta della disposizione. Io quindi mi limiterò ad alcuni spunti.
Va notata in primo luogo l'indeterminatezza, al limite dell'incostituzionalità, della direttiva in ordine al "contenuto" e alla "procedura" della "certificazione". Altri profili di costituzionalità potrebbero poi ravvisarsi in riferimento alla "piena forza legale" attribuita al contratto certificato, "con esclusione della possibilità di ricorso in giudizio se non in caso di erronea qualificazione del programma negoziale da parte dell’organo preposto alla certificazione e di difformità tra il programma negoziale effettivamente realizzato dalle parti e il programma negoziale concordato dalle parti in sede di certificazione". La norma infatti sembra non consentire la denuncia di eventuali vizi della volontà diversi dall'errore o violazione della procedura di certificazione(13). Inoltre non sembra consentire di mettere in discussione la natura della prestazione precedente alla "certificazione" (non sembra esclusa la possibilità di ricorrere a tale procedura anche dopo l'inizio del rapporto), essendo limitata la verifica giudiziale solo al rapporto tra il programma negoziale e ciò che si verifica dopo(14).
Va considerato, infine, che anche in caso di accertamento giudiziale difforme dalla "certificazione", la delega sembra prevedere (ma sono evidenti le perplessità sul piano costituzionale) che i suoi effetti permangono fino all'accertamento stesso, e quindi ad un rapporto certificato scorrettamente come autonomo non potrà applicarsi la disciplina più favorevole del rapporto subordinato se non per il periodo successivo all'accertamento giudiziale. La conseguenza è evidente: nessuno farà causa per accertare la natura di un rapporto formalmente autonomo durante il rapporto stesso, perché rischierebbe di perdere il posto; nessuno farà causa successivamente alla cessazione, perché l'accertamento non avrebbe alcun effetto sul rapporto esaurito.
6. I soci lavoratori delle cooperative
L'art. 9 della legge in commento non contiene una delega, ma una normativa diretta, che modifica, senza la necessità di ulteriori interventi, la recente legge n. 142/2001 in tema di soci delle cooperative.
Il segno complessivo dell'intervento è chiaramente diretto ad un'ulteriore riduzione di tutele per un'altra categoria di lavoratori, spesso utilizzata per nascondere normali rapporti subordinati.
La legge 142, estendendo alcune tutele ai soci lavoratori, a prescindere dalla sussistenza di un rapporto subordinato, aveva reso meno pressante il problema, riducendo quindi la possibilità di sfruttamento. L'art. 9 fa un passo indietro a danno dei soci lavoratori.
Un primo intervento riguarda la tutela processuale. La legge 142/2001 aveva previsto all'art. 5, 2° comma, la competenza del giudice del lavoro, con tutte le conseguenti garanzie a tutela della parte debole del rapporto processuale, per le controversie relative al rapporto di lavoro dei soci delle cooperative, che si affianca al "distinto" rapporto associativo, "in qualsiasi forma" il rapporto venga svolto (e cioè autonomo o subordinato). Restavano nella competenza del giudice civile ordinario solo le controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto associativo.
La nuova disposizione ha escluso la competenza del giudice del lavoro, stabilendo che "le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario". L'intenzione del legislatore è inequivocabile, perché da un lato viene eliminato qualsiasi riferimento all'art. 409 c.p.c., dall'altro viene modificata la disposizione relativa alla competenza del giudice ordinario, limitata non più solo alle controversie "inerenti al rapporto associativo", ma estesa ad ogni controversia "relativa alla prestazione mutualistica", dove il termine "prestazione" si riferisce evidentemente alla prestazione lavorativa, pur prestata in mutua cooperazione con gli altri soci. Ciò è confermato dall'eliminazione del termine "distinto" all'art. 1, 3° comma della legge, per sottolineare il fatto che il rapporto di lavoro si aggiunge ("ulteriore") al rapporto associativo, ma non è "distinto" da esso e non può avere quindi una disciplina diversa, quantomeno sul piano processuale (scegliendo peraltro la disciplina meno favorevole al socio). Si tratta di un passo indietro anche rispetto all'evoluzione giurisprudenziale precedente alla legge del 2001, che aveva affermato la competenza del giudice del lavoro, anche in caso di attività del socio lavoratore rientrante nei fini istituzionali dell'ente(15).
Ma non basta! Anche la disciplina sostanziale viene ridimensionata.
Con riguardo alla retribuzione l'art. 3 della legge 142 prevedeva che il trattamento economico complessivo del socio lavoratore dovesse essere proporzionato alla quantita' e qualita' del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo.
La nuova normativa prevede la possibilità di derogare in peggio a questo principio con riferimento alla piccola pesca, ma soprattutto consente al regolamento aziendale di modificare in peggio i trattamenti ulteriori ai minimi sopraindicati, in deroga al generale principio di immodificabilità della retribuzione (art. 6 2° comma).
Quanto ai diritti sindacali di cui all'art. III dello Statuto dei lavoratori, che erano stati estesi ai soci con rapporto subordinato dalla legge 142, la nuova disposizione, ne limita l'esercizio al requisito della "compatibilità" con lo stato di socio lavoratore, "secondo quanto determinato da accordi collettivi tra associazioni nazionali del movimento cooperativo e organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative". Non è chiaro dalla disposizione cosa succede in assenza di accordi collettivi in materia, e cioè se i diritti possano essere esercitati senza limiti o se non possano affatto essere esercitati. Nell'uno e nell'altro caso difficilmente una parte o l'altra avrebbe interesse a sottoscrivere un accordo che limita i diritti della parte sindacale tutelata.
La legge interviene, infine, sulla normativa relativa alla cessazione del rapporto.
La legge 142, pur prevedendo una generale applicazione della normativa sul lavoro subordinato ai soci di cooperativa con rapporto subordinato, escludeva tuttavia l'applicazione dell'art. 18 S.d.L. "ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo" (art. 2).
Si è ritenuto in dottrina(16), sulla base della lettera della disposizione e della stessa ratio dell'esclusione, limitata all'inopportunità del ripristino di un rapporto definitivamente cessato sul piano associativo, che l'esclusione dell'art. 18 non comportasse anche l'esclusione della normativa sulla giusta causa e giustificato motivo del licenziamento e sulla "tutela obbligatoria" (ma neppure probabilmente la procedura ex art. 7 S.d.L.), che doveva quindi ritenersi utilizzabile.
La nuova normativa, invece, pur mantenendo la precedente formulazione sull'art. 18, ha inserito all'art. 5 una disposizione che sembra incompatibile con l'applicazione della restante normativa sui licenziamenti. Si stabilisce, infatti, che "il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli articoli 2526 e 2527 del codice civile". Se a ciò si aggiunge le considerazioni già svolte con riguardo all'abrogazione del termine "distinto", che fa pensare ad un unico rapporto socio-lavorativo indistinguibile, sembra doversi affermare che non vi è alcuno spazio per la normativa sui licenziamenti in caso di esclusione del socio lavoratore in conformità delle citate norme civilistiche. Ciò, d'altra parte, è in linea con l'esclusione della competenza funzionale del giudice del lavoro.
Roma, 12.3.2003
*E' la relazione introduttiva del Convegno del 12.3.2003 "Riforma o controriforma del mercato del lavoro" organizzato dalla Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, da Magistratura democratica e dalla Consulta giuridica del lavoro.
NOTE:
1) Vittorio Angiolini,
La legge di delegazione per l'attuazione del "libro bianco" del
Ministro del Lavoro: profili costituzionali della procedura proposta, in www.cgil.it,
Ufficio giuridico e vertenze, attualità in evidenza, 2001.
2) Si tratta del D.Lgs n. 181/2000, in esecuzione della legge
delega n. 144/99, peraltro modificata nell'art. 45 dalla legge n. 388/2000,
nel rispetto di quanto previsto, a sua volta, dal D.Lgs. n. 469/97!
3) Si è parlato anzi di concorrenza sleale, perché
gli enti pubblici, a differenza di quelli privati, non possono svolgere l'attività
trainante costituita dall'attività di fornitura di lavoro temporaneo
(Valeria Fili, L'annunciata revisione della disciplina dei servizi pubblici
e privati per l'impiego, in AA.VV. Il diritto del lavoro dal "libro Bianco"
al Disegno di legge delega 2002, a cura di F. Carinci e M: Miscione, Ipsoa
2002).
4) P.G. Alleva, Il D.D.L. delega al Governo sul mercato del
lavoro, www.cgil.it, Ufficio giuridico e vertenze, attualità in evidenza,
2003.
5) In questo senso F.Lunardon, La flessibilità tipologica
e il superamento della fattispecie "lavoro subordinato" in AA.VV.
Il diritto del lavoro dal "libro Bianco" al Disegno di legge delega
2002, a cura di F. Carinci e M: Miscione, citata. In senso diverso P.G. Alleva,
Il D.D.L. delega al Governo sul mercato del lavoro, citato, che considera
la previsione della non obbligatorietà come una sorta di "obiezione
consentita al lavoratore ma comportante una penale e cioè la perdita
dell'indennità
di disponibilità".
6) P.G. Alleva, Il D.D.L. delega al Governo sul mercato del
lavoro, citato.
7) cit. da Alleva e altri, Un disegno autoritario nel metodo,
eversivo nei contenuti, in Alleva e altri, Lavoro, 80.
8) Si tratta di una definizione corrispondente a quella della
c.d. "parasubordinazione" prevista dall'art. 409 c.p.c. n. 3, a
cui si applica la tutela processuale del rito del lavoro. Tuttavia attualmente
i c.d. cococo sono definiti sulla base di un concetto più ristretto
ereditato dal T.U. delle imposte dirette (D.P.R. n. 917/86), che a fini fiscali
ha individuato tra i lavoratori autonomi i collaboratori coordinati e continuativi,
tipizzandone alcuni (amministratore, sindaco o revisore di società,
collaboratori a giornali, riviste, enciclopedie e simili, partecipanti a collegi
e commissioni) e ne ha fornito poi la definizione di lavoratori addetti a
"prestazione di attività
che pur avendo contenuto intrinsecamente
artistico o professionale sono svolte senza vincolo di subordinazione a favore
di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo
senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita".
La definizione esclude ad esempio le prestazioni svolte senza retribuzione
periodica (si pensi alle prestazioni d'opera con compenso corrisposto al momento
della realizzazione) o con l'impiego di limitati mezzi organizzati nell'ambito
di una prestazione prevalentemente personale. Tale definizione ristretta è
stata poi richiamata dalla legge nn. 335/95 (art. 2 comma 26), che ha costituito
il fondo speciale previdenziale presso l'Inps per detti lavoratori, e dal
D.lgs. n. 38/2000 (art. 5), che ne ha previsto la tutela contro gli infortuni
sul lavoro e le malattie professionali, ed è stata quindi fino ad oggi
adottata per delimitare la categoria dei cococo.
9) "
di importo non inferiore, nel minimo, alla
totalità dei compensi dovuti fino al momento dell'accertamento e, nel
massimo, al doppio di tale importo".
10) Attualmente i cococo godono di una tutela processuale,
conseguente all'applicazione del rito del lavoro, e di una tutela previdenziale.
Infatti, con legge n. 335/95 (art. 2 comma 26), come si è visto, è
stato costituito il fondo speciale presso l'Inps, estendendo quindi ai collaboratori
continuativi (ma anche ai lavoratori autonomi professionisti e agli incaricati
delle vendite a domicilio) l'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità,
la vecchiaia e i superstiti. Successivamente l'art. 59 legge n. 449/97 ha
esteso dal 1.1.98 la tutela della maternità (con un indennità
fissata all'80% del compenso dal D.M. 4.4.2002) e dell'assegno per il nucleo
familiare. La legge n. 488/99 ha previsto poi dal 1.1.2000 un'indennità
di malattia per i periodi di degenza ospedaliera e, infine, il D.Lgs. n. 38/2000
ha esteso ai collaboratori la tutela assicurativa per gli infortuni sul lavoro
e le malattie professionali.
11) La Suprema Corte aveva ritenuto in un primo tempo applicabile
l'art. 2126 c.c., secondo cui la nullità del contratto di lavoro non
produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, anche
al lavoro parasubordinato (Cass. n. 14/90), ma successive decisioni sono andate
di contrario avviso, cfr. Cass. n. 3496/95 e 12259/95.
12) Lo sembra sostenere P.G. Alleva, in Il D.D.L. delega
al Governo sul mercato del lavoro, citato.
13)In questo senso Valerio Speziale, relazione sulla "certificazione"
al Seminario su "La nuova legge sul mercato del lavoro" del 5.2.2003
presso la Luiss a Roma.
14) Valerio Speziale,
citato.
15) Cass. S.U. 30 ottobre 1998 n. 10906 in Foro it, 2002,
1198 (con nota di Francesco De Santis).
16) Francesco De Santis, in Foro it., cit.
Omissisa
cura di magistratura democratica romana
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