L'ordinanza delle Sezioni Unite sul legittimo sospetto

Pubblichiamo la terza parte dell'ordinanza, con la quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, lo scorso 28 gennaio, hanno respinto la richiesta di Silvio Berlusconi e Cesare Previti di trasferire da Milano a Brescia i processi del filone cosiddetto "toghe sporche" (Imi-Sir, SME, Lodo Mondadori).


d - "Previti - dice la memoria dei pubblici ministeri - cita un'altra assemblea, sempre 'per iniziative paragiudiziarie', tra giudici e pubblici ministeri, annunciata in un articolo del Corriere della Sera del 5 ottobre per il successivo giorno 13: non risulta affatto che il 13 ottobre si sia svolta a Milano alcuna assemblea, mentre in tale data, a Roma, si è svolto un Comitato direttivo centrale dell'Associazione Nazionale Magistrati".

Previti oppone che, "nel documento allegato n. 6 alle osservazioni 'anomale' del p.m., che riporta il verbale delle riunioni del Comitato direttivo Centrale del 13 e 14 ottobre 2001, sono presenti addirittura degli omissis, come se, né le parti, né la stessa corte di cassazione, possano avere accesso al contenuto completo del verbale, onde verificare le modalità, i contenuti, i toni e ogni altra circostanza rilevante delle citate riunioni".

Può replicarsi che è certo, anzitutto, - e la circostanza non è, oggettivamente, a favore di chi è sicuro dei tempi e dei modi della concertazione contra reum - che il 13 ottobre non v'è stata alcuna riunione di giudici e magistrati milanesi per iniziative paragiudiziarie, ma soltanto una riunione del Comitato direttivo centrale dell'A.N.M., ed è anche certo che l'ordine del giorno allegato alla memoria dei pubblici ministeri non consente di sapere quale sia stato l'ordine del giorno di quella riunione.

Ma, al di là del rilievo che il Comitato direttivo centrale dell'A.N.M. non aveva ricevuto alcun ordine di svelare l'ordine del giorno, v'è, allegata a quest'ordine del giorno, con l'indicazione "omissis", una copia del Corriere della Serra del 15 ottobre 2001, che riporta, tra virgolette, il testo del documento approvato in quella sede.

In questo testo non si parla affatto della legge sulle rogatorie se non in relazione ad un documento dell'ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, critico nei confronti, non della legge, ma del disegno di legge sulle rogatorie e riservato al Ministro, documento che sarebbe "uscito" dal Ministero determinando, secondo quanto si legge nel quotidiano, la reazione del Ministro, il quale avrebbe indicato come "responsabili un gruppo di magistrati".

e - "Previti - prosegue la memoria dei pubblici ministeri - riferisce, poi, di un'altra riunione o assemblea plenaria in data 30 ottobre tra giudici e pubblici ministeri con oggetto specifico e criptato che lasciava, però, trasparire come all'ordine del giorno vi fossero le strategie interpretative da adottare nei confronti di lui e di Berlusconi".

"Ancora una volta - questo il commento - viene riferito un fatto in modo distorto e allusivo di scorrettezze commesse dagli uffici giudiziari milanesi; in realtà il 30 ottobre si è svolta nell'aula magna del tribunale di Milano un'assemblea pubblica dell'Associazione Nazionale Magistrati alla quale è intervenuto anche il presidente Gennaro e il contenuto di tale assemblea risulta dalla copia dell'articolo allegato".

Previti, nella sua memoria, nulla replica sul punto.

E', peraltro, sufficiente scorrere la copia del quotidiano "La Stampa" del 31 ottobre 2001, allegata alla memoria, per cogliere che in quell'assemblea si è parlato, alla presenza del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, dei problemi che la magistratura sentiva, in quel momento, a torto o a ragione, come suoi problemi; ma, nulla permette di dire che, come si legge nella memoria di Previti, "certamente all'ordine del giorno dei lavori assembleari v'erano le strategie interpretative da adottare nei processi nei confronti dei Berlusconi e di Previti".

V'è, sì, in questo resoconto giornalistico, un cenno alla legge sulle rogatorie, ma solo per sottolineare che in quella assemblea si era parlato anche di "annunciate ispezioni del ministro Castelli ai magistrati che non avessero applicato, stravolgendola, la legge sulle rogatorie", il che, ancora una volta, non significa minimamente che "all'ordine del giorno dei lavori vi fossero le strategie interpretative da adottare nei confronti di Berlusconi e Previti".

f - "Sicuramente - continua la memoria - la rappresentazione più grave che viene descritta dall'imputato Previti nella richiesta di rimessione è quella che si legge a pagina 29: 'ulteriore riunione assembleare del giorno 29 novembre 2001 alla quale hanno partecipato oltre che giudici e p.m., anche i soliti Borrelli e D'Anbrosio ed i giudici dei processi nei confronti di Berlusconi e Previti'".

"Tali affermazioni - dicono i pubblici ministeri - sono gravemente calunniose e completamente false ed è singolare che Previti, per dimostrare il verificarsi e il contenuto dell'assemblea, abbia allegato un articolo di stampa che dà conto di altri fatti verificatisi addirittura il 29 settembre 2001".

"In realtà il 29 novembre si è svolta in tutta Italia un'astensione simbolica dal lavoro da parte dei magistrati, consistita nell'interrompere l'attività per quindici minuti, riunirsi in assemblea, dare lettura di un comunicato, uguale per tutte le sedi d'Italia, stilato dall'Associazione Nazionale Magistrati".

"La manifestazione è avvenuta contemporaneamente, e con le stesse modalità, in tutta Itala, con grande partecipazione dei magistrati (secondo il Corriere della Sera, 'a Roma nove magistrati su dieci hanno aderito all'iniziativa')".

Alla memoria sono allegati tre scritti, il primo dei quali è una comunicazione della sezione distrettuale di Milano dell'Associazione Nazionale Magistrati indirizzato a tutti i colleghi del Distretto.

Il contenuto di questa comunicazione - viene riportato perché Previti nella memoria vi fa riferimento - è il seguente:

"Come è noto la giunta esecutiva centrale della A.N.M., in applicazione del deliberato della assemblea del 10 novembre u.s., ha indicato, come prima delle forme di agitazione, quella della sospensione simbolica dalle attività il giorno 29 p.v.".

"I componenti della giunta distrettuale hanno, concordemente, convenuto:

- di effettuare la sospensione per 15 minuti, dalle ore 12, con conseguente riunione di tutti i magistrati nell'aula magna dove verrà data lettura del documento predisposto dalla A.N.M. e successiva ripresa delle normali attività;

- di invitare tutti i magistrati ad apporre sulla porta dei propri uffici il comunicato relativo alla sospensione;

- di indire l'assemblea aperta alla stampa, all'avvocatura e al pubblico.

Occorre sottolineare che è importante che partecipi il maggior numero di magistrati al fine di dare risalto alla iniziativa e dimostrare la compattezza della categoria".

Il comunicato, di cui si parla in questo scritto, diceva che "si comunica che l'attività giudiziaria sarà sospesa dalle ore 12 alle ore 12,15 del giorno 29 novembre 2001 in applicazione della delibera del Comitato direttivo centrale della Associazione Nazionale Magistrati che ha indetto una simbolica manifestazione per rendere pubblica la situazione di disagio in cui la magistratura opera in conseguenza di scelte legislative e di politica giudiziaria nonché per gli attacchi umilianti diretti contro i singoli ed offensivi per l'intero ordine giudiziario".

Previti, nella memoria, così risponde:

Il documento, prodotto in all. 8 alle 'osservazioni' del p.m., dell'associazione dei magistrati di Milano è 'agghiacciante': si invita esplicitamente alla manifestazione di massa e compatta di tutti i colleghi del distretto', alla propalazione alla stampa e alla partecipazione di tutti i magistrati, che sono invitati: "ad apporre sulla porta dei propri uffici il comunicato relativo alla sospensione (nel quale, a carattere cubitali, si parla espressamente di una 'manifestazione organizzata 'per rendere pubblica la situazione di disagio in cui la magistratura opera in conseguenza di scelte legislative e di politica giudiziaria nonché per gli attacchi umilianti diretti contro singoli ed offensivi per l'intero ordine giudiziario") e ad "indire l'assemblea aperta alla stampa, all'avvocatura e al pubblico".

"In conclusione del volantino si sottolinea che: 'è importante che partecipi il maggior numero di magistrati al fine di dare risalto alla iniziativa e dimostrare la compattezza della categoria'".

Non sembra si presti ad essere definita "agghiacciante" una manifestazione indetta da una organizzazione professionale solo perché, l'organizzazione, credendo nelle proprie iniziative, chiede agli iscritti di partecipare alla manifestazione, o assemblea, in modo massiccio.

E', inoltre, proprio di queste organizzazioni - è norma di comune esperienza - fare in modo che la notizia e le ragioni della propria iniziativa raggiungano i mezzi di comunicazione.

E' proprio, poi, di ogni organizzazione ritenere, a ragione o a torto, di dovere esprimere il proprio disagio in occasione di determinate scelte legislative e a questa regola non sfugge la magistratura associata che, in quel momento, poteva essere convinta, e si può discutere, di nuovo, se a ragione o a torto, che determinate scelte legislative o di politica giudiziaria fossero fonte di disagio e che vi fossero stati attacchi umilianti diretti contro i singoli ed offensivi per l'ordine giudiziario.

E' superfluo, inoltre, notare che l'affissione del comunicato sulle porte degli uffici costituiva anche notizia della sospensione del lavoro, con la indicazione delle ragioni, per coloro che si fossero dovuti recare, in quei quindici minuti, dal magistrato.

Se questi rilievi hanno una loro ragionevolezza - e la hanno - non può certo affermarsi, come si afferma, concludendo, nella memoria di Previti, che l'avere indetto l'Associazione Nazionale Magistrati una assemblea, contenuta nel tempo, per determinate, anche se non da tutti condivisibili, ragioni, l'essere stati invitati all'assemblea tutti i magistrati del distretto di Milano, l'essere stati invitati i magistrati ad apporre sulla porta un certo avviso e ad aprire l'assemblea alla stampa, significhi totale conferma di quanto denunciato in sede di richiesta di rimessione e il pieno riscontro degli elementi di prova allegati a sostegno della stessa".

Che una manifestazione sindacale indetta, in quel momento, con le stesse modalità, con lo stesso contenuto, in tutto il Paese - il che già farebbe escludere essersi trattato di una situazione di carattere locale - "confermi quanto denunciato in sede di richiesta di rimessione", nel senso che Previti dà a questa affermazione, è tesi ictu oculi insostenibile.

Se nelle richieste di rimessione il punto nodale, l'epicentro della grave situazione locale, è la trasformazione della procura, da parte di Borrelli, in organismo politico, come sostiene Previti sin dalla prima pagina della sua richiesta; e se una delle prove di questa trasformazione, la prova principe, è la concertazione contra reum culminata nelle ordinanze sulle rogatorie, appare, veramente, logicamente impossibile un raccordo tra una legittima manifestazione professionale sindacale e quel retroterra, non potendo avere quella manifestazione, proprio per il suo carattere nazionale, alcun collegamento con una grave situazione locale che, secondo i richiedenti, è fatta di prevaricazioni, di abusi, di iniziative, non poche delle quali, così come descritte e ritenute, ben oltre la legalità.

g - Concludendo sul punto, non può non affermarsi che, sinora, la prova della concertazione contra reum è completamente mancata; è completamente mancata la prova che Borrelli abbia creato una grave situazione locale ergendosi a stratega di un progetto di attacco, sul piano processuale, contro gli imputati che avrebbe raggiunto il vertice nelle ordinanze sulle rogatorie.

Si sono esaminate le contrapposte ragioni e si è visto che non una soltanto delle affermazioni di Previti su questa concertazione contra reum ha retto ad un necessariamente severo, ma sereno, vaglio critico.

III - E la riprova di tutto ciò, della inesistenza della concertazione contra reum è offerta, come si è già avuto occasione di dire, proprio da quello che, nella logica delle richieste, costituirebbe, insieme, la prova e l'esito della concertazione, la pronuncia delle ordinanze sulle rogatorie.

a - La IV Sezione del tribunale, nella propria ordinanza, - e la I sezione si muove nella stessa direzione - si pone il problema della "questione relativa alla dedotta violazione dll'art. 3, comma 3, della Convezione Europea di Assistenza Giudiziaria per difetto del timbro di conformità sugli atti acquisiti, il che vuol dire che le parti si erano chiesto, dando divergenti risposte, se fosse necessario o meno, ai fini della utilizzabilità delle rogatorie, un timbro di conformità sugli atti acquisiti, cioè un timbro su ciascuno degli atti acquisiti.

Il tribunale dà atto, anzitutto, nella sua risposta, che "la procura della Repubblica ha depositato una nota proveniente dall'ufficio federale della Giustizia della Confederazione Elvetica in data 18 ottobre 2001"; spiega che "trattasi di documento trasmesso per il tramite del Ministero della Giustizia italiana e che trova la sua ovvia ragione d'essere nella richiesta di chiarimenti, a seguito dell'entrata in vigore della L. 367/2001, circa l'esecuzione delle rogatorie a suo tempo richieste nell'ambito di questo come di altri procedimenti tuttora pendenti".

Aggiunge che "in tale atto le autorità elvetiche, tra l'altro, affermano":

"'L'autorità federale competente per la trasmissione della documentazione - Ufficio federale di giustizia - ha trasmesso la documentazione conformemente alla CEAG, segnatamente in ossequio degli artt. 2, 3 e 17, come altresì della prassi ormai consolidata tra gli Stati parte della CEAG";

"la trasmissione della documentazione all'Italia è avvenuta nell'identica forma con la quale vengono trasmessi gli atti rogatoriali della Svizzera agli altri Stati parte della CEAG e viceversa";

"a più di trent'anni dalla ratifica della CEAG e da più di vent'anni di giurisprudenza nazionale ed altrettanti di prassi internazionale, ormai a valore stringente nei rapporti con gli Stati parte della CEAG, è la prima volta che un simile quesito è posto alle autorità elvetiche".

"Con ulteriore nota datata 2 novembre 2001 - nota ancora il tribunale - l'Ufficio Federale di Giustizia della Confederazione elvetica ribadiva, con riferimento a qualunque attività rogatoriale, dette argomentazioni".

Il tribunale, dopo avere dato atto, e riportato, questi due documenti provenienti dalla Confederazione elvetica, segue un percorso logico-giuridico che può così riassumersi:

- v'è una prassi internazionale per cui gli Stati parte della CEAG hanno sempre ritenuto che, nella trasmissione degli atti richiesti con rogatoria, non è necessaria nessuna specifica attestazione di conformità, essendo sufficiente una lettera di accompagnamento con la quale l'autorità straniera, in esecuzione della richiesta, trasmette gli atti attestando la corrispondenza di quanto trasmesso a quanto richiesto;

- "è del tutto identica la situazione con riferimento alla notevole mole di documentazione acquisita per via rogatoriale nell'ambito di questo processo e proveniente da diversi Stati membri per la maggior parte dalla Confederazione elvetica";

- "questa prassi ha un innegabile valore giuridico come emerge dall'art. 31, comma 3, della Convenzione di Vienna del 1969, ratificata in Italia, sul diritto dei trattati e come le ss.uu. civili della corte di cassazione hanno affermato - e già in precedenza si erano espresse pressoché negli stessi termini - nel 1992".

b - Previti, nella sua richiesta, nel paragrafo "ulteriori prove e risultati della concertazione contra reum, dopo avere ribadito - pag. 30 - che "magistrati di Milano - p.m. e giudici - si sono riuniti in gruppo, più volte, per decidere, collettivamente, la condotta da adottare nei processi contro il sottoscritto in relazione alla legge n. 367 del 2001 in tema di rogatorie internazionali" e che "a tali riunioni ha partecipato il dott. Borrelli, il quale aveva poco prima annunciato, pubblicamente, sulla stampa nazionale, che la legge sulle rogatorie sarebbe stata 'neutralizzata'", fa delle considerazioni che si prestano alla seguente sintesi:

- "i tribunali hanno disapplicato la legge con argomentazioni capziose e sofistiche";

- "è inesistente una prassi internazionale consolidata di violazione costante dell'art. 3 della Convenzione europea da parte della Svizzera";

- "questa prassi, se esistesse, sarebbe palesemente contra legem e, quindi, non inidonea ad essere fonte normativa addirittura sopraordinata alla Convenzione europea e alla legge n. 367/2001";

- "la spedizione alla procura di Milano delle fotocopie non può sostituire la certificazione di autenticità delle fotocopie informalmente acquisite; una ricevuta di spedizione non può attestare che i documenti spediti sono conformi agli originali".

c - Una prima osservazione è che queste censure nulla di specifico oppongono alle ragioni addotte dal tribunale a sostegno della affermazione dell'esistenza di una determinata interpretazione data concordemente dalle parti alla Convezione Europea di Assistenza giudiziaria.

Non v'è, in particolare, in esse nulla che contesti l'affermazione che l'Ufficio Federale di Giustizia della Confederazione elvetica si è richiamato espressamente ad una prassi trentennale; nulla che replichi all'affermazione che il p.m. aveva prodotto "copie di numerosi esiti di attività rogatoriali in altri procedimenti provenienti da diverse autorità di Stati membri, documentazione senza alcuna attestazione di conformità, ma, tutta, con lettera di accompagnamento con la quale l'autorità straniera, in esecuzione della richiesta, trasmette gli atti attestando la corrispondenza di quanto trasmesso a quanto richiesto".

Nulla, ancora, contro l'ulteriore affermazione che "è del tutto identica la situazione con riferimento alla notevole mole di documentazione acquisita per via rogatoriale nell'ambito di questo processo e proveniente da diversi Stati membri, per la maggior parte dalla Confederazione elvetica".

Nulla, poi, sul tema della legittimità della prassi, nessuna argomentazione contraria, cioè, alle riflessioni dell'ordinanza sulle norme della Convenzione di Vienna del 1969 relativa al diritto dei Trattati, nel cui art. 31, comma 3, la prassi è esplicitamente richiamata, e nulla, infine, sempre sulla legittimità, avverso i principi, fatti propri dall'ordinanza, affermati dalla giurisprudenza delle ss.uu. civili.

d - Ma, a prescindere da ciò, se i pubblici ministeri nella loro memoria rilevano, tra l'altro, che la VI sezione della corte di appello di Milano, con ordinanza del 20 novembre 2001, allegata, si era pronunciata come i collegi milanesi - e i pubblici ministeri hanno avuto anche cura di far pervenire, successivamente, una ulteriore ordinanza, negli stessi termini, del tribunale di Bari in data 20 febbraio 2002 -, la IV sezione del tribunale, nelle osservazioni ritenute irrituali dai richiedenti pervenute il 20 novembre 2002, ha citato, a conforto della tesi sostenuta nella propria ordinanza, la sentenza della corte di cassazione in data 16 ottobre/8 novembre 2002, oltre che l'ordinanza della Corte Costituzionale n. 315 del 4 luglio 2002.

Orbene, è innegabile, come si sostiene in quelle osservazioni, che la corte di cassazione, nel porsi il problema trattato dal tribunale nell'ordinanza, sia pervenuta ad identiche conclusioni percorrendo, sostanzialmente, lo stesso iter logico-giuridico.

"In tema di rogatoria internazionale all'estero - così la massima che ne è stata ricavata - l'articolo 3, comma 3, della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959, non impone allo Stato richiesto una prescrizione a carattere cogente di trasmettere copie o fotocopie dei fascicoli o documenti, richiesti per rogatoria, muniti dell'attestazione di conformità all'originale, ma facoltizza tale Stato, laddove sia richiesto l'invio di atti in originale, di trasmettere solo copie o fotocopie autenticate".

"Ne consegue, che salvo il caso in cui lo Stato rogante richieda espressamente la trasmissione di atti o documenti in originale, è sufficiente, come si desume dalle prassi consolidata in materia, l'atto formale di trasmissione dell'autorità straniera per garantire l'autenticità e la conformità degli atti trasmessi in semplice fotocopia".

Il testo della sentenza - è opportuno porlo in evidenza - è assolutamente nei termini riassunti dalla massima, avendo scritto, tra l'altro, la corte di cassazione che "generale principio di interpretazione della clausola dei trattati internazionali è quello fissato dall'articolo 31, comma 3, del Trattato di Vienna 21 marzo 1986 che privilegia la consuetudine internazionale quale fonte primaria di diritto internazionale, sicché nella materia in esame non può prescindersi dalla prassi consolidata secondo cui, salvo l'ipotesi in cui lo Stato rogante richieda atti e documenti in originale, lo Stato richiesto li trasmette in semplice fotocopia, essendo sufficiente l'atto formale di trasmissione per conferire loro garanzia di autenticità e conformità all'originale".

La nota alla sentenza, condividendola, rileva, sul punto, che la corte di cassazione è incorsa in una imprecisione, avendo citato la Convenzione di Vienna del 1986, - la quale disciplina i trattati tra Stati ed Organizzazioni internazionali - mentre avrebbe dovuto citare la Convenzione di Vienna del 1969 che è quella citata dai tribunali.

La nota, però, si affretta ad aggiungere che "l'imprecisione è del tutto irrilevante, in quanto gli articoli 31-33 della Convenzione del 1986, richiamati dalla corte, dettano norme imperative del tutto simili a quelle previste dalla Convenzione del 1969 sul diritto dei Trattati tra Stati".

E, per quanto riguarda l'ordinanza della Corte Costituzionale, antecedente alla sentenza della corte di cassazione, è da ricordare che il tribunale di Roma, con ordinanza del 7 novembre 2001, aveva avanzato dubbi sulla legittimità costituzionale di dette norme e, quindi, del regime della inutilizzabilità degli atti, per contrasto con la consuetudine internazionale interpretativa dell'articolo 3 della Convenzione di Strasburgo del 1959 e con i canoni della ragionevolezza e della ragionevole durata del giusto processo.

E la Corte costituzionale, "con una sintetica e chiara ordinanza - come si mette in risalto nella nota appena ricordata - ha dichiarato la questione inammissibile, non avendo il giudice a quo 'verificato, prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale, se potessero adottarsi differenti interpretazioni delle norme censurate, già emerse nella giurisprudenza di merito, le quali fossero in grado di risolvere la questione interpretativa'"".

"Il riferimento alle pronunce del tribunale di Milano - si osserva in quella nota - appare evidente e, quindi, è evidente l'invito a valutare la prevalenza e diretta applicabilità delle norme delle Convenzioni internazionali, considerando le disposizioni del codice suppletive ed, in ogni caso, operante - la sanzione della inutilizzabilità - solo in caso di violazione delle Convenzioni, secondo la loro prassi interpretativa.

La nota prosegue dicendo che "in questo alveo si è mossa la Cassazione con la sentenza in commento valorizzando un'interpretazione della Convenzione di Strasburgo del 1959 in modo da evitare appesantimenti formalistici".

Poco prima si era anche scritto, in questa nota, dopo una articolata premessa sui principi che regolano l'applicazione delle norme di diritto internazionale, che "appariva opportuno, a quel punto, fare un cenno alla giurisprudenza di legittimità e di merito che si è maturata nella vigenza della nuova normativa sulle rogatorie, segnalando che tutte le pronunce, partendo dalla valutazione della prevalenza del diritto internazionale su quello interno, valorizzano la snellezza delle forme prevista dalla prasi internazionale, piuttosto che il formalismo del nostro codice di rito".

In questo contesto, è davvero difficile affermare, come si fa nella richiesta di Previti, che le ordinanze dei tribunali sono "capziose e sofistiche", che la prassi è inesistente e che, se esiste, è contra legem.

Non è questa, ovviamente, la sede per esaminare la legittimità di quelle ordinanze.

Questa è la sede, però, in cui deve affermarsi che, contrariamente a quanto si sostiene nelle richieste, quelle ordinanze non sono fuori del sistema, non sono abnormi, tanto da farle ritenere l'effetto, il frutto, di una concertazione contra reum, trattandosi, invece, di ordinanze che hanno sposato una delle possibili interpretazioni della legge, conforme, peraltro, alla interpretazione datane da altri - tutti, secondo quella nota - i giudici di merito e dalla corte di cassazione e non contraddetta dalla Corte costituzionale nel suo esplicito richiamo alle interpretazioni già emerse nella giurisprudenza di merito".

e - Previti, a pag. 22 della memoria depositata il 18 gennaio 2003, risponde alle osservazioni del tribunale in questi termini.

"La sentenza della corte di cassazione è richiamata dal tribunale a sproposito, perché, in quella sentenza, la corte di cassazione ha chiarito che è l'atto formale di trasmissione di atti dell'autorità straniera all'autorità richiedente, inesistente nella realtà processuale milanese ben nota al tribunale, ad essere prescritto, dalla legge, a pena di inutilizzabilità di quanto trasmesso... è quell'atto formale il mezzo prescritto dal legislatore per la autenticazione e la certificazione di conformità ai documenti originali di quanto, altrimenti, sarebbe inutilizzabile, al pari di qualsivoglia altra semplice fotocopia".

"E' l'atto formale di trasmissione - che contenga l'autenticazione e cioè la conformità rispetto all'originale della copia trasmesso per via rogatoriale - ad evitare l'appesantimento formalistico dell'autenticazione atto per atto, pagina per pagina, mediante timbro di autenticità apposto ad ogni pagina dei documenti trasmessi".

Questi rilievi si prestano a più di qualche considerazione.

Si dice nella memoria che, secondo la corte di cassazione, è "l'atto formale di trasmissione quello prescritto a pena di inutilizzabilità, necessario per la regolarità e la conformità a legge della procedura, essendo quello il mezzo prescritto dal legislatore per la autenticazione e la certificazione di conformità ai documenti originali di quanto, altrimenti, sarebbe inutilizzabile, al pari di qualsivoglia altra semplice fotocopia".

Nelle ordinanze e nella sentenza della corte di cassazione si dice, però, anzitutto e con chiarezza, che non è il legislatore italiano - come pare affermi il richiedente - che prescrive quell'atto formale di trasmissione, ma è la prassi internazionale, la concorde interpretazione della Convenzione da parte degli Stati che l'hanno sottoscritta, che ha ritenuto che gli artt. 3, comma 3, e l'art. 17 della Convenzione di Vienna del 1969 andassero letti stimando sufficiente l'atto formale di trasmissione ai fini della autenticità e conformità degli atti trasmessi e nella richiesta di Previti, invece, è proprio quella prassi che viene ritenuta inesistente e, se esistente, contra legem.

Va chiarito, in secondo luogo, che, secondo la corte di cassazione, non si esige che l'atto formale di trasmissione "contenga - come si ritiene nella memoria - l'autenticazione, cioè l'attestazione di conformità rispetto all'originale della copia dell'atto trasmesso, con la conseguenza che l'assenza di attestazione contenuta nell'atto formale di trasmissione comporterebbe, in maniera irrimediabile, l'inutilizzabilità della documentazione trasmessa".

E', invece, sufficiente, secondo la corte di cassazione, "l'atto formale di trasmissione dell'autorità straniera per garantire l'autenticità e la conformità degli atti trasmessi in semplice fotocopia" ed è questo ciò che hanno affermato, sul punto, i tribunali nei processi di cui si chiede la rimessione.

Nella ordinanza della IV sezione si legge, infatti che "dalla documentazione, numerosa, in tema di rogatorie, prodotta dal p.m., si evince come non vi sia alcuna specifica attestazione di conformità, ma lettera di accompagnamento con la quale l'autorità straniera, in esecuzione della richiesta, trasmette gli atti attestando la conformità di quanto trasmesso a quanto richiesto".

Quindi, - giova ripeterlo - non specifica autenticazione, attestazione di conformità rispetto all'originale della copia dell'atto trasmesso, ma, semplicemente, appunto, l'attestazione che quanto trasmesso corrisponde a quanto richiesto, attestazione che vale a garantire l'autenticità e la conformità e che è conseguente assunzione di responsabilità.

Il tribunale afferma, anche, e ripetutamente, che le rogatorie agli atti contenevano, contengono, tutte, l' atto formale di trasmissione.

L'ordinanza si premura di puntualizzare che, nelle rogatorie trasmesse dalla Confederazione elvetica, "il funzionario che ha provveduto alla trasmissione è stato, nella maggior parte dei casi, lo stesso Procuratore Federale della Confederazione".

E aggiunge, subito dopo, sia che in tutta "la notevole mole di atti provenienti da altri paesi e già acquisiti al presente procedimento o prodotti della procura in occasione della discussione della problematica che qui interessa (atti provenienti dalla Svizzera, dalla Francia, dal Regno Unito, dalla Germania, dal Lussemburgo) v'era la conferma di quella prassi, sia che "nessuno dei documenti trasmessi - quindi anche dei documenti acquisiti al presente procedimento - reca una specifica attestazione di conformità su ciascuno dei documenti - ed era questo il tema in discussione -, sia, e soprattutto, che tutti - e, dunque, anche i documenti attinenti ai processi in corso - risultano supportati da lettera di accompagnamento mediante la quale l'autorità richiesta formalizza la sua assunzione di responsabilità circa la corrispondenza tra quanto richiesto e quanto trasmesso".

Per i tribunali, dunque, - ciò che si sta dicendo vale per entrambe le ordinanze sulle rogatorie - l'esistenza dell'atto formale di trasmissione è fuori discussione, cosa, invece, che, abbandonata, a quanto pare, la tesi della inesistenza della prassi, si nega nella memoria di Previti.

Ma, non può non convenirsi, a questo punto, che la questione, come proposta nella memoria, non è più una quaestio iuris, una questione che abbia a che fare con la interpretazione della legge, ma, semplicemente, una pura quaestio facti, che consiste, anzitutto, nell'accertare se v'è stato o non v'è stato un atto formale di trasmissione nel senso sopra evidenziato e, in secondo luogo, se l'atto, eventualmente trasmesso, possa essere interpretato come l'atto formale sufficiente per garantire l'autenticità e la conformità degli atti trasmessi, atto, peraltro, che, secondo l'ordinanza del tribunale, come si è visto, è incontestabile che vi sia, e con quel contenuto, per tutte le rogatorie.

Se questa è la questione, se tutto si riduce ad una quaestio facti, ci si deve chiedere, però, se la concertazione contra reum, la volontà di neutralizzare, secondo l'espressione attribuita a Borrelli, la legge sulle rogatorie, potesse mai avere per scopo una semplice questione di fatto, se potesse mai essere concertazione per la interpretazione di una atto.

Se, in altri termini, la questione è un mero problema di fatto, la censura, propria della richiesta di Previti, di aver voluto i giudici disapplicare la legge, di averle voluto attribuire un significato che la legge non poteva assolutamente avere, è una censura manifestamente infondata.

Le due ordinanze, le ordinanze degli altri giudici di merito che si sono espressi su questa legge, la sentenza della corte di cassazione e l'ordinanza della Corte costituzionale hanno seguito, tutte, lo stesso percorso giuridico, privo, ovviamente, come ogni percorso giuridico, del crisma della definitività dogmatica, della verità assoluta, incontrovertibile, ma tutt'altro che insostenibile, tutt'altro che manifestamente illegittimo.

Tutte quelle riunioni, dunque, dato e assolutamente non concesso che abbiano avuto ad oggetto la interpretazione della legge sulle rogatorie, avrebbero dato vita ad una interpretazione della legge conforme alla migliore giurisprudenza, il che esclude, categoricamente, sul piano logico, che possa trovare spazio la tesi della concertazione contra reum e consente di ribadire ciò che si è detto nell'iniziare a trattare questo argomento, cioè che le due ordinanze sono la migliore prova della inesistenza della concertazione contra reum.

IV - Prima di prestare la dovuta attenzione alla relazione tenuta da Borrelli, quale procuratore generale presso la corte di appello di Milano, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario - 12 gennaio 2002 -, è opportuno fare una riflessione su quanto sinora acquisito.

a - Se è vero che gli interventi, le dichiarazioni, gli atti di Borrelli dalla fine del 1993 al settembre 1997 sono irrilevanti, oltre che per motivi tecnico-giuridici, per essere stati posti in essere nella fase procedimentale, anche perché - si pensi alla notifica del 21 novembre 1994, atto emblematico secondo Previti - del tutto privi del significato che debbono avere i fatti per poter essere ritenuti manifestazione della grave situazione locale; se è vero, poi, che gli interventi, le iniziative, le affermazioni di Borrelli coincidenti con la fase processuale e, quindi, astrattamente rilevanti, si sono rilevati, in sede critica, inesistenti: si pensi alla tesi della concertazione contra reum, alle riunioni e al significato ad esse attribuito da Previti e si pensi, soprattutto, al tema delle rogatorie; se tutto ciò è vero, deve affermarsi che, almeno sino a questo momento, la grave situazione locale richiesta dalla legge per la traslatio iudicii è risultata del tutto inesistente.

b - Sul valore delle esternazioni dei procuratori generali è opportuno ricordare quanto la giurisprudenza di questa suprema corte ha già avuto occasione di affermare.

Per Cass., 25 ottobre 1995, Gullotti: "Le pubbliche esternazioni fatte dal procuratore generale della Repubblica presso la corte di appello di Messina in sede di prolusione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, il cui tenore è concordante con quanto versato in processo dall'accusa pubblica, rimangono mere opinioni, pur se autorevoli".

"Nel vigente sistema processuale, infatti, il p.m., in tutte le sue configurazioni ordinamentali, riveste pur sempre la qualità di parte, con tutte le implicazioni che ciò comporta in ordine alle sue valutazioni estraprocessuali, che, per quanto concerne i giudici - togati o laici - rimangono affermazioni non valutabili nel giudizio, sia per il luogo che per la fonte da cui provengono, e di nessuna valenza cogente per l'assoluta indipendenza e non interferenza dei medesimi dal procuratore generale e dalle funzioni a costui attribuite dall'ordinamento, del tutto estranee alla giurisdizione".

"Mentre, per quanto riguarda la persona fisica del p.m. d'udienza non hanno alcun valore cogente, per le sue determinazioni in detta sede, atteso che il p.m. d'udienza - art. 53, comma 1, c.p.p. e 70, comma 4, R.D. 30 gennaio 1941 n. 12, così come sostituito dall'art. 20 D.P.R. 22 settembre 1988, n. 449 - esercita autonomamente le sue funzioni nelle udienze ed è soggettivamente titolare delle funzioni di p.m., quale 'designato' dal capo dell'ufficio della procura e non più tramite di costui - come era previsto dal sostituito art. 70 dell'ordinamento giudiziario - nello svolgimento delle predette funzioni".

Per Cass., 17 marzo 2000, Panella: "E' manifestamente infondata la richiesta di rimessione basata sulla prospettazione del mero timore di condizionamenti psicologici dell'organo giudicante in assenza di una qualsiasi grave situazione locale, radicata sul territorio e al di fuori dell'ambito processuale, idonea a turbare lo svolgimento del processo, anche .... in relazione a dichiarazioni provenienti da ufficio non titolare dell'azione penale ed, in ogni caso, espressione di una parte processuale, le cui opinioni e i cui atteggiamenti non si sottraggono al vaglio giudiziale né possono alterare l'imparzialità del giudicante e la serenità del giudizio" (cfr. anche, Cass., 13 ottobre 1997, Manganaro).

I principi affermati in queste ordinanze sono inequivoci: le esternazioni del procuratore generale in sede di relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario sono irrilevanti sia per i giudici, sia per i pubblici ministeri; le esternazioni del procuratore generale in quella sede non autorizzano la prospettazione di un mero timore di condizionamenti psicologici dell'organo giudicante in assenza di una grave situazione locale radicata sul territorio e al di fuori dell'ambito processuale.

Si potrebbe già osservare, allora, che Borrelli, nell'affermare, come pone in risalto la richiesta di Berlusconi, che "un moderno codice deontologico dovrebbe sanzionare come oltraggio alla giustizia ogni esercizio di diritto all'interno del processo, che abbia come unico scopo quello di nuocere o recare ritardo al processo stesso e renderne irragionevole la durata", aggiungendo che si asteneva "dal citare gli esempi, più clamorosi, offerti da esperienze in corso", altro non ha fatto che esprimere sue opinioni, condivisibili o non condivisibili, opportune o inopportune, ma, pur sempre opinioni personali, destinate al vaglio critico dei destinatari e, comunque, ininfluenti sui giudici, per l'assoluta indipendenza di costoro dal procuratore generale.

E gli stessi rilievi valgono per il giudizio di Borrelli nei riguardi del ministro della Giustizia per la vicenda "Brambilla" ("E che dire poi del recente, soccorrevole tentativo di sabotaggio di un processo, proveniente addirittura dall'esterno, da un elevato livello esterno, sotto l'ingannevole specie dello scrupolo legalitario"?), trattandosi, ancora una volta, di un giudizio discutibile, dotato di scarsa persuasività, in considerazione del momento, della sede e della fonte, peraltro non aliena alle eclatanti manifestazioni del suo pensiero.

Le stesse considerazioni, inoltre, si possono fare quanto ai giudizi sui procedimenti nei confronti delle associazioni mafiose, procedimenti che, secondo Borrelli, avrebbero avuto un calo non perché quelle associazioni sono state debellate, ma per tutta un'altra serie di ragioni, quale, tra le altre, "l'atteggiamento genericamente sfavorevole di ampi settori della classe politica".

Queste considerazioni, infine, possono essere ripetute per i giudizi di Borrelli sulla separazione delle carriere dei magistrati, sul pericolo che il p.m. sia vincolato all'esecutivo, sulla legge sulle rogatorie e sulla riduzione della scorta a magistrati esposti, "uno dei quali pubblico ministero in un processo in cui sostiene l'accusa contro il Capo del Governo".

Anche questi sono giudizi soggettivi ed opinabili, che non hanno attinenza ai processi in corso.

c - Prima di soffermarsi su quel triplice resistere, sul quale, se non principalmente, si soffermano le richieste, è da sottolineare, come fanno nella loro memoria, più volte citata, i pubblici ministeri, che "dalle fotocopie, allegate, di articoli di giornali risulta evidente che, nei discorsi dei procuratori generali in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario nei distretti, sono state manifestate espressioni di profondo malessere per la situazione in cui versa la magistratura italiana nonché forti preoccupazioni per il contenuto di leggi in tema di giustizia approvate nel periodo immediatamente precedente" e che "in alcune sedi hanno espresso il loro disagio anche appartenenti al foro".

Ebbene, i titoli dei quotidiani su quelle inaugurazioni dicono, inequivocabilmente, che, quel giorno, le relazioni dei procuratori generali sono state particolarmente critiche e che in tutte le sedi i magistrati hanno manifestato, denunciando l’inefficienza dell’amministrazione.

E se a Milano è stato Borrelli a pronunciare per tre volte la parola "resistere", a Palermo si è parlato di "'resistenza" e quasi tutti i quotidiani hanno dato risalto a tale stato di tensione.

Se tutto ciò risponde a verità - ed è da ritenere che nessuno lo dubiti - ciò che è successo a Milano non è stato molto diverso da ciò che, quel giorno, è avvenuto in tutti i distretti, il che vuol dire sia che tutti i procuratori generali hanno espresso, quanto meno, le loro perplessità sugli stessi temi trattati da Borrelli o su temi analoghi

Come nessuno può mai pensare che nei capoluoghi degli altri distretti si sia creata, quel giorno, una grave situazione locale, così è impossibile ritenere che questa situazione sia sorta in Milano solo per avere detto Borrelli, in più rispetto a quanto detto dai suoi colleghi, che gli atti di emulazione andavano evitati, che non era stato esemplare il tentativo di sabotaggio di un processo, che un certo magistrato del pubblico ministero era stato privato della scorta.

d - E' di avallo a questa conclusione quanto si legge in quella pagina della memoria di Previti del 16 maggio 2002, nella quale si esprime un giudizio sul resistere, resistere, resistere pronunciato da Borrelli.

"Nella richiesta di rimessione - così la memoria - è stato ampiamente segnalato l'intervento pubblico di Borrelli che, nella piazza giudiziaria milanese, ha più volte invitato all'azione i magistrati di Milano e il pubblico presente con le ormai famigerate parole: "resistere, resistere, resistere".

"Ebbene, - prosegue la memoria - intervistato in ordine al significato di una simile espressione di invito esplicito alla lotta giudiziaria contro bersagli umani ben identificati nel delirante discorso con il quale è stata occupata l'intera cerimonia di apertura dell'anno giudiziario milanese, il Dott. Borrelli ha testualmente dichiarato: 'lo ripeterei ancora tre volte perché era un invito rivolto alla collettività, non già contro il governo, perché recuperi il senso della legalità e resista allo sgretolamento delle coscienze'".

"Con tale dichiarazione, che si caratterizza anche per l'abituale travalicamento delle funzioni istituzionali che da giudiziarie diventano censorie e moraleggianti, il Dott. Borrelli - così ancora la memoria - ha praticamente confessato lo scopo e gli obiettivi del suo intervento dinanzi agli Stati Generali della Giustizia milanese".

"Infatti, visto che aveva l'intenzione di stimolare la 'collettività', 'la coscienza civica', evidentemente dei moltissimi magistrati presenti, tra i quali il p.m. di udienza Dott.ssa Boccassini, è ovvio che nelle parole del Dott. Borrelli era contenuto un espresso invito alla lotta giudiziaria del 'bene' contro il 'male' e, quindi, ad una mobilitazione della sede giudiziaria milanese, certo non favorevole all'assistito, ripetutamente additato proprio da Borrelli come incarnazione di quel 'male' che deve essere combattuto".

Ma, se l'invito era un invito alla collettività "a recuperare 'il senso della legalità'" e "'a resistere allo sgretolamento delle coscienze'", può essere "ovvio", per usare il termine che appare nella memoria, che Borrelli abbia invitato i magistrati presenti alla "lotta giudiziaria" se si intende, però, quell'invito come invito al recupero della legalità, che, diretto a magistrati, non poteva non avere, tra i tanti, anche il significato di invito a non essere prevenuti, a non avere pregiudizi nei confronti degli imputati, ad essere imparziali, proprio perché questa è senza dubbio legalità.

Se si accetta la interpretazione che di quel triplice resistere si dà nella memoria, è impossibile, sul piano squisitamente logico, che l'invito alla collettività, ivi compresi i magistrati, al recupero della legalità e a resistere allo sgretolamento delle coscienze sia stato un invito ai giudici ad essere di parte, a non fare il proprio dovere e, dunque, un invito a spingersi nella illegalità.

E' evidente che non può essere stato questo il significato di quel "resistere, resistere, resistere" e se ne ha la conferma se queste tre parole vengono lette nel contesto in cui sono state pronunciate.

"Questo non è un discorso di conservazione", così la relazione di Borrelli in chiusura.

"Nessuna istituzione, nessun principio, nessuna regola sfugge ai condizionamenti storici e, dunque, all'obsolescenza, nessun cambiamento deve suscitare scandalo, purché sia assistito dalla razionalità e purché il diritto, inteso come categoria del pensiero e dell'azione, non subisca sopraffazioni dagli interessi".

"Ma, ai guasti di un pericoloso sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo baluardo della questione morale, è dovere della collettività 'resistere, resistere, resistere', come su una irrinunciabile linea del Piave".

Come può notarsi, in queste ultime proposizioni Borrelli fa del diritto l'ultimo, l'estremo baluardo della questione morale, sicché si comprende bene il senso dell'invito al recupero della legalità: farsi guidare dal diritto.

Poco prima Borrelli aveva invitato i magistrati anche "ad essere scudo della legalità": i due inviti, recupero della legalità ed esserne scudo, non possono certamente risolversi, a meno che le parole non abbiano il loro significato, in una grave situazione locale tale da imporre la traslatio iudicii.

La grave situazione locale, prima di quella relazione, non esisteva, come si è ampiamente dimostrato: non può averla fatta nascere un invito, enfaticamente espresso, preceduto da opinabilissimi giudizi, al rispetto della legalità, ad avere il culto per il diritto, per il rispetto delle regole.

Se questo è il significato che deve attribuirsi, con evidente ragionevolezza, a quel triplice "resistere", ne consegue che, essendosi definitivamente rivelata infondata la tesi della trasformazione della procura in organismo politico con gli scopi che questo organismo avrebbe avuto stando alle richieste, specialmente alla richiesta di Previti, nessuna rilevanza possono avere i provvedimenti endoprocessuali, tutti precedenti alla relazione di Borrelli.

Né può omettersi di sottolineare che, come si è accennato da qualcuno dei difensori nell'udienza dinanzi a queste sezioni unite, dal gennaio 2002 in poi nulla di particolarmente significativo si è verificato in loco, fatta eccezione per alcune dichiarazioni di magistrati - se ne prenderà in esame una e se ne dimostrerà la totale insignificanza - e per alcuni eventi endoprocessuali, sicché potrebbe anche discutersi sull'attualità della grave situazione locale, dato e assolutamente non concesso che sia mai esistita.

V - Nella richiesta di Previti, a pag. 49, quando si stanno descrivendo le manifestazioni di piazza, si torna a dire che "lo scopo dei processi milanesi, quale concepito nel corso delle riunioni, concertazioni o manifestazioni, alle quali hanno partecipato cittadini e magistrati, è appunto unicamente quello di giungere alla condanna, vista come rivincita o ritorsione politica nei confronti del sottoscritto e dell'On. Berlusconi, definiti, nei vari appelli popolari di magistrati milanesi, primo tra tutti il procuratore generale Borrelli, quali personificazione del male".

Se la tesi, che costituisce l'architrave delle richieste, specialmente di quelle di Previti e di Berlusconi, che Borrelli ha trasformato la procura in organismo politico per "rivincita o ritorsione politica" contro lo stesso Previti e contro Berlusconi, non può essere condivisa perché manifestamente infondata, come si è posto in evidenza soffermandosi sui fatti che avrebbero dovuto esserne la prova, le campagne mediatiche, le manifestazioni di piazza, le scritte sui muri o le dichiarazioni di questo o di quel magistrato - il Dott. D'Ambrosio, ad esempio - nulla di decisivo aggiungono ad una inesistente grave situazione locale.

Venuta meno la tesi di fondo, non possono essere articoli di giornali o legittime manifestazioni popolari a creare, sul territorio una situazione eccezionale, patologica, tale da essere causa della traslatio iudicii.

La giurisprudenza di questa suprema corte, sia quella formatasi nella vigenza dell'attuale codice, sia quella formatasi nella vigenza del codice abrogato, è tutta in questi termini.

"Le campagne di stampa, quantunque accese, astiose e martellanti o le pressioni dell'opinione pubblica non sono di per sé idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice, 'abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che per ciò solo ne resti menomata la sua indipendenza di giudizio o minata la sua imparzialità". (Cass., 4 aprile 1995, Mazza; 19 gennaio 1995, Gallo; 3 ottobre 1995, Galli).

E in precedenza: "Ai fini della procedura di rimessione, una campagna di stampa o un diffuso orientamento della opinione pubblica non equivalgono a pressioni o influenze tali da scuotere la imparzialità del giudice e l'assolvimento della correlativa funzione giurisdizionale" (Cass., 11 aprile 1983, RV 158403; 29 gennaio 1981, Bernardelli; 20 ottobre 1975, Izzo).

Per quel che riguarda, in particolare, le pubbliche manifestazioni è ricorrente il principio che "le pubbliche manifestazioni, anche se riprese dalla stampa, di sostegno alle tesi accusatorie, pur se possono attestare l'esistenza di prese di posizione locali aspre e vivaci, costituiscono una forma di espressione della libertà di pensiero e, come tali, rappresentano un dato coessenziale ad una società democratica, onde non sono, di per sé, idonee a pregiudicare la capacità di determinazione del giudice, tenuto conto delle qualità morali, psicologiche e di esperienza che normalmente assistono le persone di coloro che sono chiamati al disimpegno di funzioni giurisdizionali". (Cass., 17 marzo 2000, Panella; 9 gennaio 1996, Farassino; 25 ottobre 1995, Gullotti).

Ed è altrettanto costante, quanto alle campagna di stampa, l'affermazione che "in nessun caso possono essere prese in considerazione le campagne di stampa, posto che, in presenza di fatti che abbiano risonanza nazionale e siano trattati e commentati da tutta la stampa italiana di ogni orientamento, con conseguenti aspettative contrastanti sull'esito del processo, vengono meno quelle "gravi situazioni locali" che sono richieste dall'art. 45 c.p.p., venendo a trovarsi sostanzialmente ogni giudice della Repubblica in una situazione di potenziale condizionamento, non suscettibile, pertanto, di eliminazione". (Cass., 17 marzo 2000, Panella; 16 ottobre 1996, Berlioz; 9 novembre 1995, Cerciello; 20 settembre 1995, Craxi; 5 luglio 1995, Fiandrotti; 30 settembre 1992, De Feo).

Volendo ipotizzare - e il principio può valere anche per le manifestazioni popolari - che le campagne di stampa possano costituire grave situazione locale, il trasferimento del processo non la eliminerebbe, perché, se ha determinate caratteristiche - tra le altre, la natura dei fatti, la qualità delle persone - il processo, dovunque venisse trasferito, non farebbe venire meno l'interesse della stampa e dell'opinione pubblica.

Non può, quindi, obiettarsi, come si obietta nella memoria di Previti del 18 gennaio 2003, che la corte di cassazione deve considerare, semplicemente ed esclusivamente, la situazione ambientale realmente realizzatasi al fine di stabilire se esista o meno la possibilità di condizionare l'imparzialità del giudizio o la serenità della condotta processuale, non dovendo essa immaginare situazioni non ancora accadute per stabilire che, anche in quei casi, si verificherebbe un condizionamento ambientale.

L'obiezione non può essere apprezzata perché è la stessa legge che impone alla corte di cassazione di disporre il trasferimento del processo solo se le gravi situazioni locali non siano altrimenti eliminabili e il giudizio sulla eliminabilità o sulla non eliminabilità non è necessariamente un giudizio di certezza, potendo ben essere un motivato giudizio di alta probabilità.

Se la stampa e l'opinione pubblica si sono sempre interessate di un certo processo è, quanto meno, altamente probabile che continuino ad interessarsene anche se il processo viene trasferito altrove, non potendo, certo, escludersi che un evento, in quel momento imprevedibile, faccia venire meno l'interesse dell'una o dell'altra.

Alla luce di questi principi nessun rilievo, dunque, può avere - per venire ad alcune delle manifestazioni indicate nelle richieste - la manifestazione di piazza davanti al palazzo di giustizia del 28 settembre 2001 in cui i partecipanti hanno manifestato, come si legge nella richiesta di Previti, "contro il colpo di spugna di Berlusconi con evidente riferimento alla legge n. 367/2001".

L'opinione pubblica, invero, può, indiscutibilmente, legittimamente dissentire - e manifestare il proprio dissenso - nei confronti di una legge, con il solo limite di rispettarla ove se ne debba fare applicazione.

Nessun rilievo, poi, può avere il "girotondo-politico" del 26 gennaio 2002 davanti al palazzo di giustizia, non consentendo un girotondo - al quale hanno partecipato persone dello spettacolo e della cultura, donne e bambini, come si desume dai resoconti della stampa allegati alla memoria dei pubblici ministeri - neppure illazioni o supposizioni sul condizionamento dei giudici, tanto più se la manifestazione ha avuto luogo, come ha dimostrato documentalmente la citata memoria, nel pomeriggio quando l'udienza era terminata da tempo e se quel giorno era un sabato, "quando, come si scrive nella memoria, notoriamente non si svolge, di solito, nel pomeriggio, attività giudiziaria pubblica e gli ingressi al palazzo sono chiusi ad eccezione di un unico passo carraio".

La manifestazione al "Palavobis", infine.

La memoria dei pubblici ministeri nota, al riguardo, che "la manifestazione, svoltasi ancora di sabato e assai distante dal palazzo di giustizia, ha avuto la specificità di avere visto la partecipazione di famiglie - ancora una volta donne e bambini - e non ha dato origine a incidenti di sorta e nemmeno a battibecchi".

La prova del resto, se ve ne fosse bisogno, della non incidenza sui processi in corso di questa manifestazione si ricava dalla richiesta di rimessione di Previti, nella quale si descrive la manifestazione come "un'imponente manifestazione indetta dal capo dei forcaioli, Flores D'Arcais, per celebrare il 'manetta day: l'anniversario dell'arresto di Mario Chiesa che diede inizio al fenomeno di arresti conosciuto come 'Mani pulite'".

Quella manifestazione, quindi, aveva il semplice scopo di celebrare l'anniversario dell'inizio di un fenomeno - Mani pulite - che, per quei partecipanti, era da ricordare, pur consapevoli - è ovvio - del legittimo dissenso di altri.

Prima di concludere sul punto, è doveroso indugiare, come si è preannunciato, sulle dichiarazioni rilasciate dal Dott. D'Ambrosio.

Le dichiarazioni di quest'ultimo sulla vicenda "Brambilla" vengono ampiamente citate nella richiesta di Berlusconi e sulle stesse non può non ripetersi quanto si è detto in ordine al giudizio espresso da Borrelli, sullo stesso argomento, nella sua relazione per l'inaugurazione dll'anno giudiziario.

Il Dott. D'Ambrosio, in quelle dichiarazioni, rilasciate in una intervista, ha criticato l'intervento del ministro, affermando, tra l'altro, che "il ministro non aveva tenuto in conto quella che è un'esigenza primaria, cioè la continuazione di un processo" e che "era la prima volta che si verificava un'interferenza così pesante da parte del potere esecutivo nell'amministrazione della giustizia".

Si tratta, come si vede, di un giudizio, di un'opinione, che, come tutte le opinioni, può essere o non essere condivisa, un'opinione con la quale si manifesta il desiderio che i processi, e anche quel processo, vengano celebrati, un'opinione che non si esprime affatto sull'esito del processo e tale, allora, da non essere, oggettivamente e soggettivamente, in alcuna relazione con il problema della imparzialità di giudici.

Nella memoria del 18 gennaio 2003 si riporta un brano di un intervista rilasciata da D' Ambrosio al Corriere della Sera.

"Il precedente governo - così D'Ambrosio - aveva approvato diversi provvedimenti, pur non univoci, per rendere quantomeno accettabili i tempi dei processi..questa nuova strategia veniva interrotta nel giugno 2001, con l'avvento del nuovo governo.... solo l'abnegazione e l'attaccamento del personale tutto di questa procura riusciva ad evitare una crisi irreversibile".

Questo passo dell'intervista ha come tema, non può dubitarsi, i tempi dei processi e un confronto tra la velocità accettabile degli stessi prima del giugno 2001 e la velocità non accettabile dopo il giugno 2001 con l'avvento del nuovo governo: D'Ambrosio afferma che soltanto grazie all'abnegazione e all'attaccamento del personale tutto della procura si era riusciti ad evitare una crisi irreversibile, crisi che, viste le entità a confronto, non può essere, sul piano logico, che quella dovuta alla minore velocità dei processi dopo il giugno del 2001.

Secondo la memoria di Previti, invece, il riferimento alla 'crisi irreversibile' "non può che essere rivolto sia al provvedimento che, secondo la legge in tema di rogatorie, avrebbe dovuto espellere dagli atti dei processi in corso le informi fotocopie, sia alla sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato a seguito di intervenuta prescrizione per quanto concerne i processi per falso in bilancio instaurati nei confronti dell'On. Berlusconi, sia alla sospensione dei processi per i quali sono state avanzate richieste di rimessione".

Ma, in quella intervista non v'è nulla di tutto ciò, sicché le considerazioni della memoria sul piano della pura logica - è la logica che dice quali fossero le entità a confronto - si rivelano supposizioni, illazioni del tutto ingiustificate.

Nella memoria si aggiunge che "le incredibili affermazioni di D'Ambrosio sono state tratte da una sorta di 'relazione-bilancio' che il Dott. D'Ambrosio ha scritto per 'il nuovo anno giudiziario' e che è stata affidata al nuovo p.g." e si commenta che "l'episodio è sconcertante", perché "non è mai accaduto che un procuratore uscente e, per di più, funzionalmente non legittimato, si sia preoccupato di predisporre la relazione di apertura dell'anno giudiziario, appropriandosi di un compito che spetta al procuratore generale presso la corte di appello".

Di sconcertante non v'è alcunché perché ogni anno, diversi mesi prima dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, i procuratori generali chiedono ai procuratori della Repubblica notizie-bilancio sui temi della giustizia con le loro riflessioni, notizie che i procuratori generali utilizzeranno, poi, nelle loro relazioni.

E', allora, appena ragionevole che nella "relazione-bilancio" - atto al quale era funzionalmente legittimato - D'Ambrosio si sia premurato di porre in evidenza l'abnegazione e l'attaccamento di tutto il personale per rendere accettabile la velocità dei processi, mentre sarebbe stato del tutto irragionevole che avesse alluso alle rogatorie o a quant'altro avesse avuto a che fare con i processi a carico di Berlusconi e di Previti, consapevole, oltre tutto, che destinatario di quella relazione sarebbe stato il nuovo procuratore generale, del tutto estraneo rispetto a quei processi.

VI - Traendo le conclusioni da tutto ciò, è da definitivamente affermare che non esiste la grave situazione locale-territoriale o ambientale.

Non è vero che Borrelli abbia trasformato la procura in organismo politico perché non costituiscono prova di questa trasformazione quanto Borrelli avrebbe detto e fatto nella, irrilevante, fase procedimentale, la mai esistita concertazione contra reum, le ordinanze sulle rogatorie, la relazione di Borrelli in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, le campagne di stampa, le manifestazioni popolari, le dichiarazioni di altri magistrati.

Restano, a questo punto, i numerosi provvedimenti endoprocessuali che i richiedenti hanno esposto nelle richieste e nelle memorie per porne in evidenza la illegittimità, sintomo, secondo loro, della parzialità dei giudici.

Secondo i principi che queste sezioni unite hanno affermato trattando della grave situazione locale, i provvedimenti endoprocessuali del giudice e gli atti, le iniziative, le richieste, i comportamenti, in genere, del p.m. nel processo, non debbono essere presi in alcuna considerazione se si accerti la inesistenza di una grave situazione locale-territoriale, mentre assumono rilevanza - e se ne sono precisate le condizioni - ove la grave situazione locale venga accertata.

E' opportuno ricordare, per quel che riguarda i provvedimenti endoprocessuali dei giudici, che la giurisprudenza di questo supremo collegio non ha avuto mai dubbi sulla irrilevanza degli stessi.

Per Cass., 23 febbraio 1998, Berlusconi: "Il tentativo di proiettare l'influenza negativa dei p.m. milanesi sulle decisioni del collegio giudicante in tema di acquisizione probatoria è destinato a fallire, ove si consideri che l'attività di istruzione dibattimentale risulta caratterizzata da decisioni che, anche se non condivise dall'imputato e dai suoi difensori, sono state adottate nel pieno rispetto delle norme processuali vigenti".

"Rientra, infatti, nei poteri del collegio di revocare ordinanze, di disporre di ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova, di rigettare richieste avanzate dai difensori in merito alla acquisizione di documenti o alla ammissione di testi o di recuperare testi non ammessi".

"Tali decisioni - tutte ritualmente motivate e tutte rientranti nel sistema processuale previsto dal codice di rito vigente - non sono certo idonee a generare il sospetto che siano stati commessi abusi nei confronti dell'imputato; la non condivisibilità delle decisioni adottate dal collegio, d'altra parte, non può costituire causa di rimessione del processo, essendo esercitabile all'uopo il diritto all'impugnazione, che è il rimedio previsto dalla legge per rimuovere decisioni eventualmente non corrette". (Negli stessi termini: Cass. 5 luglio 1995, Fiandrotti; 20 settembre 1995, Craxi; 20 dicembre 1995, Vizzini).

Ancora più netta Cass., 8 aprile 1992, Casaglia:

"Trattasi quasi esclusivamente di censure a singoli provvedimenti incidentali sfavorevoli all'imputato e da costui interpretati quale sistematica persecuzione nei suoi confronti; le censure avverso singoli provvedimenti - impugnabili - saranno fatte valere nella opportuna sede evitandosi anticipazioni di temi e di questioni che attengono esclusivamente al merito e al dibattimento in corso".

Ciò detto, queste sezioni unite ritengono, però, di doversi soffermare ugualmente su alcune questioni endoprocessuali vista la rilevanza ad esse attribuita dai richiedenti e di doverlo fare, relativamente alle ordinanze emesse dai tribunali a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 225 del 2001, con una certa ampiezza, avendole inserite la richiesta di Previti tra le prove della concertazione contra reum, e brevemente, invece, al solo fine di metterne in evidenza alcuni profili, sulla "vicenda Mandara", sulla "fonte confidenziale Olbia-ArRiosto", sul tema della competenza per territorio nel processo IMI-SIR, sulla vicenda "Brambilla".

a - La richiesta di Previti, a pag. 33 e ss.gg., e la richiesta di Berlusconi, a pag. 36 e ss.gg. - ne trattano, comunque, anche gli altri richiedenti, come si è accennato - si soffermano su questa sentenza nell'ottica, ancora una volta, della concertazione contra reum, concertazione, però, che, in questa occasione, ha il suo protagonista, non in Borrelli, ma nei due tribunali.

La Corte costituzionale, come è noto, con questa sentenza, ha risolto un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, promosso con ricorso del presidente della Camera a seguito delle ordinanze emesse dal G.O.P. del tribunale di Milano il 17 e il 20 settembre 1999, in due procedimenti penali a carico dell'On. Cesare Previti, e delle successive ordinanze - in particolare quelle adottate nelle udienze del 22 settembre 1999, 5 ottobre e 6 ottobre 1999 - "in quanto non avevano considerato assoluto impedimento il diritto-dovere del deputato di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea".

La Corte costituzionale ha annullato le ordinanze dopo avere dichiarato che "non spettava al giudice dell'udienza preliminare, nell'apprezzare i caratteri e la rilevanza degli impedimenti addotti dall'imputato per chiedere il rinvio dell'udienza, affermare che l'interesse della Camera dei Deputati allo svolgimento delle attività parlamentari e, quindi, l'esercizio dei diritti-doveri inerenti alla funzione parlamentare, dovesse essere sacrificato all'interesse relativo alla speditezza del procedimento giudiziario".

Nelle due richieste, dopo essersi richiamata la norma dell'art. 185 c.p.p., nelle parti in cui dispone che "la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo" e che "la dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l'atto nullo, salvo che sia diversamente stabilito", si censurano le ordinanze, sul punto, della I e della IV sezione del tribunale di Milano, del 17 novembre e del 21 novembre 2001, "per avere avallato, con argomentazioni capziose e sofistiche e con abili giri di parole - secondo la richiesta di Previti - una macroscopica contraddizione in termini, cioè che l'annullamento della Corte costituzionale non avesse comportato la nullità delle ordinanze annullate", o - richiesta di Berlusconi, "per avere effettuato una 'insubordinazione' al comando giuridico promanante dal provvedimento di annullamento della Corte costituzionale".

Le censure impongono di porre in rilievo che sono gli stessi richiedenti che, nel momento in cui prestano attenzione alla norma dell'art. 185 c.p.p., mostrano di rendersi perfettamente conto che la nullità di un atto processuale, in tanto rende invalidi gli atti consecutivi, in quanto questi atti dipendano da quello dichiarato nullo.

Secondo la giurisprudenza di questo supremo collegio, infatti, "deve ritenersi derivato da altro precedente quell'atto che con il primo si ponga in rapporto di dipendenza effettiva, del quale venga, cioè, a costituire la conseguenza logica e giuridica, nel senso che l'atto dichiarato nullo costituisce l'ineliminabile premessa logica e giuridica di quello successivo, per modo che, cadendo tale premessa, restano necessariamente caducati anche gli atti che ne conseguono" (Cass., 22 dicembre 1997, Nikolic; 19 settembre 1997, Guzzardi).

La medesima giurisprudenza non ha, inoltre, mai dubitato che, "in tema di estensibilità di nullità di un atto processuale ad altro atto processuale, al giudice penale è riservato in ogni caso il potere d'indagine e di decisione circa la sussistenza di un rapporto di connessione tra i vari atti" (per tutte: Cass., 8 febbraio 1980, Villa).

Se questi sono i principi che si deducono dalla norma dell'art. 185 c.p.p., la I sezione del tribunale, nella sua ordinanza, è rimasta nell'ambito dei poteri conferiti al giudice dalla legge quando ha dichiarato che, "nel caso di specie, non sussistono i presupposti per disporre la regressione del procedimento, sia perché la nullità dell'ordinanza 20 settembre 1999 non si è comunicata a nessun altro atto e tanto meno al decreto che dispone il giudizio - che sarebbe arduo ritenere collegato necessariamente in via logico-giuridica all'ordinanza del 20 settembre 1999 -, sia perché in nessun modo la tenuta di quella particolare udienza meramente interlocutoria in assenza del suddetto imputato ha compromesso i suoi sostanziali diritti di difesa".

Il tribunale, poco prima, aveva spiegato perché l'ordinanza del 20 settembre dovesse ritenersi innocua, osservando che, "nell'ambito di quell'udienza del 20 settembre 1999, non era stato assunto nessun provvedimento dopo il rigetto della richiesta di rinvio per impedimento dell'imputato, tranne il provvedimento di rinvio all'ulteriore udienza del 24 settembre, di cui non fu disposta la notifica all'imputato Previti, il quale, peraltro, è intervenuto alla suddetta udienza senza far valere il vizio di notifica, con ciò sanandolo ed interrompendo definitivamente ogni effetto diffusivo".

La IV sezione si è tenuta, come impostole dalla fattispecie, su un altro piano, pervenendo, però, alla stessa conclusione di non incidenza della nullità delle ordinanze e della non regressione del procedimento.

Dopo avere premesso che i difensori degli imputati, ad eccezione del difensore di Vittorio Metta, avevano chiesto che, in esecuzione della sentenza della Corte costituzionale, venisse dichiarata la nullità del decreto che dispone il giudizio, il tribunale ha osservato che nella sentenza della Corte costituzionale "è mancata ogni affermazione, da parte della Corte, circa la sussistenza, in capo all'imputato e per le udienze in questione - le udienze del 22 settembre e del 5 e 6 ottobre 1999 - di un legittimo impedimento", il che "equivale a dire - ha aggiunto - che la nullità delle ordinanze colpirebbe gli atti successivamente compiuti solo laddove il giudice del dibattimento riconoscesse, ora per allora, in base alla documentazione prodotta per provare l'impedimento, il diritto ad ottenere il rinvio dell'udienza".

Ma, questo riconoscimento, ora per allora, del diritto ad ottenere il rinvio dell'udienza, non era, secondo il tribunale, giuridicamente possibile.

Se, infatti, è "onere dell'imputato, che intenda richiedere il rinvio dell'udienza per un legittimo impedimento, di qualsiasi natura, darne prova piena, al momento della richiesta di rinvio, con riferimento ai caratteri di esistenza, di assolutezza ed attualità dell'impedimento medesimo, in tema di impedimento parlamentare non è sufficiente produrre informale convocazione del deputato da parte del Capogruppo, occorrendo invece documentazione ufficiale relativa al calendario dei lavori della Camera di appartenenza, unitamente a prova specifica circa la presenza dell'imputato presso la stessa Camera contestualmente allo svolgimento dell'udienza e ciò anche secondo la giurisprudenza della corte di cassazione in una fattispecie simile" (Cass., 3 dicembre 1980, Pisanò).

"Nessuna nullità, quindi, concernente l'intervento dell'imputato si è verificata alle udienze avanti il g.i.p. in data 17 e 22 settembre, 5 e 6 ottobre 1999, in quanto non trattavasi della prima

udienza di costituzione delle parti e, in ogni caso, i difensori dell'imputato, nel richiedere il rinvio per impegni parlamentari, non ebbero a produrre documentazione idonea ad attestare l'esistenza e la attualità del dedotto impedimento".

Questi i punti salienti delle due ordinanze.

Può discutersi, certo, se i due collegi hanno correttamente escluso la dipendenza logica e giuridica degli atti successivi dagli atti dichiarati nulli e se hanno correttamente negato la regressione del procedimento; ma, con altrettanta certezza, non si può sostenere che, nell'escludere l'incidenza della dichiarazione di nullità delle ordinanze e nel non ravvisare le condizioni della regressione, quei due collegi si siano attribuiti poteri che non avevano, sicché non si potrebbe mai dire, tra l'altro, che le due ordinanze sono atti abnormi, "provvedimenti, cioè, inficiati da anomalie genetiche o funzionali tali che ne impediscono l'inquadramento negli schemi normativi tipici e li rendono incompatibili con le linee fondanti del sistema processuale (Cass., 9 luglio 1997, Quarantelli).

Della censura di abnormità non v'è, del resto, alcuna traccia nelle richieste.

Nella richiesta di Berlusconi si trascrivono parte delle ragioni addotte dai tribunali per dimostrare l'inesistenza delle condizioni per la regressione del processo e, dopo la trascrizione, non solo non si eccepisce l' abnormità dei provvedimenti, ma, soprattutto, nulla di specifico si aggiunge al giudizio che le ordinanze sono l'effetto di insubordinazione o - richiesta di Previti - capziose e sofistiche.

I richiedenti, in altri termini, lamentano la disapplicazione della sentenza della Corte costituzionale; ma, anche in questo caso, come nel caso delle ordinanze sulle rogatorie, si astengono dal misurarsi con il contenuto di quelle ordinanze e, ciò nonostante, formulano, ugualmente, il giudizio di capziosità e di insubordinazione, giudizio che, in quanto del tutto apodittico, immotivato, non consente, certamente, di affermare che, dato e non concesso che sussista la grave situazione locale, le due ordinanze in esame ne sono il riflesso.

La richiesta di Berlusconi ritiene di cogliere l'anomalia delle decisioni del tribunale anche nella "voluta" tardività dei provvedimenti, tesi, questa, che i pubblici ministeri contestano nella loro memoria, riportando quanto risulta dai verbali di udienza della I sezione nel periodo dal 9 luglio al 17 novembre 2001.

Nell'udienza del 9 luglio, ad appena tre giorni dalla sentenza della Corte costituzionale, "venne stabilito di rinviare l'udienza al 17 novembre, prima udienza utile dopo la sospensione feriale, per consentire alle parti di esaminare la sentenza con la dovuta attenzione".

Il 17 novembre, "Cesare Previti presentava istanza di rinvio per legittimo impedimento per malattia e il tribunale, ritenuto il legittimo impedimento, rinviava al 28 settembre", udienza in cui "le parti svolgevano le loro considerazioni sugli effetti della sentenza della Corte costituzionale e in cui il tribunale riservava la propria decisione per l'udienza dell'1 ottobre".

All'udienza dell'1 ottobre Previti presentava ulteriore istanza di rinvio per legittimo impedimento per malattia, acconsentendo, però, alla lettura dell'ordinanza sugli effetti della sentenza della Corte costituzionale; ma, il tribunale riteneva assorbente la richiesta di rinvio ed aggiornava il processo all'8 ottobre, data in cui Previti rinnovava la richiesta di rinvio per legittimo impedimento per malattia, manifestando, anche in questa udienza, il consenso alla lettura della ordinanza, e il tribunale riteneva di nuovo assorbente la richiesta di rinvio fissando l'udienza al 17 novembre, di pochissimi giorni successivo alla scadenza della malattia.

L'ordinanza veniva letta il 17 novembre.

Se si esaminano le date con attenzione, si coglie sia che il tribunale avrebbe dovuto leggere l'ordinanza l'1 ottobre, mentre ne ha dato lettura il 17 novembre, dopo 46 giorni, sia che il tribunale non ha voluto questo ritardo - oggettivamente tutt'altro che senza misura - se non per consentire a Previti di essere presente, tenendo anche conto che la malattia si sarebbe risolta in un ragionevole lasso di tempo.

E', dunque, mera illazione o supposizione interpretare quel ritardo, per nulla smisurato e, soprattutto, motivato, come uno degli aspetti della concertazione contra reum.

Connesso al tema delle ordinanze emesse dopo l'intervento della Corte costituzionale è, nelle richieste di Previti e di Berlusconi, il tema che ha ad oggetto la lettera che il presidente della IV sezione, Dott. Paolo Carfì, aveva indirizzato, il 22 ottobre 2001 - dandone lettura in udienza il 29 ottobre - al presidente della Camera dei Deputati per chiedere indicazioni sul calendario futuro dei lavori dell'assemblea, richiesta "finalizzata alla fissazione di udienza dibattimentale in giornate diverse da quelle dedicate ai lavori parlamentari".

Il Dott. Carfì, in quella lettera, "anticipava - questa è la tesi - seppure implicitamente, il convincimento circa la inapplicabilità del dispositivo della sentenza della Corte costituzionale al processo IMI-SIR, ché la problematica relativa alla fissazione di ulteriori udienze sottintendeva necessariamente la volontà di procedere oltre nel dibattimento".

Il Dott. Carfì, quindi, "aveva già maturato la propria decisione, nonostante che avesse fissato l'udienza del 5 novembre per la trattazione della questione e, in quella lettera, estendeva le proprie preoccupazioni anche ai processi a lui non assegnati, vale a dire al processo SME-ARIOSTO e al processo LODO MONDADORI".

"In altre parole - prosegue la richiesta di Berlusconi - il Dott. Carfì, facendo espresso riferimento alla esigenza di coordinare le udienze IMI-SI con quelle dei dibattimenti relativi ai processi SME-ARIOSTO e MONDADORI, sembra anticipare la decisione della I sezione del medesimo tribunale; in pratica sembrava a conoscenza il 22 ottobre 2001 che anche la I sezione del tribunale di Milano avrebbe il 17 novembre 2001 disapplicato il dispositivo della sentenza n. 225/2001 della Corte costituzionale, come è infatti puntualmente avvenuto".

La lettera del Dott. Carfì non si presta a questa lettura.

Se, come si scrive nella richiesta di Previti, la lettera è stata scritta il 22 ottobre e ne è stata data lettura in pubblica udienza il successivo 29, quando l'udienza per la trattazione della questione non era stata ancora tenuta - la trattazione sarebbe iniziata il 5 novembre e si sarebbe conclusa il 16 novembre - ne consegue che la lettera è stata spedita e ne è stata data lettura in un momento in cui, non essendo stata ancora discussa la questione degli effetti della sentenza della Corte costituzionale, il contenuto dell'ordinanza non era affatto scontato, dipendendo anche da quanto le parti avrebbero osservato nella discussione.

Che l'ordinanza avrebbe escluso che vi fossero atti, dipendenti dalle ordinanze, da annullare o che ricorressero le condizioni per disporre la regressione del procedimento, era, in quel momento, soltanto uno dei possibili esiti, il che spiega la preoccupazione del presidente del collegio di sapere quando, in quali giorni, nel caso l'ordinanza avesse avuto un certo contenuto, avrebbe potuto celebrare le udienze senza intralciare i lavori della Camera.

E il problema si poneva, in questa ottica, anche per la I sezione e ciò anche senza alcun contatto tra i due presidenti, essendo sufficiente, perché presentasse il problema come un problema rilevante anche per la I sezione, che il Dott. Carfì sapesse - come è ragionevole ritenere che sapesse - che la I sezione non aveva ancora emesso l'ordinanza.

Del resto, per rendersi conto che i due collegi hanno pronunciato le due ordinanze senza confrontarsi basta scorrerle per coglierne la diversa, profonda, impostazione di fondo.

D'altro canto, la richiesta di Berlusconi non va al di là di espressioni quali (l'iniziativa del Dott. Carfì) "sembra anticipare la decisione della I sezione", "sembrava" (il Dott. Carfì) "a conoscenza che il 22 ottobre anche la I sezione si sarebbe pronunciata nello stesso modo" e l'uso del verbo "sembrare" sta a significare che il richiedente, in questo caso, fa semplici illazioni, semplici supposizioni, sulle quali è impossibile fondare, come è noto, il giudizio che certi fatti ne sono sicuro sintomo della grave situazione locale.

b – Merita, invece, maggiore attenzione la questione relativa alla competenza per territorio del tribunale di Milano, non già perché essa sia decisiva o rilevante ai fini della rimessione del processo, ma perché, oltre ad essere stata prospettata con ricchezza di rilievi dai difensori degli imputati, non può essere ignorato che, in applicazione del principio espresso dall’art. 23 c.p.p., ogni giudice è obbligato alla verifica della propria competenza.

Se vero è che, in questa sede, ai limitati fini di accertare se sussistono i presupposti per disporre la rimessione di un processo ad altra sede non compete alla corte verificare se ed in quale misura sono fondati i rilievi dedotti dalla difesa degli imputati in ordine all’ eccepita incompetenza territoriale, a tale onere non potrà sottrarsi il giudice del processo, nel doveroso rispetto degli inderogabili criteri stabiliti dagli artt. 8 e 9 c.p.p., ed utilizzando ai fini di tale indagine, non solo la documentazione già acquisita al processo, ma anche quella indicata dalle parti a sostegno della proposta eccezione.

c - Alla vicenda del "bar Mandara" i richiedenti hanno dedicato non poco spazio e nelle richieste e nelle memorie, anche alla luce di quanto accertato dalla perizia assunta nel corso dell'incidente probatorio disposto dal g.i.p. del tribunale di Perugia.

"Il perito ha perentoriamente concluso - si scrive nella memoria di Berlusconi del 20 gennaio 2003 - affermando che l' audio-cassetta BASF tipo Crome extra 2 numero identificativo 044412200R messa a disposizione della A.G. di Milano per l'incidente probatorio, depositata come originale, originale non è ed è stata pure manipolata".

Si dice, ancora, in questa memoria che il perito ha chiesto una proroga dei termini per il deposito "per poter eseguire nuovi ed ulteriori accertamenti sulle modalità di manipolazione dei nastri magnetici".

Orbene, volendo dare tutto per certo, e ribadendo che tutto quanto è stato scritto e detto, al riguardo, non ha alcuna rilevanza ai fini della rimessione per le ragioni più volte esposte, si può soltanto porre in evidenza che la genesi ed il contenuto di quella cassetta dovranno formare oggetto di valutazione all’esito degli accertamenti in corso, nell’ambito del relativo procedimento.

c - Altro tema che è stato oggetto, nelle richieste, di particolari riflessioni, è quello che va sotto il nome di "fonte confidenziale Olbia", fonte che è la teste Stefania Ariosto, uno dei testi nel processo SME-ARIOSTO.

Può discutersi - e non è questa la sede - se la procura, prima che l'Ariosto deponesse dinanzi ai magistrati del p.m., abbia "gestito" la fonte per più di qualche mese senza lasciare alcuna traccia agli atti di questa gestione: se ciò fosse avvenuto non v’è dubbio che illegittima sarebbe l’utilizzazione di quelle dichiarazioni.

Ma, volendo ipotizzare che la tesi sia fondata, non può negarsi che è la stessa memoria che, nell'illustrare anche le ultime acquisizioni processuali - le ultime deposizioni - consente di dire che la verità sta emergendo nel processo e, in un processo in cui si fa strada la verità, è difficile che si possa pensare ad un condizionamento della imparzialità del giudice.

d - In ordine alla vicenda Brambilla, pure sulla quale molto si è scritto, è sufficiente richiamare, condividendolo, quanto la corte di cassazione ha recentemente affermato nel rigettare il ricorso di Previti avverso l'ordinanza che aveva deciso sulla dichiarazione di ricusazione del Dott. Guido Brambilla, componente del collegio della I sezione del tribunale di Milano.

La corte di cassazione, dopo avere affermato che "le norme sulle destinazioni dei magistrati agli uffici giudiziari o alle varie sezioni e quelle sulla formazione dei collegi, per le finalità che le ispirano e per le esigenze che intendono salvaguardare, sono del tutto estranee alla disciplina processuale in tema di incompatibilità, astensione e ricusazione", ha aggiunto che "il Dott Brambilla era stato richiamato nel collegio che giudica sulla vicenda SME in applicazione corretta e doverosa delle norme deliberate dal C.S.M.".

Né - ha precisato - si può sostenere l'incompatibilità del magistrato solo perché l'ordinamento penitenziario vieta ai magistrati di sorveglianza di essere adibiti ad altre funzioni giudiziarie.

Questa norma, infatti, nasce dall'esigenza di non distogliere il giudice di sorveglianza dalla propria attività istituzionale, anche per consentire una idonea specializzazione; ma, non tutte le norme che dispongono divieti di attività per i giudici determinano incompatibilità tali da rendere necessaria la loro astensione. (Cass., 4.2.03, Previti)

Può aggiungersi che Borrelli e D'Ambrosio, che si sono espressi su questa questione, nella loro vis polemica hanno voluto dire, sostanzialmente, anzitutto, che l'Organizzazione giudiziaria non può non essere funzionale alla giurisdizione, collaborando, nell'ambito delle proprie competenze, al concreto esercizio della stessa, e, in secondo luogo, che, in precedenza, l'Organizzazione giudiziaria aveva sempre collaborato ogni qualvolta si fosse presentato un problema la cui mancata soluzione avrebbe potuto pregiudicare lo svolgimento di un processo.

VII - Dopo tutto ciò, queste sezioni debbono osservare che, se l'inesistenza della grave situazione locale non può essere posta in dubbio, una preziosa garanzia che proprio questa sia la verità è offerta da alcuni, determinati, dati processuali.

Si è avuto cura di mettere ripetutamente in risalto che la grave situazione locale non può non essere territoriale-ambientale, non può non consistere in una patologia del territorio, perché è in quel determinato territorio, in quel determinato luogo, che si radica il processo, il quale ne è, eccezionalmente, sradicato perché è in forse la imparzialità del giudice.

Giudice, però, che, proprio perché la grave situazione locale è una patologia ambientale, territoriale, da tutti percepibile, non può non essere se non il giudice nel suo complesso, cioè la totalità dei giudici, con la conseguenza che, ove si abbia la prova positiva della assoluta imparzialità sia pure soltanto di alcuni giudici, la rimessione non può essere disposta.

La prova di quella imparzialità direbbe, invero, con estrema chiarezza che, al più, v'è, in quel luogo, una situazione non del tutto fisiologica, ma non quella situazione che, se è grave, patologica, non può non giustificare quanto meno la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice.

Ebbene, nel processo LODO-MONDADORI, il g.i.p., con sentenza del 19 giugno 2000, ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti di Acampora, Metta, Pacifico, Previti e Berlusconi perché il fatto non sussiste e la corte di appello, a seguito di appello del procuratore della Repubblica, mentre ha disposto il rinvio a giudizio di tutti gli altri, ha riconosciuto a Berlusconi le attenuanti generiche e ha dichiarato di non doversi procedere per estinzione del reato pre prescrizione; la corte di cassazione, poi, con sentenza del 16 novembre 2001, ha rigettato, tra gli altri, il ricorso di Berlusconi.

Se si riflette che la sentenza del g.i.p. è del 19 giugno 2000 e che, in quel momento, secondo le richieste, Borrelli già aveva trasformato la procura in organismo politico, facendo anche tutta quella serie di dichiarazioni che vanno dal 1993 al 1997 e disponendo per quella notifica che, secondo Previti, aveva assestato un colpo mortale al Governo allora in carica che poco dopo dovette dimettersi, non può dubitarsi del significato di questa pronuncia.

La quale, peraltro, non è stata emessa in un fattispecie in cui l'assoluzione poteva dirsi scontata, tanto è vero che la corte di appello ha affermato che anche per Berlusconi vi sarebbero state ragioni per il rinvio a giudizio, perché il materiale indiziario rendeva prospettabile il successo delle ragioni dell'accusa all'esito degli apporti dibattimentali; e, del resto, la corte di cassazione nulla ha avuto da eccepire, neppure sul punto, alla decisione della corte di appello.

Né può obiettarsi, come si è fatto nell'udienza dinanzi a queste sezioni unite, che il g.i.p. che ha emesso quella sentenza è stato trasferito, ché ciò che importa, evidentemente, è che un giudice, ed un giudice che si è interessato di uno dei processi di cui si chiede la rimessione, abbia ritenuto, nonostante la situazione descritta dai richiedenti, di dover prosciogliere gli imputati.

Inoltre, sono stati più volte citati i principi formulati dall' ordinanza del 23 febbraio 1998 di questa corte di cassazione, che ha rigettato una richiesta presentata da Berlusconi e da altri per la rimessione di un diverso processo.

Il tribunale, di Milano, con sentenza del 7 luglio 1998, ha affermato la penale responsabilità di Berlusconi per una serie di episodi di corruzione che gli erano stati contestati in quel processo e la corte di appello, con sentenza del 9 maggio 2000, ha riconosciuto le attenuanti generiche, dichiarando estinte per prescrizioni tre ipotesi di corruzione, e ha assolto Berlusconi per non aver commesso il fatto dalla imputazione di corruzione di cui al capo E).

E, se si riflette, di nuovo, sulle date, la situazione, secondo le richieste di rimessione, era, anche in questo caso, di particolare gravità, avendo Borrelli già iniziato con successo, secondo i richiedenti, l'opera di trasformazione della procura in organismo politico.

E, d'altro canto, gli imputati di quel processo avevano richiesto la rimessione proprio perché ritenevano che vi fossero le condizioni previste dalla legge per il trasferimento del processo.

Il proscioglimento e l'assoluzione - e, a ben vedere, anche il riconoscimento delle attenuanti generiche con la conseguente dichiarazione di prescrizione, tenuto conto che riconoscere o non riconoscere le attenuanti generiche rientra tra i poteri discrezionali del giudice - dicono che, in quegli anni, alcuni giudici di Milano, quando hanno ritenuto di dover prosciogliere o assolvere o riconoscere attenuanti generiche, anche quando il riconoscimento delle stesse determinava la prescrizione dei reati, lo hanno fatto, è questo è segno evidente della inesistenza del condizionamenti della imparzialità, segno evidente, dunque, della inesistenza della grave situazione locale.

2 - Tutto ciò premesso le richieste debbono esser rigettate.

P.Q.M.

La corte di cassazione a sezioni unite

rigetta

le richieste di rimessione e

condanna

i richiedenti alle spese del procedimento.

Così deciso in Roma il 27 gennaio 2003

Il Primo Presidente

L'Estensore

 

 

 

 

 

 

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