Gli effetti delle deleghe sull'art. 18*

di Giovanni Cannella

Si parla spesso in questi giorni, tra gli argomenti dei favorevoli o dei contrari al referendum sull'estensione dell'art. 18 alle piccole imprese, degli effetti che l'esito referendario potrebbe avere sulla politica complessiva del governo in materia di lavoro e sulla proposta specifica di deroga alla norma statutaria che ha tenuto banco l'anno scorso.

Una cosa è certa: la vittoria del no verrebbe interpretata come un semaforo verde, come appoggio del popolo alla politica governativa in materia di lavoro e alla modifica in peggio dell'art. 18. Ciò da un lato è visto da quella parte della sinistra che ha criticato l'iniziativa referendaria come una conferma del rischio che il referendum comporta, dall'altro fa dire ai sostenitori dell'iniziativa che proprio per evitare tale rischio non si può che votare si.

Va subito smentito, peraltro, quanto si va dicendo da un po’ di tempo e cioè che il governo avrebbe rinunciato alla modifica in peggio dell'art. 18: la proposta non solo non è stata ritirata, ma la discussione in commissione va avanti seppur non a tappe forzate in attesa evidentemente dell'esito referendario. E' indubbio, d'altra parte, che la vittoria del si vanificherebbe la proposta governativa, perché verrebbe meno il limite numerico a cui il governo vorrebbe derogare.

Non è vero neppure, come si dirà, che la modifica alla proposta originaria contenuta nel "Patto per l'Italia" e recepita dal governo costituisca un ridimensionamento dell'attacco all'art. 18 e quindi la stessa va esaminata con molta attenzione per essere consapevoli della posta in gioco.

Tuttavia prima di esaminare la proposta va osservato che l'ambito di applicazione dell'art. 18 ha subito un progressivo ridimensionamento nel corso degli anni come conseguenza delle sempre maggiore estensione del lavoro flessibile. Si tratta di un processo lungo iniziato negli anni '80 e sul quale hanno inciso quindi anche governi di centrosinistra: si pensi al famoso "pacchetto Treu" del 1997, che ha reso più agevole il ricorso ai contratti a termine ed ha introdotto il lavoro interinale. Ciò ha comportato una riduzione del ricorso al lavoro tipico a tempo indeterminato con conseguente riduzione dell'operatività dell'art. 18, che solo a quel tipo di rapporto può ovviamente applicarsi.

Il governo Berlusconi ha portato alle estreme conseguenze tale processo, liberalizzando i contratti a termine con il d.lgs. n. 368/2001 (in pretesa attuazione della direttiva 1999/70/CEE, ma in realtà in violazione della stessa), i cui effetti indiretti sull'art. 18, in conseguenza della trasformazione del rapporto a termine da eccezionale a quasi ordinario, sono ancora tutti da verificare.

Con la legge delega sul mercato del lavoro n. 30/2003, recentemente approvata dal parlamento, gli effetti indiretti si moltiplicano.

Si comincia con la liberalizzazione dello staff leasing, e cioè il lavoro in affitto anche a tempo indeterminato, che, essendo congegnato come un'applicazione estensiva del lavoro temporaneo, dovrebbe escludere la computabilità del personale affittato tra i dipendenti dell'azienda utilizzatrice, consentendo quindi di limitare l'operatività dell'art. 18. E' vero che l'art. 1 dispone che il trattamento per il lavoratore in affitto non debba essere "inferiore a quello a cui hanno diritto i dipendenti di pari livello dell'impresa utilizzatrice" (dove per "trattamento" deve intendersi presumibilmente, anche quello normativo), ma l'utilizzazione dello staff leasing consentirà a molte aziende di stare bene al di sotto del limite dei 16 dipendenti e quindi il lavoratore affittato non avrebbe un trattamento deteriore rispetto ai lavoratori dipendenti, perché neppure a loro potrà applicarsi l'art. 18 (con effetti negativi quindi per tutti i lavoratori).

La stessa norma allenta poi il vincolo previsto dall'art. 2112 c.c., che garantisce il lavoratore in caso di trasferimento d'azienda, riducendo il requisito dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda al solo momento del trasferimento (cioè non occorre più che l'autonomia preesista al trasferimento), con la possibilità quindi per il datore di lavoro di creare strumentali e temporanee condizioni di autonomia di un settore di lavoro, per trasferire singoli lavoratori da un'azienda all'altra senza alcun limite e senza il loro consenso. Sarà possibile quindi con maggiore facilità trasferire il personale ad aziende collegate che abbiano meno di 16 dipendenti così sottraendo ai lavoratori la tutela "reale" del licenziamento, senza che loro possano opporsi.

Effetti indiretti sull'art. 18 sono poi ravvisabili in tutte quelle disposizioni che estendono il lavoro precario, creando nuove tipologie di contratti, come ad esempio il rapporto di "aiuto", "obbligazione morale", ecc., che comporteranno la sottrazione dall'ambito del lavoro tipico subordinato di alcune categorie di lavoratori, che rimarranno quindi privi della tutela prevista per i licenziamenti. Si pensi ancora alla previsione che considera "lavoro occasionale", e quindi privo di qualsiasi tutela, il lavoro di durata inferiore a 30 giorni. Tutte da valutare, infine, le conseguenze dell'applicazione della disposizione relativa alla "certificazione" della natura del rapporto, che rischia di garantire l'impunità in ordine a rapporti fittiziamente autonomi, sottraendo anche per tale via a molti lavoratori le tutele per i licenziamenti illegittimi.

Ma veniamo al disegno di legge delega n. 848bis, all'esame del parlamento, che incide direttamente sull'art. 18.

Ad avviso del governo il provvedimento serve per combattere la disoccupazione, affermando peraltro contraddittoriamente che si tratta di un intervento limitato, che incide ben poco e su pochi lavoratori.

Si sostiene in sostanza che l'art. 18 produrrebbe il c.d. effetto soglia, cioè le piccole aziende si guarderebbero bene dal superare il limite dei 15 dipendenti, al di sopra del quale scatta la tutela della reintegrazione, e vi sarebbe quindi un affollamento immediatamente al di sotto della soglia: la modifica dell'art. 18 avrebbe quindi l'effetto di spingere le piccole aziende a nuove assunzioni. La tesi è tuttavia smentita dal Rapporto ISTAT 2001, dove si legge che la soglia dei 15 dipendenti "non sembra rappresentare - sulla base della dinamica occupazionale delle singole imprese riscontrata da un anno all'altro - un punto di discontinuità chiaramente riscontrabile".

Si sostiene ancora che l'art. 18 riguarda pochi lavoratori, essendo poche le sentenze di reintegrazione (ma allora perché sarebbe urgente modificarlo?). In realtà la norma ha soprattutto funzioni preventive, limitando gli abusi. Infatti prima della sua introduzione erano pochissime le cause proposte nel corso del rapporto di lavoro e lo stesso avviene ancora oggi per le imprese fino a 15 dipendenti. Infatti, il lavoratore durante il rapporto, senza lo scudo dell'art. 18, non faceva valere i propri diritti, né individuali nè collettivi, per il timore di essere licenziato ed era quindi soggetto a qualsiasi abuso da parte del datore di lavoro (analogamente a quanto avviene nei rapporti a termine). La norma consente quindi l’effettivo esercizio dei diritti del lavoro, senza paura di eccessive ritorsioni, ed ha quindi una portata generale, ben più ampia di quella che si vuol far credere. In questo senso il diritto garantito dall'art. 18 si è meritato la definizione di "diritto dei diritti".

Si aggiunge ancora che l'art. 18 costituisce un unicum italiano e la modifica dell'art. 18 ci avvicinerebbe all'Europa ed ai paesi più moderni. Tuttavia, a parte il fatto che è difficile considerare moderno il ritorno a più ridotte forme di tutela dal licenziamento illegittimo come avveniva prima dello Statuto, l'affermazione è falsa. Infatti, pur tenendo conto delle diversità di disciplina, si può affermare che sono molto simili a quello italiano i sistemi vigenti in Svezia, Germania, Portogallo ed Austria e che la reintegrazione può essere riconosciuta anche in paesi dove è prevalente la soluzione risarcitoria, come in Gran Bretagna e Danimarca. D'altra parte la Confederazione europea dei sindacati (CES) ha proposto una direttiva europea, dove, pur non escludendosi soluzioni risarcitorie, la sanzione della reintegrazione è posta in primo piano, e non è quindi così estranea al contesto europeo.

Ma esaminiamo il disegno di legge delega (848bis), che nel testo originario prevedeva in via sperimentale, per quattro anni prorogabili, la deroga alla sanzione della reintegrazione nei casi di riemersione dal lavoro nero, trasformazione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato limitatamente alle regioni del mezzogiorno, crescita dimensionale delle imprese minori, escludendo dal computo del numero dei dipendenti occupati le unità lavorative assunte per il primo biennio.

La norma è stata aspramente avversata non solo dalla CGIL, ma anche da CISL e UIL e da altri sindacati, che, come è noto nel luglio scorso hanno firmato sorprendentemente il "Patto per l'Italia". La sorpresa deriva dal fatto che la disposizione contenuta nel "Patto" non è certo meno traumatica della precedente.

Se è vero, infatti, che la disposizione, recentemente inserita nel disegno di legge n. 848bis in sostituzione del testo precedente, limita la deroga alla crescita dimensionale delle imprese, prevede tuttavia il non computo dei nuovi assunti, ai fini dell'operatività dell'art. 18, non più per un biennio ma per un triennio. Inoltre, a differenza del testo precedente, che sembrava limitare la deroga alla crescita oltre i 15 dipendenti nella singola unità produttiva, nella nuova disposizione si fa generico riferimento alle "soglie dimensionali" indicate nell'art. 18, con richiamo letterale quindi anche al superamento della "soglia" dei 60 dipendenti nell'intera azienda, così smentendo l'intenzione di risolvere il problema della crescita delle piccole realtà produttive. Non è vero poi, come si dice, che la misura sarà temporanea: la nuova disposizione, infatti, è sì sperimentale, ma i suoi effetti non sarebbero certo temporanei, poiché non è previsto alcun termine al mancato computo degli assunti nei tre anni. In sostanza se un'azienda con 10 dipendenti ne assume altri 200 nell'arco dei tre anni, a nessun dipendente si applicherà la tutela dell'art. 18, e non solo per tre anni ma in teoria per tutta la vita dell'azienda o almeno finché non vi siano successive assunzioni che comportino il superamento della soglia senza contare i 200 assunti nel triennio (il termine di tre anni riguarda le nuove assunzioni successive e non l'effetto di "non computo" delle assunzioni precedenti, che rimane fermo).

La norma, fra l'altro, non distingue tra vecchie e nuove aziende e quindi l'effetto di "non computo" si verificherebbe anche nel caso di nuove grandi realtà produttive, che, iniziando l'attività, assumano anche 1.000 dipendenti nel triennio e rende possibili operazioni di chiusura fittizie e successive riaperture di imprese per sfuggire alla disciplina più onerosa. L'aggiramento delle tutele può essere realizzato anche con lo strumento del trasferimento d'azienda, perché il "Patto" prevede una deroga solo nel caso di subentro di un'impresa ad un'altra nell'esecuzione di un appalto. Anzi la deroga limitata ("non riconducibilità al concetto di nuova assunzione…") consente di considerare "nuove assunzioni" i trasferimenti di azienda effettuati per altre ragioni, autorizzando quindi la costituzione ad hoc di una nuova struttura dove trasferire i dipendenti soggetti all'art. 18 per sottrarli alla disposizione o gli spostamenti da un'azienda all'altra allo stesso scopo. Il rischio è aggravato dalla recente approvazione della legge delega n. 30/2003, che, come si è visto, consente trasferimenti di personale, senza il consenso del lavoratore, con fittizie costituzioni di rami d'azienda.

La disposizione presenta, quindi, molti aspetti di incongruenza e di disparità, soprattutto perché crea, non certo temporaneamente, diversità di regimi normativi per aziende con lo stesso numero di dipendenti o addirittura una minore tutela per dipendenti addetti ad aziende di maggiori dimensioni, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Inoltre, per quanto si è detto, avrebbe un ambito di operatività molto ampia, ben più di quanto si vuol far credere, sia per il numero dei lavoratori che potrebbero essere interessati sia per il perdurare degli effetti nel tempo.

In conclusione si tratta di una norma pericolosa e per nulla marginale. La vittoria del si potrà senz'altro disinnescarla: in ogni caso occorrerà combatterla in parlamento e fuori, riattivando quella mobilitazione dei lavoratori che ha avuto l'anno scorso almeno l'effetto di ritardarne l'adozione.


*E' l'intervento dell'autore all'incontro pubblico sul tema "Dove va l’art. 18? Riduzione o estensione delle tutele tra leggi e referendum" organizzato il 5 maggio 2003 dal Coordinamento giuristi democratici.

 

 

 

 

 

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