Gli inganni del padrone*

di Giovanni Cannella

In origine il padrone non aveva bisogno di inganni: dominava il lavoratore con un potere assoluto, che non ammetteva condizioni e restrizioni. Poi nacque il diritto del lavoro, sotto l'effetto delle nuove idee del "socialismo" e della "lotta di classe" e con esso l'idea che il lavoratore, quale cittadino debole, aveva diritto ad un'adeguata particolare tutela (mi permetto di rinviare in proposito al mio articolo "La parabola del diritto del lavoro", da Il Ponte, marzo 2002 e Omissis, maggio 2002).

Il padrone, allora, dopo una prima fase di violenta repressione delle lotte operaie, fu costretto a fare concessioni, a patire diritti dei lavoratori sempre più ampi, fino a dover sopportare in Italia addirittura lo Statuto dei lavoratori (con il famigerato art. 18), che tendeva a trasformarlo in un moderno imprenditore, non più titolare di un potere assoluto verso i lavoratori sudditi, ma quale coordinatore funzionale di una struttura composta da uomini liberi, che potevano finalmente discutere, associarsi, protestare e persino scioperare, senza doverne subire la reazione.

Ma nell'animo molti imprenditori rimanevano padroni repressi: e allora hanno capito che non potevano affrontare di petto l'ostacolo, pena l'impopolarità, ma dovevano aggirarlo.

Inventarono quindi la flessibilità e riuscirono a far passare, anche in una parte della sinistra, l'idea che norme di tutela troppo rigide e rapporti di lavoro troppo vincolati ostacolassero l'occupazione: bisognava allora modificare la normativa sul lavoro in quella direzione, ma, sia chiaro, nell'interesse dei lavoratori!

La flessibilità (in uscita, in entrata, sopra, sotto e trasversalmente) divenne quindi il verbo e condizionò gran parte delle riforme del diritto del lavoro dagli anni '80 in poi, realizzate anche da governi di centro-sinistra, verso una sempre più ampia precarizzazione del mondo del lavoro.

Poi arrivò Berlusconi, esperto e furbo padrone, che, sfruttando il solco tracciato dal centro-sinistra, si accinse ad aggirare ostacoli ben più alti ed impegnativi, nascondendo pesanti interventi di riduzione delle tutele dietro il paravento delle pretese indicazioni dell'Unione Europea e della lotta alla disoccupazione.

Alcune cose le ha già fatte, altre sono in fase di realizzazione, altre infine solo progettate nel noto Libro Bianco del Ministro Maroni.

Tra le cose già fatte, la più importante è il d.lgs. n. 368/2001, che ha portato al limite estremo il processo di liberalizzazione dei contratti a termine, già cominciato con i governi di centro-sinistra. Lo scopo è chiaro: rendere più facile l'assunzione a termine, liberare il padrone dal fastidioso impiccio dell'art. 18 e asservare ai suoi voleri i lavoratori, che, per non rischiare il mancato rinnovo o nella speranza della trasformazione del rapporto a termine in rapporto stabile, dovranno sopportare qualsiasi violazione dei loro diritti.

Il provvedimento abolisce i limiti specifici predeterminati per legge, inserendo l'unica generica condizione per assumere un lavoratore a termine della sussistenza di ragioni di carattere "tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo"; non prevede la conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato in assenza di tali ragioni ovvero in caso di utilizzazione in mansioni diverse da quelle specificate all'origine, né in caso di contratti ripetuti intervallati da 10 o 20 giorni; elimina il limite massimo dei lavoratori a termine che possono essere assunti per le imprese di nuova costituzione, per le lavorazioni stagionali, per le punte di attività, per i contratti non superiori a sette mesi, per determinate aree geografiche.

Il governo ha affermato che il provvedimento era necessitato, perché in attuazione di una direttiva comunitaria: ma si tratta di un inganno.

La direttiva 1999/70/CEE, infatti, prevede espressamente (clausola 8) che gli stati membri possono mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori: quindi non è vero che il governo era costretto ad attuare la direttiva se meno favorevole alla disciplina precedente. Al contrario la direttiva vieta modificazioni peggiorative, stabilendo che "l'applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso" (clausola 8, punto 3). E non vi è dubbio che la legge sia peggiorativa della precedente normativa italiana sui contratti a termine, sia con riguardo alle singole clausole che con riferimento all'istituto nel suo complesso, per le ragioni già dette.

Per di più la legge viola la stessa direttiva non prevedendo, ad esempio, la durata massima dei contratti a termine e il numero massimo dei rinnovi consentiti (clausola 5) e soprattutto smentendo, con la specifica disciplina adottata, il principio, confermato nella direttiva, secondo cui il rapporto a tempo indeterminato rimane la regola, mentre il rapporto a termine è l'eccezione (vedi il preambolo: "…i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro…"). Deve ritenersi, inoltre, che la direttiva impegnava gli stati membri ad indicare specificamente le ragioni oggettive che potessero giustificare il ricorso ai contratti a termine e che non sia quindi legittimo il generico riferimento a "ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo".

Un'altra modifica è stata introdotta con l'art. 3 Legge 23 aprile 2002, n. 73, che è passato quasi inosservato e che ha l'effetto, nel caso di riemersione dal lavoro nero, di dimezzare lo Statuto dei lavoratori, escludendo per un triennio i lavoratori emersi dal computo dei limiti numerici di unità di personale previsti da leggi e contratti collettivi di lavoro ai fini dell’applicazione di specifiche normative ed istituti, ad eccezione delle disposizioni in materia di licenziamenti individuali e collettivi. Ciò può comportare, ad esempio, l'esclusione di alcuni diritti, come il diritto di assemblea, di permessi sindacali, di costituire rappresentanze sindacali aziendali, ecc.

Ancora quindi si fa passare una riduzione delle tutele per un intervento a favore dei lavoratori: gli si regala la regolarizzazione, come se non fosse un loro diritto, in cambio della rinuncia ai diritti sindacali, incidendo peraltro, si badi, non solo sui diritti degli emergenti, ma anche su quelli già in regola, a cui saranno sottratti i diritti sindacali per effetto del mancato computo dei nuovi regolarizzati.

E vediamo le riforme in corso di realizzazione, partendo dalle deleghe sul mercato del lavoro (ben undici in origine), che incidono pesantemente sulla struttura complessiva del diritto del lavoro, realizzando in parte il progetto complessivo di controriforma del diritto di lavoro contenuto nel noto Libro Bianco del ministro Maroni.

Già l'uso della delega, invece del normale disegno di legge, per riformare in modo così incisivo il diritto del lavoro nasconde un primo inganno: sotto il velo di una procedura legislativa consentita si nasconde, infatti, l'intenzione (peraltro non riuscita, date le proteste che ne sono scaturite) di mettere la sordina all'impatto di una riforma epocale. Poiché le deleghe, infatti, per loro natura devono indicare solo i "principi" e i "criteri direttivi", si possono permettere ampi margini di genericità, come è avvenuto appunto per le deleghe in esame, limitando quindi il dibattito parlamentare, che spesso non può andare oltre la critica alle intenzioni che emergono dalle generiche disposizioni.

Una volta approvate le deleghe, a seguito di un povero dibattito parlamentare, il Governo avrà briglie sciolte nell'emettere i decreti delegati, senza alcuna ulteriore effettiva verifica delle Camere (salvo che in sede di parere delle commissioni permanenti).

Come è stato giustamente rilevato (Angiolini), non si è mai verificato in precedenza che venisse usato lo strumento delle deleghe per modificare, in senso peggiorativo ed incisivamente, una disciplina così delicata come quella dei rapporti di lavoro, che era stata prodotta "dal parlamento a seguito di un dibattito ricco e approfondito", ed ha implicazioni anche costituzionali, che richiedono "istanze di discussione e verifica democratica che solo nell'attività delle Camere possono essere soddisfatte pienamente".

Ma passiamo al merito delle deleghe, con la precisazione che nel giugno scorso il Governo ha stralciato, inserendole in un separato provvedimento (S/848bis), le deleghe in materia di incentivi all'occupazione, ammortizzatori sociali, art. 18 ed arbitrato, che hanno poi formato in parte oggetto del "Patto per l'Italia" del 5.7.2002, di cui si dirà. Le deleghe rimaste, che esaminerò negli aspetti più negativi, pericolosi ed ingannevoli, sono ormai in dirittura di arrivo in Parlamento e probabilmente saranno già state approvate quando sarà pubblicato questo articolo.

In tema di collocamento e di "esternalizzazione" del lavoro (il brutto termine si riferisce alla tendenza del moderno imprenditore di trasferire all'esterno dell'azienda una parte della propria attività, con rischi di riduzione delle tutele per i lavoratori ceduti), con l'ingannevole giustificazione di rendere più efficiente il mercato del lavoro e di favorire quindi l'occupazione, si manifesta chiaramente l'intenzione di allentare gli attuali "vincoli soffocanti" per gli imprenditori (pag. 9 relazione), mediante un'opera di "snellimento e semplificazione delle procedure", di "semplificazione degli oneri amministrativi e burocratici", di apertura al privato, con riduzione dell'intervento pubblico (viene ridimensionata in particolare l'essenziale funzione pubblica di controllo del collocamento al lavoro, con rinascenti rischi di abusi e discriminazioni).

L'efficienza del mercato richiede, ad avviso del governo, la sostanziale abrogazione della legge n. 1369/60 in tema di divieto di intermediazione di mano d'opera. La relativa delega, ammette infatti, con il ritorno al vecchio caporalato, l'appalto di mere prestazioni di lavoro, quando sussista una ragione tecnica, organizzativa o produttiva, individuata dalla legge o dai contratti collettivi nazionali o territoriali. Ciò comporta, oltre ad evidenti rischi di disparità di trattamento tra zone diverse (dato il rinvio anche alla contrattazione territoriale), il sostanziale svuotamento del divieto, favorito dalla previsione di una strana "certificazione", non già della natura del rapporto (come si vedrà nella specifica delega in materia), ma addirittura della liceità anche penale dell'intermediazione. Ma la delega allenta anche il vincolo previsto dall'art. 2112 c.c., che garantisce il lavoratore in caso di trasferimento d'azienda, riducendo il requisito dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda al solo momento del trasferimento (cioè non occorre più che l'autonomia preesista al trasferimento), con la possibilità quindi per il datore di lavoro di creare strumentali e temporanee condizioni di autonomia di un settore di lavoro, per trasferire singoli lavoratori da un'azienda all'altra senza alcun limite e senza il loro consenso (lo confessa espressamente la relazione di accompagnamento, pag. 10).

Altre deleghe, in ossequio all'ingannevole mito della flessibilità, proseguono l'opera di precarizzazione del mondo del lavoro, autorizzando, ad esempio, qualsiasi forma flessibile ed elastica del part time verticale o misto, consentendo cioè modifiche della ripartizione settimanale e giornaliera dell'orario di lavoro anche comunicate dal datore di lavoro giorno per giorno o addirittura attimo per attimo come nel caso del "lavoro intermittente", che impedirebbe al lavoratore l'organizzazione del proprio tempo, con una pesante disgregazione delle normali condizioni di vita. Analoghe conseguenze comporta il lavoro a "prestazioni ripartite" (c.d. job sharing) fra due o più lavoratori obbligati in solido nei confronti di un datore di lavoro per l'esecuzione di un'unica prestazione lavorativa, che viene fatto passare per una nuova opportunità di lavoro, ma che comporta in realtà anche in questo caso uno stato di incertezza del singolo lavoratore sulla durata della prestazione settimanale o giornaliera, essendo egli sempre esposto alla necessità di sostituire l'altro lavoratore. Con l'ingannevole prospettiva di uno stimolo al principio di solidarietà, le deleghe dispongono poi l'esclusione di qualsiasi obbligo per il datore di lavoro per prestazioni fornite a titolo di "aiuto", seppur riferite a prestazioni occasionali o ricorrenti di breve periodo, che esporrebbe il lavoratore ad un'abusiva utilizzazione di una figura, a cui è possibile facilmente ricorrere con il sistema della "certificazione", di cui si dirà.

Un raffinato raggiro riguarda poi i cococo (collaboratori coordinati e continuativi), per i quali sia nel Libro Bianco che nella relazione di accompagnamento al disegno di legge delega si esprime a gran voce l'intenzione di concedere nuove tutele, trattandosi della fascia di lavoratori ormai più bistrattata, in quanto sostanzialmente subordinati ma giuridicamente autonomi con conseguente esclusione di tutte le tutele previste per i dipendenti.

In realtà, la genericità della delega consente di non chiarire quali sarebbero i nuovi diritti attribuiti ai cococo, come emerge dal generico riferimento a "tutele fondamentali a presidio della dignità e sicurezza dei collaboratori", in verità già riconosciute quantomeno a livello europeo (non discriminazione, libertà di associazione, ecc.) ed al particolare riferimento a "maternità, malattia o infortunio", cioè a tutele già previste da recenti leggi (L. n. 449/97 per la maternità, L. n. 488/99 per la malattia e D.Lgs. n. 38/2000 per gli infortuni). Va considerato, inoltre, il richiamo alla "certificazione", che, come si dirà, consentirà di considerare cococo lavoratori che attualmente sono subordinati e che perderebbero quindi le maggiori tutele: il risultato algebrico dell'operazione è quindi una riduzione e non un aumento delle tutele complessive per i lavoratori.

Un ulteriore inganno riguarda poi la giurisdizione. Si parte da un dato di fatto incontestabile e cioè il cattivo funzionamento del processo del lavoro, derivante peraltro, come tutti gli studiosi riconoscono, non già dal modello di processo, che anzi è stato utilizzato come base per il nuovo processo civile, o dalla "qualità professionale con cui sono rese le pronunce", come sorprendentemente si legge nel Libro Bianco, ma dall'insufficienza dell'organico rimasto invariato nonostante il travolgente aumento delle cause. Ma la soluzione per il Governo non è il potenziamento della giurisdizione, ma al contrario la sua marginalizzazione, appunto con la scusa risibile del cattivo funzionamento, che si inserisce a pieno titolo nel progetto complessivo di riduzione del controllo di legalità, già avviata nei settori più svariati. Lo scopo è evidente: sterilizzare la particolare funzione attribuita al giudice del lavoro chiamato a tutelare i lavoratori, in modo differente e più incisivo rispetto agli altri utenti, allo scopo di riequilibrarne lo svantaggio di partenza rispetto al datore di lavoro, che può contare su maggiori mezzi economici per esercitare la difesa e su agevolazioni istruttorie, per i condizionamenti che egli può imporre ai testi dipendenti. Gli strumenti adottati dal Governo per raggiungere tale scopo sono l'arbitrato e la certificazione (ma un altro strumento è quello di non attuare ancora l'aumento di organico già deciso da una legge del 2001).

La delega relativa all'arbitrato (che, come si è detto, è stata stralciata ed inserita nel ddl 848bis), eliminando i vincoli previsti a tutela dei lavoratori, consente tale strumento, pure se non disciplinato dai contratti collettivi, e autorizza gli arbitri a giudicare secondo equità (anche in violazione di norme inderogabili di legge e degli accordi sindacali), con decisione impugnabile solo per vizi procedimentali. E' evidente che la proposta mette in grave pericolo l'intera struttura di garanzia del rapporto di lavoro, nonostante la formale "volontarietà" del ricorso agli arbitri: il lavoratore, pur di essere assunto, sarà portato a sottoscrivere clausole compromissorie ad uso e consumo del datore di lavoro, senza alcuna garanzia, che potrebbe derivare dall'intervento dei sindacati, ad esempio in ordine alla composizione genuina e davvero terza del collegio.

Nella stessa direzione va la delega relativa alla "certificazione" della natura del rapporto, e cioè la "validazione anticipata delle volontà delle parti interessate all'utilizzazione di una certa tipologia contrattuale", come si esprime il Libro Bianco, a cui difficilmente il lavoratore potrà sottrarsi, accettando, pur di lavorare, una qualificazione che dà minori tutele. La formula della procedura ed anche lo stesso termine usato, che dà un connotato quasi legale all'accertamento effettuato, costituiscono un notevole freno anche psicologico alla contestazione successiva, sia con riferimento alla correttezza della definizione data, sia nell'ipotesi in cui le concrete modalità del rapporto si siano poi svolte in maniera difforme da quelle indicate. L'effetto sarà evidentemente la riduzione del campo della formale subordinazione e quindi la riduzione delle tutele nel nome della certezza del diritto.

Dulcis in fundo l'art. 18, per il quale l'inganno tocca vette sublimi. Non solo perché si traveste la ratio delle norme proposte con la solita necessità di combattere la disoccupazione, ma anche perché si afferma che l'intervento è molto limitato e incide ben poco e su pochi lavoratori.

Come è ormai noto l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori obbliga il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore nel caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo nelle aziende con oltre 15 dipendenti per unità produttiva o 60 complessivi. Secondo il Governo l'art. 18 produrrebbe il c.d. effetto soglia, cioè le piccole aziende si guarderebbero bene dal superare i 15 dipendenti e vi sarebbe quindi un affollamento immediatamente al di sotto della soglia: la modifica dell'art. 18 spingerebbe quindi le piccole aziende a nuove assunzioni. Peccato che l'affermazione è smentita dal Rapporto ISTAT 2001, dove si legge che la soglia dei 15 dipendenti "non sembra rappresentare - sulla base della dinamica occupazionale delle singole imprese riscontrata da un anno all'altro - un punto di discontinuità chiaramente riscontrabile".

Non è vero poi che l'art. 18 riguarda pochi lavoratori, essendo poche le sentenze di reintegrazione. E' evidente, infatti, che la norma ha soprattutto funzioni preventive, limitando gli abusi. La dimostrazione? Prima della sua introduzione erano pochissime le cause proposte nel corso del rapporto di lavoro e lo stesso avviene ancora oggi per le imprese fino a 15 dipendenti. Infatti, il lavoratore durante il rapporto, senza lo scudo dell'art. 18, non faceva valere i propri diritti, né individuali nè collettivi, per il timore di essere licenziato ed era quindi soggetto a qualsiasi abuso da parte del datore di lavoro (analogamente a quanto avviene nei rapporti a termine). La norma consente quindi l’effettivo esercizio dei diritti del lavoro, senza paura di eccessive ritorsioni, ed ha quindi una portata generale, ben più ampia di quella che si vuol far credere.

Ma esaminiamo la delega, che nel testo poi stralciato, prevedeva in via sperimentale, per quattro anni prorogabili, la deroga alla sanzione della reintegrazione nei casi di riemersione dal lavoro nero, trasformazione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato limitatamente alle regioni del mezzogiorno, crescita dimensionale delle imprese minori, escludendo dal computo del numero dei dipendenti occupati le unità lavorative assunte per il primo biennio.

La norma è stata aspramente avversata non solo dalla CGIL, ma anche da CISL e UIL e da altri sindacati, che, come è noto nel luglio scorso hanno firmato sorprendentemente il "Patto per l'Italia". La sorpresa deriva dal fatto che la disposizione contenuta nel "Patto" non è certo meno traumatica della precedente.

Se è vero, infatti, che la disposizione limita la deroga alla crescita dimensionale delle imprese, prevede tuttavia il non computo dei nuovi assunti, ai fini dell'operatività dell'art. 18, non più per un biennio ma per un triennio. Inoltre, a differenza del testo precedente, che sembrava limitare la deroga alla crescita oltre i 15 dipendenti nella singola unità produttiva, nel "Patto" si fa generico riferimento alle "soglie dimensionali" indicate nell'art. 18, con richiamo letterale quindi anche al superamento della "soglia" dei 60 dipendenti nell'intera azienda, così smentendo l'intenzione di risolvere il problema della crescita delle piccole realtà produttive. E' ingannevole poi la sbandierata temporaneità della misura: la nuova disposizione, infatti, è sì sperimentale, ma i suoi effetti non sarebbero certo temporanei, poiché non è previsto alcun termine al mancato computo degli assunti nei tre anni. In sostanza se un'azienda con 10 dipendenti ne assume altri 200 nell'arco dei tre anni, a nessun dipendente si applicherà la tutela dell'art. 18, e non solo per tre anni ma in teoria per tutta la vita dell'azienda o almeno finché non vi siano successive assunzioni che comportino il superamento della soglia senza contare i 200 assunti nel triennio (il termine di tre anni riguarda le nuove assunzioni successive e non l'effetto di "non computo" delle assunzioni precedenti, che rimane fermo).

La norma, fra l'altro, non distingue tra vecchie e nuove aziende e quindi l'effetto di "non computo" si verificherebbe anche nel caso di nuove grandi realtà produttive, che, iniziando l'attività, assumano anche 1.000 dipendenti nel triennio e rende possibili operazioni di chiusura fittizie e successive riaperture di imprese per sfuggire alla disciplina più onerosa. L'aggiramento delle tutele può essere realizzato anche con lo strumento del trasferimento d'azienda, perché il "Patto" prevede una deroga solo nel caso di subentro di un'impresa ad un'altra nell'esecuzione di un appalto. Anzi la deroga limitata ("non riconducibilità al concetto di nuova assunzione…") consente di considerare "nuove assunzioni" i trasferimenti di azienda effettuati per altre ragioni, autorizzando quindi la costituzione ad hoc di una nuova struttura dove trasferire i dipendenti soggetti all'art. 18 per sottrarli alla disposizione o gli spostamenti da un'azienda all'altra allo stesso scopo.

La disposizione presenta, quindi, molti aspetti di incongruenza e di disparità, soprattutto perché crea, non certo temporaneamente, diversità di regimi normativi per aziende con lo stesso numero di dipendenti o addirittura una minore tutela per dipendenti addetti ad aziende di maggiori dimensioni, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Inoltre, per quanto si è detto, avrebbe un ambito di operatività molto ampia, ben più di quanto si vuol far credere, sia per il numero dei lavoratori che potrebbero essere interessati sia per il perdurare degli effetti nel tempo.

Come si vede il padrone si è attrezzato con una serie di strumenti indiretti ed ingannevoli, velati dalle migliori intenzioni, la lotta alla disoccupazione soprattutto, per scardinare il diritto del lavoro.

Ma è solo l'inizio: sullo sfondo incombe il progetto complessivo del Libro Bianco, che contiene un cocktail di inganni, tra i quali spicca la pretesa necessità di adeguarsi alle indicazioni europee (ma ci vorrebbe ben altro spazio per parlarne).

Il succo del progetto è il seguente: per il bene dei lavoratori, per la loro autonomia e indipendenza, bisogna smetterla con norme troppo vincolanti. Spazio quindi alle soft law (raccomandazioni, norme senza sanzioni), all'autonomia del contratto individuale, alla derogabilità delle attuali norme di tutela troppo rigide.

Cosa c'è alla fine della strada? E' semplice: il ritorno del rapporto di lavoro nell'alveo del normale rapporto commerciale, ignorando quello squilibrio tra le parti, che ha giustificato la nascita stessa del diritto del lavoro, come diritto a tutela della parte debole. C'è quindi la morte del diritto del lavoro.


* L'articolo è tratto dalla rivista "Il Ponte", dicembre 2002

 

 

 

 

 

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