Il giudice e l’eguaglianza sostanziale tra le parti del processo civile: una nuova "scelta di campo"*
di Francesco Vigorito
La scelta di dedicare questo congresso di Magistratura Democratica alla "forza dei diritti" e di ripensare, quindi, alle forme della tutela dei diritti soggettivi nella realtà italiana e, più in generale, nella "democrazia del mercato globale" è il segno della centralità che, ancora oggi, riconosciamo, con riferimento al parametro offerto dal capoverso dell’art. 3 della Costituzione, alla lotta per la salvaguardia dei diritti e per il loro allargamento sociale.
Non si tratta di voler "parlare d’altro" mentre gli attacchi alla autonomia ed alla indipendenza della magistratura, al ruolo della funzione giudiziaria, finanche alla libertà di pensiero e di espressione dei magistrati si vanno moltiplicando con preoccupante intensità ma è la percezione che queste sortite non rispondono solo all’esigenza di "sistemare" una serie di questioni personali del Presidente del Consiglio e di altre personalità della maggioranza, ma sono parte di un progetto più ampio di ridefinizione dei rapporti istituzionali e di conseguente modifica della Costituzione materiale, se non di quella formale, per renderla più funzionale al modello di società "neoassolutista" che riconosce il primato incontrastato dell’economia e del mercato sulla politica e sulla sfera pubblica.
Non solo in Italia, ma in tutto l’occidente, alla affermazione, negli ultimi decenni del 900, dello Stato costituzionale di diritto ed alla prospettiva stimolante dello sviluppo di un processo che dovrebbe portare alla costituzione, per dirla con Ferraioli " di uno stato internazionale di diritto", (nel quale si inserisce sia l’approvazione della Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione europea sia il contraddittorio processo di costituzionalizzazione europea) si contrappone un modello istituzionale autoritario, omogeneo alla concezione individualistico-mercantile della democrazia e della società (sviluppatasi con la crisi del welfare state), allo sviluppo dei processi di privatizzazione ed alle grandi concentrazioni internazionali di potere privato.
Lo "stato costituzionale di diritto" riconosce la centralità dei diritti ed, in particolare, del concetto di diritto soggettivo, come espressione giuridica della libertà individuale, "come condizione di razionalità, di modernità e di progresso presso le culture di tutti i continenti" ed, insieme, riconosce la funzione dell’intervento giudiziario e del controllo di legalità e l’idea che la giurisdizione non debba essere solo un mezzo di definizione dei conflitti intersoggettivi ma anche uno strumento di emancipazione individuale e collettiva che concorre alla realizzazione dell’obiettivo dell’ampliamento dei diritti sociali.
E’ significativo il percorso del concetto di cittadinanza, a lungo considerato nella sua accezione tecnica, legato alle leggi che ne regolano l’attribuzione, o, al più identificato come concetto "borghese", che oggi viene, da più parti, assunto nella sua funzione riassuntiva di un insieme di figure sociali e politiche, come paradigma delle forme di tutela dei diritti individuali.
La realizzazione del catalogo dei diritti vecchi e nuovi passa, in questa concezione, anche attraverso il sistema giuridico privatistico ed il processo civile è considerato uno dei luoghi nei quali possono acquistare visibilità molte categorie di conflitti (nei decenni scorsi, in concreto, ciò è avvenuto per quelli in materia di ambiente e territorio, tutela del consumatore, tutela della salute ora anche per quelli relativi alla protezione dei dati, alla disciplina di flussi informativi, alla diffusione di tecnologie elettroniche e genetiche).
Dalla constatazione che questo modello corrisponde ai valori ed ai principi della Costituzione repubblicana e dal riconoscimento di questo ruolo della giurisdizione (della insopprimibile politicità della giurisdizione e di quella civile in particolare, come ci ricordò, esemplarmente, Carlo Verardi a Venezia) parte ogni discorso sul ruolo dei giudici progressisti, di MD, e specificamente di quel gruppo di giudici di Magistratura Democratica che si occupano della giustizia civile.
In concreto, il settore della giustizia civile, in questi anni, ha seguito, in Italia, un percorso contraddittorio.
A fianco ad una tendenza legislativa, realizzata, peraltro, anche dal governo di centro-sinistra, volta a sottrarre interi settori di giurisdizione al giudice naturale dei diritti (qual è il giudice ordinario) con attribuzione della stessa al giudice amministrativo (come, nel caso della giurisdizione esclusiva nelle controversie in cui sia parte una P.A. identificata oramai genericamente in qualsiasi soggetto o ente che svolge un’attività di interesse pubblico) in intere importanti materie (servizi pubblici, edilizia ecc.), si è assistito, proprio in questi anni, al riconoscimento, negli orientamenti giurisprudenziali, di quei diritti legati alla salute, all’ambiente, alla riservatezza delle persone, all’informazione, alla tutela del consumatore, che sono il cardine del concetto di cittadinanza sociale.
Questo secondo processo è stato facilitato, nel corso dell’ultimo decennio, dal tendenziale superamento di due ostacoli (uno di tipo culturale, l’altro di tipo strutturale) che per lungo tempo si erano frapposti alla tutela efficace di tali diritti: il primo era la debolezza degli enti esponenziali dei diritti di cittadini e consumatori (contrapposta alla centralità che questi soggetti collettivi avevano avuto per l’affermazione dei diritti civili e di cittadinanza, negli altri paesi ad economia avanzata, ed in particolare in quelli di common law) il secondo l’inefficienza del sistema processuale.
La riforma del 1990 è nata dalla esigenza di determinare un’inversione di tendenza nella situazione di degrado in atto, ed ha operato interventi limitati che non intendevano incidere sulle scelte di fondo del legislatore del 1940-42 ed, unitamente alle successive riforme ordinamentali e processuali, ha perseguito l’obiettivo di rendere più efficiente il sistema modificando in profondità il modo concreto di esercitare la giurisdizione civile e consentendo al giudice di regolare e disciplinare il processo, di dirigerlo, di dare un sia pur limitato impulso istruttorio.
Si è immaginato un processo nel quale il giudice, pur senza essere fornito di poteri discrezionali suscettibili di incidere sul contenuto della decisione, possa esercitare, in concreto, i poteri ordinatori ed intervenire nella fase di individuazione e precisazione dell’oggetto del giudizio e dei mezzi istruttori, oltre, ovviamente, che nella direzione dell’assunzione delle prove; si tratta di un modello che è idoneo a garantire in modo più efficace l’equilibrio tra i soggetti del giudizio e l’attuazione dei diritti.
La riforma che, in alcune realtà giudiziarie, ha consentito l’affermarsi di un modo nuovo ed efficace di interpretare il processo civile non ha avuto, tuttavia, un effetto positivo immediato ed uniforme in tutte le situazioni.
In molti uffici giudiziari una commistione di disinteresse da parte dei soggetti istituzionalmente preposti a fornire mezzi e locali (Ministero, ma anche autorità locali), di resistenza al nuovo da parte di molti operatori (avvocati, personale, ma anche magistrati e dirigenti degli uffici), di conformismo ha impedito al nuovo processo di decollare ed i tempi del giudizio e della successiva fase esecutiva sono restati troppo lunghi ed hanno comportato l’inevitabile svuotamento della efficacia della tutela e, talvolta, hanno scoraggiato l’uso del canale giudiziario impedendo il pieno dispiegarsi della spinta al cambiamento del sistema.
Queste situazioni, la difficoltà a far conoscere all’opinione pubblica i buoni risultati ottenuti in alcune realtà (dalla continua diminuzione delle pendenze, nell’ordine del 10% annuo, che vi è stata in alcuni dei più importanti uffici giudiziari italiani, al sostanziale esaurimento delle cause trasmesse alle sezioni stralcio, ai successi di alcune esperienze-pilota in materia esecutiva), la tendenza di alcuni interlocutori a negare anche questi limitati risultati, hanno lasciato sostanzialmente inalterata la diffusa percezione della incapacità della giurisdizione civile di rispondere alla domanda di giustizia che le viene rivolta.
E’ stato facile, così, far leva su tale difficoltà di comunicazione e sulla indubbia circostanza che l’obiettivo di dare tempestività ed efficienza al sistema della giustizia civile è ben lontano dall’essere realizzato per negare il sostegno indispensabile affinché i risultati ottenuti divenissero diffusi e duraturi (con la bizzarra considerazione che non si intendono iniettare nuove risorse in un sistema che non funziona, senza considerare che il sistema non funziona anche per la mancanza di risorse) e, contemporaneamente, per prospettare soluzioni "miracolistiche", come molte indicate dalla c.d. Commissione Vaccarella, che è dubbio possano rendere il sistema più efficiente ma, certamente, attraverso la ridefinizione del ruolo del giudice e delle parti, ridisegnano il quadro ordinamentale rendendolo omogeneo a quel modello sociale ed istituzionale "neoassolutista", fondato sui rapporti di forza tra le parti e su una logica di prevalenza del più forte o, magari, del più bravo, al quale si faceva riferimento all’inizio.
Nelle tesi predisposte in vista di questo congresso si è evidenziato il rischio concreto che il modello processuale proposto dalla commissione comporti l’affermazione di un giudice burocrate e trasformi la giurisdizione "da luogo di realizzazione dei diritti a macchina di ingiustizie"; a ciò deve aggiungersi che alla giurisdizione civile non si può attribuire solo il ruolo di definizione delle controversie intersoggettive ma si deve riconoscere una funzione propulsiva in vista della realizzazione dell’eguaglianza sostanziale, com’è espressa nel secondo comma dell’art. 3 della nostra Costituzione e che tale funzione è negata da un sistema processuale che esclude l’intervento del giudice nella fase di determinazione dell’oggetto del giudizio, del thema decidendum e del thema probandum.
Ed è ancora il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione ad indicarci, per l’immediato futuro, la nostra nuova "scelta di campo" che passa dall’ampliamento, dalla ridefinizione e dalla affermazione di un catalogo più ampio di diritti, resa indispensabile non solo per i giudici, ma, più in generale, per un ceto di giuristi competenti, determinati ed imparziali da una "questione sociale" che va qualificandosi, in tutto il modo occidentale, in termini di esclusione e di nuove povertà.
E dobbiamo ribadire "testardamente" che solo una strategia complessiva che preveda, oltre ad una ridefinizione del modello organizzativo e ad una razionalizzazione del modello processuale, anche interventi su mezzi e strutture, con un adeguato impegno economico, può consentire di adeguare la giustizia civile in Italia alle necessità di uno Stato moderno e civile ed ai principi della Costituzione.
Sono questi i terreni sui quale nei prossimi mesi dovremo cercare il confronto non solo con l’avvocatura (che comincia a mostrare insofferenza per la scelta governativa di trascurare interventi realmente idonei a ridare efficacia al sistema) e con il personale amministrativo, sul modello delineato dagli Osservatori sulla Giustizia civile, ma anche con il mondo accademico ( i cui "fermenti" hanno costituito una delle importanti novità di questi ultimi mesi) e, più in generale, con i soggetti che, nella società, nelle istituzioni, nel mondo del lavoro, della cultura, delle professioni, nelle singole realtà territoriali, riconoscono la centralità della tutela dei valori costituzionali e dei diritti dei cittadini.
Gennaio 2003
*L'articolo riproduce l'intervento dell'autore al XIV Congresso Nazionale di Magistratura Democratica.
Omissisa
cura di magistratura democratica romana
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