Il giorno della memoria*

di Giancarlo Scarpari

Il 27/1/45 l’esercito sovietico entrava nel campo di concentramento di Auschwitz, uno dei primi centri di sterminio ad essere attivato dai nazisti, l’ultimo ad essere abbandonato durante la precipitosa ritirata.

Ricordare quel giorno significa riflettere sul senso e le motivazioni di una guerra scatenata da nazisti e fascisti per creare un "ordine nuovo", basato su un’asserita "superiorità razziale"; riflettere sul fatto che la "soluzione finale" del problema ebraico non fu una "variabile impazzita", né il frutto della "follia" di pochi, ma un esito conseguente di quelle premesse; e che la "novità" di quella guerra fu proprio lo sterminio pianificato di un popolo, con metodi e forme che il lager di Auschwitz avrebbe, poi, semplicemente "rivelato".

Da parte dei paesi dell’Alleanza democratica, che, sin dalla fine del 42, sapevano, anche ufficialmente, che quel piano era ormai in via di avanzata attuazione, fu fatto allora tutto il possibile per interrompere quella strage annunciata, per impedirne le tappe successive? E prima ancora, che cosa avevano fatto per fronteggiare il crescere vertiginoso della macchina da guerra tedesca ed la politica razzista del nazi-fascismo, pubblicamente dichiarata e propagandata in Europa?

Queste domande, come si sa, sono rimaste in gran parte senza risposta: molti Stati democratici si sono auto-assolti, evitando di interrogarsi sui propri comportamenti di allora, ma esibendo il contributo, successivamente prestato, alla crescita ed al consolidarsi del nuovo Stato di Israele; la stessa Chiesa Cattolica ha opposto, per decenni, un muro di silenzio attorno all’operato del suo Pontefice in quegli anni bui, evidenziando solo gli aiuti offerti, durante la guerra, a singoli ebrei da vari istituti cattolici e da molti sacerdoti.

Ma le domande che riguardavano lo Stato italiano erano ben altrimenti numerose e inquietanti, perché si rivolgevano a quel paese che, a differenza degli altri, col fascismo monarchico, prima e con quello repubblicano, poi, aveva dato, per anni, un contributo diretto ed autonomo alla persecuzione degli ebrei e, da ultimo, anche alla loro concreta eliminazione fisica.

Le leggi razziali emanate nel 38, la eliminazione progressiva dei diritti degli ebrei, la confisca dei loro patrimoni, e infine, con la RSI, gli attentati alla loro stessa vita, costituiscono le tappe di un percorso previsto, all’inizio, come "circoscritto" e "moderato", ma che presto, per la "scelta di campo" adottata, divenne incontrollabile e devastante.

Non si trattò "solo" di una vicenda di lavori perduti, di scuole non frequentate, di patrimoni confiscati; ben presto, dopo la "dichiarazione di guerra" proclamata contro i "nemici" ebrei dal "manifesto programmatico" di Verona, iniziarono gli arresti, gli internamenti, le deportazioni nei lager.

Italiani erano coloro che provvedevano a dare la caccia agli ebrei da rinchiudere nei centri sorti in varie parti della penisola; italiani erano i delatori che fornivano indirizzi e indicazioni alle varie forze di polizia; ed italiana era l’amministrazione da cui dipendeva il campo "strutturato" di Fossoli, ove confluivano gli internati nelle varie province e da cui partivano i convogli per Auschwitz e per Bergen Belsen; e sempre in Italia, a Trieste, si trovava la Risiera di San Sabba, divenuto luogo di deportazione e di morte anche per ebrei italiani e per quelli arrestati dai tedeschi lungo il litorale adriatico .

Per questo Auschwitz è un luogo che ci riguarda direttamente.

Le leggi del 38 non prevedevano la soluzione finale e lo sterminio; ma ne creavano le premesse, considerando gli ariani una razza superiore e gli ebrei una sottospecie, di questi ultimi preparavano l’allontanamento, l’esilio, la sparizione, al limite, l’eliminazione.

Nella guerra d’aggressione, alla quale il governo italiano partecipò schierandosi accanto al più forte alleato, l’ideologia razzista finì per assumere un ruolo di primo piano: la logica del conflitto e quella dell’alleanza, travolsero, ben presto, iniziali distinguo e differenziazioni; la successiva sudditanza alla Germania, poi, col precipitare degli eventi, determinò l’accelerazione dell’intero processo e così le scelte razziste del fascismo si posero al servizio della soluzione finale voluta dalla Germania.

Questa la politica dei governi guidati da Mussolini: quando scoppiò la tragedia, nella società civile si contrapposero "i soccorritori attivi, i caritatevoli, i solidali, da un lato e i delatori , gli acquiescenti, i noncuranti", dall’altro; a livello militare, una minoranza attiva oppose alla guerra di aggressione, all’ occupazione nazista ed al governo fascista del Nord una guerra di liberazione, con una netta ripulsa della deriva razzista, documentata dalla stampa clandestina del Partito d’Azione e da quella del partito comunista, già a partire dall’autunno del 43.(1)

Bene: il giorno della memoria avrebbe dovuto essere occasione per guardare alla storia, a questa storia, con una riflessione meditata su quei nodi irrisolti, sull’intreccio che allora si creò tra ideologia razzista, promessa di un ordine nuovo e guerra d’aggressione e sugli esiti rovinosi di quell’avventura.

Certo con alcuni imbarazzanti compagni di strada e di governo, sempre in difficoltà quando si parla di razzismo e di fascismo, l’impresa non era facile per il Presidente del Consiglio: ma il breve messaggio televisivo con cui Berlusconi ha inteso ricordare questo giorno è andato al di là delle pur pessimistiche previsioni.

"Il 900 sarà ricordato per gli orrori e per le sofferenze inferte agli uomini dai due totalitarismi: quello nazista e quello comunista" (2), questo il filo conduttore dell’intervento del premier: nel ricordo sparisce la guerra d’aggressione scatenata dai paesi dell’Asse; scompaiono gli attori concreti di quella tragedia e nel cielo delle ideologie compare solo il totalitarismo nazista (accomunato a quello comunista in modo infelice, visti i venti milioni di morti subiti dall’URSS nella lotta di resistenza all’invasore nazista); nessun accenno viene fatto, invece, al totalitarismo fascista, che così esce dalla scena del 900, e da questa guerra razzista, senza neppure una menzione di contorno, quasi fosse rimasto del tutto estraneo a quei tragici fatti.

Ma con la fine della guerra, ricorda il Presidente del Consiglio, cominciò anche il periodo della costruzione della democrazia nel nostro paese: a tale proposito, un riconoscimento, magari rituale, ma doveroso, sembrava spettare a quelle forze che si erano battute per costruirla, a caro prezzo, prima, tra difficoltà e resistenze, poi: al movimento partigiano, innanzitutto, quindi ai gruppi e ai partiti antifascisti che elaborarono e sottoscrissero il patto costituzionale, punto di riferimento costante per le conquiste democratiche successive; ma Berlusconi non si è soffermato su queste vicende interne, ricordando, esclusivamente, "il soccorso" che alla nuova Italia fu dato "dalla grande democrazia americana e dal sacrificio di molte sue giovani vite": se prima erano state occultate le colpe del fascismo (e le si erano addossate tutte ai nazisti), ora venivano sottaciuti i meriti dell’antifascismo (ed esaltati solo quelli dell’alleato americano).

E l’antisemitismo? Silenzio assoluto su quello di ieri, un rapido accenno a quello di oggi, che, "ancora si manifesta in molte parti della terra", soprattutto nei confronti dello Stato di Israele e delle forze politiche che lo governano.

Una meditata riflessione sul passato, in questo giorno particolare, non sembra interessare più di tanto il Presidente del Consiglio, che lascia ad altri il compito di ricostruire i percorsi di una "storia (finalmente) condivisa": il giorno della memoria può invece tornar utile per guardare, con occhi nuovi, il presente.

Così il messaggio si avvia alla conclusione: "Ancora una volta la scelta tra la pace e la guerra è nelle mani di chi nega la libertà alla sua gente e attenta alla convivenza pacifica tra i popoli. Noi siamo a favore della pace, ma non possiamo diventare corresponsabili di una resa di fronte a chi insidia la nostra sicurezza, la nostra libertà e la nostra democrazia".

Sparisce definitivamente Hitler e compare Saddam; si parla di pace, ma si pensa alla guerra: la memoria rimane, ma solo per giustificare il presente.

Evocare, sia pure con gravi omissioni, la persecuzione e lo sterminio degli ebrei di allora, consente, oggi, di accusare di antisemitismo tutti coloro che criticano la politica di Sharon nei confronti dei palestinesi; ridurre, poi, il razzismo all’ antisemitismo permette di ignorare le diverse forme in cui l’odierno razzismo si manifesta nei confronti di altri popoli ed altre genti (e ciò anche nella "fortezza Europa" e in alcuni partiti di governo).

Richiamare alla memoria i militari americani che, in modo determinante, liberarono l’Italia dall’occupazione nazista nel momento in cui altri militari americani stanno muovendo verso l'Iraq, significa poi non solo assimilare la potenza della macchina bellica nazista a quella del già sconfitto esercito di Saddam, ma, di più, sovrapporre l’immagine dell’America di Roosevelt a quella di Bush, divaricatesi sempre più negli anni (e per misurarne la distanza basterebbe considerare come "la libertà dal bisogno" invocata dal primo in favore dei diseredati abbia ceduto il posto alla "libertà dalle tasse" introdotta dal secondo in favore dei ceti privilegiati).

Tuttavia, questa grossolana operazione ideologica, propagandata quotidianamente dai media, viene ribadita con forza anche in questa occasione "solenne", perché è perfettamente funzionale alle scelte già operate da questo governo e, soprattutto, a quelle che va maturando in questi giorni, in previsione della guerra già dichiarata dagli angloamericani al regime di Saddam, con il convinto plauso dello stato di Israele.

L’adesione incondizionata alla politica del governo degli USA, da sempre nel dna di questo governo, è ora del resto diventata ufficiale con il "documento degli 8", suggerito dal "Wall Street Journal" e sottoscritto, tra gli altri, dai premier di Gran Bretagna, Italia e Spagna, nel quale, dividendo in due l’Europa, si appoggiano le scelte strategiche di Bush e si ribadisce che "oggi, come non mai, il legame transatlantico è una garanzia della nostra libertà" (cfr. "La Repubblica",.30/1/2003).

Due giorni prima di firmare questo documento, Berlusconi, l’abbiamo visto, aveva ricordato i soldati americani morti in guerra per l’Italia ed una settimana dopo, reduce dall’incontro con Bush, aveva espresso la propria gratitudine persino ai "contribuenti americani", grazie ai quali gli italiani avevano vissuto in pace per sessant’anni (cfr. "La Repubblica", 5/2/2003); negli stessi giorni Powell dichiarava di avere "prove inoppugnabili" contro Saddam, Bush sosteneva che il tempo concesso al dittatore era praticamente finito e il ministro Martino "concedeva" l’utilizzo delle basi italiane agli aerei americani in transito verso l’Iraq (nei giorni successivi avrebbe "concesso" anche le strade, le ferrovie e altre infrastrutture per il passaggio di uomini e mezzi).

A questo punto l’adesione ad una politica è diventata adesione ad una guerra, ad un attacco contro l’Iraq, dichiarato da mesi e solo ritardato in attesa di un completo dispiegamento delle forze militari e dell’avallo dell’ONU.

Sulla natura di questa guerra si è preferito sorvolare e le critiche argomentate di alcuni giuristi (3), che l’hanno descritta come giuridicamente illecita e moralmente ingiustificabile sono rimaste prive di risposta.

In realtà è il termine stesso di guerra che appare in questo caso improprio, visto che quello che si prospetta è l’uccisione di un numero indefinito di civili e militari, anche a mezzo di ordigni nucleari, da parte di uno Stato che possiede una forza bellica "ineguagliabile e senza precedenti", che non consente, per l’abissale divario tecnologico esistente tra aggressori ed aggrediti, alcuna possibilità di resistenza.

Già l’esibizione di questo imponente apparato militare, il suo lento, ma inarrestabile, dispiegamento nella "zona delle operazioni", quotidianamente illustrato dalle televisioni di tutto il mondo, ha certo avuto un calcolato effetto terrorizzante per i destinatari designati e per quelli che sanno d’essere in lista d’attesa; se a ciò si aggiunga che in questo conflitto, tendenzialmente, devono morire solo gli aggrediti, come insegnano la prima guerra del Golfo e quella recente dell’Afghanistan, si comprende bene come poco abbia a vedere questa "guerra" con quelle scatenate nel secolo scorso, almeno fino alle soglie degli anni 90.

Questa è dunque il conflitto che il governo italiano è chiamati a legittimare, con o senza la sua presenza attiva, ma con adesioni formali e voto parlamentare, nei prossimi giorni.

Non sarà l’ultimo.

Questa volta l’obiettivo è l’Iraq: non perché abbia quelle armi di distruzioni di massa che gli ispettori sinora non hanno trovato (ma che avendole ricevute a suo tempo anche dagli USA è possibile abbia in parte conservato), dato che molti altri stati le possiedono, ma non per questo sono sottoposti ad una simile aggressione; né perché abbia violato le risoluzioni dell’ONU, visto che la lista dei disobbedienti è assai lunga, con la Turchia e lo Stato di Israele in testa; ma perché quel paese, essendo il secondo produttore di petrolio del mondo, rientra nelle zone di interesse strategico per gli USA e per la loro affaticata economia; e, non a caso, Paul Wolfowitz e John Bolton, quando ancora erano semplici cittadini, un anno prima dell’11 settembre, avevano individuato l’Iraq, l’Iran e la Corea del Nord, quali obiettivi a medio termine oggetto di possibili attacchi armati da parte degli USA (4).

E a proposito di petrolio, lo stesso John Bolton, divenuto nel frattempo sottosegretario di stato dell’amministrazione Bush, ha dichiarato, ad un interessato Sharon, che il prossimo obbiettivo potrebbe essere proprio l’Iran; aggiungendo che la Siria, per non finire tra i prossimi obiettivi, dovrebbe, nel frattempo, dimostrare di sapersi comportare in modo degno di un membro della comunità internazionale, etc, etc. (cfr. "La Repubblica" 18/2/2003).

Questa è dunque la prospettiva – o il baratro – che si presenta, nel febbraio 2003, a chi intende aderire, con maggiore o minore entusiasmo, alla guerra contro Saddam.

Questa infatti non è altro che la fase iniziale di quella "guerra" non solo annunciata, ma addirittura teorizzata dal documento sulla "Strategia della sicurezza nazionale" del 17 settembre 2002 (5), nel quale l’amministrazione americana dichiara al mondo che è giunto il momento di colpire gli Stati-canaglia che "odiano gli Stati Uniti e tutto ciò che essi difendono", in particolare "il libero scambio", sbrigativamente indicato come "la vera libertà"(6); di qui la necessità di scendere in campo a difesa del "popolo e degli interessi" degli USA., anche a costo di "combattere su molti fronti contro un nemico particolarmente sfuggente, per un lungo periodo di tempo", perché "la guerra contro i terroristi è un’azione globale di durata indefinibile".

In questo contesto gli americani non esiteranno ad "esercitare il diritto all’autodifesa con azioni preventive", condividendo il principio secondo cui "la miglior difesa è un buon attacco".

Per far questo avranno "bisogno di basi e stazioni all’interno e al di fuori dell’Europa occidentale e dell’Asia nord orientale, così come di accordi per l’accesso temporaneo per il dispiegamento a lungo termine delle forze statunitensi".

Certo, per condurre questa guerra di lunga durata si cercherà l’accordo di "amici e partner", ma – avvertono gli autori del documento – saremo "pronti ad agire da soli quando i nostri interessi e le nostre sole responsabilità lo richiederanno…Faremo poi i passi necessari per garantire che i nostri sforzi…non siano indeboliti dal potenziale investigativo, di indagine o di azione penale del Tribunale Internazionale, la cui giurisdizione non si estende agli americani e che noi non accettiamo".

Con questo il diritto internazionale, già demolito nel precedente passato (con la denuncia unilaterale dei trattati, con le torture di Guantanamo, etc.)(7) viene ora definitivamente archiviato, dato che, sulla base di questi nuovi principi, lo Stato più forte rivendica il potere di scatenare una guerra preventiva a difesa dei suoi interessi, decidendo volta per volta chi, quando e come attaccare; gli organismi internazionali, già sofferenti in passato, vengono ora confinati in un ruolo subalterno, elogiati quando eseguono, squalificati e definiti irrilevanti se solo "resistono"; quanto ai singoli Stati, questi vengono considerati "amici e partner", se si accodano alla strategia americana "senza se e senza ma" (come i "satelliti"di un tempo), ma finiscono nella lista dei "paurosi" o dei "vigliacchi", se solo si permettono di esprimere dubbi o avanzare riserve.

Sarà che il governo degli Stati Uniti si sente investito –come dice il documento – della missione di portare la libertà (e il libero scambio) nel mondo, anche con una guerra preventiva di lunga durata, ma questa civiltà superiore, che decide chi è amico e chi nemico, che vuole ordinare il mondo secondo i suoi valori anche grazie al potere delle armi, mentre da un lato terrorizza i numerosi Stati canaglia, lancia, dall’altro, all’Occidente, un messaggio inquietante, che sembra non sia stato inteso nella sua pur esplicita gravità da molti dei governi europei.

Non altrettanto può dirsi per i popoli del "vecchio continente", che nella stragrande maggioranza hanno dimostrato di rifiutare questa avventura di guerra e che sono scesi nelle strade per gridarlo al mondo.

Bush, di fronte alle proteste pacifiche di oltre cento milioni di persone, ha già detto che la cosa non ha alcuna importanza: ha già programmato l’invasione, i suoi costi e, soprattutto, i suoi benefici.

Ma l’Europa, così spesso invocata, e l’Italia, i cui rappresentanti ricordano ogni giorno di essere stati eletti dal popolo, chi ascolteranno?

Giancarlo Scarpari

Febbraio 2003


*L'articolo, tratto dalla rivista "Il Ponte", è stato scritto nel febbraio scorso prima dello scoppio della guerra, ma rimane di estrema attualità anche per le facili previsioni sulle conseguenze del conflitto, che si stanno realizzando (vedi ad esempio le minacce alla Siria e all'Iran di questi giorni).


NOTE

  1. M. Sarfatti, "Gli ebrei nell’Italia fascista", Torino, Einaudi, 2000, pag. 280.
  2. Il messaggio di Berlusconi, irradiato da varie televisioni, è ora reperibile in "Inform" n. 17, 27/1/2003.
  3. Cfr. "Una guerra contro il diritto", documento redatto da giuristi di varie nazionalità, pubblicato da "Il Manifesto", 6/2/2003.
  4. Il documento indicato nel testo è il "Rebuilding America’s Defenses, redatto nel 2000 e citato da Jay Bookman, "Il vero obiettivo del Presidente in Iraq", in "Quale Stato", n.3-4 2002, pagg.237 e segg.
  5. "La strategia della sicurezza nazionale" è pubblicata in calce al libro di L.Annunziata, "No. La seconda guerra irachena e i dubbi dell’Occidente", Roma, Donzelli, 2002.
  6. Il testo del documento su questo punto è particolarmente significativo e pare opportuno riportarlo per intero: "Il concetto di libero scambio nacque come principio morale prima ancora di diventare un fondamento dell’economia. Se sei in grado di fare qualcosa che gli altri vogliono, dovresti essere in grado di venderglielo. Se gli altri fanno qualcosa che tu vuoi, dovresti cercare di comprarlo. Questa è la vera libertà…"
  7. Sempre nel documento suindicato, gli Stati canaglia sono indicati come quelli "che non mostrano alcun rispetto per il diritto internazionale, minacciano i loro vicini e violano palesemente i trattati internazionali che pure hanno sottoscritto"

 

 

 

 

 

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