Il giudizio civile d'appello*

di Aldo Cavallo

Nel gran cantiere della giustizia, a me sembra che vi sia, almeno attualmente, un grande malato: il giudizio di appello; malato al quale, credo, si presti attenzione assai limitata, o comunque insufficiente.

Se la disciplina dell’appello ha subito modifiche significative con la l. n° 353 del 1990, credo di non essere ingeneroso se affermo che tali modifiche hanno forse aggravato la situazione più che migliorarla.

Accennerò in maniera ovviamente sintetica ed incompleta solo ad alcuni di quelli che a me sembrano i più macroscopici profili di criticità dell’odierno giudizio di appello.

E’ intanto singolare a mio avviso che la collegialità, che è stata ritenuta un lusso che il processo italiano non si può concedere in primo grado, trionfi totalmente in appello.

Personalmente non m’iscrivo tra i detrattori della collegialità, che ove funzioni correttamente, mediante uno scambio di idee ed esperienze, costituisce anzi, come ritenuto da molti, un valore, una sicura garanzia per le parti.

Non vi è dubbio però che la "collegialità spinta" concepita dal legislatore della riforma, almeno per i numeri di cause pendenti in grado di appello nel nostro distretto, rende attualmente le udienze civili faticosamente governabili; la situazione, credetemi, è veramente ai limiti del collasso e l’attuale modello di udienza "nuovo rito" si caratterizza comunque come un sistema certamente macchinoso e diseconomico, sicché sarebbe forse auspicabile una sia pur parziale reintroduzione della figura del consigliere istruttore, quanto meno come dominus della scansione temporale del processo (rinvii, precisazione delle conclusioni, fissazione dell’udienza di discussione), fatto salvo il principio della collegialità relativamente all’eventuale [e per altro non infrequente] espletamento di nuovi mezzi di prova espressione del principio d’immediatezza.

E’ vero che la scelta della "collegialità spinta" è figlia della regola del tutto e subito ed appare coerente con una visione dell’appello come revisio prioris istantiae e come giudizio tendenzialmente di immediata definizione anche in considerazione del divieto di nuove domande, eccezioni e mezzi di prova, ma vi è da chiedersi se un legislatore guidato dalla logica delle riforme a costo zero e che non risolve gravi nodi strutturali (accesso alla magistratura, revisione delle circoscrizioni giudiziarie, istituzione di nuovi corti d’appello) sia consapevole delle conseguente a dir poco perniciose che tali scelte processuali producono sul piano organizzativo e che portano molti operatori – che sarebbe troppo semplicistico bollare come conservatori nostalgici - a rimpiangere, come ricordavo, la figura del consigliere istruttore.

La stessa premessa sopra evocata del giudizio di appello come revisio prioris istantiae è tutt’altro che pacifica e rappresenta tutt’ora questione discussa, specie con riferimento al regime delle produzioni documentali, che parte della dottrina e della giurisprudenza di merito sembrerebbe ritenere vietata.

In particolare il legislatore non sembra aver adeguatamente considerato che l’aver riconosciuto immediata efficacia esecutiva ex lege a tutte le sentenze di primo grado [anche quelle di accertamento e costitutive ?] e l’aver conseguentemente novellato l’art. 337 c.p.c. in tema di sospensione dell’esecuzione delle sentenze di primo grado, può avere intanto indotto ad un fenomeno di accellerazione del gravame, che certamente non favorisce l’esperimento anche in appello di un eventuale, auspicabile bonario componimento della lite.

Qualche perplessità può sollevare in particolare l’adozione, per la sospensione dell’esecuzione della sentenza di primo grado, di un sistema diverso da quello previsto dall’art. 337 c.p.c., nel quale l’istanza inibitoria – il cui accoglimento richiede la semplice ricorrenza di gravi motivi e non esige il grave ed irreparabile pregiudizio - va presentata presso il giudice ad quem (cioè lo stesso giudice del gravame) e non presso il giudice a quo.

E’ vero che un tale meccanismo può offrire, in via generale ed astratta, maggiori garanzie di imparzialità alla parte soccombente, ma la sua adozione presenta tuttavia anche alcuni aspetti negativi.

Intanto la presentazione dell’istanza inibitoria al giudice a quo – in una dialettica processuale corretta ed ordinata (mi verrebbe da dire fisiologica) e non necessariamente antagonista e polemica - potrebbe assolvere un valore "didattico e formativo" per il giudice a quo, che troppo spesso ignora la sorte dei suoi provvedimenti.

L’istanza verrebbe inoltre presentata ad un giudice che conosce già la controversia e che sarebbe chiamato a pronunciarsi, oltretutto, non sull’esattezza della sua decisione ma sull’opportunità che la stessa sia immediatamente esecutiva nonostante il gravame proposto dalla parte soccombente.

L’attuale sistema inoltre, se indiscutibilmente più garantista, non favorisce certamente una rapida definizione del giudizio, e richiede al giudice di appello un attività di studio sia pur sommario del processo, che non si traduce però in un provvedimento che definisce la lite, in palese violazione dei più elementari principi in materia di efficienza del lavoro (ottiimizzazione dei risultati)

Se si ritiene il giudizio di appello necessario ed insopprimibile, se si accrescono anzi le competenze delle corti di appello (legge Pinto, provvedimenti antitrust, ecc.) i cui normali carichi di lavoro, aumentando il numero delle decisioni di primo grado impugnabili per effetto dell’introduzione del giudice unico di prima istanza, già sono in crescita esponenziale, è assolutamente irresponsabile non intervenire vuoi con provvedimenti organizzativi, vuoi con interventi legislativi ben calibrati di non trascurabile valenza accelleratoria dei tempi di definizione della lite.

Non ignoro che proprio il presidente dei nostri lavori, con la sua consueta lucidità ed autorevolezza, già nel dicembre 1997 in un suo articolo su Documenti Giustizia, osservava che la centralità della politica comporta taluni limiti alla giurisdizione, come valore tipico degli equilibri istituzionali, sottolineando che dall’accettazione di questi limiti deriva, per i magistrati " non soltanto la rinunzia ad ogni innaturale protagonismo, ma anche l’esigenza di evitare ogni forma di rissosa e improduttiva polemica che li faccia apparire parte specifica nella lotta politica, con la conseguente necessità di non trasferire le dialettiche istituzionali nel rapporto con l’utenza di giustizia e con i media" e che soprattutto "i magistrati devono guardarsi dalla suggestione di rivendicare all’ordine giudiziario una innaturale soggettività politica, per rimanere gelosi protagonisti della giurisdizione". E’ però altresì vero, come ricordava sempre il presidente Scotti, che in ogni caso è sul crinale dell’efficienza che la magistratura giocherà la sua carta decisiva. Troppo spesso, scriveva sempre nell’articolo, la giustizia italiana genera sofferenze invece di dare speranze e conforto, perché la sua funzione di forza stabilizzante e riparatrice, di garanzia e di equilibrio, troppo spesso è smarrita nell’inefficienza. E il cittadino che invano attende giustizia non è tenuto a sapere di chi sia la colpa: la riversa comunque sui suoi giudici, che quella giustizia non gli danno presto e bene.

Ma se tutto ciò è vero, se il cittadino riversa fatalmente sul giudice la colpa per quella giustizia che non gli è data "presto e bene", ritengo non costituisca allora un’indebita invasione di campo di un modesto giudice di appello che non si rassegna all’indifferenza, segnalare alcuni problemi e disfunzioni del giudizio di secondo grado e dei possibili rimedi per rendere il cittadino un po’ meno insoddisfatto dei suoi giudici, anche perché //per dirla con Cechov [Una storia noiosa] l’indifferenza è la paralisi dell’anima, è una morte prematura// oppure: la tirannia d’un principe non è più rovinosa per uno stato di quanto sia per una repubblica l’indifferenza per il bene comune [Montesquieu, Considerazioni intorno alle cause della grandezza e dei Romani e della loro decadenza]// il peggiore peccato contro i nostri simili non è l’odio ma l’indifferenza, questa è l’essenza dell’inumanità [Shaw, Il discepolo del diavolo]


*L'articolo riproduce l'intervento dell'autore al Convegno del 20.6.2002 "Nuove proposte per il processo civile".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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