Qualche spunto per una discussione

(che forse può essere utile, in vista del Congresso)*

di Ignazio Juan Patrone

 1. Leggendo le bozze di tesi che iniziano a circolare, tutti hanno la tentazione di criticare il progetto, suggerendo di inserire o eliminare o meglio sottolineare questo e quell’argomento. Ed allora mi lancio anch’io nella tenzone, sperando di fare cosa utile ma, soprattutto, per l’egoistico fine di dare un ordine alle mie idee.

Mi pare che se un tema dovrebbe fare in qualche modo da sfondo a tutte le tesi, esso è quello della posizione e del ruolo della giurisdizione (e perciò, come riflesso, "anche" della posizione della magistratura) all’interno del modello di stato che si va delineando, in Italia e in Europa; forse potrebbe essere considerato come una premessa teorica generale, sulla quale poi fondare le tesi su argomenti particolari, anche perché ben difficilmente esso potrebbe essere compresso in due o tre pagine.

Quale base del ragionamento parto dalle analisi che, con icastica capacità di sintesi, svolge Luigi Ferrajoli nel suo saggio contenuto nel bel libro "Lo Stato di diritto", a cura di Danilo Zolo; Luigi parte dalla constatazione della crisi (irreversibile?) sia dello Stato legislativo di diritto, sia dello Stato costituzionale sociale di diritto, e cioè delle due principali esperienze di costruzione della legalità democratica che, nelle esperienze occidentali, abbiamo ereditato dal ‘900; la prima legata ai modelli di Costituzione –procedimento, regolativi dei rapporti classici fra i poteri dello Stato e delle regole sulla produzione normativa; la seconda, propria all’esperienza italiana per come si è concretamente sviluppata (almeno a partire dalla riscoperta della Costituzione della seconda metà degli anni ’50, ché l’esito della disputa non era allora affatto scontata), secondo la quale una Costituzione, oltre alle "regole", pone dei "fini" all’azione dei pubblici poteri.

Non voglio tediarvi oltre (perché Luigi è assai più bravo di me: leggetelo), ma la crisi è evidente nel momento in cui la politica, intesa in senso stretto di rappresentanza dei cittadini attraverso il voto, ha cercato di scaricare la sua crisi di idee, modelli, identità, utilizzando la parola d’ordine del "cambiare le regole", considerate, comunque, "vecchie"; facendo una semplificazione che mi perdonerete, penso che l’introduzione sciagurata di un sistema elettorale maggioritario, per di più imperfetto e pasticciato, e la Bicamerale, siano state l’apoteosi della crisi della politica come progetto generale ed il trionfo della politica ridotta a semplice tecnica normativa ("dobbiamo essere messi in condizione di governare, con le regole attuali non si può, ergo, cambiamo le regole"), una situazione che perdura e che non sembra destinata a finire rapidamente.

All’interno di questo discorrere di quelle che vengono considerata mere "tecniche" politiche e costituzionali (una Costituzione che viene confinata a sola regola per il procedimento normativo), da un lato si è smarrito il senso della politica in senso alto, dall’altro è iniziata a maturare l’idea che esista un primato della rappresentanza come tale e che tutto il resto debba, in un modo o nell’altro, obbedire alle regole della maggioranza elettorale; da lì la crisi della giurisdizione, almeno come la hanno intesa, in Italia dal Congresso ANM di Gardone (1964) in poi, la migliore dottrina e la magistratura culturalmente consapevole del suo ruolo. E quindi una giurisdizione che non si limita ad applicare acriticamente le regole stabilite dalla politica secondo fini cangianti e volatili cui diligentemente si adegua, condividendoli (l’immagine del "giudice bocca della legge" di cui, ad es., parlò Borrè nel suo bell’intervento al congresso di Napoli 1996), ma che crede che l’ordinamento non esprima solo una sua tecnicità (che oltretutto è andata smarrita, col venir meno dei pilastri teorici della "certezza del diritto", della autosufficienza della tecnica giuridica, della unicità dell’ordinamento con la piramide delle fonti), ma che cerca anche i fini, e i principi a questi fini correlati, superiori, cui anche il legislatore deve conformarsi a pena dell’illegittimità della norma.

Tutto questo, questa acquisizione culturale che tanta fatica è costata e che ha pervaso il "modello" di giurisdizione e di magistrato che abbiamo conosciuto, sta, ovviamente, al di fuori dello schema neo liberale; essa non è più compatibile con la politica maggioritaria, nella quale vale la regola: "prendo il potere e faccio quel che voglio": faccio qualche esempio, che forse varrebbe la pena di riprendere; quando i giudici di Milano attaccarono lo schema processuale della detenzione degli stranieri nei centri (con ordinanze certamente non "illegittime" o rappresentative di una volontà di indebita supplenza, ché il controllo giurisdizionale sull’habeas corpus è uno dei principi liberali più classici, almeno da trecento anni), essi vennero violentemente attaccati, anche e soprattutto dall’allora maggioranza di centro sinistra, perché avrebbero "scardinato" una legge "voluta dal Parlamento", rimettendo in discussione accordi politici evidentemente instabili; non mi interessa qui vedere se le ordinanze fossero o meno fondate (e la Corte, relatore Mezzanotte, quindi un liberale, disse che tanto infondate non erano, se fece un rigetto con interpretazione); mi interessa invece sottolineare lo schema del ragionamento (e del non celato fastidio) dei "politici" verso una forma di controllo di legalità propria dello Stato costituzionale, secondo uno schema che non era nuovo (tutti ricorderanno le sparate craxiane) ma che si esprimeva, questa volta, verso forme tipiche e non supplenti della giurisdizione, e che vedeva per una volta unito quasi tutto lo schieramento parlamentare; la legge votata non si tocca ! qui dunque non è solo "fastidio", ma ostilità verso il controllo e, di conseguenza, verso la Costituzione che lo consente, anzi lo impone.

Frutti avvelenati della Bicamerale (ma, più esattamente, del clima politico creatosi in Italia almeno dall’inizio degli anni ’80, con l’emergere della parola d’ordine della "governabilità") sono stati e continuano ad essere visibili nel dibattito politico parlamentare, nel quale ormai ogni riferimento alla Costituzione è un accessorio, se non un mero espediente per attuare una qualche forma di opposizione nelle aule parlamentari, e non un riferimento della azione politica. Da questo punto di vista il deputato di Gallipoli e il Cavaliere si assomigliano e dicono cose diverse ma fra loro compatibili perché fondate sullo stesso linguaggio; il primato della politica, inteso nel senso della insindacabilità degli atti di maggioranza, che si presumono sempre leciti. In questa logica ad essere stritolata non è solo (non è tanto) la magistratura, ma l’idea stessa di giurisdizione (credo che alcune sentenze dei TAR abbiano suscitato analoghe reazioni, ma andrebbe accertato con una analisi che oggi non sono in grado di fare se non provando con congetture) in uno Stato costituzionale di diritto, che si vuole relegata ad un compito di mera regolazione di singoli conflitti, un ruolo, anche qui, esclusivamente "tecnico", possibilmente conforme alle intenzioni del legislatore, inteso questo come entità storica determinata e riconoscibile nel "movente" dell’atto legislativo; in questo senso la mozione del Senato del dicembre 2001 sulle rogatorie è emblematica, e se è stata contestata dalla attuale minoranza, rispondeva in realtà alla stessa logica delle violente critiche di pochi mesi prima ai giudici civili di Milano, rei di dubitare, interpretando, della legittimità delle norme.

E qui si pone la questione dell'insofferenza verso tutte le forme di controllo di legalità; la Corte costituzionale dà troppe volte torto alle regioni? la si cambi! le autorità indipendenti sono troppo indipendenti? si mandi una circolare e si cambino i direttori ! e via discorrendo e proponendo cambiamenti delle regole: dalle leggi Bassanini (non Berlusconi !) che hanno attribuito incredibili competenze esclusive ai TAR, sino alla abolizione della omologazione degli atti delle società, ora "privatizzata" (vedi articoli di Panzani e di Rordorf su QG) e così via.

Scusate la lunghezza, non voglio scrivere qui il mio intervento congressuale, ma a me sembra che le modifiche siano state di fondo, che esse riguardino "anche" la magistratura, il processo, i giudici sottoposti ad attacchi feroci e francamente insostenibili, ma che soprattutto sia stato già modificato il quadro costituzionale, e che su questo occorra ragionare; la trasformazione è andata vanti nel comune sentire, ed ora della giurisdizione si tende a dire solo che è inefficiente, arbitraria (specie il PM), lenta ed invadente; alla complessità dei problemi si risponde con la semplificazione delle regole di soluzione dei conflitti (tranne sul cpp, ma qui il caso italiano è davvero singolare, a causa della circostanza che "il capo" è anche imputato), ma la complessità resta.

Ora, in questo quadro nel quale l’efficienza è diventata un bene in sé, quasi si trattasse di far le cause in fretta comunque ed in ogni caso, come lavora un collega entrato nell’ultimo decennio? quali sono i suoi punti di riferimento, ha ancora la stella polare della Costituzione o no? si vede come un impiegato dello stato addetto alla soluzione di controversie tra singoli privati o pensa che dal suo lavoro possa uscire un quid pluris in termini di tutela effettiva di un diritto? esaurisce il suo sapere nella applicazione di regole che spesso, oltretutto, fa fatica a trovare stante la complessità quantitativa e qualitativa delle fonti, incurante se con quelle regole decide il merito o solo come proseguire il processo? o ha presente che la giurisdizione deve tendere alla decisione di merito (principio tanto vecchio da essere stato sviluppato da Giuseppe Chiovenda) e che una decisione sul processo è una sconfitta dello jus dicere?

Guardando alle rimessione dei giudici alla Corte (sulle quali, se riesco, provo a fare un test statistico) dovrei dire che la mentalità "tecnica" sta prevalendo; sempre più spesso vengono impugnate normette e disposizioni regolative del procedere e non attributive di un diritto. A me piacerebbe che questa trasformazione, che è già avvenuta, stia sullo sfondo dei temi del nostro congresso, anche perché non ha senso parlare di efficienza se non sappiamo verso che cosa e per cosa.

Qui però dobbiamo provare a fare un sforzo non piccolo; passando dalla descrizione della crisi alla individuazione di possibili rimedi; non credo alla invocazione della classicità dello Stato costituzionale di diritto (come mi sembra faccia Ferrajoli), battaglia culturale meritoria ma insufficiente; ricordo alcune suggestioni dell’intervento di Cacciari a Venezia (che mentre lo ascoltavo mi diede un vago senso di fastidio, ma poi ripensandoci mi ha fatto spesso meditare); disse che eravamo "bravi" ma irrimediabilmente "vecchi", perché schierati sulla difensiva, culturale ed istituzionale; alcuni esempi che fece (vado a memoria) erano e restano poco convincenti, ad es. l’esaltazione della versione democratica del federalismo, cui io non credo e che mi è sempre sembrata un pasticcio; ma è vero che non ci si può limitare a difendere ciò che c’è di buono di quel che abbiamo ereditato dal costituzionalismo della seconda metà del ‘900, occorre un passo avanti; e qui secondo me c’è, anche, difficilmente confinabile in un paio di pagine, il tema della costituzionalizzazione dell’Unione europea, tema complesso sul quale oggi non vi tedio oltre, ma rappresentativo anch’esso della difficoltà di coniugare norme sul procedimento di formazione del diritto e norme attributive di diritto di rango superiore; ma di questo avremo occasione di parlare, meglio se con Ippolito, Bronzini e Cannella e gli altri componenti del c.d. "Gruppo Europa", avendo intrapreso con loro un percorso collettivo di ragionamento che mi sembra stia andando per il verso giusto.  

Cosa è questo nuovo costituzionalismo? verso quali lidi ci porterà una Costituzione europea (nella quale, inevitabilmente, ci saranno enunciati che non ci piaceranno)? Riusciamo a reggere un sistema delle fonti quale quello attuale, la cui complessità tende ad esaltare il ruolo del giudice ma, nel contempo, lo rende "scoperto" perché in qualche modo più "politico"? Sono solo alcune domande, ma me ne aspetto una valanga.

2. La partecipazione al Congresso dei c.d. esterni.

A me pare che, una volta decisa dal CN la modalità della presenza dei politici, non abbiamo esaurito la discussione; perché, nell’attuale disorientamento della politica che si svolge nelle istituzioni, mi sembra che fra quelli che vengono chiamati i movimenti, siano compresenti (a volte nella presenza fisica delle medesime persone, come cerchi non concentrici né di aree equivalenti, ma di volta in volta contrapposti) almeno tre diversi orientamenti sul piano della visione delle politiche sulla giustizia; a) l’area che, per comodità, chiamerò di Micromega; in buona parte presente tra "i girotondi", difende la Repubblica contro il conflitto di interessi, ha sicuramente al suo interno pulsioni giustizialiste, anche se ultimamente mi sembra che Flores abbia abbandonato almeno in apparenza alcune posizioni "alla Di Pietro"; questa area, in parte, intende il processo (penale) come uno dei luoghi della politica; (b) l’area no global, G8 a Genova e dintorni, divisa in due o tre aggregazioni; (b1) pacifica e non violenza, difesa strenua dei diritti dei cittadini più deboli (diciamo Lilliput, per intenderci) ; (b2) sociale, legata ai Cobas, a Rifondazione, a modelli di antagonismo più tradizionale; credo ad es. che Agnolotto si collochi in questa zona; (b3) disobbedienza ed accettazione anche dello scontro duro col potere (centro sociali organizzati, Casarini e Caruso); in mezzo a tutte queste aree ci stanno alcune organizzazioni che, nella crisi della sinistra, stanno mostrando una forte vitalità; mi riferisco all’ARCI ed alla CGIL, uniche organizzazioni di massa presenti a Genova, a Piazza San Giovanni, per la pace ed i diritti.

Viste anche alcune mie (numericamente limitate ma credo politicamente significative) esperienze recenti, credo che occorra uno sforzo di contatto con tutte queste aree, magari escludendo solo quelle più legate a logiche di scontro puro e semplice; non credo necessario dare la parola a tutti al congresso (sarebbe una Babele senza bussola), ma dico che prima del nostro appuntamento congressuale vorrei un confronto con tutti questi; lo so che alcuni storceranno il naso, ma non possiamo assolutamente lasciare che i magistrati guardino solo al loro ombelico (ordinamento giudiziario, processo civile e penale, inefficienze del governo) senza ragionare con soggetti esterni a noi e, oggi, in gran parte esterni ai partiti ed alle stesse organizzazioni tradizionali. Lo dico con franchezza, ma oggi sapere cosa ne pensano i DS della giustizia credo che sia un esercizio inutile e fachiristico; verranno a dire che non gli piace la Cirami, ma finito quell’argomento, il deserto o, peggio, possibili inciuci "tipo Bicamerale" sempre dietro l’angolo. Mi interessa molto invece avere presenti contraddizioni quali quella emersa il 14 settembre a San Giovanni, con una parte dei "Centomovimenti" che ha posto il problema di una giustizia penale ormai ultreselettiva nei beni tutelati e nelle modalità di esercizio della giurisdizione, guadagnandosi uno spazio (piccolo, certo) su carcere e pena che, visti i precedenti di Flores, non credevo possibile; così come mi interessa riprendere il discorso su cosa è stato il G8 a Genova e quale modello di rapporto autorità/libertà abbia disvelato.

Ma ora mi fermo, sperando in un cenno di attenzione. Scusate la lunghezza.

11.10.2002


*Il XIV Congresso Nazionale di Magistratura democratica si terrà dal 23 al 26 gennaio 2003. In vista di questo appuntamento Omissis propone una discussione sulle modalità e le prospettive del Congresso, partendo dagli spunti contenuti nello scritto di Patrone.

 

 

 

 

 

 

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