Immunità e/o impunità*

di Giancarlo Scarpari

 

Quando i Lords e i Comuni d’Inghilterra il 13/2/1689 stabilirono, nel "Bill" dei diritti, che "la libertà di parola, di discussione e di procedura in seno al Parlamento non (poteva) essere intralciata o messa in discussione in nessuna corte od altro luogo fuor che nel Parlamento stesso" era ancora vivo il ricordo di Jhon Eliot, imprigionato senza processo e rimasto in carcere sino alla morte, per aver parlato contro la Corona nell’esercizio del suo mandato parlamentare.

Quella storica statuizione sui diritti, intervenuta peraltro dopo una rivoluzione, l’uccisione del re e la cacciata degli Stuart, aveva posto la parola fine al contrasto violento tra il Parlamento e la Corona e trovato la sua giustificazione storica nell’esigenza di garantire l’autonomia e l’indipendenza dei rappresentanti di quei gruppi politici che, portatori di interessi contrastanti con quelli della monarchia, erano da sempre esposti agli attacchi ed alle prevaricazioni dei giudici dipendenti dalla Corona.

Quel principio, mentre chiudeva un’epoca, ne inaugurava al contempo un’altra, quella del moderno costituzionalismo: e trovava sistematica accoglienza nelle Carte della Francia rivoluzionaria, ove la garanzia dell’inviolabilità dei rappresentanti eletti assumeva un’estensione ancora maggiore, riguardando sia la insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari nell’esercizio delle funzioni, sia la necessità di un’autorizzazione per poterli processare "per fatti criminali" (art. 7, titolo III, cap. I, sez. V, Cost. 1791); le successive costituzioni italiane del periodo napoleonico e risorgimentale, recependo tali prerogative, riconoscevano sempre l’insindacabilità delle opinioni dei membri del Parlamento, disciplinando invece variamente la loro perseguibilità penale: lo Statuto Albertino, sulla scia della costituzione francese del 30, stabiliva definitivamente che i Senatori e i Deputati non erano " sindacabili per ragione delle opinioni da loro emesse e dei voti dati nelle Camere" (art. 51) e che nessun deputato poteva " essere arrestato, fuori dal caso di flagranza, né tradotto in giudizio, in materia criminale, senza il previo consenso della Camera" (art. 45).

Le due prerogative, dunque, non solo erano di derivazione diversa (l’insindacabilità risaliva alle carte inglesi, l’inviolabilità era propria delle statuizioni francesi), ma erano anche concettualmente autonome: la prima era legittimata dalla funzione sovrana del parlamento e prevedeva una immunità assoluta, la seconda era più simile alla garanzia amministrativa, comune anche a prefetti e sindaci dell’epoca, ed era limitata ad una "difesa" dal processo penale: tuttavia le due prerogative si svilupparono insieme, intrecciandosi tra loro, ed anzi, per lungo tempo, fu proprio l’autorizzazione a procedere a "tutelare" entrambe, proteggendo i singoli parlamentari, soprattutto quelli dell’opposizione, dagli attacchi di una magistratura sostanzialmente dipendente dal governo.

Tuttavia, l’applicazione di queste norme statutarie non dette luogo a contrasti tra il Parlamento e il potere giudiziario particolarmente significativi: quando si trattò di identificare l’organo che doveva stabilire l’estensione delle immunità, la Camera risolse la questione affermando la propria esclusiva competenza ed istituendo una giunta apposita (per il Senato era "sopravvissuta" addirittura una "giurisdizione domestica" essendo rimasto competente a giudicare "dei reati imputati ai suoi membri": art. 37 dello Statuto); nel merito, poi, la giurisprudenza della Camera andò sviluppandosi nel senso di applicare l’immunità a comportamenti connessi all’attività politica dei deputati, negando l’autorizzazione a procedere nei confronti di coloro che incitavano agli scioperi, protestavano contro la guerra, attaccavano il governo e che perciò venivano denunciati e incriminati per vilipendio alle istituzioni, istigazione a delinquere, incitamento alla rivoluzione, etc.

Questa giurisprudenza, ribadita anche al tempo degli "stati d’assedio", fornì quindi una reale protezione a molti parlamentari che attaccavano il governo e la polizia e si battevano per allargare spazi di libertà con interventi pubblici che le leggi illiberali dell’epoca, che quelle opinioni traducevano in altrettanti delitti, sanzionavano pesantemente attraverso l’azione di magistrati dipendenti dall’esecutivo (1).

In taluni casi, certo, la concreta applicazione delle guarentigie si prestò a protezioni di tipo corporativo (e si disse allora che la prevista "immunità dell’ufficio" si era tradotta in "immunità della persona") e in altri casi l’estensione interpretativa apparve eccessiva, ma nessuno mise mai in discussione i presupposti e le ragioni di fondo di queste immunità.

Persino l’avvento del fascismo non segnò una rottura istituzionale sul punto, almeno dal punto di vista formale.

Le prerogative rimasero, come rimase lo Statuto: ma il parlamento ne restrinse l’ambito di applicazione, escludendo dalla immunità le perquisizioni personali e domiciliari nei confronti dei parlamentari (dell’opposizione); quindi, riuscì a vanificarle di fatto, quando la Camera decise di espellere gli oppositori, dichiarando "decaduti" ben 123 deputati, tra "aventiniani", popolari e comunisti.

Le immunità furono dunque formalmente conservate, anche se la loro consistenza diminuiva sempre di più, mano a mano che il circolo, assai poco virtuoso, che rendeva omogenei magistratura, governo e parlamento, andava saldandosi in modo duraturo.

Così, paradossalmente, mentre Vittorio Emanuele Orlando, negli anni 30, elogiava e difendeva, nel contesto di un’organizzazione totalitaria dello stato, le "garanzie" dell’immunità, collegandola ad un’improbabile sovranità delle Camere (2), in quegli stessi anni un giurista autenticamente liberale, Hans Kelsen, interrogandosi sui fondamenti della democrazia, le considerava ormai un residuato storico, e l’insindacabilità delle opinioni, in particolare, "una limitazione, per nulla giustificata, della tutela giuridica dell’onore dei cittadini contro eventuali attentati da parte dei deputati" (3).

Sconfitti il nazismo e il fascismo, gli Stati che li avevano generati si dettero nuove carte costituzionali, ricuperando anche in forma sostanziale le precedenti guarentigie.

La legge fondamentale della Repubblica Federale tedesca, volendo confermare questa tradizionale immunità, ma facendosi carico della critica kelseniana, trovava un giusto punto di equilibrio nel ribadire l’insindacabilità "delle opinioni espresse e dei voti dati al Bundestag", salvo che in tali atti fossero contenute "ingiurie diffamanti" (4).

Nei lavori preparatori si chiariva che, se si fosse concesso ad un deputato il diritto di diffamare e calunniare, gli sarebbe stato consentito il potere di utilizzare la stampa politicamente vicina per diffondere in tutto il paese (e non solo nelle chiuse aule parlamentari) accuse false od ingiuriose nei confronti di terzi incolpevoli: e questo, in uno stato di diritto rispettoso dei diritti fondamentali dell’individuo, non poteva essere consentito.

Analoga scelta non veniva fatta dai nostri Costituenti, tanto è vero che di queste problematiche nei lavori dell’Assemblea è rimasta solo una debole traccia.

Ribadire la necessità di entrambe le immunità sembrò un fatto scontato; qualche discussione, prevalentemente tecnica, si sviluppò per ciò che riguardava l’autorizzazione a procedere, mentre rispetto al principio dell’insindacabilità veniva stabilito che "i membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni" (art. 68 c. 1).

Solo in sottocommissione fu anche formulata la riserva di introdurre una qualche limitazione, a tutela dei diritti del cittadino eventualmente offeso dal discorso di un deputato: ma questa buona intenzione restò senza seguito alcuno (5).

Le nuove disposizioni ricalcavano le precedenti formule statutarie, con alcune variazioni semantiche ritenute dallo stesso relatore, Costantino Mortati, di natura prevalentemente formali: in particolare, il riferimento alle funzioni e non più alla sede, non ne mutava l’ambito di applicazione, in quanto, secondo il proponente, l’immunità rimaneva circoscritta solo alle opinioni espresse nell’ambito delle funzioni svolte nelle Camere e non a quelle manifestate in contesti diversi.

Le due prerogative, l’insindacabilità e l’inviolabilità, continuavano quindi ad esistere appaiate, e l’autorizzazione a procedere rimaneva l’ombrello protettivo per entrambe: ma dovevano ora operare in un contesto politico ed istituzionale radicalmente cambiato.

Il Parlamento non era più un collegio di notabili, eletti su basi censitarie, spesso dediti ad operazioni trasformistiche; deputati e senatori, votati ora col suffragio universale, maschile e femminile, rappresentavano quei partiti di massa che i Costituenti avevano posto a fondamento del nuovo Stato repubblicano.

Ma se Mortati valorizzava in positivo la funzione assunta dai partiti nella costruzione della forma democratica delle istituzioni del paese, Calamandrei fin da allora ne coglieva i possibili aspetti degenerativi, individuando nella loro costosissima organizzazione la porta stretta attraverso cui sarebbero passati finanziamenti illeciti provenienti da ogni dove (6).

La realtà avrebbe confermato e purtroppo sopravanzato tale pessimistica previsione.

Il ruolo e la funzione delle immunità veniva così, progressivamente, a mutare di segno.

L’autorizzazione a procedere sarebbe stata utilizzata per coprire sempre più i reati di appropriazione di cui venivano, volta a volta, accusati i parlamentari e non i reati di opinione, pure in altre occasioni a loro addebitati, come era invece avvenuto nei primi decenni dello stato unitario.

L’orientamento delle Camere fu presto reso esplicito e pubblicamente dichiarato: quando la Procura di Firenze chiese l’autorizzazione a procedere per peculato nei confronti di numerosi parlamentari nell’ambito del "processo INGIC" (7), la Camera la negò sul presupposto che le somme illecitamente percepite erano servite a finanziare non i singoli, bensì i partiti di riferimento.

Questa motivazione apparve "mostruosa" al Mortati (8), che, visto l’uso fattone, successivamente si pronunciò per l’abolizione della prerogativa dell’inviolabilità parlamentare; ma ormai le prospettive che avevano mosso i costituenti non si erano realizzate, la guerra fredda aveva "gelato" la Costituzione e il partito dei cattolici si era fatto Stato, mutando la costituzione materiale su cui per tanti anni aveva discettato proprio il Mortati: così quella prima delibera divenne un punto fermo, fu reiterata sistematicamente nel tempo, e solo, per la forma, fu in seguito integrata col sempre riconosciuto "fumus persecutionis".

Il diniego dell’autorizzazione continuò così a coprire, come per il passato, opinioni ed appropriazioni, ma sempre più queste che quelle; la tematica della sindacabilità o meno delle opinioni dei parlamentari rimase nell’ombra, sempre protetta dallo scudo della inviolabilità e comunque oscurata dall’uso politico che di questa seconda immunità continuavano a fare le Camere volta a volta interpellate. E fu proprio la sistematica negazione dell’autorizzazione a procedere nei confronti di parlamentari inquisiti per gravi reati che suscitò critiche generalizzate da parte dei costituzionalisti, lo sconcerto dell’opinione pubblica più avvertita, la delegittimazione di tutte le immunità parlamentari vissute sempre più come ingiustificati privilegi.

Questo fino a quando vi fu l’implosione del sistema dei partiti su cui era fondata la "prima" Repubblica, sistema distrutto non dalle inchieste giudiziarie, ma ancor prima dalle stesse contraddizioni che aveva generato (un debito pubblico alle stelle, un tasso d’inflazione elevato, un livello di corruzione insostenibile per gli imprenditori marginali, e, dall’altro, la "necessità" di aderire all’unione economica e monetaria, di rispettare i parametri di Mastricht, di recepire tempestivamente le direttive europee, etc).

Le elezioni del ’92 registrarono la prima "revoca" della fiducia dell’elettorato nei confronti dei partiti di governo; ma l’attacco al vecchio sistema fu condotto coi referendum del 91 e del 93, portatori di un’avversione dichiarata per tutti i partiti, veicolo e premessa per l’antipolitica degli anni successivi.

In questo contesto fu possibile ad alcuni magistrati, che già avevano portato alla luce spezzoni di una costituzione materiale a lungo occultata (la ragnatela piduista, gli accordi di Gladio, etc), disvelare il sistema del finanziamento illecito dei partiti (per il solo affare ENI –Petromin era stata pagata una tangente di 153 miliardi dell’epoca); di conseguenza il Parlamento si trovò investito di un numero di richieste di autorizzazione per "reati di appropriazione" quale mai s’era visto per il passato (9).

E fu questa nuova situazione – e non le buone ragioni dei magistrati – che determinò, dopo strenue e convulse resistenze, la cancellazione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere.

Il nuovo art. 68 Cost., approvato nell’autunno del 93, mentre conservava la prerogativa dell’insindacabilità delle opinioni, consentiva che si procedesse penalmente nei confronti dei parlamentari, limitando l’autorizzazione della Camera solo per i casi di arresto, perquisizione, intercettazione e sequestro della corrispondenza.

Via libera ai processi per le tangenti, con filtri particolari solo per le eventuali richieste concernenti le libertà dell’inquisito, da un lato; ritorno poi, dall’altro, alle origini "inglesi" dell’insindacabilità, riconosciuta pienamente per le opinioni espresse dal parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, ma privata ora dello scudo indiretto costituito dalla vecchia autorizzazione a procedere.

Un raggiunto equilibrio costituzionale tra gli interessi in gioco? No, questo era solo il messaggio inviato ad un’opinione pubblica esasperata.

Nel silenzio delle aule parlamentari il discorso si sviluppava in ben diversa direzione.

Il giorno dopo (!) l’entrata in vigore della modifica costituzionale, il governo presentava infatti un decreto legge "di attuazione" del nuovo art. 68, decreto rinnovato più volte perché mai convertito, col quale tentava di introdurre, per le opinioni espresse, dapprima una nuova autorizzazione a procedere, quindi, nelle sue varianti successive, una sorta di nulla osta (la c.d. pregiudiziale costituzionale) di spettanza della Camera di appartenenza, con conseguente sospensione del procedimento, civile o penale, promosso nei confronti del parlamentare (10).

L’iniziativa era parsa subito impropria e incostituzionale: con una semplice legge ordinaria si modificava, con la scusa di darvi attuazione, l’istituto stesso della insindacabilità parlamentare prevista dalla costituzione, ricuperando, questa volta direttamente, il vecchio filtro che aveva tutelato in passato l’inviolabilità e che era stato appena abrogato.

Per ottenere tale risultato era stato adottata la forma del decreto legge, ed invocato perciò l’urgenza di provvedere, mentre quella immunità vigeva nella nostra costituzione da quarantacinque anni, senza che nessuno avesse mai sentito il bisogno di aggiungere altre norme per darvi attuazione.

Ma la questione era politica e non tecnica: perché, con tutti i problemi che creavano i reati di appropriazione, il Parlamento tentava di "blindare" anche quelli di "opinione", che per il passato, al di là di qualche caso isolato, non avevano mai creato particolari questioni ?

E perché questo problema occupava in maniera così ossessiva l’attività dei governi, che ripresentavano quel decreto legge addirittura per 15 volte, fino a quando una sentenza della Corte Costituzionale ha scritto la parola fine alla grottesca reiterazione di atti che, definiti urgenti, venivano invece trascinati per anni?

Il fatto è che, fino a quando le indagini della magistratura nei confronti della criminalità economica e dei suoi intrecci con la politica erano state saltuarie, occasionali e spesso provocate da faide interne allo stesso mondo politico, ugualmente sporadici erano stati gli attacchi ai singoli giudici da parte degli interessati, attacchi spesso condotti nelle forme consentite - e perciò protette - delle interpellanze parlamentari (11).

Ma da quando le indagini su quelle forme di criminalità si erano allargate in modo imprevedibile, da Palermo a Milano, toccando a più riprese il gruppo di potere che "era sceso in campo" e che, vincendo le elezioni, era presto giunto alla guida del paese, il rapporto tra questo ceto politico di governo e quella parte della magistratura impegnata in quei processi era rapidamente mutato.

Non il merito delle inchieste, di cui era meglio non parlare, ma la figura dei magistrati che se ne occupavano doveva finire sotto i riflettori; non le vecchie interpellanze parlamentari, mai viste da alcuno e conosciute da pochi, ma interviste ai TG e dibattiti televisivi seguiti da milioni di elettori servivano a gettare ombre sugli inquirenti, seminando dubbi e sospetti sul loro operato e trasformando quindi gli imputati in vittime.

E poiché al presidente di Forza Italia facevano capo alcune televisioni, mano a mano che i processi che lo vedevano inquisito, da solo, col fratello o con alcuni suoi stretti collaboratori, procedevano nei vari gradi del giudizio, alcune trasmissioni accoglievano sempre più di frequente dibattiti sulla magistratura o monologhi degli opinionisti - conduttori sui singoli processi o sui loro protagonisti (dalla rubrica "Fatti e misfatti" su Italia 1 a "Sgarbi quotidiani" su Canale 5, etc).

Ebbene, sono stati questi interventi televisivi o le interviste riprese dalla stampa amica, nel contesto di una campagna mediatica insistita e mirata, che hanno creato il problema che tanto ha affannato per anni l’intero Parlamento: perché le critiche rivolte ai processi di Milano e di Palermo, soprattutto, sono state ritenute offensive dai diretti interessati; questi si sono rivolti alla magistratura, le Camere hanno opposto l’insindacabilità e la Corte costituzionale è poi dovuta intervenire per dirimere il "conflitto di attribuzioni" in tal modo creatosi.

Le pagine della Gazzetta Ufficiale di questi ultimi anni, che registrano i ricorsi e le decisioni su tali conflitti, rivelano impietosamente l’entità e la qualità dello scontro in atto.

La Camera ha sempre sostenuto l’insindacabilità delle opinioni espresse dai suoi membri, purché comunque legate alla loro attività parlamentare, specialmente quando in tale attività "risulta assolutamente preponderante l’impegno sul tema dei rapporti tra sfera giurisdizionale e sfera politico-rappresentativa" (v. sent. 257/2002 della Corte): l’aver trattato in discorsi o in interpellanze parlamentari questioni attinenti ai processi che vedono inquisito il Presidente del Consiglio costituisce quindi un valido lasciapassare per rendere insindacabili qualsiasi dichiarazione resa dal parlamentare alla stampa o alle televisioni.

La Corte ha invece ritenuto che il riferimento alle "funzioni parlamentari" svolte dal deputato non possa avere una connotazione così ampia da perdere qualsiasi nesso specifico con l’attività da lui svolta quale membro dell’assemblea e rifluire invece in una indefinita attività politica generale: per cui non godono dell’immunità le dichiarazioni ritenute offensive rilasciate dall’onorevole quale opinionista di una trasmissione di una TV privata (v. sentenze 56, 58 e 420 /2000), quale partecipante ad un "faccia a faccia" su di una TV pubblica (v. sentenza 257/2002) o diramate tramite agenzia di stampa (v. sentenza 10/2000), qualora manchi una sostanziale corrispondenza tra tali dichiarazioni e quelle contenute in atti specifici da lui posti in essere quale membro del parlamento (v. sentenze 321/2000, 76 e 137/2001, 79/2002, etc).

La prerogativa costituzionale, osserva la Corte, costituisce una deroga al generale principio di legalità e di giustiziabilità dei diritti, ed è consentita solo se rigorosamente ricondotta alle funzioni parlamentari; ove questa "delimitazione" venisse meno, l’immunità si trasformerebbe in privilegio personale, con distorsione del principio di eguaglianza tra i cittadini interessati alla dialettica politica (sentenze 375/97 e 10/2000).

La Corte ha quindi posto dei paletti interpretativi che ci riportano agli auspici e alle intenzioni dei costituenti e che ci avvicinano alle costituzioni europee più avanzate.

Ma sono proprio questi paletti che le Camere, da un decennio ormai, quale che sia la loro maggioranza, hanno dimostrato di non voler accettare.

Nonostante le ormai numerose pronunce della Corte di annullamento delle loro delibere, le Camere hanno infatti insistito nell’interpretare le funzioni parlamentari nel modo più ampio possibile, consentendo così, di fatto, accuse diffamanti per i cittadini, e per i giudici in particolari, non solo nelle Camere, attraverso interpellanze ed interrogazioni, ma anche all’esterno, nel paese, sulla stampa e nelle televisioni, con le interviste o nei dibattiti.

Ma "l’interpretazione estensiva" non ha riguardato solo l’ambito delle funzioni, ma ha poi dilatato oltre misura la nozione stessa di "opinione", ricomprendendo in essa non solo accuse più o meno argomentate, ma persino insulti e contumelie d’ogni genere.

Con epiteti quali "maiale e corrotto" è stato interrotto un magistrato nel corso dell’ennesimo "faccia a faccia" televisivo con il deputato di turno; in quella occasione la Giunta per le autorizzazioni a procedere aveva espresso parere contrario all’insindacabilità, poiché "proprio la dignità delle prerogative parlamentari impone di non "coprire" attraverso queste l’ingiuria e l’offesa personale"; ma la maggioranza della Camera ha ritenuto che anche queste espressioni fossero collegate alle funzioni parlamentari proprie del deputato e gli ha riconosciuto anche in tal caso l’immunità (12).

Eppure, nei regolamenti interni dei due rami del parlamento si legge che i rispettivi Presidenti possono negare lo svolgimento ad "interpellanze e mozioni formulati con frasi sconvenienti" (art. 89 e 143 Reg. Camera e art. 97 reg. Senato) e che l’ammissibilità di interrogazione ed interpellanze deve essere valutata, prima della pubblicazione, anche con riguardo alla "tutela della sfera personale e dell’onorabilità dei singoli e del prestigio delle istituzioni" (art. 139 bis Reg. Camera): dobbiamo dedurne che il bon ton sia riservato per le riunioni di Palazzo, mentre nel paese ogni parlamentare è libero di diffamare ed offendere chiunque: la "resistenza" contro i giudici persecutori sembra avere le sue necessità e le sue esigenze.

Ma la libertà di " interpretare" le norme per i nostri parlamentari non conosce neppure evidenti limiti lessicali: in occasione di una perquisizione nei locali della Lega Nord, Bossi, Maroni ed altri erano stati processati (e condannati in primo grado) per alcuni atti di violenza rivolti nei confronti dei pubblici ufficiali intervenuti, accolti al grido di "fascisti e mafiosi" (siamo nel 96, le Lega si batte ancora per l’indipendenza della Padania, etc); ebbene, non essendoci più all’epoca l’autorizzazione a procedere, il processo penale ha avuto il suo corso, ma il Parlamento ha cercato di proteggere anche queste condotte, invocando la residua immunità: ma, per farlo, ha dovuto cambiare il significato stesso delle parole, poiché in quella sede si è giunti ad affermare che "la materialità di un atto o comportamento non impedisce la sua qualificabilità come opinione" (13).

La sentenza di annullamento di tale delibera verrà pubblicata subito dopo le elezioni del 13/5/2001 (v. sentenza 137/2001), e subito prima della nomina di quegli imputati a ministri della Repubblica.

Ma lo scontro tra il ceto politico e la magistratura non poteva essere limitato a queste azioni di contenimento.

Dopo la prima delle sentenze di annullamento, tutto il Parlamento, e non solo la sua componente di centro destra, aveva avuto una reazione più che corporativa, addirittura "di sistema": già la Commissione Bicamerale, all’art. 86, aveva riscritto l’immunità in questione allargandone l’operatività alle "opinioni espresse…nell’esercizio o a causa delle loro funzioni", aprendo così ulteriori spazi a nuove e più ampie interpretazioni estensive; venuta poi meno la possibilità di una riforma per quella via, la Camera approvava, nel febbraio 99, un disegno di legge voluto praticamente da tutti i gruppi, nel quale veniva specificato che l’immunità si applicava a "qualsiasi espressione di voto comunque formulata e…per ogni attività di critica e di denuncia, riconducibile alla funzione parlamentare, espletata anche fuori dal Parlamento"; e si prevedeva che, in attesa della pronuncia delle Camere sulla eccepita insindacabilità, il procedimento giudiziario in corso fosse sospeso con le modalità già previste nei vecchi decreti-legge non convertiti dei primi anni 90 (14).

Veniva in tal modo tradotto in disegno di legge quella lettura della immunità parlamentare che la Casa delle libertà aveva fortemente voluto, che una maggioranza trasversale delle Camere aveva sostanzialmente accettato e che la Corte costituzionale aveva più volte bocciato.

La fine della legislatura aveva impedito che anche il Senato si pronunciasse su quella proposta, ma lo stesso disegno di legge veniva successivamente riproposto e considerato dalla nuova maggioranza il testo base su cui lavorare in commissione (15).

Senonchè il contesto in cui il nuovo Parlamento si era venuto a trovare dopo le elezioni del 2001 era radicalmente diverso.

Non solo perché il nuovo governo, che aveva un’ampia maggioranza in entrambe le Camere, era portatore di una nuova concezione della democrazia procedurale, da intendersi svincolata da qualsiasi "contrappeso" costituzionale, ma soprattutto perché il processo per corruzione ai magistrati che vedeva imputato anche il Presidente del Consiglio appena nominato stava avviandosi alla conclusione dibattimentale.

Ciò ha comportato alcune priorità nell’azione di governo, anche nello specifico settore della giustizia.

Varate con tempestività le leggi sulle rogatorie e sui reati societari (le cui ricadute immediate sulle posizioni processuali di Berlusconi, Dell’Utri e Previti sono state da più parti sottolineate), si è provveduto a diminuire la presenza dei magistrati nel CSM e, contemporaneamente, si è dato inizio ad una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario, improntata, come ai bei tempi, sul controllo gerarchico e l’interferenza ministeriale.

Ma, avvicinandosi irrimediabilmente il momento conclusivo del processo di Milano, il nervosismo ha prevalso, i tempi delle riforme sono diventati convulsi, il piano processuale e quello delle iniziative legislative hanno finito per intrecciarsi e così anche la questione delle immunità, che sembrava per il momento accantonata, è tornata improvvisamente di attualità.

Solo che quel testo, su cui tanto si era insistito nella precedente legislatura, è apparso, nella nuova situazione, abbondantemente superato.

Incassato il consenso trasversale sull’immunità per le opinioni espresse dal parlamentare in qualsivoglia sede (la necessità di distinguerle dagli insulti sembra ormai un’idea largamente minoritaria)(16), la nuova maggioranza ha puntato decisamente anche al recupero dell’altra immunità, quella che difende i membri del Parlamento dai processi penali.

Premesso infatti che l’abolizione dell’autorizzazione a procedere è stato frutto "di una scelta di natura emergenziale", un magistrato del Pubblico Ministero, eletto nelle file della Casa delle libertà, ha proposto un emendamento al progetto di attuazione dell’art. 68 cost., secondo cui le indagini e dell’azione penale nei confronti di membri del Parlamento, dei giudici della Corte costituzionale ed ora anche del Governo (!) vanno sospese fino "alla cessazione della carica", con immediata applicazione della norma per i processi in corso (17).

Che una norma che muta in radice l’art. 68 Cost, estendendo l’immunità parlamentare anche ai membri dell’esecutivo, possa considerarsi attuativa delle disposizioni di quell’articolo è certo un po’ arduo da sostenere. Ma ci sarà tempo per convincere i dubbiosi.

L’emendamento è stato provvisoriamente ritirato, la maggioranza ha puntato su una riforma ancora più urgente, il Senato ha lavorato alacremente nelle notti di mezza estate ed in agosto ha votato una legge sul "legittimo sospetto" sui giudici, opportunamente presentata da un altro magistrato eletto nelle file della maggioranza (18).

Il cerchio si chiude: si aprono però prospettive interessanti per gli imputati (per tutti, ovviamente, essendo la legge erga omnes, come quotidianamente ci è ricordato), ma, in particolare, per quelli che possono contare su deputati e televisioni amiche e che ora potranno avanzare dubbi ed interrogativi (sospetti?) su questo o quel giudice, puntando alla sua sostituzione nei processi più delicati.

Da questo punto di vista anche l’insindacabilità per le opinioni comunque espresse, grazie anche alla sua nuova concordata versione, scopre nuove ed insperate potenzialità.

E l’immunità dai processi? Pazienza, una cosa alla volta.


NOTE

  1. Su queste notizie storiche v. M. Dogliani "Immunità e prerogative parlamentari ", pagg. 1017 e segg., in "Storia d’Italia – Il Parlamento", Torino, Einaudi, 2001.
  2. M.Dogliani cit., pag. 1023.
  3. H. Kelsen "Vom Wesen und Wert der Demokratie", 1929, ora ne "I fondamenti della democrazia e altri saggi", Bologna, Il Mulino, 1966, pag. 51.
  4. N. Zanon "Brevi spunti comparatistici (a futura memoria) per il trattamento parlamentare dell’insindacabilità" in Giurisprudenza Costituzionale, 1998, pagg. 2221-22.
  5. G.Long "Le Camere", pag. 188, in Commentario alla Costituzione a cura di G. Branca, Bologna, Zanichelli, 1986
  6. P.Calamandrei "Patologia della corruzione parlamentare" ne "Il Ponte", 1947 n…….
  7. R. Canosa " Storia della criminalità in Italia dal 1946 ad oggi", Milano, Feltrinelli, 1955, pag. 51.
  8. C. Mortati "Istituzioni di diritto pubblico", Padova, Cedam, pag. 418, in nota.
  9. F. Cazzola – M.Morisi "La mutua diffidenza", Milano, Feltrinelli 1996, pagg. 26 e segg.
  10. La legge costituzionale di modifica dell’art. 68 è la n. 3/93 ed è entrata in vigore il 14/11/93. Il giorno successivo è stato presentato il D.L 15/11/93, primo di una lunga serie interrottasi solo nell’ottobre del 96.
  11. Per un’esemplificazione parziale, ma significativa, del tenore dell’attività ispettiva parlamentare nei confronti dei giudic, dalla VII alla XI legislatura, v. Cazzola-Morisi, op. cit., pagg 52-116.
  12. Sulla vicenda, che ha visto l’on. Sgarbi rivolgere tali frasi al magistrato Gianfranco Amendola, vedi la sentenza 257/2002, con la quale la Corte Costituzionale ha annullato la delibera di insindacabilità votata dalla Camera dei Deputati, in G.U., serie speciale n. 25 del 26/6/2002..
  13. Si legge tra l’altro, nella sentenza della Corte 137/2001, che, secondo l’imputazione, "Maroni Roberto afferrava per le gambe l’Ispettore capo Amadu…Bossi Umberto strattonava violentemente l’Ispettore Amadu strappandogli il giubbino e la giacca si ordinanza" . Vedila in Giurisprudenza Costituzionale, 2001, n. 3, pag. 1092.
  14. Trattasi del D.d.l. n. 3819, testo risultante dalla unificazione dei disegni di legge n.2935, a firma La Russa e Berselli e n. 2939, a firma Boato, Mussi, Giovanardi, Comino ed altri.
  15. V. Progetto di legge n. 185, presentato dall’on. Boato nella XIV Legislatura, che riproduce quello di cui alla nota precedente.
  16. Durante i lavori in Commissione Referente si sono dichiarati contrari all’estensione dell’immunità anche alle espressioni lesive dell’onore altrui gli on. Gironda Veraldi e Siniscalchi (v. resoconto delle sedute del 4/7 e del 7/7/2002). Ma il testo base su cui lavora la Commissione non tiene conto di questo problema.
  17. Così l’on.Nitto Palma, autore del contestato emendamento, poi trasformato in proposta di legge (v. seduta dell’11/7/2002).
  18. L’on. Melchiorre Cirami, già Pretore in Agrigento, è l’ennesimo magistrato eletto nelle file della Casa delle Libertà, per cui continuare a definire questo raggruppamento politico come "il partito degli avvocati" appare a questo punto ingiustamente riduttivo.

*L'articolo del novembre 2002 è tratto dalla rivista "Il Ponte"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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