Incompatibilità tra esercizio della professione forense e impiego pubblico in part time ridotto
avv. Maurizio Perelli
La "proposta Bonito"e la attuale disciplina della compatibilità tra esercizio della professione forense e impiego pubblico in part time ridotto, come confermata dalla sentenza della Corte Costituzionale 11/6/2001 n. 189. Critica alla "proposta Bonito".
Evidenzio in primo luogo che l’incompatibilità tra pubblico impiego in part time ridotto (max 50%) e esercizio delle professioni fu cancellata, con portata generale, dalla l. 662/96, art. 1, commi 56 e ss. Con tali disposizioni venne abrogata anche l’incompatibilità, precedentemente prevista dall’art. 3, comma 2, della "legge professionale sull’avvocatura", Regio Decreto Legge 27/11/33, n. 1578, convertito nella legge 22/1/34, n. 36, venendosi così ad aggiungere una terza eccezione alle eccezioni alla regola generale della incompatibilità tra esercizio dell’ avvocatura e lavoro dipendente, già previste, per i professori universitari e degli istituti superiori e per gli avvocati di enti pubblici, nell’art. 3, comma 4, lettere A) e B) della legge professionale forense del 1933. Censure di incostituzionalità, riguardanti le eccezioni previste, già prima della l. 662796, alla regola della incompatibilità, sono già state sollevate più volte, e ogni volta rigettate dalla Corte Costituzionale. In particolare, sono stati respinti i rilievi di presunta incompatibilità dei professori, che pure si trovavano, e si trovano, in rapporto di dipendenza da presidi, rettori e provveditori agli studi. Recentemente la sentenza 11/6/2001 n. 189 della Corte Costituzionale, con speciale riguardo alla professione di avvocato, ha confermato non solo la legittimità, ma addirittura l'utilità (e non solo per la pubblica amministrazione, ma anche per i clienti degli avvocati e per il bene della Giustizia), del regime di compatibilità tra impiego pubblico in part time ridotto e professione forense, di cui ai commi 56 e seguenti dell’art. 1della l. 662/96.
La proposta di legge n. 543 è volta a reintrodurre ora, dopo cinque anni di compatibilità senza scandali, e pergiunta fuori da una organica ridefinizione di regole per tutte le libere professioni, l’incompatibilità tra pubblico impiego in part time ridotto, e un’unica professione, quella di avvocato, mantenendo invece la vigente regola della compatibilità per tutte le altre professioni. Si vorrebbe, inoltre, nel reintrodurre l'incompatibilità soltanto per l’esercizio della professione di avvocato, costringere ad optare tra il mantenimento del rapporto di pubblico impiego e l'attività forense ANCHE CHI DA ANNI, E SENZA ALCUNA DEVIAZIONE DAI DOVERI DELLA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE E DAI DOVERI DI PUBBLICO IMPIEGATO, ha svolto le due attività di avvocato e impiegato, come consentitogli dalla legge.
Ebbene la "proposta Bonito", oltre a poter essere ragionevolmente accusata di miope corporativismo proprio nel settore professionale che più spesso l'Europa richiama a maggior apertura alla concorrenza, per un verso comporterebbe, ove trasformata in legge, un’enorme spesa aggiuntiva per le casse dello Stato e di tutti gli altri datori di lavoro pubblico e un altrettanto enorme mancato risparmio; per altro verso penalizzerebbe in maniera inaudita, e intollerabile, i dipendenti pubblici che hanno scelto il part time ridotto al fine di poter svolgere la professione di avvocato (magari rinunciando alle prospettive di una carriera dirigenziale, addirittura da ormai quasi un quinquennio, come molti pubblici dipendenti hanno fatto, trasformando il precedente rapporto di impego a tempo pieno in un rapporto di impiego a tempo parziale, al 50%, e ottenendo, nel pieno rispetto della legge, di essere iscritti all’albo degli avvocati, in base all'art. 1, commi 56 e ss della l. 662/96).
La giustificazione che l’On. Bonito prospetta nella relazione per la proposta novella, così come gli interventi favorevoli a detta proposta che si sono avuti in Commissione Giustizia della Camera, non svolgono certo una analisi dell’esperienza quinquennale della compatibilità (dall’entrata in vigore dell’art. 1, commi 56 e ss, della l. 662/96) della professione di avvocato con l’impiego pubblico in part time ridotto; essi costituiscono solo una superficiale (a fronte delle analitiche considerazioni della sent. 189/2001 della Corte Costituzionale) ripetizione di indimostrate esigenze di tutela preventiva del diritto di difesa.
Quella che in realtà appare come una chiusura corporativa della classe forense si vorrebbe giustificare con argomenti solenni (il diritto di difesa) ma tirati in ballo a sproposito dai fautori della chiusura coporativa, come ebbe ad affermare (sempre con riguardo al diritto di difesa) il Prof. Sabino Cassese allorchè, nel novembre del 1999, già il Consiglio Nazionale Forense, quale giudice speciale, aveva prospettato alla Corte Costituzionale una presunta incostituzionalità delle disposizioni che l’attuale "proposta Bonito" vorrebbe abrogare (ricordo incidentalmente che, come si legge nella sentanza n. 189/2001 della Corte Costituzionale, i commi 56 e 56 bis dell’art. 1 della legge 23/12/96, n. 662, vennero denunciati dal Consiglio Nazionale Forense al giudice delle leggi "in quanto rimuovono l’incompatibilità tra l’attività di dipendente pubblico part time e l’esercizio di tutte le professioni intellettuali, e, più in particolare, in quanto prevedono l’abrogazione parziale delle disposizioni che sanciscono l’incompatibilità tra esercizio della professione forense e la condizione di pubblico dipendente in regime di part time, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno"), ed era stata già presentata, dall’On. Ennio Parrelli, la proposta di legge n. 3274, identica a quella poi ripresentata alla Camera lo scorso giugno.
In realtà, la pedissequa riproposizione della relazione all’epoca presentata ad introduzione del progetto n. 3274 (c.d. "proposta Parelli"), non può convincere, se posta in raffronto con le analitiche argomentazioni con le quali la più volte citata sentenza n. 189/2001 della Corte Costituzionale ha negato ogni incostituzionalità e affermato l’utilità dell’attuale regime di compatibilità tra avvocatura e impiego pubblico in part time ridotto. E’ ben vero che la sentenza n. 189 della Corte Costituzionale è successiva, anche se di pochi giorni, alla presentazione della proposta di legge n. 543, presentata il 6/6/2001, ciò imporrebbe però, a maggior ragione, nella fase attuale, una disamina attenta, in sede di assemblea e non solo in Commissione Giustizia, di tutti gli spunti di riflessione articolati dalla recente sentenza di rigetto della Corte. Dovrebbe altresì farsi tesoro dei pareri dell’Antitrust.
Per altro verso, che le proposte di legge dell’On. Parrelli, nella precedente legislatura, e dell’On. Bonito, nell’attuale, siano espressione di una chiusura corporativa non fu riconosciuto solo da un autorevole studioso quale il Prof. Cassese, con riguardo alla proposta originaria. E’ stato rilevato anche, con chiarezza, dall’On. Pierluigi Mantini, il quale, nel corso della seduta della Commissione Giustizia del 13 settembre scorso -si legge nel resoconto dei lavori- "invita a trovare soluzioni scevre da tentazioni corporative, evitando di creare <<nicchie>> legislative a favore della professione di avvocato". Bisogna dire la verità: dalla approvazione della l. 662/96 gli interventi, sulla stampa e nei convegni, contro gli "avvocati part time" non si sono appuntati sulla immoralità o sulla inesperienza o carenza professionale di costoro, bensì sul fatto che il loro massiccio ingresso nella già (ritenuta) sovrabbondante classe forense avrebbe comportato ulteriore e pericolosa concorrenza. Da un punto di vista strettamente giuridico la proposta Bonito, suppone non solo una inesistente maggior rilevanza costituzionale (smentito in questo dalla sentenza della Corte Cost. 189/2001) del diritto di difesa rispetto ad altri diritti pure riconosciuti dalla Carta Costituzionale, quali il diritto alla istruzione (nel nome del quale, coerentemente, si dovrebbe impedire la doppia attività agli insegnanti, soprattutto se non in part time!), il diritto all’equo prelievo fiscale (nel nome del quale, coerentemente, si dovrebbe impedire la doppia attività a commercialisti e ragionieri in part time!), il diritto alla protezione del suolo e dell’ambiente (in nome del quale, coerentemente, si dovrebbe impedire la doppia attività a geometri, ingeneri, architetti e geologi in part time!) il diritto alla salute (in nome del quale si dovrebbe coerentemente impedire la doppia attività a medici e biologi in part time!) ecc…, ma addirittura trasforma tale presunto maggior rilievo costituzionale del diritto di difesa (che, è bene ricordarlo, è diritto dei destinatari della Giustizia e non degli avvocati) in una maggior limitazione quantitativa (tale è l’effetto di una limitazione pseudo-qualitativa) dell’accesso alla professione di avvocato rispetto all’accesso alle altre professioni.
Bisogna infatti riconoscere che sarebbe solo asserita, e non logicamente sostenibile dai fautori della incompatibilità, alla luce della sentenza n. 189/2001 della Corte Costituzionale, la natura qualitativa, e non meramente quantitativa, della limitazione all’accesso alla professione di avvocato delineata dalla "proposta Bonito".
Tale proposta di legge, comunque, introdurrebbe, ove approvata, una limitazione all’accesso alla professione che, anche se ritenuta di carattere qualitativo, non potrebbe ritenersi costituzionalmente legittima.
Non è infatti ammisibile una limitazione qualunque, purchè di natura qualitativa, all’accesso alla professione di avvocato. E’ ammissibile solo una limitazione qualitativa che sia fondata su una verifica della professionalità oppure su necessità dimostrate, o almeno logiche, e non insostenibili secondo logica, di garantire al cliente dell’avvocato il diritto alla difesa attraverso una ragionevole e proporzionata "tutela legislativa preventiva" della indipendenza dell’avvocato, e cioè della libertà di costui di esercitare compiutamente il ministero tecnico in piena fedeltà al mandato. Ebbene, non solo la "proposta Bonito" non si fonda su nessuna dimostrazione della legittimità costituzionale della limitazione pseudo-qualitativa all’accesso che vuol introdurre, ma oramai, dopo la sentenza n. 189/2001 della Corte Costituzionale, deve ritenersi sicuro che la incompatibilità che si introducesse nell’ordinamento sarebbe da giudicare incostituzionale, in quanto fondata su censure alla normativa vigente identiche a quelle che la Corte Costituzionale ha definitivamente, nel quadro normativo attuale, dichiarato insussistenti,. La sentenza n. 189/2001 della Corte, infatti, in particolare, tra le considerazioni in diritto, al punto 7, in fine, ha riservato al legislatore solo la possibilità di diversamente valutare "diverse e ulteriori esigenze che dovessero derivare dall’evoluzione normativa", con ciò dicendo una parola definitiva sulla compatibilità tra pubblico impiego in part time ridotto ed esrcizio della professione forense, nel vigente quadro normativo che struttura la professione di avvocato e struttura l’impiego pubblico.
Si legge infatti nella Sentenza della Corte Costituzionale dell’11/6/2001, n. 189:
- " 7. - Nella prospettiva, poi, dei doveri propri della professione forense, non è dubbio che, come avverte lo stesso rimettente, il diritto di difesa risulta garantito solo se l’avvocato, in piena fedeltà al mandato, è in grado di esercitare compiutamente il ministero tecnico a lui affidato. Ma, in relazione a tale basilare principio, non sembrano, invero, porsi, per i professionisti legati da un rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione, in regime di part time ridotto, particolari esigenze che non possano trovare soddisfazione, così come per l’opera di tutti i professionisti, in quella disciplina generale dell’attività da essi svolta, che giunge a contemplare anche il presidio, ove occorra, della sanzione penale (artt. 380 e 622 c.p.). E questo a tacere delle norme deontologiche elaborate nell’ambito degli ordinamenti particolari (e a tal riguardo rileva non solo il codice deontologico approvato dal Consiglio nazionale forense il 17/4/1997, ma anche quello europeo, approvato dal Consiglio degli ordini forensi europei il 28 ottobre 1998) che valgono anch’esse ad assicurare il corretto espletamento del mandato, giustificando, nei congrui casi, l’esercizio del potere disciplinare degli organi professionali. Va da se che, in tale quadro di riferimento, potranno, eventualmente, rinvenire la loro risposta, attraverso la opportuna valutazione da parte del legislatore, anche diverse ed ulteriori esigenze che dovessero derivare dall’evoluzione normativa quando questa, come nel caso qui considerato, risulti incidente sulla stessa professione.
- 8. - Il rimettente denuncia, poi, l’ingiustificata discriminazione di cui soffrirebbe, in violazione dell’art. 3 della Costituzione, il libero professionista che, non essendo anche dipendente pubblico, non potrebbe usufruire, al contrario di questìultimo, di un bagaglio di nozioni tecniche, scientifiche, o anche di carattere solo organizzativo, acquisite proprio grazie al suo inserimento all’interno dell’amministrazione. Ma tale censura, lungi dall’evidenziare una disparità tra professionisti riferibile al contenuto precettivo delle norme denunciate, vale in realtà a porre in rilievo soltanto l’utilità che il pubblico dipendente può, in ipotesi, trarre, nell’esercizio della professione, dalle conoscenze e dalle esperienze maturate nel corso della pregressa attività. Si tratta, dunque, di situazioni di mero fatto che non assumono rilievo nel giudizio di costituzionalità (tra le altre, sentenze n. 175 del 1997 e n. 417del 1996).
- 9. - Le considerazioni, innanzi svolte, sulla ratio della denunciata normativa e sulle cautele delle quali il legislatore ha circondato l’esercizio della attività professionale da parte del pubblico dipendente, consentono di ritenere parimenti infondata la censura, prospettata sempre in riferimento all’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della "assoluta mancanza di ragionevolezza e logicità" delle denunciate disposizioni che, in vista unicamente di esigenze di contenimento della spesa pubblica, porrebbero "seriamente in pericolo valori costituzionali ben più rilevanti", quali il diritto di difesa e i principi di imparzialità e buon andamento della amministrazione. A fronte della riproposizione, sotto lo specifico aspetto qui considerato, di doglianze sostanzialmenete corrispondenti, sia pure nella diversità dei parametri evocati, a quelle sopra scrutinate, è sufficiente osservare, richiamando quanto già detto, che le esigenze di contenimento della spesa pubblica, pur presenti nel quadro riformatore cui si è fatto cenno, non vanno a detrimento degli altri principi ed interessi di rilievo costituzionale evocati dal remittente, avendo, infatti, il legislatore apprestato gli strumenti atti ad evitarne il nocumento. Neppure sotto questo profilo è possibile, perciò, ravvisare, nella disciplina in esame, elementi atti a suffragare la pretesa lesione dell’art. 3 della Costituzione.
- 10. - Infondata è, infine, anche la prospettata censura di contrasto con l’art. 4 della Costituzione, precetto che, nel garantire il diritto al lavoro, ne rimette l’attuazione, quanto a tempi e modi, alla discrezionalità del legislatore. Tale discrezionalità, contrariamente a quanto assume il rimettente, risulta, infatti, esercitata, nel caso in esame, in modo tuttaltro che irragionevole, ove si consideri che le disposizioni denunciate sono intese a favorire l’accesso di tutti i soggetti in possesso dei prescritti requisiti alla libera professione e cioè ad un ambito del mercato del lavoro che è naturalmente concorrenziale. E ciò tanto più se si tiene conto, proprio in relazione all’attività forense, dei più recenti interventi del legislatore (decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96), volti a facilitare l’esercizio permanente della stessa attività da parte degli avvocati cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea." Preciso subito, con riguardo a tale ultimo rilievo della Corte circa il decreto legislativo 2 febbraio 2001, che è possibile, per i cittadini di altri Stati membri dell’Unione Europea, che non incontrino nella loro legislazione nazionale il limite della incompatibilità tra avvocatura e impiego pubblico, o privato, esercitare la professione di avvocato in Italia. A fronte di tale prospettiva la "proposta Bonito appare ancor più ingiustificatamente penalizzante nei confronti dei dipendenti pubblici part time italiani, in quanto riduttiva, solo nei loro confronti, delle possibilità di accesso alla professione di avvocato. I cittadini italiani sarebbero discriminati, dalla eventuale legge Bonito, rispetto ai cittadini comunitari di quegli Stati che permettono effettivamente ciò che la Corte Costituzionale afferma che potrebbe permettere, ai suoi cittadini, anche il nostro Stato: consentire l’accesso alla professione agli abilitati in un settore "naturalmente concorrenziale".
Essendosi pervenuti ai chiarimenti, sopra riportati, da parte della Corte Costituzionale, la "proposta Bonito" rischia di apparire una sorta di "pulizia etnica preventiva" della classe professionale forense, in coerenza con quegli orientamenti, ripudiati ormai dalla giurisprudenza italiana e comunitaria, che continuano a rifiutare la definizione comunitaria di avvocato quale imprenditore professionale che opera in un mercato concorrenziale.
Se l’avvocato è un imprenditore, nel senso del diritto comunitario, la libertà di accesso alla professione e la libertà della sua impresa godono di precise garanzie e non possono essere limitate da una interpretazione sbagliata del contenuto, non assoluto ne incomprimibile, del diritto alla difesa. Di questo diritto è titolare il cliente dell’avvocato nei confronti dello Stato, il quale non può esimersi dal "fornirgli", attraveso la regolamentazione per legge dell’accesso alla professione, un avvocato indipendente e libero di svolgere al meglio il mandato. Ma la definizione legislativa dell’indipendenza richiesta all’avvocato, nell’attuale ordinamento della professione forense, è stata operata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 189/2001 (e l’ "avvocato part time" ha superato l’esame di costituzionalità-indipendenza), ed il legislatore ordinario non può legittimamente mutarla, come risulta dal punto 7, ultimo periodo, della sentenza della Corte, se non a seguito di una modificazione strutturale della disciplina della professione. Per giunta, tale innovativo legislatore, a giudizio della Corte, dovrebbe valutare, al fine di ridefinire i casi di incompatibilità, "esigenze diverse e ulteriori", rispetto a quelle prospettate dal remittente C.N.F. e riprodotte dalla proposta Bonito. Altrimenti verrebbe ad intaccare, con una legge che sarebbe incostituzionale, il delicato equilibrio, individuato dalla Corte, tra il diritto di difesa (che, peraltro, deve intendersi anche come diritto dei potenziali clienti dell’avvocato a non vedersi ingiustificatamente ridotto il novero dei suoi possibili difensori tecnici) ed i vai vari diritti di libertà di cui è titolare chi voglia svolgere la professione di avvocato e che la Costituzione garantisce agli artt. 2, 3, 4, 24, 35, 41, 54. Tali ultimi diritti non possono essere costretti se non entro i limiti strettamente necessari (della cui realtà i fautori della chiusura corporativa non danno alcuna dimostrazione) alla tutela del diritto del cliente ad essere ben difeso.
Si deve disconoscere alla classe forense il ruolo, fuorviante e pericoloso, di sacerdotessa vestale del diritto di difesa del cliente; sacerdotessa da tener lontana da ogni contatto potenzialmente impuro, ancor più di quanto sia necessario fare per altre classi professionali (insegnanti, commercialisti ecc…), evidentemente ritenute meno infiltrabili, o sacerdoti di divinità minori. Infatti il diritto di difesa non si difende cercando di creare una classe di integerrimi "per natura", ma facendo ben lavorare i controllori. Altrimenti, per perseguire un risultato limitato e aleatorio (meglio raggiungibile con un incremento dell’attività di controllo) non si sacrificherebbero diritti costituzionalmente garantiti.
Bisogna infatti ribadire che la "diversità" reclamata per l’avvocatura dal Consiglio Nazionale Forense non è affatto avallata dalla sentenza della Corte Costituzionale 27/5/96, sentenza che è stata interpretata in maniera faziosa nel paragrafo 6, lettera A9, della ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale, da parte del C.N.F., del 29/1/98.
Il diritto di difesa può non essere in contrasto con il diritto alla esplicazione della personalità, il diritto alla libertà di iniziativa economica, il diritto al lavoro, il diritto al trattamento simile di situazioni simili, spettanti all’impiegato pubblico che voglia fare l’avvocato, ove tale sua determinazione non sia incompatibile col ruolo rivestito nell’organizzazione pubblica con la quale abbia instaurato solo un rapporto di lavoro ormai pienamente regolato in maniera privatistica, e ove non sia dimostrato che l’esercizio di una particolare attività da parte dell’impiegato pubblico in part time ridotto, tra quelle riservate all’avvocato, sia ragionevolmente meno garantista per il cliente.
Se poi agli avvocati in quanto tali sono attribuite automaticamente (ma non è affatto così) pubbliche funzioni in senso tecnico, si verifichi pure in concreto la compatibilità dell’esercizio di ciascuna di tali pubbliche funzioni con l’impiego in part time e si giunga, ma senza ingiustificate generalizzazioni e presunzioni, a vietare singole attività agli "avvocati part time".
In sintesi, l’eventuale legge Bonito (la quale vedrebbe la luce senza che vi sia stato, nei ben cinque anni ormai trascorsi dall’entrata in vigore della l. 662/96, nessuno scandalo che abbia visto protagonista, per commistione di interessi pubblici e privati, un "avvocato part time") limiterebbe, solo in base ad una non dimostrata esigenza preventiva, i diritti garantiti dagli artt. 2, 3, 4, 24, 35, 41 e 54 della Costituzione sarebbe perciò incostituzionale per violazione di tutti gli elencati articoli della Costituzione.
Nel contempo, in una fase in cui si discute a fondo del ruolo degli Ordini professionali, l’eventuale approvazione della "proposta Bonito" sarebbe una dichiarazione di incapacità, se non di inutilità, dell’Ordine degli avvocati, avendo tale iniziativa legislativa, per presupposto logico, il riconoscimento dell’incapacità dell’Ordine stesso di vigilare adeguatamente sul rispetto della deontologia professionale, che sembra peraltro dovrà essere lo scopo precipuo dei futuri Ordini professionali. Se l’albo professionale non fosse ritenuto in grado di vigilare sul rispetto della deontologia professionale bisognerebbe chiedersi quale sarebbe la sua reale utilità, visto che alla formazione professionale potrebbero utilmente provvedere associazioni settoriali di professionisti: certo l’ordine non dovrebbe avere la funzione di restringere la concorrenza nel settore. La proposta di legge in esame non assegna al Consiglio dell’ordine degli avvocati la doverosa responsabilità del controllo deontologico sugli iscritti, con riguardo a quelli in part time; scarica, invece, sul fruitore del servizio difesa, in termini di riduzione della concorrenza tra i fornitori di tale servizio, il costo di una "tutela avanzata" del bene costituito dall’indipendenza del difensore (peraltro preoccupandosi solo di taluni "attacchi" alla indipendenza del difensore, e non certo dei più insidiosi, come si vedrà a proposito della possibilità mantenuta -nel silenzio della legge che ha per destinatari solo coloro che hanno un rapporto di lavoro dipendente con l’ente pubblico- di esercitare la professione di avvocato per sottosegretari, capi di ufficio legislativo, e, più in generale, per quanti siano incardinati in uffici di vertice di enti pubblici, e financo del Ministero della giustizia, con contratti che non fondano un rapporto di lavoro dipendente).
Con una legge del genere si verrebbe, in sintesi, a sostituire il vigile controllo da parte dei Consigli dell'ordine degli avvocati nei confronti dell'attività degli iscritti che siano anche pubblici dipendenti, con una comoda ma dannosa (come implicitamente ritiene la sentenza della Corte Costitiuzionale n. 189/2001), presunzione di conflitto di interessi nell'esplicazione di tutte le possibili attività di un avvocato.
Non ci si vuole accontentare, da parte degli organismi esponenziali dell'avvocatura che plaudono all’iniziativa dell’On. Bonito, delle norme che già oggi evitano possibili situazioni di incompatibilità per conflitto di interessi o accaparramento di clientela. Tra queste ricordiamo -citate dalla predetta sentenza n. 189/2001- l’art. 1, comma 58, l. 662/96, il quale ha disposto che l’amministrazione possa negare la trasformazione del rapporto a tempo pieno in part time nel caso in cui l’ulteriore attività di lavoro (subordinato o autonomo) del dipendente comporti un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta, ovvero differire la trasformazione stessa, per un periodo non superiore a sei mesi, allorchè possa deriverne grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione medesima. Ricordiamo il successivo comma 58 bis, che ha demandato alle singole amministrazioni –ferma la valutazione in concreto dei singoli casi di conflitto di interesse- di indicare (con decreto ministeriale emanato di concerto con il Ministro per la funzione pubblica) le attività da considerare "comunque non consentite" in ragione della interferenza con i compiti istituzionali. Ricordiamo, sempre con la Corte Costituzionale, che in ottemperanza a tali previsioni sono state emanate, oltre ad istruzioni generali da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri (in particolare la circolare 18/7/1997), specifiche e stringenti previsioni ad opera delle singole amministrazioni, tra cui il Ministero della giustizia (D.M. 6/7/1998), il Ministero delle finanze per i dipendenti dell’amministrazione dei monopoli di Stato (D.M. 20/9/2000) e per i propri dipendenti (D.M. 15/1/1999), il Ministero per i beni culturali e ambientali (D.M. 5/6/1998 e circolare del 4/2/1999), il Ministero dei trasporti e della navigazione (D.M. 14/5/1998). Mi domando allora: come si è potuto scrivere nella relazione al progetto di legge presentato dall’On. Bonito "Anche se forse in via di interpretazione è possibile ritenere che la norma non estende il lavoro parziale ai magistrati (peraltro non richiamati nel campo di esclusione), per cui non sarà possibile la figura aberrante del magistrato al 50 per cento iscritto all’albo degli avvocati, si pongono seri problemi per l’inviolabilità del diritto di difesa per l’avvocato che contemporaneamente è anche cancelliere, ufficiale giudiziario, dipendente non militare degli uffici finanziari o degli istituti previdenziali o dei ministeri"? NON SI PUO’ RIPRESENTARE UNA PROPOSTA DI LEGGE, FORMULATA NELLA PRECEDENTE LEGISLATURA, ESPONENDO IN RELAZIONE MOTIVAZIONI DIVENUTE NEL FRATTEMPO EVIDENTEMENTE INSOSTENIBILI. QUEL CHE E’ PEGGIO E’ CHE A QUESTI ARGOMENTI NON SE NE AGGIUNGE NESSUNO E I FAUTORI DELLA CHIUSURA CORPORATIVA SI GUARDANO BENE DAL TENTARE UNA REPLICA ALLE ANALITICHE CONSIDERAZIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA SENTENZA N. 189/2001 PIU’ VOLTE RICHIAMATA. Le garanzie normative vigenti sono serie e ben diverse da come le si vuol prospettare nella relazione al progetto di legge in questione! Ricordiamo, ancora, con la Corte Costituzionale, una norma che prevede un particolare rigore per l'ammissione del dipendente pubblico all'esercizio della professione di avvocato: l'art. 58 bis della l. 662/96, il quale, dopo aver stabilito che "Ai dipendenti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professionale non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche", continua disponendo, con rigore forse già eccessivo, riguardo alla sola professione di avvocato: "gli stessi dipendenti non possono assumere il patrocinio in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione".
Aggiunge il giudice costituzionale "Da ultimo non va ignorato il rilievo che, ai fini qui considerati, riveste anche il divieto posto dal comma 2-ter dell’art. 18 della legge n. 109 del 1994 (inserito dall’art. 9, comma 30, della legge n. 415 del 1998), il quale esclude che i pubblici dipendenti possano espletare, nell’ambito territoriale del proprio ufficio, incarichi professionali per conto delle amministrazioni di appartenenza. Con ciò ponendosi un divieto ancora più restrittivo di quello discendente dal comma 56-bis, interpretato, infatti, nel senso che quest’ultimo riguardi esclusivamente gli incarichi professionali che non trovino assegnazione in base a procedure concorsuali di scelta adottate dall’amministrazione."
Afferma la Corte Costituzionale che dal complesso di norme esaminate è derivato un sistema che non solo non reca pregiudizio al corretto funzionamento degli uffici, essendo anzi diretto a privilegiare, in modo non irragionevole, il valore dell’efficienza della pubblica amministrazione, ma non compromette nemmeno i principi evocati dal Consiglio Nazionale Forense a sostegno della sollevata questione di costituzionalità. E ancora: "Nell’elidere il vincolo di esclusività a favore del datore di lavoro pubblico, il legislatore, proprio per evitare eventuali conflitti di interessi, ha provveduto, infatti, a porre direttamente (ovvero ha consentito alle amministrazioni di porre) rigorosi limiti all’esercizio, da parte del dipendente che richieda il regime di part time ridotto, di ulteriori attività lavorative e, in particolare, di quella professionale forense".
Per tentare di aggiungere qualche considerazione a quelle, a mio parere decisive per la critica della "proposta Bonito", che si leggono nella sentenza n. 189/2001, si può rilevare che è errata quella asserzione, che si legge nella relazione al progetto di legge in oggetto, per cui l’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, garantita dall’art. 24 Cost., postulerebbe l’assoluta indipendenza "in senso ampio (?) e tecnico di mancanza di subordinazione" e autonomia del difensore, e sarebbe sempre compromessa dal permanere del rapporto di dipendenza dell’avvocato, che sia anche pubblico impiegato part-time, con una qualsiasi pubblica amministrazione, pur totalmente estranea alla concreta problematica giuridica affidata alla cura di un tale avvocato. Tale asserzione, oltreché infondata per le stringenti limitazioni al patrocinio poste dall’art. 1, comma 56 bis della legge 662/96, ed evidenziate dalla Corte Costituzionale nella sentenza 189/2001, è errata perché il riconoscimento del diritto alla difesa di cui all’art. 24 della Costituzione non si estende affatto ad imporre una astratta indipendenza ed autonomia (che si pretenderebbe di rendere concreta solo riguardo ad uno, e non certo il più rilevante, degli ipotetici fattori potenzialmente inquinanti l’indipendenza) del difensore, quali valori da presidiare "a monte", con una normativa restrittiva della possibilità di accedere alla professione di avvocato. Altrimenti opinando, oltre che ad amplissime ipotesi di incompatibilità, si dovrebbero prevedere, per l’avvocato, eccessive limitazioni di diritti ormai acquisiti, che fortunatamente non sono state ancora reclamate ma dovrebbero derivare di necessità dalla mitizzazione dell’indipendenza del difensore. E non si pensi, addirittura, alle società di capitali interprofessionali, magari con soci di solo capitale: una delle logiche conseguenze della tutela preventiva dell’indipendenza dell’avvocato, perseguita col rigore –astratto e ingiusto- proprio della proposta di legge in esame, dovrebbe essere, ad esempio, il divieto per l’avvocato a partecipare a qualsiasi forma di società professionale con altri avvocati. Dovrebbe coerentemente cancellarsi la possibilità di costituire le società di avvocati, recentemente disciplinate! E sarebbe da riconsiderare anche quanto previsto a precisazione delle regole per la formazione delle società tra avvocati, nell’ambito del recepimento della direttiva comunitaria 98/5/Ce del 16/2/98 sull’esercizio della professione legale in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica! Ebbene tali limitazioni, come quella che la "proposta Bonito" vorrebbe introdurre, non appaiono conciliabili con la salvaguardia della posizione dell’avvocato nell’ordinamento quale "libero professionista": libero, appunto, e non organo pubblico (speculare al pubblico ministero in materia penale o, in materia civile, al difensore pubblico di controparte). L’indipendenza e l’autonomia dell’avvocato sono valori tutelabili, come ha ben sottolineato la Corte Costituzionale, dalla responsabilità penale e patrimoniale dell’avvocato nei confronti del cliente e soprattutto dalla deontologia e dalla responsabilità disciplinare, che va garantita, più efficacemente, ex post, dall’ordine professionale. Indipendenza e autonomia dell’avvocato non vanno invece esaltati e difesi a scapito del preminente valore della libertà d’iniziativa economica dell’aspirante all’iscrizione all’ordine, tutelato dall’art. 41 della Costituzione. A tale libertà d’iniziativa economica l’impiegato pubblico part-time non ha certo rinunciato per l’ambito in cui la si possa coltivare senza ledere minimamente, in concreto, l’interesse pubblico o il diritto di difesa. E violerebbe l’art. 41 della Costituzione l’eventuale "legge Bonito", in quanto introdurrebbe limitazioni al diritto alla libera iniziativa economica senza che ciò sia giustificato per garantire l’etica, la dignità o la reputazione del difensore, o la qualità delle prestazioni.
Inoltre paventare possibili conflitti d’interessi privati (del cliente e dell’avvocato part-time) con interessi pubblici (ad una efficace amministrazione della giustizia e al buon andamento dell’amministrazione con cui l’avvocato continui ad intrattenere un rapporto part-time) non può rappresentare una valida argomentazione per proporre la soluzione "preventiva" dell’incompatibilità solo tra pubblico impiego part-time e avvocatura; e ciò perché tale argomentazione:
1) prova troppo
2) ha per presupposto una ormai superata visione dei rapporti tra pubblica amministrazione e dipendente pubblico.
Quanto al punto 1)
Ove fossero realistici i conflitti di interessi prospettati dai fautori dell’incompatibilità, le molteplici eccezioni al supposto "principio dell’incompatibilità nell’esercizio dell’avvocatura" già previste dalla vecchia legge professionale forense -e ritenute legittime dalla Corte Costituzionale- non dovrebbero coerentemente più consentirsi neppure per i professori. D’altro canto, per gli avvocati dipendenti di Enti pubblici, la cui "indipendenza" è chiaramente inesistente, dovrebbe pervenirsi coerentemente alla cancellazione dal vagheggiato albo degli "indipendentissimi" avvocati. E parimenti potrebbero, e dovrebbero, paventarsi guasti in quasi tutte le ipotesi di iscrizioni nei più diversi albi da parte di impiegati pubblici part-time, per lesione di beni anche diversi dal diritto di difesa e non meno degni di questo, e conseguentemente dovrebbero prevedersi analoghe incompatibilità anche per l’iscrizione in tali diversi albi.
Inoltre, per coerenza, ci si aspetterebbe che, per la salvaguardia di una effettiva indipendenza nell’amministrazione della giustizia, i fautori dell’incompatibilità tra impiego pubblico e avvocatura reclamassero anche l’incompatibilità tra pubblico impiego e partecipazione alla difesa in giudizio di soggetti importanti quanto l’avvocato per le sorti di causa: ingegneri, architetti, geometri, periti agrari ecc. che svolgano la funzione di consulente tecnico. Invece anche il dubbio di costituzionalità in tal senso formulato dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera, con riguardo al precedente, identico, "progetto Parrelli" non è stato adeguatamente valutato dagli odierni On.li proponenti. Una tale svalutazione del ruolo fondamentale dei consulenti tecnici nel processo manifesta una ben strana concezione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione: una concezione tutt’altro che garantista nella sostanza e, invece, settoriale, formalista e non sufficientemente attenta ai concreti interessi processuali della parte. La norma costituzionale presidia infatti tutti gli aspetti del diritto di difesa che per essere tale, e cioè potenzialmente efficace, deve anche potersi concretare nell’attività -certamente non inficiata da dubbi di contrasto di interessi con l’imputato o con la parte del processo civile- sia dell’avvocato che del consulente tecnico, di parte e d’ufficio. Nessuno potrà negare che una efficace argomentazione può risolversi tutta "in diritto" oppure tutta "in fatto"! D’altronde che il ruolo dei consulenti tecnici di parte e d’ufficio possa essere, per l’esito della causa, di rilevanza pari, e spesso superiore, a quello dell’avvocato è esperienza comune ed è alla base della estensione del "patrocinio a spese dello Stato" anche al costo della consulenza tecnica. Per concludere sul punto si rileva che anche la partecipazione alla attività difensiva da parte dei consulenti tecnici può trovare gli stessi presidi all’indipendenza del professionista sopra prospettati per l’avvocato (la responsabilità penale, civile e disciplinare), senza che sia affatto necessario prevedere –e infatti non risultano avanzate- iniziative di legge parallele a quella in questione, volte a introdurre generalizzate incompatibilità che, per il limitato fine di garantire la piena indipendenza di un potenziale consulente tecnico (ad es. impiegato part-time e idoneo all’esame di abilitazione professionale di ingegnere, geometra o commercialista), impediscano a tutti gli impiegati pubblici part-time di iscriversi nell’albo professionale degli ingegneri o dei geometri o dei commercialisti ecc., o che limitino le loro possibilità di svolgere attività professionale in ambito giudiziario, quali consulenti di parte o d’ufficio. Ciò non vuol dire che per gli impiegati part-time che si iscrivano nei più diversi albi professionali non potrebbero prevedersi (utilizzando lo strumento dei Decreti Ministeriali previsto dall’art. 58 bis l. 662/96 e, ovviamente, ponendo sullo stesso piano coloro che nel processo potrebbero essere avvocati e coloro che potrebbero essere consulenti tecnici, come disposto dal Decreto del Ministro di Grazia e Giustizia del 6/7/98) limiti all’attività professionale consistenti in preclusioni territoriali e/o per materia che derivino dalle specifiche attribuzioni dell’Ente pubblico col quale si mantiene il rapporto d’impiego. E’ dunque accettabile l’equiparazione (prevista dagli artt. 2, comma 2, e 12 del Decreto del Ministro di Grazia e Giustizia del 6/7/97), ai fini della fissazione di limiti territoriali all’attività professionale, tra impiegati part-time che siano anche avvocati, commercialisti, ragionieri e periti commerciali da un lato (le cosiddette "professioni legali e assimilate" secondo l’opportuna valutazione di merito operata dal suddetto Decreto del Ministro di Grazia e Giustizia), e, dall’altro, impiegati part-time che comunque abbiano i requisiti per l’iscrizione ai c.d. albi dei consulenti e dei periti istituiti presso gli uffici giudiziari. Quello che non è accettabile è invece che si escluda in radice la possibilità di esercizio di una sola delle professioni giustamente accomunate nella definizione di "professioni legali e assimilate". Solo valutazioni ponderate, con riferimento a ragioni di opportunità relative alla materia specifica attribuita alla cura della pubblica amministrazione con cui l’impiegato-avvocato mantiene il rapporto d’impiego, potrebbero semmai giustificare l’individuazione (con D.M. ex art. 58 bis l. 662/96) di ulteriori limiti, territoriali e/o attinenti a singole materie, all’esercizio del patrocinio.
Per altro verso si vuol ricordare che la Cassazione, Sez. III, con la sentenza 3404, depositata l’ 8 marzo 2001, in tema di ampiezza dell’obbligo di fedeltà del commercialista nei confronti del cliente, ha implicitamente evidenziato che le argomentazioni proposte, senza successo (vedi Corte Cost. 189/2001), dal Consiglio Nazionale Forense alla Corte Costituzionale -con riguardo appunto alla impossibilità, per il pubblico dipendente avvocato, di adempiere al dovere di fedeltà verso il proprio cliente unitamente al dovere di denuncia derivategli dal rapporto di pubblico impiego- qualora fossero fondate, dovrebbero comportare l’incompatibilità tra impiego pubblico ed ogni ulteriore attività professionale, e non solo tra avvocatura e impiego pubblico. Dovrebbe coerentemente esser ripudiata anche la normativa che consente agli insegnanti di svolgere le più svariate professioni.
Quanto al punto 2)
Paventare i detti conflitti di interessi presuppone quadri di riferimento superati dalla privatizzazione del pubblico impiego con riguardo all’effettiva portata del dovere di fedeltà alla Repubblica dei dipendenti pubblici sancito dall’art.54 della Costituzione. Basti pensare che i doveri e i diritti che dopo il 1933 sono stati riconosciuti al pubblico dipendente gli consentono una situazione di libertà, indipendenza ed autonomia certo analoga a quella dell’avvocato che sia anche professore, universitario o di istituti superiori (anch’esso pubblico dipendente e non necessariamente in part-time al 50%).Occorre, al riguardo, ricordare la sentenza della Corte Costituzionale n. 309/97: la Corte richiama una sua precedente sentenza, la n. 313 del 1996, insistendo sulla distinzione tra aspetto organizzativo della pubblica amministrazione, che ha necessariamente una connotazione pubblica, e rapporto d’impiego dei dipendenti pubblici, che ben può essere regolato dal diritto comune poiché l’art. 97 della Costituzione non impone un regime pubblicistico per il rapporto d’impiego dei dipendenti pubblici. Il rapporto d’impiego, secondo la Corte, si configura sempre più "nella sua propria essenza di erogazione di energie lavorative", cioè come mero fattore della produzione da utilizzare per le finalità istituzionali dell’amministrazione. D’altronde la stessa legislazione sul part-time nel pubblico impiego vale a connotare alcune figure di pubblico impiegato (quelle appunto per le quali è riconosciuto un vero e proprio diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro in "rapporto di lavoro a tempo parziale") come "erogatori di energie lavorative" ai quali si è ritenuto, a monte, di poter consentire, o per la qualifica rivestita (il part-time non è consentito ai dirigenti) o per la tipologia di funzione che si esercita o al cui esercizio si concorre (ad es. non possono essere a tempo parziale, ex art. 57 della l. 662/96, i rapporti di lavoro del personale militare, di quello delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco) una relazione di lavoro con l’Ente pubblico non esclusiva.
Considerando inoltre che il più generale fenomeno della privatizzazione del pubblico impiego favorisce il buon andamento dell’amministrazione e non ne intacca l’imparzialità, si deve concludere che la fedeltà dei pubblici impiegati alla Repubblica non deve essere enfatizzata –come si fa nella relazione al "progetto Bonito" ed in generale da parte dei fautori dell’incompatibilità- per ipotizzare scenari irrealistici di danno agli interessi privati e al bene pubblico ad opera di impiegati–avvocati.
La configurazione attualmente riconosciuta dalla Corte Costituzionale al rapporto di impiego con pubbliche amministrazioni non consente più di prospettare, quanto alla problematica che ci interessa, una posizione sostanzialmente differente (sia con riguardo alle garanzie per il dipendente, sia con riguardo ai suoi doveri) tra professori e assistenti universitari e professori degli istituti secondari di Stato, da un lato, e, dall’altro, tutti quegli altri dipendenti pubblici ai quali l’art.1, commi 56 e 56 bis, l. 662/96 consentono, in conseguenza di una previsione contrattuale di una prestazione lavorativa non superiore al 50% dell’ordinaria, l’iscrizione all’albo avvocati. Non vale a giustificare il mantenimento di un trattamento privilegiato per i suddetti docenti, quanto all’iscrivibilità all’albo avvocati, il sostenere che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avrebbero affermato, con la sent. 1750 del lontano 1981, che costoro non possono essere considerati esercenti un’attività che sia soggettivamente riferibile all’ente dal quale dipendano o sia comunque diretta a realizzare fini particolari dell’ente medesimo. Nè vale il sottolineare che tali docenti provvedono alla formazione culturale dei cittadini, nei vari campi del sapere, attraverso l’obiettivo approfondimento delle relative discipline e svolgono questa funzione in condizioni di indipendenza, data la garanzia costituzionale della libertà d’insegnamento. Le profonde innovazioni recentemente apportate con la c.d. "privatizzazione" del pubblico impiego non permettono più di sostenere, enfatizzando la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n.1750 del lontano 1981, che l’unica eccezione al principio dell’incompatibilità del pubblico impiego coll’avvocatura, che sia conciliabile col principio dell’indipendenza difensiva, sia quello del docente pubblico che svolge la sua funzione sotto l’usbergo costituzionale della libertà d’insegnamento, essendo quest’ultimo non riferibile direttamente all’ente pubblico. E d’altro canto non si vede come si possa escludere il pericolo –tanto paventato dai fautori dell’incompatibilità- che l’esistenza del rapporto d’impiego possa creare, anche per i docenti, limiti o condizionamenti ai fini del pieno e libero esercizio della professione forense; oppure come si possa evitare di trarre dall’argomentazione prospettata la logica conseguenza che anche ai professori di università o istituti superiori privati debba esser consentita l’iscrizione all’albo degli avvocati.
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La diversità tra impiego pubblico in part time ridotto per qualifiche non dirigenziali e la titolarità di incarichi di governo (da quello di Ministro a quello di sottosegretario a quello di titolare di uffici di vertice magari nel Ministero della Giustizia) ai fini della incompatibilità con l’esercizio della professione forense.
Necessità di una esplicita previsione legislativa della incompatibilità tra la titolarità di tali cariche di vertice e l’esercizio della professione forense.
Non approfondisco l’indagine -per l’evidenza dello scandalo di una "politica delle incompatibilità a corrente alternata"- su un aspetto fondamentale ai fini del riconoscimento della incostituzionalità, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, della proposta Bonito, e cioè, sul fatto che la detta proposta di legge tralascia di introdurre l’incompatibilità tra esercizio della professione forense e incarico di vice procuratore onorariorio, fattispecie connotata da preoccupazioni, per accaparramento di clientela e conflitto di interessi, quantomeno pari a quelle che possano nutrirsi per l’ipotesi del dipendente pubblico che sia anche avvocato.
Evidenzio invece la questione dell’esercizio dell’attività forense da parte di ministri, sottosegretari, capi di uffici legislativi e altri titolari di uffici di vertice di amministrazioni pubbliche. Una situazione molto differente, nei fatti e nella mente di ogni persona di buon senso, da quella del dipendente pubblico (non dirigente) oggi ammesso a scegliere il part time e iscriversi all’albo degli avvocati, è quella del Ministro, del sottosegretario, del titolare di uffici di vertice ministeriali ecc…che siano anche avvocati. Non si dubiterà che questi ultimi hanno, rispetto al dipendente pubblico in part time ridotto, e di qualifica neppure dirigenziale, un ben maggior potere, una seria capacità di incidere su scelte politiche e amministrative che possono aver rilevanza su casi concreti in qualche modo interessanti i medesimi soggetti quali professionisti. Non si dubiterà che, per costoro, potrebbe crearsi veramente quello strano rapporto di interazione pubblico-privato, che si paventa nella relazione al progetto di legge n. 543 "per cui il prestigio del difensore non sarà più basato sulla sua professionalità, ma sul suo potere nell’ambito della amministrazione, con creazione di una clientela al di fuori di una corretta concorrenza professionale ed una commistione di interessi privati in attività pubbliche". Per costoro, dunque, ma solo per costoro, deve essere introdotta una chiara incompatibilità con l’esercizio della professione di avvocato. Ebbene, la "proposta Bonito", nella quale l’On. primo firmatario non ravvisa elementi di interesse corporativo, è volta a salvaguardare l’avvocatura dall’ingresso di "monsieur Travet" ma non da quello di Ministri, sottosegretari, capi degli uffici legislativi, ecc.., in quanto non legati ad una amministrazione pubblica con un rapporto di pubblico impiego. Il che mi sembra francamente troppo! Su "il sole 24 ore" del 14/10/2001 il Presidente del Consiglio Nazionale Forense, avv. Buccico, nel commentare il probabile sostanzioso ingresso di avvocati ai vertici di via Arenula, previsto dalla recente riforma del Ministero della giustizia, di cui il Ministro Castelli pare aver intenzione di servirsi rapidamente per ovviare alle recenti "scoperture", ha risposto alla domanda se l’assunzione a tali uffici di vertice dell’amministrazione della giustizia sia compatibile con l’attività professionale. La risposta è stata: "Sono convinto di si. La legge non dice nulla, parla solo di contratti di collaborazione continuativa. Tuttavia, chi ricoprirà questi posti, dirigerà l’ufficio a tempo pieno; il che determina, di fatto, una situazione di impiego, che fa scattare l’imcompatibilità"…. "L’incompatibilità dovrebbe essere sancita per legge per chiunque rivesta incarichi pubblici ministeriali o di sottosegretario. Finora la questione è stata risolta solo sul piano interpretativo, con riferimento alla nostra legge professionale. Così alcuni Ministri si sono cancellati dall’albo, come Flick, altri no, come Biondi, che di fatto però, non esercitava la professione". Il Presidente del C.N.F., dunque, riconosce l’assenza di un obbligo giuridico, per quanti, Ministri o soggetti incardinati in uffici di vertice di ministeri o enti pubblici di primo piano con contratti tecnicamente di collaborazione continuativa, sono i massimi responsabili di rilevantissime scelte politiche e amministrative, anche nel settore della politica di giustizia. La sensibilità da taluni dimostrata nel cancellarsi dall’ordine degli avvocati è cosa ben diversa dal doveroso rispetto di una incompatibilità che dovrebbe essere prevista dalla legge, che, invece, non lo è, e che la "proposta Bonito" non varrebbe ad introdurre, in quanto non riferibile a tutti i rapporti di collaborazione continuativa di cui sopra o al ruolo di Ministro o sottosegretario. Ovviamente –e su ciò tutti saranno d’accordo con L’avv. Buccico- nessuna incompatibilità può introdursi tra l’esercizio della professione e l’attività parlamentare. Data la rilevanza e l’ampiezza delle questioni -sulle quali la Camera non ha posto attenzione come si può chiedere che non sia l’assemblea del Senato, ma la sola Commissione Giustizia in sede legislativa, ad esaminare tale ampia problematica? Come si può, poi, per desiderio di evitare i rischi minori (ma in realtà inesistenti) di commistione tra interessi pubblici e privati, dimenticare totalmente la giusta prevenzione dei rischi maggiori? Sembrerebbe, dunque, non condivisibile la fretta di reintrodurre l’incompatibilità tra impiego pubblico in part time ridotto ed esercizio della professione forense, manifestata da alcuni soggetti interessati alla vicenda in questione. A parte ogni considerazione sulla scelta operata dai proponenti il progetto di legge, che hanno inserito, all’art. 2, la previsione della entrata in vigore della legge il giorno successivo alla sua pubblicazione in gazzetta ufficiale, mi sembra non condivisibile la fretta di pervenire ad una approvazione rapida della proposta n. 543, manifestata da quanti richiedono l’assegnazione in Commissione in sede legislativa. Inoltre, per quanto sopra detto, non mi sembra condivisibile il giudizio, circa la urgenza del provvedimento legislativo in questione, riportato in un articolo del Sole 24 ore dello scorso 4 ottobre, del Presidente del Consiglio Nazionale Forense, avv. Buccico, nonchè il giudizio del Presidente della Commissione Giustizia della Camera il quale, riterrebbe urgente l’approvazione del "progetto Bonito" e avrebbe affermato che i problemi relativi ai diritti acquisiti da parte di quei dipendenti pubblici già in part time e già iscritti all’albo "Sono questioni marginali che non impediranno una rapida approvazione del provvedimento". L’inopportunità di un esame in sede deliberante appare indiscutibile anche per la necessità di una approfondita ponderazione nel quadro della riforma organica di tutti gli ordinamenti professionali e per la necessità di non introdurre regimi di incompatibilità ingiustificatamente differenziati tra le varie professioni.
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La quantificazione del fenomeno "avvocati part time". Maggiore spesa pubblica e mancato risparmio se la "proposta Bonito" diventa legge.
La proposta di legge, che corrisponde ad una chiusura corporativa dell'avvocatura, oltre a trascurare tutte le condivisibili analisi della sent. 189/2001 della Corte Costituzionale sull’utilità (per la pubblica amministrazione, per i clienti degli avvocati, e per la Giustizia), della attuale disciplina, lede gravemente i diritti di numerosissimi dipendenti pubblici.
I dipendenti pubblici in part time che esercitano regolarmente la professione di avvocato sono, infatti, molto più numerosi di quanti possano risultare, al Ministero della Funzione Pubblica, aver (prima o dopo la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale) dichiarato all'amministrazione di appartenenza che la loro scelta per il part time era volta all'esercizio della professione forense.
In realtà non v'è autentico e sanzionabile obbligo di dichiarare alla amministrazione di appartenenza, nel momento stesso in cui si chiede la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, l'intenzione di avviare (una volta in part time) una attività professionale.
La norma di cui al primo periodo dell'art. 58, l. 662/96 è certamente priva di sanzione e rappresenta una indicazione quasi mai seguita da chi intende avviare, per l'avvenire, una attività professionale.
Quando poi l'attività è stata avviata, il rispetto delle "incompatibilità nell'attivtà" garantisce, di fatto, da sanzioni per la mancata comunicazione dell'inizio dell'attività stessa e dunque rende superflua la comunicazione alla propria amministrazione del detto inizio.
Voglio ricordare che il Consiglio Nazionale Forense, subito dopo l’entrata in vigore della l. 662/96, ha in un primo momento, quale "consulente" dei consigli dell'ordine locali, suggerito ai medesimi di non tener conto della novella che rendeva compatibile professione e impiego pubblico in part time (dandone una assurda interpretazione abrogatrice) e dunque di respingere le domande di iscrizione all’albo avanzate dai dipendenti pubblici in part time e, poi, vestiti i panni di giudice speciale avverso i dinieghi di iscrizione che esso stesso aveva stimolato, ha, contraddittoriamente, ritenuto di interpretare le medesime disposizioni della l. 662/96 come innovative e fonte dell'obbligo astratto di iscrivere all’albo i dipendenti pubblici in part time, ma nel contempo ha ritenuto tali norme incostituzionali e dunque le ha sottoposte al giudizio della Corte Costituzionale.
Dal 1996 la situazione di incertezza si è dunque mantenuta fino allo scorso giugno, allorchè la sent. n. 189 della Corte Costituzionale ha fatto giustizia delle gravi pretese corporative.
Si può ragionevolmente ritenere che, in tale situazione di incertezza, la gran parte di quanti hanno ottenuto l'iscrizione all'albo degli avvocati non abbia poi comunicato all'amministrazione di appartenenza l'avvenuta iscrizione.
E per questo motivo, in realtà, le amministrazioni pubbliche non sanno e non possono riferire al Ministero della Funzione Pubblica, se non gravemente sottostimando il fenomeno, ciò che il Presidente della Commissione Giustizia della Camera ha chiesto di sapere da quel Ministrero nel corso della seduta del 25 settembre scorso della Commissione Giustizia, e cioè quanti siano gli impiegati pubblici in part time che esercitano la professione di avvocato.
Si noti inoltre, sempre ai fini di un chiarimento circa l'impossibilità per il Ministero della Funzione Pubblica di fornire i dati ritenuti essenziali dal Presidente Pecorella, che l'art. 1, comma 65, l. 662/96 prevede che non si applica agli impiegati degli enti locali, tra le altre, la norma che impone di comunicare all'ente locale, datore di lavoro, l'iscrizione all'albo.
Dunque, come può il Ministero della Funzione Pubblica chiarire quanti siano i dipendenti degli enti locali in part time che svolgono la professione di avvocato? Non può!
E ciò a prescindere dal dubbio, che abbisognerebbe di provata risposta, circa la effettiva comunicazione, in via ordinaria, al Ministero della Funzione Pubblica, da parte di tutte le amministrazioni pubbliche che pur comunicassero il numero degli impiegati in part time, del numero di quelli che, tra tali impiegati in part time, risultino alle singole amministrazioni di appartenenza essere iscritti a ciascun albo professionale.
Dubito che le singole amministrazioni riferiscano periodicamente al Ministero della Funzione Pubblica su quanti dei loro impiegati in part time svolgano la libera professione di avvocato, ingegnere, ragioniere, commercialista ecc....
In realtà il Ministero della Funzione Pubblica non può fornire, sulla base dei pochi dati a sua disposizione, indicazioni attendibili circa la dimensione del fenomeno "avvocati in part time".
Certamente, d’altro canto, non può fornirle il Consiglio Nazionale Forense, visto che per ottenere l’iscrizione all’albo è previsto, dalla legge professionale, soltanto che si dichiari l’inesistenza di condizioni di incompatibilità ed è stato quindi possibile, e pienamente legittimo, dall’entrata in vigore della l. 662/96, chiedere di essere iscritti all’albo senza manifestare la propria qualità di pubblico dipendente in part time.
L’art. 35, comma 2, del R.D. 22/1/1934, n. 37 "Norme integrative e di attuazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento della professione di avvocato", dispone: "Nelle domande per l’iscrizione in un albo di avvocati gli aspiranti debbono dichiarare, sul loro onore, che non si trovano in alcuno dei casi di incompatibilità stabiliti dal r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578". Dopo l’entrata in vigore della l. 662/96, che all’art. 1, comma 56, ha previsto "…le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno", è stato pienamente legittimo chiedere di essere iscritti all’albo degli avvocati senza palesare al consiglio dell’ordine degli avvocati la propria qualità di dipendente pubblico in part time ridotto.
Dunque non può riconoscersi nessun valore alla indicazione, che parrebbe esser stata fatta (vedi "il sole 24 ore" del 4/10/2001) dal Presidente del Consiglio Nazionale Forense, secondo la quale soltanto 150 (sommando quelli già iscritti e quelli in attesa di iscrizione all’albo avvocati) sarebbero, ad oggi, i pubblici dipendenti che hanno optato per il part time ridortto al fine di svolgere anche la professione di avvocato. Anche la indicazione "circa un centinaio" fatta dal sottosegretario Giuseppe Valentino, nel corso della seduta della Commissione Giustizia della Camera del 16 ottobre scorso, con riguardo al numero dei soggetti che avrebbero beneficiato della l. 662/96 non è esatta per il semplice fatto che dall’entrata in vigore della l. 662/96 le fonti della conoscenza del dato in questione sono state abrogate.
Si deve ragionevolmente ipotizzare che se 150 persone hanno dichiarato, nel redigere la domanda di iscrizione all’albo avvocati, di essere dipendenti pubblici in part time, un numero enormemente maggiore ha preferito invece non dichiarare l’esistenza del rapporto di pubblico impiego.
Peraltro lo stesso On. Bonito, primo firmatario della proposta di legge in oggetto, nel corso della seduta della Commissione Giustizia della Camera del 13 settembre scorso, ha valutato che la sua proposta di legge riguarda MIGLIAIA DI DIPENDENTI PUBBLICI e che l’opzione da parte di questi ultimi è destinata a creare problemi per la pubblica amministrazione, in quanto presumibilmente la maggior parte di essi tornerà al rapporto di lavoro a tempo pieno.
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Il parere espresso dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera, nel corso della XIII legislatura sulla identica "proposta Parrelli".
Dai lavori parlamentari sulla proposta "Parrelli", atto Camera n. 3274, presentata nel corso della precedente legislatura, risulta che la Commissione Affari Costituzionali della Camera rilevò che la condizione di dipendenza del difensore dovrebbe valere non come preclusione dell’iscrizione all’albo avvocati ma come causa di incompatibilità in relazione a singoli affari che si presentino all’avvocato, per motivi di deontologia professionale o per conflitto di interessi. Assurda appare la replica a tale rilievo tentata dal relatore Parrelli nella seduta della Commissione Giustizia della Camera del 28/10/97, allorché costui negò la distinzione fondamentale tra una causa di incompatibilità per lo svolgimento di un singolo affare ("incompatibilità" nel senso, ad esempio, dell’art. 106 del c.p.p.) e l’incompatibilità come preclusione all’iscrizione all’albo. E’ inoltre sicuro che non vi sarebbe necessità alcuna di dettare –come all’epoca sostenuto dal relatore Parrelli- una specie di minicodice deontologico ad uso e consumo degli avvocati pubblici dipendenti a tempo parziale. I divieti previsti dal Codice Deontologico Forense, approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 17/4/97, possono garantire benissimo i vari interessi, pubblici e privati, coinvolti. Lo ha confermato chiaramente la sentenza n. 189/2001 della Corte Costituzionale. L’argomentazione prospettata, in ordine alla "proposta Parrelli", dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera, nel corso della precedente legislatura, va condivisa; se ne deve però evidenziare l’inconciliabilità con la formulazione del parere, conclusivamente espresso in senso favorevole alla "proposta Parrelli".
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L’opzione e la tutela dei diritti quesiti.
Per superare le critiche e la prevedibile sollevazione dei dipendenti pubblici interessati (non solo di coloro che già sono in part time e hanno ottenuto l'iscrizione all'albo ma anche di quanti, NUMEROSISSIMI, sarebbero intenzionati a scegliere il part time per iniziare la professione), si vorrebbe edulcorare la gravissima lesione di quello che ormai è un diritto quesito ad esercitare la professione attraverso un emendamento alla "proposta Bonito", che prevede la possibilità di esercitare l'opzione tra avvocatura e impiego pubblico entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge.
Un tale emendamento non deve essere ritenuto affatto sufficiente.
Per un verso, infatti, qualora venisse promulgata una legge che reintroducesse l’incompatibilità per i soli avvocati, essa sarebbe incostituzionale per i motivi sopra esposti e la Corte Costituzionale, seguendo i criteri espressi nella sua recente sent. n. 189/2001, ne dichiarerebbe sicuramente, si ritiene, l’incostituzionalità.
Per altro verso, l’introduzione di un periodo, per esercitare l’opzione tra pubblico impiego e professione, non ridurrebbe di una lira, per lo Stato e per i vari datori di lavoro pubblico, le pesantissime maggiori spese e i rilevantissimi mancati (e facilmente realizzabili!) risparmi che conseguirebbero alla reintroduzione del principio di incompatibilità. E’ inoltre da affermare l’incostituzionalità di una eventuale legge che, senza giustificazione (essendo la sua giustificazione, in realtà, un motivo di censura della legittimità costituzionale di precedente contraria norma, respinto definitivamente, sulla base del vigente quadro normativo, dalla Corte Costituzionale) non rispetti l’affidamento posto dal cittadino nella certezza della legge esistente. Come insegna la sentenza 27/10 – 4/11/99, n. 416 della Corte Costituzionale, è necessario infatti che siano salvaguardate situazioni sostanziali che si sono create, fondate sulla vigenza di leggi precedenti.
A fronte della eventuale, ma comunque deprecabile, reintroduzione della incompatibilità tra impiego pubblico in part time ridotto e professione forense, possono riconoscersi titolari di una posizione differenziata, che è giusto e doveroso tutelare, consentendo il perdurare della doppia attività di impiegato pubblico e di avvocato, coloro che sono stati iscritti regolarmente all’albo in base all’art. 1, comma 56, della l. 662/96, e non hanno subito procedimenti disciplinari per accaparramento di clientela o per esercizio della professione in situazione di concreto conflitto di interessi (cioè in relazione a quella sovrapposizione di interessi contrastanti, pubblico e privato, che ad avviso degli On.li proponenti potrebbe derivare dalla suddetta doppia attività di dipendente pubblico e avvocato).
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Broad Economic Policy Guidelines (BEPGs)
Si ricorda poi che la Commissione Europea, nello scorso aprile, ha sollecitato l’Italia ad "aumentare la concorrenza e liberalizzare l’accesso ai servizi professionali". La raccomandazione si trova nelle Broad Economic Policy Guidelines (BEPGs), citate nel testo del D.p.e.f., e mira a rafforzare la competitività del nostro sistema economico, in particolare nei settori in cui la conoscenza ha un ruolo chiave.
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Paragrafo III.6 dell’ "Analisi" al D.p.e.f. 2002 - 2006
Infine si rammenta come il paragrafo III.6 dell’ "Analisi" al Dpef 2002-2006, intitolato "La liberalizzazione degli ordini professionali", affermi "… In linea generale, è essenziale che la regolazione tenga conto dei criteri di necessità e proporzionalità, come la stessa Autorità Antitrust ha più volte affermato, in modo tale da sottoporre a regolazione solo ciò che necessita di un controllo esterno da parte dello Stato… Un’ulteriore spinta alla riforma del settore può scaturire dalla considerazione dell’urgenza di adeguare la regolazione delle professioni alla evoluzione del mercato e al contesto economico, verificando che i vincoli all’accesso alle professioni rispondano effettivamente all’esigenza di tutela dell’utente e di massimizzazione della qualità della prestazione professionale".
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Conclusioni
Si vuol infine sottolineare che l’eventuale "legge Bonito" limiterebbe la concorrenza nell’offerta del "servizio difesa", per una eccessiva attenzione ad una inesistente minaccia al mitizzato bene dell’autonomia e indipendenza del difensore, senza peraltro realizzare alcuna pubblica utilità e mantenendo la classe forense "al riparo" da un salutare incremento di concorrenzialità, con vera e grave limitazione del diritto di difesa. Perciò, ad essere censurabile per violazione del diritto di difesa –sotto il profilo della ingiustificata riduzione delle opportunità di scelta del professionista cui rivolgersi per la propria difesa tecnica- sarebbe l’eventuale "legge Bonito".
Da quanto sopra rappresentato dovrebbe derivare, si ritiene, una decisa riconferma, da parte del Parlamento, della scelta di libertà operata con la legge n. 662/96, evitandosi l’approvazione del "progetto Bonito" e la conseguente introduzione, nell’ordinamento italiano, di norme legislative ingiustificatamente limitatrici di una corretta concorrenza nella prestazione dell’attività professionale di avvocato, ingiustificatamente limitatrici dell’accesso al mercato del servizio professionale di avvocato, e, in sintesi, costituzionalmente illegittime per violazione degli art. 2, 3, 4, 24, 35, 41 e 54 della Costituzione.
Rieti, 19/10/2001
Omissisa
cura di magistratura democratica romana
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