Prima di cominciare il suo lavoro*

di Fausto Nisticò

C’ero anch’io al Palazzaccio, il venti di aprile, provinciale frastornato dalla minaccia apotropaica delle sue grandi statue, da cupi quadracchioni dedicati a personaggi severi, facce di marmo terribili, fasci romani, scaloni interminabili, cattedre di legno scuro, soffitti affrescati altissimi: ubù-palazzo di giustizia, per dirla con Dario Fo.

Mi è tornato alla mente un pensiero di ubù-Pascal: " Chi dispensa la reputazione? Chi procura rispetto e venerazione alle persone, alle opere, alle leggi, ai grandi se non la facoltà immaginativa?… I nostri magistrati hanno ben compreso questo mistero. Le loro toghe rosse, gli ermellini in cui si ammantano come gatti dal pelo lungo, i palazzi dove esercitano la giustizia, i simboli floreali, tutto questo solenne apparato è decisamente necessario; e se i medici non avessero sottanoni e cavalcature, e i dottori berrette a quattro spicchi e vesti quattro volte più ampie del necessario, non prenderebbero per il naso la gente che non può resistere a così concreta pompa. Se quelli possedessero la verità e la giustizia e i medici la vera arte del guarire, non saprebbero cosa farsene delle berrette a quattro spicchi; la maestà della loro scienza sarebbe abbastanza venerabile per suo conto. Ma non possedendo che delle scienze immaginarie, bisogna che si riforniscono di quei vani artifici che colpiscono l’immaginazione, con cui sono in combutta: e con questi mezzi, in effetti, si procurano il rispetto".

Ma mentre mi prendevano questi pensieri ho incrociato, lungo uno sconfinato corridoio, ubù-Piercamillo D’Avigo e la cosa mi ha riassicurato perché vederlo mi dice che le cose che andava dicendo ubù-Pascal hanno sicuramente fatto il loro tempo, se ci sono giudici la cui reputazione è frutto della loro onestà intellettuale, del loro coraggio, del loro non temere i potenti, e non dei loro sfarzosi palamenti. E tanti Giudici, nell’aula magna del Palazzaccio, erano in maglioncino, qualche magistrato ragazzina era in jeans e ubù-Livio Pepino s’era accomodato su un tavolo, con le gambe ciondoloni e ubu- Carlo Sorgi (quello che a Forlì ha inventato il mobbing) vestiva d’un giubbotto sportivo.

Prima di cominciare il suo lavoro, ogni Magistrato giura; ma non sui propri figli, come spesso si fa per negare l’evidenza ("Ti giuro, cara, sui nostri figli, che si trattava di una cena di lavoro, che quella donna non è nulla per me…"), bensì sulla Costituzione. Una cosa un po’ più seria, perché si impegna ad applicarne i principi e perché i principi sono la legge naturale ed accettata di ogni comunità civile, comprese quelle orientali, e quelle musulmane e quelle escluse dal club dei potenti gallegianti al largo di Genova per il solo fatto di non avere quattrini a sufficienza per essere ammessi (ma ognuno galleggia come può, e qualche volta un gommone, al largo di Otranto, va a fondo: pazienza, non tutto ciò che naviga può essere adeguatamente protetto).

Quando si giura di far rispettare la Costituzione, si giura anche di non applicare quelle leggi che dei suoi principi facciano scempio. Per esempio se domani il parlamento a maggioranza varasse un provvedimento che raddoppia la pensione a chi sia più basso di un metro e sessantacinque (absit iniuria verbis) e la dimezza a chi sia più alto di un metro e ottanta, il giudice non applicherà questa legge ma chiamerà la Corte Costituzionale a cancellarla dall’ordinamento; farà questo perché ha giurato di tenere conto in primo luogo della Costituzione, perché si è impegnato a pensare, perché è pagato per ragionare. Così deve fare se una legge prevedesse di attribuire ad un imputato le attenuenti generiche obbligatoriamente se ha più di sessantacinque anni (et etiam absit iniuria verbis) e lo escludesse, per esempio, nei confronti di chi abbia un reddito inferiore a quello che serve per campare, o si trovi dalle nostre parti per disperazione: questa legge sarebbe irrazionale, ingiusta, violerebbe l’articolo tre della costituzione, non dovrà essere applicata dal giudice pensante. O se, per avventura, il Parlamento, naturalmente un ubù-parlamento, varasse un provvedimento nel quale si dice che non si paga più la tassa di successione, sicchè ci sarà chi parte prima e chi parte dopo, con il risultato che il primo vincerà sicuramente la gara; o se il Parlamento (ubù) varasse una legge nella quale si preveda che non si risponde di falso in bilancio se ci si è limitati a nascondere i soldi; o se si facesse una legge che consente a chi abbia nascosto i suoi soldi in Svizzera di riportali, sani e salvi, a casa pagando un due virgola cinque per cento, mentre chi li aveva (improvvidamente) tenuti in Italia aveva pagato il quarantacinque per cento; o se si dicesse che non importa aver tenuto qualche albanese a lavorare al nero, che tanto riemerge, lo ripuliamo, gli asciughiamo i capelli, e tutti amici come prima; o che per incremenetare l’occupazione occorre licenziare chi già il lavoro ce l’ha; o che il Consiglio Superiore della Magistratura, d’ora in avanti, come aveva premonito Cossiga undici anni fa, debba avere le stesse prerogative dei condomini ad una riunione di condomionio. Insomma, quando si fa una ubù-legge, il giudice, quello vero (non quello di Forum) ci deve ragionare sopra, perché questo è il suo ruolo istituzionale; se così non fosse, se anche le ubù-leggi dovessero comunque trovare applicazione, perché pagare un giudice tanti soldi tutti i mesi, quando basterebbe un buon impiegato, od un buon manager,magari selezionato con lo spoils system?

I soldi, accidenti, rieccoli! Un migliaio di giudici (di quelli che avevano giurato sulla Costituzione) avevano preannunciato una loro assemblea per il venti di aprile per decidere il da farsi di fronte ad un progetto di mortificante burocratizzazione della loro funzione (ed ora all’attenzione, insieme alla riforma dell’ordinamento giudiziario, degli ispettori dell’ ONU) ed anche per dirsi quello che primo ho detto, ed il giorno prima, proprio il giorno prima, dai vertici mercantili, arriva, puntuale, una vantaggiosa proposta economica: se fate i bravi vi daremo più soldi, con i soldi, si sa, si accomoda tutto, non scioperate e vi daremo gli aumenti, la famosa perequazione. Qualcuno, al Palazzaccio, mentre ci leggevano questo messaggio, si è sentito un po’ come quelle due prostitute accompagnate da Don Benzi cui sono stati staccati due assegni (personali) da cinque milioni o come quel Carabiniere ferito a Genova invitato a prendersi una bella vacanza "a spese" di chi lo incoraggiava a farlo. Ma non tutti i giudici sono in vendita e quelli che erano al Palazzaccio il venti di aprile hanno accolto la proposta con una bordata di fischi da curva nord . Proposta antica e volgarotta, quella dei quattrini; si legge già nel Piano di rinascita democratica, documento attribuito alla Massoneria , in parte dimenticato, come i suoi autori, ma oggi senz’altro rivitalizzato dagli eventi. Dunque lì si scriveva, a proposito delle strategie da utilizzare per avvicinare i giudici che "esiste già una forza interna (omissis) che raggruppa oltre il quaranta per cento dei magistrati (ora un po’ meno, ndr.) su posizioni moderate. E’ sufficiente stabilire un raccordo sul piano morale e programmatico ed elaborare una intesa diretta a concreti aiuti economici per poter contare su un prezioso strumento già operativo all’interno del corpo anche ai fini di taluni rapidi aggiustamenti legislativi che riconducano la giustizia alla sua tradizionale funzione di elemento di equilibrio della società e non già di eversione".

E qualche mese fa, ai Giovani Magistrati che languivano aumenti, il Ministro della Giustizia ha promesso soldi ed ha affidato ad un suo comunicato telematico (www.giustizia.it) il messaggio della sua munificienza (a parte le smentite del suo collega con la cassa) condizionato ad ogni richiesta che non fosse politica. Fate i bravi, se fate i bravi avrete i vostri soldi (un secolo fa nella pianura padana esisteva il contratto di lavoro con o senza mugugno, dove si prevedeva una paga maggiore per chi lavorava senza grilli per la testa).

Il fatto è che che ancora alcune cose non si possono commerciare come si fa nelle città-mercato: non la cultura istituzionale (e neppure quella non istituzionale), non il senso della collettività, non il cervello, non la passione, non la sensibilità, non il rispetto per i giuramenti convinti, non il compito affidato, non il dovere di terzietà del giudice che è l’essenza di ogni democrazia, non l’automia di giudizio e neppure il cuore, quando serve; perché il pensiero, specie quando è libero, non ha peso e misura e dunque non ha prezzo; esso, come sappiamo, appartiene all’essere e non all’avere.

Strano sciopero, quello proclamato al Palazzaccio l’altro giorno, per certi aspetti matto e disperatissimo. Né definibile secondo le categorie tradizionali: i giudici dell’Azienda Italia scioperano anche per respingere educatamente e dignitosamente la mancia blandita dal governo, l’odore dei soldi; scioperano non per avere una maggiore retribuzione ma per non avere alcun aumento di stipendio, scioperano anche per comunicare che la giurisdizione libera non è in vendita.

Maggio 2002


*In corso di pubblicazione anche sulla rivista "Centomila"

 

 

 

 

 

 

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