La parabola del diritto del lavoro*

di Giovanni Cannella

 

    1.Introduzione

Per ben comprendere la portata eversiva e rivoluzionaria delle proposte del governo Berlusconi in tema di lavoro, occorre ripercorrere brevemente la storia della nascita, dello sviluppo e poi della decadenza del diritto del lavoro in Italia, con un percorso che ben può essere sintetizzato con la parola "parabola".

La parabola è una figura geometrica, ma anche, "l'andamento di un fenomeno, di una situazione, di una circostanza, di una condizione, di una concezione filosofica, artistica, letteraria, politica che si svolge o si suppone svolgersi dapprima in ascesa (e tale stadio è detto parabola ascendente) e, raggiunto l'acme, successivamente tende o si crede tendere al declino e talvolta al dissolvimento (e in tale caso si ha una parabola discendente)" dal Grande Dizionario della Lingua Italiana, Utet.

E il diritto del lavoro in Italia ha avuto proprio un andamento parabolico e, anche se non si può ancora parlare di "dissolvimento", quanto sta accadendo oggi fa apparire la fine della parabola sempre più vicina.

2. L'inizio

In principio c'era il lavoratore, che faticava e veniva sfruttato.

Il lavoro non aveva regole, non c'era ancora il diritto del lavoro: la parabola non era ancora cominciata.

L'unica regola era il mercato (parola che ricorre molto nelle nuove proposte di riforma) e il lavoro era una merce, che, sulla base del rapporto domanda-offerta, poteva costare pochissimo con condizioni di lavoro analoghe alla schiavitù.

Dopo l’unificazione l’Italia era un paese prevalentemente agricolo e molto povero, tanto che le condizioni di lavoro alienanti nelle miniere e nelle industrie venivano considerate quasi privilegiate e comunque necessarie per non morire di fame.

Ma nella seconda metà dell’800 in tutta Europa e anche in Italia cominciarono a diffondersi le nuove idee del "socialismo" e della "lotta di classe".

I lavoratori cominciarono ad organizzarsi, prima in società di mutuo soccorso e poi in sindacati, scioperarono, pretesero condizioni di lavoro migliore.

E si cominciò a parlare anche di "diritto": per la prima volta si fece strada l’idea che il "diritto", non dovesse essere necessariamente riservato alle classi borghesi, ma anche le classi più umili, e quindi i lavoratori, potevano pretenderne qualcuno.

Nacque così, anche in Italia, il "diritto del lavoro", quale diritto speciale, particolare, basato sulla scoperta, rivoluzionaria per l’epoca, che i lavoratori erano persone e non merci e che quindi le condizioni del lavoro non potevano basarsi solo sulle leggi di mercato, ma dovevano tenere conto della particolare specialità della merce.

3. Comincia l'ascesa della parabola

Si cominciò con la pretesa di retribuzioni migliori, ma poi si passò alle "regole" del rapporto di lavoro.

Si impose l'idea che il rapporto di lavoro non poteva essere regolato come un normale rapporto commerciale (vendita, appalto, mutuo, ecc.), nel quale i reciproci diritti venivano disciplinati sulla base del principio dell'equilibrio tra gli interessi contrapposti delle parti senza vantaggi per una o per l'altra.

Nel rapporto di lavoro, infatti, il punto di partenza era lo squilibrio tra le parti, perché il datore di lavoro era in una posizione, soprattutto economica e di potere, oltre che funzionale, di preminenza, con la possibilità di imporre le proprie condizioni.

Pertanto il "diritto del lavoro" nacque e si sviluppò con la funzione di riequilibrare la posizione di svantaggio del lavoratore o quantomeno di ridurla.

Peraltro, affinché tale risultato fosse effettivo e non solo sulla carta, le norme a difesa del lavoratore dovevano essere "inderogabili" e quindi non modificabili neppure con il consenso dello stesso lavoratore. E' evidente, infatti, che la posizione di svantaggio avrebbe altrimenti indotto il lavoratore, pur di lavorare, ad accettare qualsiasi deroga alle norme poste a sua tutela.

Furono introdotte quindi norme di tutela del lavoro, che limitavano simmetricamente la "libertà" di impresa attraverso una serie di vincoli e di divieti.

4. La legislazione dell’inizio del novecento

All’inizio la tutela del lavoro passava solo attraverso accordi, dai primi "concordati di tariffa" in poi, tra sindacati (all'inizio leghe e società di mutuo soccorso) e imprenditori, costretti dai primi scioperi a qualche concessione.

Poi, a cavallo tra ‘800 e ‘900, furono emesse le prime leggi di tutela, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro e assicurazione di invalidità e vecchiaia.

Ma fu paradossalmente con l’avvento del fascismo che la legislazione si sviluppò.

Dalle norme del 1923 di limitazione dell’orario di lavoro, alla prima disciplina sistematica del "contratto d’impiego" del 1926, che introduce il principio fondamentale del divieto di patti contrari alla legge se non più favorevoli al lavoratore, alla legge sul riposo domenicale e settimanale e di tutela delle donne e dei fanciulli del 1934, alla legislazione fondamentale in materia previdenziale del 1939, fino al codice civile del 1942.

Gli interventi legislativi si spiegano con il progetto di controllo dello Stato fascista su tutti gli aspetti della società, ma erano peraltro controbilanciati dal controllo dello Stato anche sui sindacati, con l’avvento dell’ordinamento corporativo nel 1926, che aboliva i sindacati liberi in cambio di sindacati controllati dallo Stato, e dall’introduzione del reato di sciopero.

In sostanza lo Stato fascista riconosceva sì alcune tutele in più al lavoratore, ma "dall’alto", abolendo la lotta di classe e il conflitto sindacale e, con la sottoposizione delle controversie alle procedure corporative "conciliative" e ad un magistratura completamente controllata, rendeva in realtà quelle tutele solo apparenti.

5. La parabola si impenna: la Costituzione

Con la fine della guerra e del fascismo si apriva uno scenario nuovo, nel quale i partiti di sinistra per il loro contributo fondamentale alla Resistenza potevano finalmente contare, imponendo la creazione di un nuovo Stato davvero democratico.

Si arrivò quindi alla Costituzione del 1948, che rappresentò un salto di qualità decisivo nello sviluppo democratico dell’Italia e nell’emancipazione del lavoratore, pur non trattandosi di una Costituzione "di sinistra", o addirittura "comunista", come oggi si vuol far credere, essendo in realtà frutto di un compromesso con le forze moderate, democristiane e liberali.

Nella Costituzione il lavoro diventa la base stessa della Repubblica: "L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro" (art. 1).

Dare il lavoro ai cittadini e tutelarne le condizioni è il compito fondamentale del nuovo Stato. La Costituzione lo dice esplicitamente con l’art. 4 ("La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto") o implicitamente con l’art. 2 ("La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale)". Inoltre un intero titolo della Costituzione, il III (artt. 35-47), è dedicato ai rapporti economici ispirati essenzialmente alla tutela dei lavoratori: in particolare per l’art. 41 la libertà d'impresa è condizionata alla funzione sociale.

Ma sarà soprattutto l'art. 3 della Costituzione il grimaldello per una più completa emancipazione dei lavoratori.

La norma, infatti, sancisce il principio di eguaglianza, non limitandosi però ad un'enunciazione solo formale, poiché attribuisce alla Repubblica il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese".

Sembra l'alba dell'utopia realizzata.

6. La parabola si impalla tra norme precettive e programmatiche

Ma la Costituzione rimase a lungo una bella prospettiva irrealizzata.

In primo luogo perché la Corte costituzionale, e cioè proprio l'organo che doveva verificare la corrispondenza delle leggi ordinarie con i principi costituzionali, entrò in funzione solo nel 1956 e il Consiglio superiore della magistratura, che aveva la funzione di sottrarre la magistratura al controllo dell'esecutivo, garantendone l'indipendenza, solo nel 1959.

Pertanto fino agli anni sessanta la magistratura fu sotto il controllo del potere esecutivo (conservatore), che aveva il potere di nomina degli alti gradi della magistratura e controllava quindi la Cassazione (composta in larga parte da magistrati di "derivazione fascista"), che provvedeva a sua volta alla selezione dei dirigenti degli uffici, provenienti necessariamente dalle sue file, e svolgeva la funzione di unificazione della giurisprudenza.

Il "conformismo" al potere dominante e alle decisioni della Suprema Corte era accentuato dall'organizzazione burocratica della carriera, con promozioni decise sostanzialmente dai capi e dai magistrati di cassazione e stipendi collegati alle funzioni svolte (superiori per appello e cassazione).

Ebbene la Cassazione, controllando il resto della magistratura, riuscì a sterilizzare la Costituzione, inventando la distinzione tra norme costituzionali programmatiche e precettive.

Passò in sostanza la tesi che molte norme costituzionali, tra cui soprattutto il principio di eguaglianza sostanziale, non erano immediatamente applicabili, ma si trattava di semplici "programmi" ed era poi il legislatore ordinario che doveva emettere le norme effettivamente vincolanti.

Ciò comportò che, per decenni dopo la Costituzione, rimasero in vita leggi "fasciste" e comunque disposizioni in contrasto con la norma fondamentale, anche nel settore del lavoro.

Dopo la Costituzione l'unica riforma rilevante in questo settore fu quella del collocamento del 1949, che ebbe la funzione di evitare abusi nella scelta dei lavoratori da assumere, sottraendola a favoritismi e condizionamenti.

Poi solo leggi di ordinaria amministrazione fino alla fine degli anni '50.

7. Verso l'acme della parabola: gli anni '60

Alla fine degli anni ’50 l’Italia fu sconvolta dal "boom" economico (addirittura nel ’59 la lira fu la moneta dell’anno a livello mondiale).

Molti imprenditori si arricchirono e ciò rese ancora più inaccettabili le condizioni di sfruttamento nelle quali i lavoratori continuavano a vivere.

In sostanza gli utili delle imprese, sempre maggiori, finivano tutti nei portafogli dei ricchi, soprattutto del nord, senza contribuire al miglioramento economico dei ceti più poveri, soprattutto del sud, che cominciarono ad emigrare in massa verso il settentrione più florido.

Tuttavia, da un lato lo sviluppo dell’industria portò con sé lo sviluppo di un sindacato più forte, dall’altro le maggiori disponibilità economiche e la convinzione che un miglioramento economico dei lavoratori serviva anche ai "padroni" (altrimenti chi comprava le "600"?) comportarono condizioni favorevoli per lo sviluppo del diritto del lavoro.

Ciò anche grazie alla "dottrina sociale" della Chiesa, che influì positivamente su una parte della Democrazia cristiana, consentendo un'ampio consenso, anche da parte di settori moderati, intorno a riforme che oggi vengono tacciate come "comuniste" e antiliberali.

Si cominciò nel 1959 con l’estensione per legge a tutti i lavoratori delle stesse condizioni economiche e normative contenute nei contratti collettivi.

Si proseguì poi con la fondamentale riforma dell'intermediazione di manodopera del 1960, che consentì di superare la pratica del "caporalato", che metteva i lavoratori in mano ad organizzazioni criminali, soprattutto al sud, e li esponeva allo sfruttamento per l'applicazione di condizioni deteriori ma tuttavia "legali".

La legge vietò la mera intermediazione, garantendo condizioni paritarie in caso di appalto di mano d'opera tra lavoratori dell'appaltatore e dell'appaltante e costituendo una spinta decisiva verso una delle caratteristiche fondamentali del "diritto del lavoro": la prevalenza della "sostanza" sulla "forma". Nel diritto del lavoro, infatti, conta, e può essere accertato giudizialmente, chi è il vero datore di lavoro, quale è la vera natura del rapporto di lavoro (autonomo o subordinato), quali sono le vere condizioni e modalità del rapporto, a prescindere dagli aspetti formali del contratto.

Seguì poi la riforma del contratto a termine (nel 1962), che vincolò l'utilizzazione di questo strumento a ben precise condizioni e forme, con l'automatica conversione in rapporto a tempo indeterminato in caso di violazione, per evitarne l'abuso allo scopo di sottrarsi alle norme a tutela del lavoro a tempo indeterminato (ma l'importanza della riforma divenne più evidente a seguito soprattutto del successivo sviluppo della normativa sui licenziamenti) e la legge del 1963 sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio.

8. Il risveglio delle coscienze e dei lavoratori

Nel frattempo in tutti i settori della società cominciò una stagione di risveglio delle coscienze, di ribellione ad ogni sorta di autoritarismo, di spinta per la democratizzazione della società.

Nel settore del lavoro le lotte sindacali raggiunsero il loro culmine e costituirono la spinta per una stagione di riforme senza precedenti.

Nel 1965 i sindacati riuscirono a concludere importanti accordi interconfederali in tema di licenziamenti individuali e collettivi.

L’imprenditore, in particolare, fu vincolato all’osservanza di una procedura di informazione e di confronto con i sindacati prima di poter precedere a licenziamenti collettivi, che superasse un certo numero di lavoratori, e a scegliere i lavoratori eventualmente da licenziare sulla base di criteri obiettivi.

L'accordo sui licenziamenti individuali sfociò addirittura nella legge fondamentale del 1966 (poi riordinata nel 1990), che vietò i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, prevedendo la sanzione della riassunzione o del risarcimento del danno nel caso di inosservanza.

Nel 1968 fu emanata una legge che imponeva ai datori di lavoro, pubblici e privati, di assumere almeno il 15% di lavoratori appartenenti a categorie più svantaggiate, tra cui gli invalidi.

9. L'acme: lo Statuto dei lavoratori

Ma si trattava solo del prologo di quella "rivoluzione" del diritto del lavoro che fu lo Statuto dei lavoratori e il nuovo processo del lavoro.

E' noto quale sconvolgimento produsse sulla società italiana e internazionale il "68", con l'abbattimento di prassi e pratiche autoritarie e con la spinta prorompente verso la democratizzazione.

Tutti i simboli e i tabù dell'autorità furono messi in discussione e tra questi anche l'autorità del datore di lavoro.

Si cominciò a ragionare in termini diversi: il datore di lavoro non deve essere più il "padrone", come si diceva allora e si era sempre detto, e i lavoratori non devono essere i suoi "sudditi", bensì collaboratori in una struttura organizzativa di cui il datore di lavoro è il "dirigente", il "coordinatore".

Lo Statuto dei lavoratori, approvato nel maggio del 1970 sotto la spinta del famoso "autunno caldo" del '69, fornì le condizioni per la realizzazione di quel sogno.

Il sogno di un lavoratore con una propria dignità, libertà e consapevolezza dei propri diritti.

La norma fondamentale fu certamente l’art. 18, nei confronti del quale oggi rischia di realizzarsi il sogno contrario degli imprenditori, la sua abrogazione o per ora sospensione.

L’art. 18 consente, nelle imprese con più di 15 dipendenti, un’effettiva tutela del lavoratore licenziato ingiustamente. Non più solo il risarcimento dei danni, ma la "reintegrazione" nel posto di lavoro: il datore di lavoro è cioè obbligato a riammetterlo in azienda e a farlo lavorare.

E’ una rivoluzione!

Prima dell'introduzione dell'art. 18 erano pochissime le cause di lavoro introdotte durante il rapporto e lo stesso avviene ancora oggi per le imprese fino a 15 dipendenti.

Infatti, senza lo scudo dell'art. 18, di fatto il lavoratore non faceva valere i propri diritti, né individuali nè collettivi, nel corso del rapporto per paura di essere licenziato ed era quindi soggetto a qualsiasi abuso da parte del datore di lavoro.

La norma consente quindi l’effettivo esercizio dei diritti del lavoro, senza paura di eccessive ritorsioni.

Un altro articolo dello Statuto, d’altra parte, vieta qualsiasi atto o patto discriminatorio (art. 15, che troverà poi un’importante conferma nella legge del 1977 per la parità tra uomini e donne nel lavoro): l’imprenditore non è più il dittatore dell’impresa!

Il sindacato non è più una presenza quasi segreta, cospiratrice, ma entra a pieno titolo nella vita dell’azienda, può fare proseliti e raccogliere contributi alla luce del sole, può affiggere comunicati ed organizzare referendum ed assemblee e l’imprenditore deve assicurargli bacheche e locali, ha diritto a permessi, anche retribuiti, per i suoi rappresentanti, è tutelato in modo efficace e rapido contro i comportamenti antisindacali dell’imprenditore.

Lo Statuto tutela, inoltre, il lavoratore sotto ogni profilo, garantendo la dignità e la libertà di manifestare il proprio pensiero, vietando l’uso di impianti per il controllo a distanza e gli accertamenti sanitari diretti, limitando le visite personali di controllo, regolando il procedimento disciplinare e consentendo soprattutto al lavoratore di difendersi prima della sanzione, vietando la dequalificazione (spostamento a mansioni peggiorative), anche con il consenso del lavoratore.

All’acme della parabola il lavoratore sembra davvero definitivamente diventato persona anche dentro l’azienda.

10. L'acme prosegue: la riforma del processo

Gli anni '60 costituirono una svolta anche per la magistratura.

Dopo l'entrata in vigore della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura, di cui si è detto e che cominciarono ad operare sostanzialmente dagli anni '60, fu la riforma della carriera dei magistrati, che divenne automatica e indipendente dalle funzioni svolte (salva la verifica della professionalità e disciplinare), che realizzò l'effettiva indipendenza dei magistrati dal potere esecutivo e dal potere "conformativo" della Cassazione, anche sotto la spinta di un manipolo di magistrati coraggiosi, che si ribellarono alla concezione dominante della magistratura apparentemente "neutrale" e "bocca della legge", ma in realtà del tutto "conforme" alla maggioranza al governo e quindi "parte", e fecero nascere proprio in quegli anni Magistratura democratica.

Fu, pertanto, superata finalmente la teoria delle norme costituzionali programmatiche e iniziò la stagione delle eccezioni di costituzionalità proposte dai singoli giudici, soprattutto in rapporto al principio di eguaglianza, che diede una buona spallata alle residue norme "fasciste" dei nostri codici.

In questo quadro il nuovo processo del lavoro del 1973 costituì una delle tappe fondamentali della democratizzazione della società.

Innanzitutto fu un processo speciale per tutelare in modo differente e più incisivo i lavoratori e quindi, come fu detto, fu un processo volontariamente diseguale per riequilibrare lo "svantaggio" di partenza del lavoratore rispetto al datore di lavoro, realizzando quindi concretamente quell'intervento riequilibratore che la Costituzione indica come compito fondamentale della Repubblica (art. 3 secondo comma).

Con il nuovo processo le sentenze di condanna a favore del lavoratore sono immediatamente esecutive, possono essere anticipate con ordinanze e sanzionano il ritardo nei pagamenti con interessi e rivalutazione automatiche. Inoltre il processo è gratuito e l'assistito che perde in una causa previdenziale non va condannato alle spese, salvo il caso di lite temeraria.

Ma è soprattutto la struttura complessiva del processo che tende all'accelerazione della decisione, sul presupposto che nelle cause di lavoro il ritardo danneggia essenzialmente il lavoratore e non certo il datore di lavoro.

Quindi processo rapido, orale, concentrato, senza inutili rinvii, con decadenze severe che impediscano tattiche dilatorie.

Il giudice diventa attore del processo, e non più passivo spettatore delle iniziative degli avvocati, effettua il tentativo obbligatorio di conciliazione, interroga liberamente le parti e decide senza vincoli e limitazioni i mezzi istruttori necessari, anche d'ufficio.

La giurisdizione quindi diventa piena protagonista della realizzazione dei diritti dei lavoratori per la posizione di effettiva terzietà del giudice, che va esercitata anche come riequilibrio della posizione di svantaggio del lavoratore, non solo nel rapporto di lavoro, ma anche nel processo, potendo egli contare su minori mezzi economici per esercitare la difesa, ma dovendo anche scontare, ad esempio, difficoltà istruttorie per i condizionamenti che il datore di lavoro può imporre ai testi dipendenti.

Per questo la giurisdizione viene preferita al ricorso agli arbitri, che viene consentito solo se previsto dai contratti collettivi, con esclusione di pronuncia secondo equità e con l’impugnabilità del lodo anche per violazione dei contratti collettivi.

In stretta correlazione con le norme sull’arbitrato, la legge modifica l’art. 2113 del codice civile, chiarendo che le rinunce e transazioni dei diritti dei lavoratori non sono valide non solo se previste da disposizioni inderogabili di legge, ma anche dei contratti collettivi.

Peraltro, il legislatore, allo scopo di evitare che la riforma rimanesse sulla carta, disponeva che almeno un terzo dei magistrati civili dovesse occuparsi delle controversie di lavoro e previdenza fino all’esaurimento delle cause di lavoro con il vecchio rito, l’aumento di organico di 300 magistrati e l'adeguamento dell’organico che tutti gli anni sulle base delle esigenze del settore (norma in realtà mai attuata).

11. La stagione migliore

L'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori e la riforma del processo resero possibile sempre più frequentemente l'effettiva realizzazione dei diritti del lavoro conquistati.

In particolare la concreta applicazione nelle aule di giustizia, grazie al nuovo processo, dell'art. 18 dello Statuto con la reintegrazione nel posto di lavoro e dell'art. 28 dello Statuto con la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro, produssero una vera e propria rivoluzione.

I lavoratori compresero che si poteva pretendere il completo esercizio dei diritti e fare causa al datore di lavoro in caso di inadempimento anche nel corso del rapporto, senza subirne eccessive reazioni ritorsive.

I sindacati, con i nuovi strumenti forniti dallo Statuto (rappresentanze sindacali, assemblee, permessi, ecc.), rafforzarono la loro presenza in azienda, anche per il sempre maggior apporto di lavoratori disposti a svolgere attività sindacale con minore paura di essere perseguitati.

Gli imprenditori si resero conto che non potevano più fare ciò che gli pareva in azienda con il rischio di una più rapida ed efficace reazione giudiziale e si adattarono ad un maggior rispetto dei diritti dei lavoratori.

I pretori del lavoro si calarono in pieno nella nuova funzione attribuita dal legislatore e si distinsero per impegno e passione: per la prima volta si videro giudici disposti a lavorare fino a notte fonda pur di definire con immediatezza un procedimento di repressione della condotta antisindacale, disposti a svolgere davvero un servizio pubblico e non più mere operazioni burocratiche.

Per la prima volta, vent'anni prima di Tangentopoli, si ebbe la sensazione che davvero la legge potesse essere uguale per tutti e che i giudici potessero anche difendere i deboli contro gli abusi dei potenti.

Ciò si manifestò anche con l'esercizio senza precedenti del potere di sollevare questioni di costituzionalità per una realizzazione sempre più concreta dei principi costituzionali, consentendo alla Corte costituzionale di assumere il ruolo di effettivo garante di "democraticità" della legislazione.

12. Nubi all'orizzonte

Gli anni '70 furono quindi la stagione migliore del diritto del lavoro, ma furono anche gli anni nei quali cominciarono ad apparire nubi all'orizzonte.

Infatti, dopo il boom degli anni '60, cominciò la crisi economica, aumentarono i disoccupati e con essi la necessità di una tutela non solo dei lavoratori occupati ma anche dei senza lavoro.

Cominciarono gli interventi legislativi contro le crisi delle imprese, con la cassa integrazione e in seguito con l'indennità di mobilità e i lavori socialmente utili, interventi a favore dei disoccupati ma che spesso venivano sfruttati dagli imprenditori per coprire e rendere più accettabili ardite operazioni speculative.

Ciò contribuì ad aumentare il deficit del bilancio statale e la convinzione che i lavoratori fossero troppo tutelati, troppo assistiti dallo Stato e che bisognasse cambiare direzione.

Cominciò inoltre a farsi strada l'idea che i troppi vincoli e le troppe rigidità del mercato non favorissero l'occupazione e si cominciò ad usare una parola magica: "flessibilità".

Le esperienze iperliberiste di Reagan e Thatcher riscaldarono i cuori degli imprenditori, insofferenti ai troppi lacci e lacciuoli, che si prepararono alle contromisure e alla reazione.

Parallelamente nella società si cominciò a parlare di "riflusso": il '68 era stato "troppo", troppa libertà, troppa democrazia, troppa indipendenza dall'autorità e poi, si disse, aveva prodotto le Brigate Rosse.

Il terrorismo convinse molta gente che l'ordine e l'autorità andassero ripristinati a qualsiasi costo.

Nel frattempo il sindacato si indeboliva: la crisi economica rendeva certamente difficile pretendere troppo per i lavoratori, ma il sindacato andò oltre, si fece carico della "compatibilità economica" e del "quadro di insieme", allo scopo di arginare la reazione e di salvare i posti di lavoro anche a costo di rinunciare a qualche tutela.

Giusto o sbagliato che fosse in teoria, ciò contribuì in pratica, insieme alla crisi economica e all'irrompere delle parole d'ordine del liberismo, all'inizio di un arretramento dei diritti dei lavoratori, all'inizio della parabola discendente.

13. Inizia la parabola discendente: verso la flessibilità

Alla fine degli anni ’70 cominciò quindi la stagione della flessibilità, sul presupposto della stretta correlazione, non provata e discussa in economia, tra la disoccupazione e l'eccessiva rigidità del mercato, pensando soprattutto ai vincoli legislativi per i licenziamenti.

Bisognava quindi o ridurre i vincoli o utilizzare sempre di più rapporti di lavoro non subordinati o non a tempo indeterminato e cioè rapporti che per loro natura si sottraevano a quei vincoli.

Cominciò quindi un percorso di riduzione della "stabilità" del posto di lavoro e quindi di "precarizzazione" del lavoro.

Ciò fu realizzato, ad esempio, con il contratto di formazione e lavoro, che è in sostanza un contratto a termine, a cui non si applicano quindi le norme generali di tutela dal licenziamento e che può non essere trasformato in rapporto indeterminato alla scadenza, con il contratto di "solidarietà" (riduzione dell’orario e della retribuzione per riassorbire eccedenze di personale o per consentire l’incremento dell’occupazione), con il contratto "part-time".

Ma soprattutto cominciarono ad allargarsi le maglie del contratto a termine in particolare con una legge del 1987, che ha consentito il ricorso a tale istituto in ogni ipotesi prevista dai contratti collettivi, e con il c.d. pacchetto Treu del 1997, che ammorbì il regime sanzionatorio della violazione delle norme sul contratto a termine.

Quest'ultima riforma introdusse, inoltre, il c.d. lavoro interinale o temporaneo, dimostrando definitivamente il venir meno del "disfavore" del legislatore verso il contratto a termine o comunque la durata temporanea del rapporto e quindi la "precarietà".

Nel frattempo la "precarizzazione" seguiva anche un'altra strada.

Le caratteristiche del mondo del lavoro stavano infatti cambiando: sempre meno lavoro nella grande industria e sempre più lavoro nel commercio e nei servizi, con modalità di lavoro sempre più diversificate.

E' ovvio che il lavoro fuori della fabbrica e delle vecchie catene di montaggio, presenta caratteristiche nelle quali la "subordinazione" è meno evidente, possono non essere richiesti orari di lavoro rigidi e diverse attività vanno svolte fuori dall'azienda.

Ciò comportò l'opportunità per il datore di lavoro di sottrarsi ai vincoli del lavoro subordinato, utilizzando sempre di più il rapporto autonomo, in cui peraltro restava la subordinazione, tecnica, funzionale, ma soprattutto economica.

14. L'interferenza dell'Europa

Lo sviluppo della costruzione dell'unità europea ha interferito notevolmente sulla "parabola", contribuendo alla discesa degli ultimi decenni.

La costruzione europea nacque, infatti, come comunità economica e con un'espressione ancora più chiara come "mercato comune", dove la parola "mercato" non era usata a caso, ma aveva dietro di sé quella mentalità "liberista" propria di molti paesi europei.

All'inizio non vi furono interferenze con il diritto del lavoro, ma a mano a mano che la comunità economica si trasformava in comunità anche politica l'interferenza fu inevitabile.

Questo perché la comunità politica rischiava di nascere, come fu detto, all'insegna di un'unica norma costituzionale, e cioè il "principio di un economia di mercato aperta ed in libera concorrenza", dove i lavoratori rischiavano di tornare ad essere solo merce senza diritti come nell'ottocento.

Ciò era aggravato dal grave deficit democratico dell'Europa, con il potere esecutivo e legislativo concentrato nelle stesse mani, e cioè la Commissione europea, nominata dai governi degli Stati membri e il Consiglio europeo formato dai capi di Stato o di governo, e con un Parlamento con mere funzioni consultive.

E' vero che la Corte di Giustizia europea si è impegnata a tutelare i diritti fondamentali, ma, tuttavia, "entro l'ambito della struttura e delle finalità della Comunità" e quindi in sostanza purché non in contraddizione con l'economia e il mercato libero.

Per fortuna il Trattato di Amsterdam del 1997 ha parzialmente corretto il tiro, richiamando la Comunità al rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e al principio di non discriminazione, e le più recenti direttive comunitarie e decisioni della Corte di giustizia sembrano confermare un'inversione di tendenza in senso democratico dell'Unione, ma il "vizio di origine" della costituzione europea continua a condizionare pesantemente la legislazione comunitaria e di riflesso anche quella nazionale.

Pertanto le ricordate modifiche legislative italiane verso una sempre maggiore flessibilità e precarizzazione sono direttamemente, in quanto applicazione di direttive europee, o indirettamente, figlie della costruzione europea.

15. La crisi della giustizia del lavoro

Il grande successo del processo del lavoro, che fu anche il modello del nuovo processo civile del '90, aveva in sé i germi della crisi, non colti in tempo da un legislatore diventato progressivamente "distratto", meno attento ai problemi dei lavoratori.

Successo significò, infatti, un notevole aumento delle cause, perché molti lavoratori che prima non avevano il coraggio di esercitare in giudizio i propri diritti, protetti dall'art. 18 dello Statuto, quel coraggio lo trovarono (ed alcuni anche ne abusarono).

Significò, inoltre, che il legislatore attribuì al pretore del lavoro altre competenze (ad esempio per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato e delle Poste), senza provvedere ad un proporzionale aumento d'organico.

Fu ignorata, d'altra parte, la disposizione della legge del 1973 che prevedeva un'adeguamento annuale degli organici, lasciando pertanto declinare il processo del lavoro, con tempi di giustizia sempre più lunghi (soprattutto nel centro-sud) e con il conseguente deterioramento di quelle caratteristiche di concentrazione e rapidità, che l'aveva caratterizzata nei primi anni dopo la riforma.

Il legislatore si concentrò sulle riforme del processo penale e civile ordinario, producendo, anche per l'inserimento nella giurisdizione di giudici onorari e di pace, una velocizzazione dei tempi della giustizia civile ordinaria.

Per la giustizia del lavoro nessun intervento: anzi nel '98 il legislatore attribuì al pretore del lavoro la giurisdizione anche dei pubblici impiegati, ancora una volta, sorprendentemente, senza adeguare contemporaneamente l'organico (come fu deciso poi solo nel 2001).

16. La parabola precipita: il nuovo millennio

Con il nuovo millennio l'Italia ebbe un regalo: il governo Berlusconi.

Sono noti gli interventi riformatori nei vari settori, dal falso in bilancio alle rogatorie internazionali.

Nel settore del lavoro il governo esordì con la legge sul contratto a termine, che concludeva finalmente l'evoluzione fino alla pressoché completa liberalizzazione del rapporto con conseguente ulteriore estensione del lavoro precario.

Ma era solo l'inizio: dietro l'angolo incombevano il Libro bianco di Maroni e il disegno di legge delega, presentato nel novembre scorso.

Come vedremo il progetto del governo Berlusconi è ambizioso: non si propone solo di riformare singoli istituti del diritto del lavoro in senso liberista, ma di abbattere l'intera struttura dalle fondamenta, mettendone in discussione i principi fondamentali, sin dai primi mattoni della parabola che abbiamo descritto.

17. Primo obiettivo: l'art. 18 dello Statuto

La delega sui licenziamenti prevede in via sperimentale, per quattro anni prorogabili, la deroga alla sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo nei casi di riemersione dal "lavoro nero", trasformazione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato, crescita dimensionale delle imprese minori.

Il Governo Berlusconi cioè, ribaltando la volontà popolare espressa nel referendum di pochi anni fa, apre una breccia nella disciplina dell'art. 18, prologo alla sua completa eliminazione.

E lo fa mistificando la proposta come una misura non a favore dei datori di lavoro, come dovrebbe essere evidente dalla compatta adesione sul punto di tutti gli imprenditori, ma a favore dei poveri disoccupati, che sarebbero finalmente assunti se non ci fosse tale vincolo.

A fronte di un effetto quanto meno dubbio, la sospensione dell'art. 18 comporta un sicuro effetto di riduzione della tutela del lavoratore, che non si manifesta solo in occasione della cessazione del rapporto ma, come si è detto, su tutte le garanzie del rapporto.

Si intacca in tal modo uno dei tasselli fondamentali di una costruzione che aveva consentito al diritto del lavoro di toccare l'acme della parabola.

Togliendo quel tassello è facile prevedere il crollo dell'intera struttura, almeno per i lavoratori ancora stabili, perché in realtà ormai molti lavoratori sono precari e quella tutela non l'hanno mai avuta.

18. Secondo obiettivo: i giudici

In generale l'attuale governo persegue un progetto complessivo di riduzione del controllo di legalità, che si manifesta nel settore penale con la riforma del falso in bilancio e delle rogatorie, nel settore civile con il progetto di "privatizzazione", nell'ipotizzata sottrazione al giudice del controllo sulle adozioni internazionali, nello spostamento al giudice amministrativo di una serie di importanti attribuzioni, nell'indifferenza o forse volontà di ostacolare il funzionamento della giurisdizione, come è evidente ad esempio dalla riduzione degli stanziamenti sulla giustizia in Finanziaria.

Nel settore del lavoro dal Libro bianco traspare una chiara volontà di marginalizzazione dell'intervento del giudice, con la scusa dei tempi lunghi della giustizia e, addirittura della scarsa "qualità professionale con cui sono rese le pronunce".

Nel disegno di legge ciò si esprime con la proposta di un libero ricorso all'arbitrato senza i vincoli attualmente previsti a tutela dei lavoratori per evitare gli abusi che potrebbero derivare dalla rinunciabilità di diritti inderogabili.

E' consentito l'arbitrato anche se non previsto dai contratti collettivi e con giudizio secondo equità, anche in violazione di norme inderogabili di legge e degli accordi sindacali, impugnabile solo per vizi procedimentali.

E' evidente che la proposta mette in grave pericolo l'intera struttura di garanzia del rapporto di lavoro, nonostante la formale "volontarietà" del ricorso agli arbitri: il lavoratore, pur di essere assunto, sarà portato a sottoscrivere clausole compromissorie ad uso e consumo del datore di lavoro, senza alcuna garanzia, che potrebbe derivare dall'intervento dei sindacati ad esempio in ordine alla composizione genuina e davvero "terza" del collegio.

Un altro attacco all'intervento dei giudici discende dalla proposta di "certificazione" della natura del rapporto, accertando cioè in anticipo, con una procedura assistita, se si tratta di rapporto autonomo o subordinato.

La "certificazione" non sarebbe certo vincolante per il giudice, ma avrebbe comunque un peso molto rilevante sulla qualificazione.

Già oggi la giurisprudenza dà un notevole peso alla definizione data al rapporto nel contratto dalle parti (molti giudici di merito gli danno ormai un peso esclusivo) ed è facile quindi immaginare cosa succederà con l'approvazione di tale disposizione.

Si tenderà a dare rilievo esclusivo alla "certificazione", a cui il lavoratore difficilmente potrà sottrarsi all'inizio del rapporto (per lavorare spesso si accetta qualsiasi condizione), mentre la formula della procedura ed anche lo stesso termine usato "certificazione", che dà un connotato quasi legale all'accertamento effettuato, costituiscono un notevole freno anche psicologico alla contestazione successiva, sia con riferimento alla correttezza della definizione data, sia nell'ipotesi in cui le concrete modalità del rapporto si siano poi svolte in maniera difforme da quelle indicate nella "certificazione".

Viene messa in discussione quindi una delle caratteristiche fondamentali del diritto del lavoro, di cui si è già parlato, e cioè la prevalenza della "sostanza" sulla "forma" con seri rischi di sfruttamento del lavoratore.

19. Terzo obiettivo: "libertà" per i datori di lavoro e ancora "precarizzazione"

Gli altri interventi inseriti nel disegno di legge sono vari, a pioggia: citerò i più gravi.

Il sistema del collocamento va sempre più "privatizzato", secondo il principio "privato è bello", relegando l'intervento pubblico a compiti di mera registrazione, e rendendo quindi sempre più libere le assunzioni (sciogliendo le briglie a raccomandazioni e nepotismi).

Va abrogata la legge del 1960 sul divieto di intermediazione di mano d'opera, che (ricordate?) aveva eliminato il vecchio "caporalato", consentendo la mediazione da parte di società private, autorizzando appalti prima vietati, consentendo diversificazioni territoriali dei criteri di validità, con la previsione addirittura di una certificazione tra le parti sulla liceità, anche penale, dell'appalto.

Va modificata la norma sui trasferimenti d'azienda, consentendo il trasferimento di pezzi limitati dell'azienda e quindi di singoli lavoratori da una società all'altra senza alcun limite e senza il loro consenso.

Vanno autorizzate deroghe a norme generali, in materia retributiva e normativa, in certe aree territoriali "svantaggiate".

Va consentita qualsiasi forma flessibile ed elastica del part-time verticale o misto, e cioè modifiche della ripartizione settimanale e giornaliera dell'orario di lavoro anche comunicate dal datore di lavoro giorno per giorno o addirittura attimo per attimo come nel caso del "lavoro intermittente", anche solo con il consenso del lavoratore in caso di assenza dei contratti collettivi.

Vanno previste, infine, nuove figure di lavoro precario e l'estensione ad altri settori delle figure esistenti, riducendo anche la tutela dei disabili con la possibilità di assunzione obbligatoria con rapporto a termine o temporaneo.

20. La parabola tocca terra?

Ma non basta!

Il disegno di legge delega è solo una prima anticipazione del progetto complessivo dell'attuale governo contenuto nel famoso Libro bianco di Maroni.

Secondo il progetto, il legislatore nazionale dovrà limitarsi ad emettere norme relative ai principi fondamentali, con la tecnica delle soft laws ("norme leggere"; qualcuno ha parlato di light laws, leggi senza grassi, scremate), che vincola ad obiettivi e non a comportamenti, peraltro solo se non sono già intervenute le parti sociali (principio di sussidiarietà). Il legislatore regionale potrà intervenire "specificando" i principi definiti nazionalmente e avrà competenza esclusiva in tutta la disciplina del lavoro nel rispetto di quei principi. Tutte le norme nazionali e regionali saranno derogabili, ad eccezione del ristretto numero di principi di tutela comuni a tutti i lavoratori, anche autonomi. Anche il contratto individuale potrebbe derogare tutte le norme, nazionali, regionali e di contratto collettivo, salvo l'eccezione suddetta.

Siamo alla fine: lo smantellamento del sistema di tutele predisposte a favore del lavoratore è completo, con un complessivo disegno non innovativo ma restauratore del pieno liberismo ottocentesco, poiché verrebbero abolite o rese derogabili, dal legislatore regionale, dalla contrattazione decentrata o, addirittura, dal contratto individuale, gran parte delle norme in materia (non solo quasi tutto lo Statuto dei lavoratori, non solo tutta la normativa sui licenziamenti e tutte le leggi di tutela successive alle Costituzione, ma, addirittura, anche le leggi fasciste del ventennio).

A voler prendere alla lettera le affermazioni contenute nel progetto, la riforma travolgerebbe, o almeno renderebbe derogabili, anche norme costituzionali e principi contenuti nella "Carta" di Nizza, di cui si dirà.

21. La posta in gioco

Le timide reazioni della sinistra ed anche del sindacato, seppur avviato, si spera, verso forme di protesta più estese, dimostrano che non è del tutto chiara la vera posta in gioco.

Senza retorica, è in gioco la democrazia: non solo la democrazia avanzata immaginata dai "comunisti", non solo la democrazia "di sinistra", ma anche la democrazia della "dottrina sociale" della Chiesa, la democrazia del compromesso tra comunisti, democristiani e liberali da cui è nata la Costituzione, la democrazia dell'eguaglianza sostanziale, di cui lo Statuto e il processo del lavoro sono realizzazione.

E' in gioco la dignità e la libertà del lavoratore, nel senso ampio, del lavoratore stabile, "precario" o che aspira al lavoro.

Se si realizzasse il progetto del governo Berlusconi il lavoratore tornerebbe ad essere quello che era nell'ottocento, non più persona ma "suddito" e quasi "schiavo".

La derogabilità di quasi tutte le norme a tutela del lavoratore significa, infatti, che egli torna ad essere ricattabile a tutto campo dall'imprenditore e disponibile a qualsiasi condizione di lavoro.

Il lavoratore ritorna ad essere merce, il rapporto di lavoro un normale rapporto commerciale senza tutela differente per la parte più debole, il mercato finalmente trionfa.

Il diritto del lavoro va verso la fine della parabola, verso il dissolvimento.

22. Il primo paracadute: l'Europa

Ma forse no.

Il primo paracadute, paradossalmente, è l'Europa.

Si è già detto che il Trattato di Amsterdam del 1997 ha costituito una prima inversione di tendenza verso un liberismo meno selvaggio.

Nella stessa direzione si pone la "Carta dei diritti fondamentali", approvata nel 2000 a Nizza, che è considerata nello stesso Libro bianco vincolante quale espressione dei principi generali dell'ordinamento comunitario, anche se non ancora inserita nei trattati, e che contiene per la prima volta un'elencazione dei diritti fondamentali della persona compresi i diritti sociali.

I lavoratori sono tutelati in primo luogo dai principi di dignità (inviolabilità della dignità umana, diritto alla vita e all'integrità della persona), che per la loro posizione costituiscono una sorta di "superprincipi", sovraordinati ad ogni altro diritto o libertà, compresa la libertà d'impresa, che non può esercitarsi quindi ad esempio violando la dignità dei lavoratori.

La libertà d'impresa è inoltre limitata, ad esempio, dalla libertà di riunione e di associazione (in particolare di fondare sindacati e di aderirvi), dal diritto alla formazione professionale, dal divieto di discriminazione (e di parità tra uomini e donne), dal diritto dei disabili all'inserimento professionale, dal diritto di informazione e consultazione, dal diritto di negoziazione e di azioni collettive, dal diritto alla tutela in caso di licenziamento ingiustificato, dal diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque, dal divieto del lavoro minorile.

Ebbene le proposte contenute nel Libro bianco costituiscono un sostanziale svuotamento di molti dei principi fondamentali, poiché si ipotizza, come si è detto, addirittura la loro derogabilità, anche ad opera del contratto individuale, in quanto tutela ulteriore rispetto allo "zoccolo duro e inderogabile" da garantire a tutti i "lavori".

Sarebbero derogabili, ad esempio, la tutela in caso di licenziamento ingiustificato, il diritto alla limitazione della durata massima giornaliera, a periodi di riposo giornaliero e settimanale e alle ferie annuali retribuite, la tutela della maternità e della malattia, ecc.

La "Carta", quindi, potrebbe ostacolare il progetto e le norme italiane che dovessero essere approvate in contrasto con quei principi potrebbero essere direttamente disapplicate dai giudici (finchè non saranno sottoposti anch'essi di nuovo al potere esecutivo).

Inoltre le indicazioni che provengono dall'Europa appaiono meno liberiste di quanto il governo Berlusconi intende far credere.

Se è vero, infatti, che l'Unione Europea invita i paesi membri ad "accrescere la flessibilità del mercato del lavoro", non li invita però a ridurre le tutele dei lavoratori a tempo indeterminato, ma piuttosto ad aumentare le tutele dei lavoratori precari, "in modo che coloro che lavorano con contratti di tipo flessibile godano di una sicurezza adeguata e di una posizione occupazionale più elevate, compatibili con le esigenze e le aspirazioni dei lavoratori…".

Recentemente poi il Parlamento europeo ha rilevato che il continuo aumento dei contratti a termine e in generale della precarietà sul lavoro (in particolare delle donne) crea condizioni propizie per pratiche di mobbing, riconoscendo l’esistenza di un chiaro nesso tra queste forme di vessazione sui luoghi di lavoro e lo stress sul lavoro indotto dall’aumento della competizione, dalla riduzione della sicurezza dell’impiego, dall’incertezza dei compiti professionali.

Quindi l'Europa è indirizzata non verso una tutela ridotta per tutti i rapporti di lavoro, in cambio di una poca chiara "tutela nel mercato", ma verso un'estensione ai lavori flessibili di una parte almeno delle tutele previste per i lavori stabili.

23. Il secondo paracadute: la Costituzione

Il secondo paracadute, finché non verrà bucato con i progetti di modifica, è la Costituzione.

La Costituzione è ignorata nel Libro bianco, quasi che i principi costituzionali in materia fossero stati "assorbiti" dalla costruzione europea (interpretata alla maniera del Polo) o che la recente riforma federalista, con l'assegnazione della potestà legislativa alle Regioni, avesse "declassificato" le norme costituzionali in materia.

Non è ovviamente così, perché la legislazione comunitaria (in particolare l'art. 53 della "Carta") fa salvi i diritti e libertà riconosciuti dalle costituzioni degli stati membri e in nessun modo è sostenibile che la riforma federale possa aver comportato un'implicità abrogazione di norme costituzionali o che le stesse possano essere derogate in sede regionale.

Sarebbero incostituzionali quindi norme che prevedessero, ad esempio, la derogabilità del diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, alla protezione della maternità, al diritto di sciopero. Inoltre, in rapporto all'art. 36 Cost., sarebbe di difficile compatibilità costituzionale una disposizione che consentisse "differenziazioni regionali" dei minimi retributivi, che "colgano la diversità dei mercati del lavoro locali" (come si esprime il progetto), a parità di quantità e qualità del lavoro.

Ma in generale il progetto non è conforme ai principi fondamentali indicati dalla Costituzione in tema di lavoro.

Si è già ricordato che l'art. 3 della Costituzione impone allo Stato di perseguire l'eguaglianza sostanziale.

Quindi il legislatore ordinario deve sostenere e difendere i cittadini "meno uguali" e cioè più deboli per renderli "più uguali" e quindi alla fine "più liberi" e tra i cittadini "più deboli" la Costituzione pone in prima fila, come si è visto, i lavoratori.

La Corte costituzionale, in conseguenza, ha indicato alcuni paletti invalicabili da parte della nuova normativa lavoristica, escludendo che le leggi di tutela dei lavoratori possano essere puramente e semplicemente abrogate ed affermando che le modifiche peggiorative debbano comunque mantenere il nucleo essenziale della tutela.

Inoltre il nuovo testo dell'art. 117 Cost., a differenza di quanto sostenuto nel Libro bianco, non consente l'attribuzione alle regioni della potestà legislativa sull'intero ordinamento del lavoro, ma solo su aspetti amministrativi e non sulla generale disciplina e "tutela" del rapporto (l'"ordinamento civile", infatti, è rimasto di competenza esclusiva dello Stato).

Deve escludersi, pertanto, che le regioni possano legiferare ad esempio in tema di licenziamenti, come è stato adombrato.

24. Conclusioni: una parola di speranza

Quindi il futuro in Italia è nero, ma una parola di speranza va pure spesa.

La prima speranza viene ancora dall'Europa: nel dicembre scorso a Laeken si è deciso di formare una Convenzione sulla strada per creare una vera e propria Costituzione europea, con l'inserimento pieno nei trattati dei principi contenuti nella "Carta". Si tratterebbe di un passaggio fondamentale per l'unione, non solo economica, ma anche politica dell'Europa, che va condizionata peraltro ad una vera democratizzazione dei poteri decisionali.

Un'Europa davvero democratica e sociale potrebbe fermare la caduta della parabola o addirittura rilanciarla.

La seconda speranza viene dalle associazioni no global, o per meglio dire "per una globalizzazione dei diritti": è la speranza di una nuova rivoluzione delle coscienze, un ritorno agli aspetti migliori del "68".

La terza speranza in Italia è che la società civile riesca a reagire a difesa dei pilastri fondamentali della democrazia.

Marzo 2002


* L'articolo è tratto dal numero monografico di marzo 2002 della rivista "Il Ponte" intitolato "Quale governo quale giustizia"

 

 

 

 

 

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