Md sui fatti di Napoli
lettera aperta agli organi di informazione
Da giorni le polemiche conseguenti alle misure cautelari emesse dal giudice per le indagini preliminari di Napoli nei confronti di otto appartenenti alla polizia di Stato occupano le prime pagine dei media. I toni, davvero senza precedenti, di tali polemiche, la provenienza delle stesse e i gesti che si sono ad esse accompagnati hanno già indotto l'Associazione nazionale magistrati a segnalare al paese l'improprio e gravissimo condizionamento, tale da alterare la corretta dinamica processuale, esercitato in tal modo sui magistrati (quelli che stanno svolgendo le indagini e quelli che dovranno, in un futuro più o meno prossimo, pronunciarsi sul punto). Il richiamo, preoccupato e pressante, del Capo dello Stato alla necessità di ritrovare un rapporto di rispetto e di collaborazione tra le istituzioni attenuerà - ce lo auguriamo - le asprezze più evidenti. Ma ciò che è accaduto in questi giorni ha aperto una ferita che difficilmente sarà rimossa.
Il punto di partenza ha dell'incredibile. All'indomani del 17 marzo 2001 numerosi
organi di stampa, cittadini di ogni colore politico, organismi internazionali
tradizionalmente prudenti hanno chiesto al ministro dell'interno di far luce
sulle reiterate segnalazioni di "maltrattamenti nei confronti dei fermati,
alcuni dei quali minorenni, nelle stazioni di polizia", specificando
che "secondo quanto riferito, alcuni sono stati obbligati a stare in
ginocchio sul pavimento con la faccia al muro per molto tempo e sottoposti
deliberatamente a percosse, calci, schiaffi, insulti verbali spesso di natura
oscena e a sfondo sessuale" e che "molti fermati hanno subito perquisizioni
intime ed, in alcuni casi, la condotta degli agenti durante le perquisizioni
è parsa deliberatamente mirata ad umiliarli e degradarli" (così
il segretario internazionale di Amnesty International in un appello al ministro
Bianco del 28 aprile 2001). Nessuna conseguente iniziativa è stata
assunta - a quanto è dato sapere - né dal governo allora in
carica né da quello attuale: e ciò pur in un contesto costituzionale
che proibisce "ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte
a restrizioni di libertà" (art. 13 comma 4) e in un contesto internazionale
che parifica alla tortura i "trattamenti inumani o degradanti" nei
confronti di fermati o detenuti (Convenzione europea per la prevenzione della
tiortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del 1987). Un anno
dopo la Procura di Napoli e il giudice per le indagini preliminari della stessa
città, all'esito di indagini complesse e difficili, hanno ravvisato
l'esistenza di "gravi indizi" in ordine all'effettiva sussistenza
di tali maltrattamenti. Questa era la notizia sconvolgente che avrebbe meritato
l'attenzione e la riflessione delle istituzioni e della società. O
a nessuno interessa il fatto che dei cittadini (dimostranti o meno) entrino
in un commissariato incolumi e ne escano pestati a sangue, umiliati, derisi?
Dove sono finite la Costituzione, le convenzioni internazionali, la civiltà
giuridica e la civiltà tout court? I fatti, prima ancora che le responsabilità
individuali, vanno accertati, ma il solo dubbio che essi (in tutto o in parte)
siano davvero accaduti apre una frattura gravissima nel rapporto tra istituzioni
e società. Eppure di ciò il dibattito si è occupato solo
marginalmente.
Oltre che sui fatti la magistratura napoletana ha ritenuto di avere raccolto
"gravi indizi" anche in punto responsabilità individuali
e ha disposto, per otto appartenenti alla polizia, gli arresti domiciliari.
Il seguito è noto: prima l'aggiramento, da parte della Questura, dei
modi e dei tempi disposti dalla magistratura per l'esecuzione delle misure
cautelari, poi il tentativo di appartenenti alle forze di polizia di impedire
tale esecuzione (le immagini televisive fanno giustizia di ogni tardiva minimizzazione...),
infine il pieno e rumoroso sostegno manifestato agli inquisiti da esponenti
di primo piano del Governo (da cui sono partiti violenti attacchi al provvedimento
giudiziario, con argomenti tendenti a configurare l'attività di polizia
come una sorta di "zona franca" sottratta al controllo di legalità).
Il carattere eversivo di tale sequenza deve preoccupare chiunque abbia a cuore
i rapporti tra istituzioni e lo stesso assetto democratico dello Stato.
E ancora. Molti hanno gridato allo scandalo e i sindacati di polizia sono
insorti denunciando atteggiamenti eccessivamente rigorosi nei confronti delle
forze dell'ordine e scientemente lassisti nei confronti degli autori di gravi
reati. L'argomento è tanto suggestivo quanto infondato e strumentale.
Se sottovalutazioni e omissioni ci sono state in altri settori di indagine
vanno denunciate, precisate e punite. Ma le regole valgono per tutti: per
i pubblici funzionari più che per ogni altro. È il prezzo da
pagare per godere della fiducia della società ed è assai più
utile per la credibilità e il prestigio delle forze di polizia chi
ne persegue gli (eventuali) abusi di chi cerca di coprirli e occultarli. C'è
stata una norma che ha previsto un regime speciale per la polizia: l'art.
16 del codice di procedura penale del 1930 secondo cui "non si procede
senza autorizzazione del Ministro della Giustizia contro gli ufficiali od
agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o contro i militari
in servizio di pubblica sicurezza, per fatti compiuti in servizio e relativi
all'uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica". Ma era il
fascismo (e non a caso la norma è stata dichiarata illegittima con
una delle prime sentenze della Corte costituzionale).
Infine. Anziché ragionare sui fatti, molti hanno evocato complotti
giudiziari, disegni politici realizzati mediante l'azione penale, persecuzioni
per motivi di parte; mentre altri hanno ricercato le "appartenenze politiche"
di giudici e pubblici ministeri o hanno riportato le decisioni assunte nel
procedimento a tessere dello scontro in atto, sul tema dell'organizzazione
dell'ufficio, nella Procura di Napoli. Chi muove queste critiche proietta,
evidentemente, la propria cultura e i propri metodi, fondati sulla logica
della pura utilità (che distingue solo tra "amico" e "nemico")
e sul rifiuto delle regole. Non sono i metodi e la cultura della giurisdizione.
Dimenticarlo, al di là delle utilità contingenti, uccide la
democrazia.
Di questo ci saremmo aspettati che si discutesse a margine del processo di
Napoli. E poi certo, ma solo dopo, dell'opportunità delle misure, del
tempo trascorso dai fatti, delle esigenze cautelari... Temi, questi ultimi,
certamente opinabili (come sempre accade nelle vicende giudiziarie) ma, proprio
per questo, da affrontare in modo pacato e razionale e non agitando propagandisticamente
"errori" (indimostrati) dei magistrati e necessità di una
loro punizione in nome del principio "chi sbaglia paga" (evocato,
per di più, in modo strumentale: come se per i magistrati non esistessero
le ipotesi di responsabilità previste per tutti i cittadini e le stesse
non avessero trovato in questi anni ripetute e ben note applicazioni).
Il confronto mancato nell'immediatezza non può essere ulteriormente
rinviato. Noi, in ogni caso, continueremo a sollecitarlo con iniziative specifiche
rivolte alla società civile, alla politica, all'avvocatura e alle rappresentanze
della polizia che hanno a cuore i valori della democrazia e delle regole.
Magistratura democratica
2 maggio 2002
Omissisa
cura di magistratura democratica romana
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