Proposte di riforma del processo civile*

di Stefano Olivieri

§-A I regolatori della complessità del sistema giudiziario

La apprezzabile riduzione dei tempi di risposta dell’apparato giudiziario alla domanda di giustizia realizzata con la riforma del processo civile introdotta dalla novella del 1990, è stata progressivamente erosa ed ormai annullata:

  1. dall’incremento delle sopravvenienze che ha, praticamente, vanificato i (temporanei) benefici determinati dal trasferimento del "vecchio rito" ai GOA attuato in funzione della introduzione della riforma del processo civile (legge 353/90)
  2. dalla obiettiva incapacità del "sistema" giudiziario (inteso come complesso organizzativo -composto da uomini e strutture- ed ordinamentale -norme legislative che regolano il processo-) di garantire una risposta "efficiente" alle domande giurisdizionali.

L’imput sub a) non è in alcun modo controllabile dal "sistema giudiziario": la crescita del numero delle cause è condizionata dall’organizzazione delle relazioni e dallo sviluppo della società civile (che costituisce un sistema comprensivo del sottosistema giuridico). Più cresce la complessità delle attività, relazioni e della interconnessione dei rapporti, maggiormente crescerà il numero delle situazioni nuove "tutelabili" e quindi delle controversie e dunque del "rischio" di decisioni difformi: il fenomeno è stato oggetto di studio da parte della sociologia giuridica che ha individuato, tra l’altro, come fatti generatori della complessità del sistema del diritto la "grandezza" e la "varietà delle decisioni". Ed infatti "Nel caso della grandezza sembra che si abbia la più forte dipendenza dall’ambiente. Secondo la sua struttura ufficiale il sistema giuridico, almeno nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, non può rifiutarsi di decidere: esso pertanto è esposto, in un certo senso senza difesa, alle pressioni per la crescita che derivano dalla società" (Luhmann "La differenziazione del diritto" ed. it. 1990).

Se l’accrescimento della "complessità" del sistema giudiziario può considerarsi un fenomeno fisiologico della società contemporanea, sussistono tuttavia fattori di complessità che rivestono anche carattere patologico (nel senso che non trovano soluzione o risposta nelle strutture autoreferenziali del sistema).

Si possono -soltanto in via meramente indicativa- individuare, all’interno del sistema giuridico, alcune palesi distorsioni, che incidono sulle variabili di "grandezza e varietà" dello stesso sistema, ed in ultimo sulla stessa capacità di decisionale del sottosistema giudiziario, ma che tuttavia non paiono suscettibili di -immediate- correzioni, a causa di una pluralità di condizionamenti esterni (politici, culturali, economici, ecc) : 1-la eccessiva proliferazione di disposizioni normative; 2-la sempre maggiore incapacità di "conformare normativamente" le nuove situazioni di interesse in continua emersione ritenute meritevoli di tutela; 3-la progressiva difficoltà della giurisprudenza nel risolvere -in difetto di preventive e chiare scelte politiche- i conflitti tra interessi individuali ed interessi superindividuali difficilmente assimilabili alle categorie giuridiche note (si pensi ad es. al "diritto" alla procreazione artificiale o alla sperimentazione genetica, al conflitto tra interessi "esistenziali" dell’individuo ed attività amministrative ad alto impatto ambientale come ad es. la scelta della localizzazione di un complesso aeroportuale o di altre infrastrutture pubbliche, o ancora all’apertura della nota sentenza della SC n.500/1999 alla tutela -risarcitoria- di "qualsiasi utilità" meritevole di apprezzamento secondo una valutazione di conformità -o piuttosto di non disformità- all’ordinamento giuridico, indipendentemente dalla individuazione di una espressa norma attributiva di un diritto/interesse); 3-le tradizionali caratteristiche storico-culturali della Nazione (diffidenza verso le strutture amministrative che si sono dimostrate incapaci di adeguarsi a quei principi di imparzialità ed efficienza imposti dalla Costituzione, con conseguente sovraesposizione della figura del Giudice, come "deus ex machina", unico in grado di collocarsi super partes ed al quale demandare quindi qualsiasi tipo di intervento repressivo, di controllo, di prevenzione ecc. che invece è assolutamente estraneo alla funzione giurisdizionale); 4-la "automatica giurisdizionalizzazione" di qualsiasi tipo di conflitto di interessi (senza alcuna previa valutazione del costo sociale del servizio che ciò comporta); 5-la manifesta e perdurante inefficienza della Amministrazione statale, incapace di organizzarsi tempestivamente per adempiere agli obblighi derivanti da direttive comunitarie, disposizioni di legge o provvedimenti giurisdizionali così determinando la proliferazione di cause inutili e dispendiose (ex multis: la questione dei rimborsi delle tasse società; la questione dei compensi di spettanza dei custodi giudiziari; la questione della mancata remunerazione dei medici specializzandi, ecc.).

La capacità di "tenuta" del sistema rispetto all’illimitata espansione delle proprie dimensioni (grandezza) è strettamente correlata alla flessibilità d’impiego delle "limitazioni interne [ndr. interne al sistema] della complessità" che sono sia di tipo organizzativo (numero delle unità decisionali in funzione delle risorse umane disponibili: all’aumento del numero delle controversie si risponde con un incremento delle unità decisionali) che di tipo funzionale (tempo occorrente alla decisione in funzione della difficoltà della controversia: maggiore è la complessità del caso, maggiori sono i tempi dedicati allo studio ed alla decisione).

Tali "regolatori" della complessità non sono tuttavia utilizzabili ad libitum, incontrando evidenti limiti: a-) nella limitatezza delle risorse finanziarie dello Stato da impiegare per sostenere l’inarrestabile progressivo ampliamento delle strutture organizzative (retribuzione, formazione del personale, nuovi locali, attrezzature) per fare fronte al costante aumento delle sopravvenienze; b-) nei vincoli imposti dal programma politico e prima ancora dalla Costituzione (art. 111 nel testo introdotto dalla legge cost. 23.11.1999 n.2) in ordine ai tempi di risposta (vincoli che impediscono la possibilità di una espansione all’infinito del rapporto di proporzionalità diretta tra aumento della complessità -quantità e difficoltà delle cause- e prolungamento dei tempi di studio e decisione delle cause).

Certamente non risolutivo deve considerarsi l’intervento di contenimento della complessità adottato in questi ultimi anni utilizzando il "regolatore" di tipo organizzativo: tale intervento è consistito nell’aumento -a costo limitato o comunque ad un costo inferiore alla ordinaria retribuzione- delle unità decisionali di primo grado, al quale tuttavia non si è accompagnato un adeguato e tempestivo intervento finanziario per la ricerca e la realizzazione delle strutture nelle quali tali nuove unità avrebbero dovuto operare nonchè del personale ausiliario da assegnare ai nuovi uffici giudiziari.

Occorre rilevare in proposito che la sostituzione degli Uffici di conciliazione con il Giudice di Pace -legge n. 374/1991- è stata completata, peraltro, soltanto con la legge 16.12.1999 n.479 che all’art. 3 ha disposto la soppressione dei precedenti uffici: l’intervento di tipo organizzativo ha agito sull’accumulo delle sopravvenienze realizzando il trasferimento al nuovo Giudice onorario di una serie di competenze civili e penali già attribuite al Pretore.

L’altro intervento di tipo organizzativo, attuato con la introduzione del Giudice Unico -legge n. 51/1998- se, da un lato ha recuperato, ma esclusivamente nel settore penale, risorse della magistratura professionale (frazionando il carico dei ruoli delle sezioni tra i giudici investiti di funzioni monocratiche), dall’altro non ha considerato le ovvie conseguenze che un aumento dei giudici di primo grado avrebbe comportato sugli Uffici di procura e sulla Corte d’appello (immodificati nella rispettiva consistenza e quindi nella capacità decisionale): l’alterazione del preesistente rapporto tra uffici di primo e secondo grado si è tradotta, infatti, in un incremento delle pendenze nel secondo grado di giudizio, trasferendo sulla Corte d’appello la lentezza dei tempi di risposta alla domanda di giustizia. Inoltre occorre precisarere che la riforma del Giudice Unico non ha avuto alcun impatto sulle sopravvenienze del settore civile ove il carico del ruolo gravava già sul singolo Giudice istruttore.

Appare lecito tuttavia domandarsi se il marginale e temporaneo beneficio sui tempi di risposta alla domanda di giusitizia ottenuto dall’incremento delle unità decisionali valga il costo del corrispondente aumento della complessità del sistema determinato dalla connessa "varietà" delle decisioni che il sistema giudiziario è chiamato ad adottare (in difetto di un effettivo uso di strumenti di coordinamento dei Giudici monocratici), con l’inevitabile conseguenza di un aumento del grado di incertezza del diritto al quale contribuisce certamente anche la perdita del momento collegiale (camera di consiglio).

Quanto alle manovre di contrasto della accresciuta complessità del sistema eseguibili mediante l’utilizzo dell’altro "regolatore di limitazione" di tipo funzionale (che esplica diretta incidenza anche sulla seconda questione prospettata sopra sub b-), occorre qui immediatamente rilevare che l’incremento della "produttività" degli Uffici giudiziari -che ha consentito nel 2001 per la prima volta di invertire la tendenza negativa del rapporto tra sopravvenienze e definizioni- non può costituire, evidentemente, un’efficace soluzione di contrasto all’accumulazione delle sopravvenienze, solo che si considerino gli oggettivi limiti naturali che incontra l’attività del Giudice di studio, ricerca, valutazione e decisione della lite (tenuto conto della esigenza della società civile di avere non solo una risposta tempestiva ma anche una sentenza "giusta": un ulteriore incremento di produttività non assistito da uno standard qualitativo adeguato della decisione sarebbe controproducente e genererebbe l’entropia del sistema giudiziario).

Le misure di razionalizzazione previste nel DDL approvato dal Consiglio dei Ministri in data 21.12.2001 ("Modifiche urgenti al processo civile"), del quale peraltro sembra essersi persa traccia nei lavori parlamentari, se pure in gran parte condivisibili (in quanto, come affermato nella stessa relazione di accompagnamento "adattano meglio l’esistente alle esigenze diffusamente avvertite dagli operatori pratici"), mirano, nel loro nucleo essenziale, ad una "accelerazione dei tempi del processo" incidendo sulla durata della fase istruttoria mediante il recupero di una o due udienze (è prevista l’anticipazione del tentativo di conciliazione e della fase di trattazione alla udienza di prima comparizione, fatto tuttavia salvo il differimento della udienza di trattazione e di ammissione delle prove ad istanza di parte). Al tempo recuperato alla fase istruttoria, calcolabile in base agli attuali tempi medi dei rinvii istruttori in rapporto a circa 4-6 mesi/udienza, è tuttavia solo ipoteticamente ricollegabile anche un corrispondente abbreviazione del tempo di attesa della sentenza: è agevole rilevare, infatti, che, velocizzando la istruttoria, un maggior numero di cause perverrebbero prima a conclusione ed i tempi di attesa della sentenza si trasferirebbero allora sul rinvio disposto dal giudice per la precisazione delle conclusioni, tenuto conto del numero massimo di sentenze/mese che possono essere caricate ed esitate da ciascun giudice (è ciò che si verifica attualmente: dopo un iniziale periodo, conseguente alla applicazione del nuovo rito introdotto dalla legge n. 353/1990, il progressivo riempimento dei ruoli delle cause assunte in decisione ha inevitabilmente comportato una estensione dei tempi tra la chiusura della istruttoria e la decisione -idest: l’udienza di precisazione delle conclusioni-, mentre è rimasto sostanzialmente invariato il numero di udienze necessarie a definire la fas istruttoria). Con la conseguenza che -in quanto anch’essa rivolta ad intervenire sulla sola fase dell’istruttoria e non anche sui tempi della decisione- ne risulterebbe ridimensionata la proposta avanzata da alcune parti di "privatizzazione" del processo (esclusione della fase di allegazione e/o fase istruttoria dal processo e devoluzione delle relative attività ai procuratori delle parti).

Da tali premesse in fatto discende la domanda se sia possibile o meno prevedere ipotesi alternative (alla giurisdizione) di risoluzione dei conflitti che consentano di superare o comunque di fornire un’adeguata risposta al problema della inarrestabile "complessità" del sistema giudiziario incidendo sulla perversa spirale che lega i tempi lunghi della risposta giurisdizionale al processo, incontrollabile, di incremento della domanda di giustizia e di progressiva accumulazione delle pendenze.

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§-B Mezzi di contrasto dell’accumulo delle sopravvenienze: l’ADR

Viene così introdotto il tema dell’Alternative Disput Resolution (ADR) che ha trovato applicazione sopratutto nel diritto anglosassone, e cioè della possibile individuazione di mezzi di risoluzione delle controversie alternativi rispetto al giudizio ordinario (trial).

E’ interessante in proposito notare come nel rapporto sulla giustizia civile in Inghilterra e nel Galles al Lord Cancelliere pubblicato nel marzo 2001 ("Report to the Lord Chancellor on the civil justice system in England and Wales") il ricorso all’ADR sia visto come "mezzo ausiliario all’esercizio della funzione giurisdizionale" al quale le parti -spontaneamente o su espresso invito del Giudice- possono rivolgersi quando ritengono che i costi del processo ordinario non sono più sostenibili od appaiono ingiustificati rispetto all’effettivo valore della causa.

Partendo dalla premessa che tempo (della decisione) e denaro (spese di giustizia ed onorari forensi) costituiscono variabili indipendenti della funzione giurisdizionale (If "time and money are no object" was the right approach in the past, then it certainly is not today. Both lawyers and judges, in making decisions as to the conduct of litigation, must take into account, more than the do at present, questions of cost and time and the means of the parties), il rapporto mira a risolvere il problema dei tempi della decisione riservando alle Corti la direzione del giudizio -"case management"- e cioè un potere di programmazione del tipo di procedura da seguire in relazione al singolo caso concreto (fast track; multiple tracks) e della scansione temporale del giudizio, valutata in relazione alla prevedibile durata delle attività da svolgere, in considerazione della difficoltà e rilevanza della controversia (il Giudice viene chiamato a "decide what procedure is suitable for each case; set realistic timetables, and ensure that the procedures and timetables are complied with"). La programmazione si articola in una fase pre-giudiziale (case management conference; pre-trial review) nel quale le parti debbono essere messe in condizione di conoscere tutti gli elementi (tempi e costi, vantaggi patrimoniali conseguibili dalla decisione) indispensabili a valutare la "convenienza" di proseguire la lite secondo le forme ordinarie del processo. Il rapporto evidenzia che "a leading objective of case management is to encourage settlement of cases at the earliest appropriate stage. This will be done by: enabling both parties to make offers to settle relating to the whole case or to individual issues; giving the courts a wider power to decide cases or issues at an early stage without full trial; suggesting the use of alternative dispute resolution (ADR) where there is likely to be beneficial; requiring a more co-operative approach between the parties and avoiding unnecessary combativeness; and identifying and reducing issues as a basis for appropriate case preparation.

When settlement cannot be achieved, case management will ensure that cases progress quickly and economically as is appropriate. Litigants who behave unreasonably will be penalised by orders for costs which will be payable immediately on an indemnity basis, and enhanced rates of interest."

La funzione "ausiliaria" della giurisdizione svolta da tali mezzi (che per comodità espositiva indicheremo con l’acronimo ADR) non è sconosciuta al diritto processuale italiano, che la contempla nei tradizionali istituti del compromesso (e della clausola arbitrale) e della conciliazione.

Il primo istituto -peraltro interamente strutturato nelle forme del processo civile- pone subito all’evidenza il macroscopico limite che l’ADR incontra nell’esplicare un’effettiva funzione deflattiva: l’arbitrato, infatti, non può esser imposto ex lege ma deve trovare fonte esclusivamente nella convezione stipulata dalle parti. Ai privati è consentito, infatti, esercitare la propria autonomia anche nella soluzione delle controversie regolamentando il proprio diritto d’azione (cfr. Corte cost 5-12.2.1963 n.2); è invece inammissibile, contrastando con il diritto difesa costituzionalmente garantito e con la riserva esclusiva statale della giurisdizione ex art 24 comma 1 ed art 102 comma 1 Cost, una rinuncia "coatta" all’accesso alla tutela giurisdizionale: chiarissima sul punto Corte cost 4-14.7.1977 n. 127 "Secondo un'interpretazione che trova chiaro riscontro nei lavori preparatori dell'Assemblea costituente, ed e' avvalorata dall'art. 6, primo comma, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, a seguito del congiunto disposto degli articoli 24, primo comma, Cost. (diritto di azione in giudizio e correlativo esercizio, costituzionalmente garantiti) e 102, primo comma, Cost. (riserva della funzione giurisdizionale ai giudici ordinari, salve le eccezioni di cui all'articolo seguente), il fondamento di qualsiasi arbitrato e' da rinvenirsi nella libera scelta delle parti: perche' solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all'art. 24, primo comma, Cost.) puo' derogare al precetto contenuto nell'art. 102, primo comma, Cost., cosicche' la "fonte" dell’arbitrato non puo' piu' ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, piu' generalmente, in una volonta' autoritativa. Cio' corrisponde anche alla garanzia costituzionale dell'autonomia dei soggetti (sottolineata con particolare vigore nella sent. n. 2 del 1963 di questa Corte) ed eleva la norma dell'art. 806, primo comma, cod. proc. civ. (sulla facolta' delle parti di far decidere da arbitri le controversie) a principio generale, costituzionalmente garantito, dell'ordinamento. Ne deriva che la legge ordinaria od altri atti autoritativi possono soltanto predisporre arbitrati "senza pregiudizio della facolta' delle parti di adire l'autorita' giudiziaria", ma non disporli. Sarebbe stato contradditorio del resto richiedere il ricorso al procedimento di revisione costituzionale per l'istituzione di nuove giurisdizioni speciali e consentire nello stesso tempo che con l'istituzione di arbitrati obbligatori ex lege si potessero sottrarre sistematicamente al giudice statuale intere serie di controversie". Tali principi hanno trovato reiterata applicazione nei successivi interventi della Corte costituzionale che hanno dichiarato la illegittimità costituzionale delle norme di legge che prevedevano arbitrati obbligatori (in materia di diritti di privativa industriale ex r.d. 1127/1939 per le controversie relative al premio da corrispondere al dipendente subordinato per la realizzazione dell’invenzione -Corte cost 4-14.7.1977 n.127-; in materia di controversie relative alla misura dell’aggio e del canone della concessione comunale del servizio di pubbliche affisioni: Corte cost 9-23.2.1994 n.49 e 21.-27.2.1996 n.54; in materia di pubblici appalti ex art 16 legge n.741/1981 ed art 47 Cap. Gen.: Corte cost 6-13.2.1995 n.33-).

Il problema, quindi, è quello di sollecitare, facendo leva sulle reali esigenze delle parti, lo "spontaneo" incanalamento dei privati a tali forme alternative di risoluzione delle controversie.

Non può, in proposito, trascurarsi di ricordare che lo stesso Giudice delle Leggi ha, tuttavia, più volte riconosciuto la legittimità di norme che impongono "tentativi obbligatori di conciliazione", configurando tali ipotesi come mere condizioni di procedibilità (e non di improponibilità) della domanda (cfr . Corte cost. 19.2.1992 n.82 "Il condizionamento posto all'esercizio del diritto di azione dalla previsione, riguardo alle controversie per licenziamenti individuali, nell'art. 5 della legge 11 maggio 1990, n. 108, del tentativo obbligatorio di conciliazione secondo le procedure stabilite dai contratti e accordi collettivi, ovvero dagli artt.410 e 411 cod.proc.civ., deve ritenersi giustificato, secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte, dall'esigenza di "evitare abusi od eccessi, o salvaguardare interessi generali" "; cfr. Corte cost 6.7.2000 n. 276 "la tutela del diritto di azione non comporta l'assoluta immediatezza del suo esperimento e la disciplina del tentativo obbligatorio di conciliazione 'de quo' si ispira a criteri che rendono intrinsecamente ragionevole il limite dell'immediatezza della tutela giurisdizionale. Non e', pertanto, fondata la questione di legittimita' costituzionale degli art. 410, 410bis e 412bis cod. proc. civ., nel testo risultante dalle modifiche introdotte dagli artt. 36, 37 e 39 d.lgs. 31 marzo 1998, n.80, e dall'art. 19 d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 38 ").

Se dunque esistono già nell’ordinamento giuridico, e sono pertanto utilizzabili, strumenti volti ad "dirottare" le parti verso tentativi obbligatori di risoluzione delle controversie diversi dalla decisione del Giudice, occorre tuttavia rilevare che in molti casi l’attività diretta alla conciliazione delle parti viene considerata dalle norme come "accessoria" anzichè "alternativa" alla funzione giurisdizionale, e cioè come uno strumento volto a porre fine ad un giudizio iniziato piuttosto che volto ad impedire tout court l’instaurazione del giudizio e la iscrizione della causa a ruolo (ciò si riscontra in tutte le norme che demandano al Giudice, a processo iniziato, l’esperimento del tentativo di conciliazione –cfr art. 183 comma 1 c.p.c.-; conforme a tale interpretazione è anche il tentativo obbligatorio di conciliazione rimesso al Giudice in materia di separazione personale dei coniugi, che si introduce con ricorso e si conclude in ogni caso con un provvedimento di natura giurisdizionale: il Giudice di legittimità -Corte cost 10-16.12.1971 n. 201- ha precisato che l’audizione senza assistenza del difensore ex art 707 c.p.c. non viola l’art 24 Cost in quanto la norma garantisce comunque il contraddittorio ed è volta a tutelare il preminente interesse pubblico alla continuazione di una pacifica convivenza tra i coniugi, mentre l’assistenza dei difensori è richiesta dopo il fallimento del tentativo "poiche' solo a quel punto diventa attuale il contrasto, concreto o potenziale, tra i contendenti sulla base delle domande avanzate con il ricorso introduttivo o delle pretese direttamente prospettate al presidente del tribunale" cfr. Corte cost ord. 17.10-5.11.1996 n.389).

In altri casi invece -locazioni urbane- pur venendo ribadita la natura non giurisdizionale dell’attività conciliativa, collocata "extra judicium" (cfr. Corte cost 12-15.2.1980 n.17: "Il procedimento di conciliazione disciplinato dall'art. 44 della legge 27 luglio 1978 n. 392 non costituisce un giudizio in quanto in esso il giudice che pur lo effettua non adotta alcun provvedimento, ma si limita ad esercitare attivita` mediatrice tra le parti e, in caso di fallimento del tentativo, non puo` affrontare l'esame del merito del quale non e` investito"), il rimedio adottato per la risoluzione extragiudiziaria della controversia implica(va) (gli artt 44 e 45 della legge sono stati abrogati dalla legge 353/1990 e trovano applicazione soltanto per i processi pendenti alla data del 30.4.1995) comunque l’intervento del Giudice, non essendo dunque funzionale al perseguimento dello scopo deflattivo del carico di lavoro degli Uffici giudiziari, sommandosi ai tempi dell’espletamento dell’ordinaria attività giurisdizionale quelli relativi all’esercizio della competenza non contenziosa (nelle proposte di riforma dell’attuale processo civile dovrebbe pertanto essere recisamente escluso ogni intervento del Giudice nella procedura conciliativa).

In altri casi ancora -controversie di lavoro, controversie agrarie- le norme tendono invece a realizzare un effettivo mezzo di risoluzione della controversia alternativo al giudizio, demandando l’attività conciliativa obbligatoria ad un apposito organo estraneo all’Ordine giudiziario (art 46 legge n.203/1982 che prevede l’intervento dell’Ispettore provinciale dell’agricoltura; art 410 c.p.c. che prevede la conciliazione avanti un’apposita commissione provinciale istituita presso gli uffici periferici del Ministero del Lavoro, analogamente provvedono gli artt. 69 e 69 bis del Dlgs 3.2.1993 n. 29 in materia di pubblico impiego): in tali ipotesi il previo tentativo di conciliazione è infatti espressamente "finalizzato ad evitare la pendenza giudiziaria della lite" (Corte cost ord.14-21.1.1988) e si conforma, pertanto, a quella funzione extraprocessuale (recte non contenziosa) già espressamente riconosciuta al Conciliatore dall’art. 1 del Codice di procedura civile del 1865 -e che era significativamente evidenziata dalla collocazione dell’istituto nel "titolo preliminare" che precede il Libro I- e poi ancora dal Codice del 1940 (artt. 321e 322 c.p.c.), e che è stata mantenuta anche dopo la istituzione del Giudice di Pace (art 322 c.p.c. "conciliazione in sede non contenziosa").

Deve inoltre darsi atto della tendenza del Legislatore, affermatasi nell’ultimo decennio, di prevedere, al di fuori di specifici interventi di riforma del processo, forme di ADR in determinati settori o per determinate tipologie di rapporti:

- art 2 comma legge 29.12.1993 n. 580 ("riordinamento delle Camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura"): "Le camere di commercio, singolarmente o in forma associata, possono tra l'altro:

a) promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori ed utenti;

b) predisporre e promuovere contratti-tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti;

c) promuovere forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti";

- art 10 legge 18.6.1998 n. 192 ("disciplina della subfornitura nelle attività produttive"): " 1. Entro trenta giorni dalla scadenza del termine di cui all'articolo 5, comma 4, le controversie relative ai contratti di subfornitura di cui alla presente legge sono sottoposte al tentativo obbligatorio di conciliazione presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel cui territorio ha sede il subfornitore, ai sensi dell'articolo 2, comma 4, lettera a), della legge 29 dicembre 1993, n. 580.

2. Qualora non si pervenga ad una conciliazione fra le parti entro trenta giorni, su richiesta di entrambi i contraenti la controversia è rimessa alla commissione arbitrale istituita presso la camera di commercio di cui al comma 1 o, in mancanza, alla commissione arbitrale istituita presso la camera di commercio scelta dai contraenti.

3. Il procedimento arbitrale, disciplinato secondo le disposizioni degli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile, si conclude entro il termine massimo di sessanta giorni a decorrere dal primo tentativo di conciliazione, salvo che le parti si accordino per un termine inferiore";

- art 3 comma 2-4 legge 30.7.1998 n.281 ("disciplina dei diritti dei consumatori ed utenti"): prevede la facoltà delle associazioni di consumatori ed utenti di attivare, prima del ricorso al Giudice, la procedura di conciliazione avanti alla CCIAA ai sensi della legge n.580/1993. Il processo verbale di conciliazione, sottoscritto dalle parti e dal rappresentante della CCIAA per acquistare efficacia di titolo esecutivo deve essere omologato dal Giudice previo accertamento della "regolarità formale".

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§-C ADR: problematiche applicative

Il fatto che all’ordinamento italiano siano noti gli ADR non spiega tuttavia perché tali mezzi di fatto non siano in grado di assolvere ad una funzione deflattiva del contenzioso avanti l’AGO.

Tralasciando il caso in cui tali ragioni debbano essere ricercate in difetti di tipo organizzativo dell’organo di conciliazione che determinano tempi lunghi di risposta (è stato evidenziato in proposito come la conciliazione delle controversie di lavoro venga penalizzata da tempi di attesa per la convocazione delle parti palesemente inconciliabili con l’urgenza della tutela del diritto -licenziamento, diritto alla retribuzione-: Maffuccini "controversie di lavoro e conciliazione obbligatoria: il legislatore insiste" in Questioni giustizia n.2/98), le problematiche inerenti ad un efficace utilizzo degli ADR sembrano doveri individuare:

a-) nei requisiti di terzietà dell’organo (e della connessa assicurazione ai litiganti della parità delle armi nella procedura conciliativa)

b-) negli effetti giuridici da attribuire al verbale di conciliazione negativa (rivelandosi altrimenti la procedura conciliativa come un’inutile perdita di tempo che si va ad aggiungere ai tempi lunghi del processo)

c-) negli oneri finanziari occorrenti per la costituzione dell’organo e nella disciplina delle spese della procedura.

Quanto al primo aspetto, bene evidenziato dalle vicende relative alla devoluzione all’AGO delle controversie sul pubblico impiego (l’originario testo dell’art. 69 del Dlgs n. 29/1993 prevedeva infatti che la procedura di conciliazione -ove non fosse contemplata dal CCNL- dovesse svolgersi "tra le stesse parti" –senza quindi intervento di un organo esterno-, potendo al più il dipendente farsi assistere da un rappresentante dell’OO.SS.; con il Dlgs n. 80/1998 è stato invece, opportunamente, individuato un apposito organo -collegio di conciliazione-, composto dal direttore dell’Ufficio provinciale del Lavoro, e da un rappresentante per ciascuna delle parti litiganti -art. 69 bis-), occorre premettere che la soluzione del problema non può essere ricercata esclusivamente nell’illimitata estensione delle materie devolute alla competenza della magistratura onoraria (che, in considerazione dei criteri di selezione predeterminati ex lege, certamente garantirebbe la esigenza di terzietà), se non altro per non aggravare il già oneroso carico di lavoro gravante su tali uffici dall’aumento delle competenze giurisdizionali e riprodurre sul Giudice di Pace quella spirale perversa tra formazione di arretrato ed allungamento dei tempi della decisione che si intende contrastare.

Appare dunque condivisibile l’osservazione contenuta nel parere espresso dal CSM sul citato DDL governativo 21.12.2001, in cui viene posta in termini di aut-aut la scelta tra ampliamento delle competenze giurisdizionali o sviluppo delle competenze extraprocessuali del Giudice onorario ("…..Pur non essendo da escludere limitate nuove attribuzioni al giudice di pace sul versante della competenza per materia, come già osservato nella relazione al Parlamento sullo stato dell'amministrazione della giustizia, occorre in proposito chiedersi se una chiave di lettura semplicemente efficientistica, comunque apprezzabile, possa tuttavia continuare a costituire la ragione di attribuzioni sempre maggiori alla magistratura onoraria, con la conseguente esigenza di un superiore tecnicismo del procedimento e dello stesso organo giurisdizionale e una crescente assimilazione di quest'ultimo al magistrato professionale.

Con la riforma del processo civile il ruolo del magistrato onorario potrebbe essere diversamente rafforzato tramite il promovimento della funzione conciliativa e di mediazione non solo endoprocessuale ma anche extra processuale, nel solco già tracciato ad es. dall'art. 322 c.p.c. rubricato "conciliazione in sede non contenziosa", eventualmente prevedendo con una modifica del suddetto articolo, che il processo verbale di conciliazione in sede non contenziosa costituisca titolo esecutivo per l'espropriazione forzata, per l'esecuzione in forma specifica e per l'iscrizione d'ipoteca giudiziale….").

Il progetto di legge n.7185 ("norme per l’accesso alla giustizia civile, per la risoluzione consensuale delle controversie e per l’abbreviazione dei tempi del processo civile") presentato dal Governo alla Camera il 7.7.2000 nel corso della XIII Legislatura, che si occupa espressamente del problema, ipotizza una pluralità di sedi ed organi concorrenti (Giudice di Pace ex art 322 c.p.c. e "camere di conciliazione" istituite presso i Tribunali dai Consigli dell’Ordine Forense, presso le CCIAA per le controversie tra imprese e consumatori ed imprese) fino a prevedere la costituzione di "associazioni ed enti" -dovendo intendersi come sembra anche associazioni non riconosciute e persone giuridiche- aventi per oggetto "la fornitura di servizi per la risoluzione negoziale di conflitti".

La questione di maggiore rilevanza è quella della individuazione dei criteri di selezione dei soggetti ai quali affidare tali funzioni: considerato infatti l’attuale tecnicismo delle norme giuridiche è inevitabile che debba essere garantita non solo la terzietà ma anche un certo livello di professionalità dei titolari dell’organo ADR (in relazione a tale aspetto la soluzione proposta dal progetto di legge -di istituire con oneri a carico dello Stato una sorta di corsi di formazione ed abilitazione professionale di "esperti conciliatori"- non pare sufficientemente armonizzata, con l’abilitazione professionale richiesta ex lege all’esercente la professione forense anche per lo svolgimento dell’attività stragiudiziale di consulenza e transazione). A tale difficoltà (garantire al tempo stesso la terzietà e la professionalità dell’organo: ed ai tempi non brevi richiesti per la formazione professionale del personale) il Progetto di legge in questione sopperisce prevedendo l’accesso degli esercenti la professione legale alle "Camere di conciliazione presso i Tribunali" che si avvalgono "dell’organizzazione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati e delle strutture e del personale degli Uffici giudiziari": se quest’ultima previsione può destare perplessità, non essendo in grado l’Amministrazione della Giustizia neppure di assicurare il necessario personale ausiliario agli Uffici giudiziari esistenti, la scelta della componente professionale forense per l’espletamento della funzione conciliata appare invece certamente adeguata alle esigenze sopra prospettate (terzietà e professionalità), anche se potrebbe porre eventuali problemi, pur risolvibili con apposita previsione normativa, di incompatibilità tra la iscrizione del professionista nell’apposito elenco degli esperti conciliatori e l’esercizio della professione nella stessa sede in cui esercita la funzione conciliativa (tenuto conto che le parti possono farsi assistere da avvocati nelle procedure conciliative: art 7 prog. legge).

La garanzia del requisito di terzietà dell’organo non è sufficiente ad assicura altresì la imparzialità dell’attività conciliativa (parità delle armi), ben potendo trovarsi una delle parti, in relazione allo specifico conflitto di interessi, in posizione di manifesta inferiorità (si pensi ad es. ad una procedura conciliativa tra l’acquirente di un autoveicolo difettoso e la Casa automobilistica costituita da una multinazionale, od ancora un privato danneggiato dall’assunzione di medicine contrapposto ad una Casa farmaceutica: la sproporzione si realizza non soltanto in riferimento alle diverse possibilità economiche delle parti di avvalersi di studi legali e professionisti capaci, ma anche e soprattutto in relazione alla possibilità di determinare e condizionare l’accesso nella procedura conciliativa delle "informazioni" utili alla risoluzione della controversia). Ciò pone seri problemi in ordine alla scelta della procedura (o comunque delle regole) da seguire nell’attività conciliativa, che ben può richiedere ai fini della risoluzione della controversia la necessità di acquisire documenti, sentire persone informate sui fatti, eseguire accertamenti tecnici. E’ evidente, infatti, che nell’ADR la garanzia della parità delle armi non potrà essere assicurata riproducendo pedissequamente la struttura del processo avanti l’AGO (e specificamente della fase istruttoria), venendo altrimenti a crearsi una mera replica extragiudiziaria delle forme processuali dell’esercizio della giurisdizione, con un inevitabile appesantimento della fase cocniliativa che invece dovrebbe essere caratterizzata proprio dalla snellezza e celerità.

Tale problematica (che appare frettolosamente risolta dal Progetto di legge n.7185/: "davanti alle Camere di conciliazione presso i Tribunali il procedimento si svolge senza alcuna formalità", art 4) introduce con forza la seconda questione prospettata sopra sub b).

Non vi è dubbio che l’attività conciliativa debba comunque garantire alle parti (o meglio alla parte che intende esperire l’ADR) una qualche utilità pratica, non potendo risolversi in un mero incontro amichevole od esaurirsi in un semplice scambio di impressioni od opinioni, tanto più nel caso in cui non si intendesse mantenere facoltativo l’accesso all’ADR ma si intendesse introdurlo (in via generale ovvero per particolari materie o tipi di controversie) come condizione obbligatoria di procedibilità dell’azione giudiziaria. E’ infatti agevole comprendere che nessuno avrebbe interesse ad esperire l’ADR per incorrere in una "perdita di tempo" che si aggiungesse ai lunghi tempi del processo ordinario e venisse a risolversi di fatto in un ulteriore vantaggio a favore della parte che non intende adempiere agli obblighi assunti.

Occorre quindi ricercare il "quid utile" da attribuire alla parte che, spontaneamente od obbligatoriamente, rinuncia -temporaneamente- alla giurisdizione perseguendo il rimedio alternativo (ADR).

Non può soccorrere a tal fine la specificità riconosciuta dalla dottrina alla conciliazione (attività volta a consentire la realizzazione dell’assetto di interessi originariamente programmato dalle parti in conflitto -mediante la ricerca di soluzioni/condotte/prestazioni alternative ma in ogni caso equivalenti-) rispetto agli altri istituti dell’arbitrato (che comporta esercizio di competenze giurisdizionali) e della transazione (negozio che esclude la completa soddisfazione degli interessi originariamente perseguiti dalle parti, richiedendo reciproche rinunce: aliquid datum ed aliquid retentum). E’ evidente infatti che, intesa nel modo descritto, la mancata conciliazione esaurirebbe in sè ogni efficacia, senza lasciare tracce nella successiva risoluzione giudiziale del conflitto di interessi.

Occorre dunque ipotizzare, de iure condendo, gli effetti giuridici riconducibili alla procedura conciliativa risoltasi negativamente (ove la procedura si sia risolta positivamente appaiono, invece, adeguati gli effetti normativamente riconosciuti al verbale sottoscritto dal conciliatore e dalle parti al quale viene attribuita l’efficacia di titolo esecutivo: opportuna, al fine di introdurre un ulteriore elemento di incentivazione all’accesso all’ADR, sarebbe l’estensione di tali effetti anche alla esperibilità della esecuzione forzata in froma specifica e della icrizione della ipoteca giudiziale, come previsto anche dal Porgetto di Legge n.7185 ed evidenziato nel parere espresso dal CSM), indispensabili a giustificare l’interesse della parte "che ha ragione" a rivolgersi all’organo extragiudiziario piuttosto che ad adire immediatamente il Giudice ordinario.

Le soluzioni prospettate dalla vigenti norme di legge e dal Progetto di legge n. 7185 non paiono convincenti laddove si limitano a prevedere che se la conciliazione non riesce si provvederà alla "redazione di un verbale negativo":

- art 46 legge 203/1982 (controversie agrarie) "se la conciliazione non riesce si forma egualmente processo verbale nel quale vengono precisate le posizioni delle parti"

- art 412 comma 1 c.p.c. (controversie di lavoro) "se la conciliazione non riesce si forma processo verbale con l’indicazione delle ragioni del mancato accordo"

- art 322 c.p.c. (conciliazione non contenziosa avanti il Giudice di Pace): non prevede tale ipotesi. Invece si attribuisce un valore meramente probatorio (scrittura privata riconosciuta) al verbale di conciliazione relativo a materie non ricompresse nella competenza del Giudice di Pace

- art 69 bis Dlgs n.29/1993 (pubblico impiego): "se non si raggiunge l’accordo tra le parti, il Collegio di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti".

- art 3 legge n.281/1998 (tutela dei consumatori): non prevede l’ipotesi di verbale negativo

- art 2 comma 4 lett. a) legge n.580/1993 (CCIAA, relativamente alle commissioni conciliative): non è prevista l’ipotesi di verbale negativo

L’insufficienza di tali previsioni emerge in tutta evidenza ove si considerino le conseguenze giuridiche che vengono attribuite al verbale negativo:

- art 46 legge 203/1982: nessuna

- art 322 c.p.c.: nessuna

- art 412 comma 4 c.p.c. "delle risultanze del verbale di cui al primo comma il Giudice tiene conto in sede di decisione sulle spese del successivo giudizio" (tale disposizione è stata peraltro introdotta soltanto con l’art 38 del Dlgs n.80/1998 -in occasione della devoluzione al Giudice del Lavoro della materia del pubblico impiego-; nel testo precedente alla modifica non erano attribuiti effetti al verbale negativo di conciliazione)

- art 69 bis comma 7 legge n.29/1993 (pubblico impiego): "nel successivo giudizio sono acquisiti, anche di ufficio, i verbali concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito. Il Giudice valuta il comportamento tenuto dalle parti nella fase conciliativa ai fini del regolamento delle spese"

- art 3 legge n.281/1998 (tutela dei consumatori): nessuna

- art 2 comma 4 lett. a) legge n.580/1993 (CCIAA, relativamente alle commissioni conciliative): nessuna

- art 10 legge 18.6.1998 n. 192 ("disciplina della subfornitura nelle attività produttive") che al primo comma introduce il tentativo obbligatorio di conciliazione presso la CCIAA ai sensi della legge 580/1993: " 2. Qualora non si pervenga ad una conciliazione fra le parti entro trenta giorni, su richiesta di entrambi i contraenti la controversia è rimessa alla commissione arbitrale istituita presso la camera di commercio di cui al comma 1 o, in mancanza, alla commissione arbitrale istituita presso la camera di commercio scelta dai contraenti".

Balza evidente come "la valutazione del comportamento delle parti ai fini del regolamento delle spese nel successivo giudizio di merito" costituisca una flebile o addirittura inconsistente motivazione della parte "che ha ragione" per astenersi dal rivolgersi immediatamente al Giudice, risolvendosi in un provvedimento (sanzione ?) che incide sulla parte soccombente ma che non aggiunge nulla ai vantaggi conseguibili dalla parte vittoriosa nel giudizio di merito.

Più interessante è invece la disposizione dell’art 69 legge n. 29/1993 che, con previsione innovativa, impone alla Commissione di formulare in ogni caso la regola di condotta cui devono attenersi le parti in conflitto, con ciò riconoscendo all’organo dell’ADR un "potere di accertamento" del diritto/rapporto controverso (pur sempre nei limiti consentiti dalla procedura conciliativa), che potrebbe rivelarsi particolarmente utile ove "de iure condendo" si introducesse l’ADR come condizione obbligatoria di procedibilità dell’azione giudiziaria.

In tal caso, infatti, da un lato l’organo ADR assolverebbe alla funzione di sollecitare la parte che avanza pretese eccessive o scarsamente fondate a modificare o conformare in modo più corretto le proprie richieste (ovvero a desistere del tutto da pretese manifestamente infondate); dall’altro la parte "che ha ragione" otterrebbe, comunque, all’esito dell’ADR una delibazione della fondatezza della propria pretesa (ad es. alla stregua dei documenti esibiti o degli elementi in fatto acquisiti dall’organo ADR) che le consente di conseguire una utilità "spedibile" sul piano sostanziale o su quello processuale dell’eventuale successivo giudizio di merito, ove si attribuisse ad esempio significato concludente alla ingiustificata adesione della parte alla proposta di risoluzione alternativa della controversia, ovvero alla mancata comparizione della parte convocata alla procedura di conciliazione.

Si può ipotizzare ad esempio che alla condotta descritta venga riconosciuto il significato di non contestazione oppure attribuita rilevanza probatoria analoga alla "ficta confessio" dell’art. 232 comma 1 c.p.c., valutabile dal Giudice, successivamente adito, ai fini della concessione del decreto ingiuntivo anche in assenza del presupposto della prova scritta richiesto dall’art 633 c.p.c., ovvero ai fini della concessione della provvisoria esecuzione al di fuori delle ipotesi previste dall’art 642 comma 1 c.p.c., ove la pretesa risulti da prova scritta.

In tal modo verrebbe ad essere certamente valorizzato il "verbale negativo di conciliazione" che si inserisce (con l’attestazione resa dall’organo ADR sul "fumus boni iuris" della pretesa e sull’ "immotivato" rifiuto opposto dalla parte alla risoluzione extragiudiziaria della controversia) come elemento integrativo-costitutivo della prova della pretesa che la parte "che ha ragione" è stata costretta ad azionare promuovendo il giudizio ordinario di cognizione.

Non vi è dubbio che l’attribuzione all’organo ADR di una competenza latamente accertativa degli interessi sosanziali in conflitto implica anche una necessaria regolamentazione del potere di acquisizione degli elementi di fatto indispensabili alla formulazione di una soluzione "convincente" (per entrambe le parti del rapporto) della controversia, e ciò soprattutto al fine di garantire quella "parità delle armi" che è strumento fondamentale di garanzia di un effettivo contraddittorio. Ed è altresì evidente che occorre allora individuare regole di procedura che consentano di conservare i risultati dell’attività istruttoria svolta in sede di ADR (evitando di "iniziare tutto da capo" nel giudizio di merito, allugando i tempi in una inutile riproduzione nel processo avanti l’AGO della rappresentazione dei fatti già acquisiti nella fase della conciliazione) senza tuttavia operare un mero trasferimento della disciplina della fase istruttoria del giudizio ordinario di cognizione, giacchè in tal caso, oltre all’inevitabile prolungamento dei tempi della procedura conciliativa, si attribuirebbe all’organo ADR una vera e propria competenza giurisdizionale in palese violazione dell’art 102 Cost.

Si potrebbe ipotizzare in proposito un coordinamento tra la fase non contenziosa dell’ADR e quella del giudizio di merito, disciplinando i casi di "utilizzabilità" nel processo ordinario di cognizione di prove, anche se atipiche, raccolte nel corso della fase ADR, previa verifica da parte del Giudice del rispetto di specifici requisiti da richiedere per la formazione di tali prove e delle regole della (instauranda) procedura conciliativa: è evidente che il problema non si pone per le prove precostituite, ma per quelle costituende (dichiarazioni rese da terzi, sentiti ad es. come sommari informatori, avanti all’organo ADR, ovvero di consulenze o accertamenti tecnici svolti nel corso della procedura conciliativa: al riguardo non sembrano sussistere ostacoli ad estendere la previsione contenuta nell’art 21 del citato Progetto di legge -avente ad oggetto la facoltà delle parti di sottoporre al CTU anche questioni attinenti la causalità materiale e giuridica della fattispecie- anche alla fase dell’ADR) per le quali, quindi, la utilizzabilità in giudizio dovrebbe rimanere subordinata alla verifica della regolarità di determinati requisiti imposti a tutela dell’osservanza del contraddittorio.

Appaiono invece idonei strumenti di incentivazione al ricorso all’ADR "ex latere debitoris" quelli previsti dal Progetto di legge n.7185 e non più recepiti dal nuovo DDL governativo presentato il 21.12.2001 (favorevolmente alla introduzioni di tali deterrenti si è espresso anche il CSM nel parere reso sul DDL del Governo del 21.12.2001 "In questa prospettiva non può non osservarsi come il rafforzamento dell'art.96 c.p.c. (con l'inserimento ad esempio della impugnazione manifestamente infondata tra le ipotesi tipiche di responsabilità aggravata) o la previsione di una sanzione pecuniaria, nel caso di lite temeraria, potrebbe rendere ben più consistente l'effetto deflattivo perseguito. Al riguardo, taluno ha suggerito di aggiungere al primo comma dell'art. 96 la previsione di una condanna in misura non inferiore al triplo delle spese ed al secondo comma prevedere una liquidazione equitativa, avuto riguardo al limite minimo di cui al comma precedente). Occorre tuttavia evidenziare che le soluzioni adottate dal Progetto di legge (1-aumento del tasso di interesse legale da applicare al soccombente "sui crediti liquidati con sentenza di condanna o altro provvedimento giudiziale esecutivo"; 2-limite minimo -in misura pari al doppio delle spese di lite- del "quantum" risarcibile per responsabilità aggravata ex art 96 c.p.c.), dovrebbero essere più correttamente ricondotte nell’ambito della categoria giuridica di appartenenza che è quella delle "sanzioni pecuniarie" (pena privata ?), considerato che la esigenza alla quale attendono esula dalla funzione tipica assolta dagli interessi corrispettivi ex art 1282 c.c. (naturale fecondità del denaro) e da quella di reintegrazione del patrimonio del soggetto leso, per agire invece come deterrente afflittivo di condotte ritenute riprovevoli dall’ordinamento alla stregua dell’interesse generale ad un rapido ed efficiente funzionamento della Giustiza espressamente considerato dall’art 111 della Costituzione (pervicace resistenza alle giuste pretese altrui; immotivato rifiuto alla soluzione conciliativa della lite; pregiudizio arrecato al funzionamento del sistema giudiziario inflazionando il carico di lavoro con una causa inutile).

Le considerazioni che precedono introducono l’ultima delle tre questioni prospettate sopra (quella sub c).

Uno dei motivi principali del fallimento dei rimedi ADR è dettato dai costi di accesso a tali forme di risoluzione alternativa delle controversie. Non tutti, infatti, possono permettersi di corrispondere onerosi compensi agli arbitri, tanto più nel caso in cui la complessità della controversia richieda particolari livelli di professionalità (e qui ritorna il problema di garantire la effettiva terzietà dell’organo onde impedire di sbilanciare la "capacità decisionale" dell’organo collegiale a vantaggio della parte più facoltosa).

Tale problema è solo in parte risolto dal Progetto di legge n. 7185/ che pone le indennità dovute all’esperto conciliatore "a carico delle parti….se l’istanza è stata proposta congiuntamente; altrimenti….a carico della parte istante". Appare opportuno in proposito, ove si intenda mantenere l’impianto originario del Progetto di legge che demanda al Ministero della Gistizia la vigilanza sugli organi ADR, che vengano adottate tariffe obbligatorie che prevedano minimi e massimi della indennità. D’altro lato la -necessaria- sopportazione delle spese della procedura a carico della sola parte istante (salvo recupero della somma nel successivo giudizio di merito) nel caso di mancata conciliazione, costituisce un ulteriore elemento rafforzativo della esigenza di garantire dei vantaggi "spedibili" alla parte "che ha ragione", pena la totale disincentivazione all’uso del rimedio alternativo di risoluzione delle controversie.

Un breve accenno merita anche la soluzione data dal Progetto di legge al reperimento delle strutture e del personale necessario al funzionamento degli organi di ADR: appare evidente a tutti che se si vuol perseguire un risultato occorre predisporre la adegata provvista finanziaria.

Può dunque ritenersi meramente velleitario il tentativo di attivare gli organi ADR richiedendo la collaborazione (per la dotazione di mezzi e personale) per di più a titolo gratuito ad enti pubblici, anche territoriale, o ad associazioni di volontariato, come sembra emergere dal Progetto di legge in questione.

Quanto alla valutazione, demandata al Giudice, delle condotte tenute dalle parti nel corso della procedura conciliativa ai fini della regolamentazione delle spese, sembra abbastanza macchinosa la soluzione adottata nel Progetto di Legge di "misurare" la corrispondenza tra la soluzione della lite prospettata nel verbale redatto in sede di ADR e quella determinata dalla sentenza all’esito del giudizio di merito (tanto più nei casi di pluralità di domande connesse o subordinate: si ponga mente all’ipotesi in cui risultasse fondata la pretesa relativa al capitale ed infondata quella relativa agli interessi di mora), sembrando opportuno trasferire l’ipotesi sanzionatoria della condotta dilatoria nella sede che appare appropriata (artt. 88, 96 c.p.c.), introducendo in luogo della previsione che richiede l’accertamento della prova del danno una fattispecie sanzionatoria tipica.

§§§§§§§

§-D Mezzi di prevenzione dei conflitti di interesse

Una considerazione a parte meritano le fattispecie normative che mirano più che a risolvere le controversie a prevenirle, conformando le condotte delle parti nella fase iniziale delle trattative o dei contatti fino a prevedere condotte sostitutive nella fase patologica del rapporto:

- la disciplina introdotta dal Dlgs 17.3.1995 n. 111 ("attuazione della direttiva 90/314 Cee concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti tutto-compreso"), che, introducendo per le imprese che operano nel settore l’obbligo dell’assicurazione per la responsabilità civile e tipizzando le condotte delle parti nella fase patologica del rapporto (in particolare prescrivendo al tour operator, in caso di improvvise variazioni o modifiche al programma di viaggio, prestazioni surrogatorie di quella originariamente pattuita, tuttavia idonee a soddisfare comunque l’interesse del consumatore), mira evidentemente a prevenire il contenzioso che altrimenti approderrebbe inevitabilmente avanti i Tribunali;

- l’art 5 della legge 5.3.2001 n.57 che introduce modifiche al DL n. 857 del 1976 conv. in legge n.39/1977 in materia di assicurazione obbligatoria RCA, prevede: a) la formulazione di richieste risarcitorie idonee a fornire all’assicuratore tutti gli elementi necessari ad apprezzare la entità del danno ed a liquidare l’indennizzo; b) tempi predeterminati per le trattative tra le parti volte a concludersi con un’offerta di risarcimento formulata dall’assicuratore; c) le sanzioni pecuniarie (irrogate dal MICA e curiosamente sottratte alla giurisdizione AGO e devolute al GA: cfr art. 6) da applicare alle società assicuratrici che non ottemperano nei tempi richiesti alle indicate prescrizioni;

- ancora più interessanti appaiono quelle forme volte a prevenire possibili contestazioni tra le parti del rapporto obbligatorio concernenti "la interpretazione di norme giuridiche o di clausole contrattuali":

1-) l’art 1469 sexies c.c. (introdotto dalla legge n. 52/ 1996 di attuazione della direttiva Cee 93/13 del 5.4.1993) consente infatti alle associazioni dei consumatori ed utenti -individuate dalla legge n.281/1998-, alle associazioni di professionisti ed alle CCIAA di agire in giudizio per ottenere dal Giudice che "inibisca l’uso delle condizioni di cui sia accertata l’abusività"

2-) l’art 11 della legge 27.7.2000 n.212 ("disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente") prevede la facoltà del contribuente di presentare all’Amministrazione delle Finanze "istanza di interpello concernente l’applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali quando vi siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stesse". Tale facoltà contempla anche la "istanza di interpello collettiva" (formulata da una pluralità di contribuenti) ed alla risposta "scritta e motivata" della PA è attribuito carattere vincolante con la conseguenza che "qualsiasi atto, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio, emanato in difformità della risposta……è nullo"

Con specifico riferimento alle imposte sui redditi l’art 21 legge 30.12.1991 n.413 già prevedeva analogo interpello del contribuente al Comitato consultivo per l’applicazione delle norme anti-elusione: il parere emesso dal Comitato determina effetti rilevanti sulla disciplina del riparto dell’onere probatorio nella eventuale fase contenziosa in quanto "l’onere della prova viene posto a carico della parte che non si è uniformata al parere del comitato".

La disciplina normativa descritta rappresenta appieno la avvertita esigenza di rispondere ad uno di quelli che abbiamo visto essere uno degli elementi negativi della "complessità" del sistema giudiziario, e cioè la "varietà" (idest: incremento del rischio di decisioni difformi) che si traduce in incertezza del diritto e determina quindi un maggior grado di delusione delle aspettative giuridiche che ciascun cittadino matura in relazione alle scelte operate dal sistema, e conseguentemente innesca, producendo un giro vizioso, il moltiplicatore delle richieste di decisioni giurisdizionali.

Non volendo esorbitare dai limiti della presente trattazione può qui soltanto accennarsi alla opportunità di inserire anche nell’ambito dell’esercizio della giurisdizione (sempre più chiamata a dirimere conflitti che vedono coinvolti interessi collettivi o superindividuali facenti capo a gruppi o categorie di imprese, di utenti, di consumatori, ecc.) forme provvedimentali tipiche aventi ad oggetto la interpretazione di norme o la elaborazione di principi giuridici applicabili ad una serie indefinita di cause che presentano tutte le stesse identiche questioni di diritto. D’altra parte l’art 1469 sexies c.p.c. sembra avere già tracciato una strada che appare percorribile ed estensibile -mediante le opportune modifiche legislative al codice di rito- anche ad ipotesi diverse. Si fa riferimento alla idoneità della sentenza adottata ex art 1469 sexies c.p.c. (che ad es. abbia dichiarato invalide, in quanto abusive, le condizioni generali uniformi applicate da tutte o dalla maggior parte delle imprese di uno specifico settore del commercio) di esplicare -una volta passata in giudicato- efficacia "erga omnes" se non assoluta quanto meno limitatamente alla decisione delle questioni in diritto sollevate e discusse in quel giudizio.

Non vi è dubbio che la previsione di sentenze cd. "normative", che potrebbero essere subordinate ad esempio alla richiesta di una o di entrambe le parti in causa e da adottarsi secondo predeterminati requisiti dell’organo giudicante (sarebbe preferibile un organo a composizione collegiale), da un lato, consentirebbe alle parti di valutare meglio le proprie aspettative e prevedere in modo certamente più razionale il probabile esito della controversia e conseguentemente (la sentenza normativa -per la quale deve essere previsto uno specifico regime di pubblicità- fungendo da criterio guida verrebbe a disincentivare i "meri tentativi" o le cd. "cause esplorative"); dall’altro potrebbe rivelarsi uno strumento deflattivo efficace -analogamente ad es. alla pubblicazione dei criteri tabellari di liquidazione del danno biologico elaborati ed adottati dalla assoluta prevalenza dei Giudici del Tribunale- inducendo le parti ad "autodefinire" la controversia senza ricorrere al Giudice.

§§§§§§§

Conclusioni

Dalla compiuta disamina emergono in tutta evidenza i limiti dell’ADR a svolgere una efficace funzione deflattiva dei processi.

Tuttavia l’attuale stato di emergenza della Giustizia civile non consente di rinunciare ad alcun tentativo di riforma legislativa che fornisca anche la pur minima possibilità di incidere sull’accumulo incontrollato delle sopravvenienze.

L’Alternative Disput Resolution potrà divenire un utile strumento di soluzione delle controversie soltanto ove riesca a conquistare una propria credibilità (sia attraverso la capacità dei titolari degli organi di assicurare una buona professionalità accanto ad una indipendenza di giudizio; sia attraverso l’efficacia giuridica che verrà riconosciuta al verbale conclusivo della procedura ove la conciliazione non riesca).

E’ evidente tuttavia che la riuscita dell’ADR implica una profonda trasformazione culturale in chi, fino ad oggi aduso ad introdurre le liti, viene ora chiamato a collaborare con lo Stato per ostacolarle ed ove possibile impedirle (a tal fine l’art 18 del progetto di legge impone agli avvocati un obbligo informativo verso il cliente che deve essere edotto di "tutte le possibilità conciliative della controversia, prima di procedere alla proposizione del giudizio": ma appare in tutta evidenza come tale obbligo presupponga una radicale modifica del rapporto professionista-cliente, modifica che investe le stesse condotte dell’agire sociale e che richiede quindi una trasformazione culturale della intera società civile).

Le forme ADR presuppongono inoltre la volontà dei privati di risolvere autonomamente dall’intervento dello Stato i propri conflitti, ma tale indipendenza dall’ "assistenza" dello Stato è direttamente proporzionale alla effettività del diritto ed in ultima analisi alla convinzione sociale del dovere di rispettare gli impegni assunti (mantenere la parola data) ed al giudizio di riprovevolezza che la società esprime per il mancato adempimento di tali obblighi in quanto non conforme agli imprescindibili doveri di lealtà ed onestà. Ne segue che tali forme di risoluzione alternativa delle controversie hanno attecchito laddove la società civile è stata capace di elaborare strumenti diretti a sanzionare tali condotte, prescindendo dal diretto intervento dello Stato, privando effettivamente il soggetto inadempiente della credibilità e dell’affidabilità indispensabile allo svolgimento dei traffici giuridici.

Appare dunque evidente che tali forme difficilmente potranno svilupparsi in un differente humus sociale caratterizzato dalla estrema litigiosità, dalla sfiducia nella effettività del diritto, dalla convinzione di poter ottenere comunque dallo Stato una pronuncia, di scarsa o nulla utilità pratica in relazione al bene della vita, facendo valere "questioni di principio", o peggio dalla diffusa convinzione di poter utilizzare strumentalmente il processo come mezzo per ottenere risultati del tutto estranei (ove non illeciti) alla soluzione di una reale controversia.


*L'articolo riproduce la relazione tenuta dall'autore al Convegno del 20.6.2002 "Nuove proposte per il processo civile".

 

dott. Stefano Olivieri

 

 

 

 

 

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