Proposte di razionalizzazione del processo civile in primo grado*

di Antonio Lamorgese

1) La rigidità del modello di processo ordinario di cognizione in primo grado;

2) Opinioni a confronto;

3) La "pendenza" del processo e i "poteri" del giudice;

4) Il principio di oralità … ;

5) … e la ragionevole durata del processo "regolato dalla legge";

6) La "discrezionalità" del giudice;

7) – 7 a) Per una nuova "organizzazione" del processo civile. La fase introduttiva e l’intervento del giudice;

7 b) Giudice monocratico o collegiale;

7 c) Se il convenuto non si costituisce o non contesta la domanda;

7 d) La decisione immediata con ordinanza che definisce il giudizio o fissa l’udienza di discussione per la decisione;

7 e) L’eventuale appendice di trattazione scritta;

7 f) L’ordinanza preparatoria. L’udienza destinata all’interrogatorio libero e/o al tentativo di conciliazione e/o all’assunzione delle prove orali;

8) L’assunzione delle prove;

9) Altre proposte.

 

1) La rigidità del modello di processo ordinario di cognizione in primo grado

Il modello di processo ordinario di cognizione di primo grado delineato dai legislatori degli anni ’90 consiste, com’è ben noto, nella successione cadenzata ed ordinata di udienze (v. artt. 180, 183, 184 c.p.c.) nelle quali le attività che il giudice e le parti devono svolgere sono minuziosamente predeterminate dallo stesso legislatore: prima udienza di comparizione, prima udienza di trattazione, udienze per l’ammissione e l’assunzione dei mezzi istruttori, udienza di precisazione delle conclusioni.

La rigidità del modello procedimentale in questione è generalmente criticata, la maggior parte dei giudici lo ritiene derogabile sull’accordo esplicito od implicito delle parti, alcuni progetti di riforma in discussione in Parlamento vanno seppur molto timidamente nella direzione di renderlo più duttile e funzionale all’esigenza di consentire una più celere definizione della controversia.

Ulteriore dimostrazione della rigidità del modello processuale vigente è dato dalla generalizzata introduzione del giudice unico monocratico, fatta eccezione per le controversie in alcune materie nelle quali il legislatore ha conservato la collegialità sulla base di una astratta e preconcetta presunzione di difficoltà od importanza (si pensi a quelle in materia di separazioni giudiziali e divorzi, ai procedimenti camerali ecc.), senza dare alcun rilievo alle valutazioni del giudice e delle parti circa la importanza e difficoltà della singola controversia e, quindi, della sentenza per i risvolti sociali o di "precedente" che essa può assumere (si pensi alle controversie collettive di cui all’art. 1469 sexies c.c. ove la sentenza produce un’efficacia, per così dire, "normativa", alle controversie in materia di responsabilità della P.A., appalto di opere pubbliche ecc.).

2) Opinioni a confronto

Una parte della dottrina ritiene che la rigidità del modello sia soltanto apparente ovvero, pur favorevole a proposte di miglioramenti, tende a negare la necessità o opportunità di una incisiva riforma del codice di procedura civile e, guardando ottimisticamente alla crisi della giustizia civile come in fase di superamento, punta alla diffusione sul territorio di prassi cosiddette virtuose che possano far bene funzionare l’attuale processo .

Questo atteggiamento, che bonariamente definirei riduzionista , non è del tutto condivisibile e, in ogni caso, l’argomento può essere rovesciato: se questo modello processuale, con tutti i limiti e le irrazionalità che qualunque operatore pratico ha modo di constatare quotidianamente, ha dato segnali positivi, a maggior ragione una incisiva riforma di esso potrà consentirci di raggiungere l’obiettivo di un processo avente un standard elevato in termini qualitativi e di durata ragionevole.

Premesso che fuori discussione è l’importanza ed utilità delle prassi virtuose, così come di quelle volte a favorire l’uniformità degli indirizzi giurisprudenziali mediante l’ausilio degli strumenti informatici , si deve riconoscere che la formulazione di norme come quelle di cui agli artt. 180, 183, 184, 269 c.p.c. non lascia molto spazio (in mancanza, come s’è detto, di un accordo almeno implicito delle parti) a interpretazioni che favoriscano una articolazione del processo diversa da quella di una successione di udienze a ritmo e contenuto predeterminati dalla legge.

In ogni caso, occorre prendere atto del diritto vivente formatosi con riguardo all’applicazione concreta delle norme processuali .

Che il processo si estrinsechi necessariamente in una serie procedimentale di atti concatenati ed intervallati da termini che consentano alle parti di esercitare il diritto di difesa nel contraddittorio e con la collaborazione del giudice e che la sua durata sia insopprimibile, è ben noto , ed è noto anche che, al fine di contenere questa durata in termini accettabili, si faccia generalmente affidamento sul regime delle preclusioni nelle nuove attività (allegazioni e formulazione delle istanze istruttorie) che le parti sarebbero indotte a modificare in ragione del trascorrere del tempo.

3) La "pendenza" del processo e i "poteri" del giudice

Occorre riconoscere che la "pendenza" del processo per tutto il tempo che occorre per lo svolgimento di tutte le udienze previste generi lunghissimi "tempi morti", in considerazione dell’altissimo numero di procedimenti pendenti, con il conseguente snaturamento del ruolo del giudice che (nonostante la buona volontà di tanti) finisce per diventare il "vigile" di atti di parte (modifiche e precisazioni di domande, domande nuove, chiamate di terzi ecc.) che incidono pesantemente sulla durata del processo . E, soprattutto, che il giudice, al quale pure si chiede di dirigere la trattazione e l’istruttoria (art. 175 c.p.c.), sprechi troppe energie dovendo ritornare sul fascicolo per ristudiarlo numerose volte a distanza di mesi ed anni prima di ciascuna udienza e, spesso, inutilmente, visto il "diritto" del difensore di ottenere il rinvio della causa per la presentazione di memorie scritte (spesso inutili o ripetitive) e il compimento di attività che ben avrebbero potuto essere effettuate prima ; e, quel che è più grave, nonostante che, in ipotesi, egli sia in grado di chiudere il procedimento già dopo la lettura degli atti introduttivi (citazione o ricorso e comparsa di costituzione) ovvero dopo le prime battute processuali (si pensi, ad esempio, ad una causa documentale o di diritto in cui il giudice non abbia bisogno di chiarimenti dalle parti né di indicare questioni rilevabili d’ufficio e che non si presti all’interrogatorio libero: ebbene, se una sola delle parti chieda la concessione dei termini per le varie memorie scritte previste dal codice, senza che l’utilità derivi dall’attività della controparte, la causa finisce per pendere inutilmente per anni ingolfando il ruolo del giudice e costringendolo ad un insostenibile spreco di energie per il ripetuto studio del fascicolo prima dell’udienza nell’eventualità di poterla decidere; oppure, si pensi alla causa che debba essere istruita ed una delle parti insista nel chiedere tutti i termini per memorie comprese quelle istruttorie di cui all’art. 184 c.p.c. che, in ipotesi, non depositerà: l’assunzione delle prove indicate negli atti introduttivi potrà iniziare alla 5a udienza! ).

C’è da chiedersi, quindi, se l’articolazione del processo per udienze cadenzate nel tempo sia insopprimibile o, per meglio dire, se ogni decisione seppur interlocutoria del giudice debba necessariamente "passare" per l’udienza, dovendo rendersi conto che ogni udienza o rinvio della causa per il compimento di un’attività non strettamente necessaria ha un "costo" insostenibile in termini di tempo e, quindi, di durata complessiva del processo ; se soprattutto le attività da compiersi in essa debbano essere minuziosamente regolamentate dalla legge e sostanzialmente rimesse alle decisioni delle parti; se un sistema del genere sia l’unico conforme al celebrato principio di oralità (caratterizzato dall’incontro e dalla discussione delle parti con il giudice nell’udienza) ed ai canoni del "giusto" processo (art. 111 Cost.).

4) Il principio di oralità …

A proposito del principio di oralità, il prof. G. Verde ha così espresso, lucidamente, il suo pensiero: "Devo confessare che nell’oralità non sono mai riuscito a vedere un valore assoluto. Mi è sempre apparsa un mito, che come tale può essere apprezzato e coltivato. In primo luogo, essa nasce storicamente condizionata dalla contrapposizione ad un processo scritto, dove il valore negativo di quest’ultimo termine nasceva non dal fatto che la forma normale di esprimersi nel processo fosse lo scambio di scritture tra i difensori, quanto dalla degenerazione del sistema con un’appendice di segretezza, di formalismi, di sostanziale assenza di partecipazione del giudice alla vicenda processuale(…). L’oralità ha rappresentato una reazione a tutto ciò: dirà Chiovenda che fuori dall’udienza il processo si corrompe e che l’udienza, che è il luogo privilegiato in cui si svolge il dialogo tra le parti e il giudice, è come l’ossigeno necessario per dargli l’impulso vitale ed immaginava un processo nel quale il giudice potesse decidere subito (di qui la concentrazione) e sulla base delle sue percezioni personali (di qui l’immediatezza). Ma il processo immediato e concentrato non è di questo mondo (…). La concentrazione e l’immediatezza appaiono come valori irrealizzabili, così che il giudice non giudicherà sulla base delle sue percezioni personali, ma in forza di necessari strumenti di mediazione. E allora il valore dell’oralità viene ridimensionato, perché in tutto o in parte ritorna prepotentemente a riacquistare importanza la documentazione. Ma non basta. La complessità del mondo moderno e dei sistemi giuridici non sempre si presta ad una trattazione orale, che finisce col dare prevalenza alle capacità suggestive di chi prospetta le proprie tesi e che è la forma espressiva tipica del mondo dei sentimenti. In un mondo nel quale la tecnica assume sempre maggiore importanza, sembra contraddittorio che ci si affidi a moduli che privilegino la retorica" .

5) …. e la ragionevole durata del processo "regolato dalla legge"

Questa opinione è da condividere. Il principio di oralità (declamato nel primo comma dell’art. 180 c.p.c. ), del resto, non è considerato nel novellato art. 111 della Cost. come corollario del "giusto" processo, il quale, invece, è solo quello che, nel contraddittorio delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale, sia regolato dalla legge ed abbia una durata ragionevole . Principio quest’ultimo che, quindi, deve prevalere su quello dell’oralità, nel senso che, dal punto di vista costituzionale, deve ritenersi preferibile un modello di processo che, nel rispetto degli altri canoni dettati dall’art. 111 della Cost., ne favorisca la conclusione in tempi ragionevoli rispetto ad altri che, pur ispirati all’oralità, non lo siano altrettanto.

Non si vuol sostenere che il principio di oralità (che, nonostante le forti limitazioni apportate dalle numerose occasioni di trattazione scritta di cui il codice è disseminato , permea il modello processuale con la previsione di una cadenza di udienze nelle quali le parti o i loro difensori devono comparire dinanzi al giudice) deve essere accantonato ma, al contrario, che deve essere reso funzionale alla realizzazione di un processo "giusto" la cui ragionevole durata, occorre riconoscere, è invece gravemente compromessa tutte le volte che quell’incontro in udienza si faccia soltanto perché voluto dal legislatore e finisca per sembrare "solo un’occasione più o meno piacevole per socializzare" .

Occorre abbandonare l’intransigenza dei principi, stagione questa che "nel campo giudiziario, è alle nostre spalle. Si è, ormai, aperta la stagione della compatibilità, per cui il meglio non sta nella soluzione in astratto più conforme ai nostri ideali, ma nella soluzione capace di offrire i risultati migliori nella situazione storica nella quale ci troviamo ad operare" .

Certo, l’ideale perché più democratico sarebbe un processo diretto da un giudice che possa definire la controversia secondo canoni di efficienza (in termini di durata e qualità) semplicemente facendo applicazione delle norme processuali predefinite dal legislatore come le più conformi a quei canoni in relazione a ciascuna singola controversia (in altri termini, un processo in cui i tempi, i modi e i contenuti di esercizio dei poteri del giudice e delle parti siano regolati solo dalla legge, anzi da norme legislative precise e tassative, che non facciano ricorso a formule indeterminate e, soprattutto, non si affidino alla discrezionalità del giudice ).

Ma si tratta, appunto, di un "ideale", posto che quale sia il binario che la singola controversia deve utilmente percorrere per raggiungere l’obiettivo di conformità ai canoni del processo "giusto", non può di certo essere stabilito preventivamente dal legislatore, il quale, al più, potrebbe prevedere modelli differenziati per tipologie omogenee di controversie.

In questa direzione, dottrina autorevole propone la creazione di un processo semplificato nelle controversie concernenti solo la determinazione del quantum di compensi (di liberi professionisti, avvocati, ausiliari del giudice, arbitri ecc.) ovvero ove il convenuto non contesti la domanda (o, in ipotesi da predeterminare legislativamente, non compaia in udienza).

Di più, sembra di capire, non sarebbe compatibile con il nuovo art. 111 Cost., dovendo la "riserva di legge" intendersi nel senso della necessità di una tendenzialmente analitica regolamentazione legislativa degli atti del processo.

"Il problema - come è stato osservato - non va posto tra due polarizzazioni estreme (…) : nessuno propugna un processo tutto rimesso a quel che il giudice ritiene meglio fare e nessuno vuole un codice processuale di un milione di articoli che regoli bizantinamente ogni atto, ogni modalità, ogni tempo ed ogni pausa, lasciando al giudice un ruolo meramente esecutivo. Il problema riguarda la ricerca di un punto di equilibrio effettivamente e concretamente migliore in termini di garanzie … e di efficacia-efficienza" .

6) La discrezionalità del giudice

Personalmente non credo che l’irrigidimento formalistico, cioè la traduzione delle garanzie in norme legislative puntuali, precise, tassative e rigide sia utile ai fini dell’obiettivo di realizzare un processo aderente ai canoni di giustizia, correttezza e speditezza .

Occorre abbandonare l’idea di un’equazione "discrezionalità del giudice = arbitrio incontrollabile", posto che "la discrezionalità, giuridicamente parlando, rientra a pieno titolo nel campo delle attività regolate dalla legge" , pienamente controllabile dal giudice dell’impugnazione.

Ed occorre convincersi che non può esistere un modello unico di processo di cognizione che si adatti a tutte le tipologie di controversie e, però, neppure possono configurarsi più modelli e riti diversi rigidamente preconfezionati dal legislatore in relazione, ad es., alle innumerevoli tipologie di controversie considerate in via preventiva ed astratta (ad es.: un rito per le controversie con i consumatori, uno per le controversie con la P.A., uno per quelle di diritto industriale ecc. ecc.).

Ogni singola controversia è diversa dall’altra e merita un "rito" su misura che possa condurla verso una "giusta" e rapida conclusione.

A questo scopo il mezzo è obbligato: fare affidamento sui protagonisti del processo, parti e giudice, che, conoscendo la controversia, sono gli unici nelle condizioni di imprimere ad essa, in modo condiviso, il ritmo migliore per un risultato di giustizia.

Non si propone qui, ovviamente, un’ingenua "cameralizzazione" del rito ordinario ma di consentire al giudice (sempre nel rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio delle parti) di imprimere alla singola controversia l’impulso e l’iter di cui essa ha effettivamente bisogno.

Deformalizzazione ed elasticità delle norme processuali sono principi considerati come essenziali per la definizione della struttura del processo, oltre al rispetto delle garanzie fondamentali (diritto di difesa e contraddittorio), all’attribuzione al giudice di funzioni e responsabilità manageriali nella direzione del processo e all’adozione di uno schema procedimentale a due fasi (una destinata alla preparazione ed eventuale risoluzione anticipata della causa, l’altra all’assunzione delle prove e alla decisione) .

Si discute molto in questi tempi e in termini molto generici (cosa che, peraltro, è di ostacolo ad una discussione ragionata sull’argomento) di sottrarre al giudice e di affidare agli avvocati la gestione della fase preliminare di preparazione della causa (e l’espletamento delle prove).

E’ nota e condivisibile la posizione di quanti, richiamando le idee di Chiovenda, evidenziano i rischi dell’attribuzione al giudice soltanto del potere di decidere e risolvere gli incidenti tra le parti, poiché "la decisione, il giudizio non sono logicamente scissi dalle attività di trattazione e istruzione della controversia che lo precede ma a queste strettamente collegate; sono la definizione della materia del contendere e l’individuazione dei fatti controversi quali scaturiscono dalla fase preliminare e, poi, le prove assunte, che delimitano l’oggetto delle decisione e le forniscono il materiale su cui formarsi; la regolamentazione delle fasi preliminare e istruttoria incidono pertanto in modo determinante sul giudizio e sul suo esito e l’estromissione del giudice dal ‘laboratorio processuale’ significa privarle dell’intervento equilibratore di un soggetto terzo e imparziale, che (…) collabori con le parti nella ricerca della verità, garantendo l’attuazione del principio di uguaglianza" .

In linea di principio, queste affermazioni sono pienamente condivisibili.

7) Per una nuova "organizzazione" del processo civile

7 a) La fase introduttiva e l’intervento del giudice

Il problema, però, consiste nel valutare se la collaborazione del giudice nella determinazione, in primo luogo, della materia del contendere, debba avvenire nei modi e nelle forme attuali che, lo si voglia ammettere oppure no, configurano, come si è visto, il giudice come uno spettatore delle attività delle parti.

A mio avviso, non solo non è né utile né opportuno ma costituisce una delle principali cause della irragionevole durata del processo la presenza del giudice e, quindi, la "pendenza" di una controversia prima che le parti ed i terzi chiamati in causa abbiano terminato le attività (che sono, appunto, di parte) di allegazione e deduzione, proposizione e precisazione delle domande ed eccezioni .

Solo dopo che ciascuna parte abbia avuto la possibilità di esercitare compiutamente il diritto di difesa presentando due memorie scritte e depositando i documenti ritenuti utili, ha senso l’intervento del giudice, al quale la controversia sarebbe affidata e che assumerebbe la responsabilità "manageriale" di condurla a conclusione nella prima occasione utile, collaborando fattivamente con le parti nella determinazione della materia del contendere.

A questo punto, il giudice (su richiesta di una delle parti, se non ricorrono cause di improponibilità dell’azione ) dovrebbe indirizzare il processo in uno dei binari che il legislatore (nel rispetto della riserva di legge fissata nell’art. 111 Cost.) dovrebbe astrattamente prevedere, sul modello tedesco ed inglese (i c.d. tracks) , in modo flessibile ed adattabile alla singola controversia.

7 b) Giudice monocratico o collegiale

La prima decisione dovrebbe riguardare (tenendo conto anche delle indicazioni delle parti) se la causa, avuto riguardo all’importanza o delicatezza del caso o all’idoneità della sentenza a valere come precedente (si pensi alla sentenza emessa ai sensi dell’art. 1469 sexies c.p.c.), dovrà essere decisa dal collegio o da un giudice monocratico . Nelle cause c.d. pilota, destinate a diventare seriali dopo le prime decisioni che abbiano risolto le principali questioni giuridiche coinvolte, potrebbe anche immaginarsi una forma di vincolo del tribunale in successivi casi analoghi a rispettare il precedente (emesso dal collegio) che potrebbe essere semplicemente richiamato, salva motivazione di dissenso, eventualmente, su specifica doglianza della parte (sarebbe anche opportuno, in questi casi, prevedere corsie privilegiate nei successivi gradi di giudizio al fine di consentire al provvedimento sottoposto a gravame di acquisire stabilità in tempi rapidi).

7 c) Se il convenuto non si costituisce o non contesta la domanda

Qualora la domanda sia intrinsecamente idonea ad essere accolta sulla base delle allegazioni dell’attore (in caso di intrinseca infondatezza, invece, la domanda dovrebbe essere rigettata), il giudice (sempre che non ritenga necessario chiedere all’attore chiarimenti ovvero indicare questioni rilevabili d’ufficio, nel qual caso procederà come sub 7 e) dovrebbe pronunciare sentenza di accoglimento. Il principio secondo cui la contumacia equivale a "non contestazione" è recepito in molti paesi europei (si pensi ai default judgments inglesi) e potrebbe esserlo anche in Italia (almeno in materia di diritti disponibili). Sarebbe inoltre necessario interpretare il principio di "non contestazione" in modo conforme non solo alla lettera dell’art. 167 c.p.c. (che impone al convenuto di prendere posizione sui fatti posti a fondamento della domanda" ) ma anche ai principi di lealtà (art. 88 c.p.c.) e, oggi (art. 111 Cost.), di economia processuale, dovendosi sempre preferire le interpretazioni che facciano evitare il compimento di attività istruttorie non realmente necessarie .

7 d) Decisione con ordinanza che definisce il giudizio o fissa l’udienza di discussione per la pronuncia della sentenza

Se il convenuto si costituisce e contesta la domanda o formula domande riconvenzionali ed il giudice sia nelle condizioni di poter decidere la causa senza chiedere chiarimenti o indicare alle parti questioni rilevabili d’ufficio, essendo ad es. la causa di puro diritto ovvero la domanda manifestamente infondata o fondata ovvero l’eccezione pregiudiziale o preliminare sollevata dalla parte idonea a definire il giudizio ecc., il giudice dovrebbe fissare l’udienza per la discussione e la decisione riservata (ovvero per l’eventuale pronuncia della sentenza a verbale sul modello dell’art. 281 sexies c.p.c., che, al fine di favorirne l’applicazione, sarebbe oltremodo opportuno modificare eliminando l’obbligo di leggere la decisione in udienza) ovvero (qualora la parte non faccia negli atti introduttivi istanza di discussione orale) definire il giudizio con ordinanza del genere di cui all’art. 186 quater c.p.c. (ciò consentirebbe anche l’eliminazione dell’attuale inutile udienza di precisazione delle conclusioni).

7 e) Eventuale appendice di trattazione scritta

Nel caso invece in cui il giudice debba chiedere chiarimenti o indicare alle parti questioni rilevabili d’ufficio, così esercitando il potere di impulso e partecipazione nella determinazione della materia del contendere, non è necessario che, a questo scopo, fissi una udienza nella quale ciascuna parte sarebbe indotta a chiedere un rinvio per replicare alle attività dell’altra. Con ordinanza (fuori udienza) egli dovrebbe fissare un termine nel quale le parti dovrebbero rendere per iscritto i chiarimenti o prendere posizione sulle questioni specifiche rilevate dal giudice , il quale, all’esito, dovrebbe indirizzare il processo verso la chiusura nei modi di cui sopra (sub 7 d) oppure emettere l’ordinanza "preparatoria" sub 7 f) (una fase scritta, peraltro, potrebbe essere disposta dal giudice in ogni caso in cui ne ravvisi l’opportunità).

7 f) Ordinanza preparatoria. Udienza destinata all’interrogatorio libero e/o al tentativo di conciliazione e/o all’assunzione delle prove orali

Già dopo la lettura degli atti introduttivi di parte ovvero all’esito della fase scritta di cui si è detto (7 e) il giudice dovrebbe essere in grado di ammettere i mezzi istruttori rilevanti: l’interrogatorio libero (se la natura della causa lo consente o le parti lo abbiano sollecitato, con l’obbligo anche di indicare reciprocamente le condizioni alle quali sono disposte a conciliare: v. infra), le prove orali (testimonianze, interrogatorio formale) e i documenti contenenti le informazioni o dichiarazioni testimoniali scritte di cui si dirà (che le parti potrebbero aver prodotto), la c.t.u. , l’ordine alle parti di esibire documenti, la richiesta di informazioni alla P.A. ecc. Nella stessa ordinanza il giudice dovrebbe fissare l’udienza nella quale l’attività istruttoria dovrebbe essere completata (se possibile), sicché, all’esito, la causa dovrebbe essere indirizzata verso la decisione nei modi già visti (7 d).

La prevedibile obiezione, secondo cui l’ammissione delle prove dovrebbe essere preceduta dalla fase dedicata all’interrogatorio libero nella quale soltanto potrebbero emergere i fatti controversi, sui quali, poi, l’attività istruttoria dovrebbe svolgersi, non mi sembra insuperabile. A parte che una siffatta utilità dell’interrogatorio libero non è la regola costante ma una eventualità, basterebbe, a seguito dell’eventuale emersione di questioni non controverse all’esito dell’interrogatorio libero, ridurre (ad es.) i capitoli di prova sui quali i testi dovrebbero rispondere. La loro convocazione per l’udienza (salva, in ogni caso, la diversa valutazione del giudice che, in considerazione della complessità della controversia, potrebbe decidere di convocare i testi per una udienza successiva) consentirebbe di risparmiare il tempo necessario per la fissazione di un’altra udienza e, al contempo, di completare l’attività istruttoria.

Nel caso in cui dagli scritti depositati dalle parti su richiesta del giudice (nella fase sub 7 e) ovvero dall’interrogatorio delle parti o dai documenti acquisiti in giudizio a seguito della "ordinanza preparatoria" emergano realmente nuove esigenze istruttorie, il giudice potrebbe concedere un termine per l’integrazione delle istanze già formulate, scaduto il quale dovrebbe decidere sull’ammissione delle stesse e l’ulteriore corso del processo.

8) L’assunzione delle prove

Molto si parla di progetti di riforma che prevederebbero la delega alle parti ed ai loro difensori dell’attività di assunzione delle prove orali (per testi e interrogatorio formale) su consenso del giudice al quale sarebbe riservata la valutazione dei risultati della prova e la facoltà di "ripetere" l’assunzione in udienza .

La tesi contraria si fonda apparentemente sull’idea, del tutto ovvia e condivisibile, che sarebbe irrinunciabile che a decidere la causa sia lo stesso giudice che ha assunto le prove.

Tuttavia, è stato obiettato, anche il giudice d’appello decide la causa senza aver risentito i testi (e nessuno ha mai sostenuto una simile necessità) e lo stesso giudice che decide la causa in primo grado molto spesso non è lo stesso che ha condotto l’assunzione delle prove.

La vera ragione contraria consiste, in realtà, nella circostanza che la presenza del giudice durante l’assunzione è condizione essenziale ed irrinunciabile ai fini del rispetto del principio del contraddittorio, visto il rischio che la parte più attrezzata sul piano tecnico e professionale possa prevaricare quella più debole nel condurre l’interrogatorio del teste o della parte con le intuibili conseguenze in punto di valutazione delle risultanze probatorie.

Queste critiche si devono condividere. Del resto, il principio che la "testimonianza" è solo quella resa dinanzi ad un giudice terzo e imparziale sembra condiviso dall’ordinamento comunitario, come significativamente può desumersi dal Reg. CE n. 1206/2001 (Regolamento del Consiglio relativo alla cooperazione fra le autorità giudiziarie degli Stati membri nell’assunzione delle prove in materia civile e commerciale) il quale è strutturato sul presupposto che le prove siano assunte (direttamente) dall’autorità giudiziaria destinataria della richiesta di cooperazione rivolta dall’autorità giudiziaria di un altro paese membro.

Tuttavia, la considerazione che questo è il modello di prova testimoniale previsto nel nostro ordinamento non autorizza un atteggiamento di chiusura totale rispetto ad ogni ipotesi di riforma normativa che voglia intervenire nella materia della formazione della prova con l’obiettivo, semplicemente, di favorire l’ingresso nel processo di fonti e materiali di conoscenza rilevanti ai fini della decisione, solo perché non perfettamente corrispondenti agli schemi classici tradizionali.

Il processo non è già, per sua natura, "aperto" agli afflussi di fonti e materiali di conoscenza formatisi senza il diretto controllo del giudice ? Si pensi alle "dichiarazioni" ed "informazioni" (non sempre solo implicanti questioni di natura tecnica) rese dalle parti o da terzi al consulente tecnico d’ufficio, alle inchieste dei servizi sociali, alle richieste di informazioni alla P.A. ecc., la cui rilevanza probatoria, lungi dall’essere negata, è solo regolamentata (dal legislatore e dalla giurisprudenza) quanto alle modalità della formazione e dell’ingresso nel processo.

E’ tempo di guardare all’Europa non per spirito di acritica imitazione di modelli stranieri ma per la sicura infruttuosità di qualsiasi riforma (del codice di procedura civile) che tragga alimento solo dall’interno della particolare e provinciale cultura nazionale, senza influenza degli ordinamenti che hanno già affrontato e in parte risolto gli stessi problemi .

Ed allora, occorre chiedersi per quali ragioni, ad esempio, "dichiarazioni" rese da persone informate sui fatti dinanzi ad autorità amministrative autonome e imparziali rispetto alla controversia (notai, cancellieri ecc.) ovvero dinanzi ad autorità giudiziarie "minori" (giudici di pace), debbano essere prive di qualsiasi rilevanza probatoria nel processo .

Qui, infatti, l’imparzialità dell’organo che dovrebbe provvedere all’assunzione consentirebbe di ridurre i rischi paventati nel caso in cui all’assunzione siano delegati gli stessi difensori; né è appagante l’obiezione secondo cui le "attestazioni" rese da soggetti estranei al processo, tradotte in documenti che dovrebbero essere prodotti dalla parte (previa, si dovrebbe prevedere, una valutazione del giudice sull’ammissibilità del documento e la rilevanza dei fatti rappresentati), già oggi avrebbero valore nei limiti della "non contestazione" , posto che un simile valore non sempre è riconosciuto nella prassi e, per altro verso, sarebbe invece opportuno conferire ad esse il valore di argomento di prova ovvero di presunzione semplice circa l’esistenza del fatto rappresentato .

Si potrebbe anche, senza pregiudizi, valutare la possibilità che le dichiarazioni del "teste" siano rese, dinanzi ai predetti organi, anche nel contraddittorio delle parti, nel qual caso sarebbe logico attribuire ad esse una rilevanza probatoria qualificata e cioè suscettibile di essere superata soltanto da "documenti" dello stesso genere ovvero da una prova piena contraria (sia essa documentale o testimoniale resa dinanzi al giudice).

9) Altre proposte

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