Il diritto dei forti
Il principio di uguaglianza alla prova dei fatti*
di Livio Pepino
Ho solo il compito di introdurre la tavola rotonda e, dunque, mi limiterò ad alcuni spunti per stimolare il dibattito.
Il principio di uguaglianza è in crisi: forse più di quanto appaia a prima vista. Provo a fare alcuni esempi.
Primo. Si diffonde una concezione dell’uguaglianza come bene meritevole di tutela solo nei suoi standard minimi. È la concezione sottesa alla riforma, approvata al termine della scorsa legislatura, dell'articolo 117 della Costituzione che, nel nuovo testo, affida alla legislazione nazionale la sola determinazione dei "livelli essenziali" delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio dello Stato. Il regresso rispetto al principio dell’art.3 commi 1 e 2 della Carta fondamentale ["Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge (...). È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (...)"] non potrebbe essere più netto. Con tale disposizione, infatti, si impongono sì dei "minimi garantiti" ma si dà, aldilà di quei limiti, una legittimazione costituzionale della diseguaglianza. So bene che ciò è sempre avvenuto in concreto e, probabilmente, continuerà ad avvenire in futuro, ma non è indifferente offrirgli una copertura normativa o, al contrario, contrastarlo. Non è certo la stessa cosa indicare nell’eguaglianza di tutti i cittadini l’obiettivo della legislazione oppure garantire a tutti alcuni servizi minimi indispensabili...
Secondo. Si consolida una lettura del principio di eguaglianza in chiave formalistica. L’esempio tipico è, nel diritto del lavoro, quello della considerazione del contratto di lavoro al pari di un qualunque altro contratto, come se la posizione (e la forza) dei contraenti fosse uguale. È da questa lettura che vengono istituti, gravemente lesivi della eguaglianza sostanziale, come l’arbitrato "secondo equità" o la "certificazione contrattuale" della tipologia di rapporto di lavoro prescelto. Eppure, non è stata la stessa Corte costituzionale, oltre trent’anni fa, ad affermare, a proposito della soccombenza del lavoratore nell’ambito dei giudizi previdenziali, che "il rito del lavoro, lungi dal determinare una disparità di posizioni fra le parti, realizza invece, attraverso un meccanismo di neutralizzazione della notoria minor resistenza del lavoratore di fronte al rischio processuale una situazione di sostanziale parità"? Occorre continuare ad aver chiaro – per usare le parole di G. Borrè – che il diritto e il processo del lavoro sono formalmente diseguali proprio perché, in essi, la diseguaglianza formale è lo strumento insostituibile per giungere all’eguaglianza di fatto (secondo il modello di cuiall’art. 3 cpv Costituzione).
Terzo. Nel settore dell’immigrazione si va sempre più verso una sorta di "doppio livello di cittadinanza", che rischia di riportaci al livello degli Stati premoderni. Gli indicatori di questa tendenza sono diversi: la considerazione dell’immigrato come ospite in prova perpetua [implicito non solo nella disciplina del permesso di soggiorno, ma anche in quella della carta di soggiorno, introdotta dall’art. 9 comma 1 del testo unico n.286 per stabilizzare la posizione dell’immigrato ma revocabile da parte del questore in caso di condanna, anche non definitiva, per uno dei reati previsti dagli artt. 380 e 381 cpp, e dunque finanche per il (possibile) furto di una lattina in un supermercato o per un (altrettanto ipotetico) danneggiamento aggravato con danno di poche lire…]; la chiusura dell’ordinamento sul terreno dei diritti politici degli stranieri, a cominciare dai diritti di elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative; l’estrema difficoltà, per lo straniero, di ottenere la cittadinanza italiana, tuttora improntata – al pari, in Europa, della sola Germania - al cd jus sanguinis; il crescere di un diritto amministrativo e penale speciale per gli stranieri, sui quali gravano, per esempio, l’obbligo di fornire a richiesta dell’autorità pubblica sicurezza "informazioni e atti comprovanti la disponibilità di un reddito, da lavoro o da altra fonte legittima, sufficiente al sostentamento proprio e dei familiari conviventi nel territorio dello Stato" (art. 6 comma 5 testo unico n.286), il dovere di comunicare alla questura, entro quindici giorni, le eventuali variazioni del proprio domicilio abituale (art. 6, comma 8 testo unico), la previsione di un reato ad hoc, parallelo a quello previsto per il cittadino ma punito con la ben più grave pena dell’arresto sino a sei mesi e con l’ammenda fino a lire 800.000, per l’ipotesi di mancata esibizione all’autorità di polizia, senza giustificato motivo, dei documenti di identificazione (art. 6 comma 3 testo unico).
Quarto. Lo Stato sociale si va sempre più trasformando in Stato penale e ciò vanifica sempre più l’uguaglianza. Due esempi:
a) l’art. 1 della legge di riforma dell’adozione e dell’affidamento dei minori (legge n. 149/2001), nell’affermare che le condizioni di indigenza non possono essere di ostacolo al diritto del minore di essere educato nella sua famiglia, ha previsto un obbligo a carico dello Stato e degli enti locali di attuare misure di aiuto economico per le famiglie "a rischio" (non già in modo incondizionato ma) "nei limiti delle loro risorse finanziarie". Da allora si è aperta un’autostrada e la formula (o formule consimili) si è rapidamente riprodotta nei piani sanitari regionali (almeno nella mia regione, il Piemonte) a precisazione delle caratteristiche dell’obbligo di erogazione dei servizi sanitari ai cittadini. La situazione conseguente è presto detta: il diritto all’assistenza e il diritto alla salute si sono trasformati in "diritti subordinati all’esistenza delle risorse", ovvero in non diritti, ché tali sono le aspettative di servizi a cui non corrisponde un dovere assoluto di erogazione da parte degli enti competenti. Cambia così la struttura stessa del diritto soggettivo, a cominciare dal fatto che non sarà più azionabile in sede giudiziaria;
b) il numero dei detenuti aumenta proporzionalmente al contrarsi dello Stato sociale, come dimostra in modo scolastico l’esperienza minorile. E oggi, in Italia, i detenuti sono arrivati alla cifra record di circa 55.000 (con una crescita esponenziale dal 1990, quando erano poco più di 20.000). Il modello sembra sempre più quello degli Stati Uniti d’America, dove il welfare è ridotto al minimo e, contemporaneamente, c’è un detenuto ogni 100 abitanti (con una proporzione che giunge fino ad uno su due se si considerano i neri appartenenti alle classi di età a maggior rischio di reato).
Credo ce ne sia a sufficienza per introdurre il dibattito...
Roma, 18.3.2002
*Introduzione alla tavola rotonda sul principio di uguaglianza al Convegno "Il diritto dei forti" del 18.3.2002 organizzato da questa rivista.
Omissisa
cura di magistratura democratica romana
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