Toghe nere

di Fausto Nisticò

La vicenda dello sciopero dei magistrati , proclamato, fissato, rimandato, ispirato alla mediazione, già deciso in un contesto di drammatica necessità di presentarsi uniti per fronteggiare un tentativo di dissoluzione della cultura giurisdizionale, ha sicuramente sortito l’effetto di aver fatto chiarezza e di aver denunciato la fragilità della coesione, che era solo strategica; ma al momento cruciale, come si sa, i nodi vengono al pettine.

Esistono da sempre due diversi modi di intendere l’esercizio della funzione giudiziaria ed esistono culture diverse fra i magistrati e dunque non è vero che le toghe sono solo rosse, perché ci sono sempre state, e ci sono ancora, le toghe nere; e ci sono anche le toghe che vivono al riparo del rosso e del nero, ristagnanti nell’equivoco culturale dell’ asettica equidistanza, della terzietà amorfa, del culto della riservatezza sacerdotale, della tecnicità fine a se stessa, delle affinità istituzionali; ci sono anche le toghe dei riti e delle cerimonie oligarchiche, che acquistano autorevolezza per l’auto che li porta in giro o per la severità cui è ispirato il loro stile di vita; e ci sono state toghe iscritte alla P2.

Un Procuratore Generale notissimo negli anni ’70 così esprimeva questo concetto: " noi magistrati, eredi di un prestigio inestimabile tramandatoci dalle passate generazioni, abbiamo combattutto costantemente per consegnarlo intatto ai nostri successori, spinti da un fuoco (sic!) interiore che ci ha portato ad affrontare imperterriti ogni sorta di pericolo quando servire la verità e la giustizia poteva significare anche mettere a repentaglio la vita. Ma ora il fiore del male è sbocciato sul nostro campo, dove alcuni, scarsi di numero, ma estremamente combattivi, hanno disorientato la pubblica opinione per aver abbandonato quella veste di riserbo e di rigorosa imparzialità che rappresentava il connotato tipo della figura tradizionale del buon giudice."

Ed allo stesso modo si esprimeva un documento dimenticato, il Piano di Rinascita democratica, che molti, forse a ragione, attribuiscono ad un potente massone: "Per la magistratura è da rilevare che esiste già una forza interna ( omissis, n.d.r.) che raggruppa oltre il 40 per cento dei magistrati italiani su posizione moderate. E’ sufficiente stabilire un raccordo sul piano morale e programmatico ed alaborare un’intesa diretta a concreti aiuti materiali per poter contare su un prezioso strumento già operativo all’interno del corpo anche ai fini di taluni rapidi aggiustamenti legislativi che riconducano la giusizia alla sua tradizionale funzione di elemento di equilibrio della società e non già di eversione".

Anche per il Ministro Castelli il problema è rappresentato da "gruppi di magistrati"(così nelle sue linee programmatiche di riforma della giustizia) e così per gli estensori del programma di Forza Italia (" troppi giudici si discostano dal testo della legge per misurarsi in interpretazioni estensive od evolutive…Gruppi di magistrati organizzati hanno teorizzato e teorizzano la necessità di fare giurisprudenza alternativa").

Fra i luoghi comuni più diffusi e che, per fortuna di tutti, le tensioni dei nostri giorni forse riusciranno a rimuovere, vi è quello che alimenta la convinzione che il giudice appartenga ad una astratta categoria di persone immune da contaminazioni; che il suo compito sia come quello di un pasticcere che manipola gli ingredienti, uova, farina, burro, creme, senza sapere che torta vuol fare e che lui debba solo impastare seguendo una ricetta fornita da altri e che tanto migliore è il suo dolce quanto più sia fedele alla ricetta; che egli sia, in sostanza, come gli spaghetti appena scolati, sicchè il governante di turno possa condirlo con il sugo che vuole. Circola, poi, e fortemente accreditata, l’opinione secondo la quale il giudice debba rimanere lontano dalla politica, quasi non fosse chiamato ad applicare tutti i giorni il risultato di scelte politiche, regole destinate per definizioni a modulare la vita civile, ma solo a dar corso a quelle altrui.

Queste opinioni denunciano l’inconsapevole vuoto culturale di chi le sostiene e, per alcuni aspetti, tradiscono l’intento obliquo, se non fortemente interessato, dei loro fautori: in ogni contesto civile e – ahimè - democratico tutti concorrono alla formazione della regola: chi la pensa, chi la enuncia e chi la applica ed il risultato finale – cioè la regola accettata - rappresenta il frutto di queste sinergie culturali. Se così non fosse, solo per fare un esempio, nessun giudice potrebbe chiamare la Corte Costituzionale a verificare la legittimità di un prodotto normativo, fosse anche quello adottato da un parlamento legittimamente eletto o da una maggioranza voluta dal popolo.

Il giudice che rinuncia al suo apporto culturale nella formazione della regola abdica al suo ruolo, dunque, in ossequio ad un equivoco Egli, infatti, sceglie l’asetticità che però è pure una scelta forte, perché non supportata da alcun senso critico e pertanto destinata a conformarsi farisaicamente al volere del più forte: in tal modo – ripudiando la lettura politica, intendo della polis – egli fa una opzione ben precisa, pari a quell’altro che utilizza la sua formazione culturale e la sua sensibilità. Per esempio, io faccio il giudice ed ho le mie idee sulla chiesa cattolica, sul rispetto delle religioni altrui, dei popoli diversi dal nostro, sulla immigrazione, sul mondo del lavoro, sul disvalore sociale di certi comportamenti, sulla necessità che la persona prevalga sul mercato: e siccome tutti i giorni sono chiamato ad operare delle scelte (è questo, infatti, il mio lavoro), lo farò attingendo, anche incosapevolmente, ai principi che ho maturato nel mio percorso professionale e civile. Ma accanto a me c’è un altro giudice, che utilizzerà i suoi. Poi, dopo di me e del mio collega ce ne sono altre tre che utilizzeranno i loro e dopo di loro ce ne sono altri cinque che offriranno un principio e questo principio sarà la regola, quando diverrà generalmente accettata. Ma prima di me, del mio collega, dei tre e dei cinque, ce ne sono stati altri mille che in cento anni hanno espresso la loro opinione sullo stesso principio. Insomma non è così semplice come se fossimo a Forum, né la cosa è così sbrigativa, automatica, burocratica come suggerisce la subcultura mercantile dei nostri tempi, fare presto, velocemente e non perder tempo in sospetti esercizi di ermeneusi.

L’unità, come sappiamo, si è rotta sullo sciopero già proclamato per il 6 giugno ed ora rimandato: i magistrati moderati hanno abbandonato la guida dell’Associazione, qui essendo chiara la loro opinione di contrarietà ad un conflitto con la maggioranza governativa. La rottura ha una sua motivazione profonda, poiché il disaccordo non è stato sui dettagli.

Quella che si sta facendo passare per una riforma dell’ordinamento giudiziario necessitata dall’esigenza di conferire efficienza al servizio non è in realtà una riforma: è una vera e propria proposta di radicale inversione di rotta dettata dalla ossessiva avversione che una certa parte politica ha ed ha sempre manifestato per la cultura della giurisdizione, lacci e lacciuli che impediscono la piena realizzazione del programma liberista. Il lettore pur pignolo, infatti, non troverà una sola norma destinata a porre qualche rimedio alla abnorme dimensione che oggi ha assunto il fenomeno, nella sua sconcertante quotidianità; né può trascurarsi che questa proposta è offerta all’opinione pubblica in un contesto nel quale è di univoca chiarezza la volontà di opporre allo svolgimento dei processi strumenti di ostruzionismo, suscitando in qualche caso addirittura l’ilarità (ed il risentimento) degli svizzeri. In tale contesto, nel quale si può dire, senza temere l’impopolarità, che bisogna convivere con la mafia ( salvo, poi, scippare la memoria di giudici che son saltati per aria per consentire a tutti di non doverci convivere) o che per legittima difesa si sono evase le tasse o si sono pagati i finanzieri per poterlo fare, si spiega la scelta di fondo che anima il programma del Ministro per la giustizia: e cioè una operazione di ridimensionamento culturale della giurisdizione, nel tentativo, neanche tanto mascherato, di ricondurla a momento di mera applicazione delle regole, giudici manipolatori di ingredienti e non più pasticceri.

I giudici, però, non hanno una grande abilità politica (e qui non intendo la polis), perché non sono riusciti – e per fortuna – a tenere insieme la baracca proprio nel momento di maggiore difficoltà della storia repubblicana, pur avendo di fronte un interlocutore che ha acquistato visibilità senza vergognarsi di mettere assieme cattolici e celoduristi, nazionalisti e secessionisti, cristiani e razzisti, qualunquisti ed ex fascisti etici, uomini di chiesa e fauni, saldamente uniti come le holding societarie che ne ispirano gli intendimenti. Né è bastato il reiterato richiamo paterno del Colle.

E’ bene, infatti, che anche i magistrati si contino, almeno di fronte a questo tentativo di restaurazione epocale che rappresenta il progetto Castelli; e si chiariscano cosa vogliono, se è vero che qualcuno non è rimasto del tutto insensibile alla volgarotta offerta di danaro che è stata loro fatta conoscere qualche ora prima di quel venti di aprile, quando lo sciopero (oggi rinviato) fu proclamato; e che si capisca quali giudici stiano sul mercato e quali no, od almeno quali credono che la giurisdizione rappresenti solo un esercizio mentale per bizantini fuori tempo od un servizio reso nei confronti della società civile; che si distinguano i limoni finti, quelli appesi a Genova per stupire i potenti, dai limoni veri, quelli con la buccia macchiata, quelli che alle volte pizzicano, lasciano l’amaro in bocca, ma finiscono sempre per far bene.

Giugno 2002

 

 

 

 

 

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