MAGISTRATURA DEMOCRATICA

XIV CONGRESSO NAZIONALE

Roma – 23/26 gennaio 2003

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LA FORZA DEI DIRITTI

(10 tesi per Magistratura democratica)

Relazione del segretario generale Claudio Castelli

Premessa: la giurisdizione come osservatorio privilegiato sulla realtà / I. Una società che ha fame di diritti / II. Il diritto e la forza / III. L’Europa come speranza / IV. La difesa della Costituzione / V. Imparzialità e contesto politico / VI. La centralità dello status del magistrato e dell’ordinamento giudiziario / VII. Md, la giurisdizione e il servizio giustizia / VIII. Md, l’Anm e i magistrati / IX. Md, l’avvocatura e la cultura giuridica / X. Md, la società e la politica.

Premessa

(la giurisdizione come osservatorio privilegiato sulla realtà)

1. La giurisdizione costituisce un osservatorio privilegiato della evoluzione della società, delle sue trasformazioni e delle sue tendenze e, nel contempo, è una cartina tornasole del livello di democrazia di una collettività. Al di là dei luoghi comuni, i dati e l’esperienza quotidiana delle aule di giustizia segnalano molte cose: una giustizia sempre più diseguale; una giustizia che non riesce a soddisfare in tempi ragionevoli la domanda di attuare i diritti; un abbandono della legalità non solo come priorità da perseguire, ma anche come valore fondamentale di riferimento.

2. La crescita della disuguaglianza davanti alla legge, anzitutto. I dati sul carcere segnalano una ulteriore crescita del numero dei detenuti: dai 26.150 del 1990, dopo l’ultima amnistia e indulto del 1989, ai 54.079 del 2000, sino ai 56.574 attuali. Aumento del carcere che non corrisponde a un aumento della criminalità, ma a un senso di insicurezza diffuso e profondo. I dati Istat dimostrano, in particolare, come in questi ultimi anni si sia avuto un calo sia dei "reati predatori" che degli omicidi. E le caratteristiche dei carcerati dimostrano verso chi si è diretta la pretesa punitiva: il 27,9 % di tossicodipendenti e il 30,7% di immigrati, mentre il tasso di criminalità tra gli immigrati regolari è inferiore a quello degli italiani (6 denuncie ogni 100 persone contro 9 ogni 100), a dimostrazione che le cause della devianza non stanno tanto nei flussi migratori e nella loro entità, quanto nelle politiche che li governano e che producono clandestinità. Il processo penale, poi, mostra sempre più tempi ed effettività diversi a seconda dello status sociale dell’indagato e del tipo di reato. Alla celerità (talora prossima alla sommarietà) dei processi per direttissima o con riti alternativi, fa da contrasto la lentezza dei processi di criminalità economica e organizzata. È vero che il processo inevitabilmente risente della struttura sociale, ma esso dovrebbe tendere a diminuire (non ad esaltare) questi effetti. Invece si torna sempre più a un processo "di classe", tanto implacabile nei confronti di alcuni strati sociali, quanto ineffettivo e declamatorio per altri. I processi di Milano in cui sono imputate personalità istituzionali di primo piano sono un evidente simbolo di ciò: la stessa possibilità di svolgere il processo viene messa in dubbio con accuse di parzialità, di mala fede, con minacce di ispezioni ministeriali o di procedimenti disciplinari. Sono state più volte cambiate le leggi da applicare nel processo e, ciò non bastando, si è cercato di cambiare il giudice. Il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge è vulnerato e il messaggio è, nel migliore dei casi, che i processi riguardanti gli uomini della politica e i loro affari non si possono svolgere. La direzione è l’abbandono di qualsiasi controllo penale (e non solo penale) nei confronti dei comportamenti dei colletti bianchi. La legge sulle rogatorie, l’abrogazione di fatto del reato di falso in bilancio, le depenalizzazioni e le modifiche in corsa attuate in materia ambientale, le proposte di revisione della legge fallimentare, il condono fiscale hanno come segno univoco il ritorno a un diritto penale diretto esclusivamente al contenimento del disagio sociale, da attuare in termini repressivi e all’insegna della tolleranza zero.

3. La corruzione sembra non essere più un problema, anche se l’Italia si situa al 51° posto nella classifica mondiale al riguardo (ed episodi di corruzione, anche di particolare gravità, continuano a emergere in ogni parte del paese); e, contestualmente, la criminalità organizzata è diventata una realtà, ancorché (forse) amara, con cui convivere. Il tema della legalità, della lotta al crimine organizzato e della trasparenza dei rapporti tra pubblico e privato sembra scomparso dai taccuini della politica. Mentre una notevole percentuale dei processi scaturiti dalle indagini condotte negli anni ’90 si conclude con la prescrizione, nessuna misura viene presa per rendere più difficile la commissione dei reati e più facile la loro scoperta. Al contrario, alcuni interventi legislativi hanno reso problematica la persecuzione di reati connessi alla corruzione, il cui approfondimento era stato spesso occasione della scoperta di rapporti illeciti tra il mondo degli affari e alcuni rappresentanti delle istituzioni. L’azione di contrasto al crimine organizzato coinvolge, come noto, questioni cruciali nella sfera giudiziaria, politica, sociale ed economica: l’inquinamento dell’economia e della libera concorrenza, le potenzialità espansive anche a livello territoriale, i legami tra gruppi mafiosi e gruppi terroristici, tra mafia e segmenti istituzionali, la capacità di mimetizzazione all’interno delle illegalità "ordinarie" e delle zone grigie degli affari e della finanza, i riflessi sulle libertà fondamentali di tutti. Ma tutto ciò sembra dimenticato o posto in secondo piano. Anche sull’esigenza di dotare gli organi investigativi di strumenti adeguati e sulla individuazione di strumenti processuali in grado di coniugare efficienza e garanzie sembra calato il silenzio della politica. Gli interventi sono occasionali e, spesso, strumentali alla delegittimazione della magistratura e del suo operato. Alcune assoluzioni eccellenti sono state spregiudicatamente utilizzate per rilanciare l’idea di un fenomeno mafioso tutto sbilanciato sul profilo violento e "gangsteristico" o per affermare che certe regole processuali, "buone" per condannare i boss, diventano ingiuste e intollerabili se applicate a professionisti accusati di collaborare con la mafia. Ciò è tanto più grave nel momento in cui l’arrivo in terre di mafia di imponenti risorse per "grandi opere" (a cominciare dal Ponte sullo Stretto) rischia di rappresentare una formidabile occasione per la criminalità organizzata e le imprese ad essa legate, come anche recentissimi episodi hanno già testimoniato.

4. In questo contesto si assiste a un vero e proprio "attacco ai diritti". A essere messi in discussione sono il diritto di cittadinanza (inteso come tutela di un livello di vita dignitoso per tutti), il pluralismo dell’informazione, la scuola e la sanità pubblica. È sui diritti sociali e sul lavoro che lo scontro si è fatto più aspro: la prospettiva sembra essere quella dell’accantonamento delle garanzie di tutela apprestate dallo Stato sociale e di una privatizzazione generalizzata. Alla contrazione dello Stato sociale, poi, corrisponde l’esaltazione della tolleranza zero, come dimostrano, tra l’altro, le politiche nel settore degli stupefacenti e della tossicodipendenza, in cui l’accantonamento delle prospettive di accoglienza e riduzione del danno apre la strada a un revival del modello esclusivamente repressivo. Si colloca qui anche la legge Bossi - Fini, portato di pregiudizi razzisti, spinte securitarie e parole d’ordine tanto demagogiche quanto inidonee a governare un fenomeno sociale imponente, che – come tempestivamente segnalato da Md e Asgi - "non condurrà ad un governo giusto ed efficace dei fenomeni migratori, ma comporterà un’ampia e profonda compressione dei diritti fondamentali dei migranti; non raggiungerà gli scopi dichiarati e, in particolare, non ridurrà l’area dell’immigrazione irregolare, destinata anzi ad allargarsi a causa sia della mancata adozione di strumenti di assorbimento della clandestinità, sia della drastica chiusura dei canali di ingresso legale; non favorirà l’integrazione della immigrazione regolare, che, attraverso l’accentuazione dei processi di precarizzazione/amministrativizzazione della condizione giuridica degli stranieri indotta dalle nuove norme in tema di soggiorno e di allontanamento, sarà spinta verso una dimensione sempre più marcatamente servile".

5. Le tendenze alla marginalizzazione della giurisdizione vengono da lontano (come abbiamo puntualmente segnalato anche nella precedente legislatura), ma l’operato del Governo e della maggioranza parlamentare usciti dalle elezioni del 13 maggio 2001 costituisce un salto di qualità negativo: esaminando nel loro insieme le riforme prospettate nei vari settori dell’ordinamento emerge un disegno complessivo, quali tessere di un mosaico, dal quale possono cogliersi i nessi che legano la progressiva riduzione dei diritti fondamentali e la compressione del ruolo della giurisdizione. Le "riforme" in cantiere convergono, infatti, verso due obiettivi (tra loro strettamente connessi): da un lato, il recupero di un modello di giudice ottocentesco, privato, quanto alle norme sostanziali, di reali spazi interpretativi, e, quanto alle norme processuali, di poteri di gestione e controllo; dall’altro, l’arretramento della tutela dei soggetti deboli, della promozione di nuovi diritti, della rimozione delle disuguaglianze. Questa strategia di ritorno al passato ha come manifestazioni, a fianco della progettata riforma ordinamentale e della riduzione per i magistrati dello stesso diritto di manifestazione del pensiero, la progressiva riduzione del processo a contesa, in una sorta di darwinismo processuale in cui la ragione non dipende dai fatti, dalle prove o dalle argomentazioni, ma dalla forza delle parti e, in definitiva, dalla loro ricchezza e/o potenza. Alcuni esempi sono particolarmente significativi.

5.1. La tutela dei minorenni – prototipo dei soggetti deboli - è in via di abbandono: non solo attraverso le ricorrenti proposte di ridurre da 14 a 12 anni il limite della imputabilità, ma anche con un progetto governativo che tende a trasformare il tribunale minorile in organo giudiziario esclusivamente penale (e dunque repressivo), privandolo delle competenze civili, trasferite ad una sezione del tribunale ordinario, composta di soli giudici togati, addetta alla trattazione di tutti i procedimenti in materia di minori, di famiglia, di stato e capacità delle persone. Ciò comporterebbe la perdita della specializzazione e darebbe inevitabilmente luogo a un depauperamento delle capacità di analisi, ascolto, accertamento dei fatti e adozione della soluzione più adeguata, con ricadute rilevanti sulla connotazione della giustizia minorile, difficilmente in grado di continuare ad essere "luogo" di tutela dell’esclusivo interesse del minore (situazione oggi assicurata dal contributo dei giudici onorari, dal contatto costante con i servizi sociali territoriali, dalla integrazione dell’intervento di prevenzione con quello di recupero). Si tratta, all’evidenza, di conseguenze gravissime, che chiamano in gioco diritti fondamentali: il diritto di ogni fanciullo/a a crescere in una famiglia che sia in grado di mantenerlo, istruirlo, educarlo; il diritto di ogni fanciullo/a a un pieno sviluppo e all’attuazione dei propri diritti nella formazione sociale – la famiglia – in cui è inserito; il diritto d’uguaglianza inteso non come garanzia formale ma come rimozione degli ostacoli sulla via della realizzazione della effettiva parità.

5.2. La riforma neoliberista del mercato del lavoro passa non solo per la riduzione dei diritti al lavoro e nel lavoro (dalla privatizzazione del sistema di collocamento, alla deroga all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, all’estensione del lavoro a termine, a tempo parziale, a chiamata, occasionale, alle prestazioni ripartite ….) ma anche per un forte ridimensionamento del ruolo storicamente giocato dalla magistratura grazie al concomitante operare di diversi fattori (l’emanazione di normative sostanziali avanzate e l’introduzione di un procedimento speciale per le controversie di lavoro). Un giudice specializzato, fornito di ogni utile conoscenza, dotato di rilevanti poteri ufficiosi, potrebbe rappresentare un ostacolo sulla via della piena liberalizzazione del mercato del lavoro. Di qui la previsione di strumenti per rendere marginale il ruolo del giudice: da un lato la possibilità di inserire liberamente clausole arbitrali nei contratti individuali di lavoro; dall’altro la "certificazione", l’accertamento assistito all’inizio del rapporto della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro con possibilità di far ricorso al giudice nel caso di difformità tra programma realizzato e programma concordato o per errore sulla qualificazione, ma lasciando immutati gli effetti dell’accertamento svolto dall’organo della certificazione sino a quando non sopraggiunga una pronuncia definitiva della erroneità o difformità del programma. Grazie allo schermo formale dell’uguaglianza tra le posizioni contrattuali, obliterando la realtà della disuguaglianza tra le parti del rapporto di lavoro, attraverso clausole e certificazioni, si impedisce in radice l’intervento del giudice, disinnescando così quel processo e quel giudice che erano stati voluti dal legislatore del 1973 al fine – come è stato detto - di "attuare sul piano tecnico procedurale quella aspirazione alla uguaglianza sostanziale affermata dall’art. 3 capoverso della Costituzione e che può, e quindi deve, essere realizzata anche nell’ambito del processo".

5.3. L’opera di privatizzazione del processo e di ridimensionamento dei poteri del giudice si completa nel generale ambito del processo civile. Il disegno di legge delega prodotto dalla Commissione Vaccarella delinea un processo ordinario caratterizzato dalla attribuzione dei poteri di gestione e conduzione alle parti, cui soltanto compete, di regola, la definizione del thema decidendum e del thema probandum e l’assunzione delle prove (mentre al giudice resta il potere di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio, di provvedere sulla regolarità del contraddittorio nei suoi vari profili, di ammettere le prove eventualmente richieste). L’estromissione da ogni attività di collaborazione nonché di stimolo e impulso per le parti nella fase della trattazione e la riduzione del ruolo nella fase istruttoria implicano necessariamente l’assunzione da parte del giudice di un atteggiamento di "distacco" dal fatto e di supina accettazione delle prospettazioni e dei materiali probatori offerti dalle parti; le conseguenze, inevitabili, sono la burocratizzazione del percorso giudiziale attraverso il quale si perviene alla decisione e, con la perdita del governo della ricerca della verità processuale, il venir meno dello stimolo a far emergere nuove situazioni sostanziali e a ricercare nuove forme di tutela. Questo processo produrrà, sul piano culturale, un giudice teso a concentrarsi esclusivamente su questioni formali e di diritto, e sul piano strutturale, un giudice cui è inibita la gestione del processo. Viene, infatti, immaginato un processo in cui il timore di un abnorme allungamento dei tempi dipendenti unicamente dalla volontà delle parti è bilanciato da un percorso disseminato di trappole e tagliole. E si immagina, come legislatori ottocenteschi, che sia sufficiente dotare le parti di uguali strumenti formali perché il diritto di difesa e il contraddittorio siano rispettati e che sia lo scontro tra le parti in condizioni di parità a favorire la giusta composizione della lite. Il risultato è quello di premiare più che la ragione sostanziale la "bravura" delle parti, con il rischio di trasformare il processo da luogo di realizzazione dei diritti a macchina di ingiustizie.

5.4. In questa ottica la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, costituisce l’ultimo passo verso un’assimilazione del pubblico ministero a una parte sostanziale delineando una inesistente omogeneità istituzionale tra lo stesso e la difesa, con una sotterranea privatizzazione dell’accusa, sempre più soggetta e succube alla polizia, all’esecutivo e, comunque a chi ha potere. In realtà si tratterebbe, anche qui, di un ritorno al passato, con la creazione di un pubblico ministero tanto forte nei confronti degli inquisiti e dei giudici, quanto debole e soggetto alle pressioni dell’esecutivo e alle richieste di identificazione e assimilazione della polizia. Il dibattito sulla separazione delle carriere, qui e oggi, non è, per questo, una mera disputa scientifica o teorica, ma un problema di democrazia e di tutela dei cittadini. Le lezioni tratte dalle indagini genovesi e napoletane sul G8 e sul Social Forum insegnano che ben difficilmente un pubblico ministero superpoliziotto e svincolato dalla giurisdizione avrebbe avuto la capacità, e forse addirittura la possibilità, di distaccarsi dalla impostazione data dalla polizia alla gestione dell’ordine pubblico e agli arresti ed ancora più difficilmente avrebbe fatto partire e avrebbe gestito indagini relative a possibili comportamenti illegali da parte della polizia.

6. Non ci si può – né si deve - nascondere che la diseguaglianza della giustizia trova alimento anche in limiti e responsabilità della magistratura. In troppi settori sensibili (ad esempio in tema di corruzione) l’intervento della magistratura è a macchia di leopardo e vi sono settori in cui esso è ormai trascurato o lasciato in secondo piano (come in materia di ambiente, di vita, di lavoro e di tutela del territorio). Il rischio è che passino i messaggi quotidianamente lanciati dai media che vogliono un magistrato silenzioso, sfornito di autonomia decisionale e interpretativa, omologato, privo di valori e attivo solo nei confronti delle espressioni del disagio sociale; e ciò in un periodo caratterizzato da stimoli e potenzialità senza precedenti. L’approvazione della Carta europea dei diritti e il nuovo art. 111 Costituzione, in particolare il principio di ragionevole durata dei processi, delineano, infatti, un nuovo assetto normativo e impongono un impegno rinnovato. L’affermazione a livello europeo di un nuovo catalogo di diritti e l’esigenza della loro effettività concorrono con la necessità, imposta dall’art.111 Costituzione, di semplificazione e di velocizzazione delle procedure. E ciò porta a una rilettura complessiva del quadro normativo con potenzialità interpretative, tutte da cogliere. Alcuni terreni di impegno di particolare importanza vanno al riguardo sottolineati.

C’è, anzitutto, la questione della condizione giuridica dei migranti. Essa impone, in primo luogo, risposte alle numerose questioni poste dalla legge Bossi-Fini: si pensi al nuovo contratto di soggiorno (con conseguenze inedite in tema di poteri impropri in capo al datore di lavoro e di precarizzazione dei diritti fondamentali), alla normativa in tema di allontanamenti, di procedure di espulsione e di detenzione amministrativa, alle nuove norme penali (che creano meccanismi di criminalizzazione fondati sul continuum tra illecito amministrativo e illecito penale). Ma il lavoro dei giuristi dovrà sempre più proiettarsi oltre i confini del diritto speciale degli stranieri, sviluppandosi sul terreno del diritto comune intorno alle questioni generate dall’impatto dei fenomeni migratori sulle nostre società, sulle nostre istituzioni, sui nostri codici. Nel settore civile la giurisprudenza è destinata ad essere chiamata, con sempre maggiore frequenza e su questioni sempre più complesse, a dare attuazione al principio di non discriminazione, mentre un giusto processo per gli stranieri richiederà un impegno costante di analisi critica ed elaborazione giurisprudenziale. Le questioni poste dall’incrocio tra applicazioni scientifiche, corpo umano e libertà delle donne evidenziano, a loro volta, il ruolo fondamentale della giurisprudenza, con la capacità di rimettere in discussione idee consolidate della tradizione giuridica e con un approccio laico (l’unico possibile per garantire soluzioni compatibili con le diverse opinioni morali e religiose presenti nella società). Ancora: gli alterni esiti dei processi di corruzione e di criminalità organizzata impongono di interrogarsi, oltre che sulle ragioni dei tempi e dell’ineffettività di troppi processi, sui "mutamenti genetici" dei fenomeni corruttivi e della questione criminale mafiosa (non più concentrata sulla sola cd "ala militare") e sulla perdurante validità dei metodi che hanno sinora guidato il controllo penale.

Le difficoltà contingenti non possono far dimenticare che il nostro lavoro e il modello di giurisdizione che cerchiamo di far vivere sono fondati su dati solidi a livello normativo, culturale e internazionale. I tentativi di ridimensionare una giurisdizione indipendente si scontrano con le tendenze in atto in tutti i paesi occidentali. La giurisdizione è sempre più (secondo una tendenza non solo italiana) arbitro o risolutore di questioni fondamentali: la tutela della legalità nel settore dell’economia, della finanza e della pubblica amministrazione; la repressione della criminalità organizzata; la tutela - penale e civile - contro le violazioni dei diritti umani; il riconoscimento dei nuovi diritti della persona nei più vari settori (dalla tutela individuale e collettiva dei consumatori a quella del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, dai rapporti familiari di fatto ai conflitti in materia di bioetica), ecc. Il crescente rilievo della giustizia nella vita collettiva è uno dei fatti politici più significativi delle democrazie occidentali in questa fase storica e non è un fenomeno congiunturale, né legato ad una situazione nazionale. Questa influenza deriva dall’incapacità delle istanze politiche tradizionali di dare risposta alla domanda di garantire i diritti e le tutele che, crescenti, provengono dalla società e rappresenta una risposta ai deficit della democrazia rappresentativa. La giurisdizione è sempre più chiamata a tutelare diritti vecchi e nuovi che riguardano ceti sottoprotetti e normali cittadini, ma anche a dare risposte all’insicurezza e all’angoscia che permeano la nostra società. Questo è il ruolo che dobbiamo cercare di soddisfare.

 

I.

Una società che ha fame di diritti

Il fenomeno che siamo soliti riassumere col termine "globalizzazione", e cioè il superamento delle frontiere nazionali e la concentrazione, a livello planetario, di gran parte delle informazioni disponibili, delle risorse finanziarie e delle scelte sulla dislocazione dei fattori di produzione, reca con sé il bisogno di regole e di garanzie. La stessa struttura dei rapporti di produzione come li abbiamo conosciuti negli ultimi due secoli è mutata. La sempre maggiore emersione di nuove figure di lavoro, segnate da instabilità e flessibilità, e la loro dislocazione fuori dalla fabbrica e dai luoghi di lavoro tradizionali, secondo uno schema che va dalla massima concentrazione delle decisioni alla atomizzazione del momento produttivo (collocate in luoghi che si trovano anche a grande distanza l’uno dall’altro), rappresentano la definitiva uscita da un paradigma socio-economico e determinano, inevitabilmente, la crisi di un modello di Stato sociale. Siamo di fronte a un sistema profondamente cambiato, nel quale il lavoro sembra non essere più il fondamento dell’ "essere sociale" della persona, tanto che si è parlato di "fine della società fondata sul lavoro" e di inizio della "società del rischio". Ciò amplifica diseguaglianze già esistenti e ne crea di nuove, violando i diritti umani fondamentali, anche quelli più elementari; sono la stessa vita e la garanzia di un minimo di sicurezza personale e sociale ad essere poste in dubbio. La crisi del modello economico tradizionale ha comportato effetti devastanti: la de-regolazione dei rapporti di lavoro, la restaurazione di rapporti di forza caratterizzati dal "dominio" del datore di lavoro, il carattere "servile" di molte delle nuove relazioni produttive. Ma si possono temere anche effetti peggiori: un impatto disgregante sui rapporti e sui legami sociali, la corsa verso una competitività estremizzata, la perdita della solidarietà e coesione sociale che decenni di lotte politiche e sociali erano riuscite a creare nei paesi che hanno conosciuto l’esperienza dello Stato costituzionale di diritto. Il potere economico e finanziario, potendo scegliere dove e come allocare le proprie risorse, si pone come un "antisovrano" e costituisce il fattore che più potentemente ha scardinato il sistema ultracentenario che vedeva nello Stato nazionale il soggetto principale, se non esclusivo, della politica e il detentore del potere.

A fronte di ciò domande - vecchie quanto il mondo - di vita, pace, lavoro trovano espressione in una richiesta di diritti da codificare e riconoscere; e, al loro fianco, altre se ne moltiplicano, anche nelle ricche società occidentali: dal diritto all’ambiente a quello a una alimentazione sana. Sempre più si pretende un mondo che abbia regole e un’autorità credibile e riconosciuta capace di farle rispettare. In presenza di problemi di questa dimensione la domanda di diritti non può trovare una risposta a livello delle singole nazioni. Occorrono regole e garanzie che, partendo dalle conquiste del moderno costituzionalismo, forniscano, senza scorciatoie "tecnicistiche", risposte adeguate a esigenze che non si collocano più nell’ambito dello Stato-nazione. Una operazione come quella della Commissione Bicamerale, al di là dei singoli contenuti (in larga parte criticabili), ha rappresentato un momento di crisi della politica come progetto generale e il trionfo della politica ridotta a semplice tecnica normativa. In questo discorrere di quelle che vengono considerate semplici "tecniche" politiche e costituzionali (una Costituzione che viene confinata a sola regola per il procedimento normativo), da un lato sembra smarrirsi il senso della Costituzione in senso alto, dall’altro matura l’idea che esista un primato della rappresentanza politico-parlamentare come tale e che tutto il resto debba, in un modo o nell’altro, obbedire alle regole della maggioranza. Non di "aggiustamenti tecnici" della Costituzione la società ha bisogno, ma di regole e di garanzie che orientino e governino la globalizzazione, di un nuovo costituzionalismo che accetti le sfide che il mondo ci lancia, senza cedere alla tentazione di considerare il diritto come un mero involucro dell’economia, quasi un "gioco delle regole" privato delle indispensabili "regole del gioco".

 

II.

Il diritto e la forza

Il tema della guerra e della pace riassume in sé sia la crisi del diritto internazionale "classico" (e perciò dell’Onu), sia le difficoltà di costruire un nuovo sistema di relazioni internazionali fondato sul diritto. Negli ultimi anni, a partire dalla caduta del Muro di Berlino, si sono avute, sotto varie denominazioni (prima "polizia internazionale", poi "guerra umanitaria", ed ora "guerra planetaria al terrorismo") operazioni belliche in vari teatri mondiali, tutte segnate dal progressivo snaturamento dell’Onu e della sua Carta fondatrice; operazioni che spesso si sono dimostrate di dubbia efficacia sul piano del raggiungimento dei fini che si ponevano e si pongono, mentre incombe ora la minaccia di una "guerra preventiva". La presenza di una potenza mondiale, in grado di condizionare da sola l’intera politica internazionale, ha creato le condizioni per un rovesciamento dei valori, mentre la parola d’ordine della "sicurezza ad ogni costo" sembra aver cancellato le stesse ragioni fondanti di un ordine mondiale fra soggetti eguali e al tempo stesso diversi. In questo contesto la tutela dei diritti umani fondamentali non può essere separata da quella della ricostituzione di un ordine internazionale che ridia vigore al valore della pace e all’uguaglianza degli uomini e dei popoli.

I tragici avvenimenti dell’11 settembre 2001 e la follia del terrorismo non spostano questo giudizio. Superfluo ribadire oggi una condanna del terrorismo, per noi risalente: chi, in nome di qualunque ragione politica o religiosa, uccide civili inermi, lancia auto-bomba in luoghi abitati, dirotta aerei e sequestra persone, attenta ai fondamenti stessi della convivenza civile, va represso e condannato. Ma le ritorsioni contro popolazioni civili non fanno che ampliare una spirale di odio e allontanare qualsiasi possibilità di adottare e imporre regole universalmente accettate. Inoltre la risposta al terrorismo internazionale ha visto un pericoloso scivolamento delle pratiche interne di numerosi paesi verso logiche di pura repressione. Si tratta di un ricorso indiscriminato alle "ragioni della forza" contro la forza della ragione che ci riporta indietro nel tempo e che i giuristi non possono accettare senza rinunciare al loro stesso ruolo. È in questo momento che va ribadita senza riserve l’eguaglianza di tutti (cittadini o stranieri), che va riaffermato il principio di civiltà giuridica contenuto nell’art. 27 della Costituzione, che va confermata la centralità del principio dell’habeas corpus. Nessuna criminalizzazione del dissenso, nessuna politica improntata alla sola paura (che costituisce oltretutto il primo risultato che i terroristi perseguono), nessuna compressione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo è ammissibile.

Come giuristi, e come magistrati, siamo consapevoli della difficoltà del contrasto alle organizzazioni terroristiche, specie internazionali, ma riteniamo che esso non possa e non debba avvenire con una indiscriminata compressione di diritti degli individui e dei gruppi intermedi. L’esperienza della lotta al terrorismo in Italia dimostra come il ricorso alla mera indiscriminata repressione sia controproducente e illusorio, dovendosi in primis combattere a livello culturale e politico il terreno di coltura dei fenomeni di terrorismo. È poi necessario essere capaci di distinguere tra gesti e parole e, ancora, tra gli stessi comportamenti; ogni generalizzazione finisce per favorire le scelte più estreme e irrazionali e rischia di risolversi in inaccettabili forme di criminalizzazioni del dissenso. Rischi che, in un quadro ben diverso, che nulla ha a che fare con il terrorismo, esistono anche in Italia, come ben ha dimostrato tutta la vicenda dipanatasi a partire dalle manifestazioni in occasione del G8 sino agli arresti operati su iniziativa della Procura di Cosenza. La lotta al terrorismo internazionale passa attraverso efficaci politiche di cooperazione giudiziaria (specie in materia di reati connessi, quali il riciclaggio internazionale dei proventi di reati commessi a scopo di finanziamento), con la predisposizione di strumenti normativi internazionali efficaci, ma soprattutto attraverso l’instaurazione di rapporti internazionali equi che sappiano ridistribuire redditi e costi del mercato globale, governando i fenomeni e non essendone governati.

È in questo clima internazionale non certo favorevole che sta per vedere la luce la Corte penale internazionale istituita dal trattato di Roma del luglio 1998. Nel confermare il convinto appoggio a ogni forma di risoluzione dei conflitti che passi attraverso il diritto, non possiamo non denunciare con preoccupazione che la pressione politica degli Stati Uniti (sin dall’inizio contrari all’istituzione della Corte) sta riducendo l’effettività della giurisdizione penale internazionale e che l’Unione europea, inizialmente schierata con forza a favore del Tribunale permanente, ha modificato il proprio orientamento autorizzando i singoli stati membri a stipulare accordi separati con il governo americano, destinati nella sostanza a creare immunità di fatto per i cittadini di quel paese. I tribunali internazionali, in parte già funzionanti a L’Aja ed Arusha, sono parte del nostro futuro e debbono operare come veri "giudici", capaci di sottrarsi a logiche politiche, e di non apparire strumento del "diritto del vincitore".

 

III.

L’Europa come speranza

Già al Congresso di Venezia Md pose l’accento sull’importanza storica della prevista approvazione a Nizza della Carta europea dei diritti fondamentali, come avvio di un processo di democratizzazione e costituzionalizzazione dell’Unione. Da quel momento segnali contraddittori hanno composto lo scenario politico del vecchio continente: l’equilibrio precario sin qui raggiunto sembra destinato a rompersi in un confronto tra euroscettici e fautori di una più decisa svolta in senso post nazionale dell’Europa.

Il Trattato di Nizza, due anni or sono, ha tradito molte speranze: alla Carta non è stata conferita una esplicita validità giuridica, il Trattato è stato l’ennesimo riaggiustamento "minimalista" di poteri tra Stati, Consiglio, Commissione e Corte europea (che ne ha reso problematica non solo l’interpretazione, ma anche la mera lettura). In realtà a Nizza è emerso con forza che la politica dei "piccoli passi", della prudente espansione delle competenze comunitarie senza rotture degli schemi e senza salti "rivoluzionari", ha ormai dato tutto quello che poteva dare, mostrando inevitabili nodi da sciogliere. Un primo segnale positivo in tal senso è venuto nella dichiarazione di Laeken, con l’istituzione di una Convenzione sul futuro dell’Europa alla quale sono stati posti quesiti che - in potenza - possono effettivamente cambiare la natura dell’unione e che ha recepito il modello della prima Convenzione di apertura di un confronto pubblico tra istituzioni europee, abbandonando il tradizionale sistema di revisione attraverso la diplomazia e i negoziati segreti. La prospettiva da rilanciare è quella di un costituzionalismo " forte" che riesca a dislocarsi al di sopra degli stati nazionali, in un’Europa "politica" che superi la dimensione mercantilistica e funzionalistica ancora oggi prevalente, senza perdere quelle caratteristiche primarie che si sono affermate nel 900: non solo la protezione dei diritti fondamentali con l’ampiezza e apertura raggiunte nel dopoguerra nelle principali Carte nazionali e l’organizzazione razionale dei pubblici poteri, ma altresì l’assunzione della partecipazione democratica come fattore prioritario di indirizzo politico e la promozione di alcuni valori essenziali dell’ordinamento. Indietro non si torna e non solo per considerazioni di tipo "realistico", legate all’irreversibilità di processi epocali come la costruzione di un mercato unico e l’adozione di una moneta comune, ma per ragioni ideali. Il costituzionalismo legato esclusivamente alle dimensioni statali mostra di essere sempre meno effettivo, certo a causa delle dinamiche economiche che rendono progressivamente meno incisive le politiche che si limitano ad una frontiera ma anche perché non riesce più ad alimentarsi di quella logica identitaria che è pur sempre sottesa al legame privilegiato di un "popolo" e di una "nazione" con la sua Carta fondamentale. La solidarietà tra "simili", che si nutre di un linguaggio e di una cultura comune, viene sfidata continuamente da una più decisa e coraggiosa solidarietà tra individui che tendono a riconoscersi reciprocamente, pur non avendo il medesimo heimat, eguali diritti e pari dignità. Sotto questo profilo una scelta irrinunciabile è stata compiuta dal Trattato di Maastricht con l’istituzione di una cittadinanza europea: si tratta oggi di dare a questa nozione senso e significato (a cominciare da una credibile politica sociale europea), sul fronte della tutela (anche giurisdizionale) dei diritti soggettivi che dovrebbero sostanziarla e delle procedure di partecipazione effettiva al processo decisionale. Importantissimo in questo periodo è stato, inoltre, il cammino giurisprudenziale della Carta: come avevamo previsto a Venezia, il testo di Nizza può trovare una sua applicazione immediata come fonte di interpretazione, attraverso la mediazione dell’articolo del Trattato sull’Unione che accorda ai diritti "quali derivano dalle tradizioni costituzionali comuni" lo status di principi generali del diritto comunitario. Così in effetti è stato: il Tribunale di prima istanza, due Corti costituzionali nazionali e molti giudici ordinari hanno ormai citato la Carta, rendendola in tal modo un comune riferimento per l’intera giurisprudenza dell’Unione.

Per contro sarebbe inutile negare come in molti paesi si siano nel frattempo costituiti governi che hanno, sia pure con diversa enfasi, cominciato a revocare in dubbio i legami e gli obblighi derivanti dall’Unione e alimentato polemiche sterili in nome degli "interessi nazionali". Ancor più grave il diffondersi di spinte securitarie in ogni angolo d’Europa che tendono a vedere quest’ultima più come una fortezza protetta dalla minaccia di invasione esterna che come cuneo di civiltà giuridica nel mondo attraversato dai processi sregolati di globalizzazione economica.

Un orizzonte costituzionale post-nazionale in Europa non può significare un’operazione di mero maquillage dei trattati esistenti; non può continuare a sacrificare le istanze partecipative popolari, né –infine - mantenere l’Europa dei diritti nella sfera di tutela di quel breve elenco formulato con la Convenzione di Roma del 1950, né consentire che la politica estera e quella di giustizia e sicurezza comune siano ancora considerate come figlie di un dio minore, gestite con gli strumenti del diritto internazionale. Un’Europa che non riuscisse, al termine di un processo apertamente dichiarato come costituzionale, a incorporare la Carta di Nizza nei Trattati, senza clausole di sorta che ne depotenzino proprio le norme sui diritti sociali, a rafforzare significativamente i poteri del parlamento europeo, a realizzare politiche sociali di carattere continentale e a ridimensionare gli egoismi nazionali, a ricondurre tutti i pilastri all’interno di regole comuni, anche se avesse alla base un testo dal nome enfatico di Costituzione, sarebbe la disgraziata conferma che il "costituzionalismo" non riesce ad evadere dai confini di uno Stato e che, quindi, nonostante la formale vigenza delle costituzioni dei singoli paesi, i meccanismi di integrazione economica e di unificazione dei mercati rimangono senza argini credibili.

Md e tutti i giuristi democratici dovranno quindi impegnarsi a fondo nel dibattito politico-culturale ribadendo le ragioni di un deciso passaggio al metodo "costituzionale" nel trattare le questioni europee e, soprattutto, dovrà proseguire quell’opera già avviata di "anticipazione" della piena vigenza della Carta già discussa a Venezia. Il testo della Carta, nella sua natura di grande narrazione che riassume a maglie molto larghe i molteplici spunti garantistici di un tessuto costituzionale continentale molto complesso, stimola e potenzia proprio un ruolo attivo dei giuristi. A tal fine – come è stato detto - "diventano rilevanti le operazioni interpretative dei giuristi" democratici, i quali anziché "farsi avanguardie di letture riduttive" devono "impugnare i diritti, e le loro interpretazioni progressive… operare in modo da rendere possibile, a un tempo, la valorizzazione massima del testo attuale e la sottolineatura permanente della necessità del suo miglioramento". La scarsa attenzione alle prospettive europee da parte delle magistrature nazionali e il riemergere di posizioni nazionalistiche antieuropee in taluni paesi (tra cui l’Italia), impongono di moltiplicare gli sforzi per rendere questo orizzonte non solo patrimonio di Md e di Medel, ma anche dell’Anm e delle altre associazioni nazionali di magistrati esistenti nei paesi europei.

 

IV.

La difesa della Costituzione

La Costituzione della Repubblica mantiene intatta, a oltre 50 anni dalla promulgazione, il suo potenziale di coesione sociale e di innovazione sociale. I tentativi di modificarne la struttura e, in particolare, l’esperienza della Commissione bicamerale, anche per come attuati, hanno rappresentato scelte pericolose per la democrazia italiana. La volontà di mettere in discussione la Costituzione, infatti, si è accompagnata a una deriva plebiscitaria del sistema politico, nella quale l’espressione della volontà della maggioranza sembra acquisire una sorta di indifferenza e di superiorità rispetto alle regole del diritto vigente. Alcune impostazioni che hanno accompagnato le proposte di cambiamento (la concezione della libertà e della democrazia come sistema privo di regole e controlli, senza limiti e vincoli specifici rispetto al libero dispiegarsi dell’iniziativa privata e ai poteri forti economici ad essa correlati e l’esaltazione, in termini assoluti ed esclusivi, della regola della maggioranza con conseguente insofferenza ai vincoli di legge e ai controlli giurisdizionali per il potere politico), poi, hanno evidenziato una pericolosa regressione del sistema rispetto ai principi costituzionali dello Stato democratico di diritto.

Siamo, per contro, convinti che la soluzione ai molti problemi che assillano il Paese non passa per la modifica del patto costituente, da cui in questi anni difficili ha tratto linfa vitale l’idea della unità, della coesione del paese, della stessa difesa dei diritti civili e sociali. Viviamo in una società nella quale emergono nuove forme di povertà, dove crescono le occasioni di disuguaglianza. La difesa della Costituzione rappresenta il baluardo della garanzia dei diritti vecchi e nuovi che si presentano sul proscenio del terzo millennio. Non sono solo gli assetti istituzionali ad essere messi in discussione, ma questioni cruciali poste anche con riferimento alla prima parte della Costituzione. Deve essere arginato il tentativo di erodere il principio di solidarietà (tra singoli, tra componenti sociali, tra territori dello Stato), la scelta europeista e internazionalista, il valore cardine del lavoro, la autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario. Su questi valori politici fondamentali deve essere aggregato il consenso più ampio perché una nuova idea dei rapporti pubblici sprigioni poi la sua forza trainante all’interno del corpo sociale, qualifichi le relazioni tra Stato e cittadini, determinando di fatto la qualità e la forma degli assetti istituzionali. Lo Stato e il federalismo, lo Stato e l’Europa, lo Stato e la giustizia, lo Stato ed i diritti del lavoro, lo Stato e la solidarietà sociale, lo Stato ed i diritti delle minoranze, lo Stato e la privatizzazione del potere politico, in ragione del conflitto di interessi che investe il capo del Governo, sono le aree dove più forte è emerso il tentativo della maggioranza di erodere i principi fondanti del patto costituente. Particolarmente drammatico è il silenzio calato sull’art. 11 della Costituzione che pare ormai dimenticato. Sotto la pressione di avvenimenti drammatici è palese il tentativo di passare dal principio del ripudio della guerra come strumento di politica internazionale e dalla considerazione della pace come valore caratterizzante gli ordinamenti democratici, a una coesistenza della guerra con i valori fondanti dello Stato.

La Costituzione della Repubblica rimane per noi la stella polare. La Carta deve essere capace di parlare anche a tanti nuovi soggetti, che in essa si riconoscano; occorre attualizzare, anche a livello interpretativo, gli aspetti sociali legati al principio fondativo dell’art. 3, comma 2, Costituzione che postulano un intervento della collettività per rimuovere gli ostacoli a una eguaglianza effettiva tra tutti i cittadini. Le problematiche relazioni che intercorrono tra l’assetto socio–istituzionale italiano e l’organizzazione sopranazionale europea non potranno mai risolversi in modo da ridurre o comunque conformare al ribasso i diritti fondamentali dei cittadini, ma anzi in un valore aggiunto rivenibile nel contributo alla formazione dell’identità europea e alla funzione di innalzare il rango di altri diritti fondamentali.

 

V.

Imparzialità e contesto politico

Un forte allarme sta risuonando per chiunque abbia a cuore la democrazia costituzionale. Se il Presidente della Corte costituzionale, Cesare Ruperto, dopo oltre cinquant’anni di Costituzione repubblicana, sente l’esigenza di riaffermare il connotato essenziale dello Stato di diritto costituzionale ("Il regime democratico non è soltanto governo della maggioranza, ma anche tutela di valori fondamentali, che non possono venire lesi dalla maggioranza stessa, senza che una Corte di garanzia possa e debba intervenire per restaurarli"), è segno che la vita pubblica del nostro paese ha imboccato una deriva pericolosa.

Sempre più spesso, negli ultimi anni, contro la giurisdizione e le sue regole e contro l’azione dei magistrati è stata invocata la legittimazione democratica della politica e dei politici. Ma la piena ed esclusiva legittimazione del potere attraverso l’appello al popolo e il consenso elettorale non ha fondamento giuridico, e rischia di risolversi in espressione di pura forza. La democrazia dello Stato costituzionale di diritto non si esaurisce tutta e soltanto nel consenso; essa è anche legalità al suo massimo livello, cioè rispetto delle regole, dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali, da parte di chi detiene e gestisce il potere, che distingue lo stato di diritto dallo stato assoluto. La Corte costituzionale e la magistratura indipendente costituiscono strumenti e meccanismi di controllo di tutti i cittadini e delle minoranze, previsti dalle Costituzioni democratiche proprio al fine di impedire la tirannia della maggioranza. È l’esercizio di questo dovere che dà senso ed effettività al giuramento di fedeltà alla Repubblica prestato dai magistrati. Non già per pregiudizio o faziosità politici, ma per doveroso esercizio del proprio compito professionale, i magistrati non sono, non possono e non devono essere, ossequienti servitori delle contingenti diverse maggioranze parlamentari. Essi "sono soggetti soltanto alla legge", secondo la solenne affermazione dell’art. 101 Costituzione, nella quale va sottolineato, da un lato, che la soggezione è ovviamente alla legge costituzionalmente valida, e dall’altro che "l’accento cade - come ci ha insegnato Pino Borré - sull’avverbio "soltanto"", con ciò intendendosi che tale soggezione "comanda la disubbidienza a ciò che legge non è", disobbedienza al pasoliniano "palazzo". Non meraviglia che i giacobini ritenessero intollerabile la pretesa dei magistrati di interpretare le leggi. Ma meraviglia, e preoccupa che i giudici milanesi che sollevarono eccezioni di costituzionalità della legge Turco-Napolitano per la detenzione degli stranieri nei cd centri di accoglienza, siano stati violentemente attaccati da esponenti del governo di centro - sinistra, perché avrebbero "scardinato" una legge "voluta dal Parlamento", così esprimendo una ostilità verso il controllo di costituzionalità e, di conseguenza, verso la Costituzione che lo consente, anzi lo impone; così come ancor più allarma che la maggioranza politica al Senato abbia approvato il 5 dicembre 2001 una mozione in cui si interferisce nel merito di un singolo processo, con accuse di disapplicazione della legge sulle rogatorie, a causa di una "non dimostrata e non dimostrabile prevalenza di asseriti principi e convenzioni di diritto internazionale sul diritto nazionale" entrando nel merito di provvedimenti giurisdizionali ancora sottoposti agli ordinari mezzi di impugnazione.

Nel riaffermare con convinzione e rendere effettivi questi connotati essenziali che, nello Stato costituzionale di diritto, distinguono i giudici dai funzionari, i magistrati democratici devono essere avvertiti e pienamente consapevoli delle tecniche inedite e delle modalità aggressive con cui si tenta di neutralizzare l’autonomia e la indipendenza della giurisdizione, facendole deperire innanzitutto nella coscienza collettiva e nel senso comune dei cittadini. La presentazione di ogni iniziativa giudiziaria sgradita come affermazione di ostilità e di pregiudizio politico rischia di far breccia nell’opinione pubblica. La martellante campagna, che si avvale dell’immenso oligopolio informativo e mass-mediatico, volta a delegittimare l’esercizio della giurisdizione ogni volta che non collima con i desideri e gli interessi di chi detiene il potere, mette a repentaglio la fiducia che i cittadini devono poter nutrire nella giustizia e nei giudici. La determinazione e la tenacia con cui, anche a prezzo di forzature costituzionali e parlamentari, si è giunti all’approvazione della legge Cirami, al di là degli immediati interessi legati a specifici processi in corso, costituisce l’espressione di un lucido disegno volto a presentare i magistrati italiani come parziali e inaffidabili. Se si aggiungono le reiterate contestuali iniziative di talune parti processuali per la ricusazione dei loro giudici naturali solo perché aderenti (o sospettati di essere aderenti) a un gruppo associativo di magistrati (sfociata addirittura nella richiesta della difesa dell’on. Previti di avere gli elenchi degli iscritti a Magistratura democratica), emerge trasparente l’intento di presentare al paese come privo di imparzialità, ossia del connotato proprio del giudice, qualunque magistrato che voglia esercitare la propria professione senza rinunciare al diritto costituzionale di esprimere le proprie opinioni e di dare il proprio contributo di cittadino sui temi, dibattuti nel paese, in materia di diritti, giustizia, democrazia costituzionale.

Nell’attuale contesto di democrazia maggioritaria, caratterizzata da scontro polarizzato, frontale e totalitario di schieramenti politici ai magistrati si presentano nuove e inedite difficoltà nel coniugare la partecipazione alla politica, intesa come "arte di vivere nella polis", e l’affidamento di indipendenza e di imparzialità che essi devono offrire affinché i cittadini possano nutrire fiducia nei propri giudici, fiducia che – indipendentemente dal consenso o dal dissenso sulle singole iniziative giudiziarie – costituisce l’indispensabile presupposto per una giurisdizione socialmente accettata. Si delinea, dunque, uno stretto crinale su cui procedere. Da un lato vi è una peculiare dimensione politica – quella dei diritti e delle libertà fondamentali, dei valori e dei principi della Costituzione italiana e della Carta dei diritti dell’Unione europea, che è radicalmente diversa dalla politica contingente – che non può essere evitata o dismessa perché inerisce direttamente alla professione del magistrato. D’altro lato, non si può trascurare che i magistrati oggi operano in una società polarizzata in schieramenti politici contrapposti e caratterizzata da una forte concentrazione quasi monopolistica del potere politico e di quello informativo, capaci di incidere fortemente sull’orientamento dell’opinione pubblica e di presentare qualsiasi atto o comportamento come espressione di parzialità politica priva di fondamento giuridico. In tale situazione, il magistrato deve più che mai improntare il suo atteggiarsi alle attitudini che una società civile, democratica e pluralista, ritiene proprie del giudice: "tolleranza per le controverse ragioni, attenzione e controllo su tutte le ipotesi e le controipotesi in conflitto, imparzialità rispetto alla contesa, prudenza, equilibrio, ponderatezza e dubbio come abito professionale e come stile intellettuale" (Ferraioli). Sono questi i connotati soggettivi che accompagnano l’immagine ideale del giudice nell’esercizio della sua attività istituzionale; essi ben possono costituire il parametro dell’atteggiamento complessivo che il magistrato mantiene anche nel "vivere nella polis", nel prendere parte alla vita di quella "città" da cui non può estraniarsi se non smarrendo la sensibilità alle vicende e alle trasformazioni sociali che è indispensabile per il suo difficile mestiere. Nel suo lavoro il magistrato ha il dovere professionale di una cosciente, vigile e visibile tensione verso l’imparzialità nel compimento di ogni atto istituzionale, ed è chiamato a operare sapendo che la sua attività in tanto ha valore ed è legittimata agli occhi dei cittadini in quanto è sorretta da "argomenti" e "motivazioni", poi sottoposti a controlli di legalità e di ragione e al vaglio dell’opinione pubblica e della comunità degli studiosi. Allo stesso modo, nei suoi interventi nella discussione pubblica, il magistrato–cittadino deve sapere di essere oggetto di costante osservazione da parte dei concittadini e conservare l’acuta consapevolezza di ciò che la società si attende dai suoi magistrati: non l’acritico atto di fede, non il mero proclama, non l’adesione aprioristica ad una opinione, ma un autonomo contributo di "ragioni" e di "argomentazioni" razionali anche sui temi più aspri e controversi della vita collettiva. In altri termini uno stile, uno spirito di confronto dialogico, nel quale la vera scriminante non è costituita dalla "natura" delle posizioni ideali o pratiche di volta in volta affermate (che in tutta una serie di casi possono essere, a ragione, molto radicali), ma dal carattere e dalla "qualità" dell’intervento, dal fatto cioè che esso si esprima nella forma del discorso razionale e si offra come un apporto conoscitivo e critico al dibattito pubblico.

È a partire da questo "modello" di razionale partecipazione alla discussione pubblica che si può efficacemente contrastare la posizione particolarmente insidiosa di chi oggi – non solo nella polemica politica spicciola, ma anche in disegni di legge presentati in parlamento – pretende di istituire una falsa equazione tra qualsiasi intervento dei magistrati nel dibattito pubblico e lesione della loro imparzialità (con lo scopo dichiarato di trasformare l’espressione di ogni opinione su temi generali in causa di astensione, di ricusazione o di remissione dei processi). L’imparzialità è realmente vulnerata dal pregiudizio del giudice sui fatti specifici oggetto della decisione, da coinvolgimenti, interessi, amicizie od inimicizie personali, da legami magari occulti tra magistrati e parti. Non da argomentate e trasparenti manifestazioni di pensiero, né da "ragionamenti" generali su aspetti generali della vita collettiva che, all’atto di assumere decisioni concrete, entrano in contatto con i fattori realmente preponderanti nell’adozione di ogni atto giudiziario: la ricostruzione dei fatti, le prove, le argomentazioni delle parti, l’interpretazione dei dati normativi, la forza dei precedenti giurisprudenziali, l’opinione degli studiosi di diritto, il dovere istituzionale del magistrato di tendersi verso l’imparzialità di fronte al caso concreto. Dunque, prendere la parola per "ragionare" sulle questioni generali e sui diversi aspetti della vita collettiva non compromette né la sostanza né l’immagine della imparzialità ed è un bene che sia così: alla nostra società non servirebbero magistrati distanti e disinteressati alla vita sociale ed istituzionale, volontariamente o coattivamente isolati dal corpo sociale né servirebbero giudici perennemente muti ed intimiditi (che presto diverrebbero burocrati silenziosi, autorizzati solo ad esprimere le opinioni gradite al potere di turno). Occorrono invece magistrati che continuino a mantenere un vivo contatto con la società e con il popolo in nome del quale amministrano giustizia e, quando lo ritengano utile o necessario, prendano liberamente la parola sulle questioni di interesse collettivo come semplici cittadini per esprimere - senza iattanza o speciale pretesa di autorità - punti di vista, opinioni critiche, riflessioni nate dall’esperienza, valori e principi.

 

VI.

La centralità dello status del magistrato e dell’ordinamento giudiziario

L’annunciata riforma strutturale in tema di giustizia costituisce uno snodo fondamentale per il futuro assetto del rapporto fra i poteri dello Stato. La riforma dell’ordinamento giudiziario proposta dal governo non è ancora definita in tutti i suoi dettagli, ma l’idea di fondo, la matrice è già ben chiara. Tre obiettivi sono evidenti: 1) la riduzione del ruolo del Csm; 2) la creazione di una carriera interna alla magistratura con la Cassazione al vertice di una struttura piramidale, 3) l’avvio della separazione delle carriere. Tutti e tre questi obiettivi sono contrari al disegno costituzionale e sono profondamente sbagliati. Il modello delineato è un modello già visto, già studiato e già superato: è la magistratura degli anni ’50, in cui il Ministro aveva un ruolo incisivo in vari momenti della carriera dei magistrati, aveva un rapporto privilegiato con i vertici degli uffici direttivi e il Csm ancora non esisteva (e anche quando venne costituito aveva un ruolo puramente burocratico), mentre la Cassazione si caratterizzava per essere l’ufficio cui potevano aspirare solo "i più bravi e i meno originali", che per questo potevano avere anche un ruolo di controllo sulla magistratura di merito. Questo modello aveva dato pessimi risultati, si era caratterizzato per essere il più omogeneo alla cultura dominante e il più lontano dal quadro costituzionale, che aveva disegnato la magistratura come autonoma e indipendente da ogni altro potere e consapevole di un fondamentale compito: il controllo di legalità. Riproporre oggi questo modello è in piena controtendenza rispetto a una moderna concezione dello Stato di diritto inteso come un sistema nel quale all’ordinamento giuridico – e quindi alla magistratura che ne garantisce l’osservanza – viene attribuito il compito di tutela dei diritti individuali, frenando la naturale tendenza del potere politico a espandersi e a forzare i propri confini.

La Scuola della magistratura presso la Cassazione, il ruolo del Ministro, il ripristino della carriera, l’adeguamento economico vincolato al conferimento di funzioni, l’accesso in cassazione per concorso, la gerarchizzazione degli uffici di Procura sono tutte modifiche da respingere che si ispirano al modello di magistratura degli anni ‘50, concepita in modo più funzionale alle esigenze di governabilità. A ciò si unisce un modello di reclutamento con un concorso di secondo grado di stampo elitario che fa perdere alla magistratura italiana quella caratteristica di rappresentanza della varietà della società italiana che è sempre stata una sua caratteristica positiva e una sua forza. In questo quadro si inserisce la prospettiva, più volte annunciata, di rendere più netta la separazione fra pm e giudice. Si prospetta un diverso concorso, un percorso professionale separato, una serie di steccati che trovano una sola giustificazione: preparare la separazione delle carriere per la quale occorrerà modificare la Costituzione. La logica perseguita è quella di dividere la magistratura, prima tra giudicanti e requirenti, poi tra cassazione e merito, mentre non vengono affrontati i problemi reali, che pure esistono.

Problemi che non vengono affrontati nell’ordinamento dove occorrerebbe predisporre percorsi professionali e formativi che assicurino che ogni cittadino in qualsiasi sede e materia possa contare su di una giurisdizione di qualità. Un pubblico ministero separato non è un pubblico ministero più preparato, ma solo un organo più parziale come ottica e visuale; un pubblico ministero separato è un pubblico ministero più irresponsabile e svincolato che a breve inevitabilmente troverà un riferimento formale o informale nell’esecutivo.

Problemi che non vengono affrontati, più in generale, nella giustizia. In quasi due anni di governo non si è avuto alcun significativo intervento sul terreno della trasparenza, dell’efficacia e della durata dell’azione giudiziaria su questi terreni. Anzi il Ministero sta dimostrando la sua più totale inadeguatezza nel garantire l’organizzazione ed il mantenimento dei servizi relativi alla giustizia. Quanto ha caratterizzato la politica governativa e ministeriale è stata l’assenza di investimenti, la mancanza di nuove assunzioni (con il rinvio anche dei nuovi concorsi per i magistrati), la mortificazione del personale amministrativo, il ridimensionamento dei progetti di informatizzazione e di monitoraggio sul territorio, il ricorso a (costosi) appalti esterni nei più vari settori. Un bilancio fallimentare che viene nascosto dietro le accuse ai magistrati e alla scarsa funzionalità del sistema.

 

VII.

Md, la giurisdizione e il servizio giustizia

Il sistema giustizia italiano presenta gravi aspetti di crisi. Sono gli stessi che lo caratterizzano da decenni e che si traducono nella intollerabile durata dei processi, penali e civili. A fronte di ciò una posizione di conservazione acritica dell’assetto organizzativo esistente è sbagliata e controproducente: occorre, al contrario, un progetto di rinnovamento, alimentato dall’esperienza e dall’elaborazione culturale degli operatori. Per definirlo è essenziale uscire dai luoghi comuni e dalle volontà punitive e partire dalla realtà e dai risultati raggiunti con le riforme degli anni '90. Non siamo all’anno zero e le citazioni che il Ministro ama fare del debito pubblico giudiziario servono solo a nascondere l’odierna inefficienza del suo dicastero. Ci sono riforme che complessivamente hanno funzionato (l’introduzione del giudice di pace, le modifiche urgenti del processo civile del 1995, il giudice unico) e altre che hanno creato difficoltà ed appesantimenti (molti dei recenti interventi sul processo penale e la legge Pinto). Analogamente le statistiche giudiziarie mostrano, negli ultimi anni, un quadro diversificato sia per settori che per territorio, che pure unisce segnali confortanti (come nel settore civile ordinario, ma non in appello, nelle esecuzioni e nelle cause previdenziali) a un andamento a macchia di leopardo del settore penale, appesantito da un rito farraginoso e dal peso di garanzie puramente formali. Da qui occorrerebbe partire per un recupero di efficienza e funzionalità: con un monitoraggio della situazione esistente, una ricognizione seria dei problemi e interventi mirati che consentano di consolidare e diffondere i risultati positivi che, sia pure a fatica, si cominciano ad avvertire in alcuni settori e in alcune sedi.

Le direttrici di intervento per una vera innovazione della giustizia sono cinque: formazione (iniziale e permanente) di magistrati e personale amministrativo, assetto territoriale e organizzazione degli uffici, valorizzazione delle attitudini dei singoli, applicazione appropriata delle moderne tecnologie (e in particolare dell’informatica), semplificazione delle procedure con interventi mirati in singoli settori. Un magistrato colto, specializzato (quando ciò sia imposto dalla natura degli affari che tratta), aperto al confronto garantisce un servizio più rapido e fornisce un prodotto qualitativamente superiore e prevedibile (con recupero di uniformità delle decisioni, disincentivazione del contenzioso inutile e garanzia di parità di trattamento). Un ruolo centrale riconosciuto alla professionalità (con la selezione per concorso, il ripudio del sistema burocratico e la distinzione solo per funzioni), come strumento attraverso cui si realizza la soggezione del giudice soltanto alla legge, fonte primaria di legittimazione dei giudici e baluardo dell’indipendenza. Uffici ben distribuiti sul territorio e ben organizzati, nel rispetto dei valori propri della giurisdizione, consentono l’ottimizzazione delle risorse e garantiscono l’integrazione dei diversi fattori che concorrono alla resa del servizio. Un’adeguata dislocazione delle risorse umane e la realizzazione di un ufficio che affianchi il giudice, garantendogli una collaborazione che può moltiplicare le capacità di definizione e la qualità del lavoro giudiziario. Le nuove tecnologie debbono costituire un momento di complessivo ripensamento dell’organizzazione giudiziaria e della qualità dei servizi di cancelleria, con una rivisitazione delle stesse procedure e prassi, una ridefinizione di ruoli, attività e mansioni del personale amministrativo, nell’ottica di un complessivo avanzamento delle culture professionali richieste e quotidianamente esplicitate. Informatizzazione significa, ad esempio, processo telematico, che da sperimentazione di nicchia deve divenire quotidianità. Un monitoraggio capillare e costante (tuttora inesistente) delle diverse realtà giudiziarie e di singoli istituti processuali (per eventuali successive riforme) è, infine, il presupposto fondamentale per individuare i settori che richiedono interventi normativi e per comprendere le ragioni reali delle diversità esistenti tra sede e sede, con conseguente valorizzazione ed esportazione delle esperienze virtuose.

I passi in avanti fatti in questi anni in magistratura nel porre al centro dell’attenzione la formazione permanente e un’adeguata organizzazione degli uffici ha subito una drastica battuta di arresto a seguito di una politica governativa che va in direzione radicalmente opposta. Parlare oggi di agire per obiettivi e per progetti e farsi carico del risultato complessivo della nostra attività sembra sempre più difficile in assenza di investimenti, risorse e programmi da parte del Ministero; eppure si tratta di acquisizioni preziose che dobbiamo conservare e diffondere. Il Csm, i dirigenti degli uffici i singoli magistrati debbono in ogni caso fare ciascuno la sua parte, a livello di proposte, come di concreti comportamenti, per una giustizia tempestiva e di qualità. Oggi la magistratura associata è in grado di portare un progetto per la giustizia radicalmente innovativo, abbandonando atteggiamenti difensivi e corporativi ormai del tutto perdenti e senza prospettive. Un processo che venga ricostruito mettendo al centro l’art.111 Costituzione con i due principi di contraddittorio e di semplificazione, con abbandono di tutte le garanzie meramente formali. Un Csm che riesca a coniugare la difesa rigorosa dell’indipendenza della magistratura e del singolo magistrato con la trasparenza, la certezza dei tempi, l’eguaglianza di trattamento, rifuggendo dai vecchi vizi della lottizzazione e del clientelismo. Consigli giudiziari rappresentativi, aperti alla cultura giuridica e all’avvocatura, come terminali locali del Consiglio. Dirigenti degli uffici, selezionati dopo una specifica attività formativa, valutati sulla base delle capacità gestionali, e con un vincolo di temporaneità. Magistrati inseriti in uffici adeguatamente dimensionati ed organizzati e con una struttura che possa moltiplicare le potenzialità di ciascuno. Un reclutamento che rispecchi la rappresentatività della magistratura e contrasti le tendenze elitarie che si stanno affermando, valorizzando la formazione comune dei giuristi (dopo l’abbandono di tale prospettiva e la delusione delle Scuole di specializzazione). Una formazione permanente assicurata da una Scuola istituita presso il Consiglio con una sua autonomia scientifica e un collegamento con la formazione decentrata. Valutazioni di professionalità più articolate, frequenti e legate alla concreta attività e ai diversi mestieri svolti dai magistrati. Percorsi professionali incentrati sulla valorizzazione attitudinale, con la previsione di un equilibrio tra specializzazione e temporaneità e la possibilità di interscambio di funzioni subordinata a vagli attitudinali e formativi (con la previsione di sbarramenti temporanei solo nei casi di concreta inopportunità). Sono proposte che indicano un progetto alternativo per una giustizia dei cittadini, ma sono anche caposaldi che almeno in parte possiamo e dobbiamo far vivere nel Consiglio superiore, nei Consigli giudiziari, negli uffici e nei nostri comportamenti concreti sin da oggi senza aspettare future riforme (o controriforme) legislative.

Impedire la paralisi e ridare credibilità alla giurisdizione costituiscono un obiettivo democratico minimo che dobbiamo perseguire. Non dobbiamo però né trascurare le ricorrenti resistenze corporative che si ripresentano contro ipotesi di cambiamento, né i ritardi di riflessione che la magistratura, e con essa Magistratura democratica, ha accumulato su alcuni settori oggi vitali. Uno di questi è indubbiamente la magistratura onoraria, che con l’istituzione e l’affermazione del giudice di pace, costituisce ormai un reticolo di base della giurisdizione, complementare e integrativo, che può rappresentare una giustizia conciliativa vicina ai cittadini. I giudici di pace sono giudici a tutti gli effetti, a cui bisogna assicurare garanzie di indipendenza e autonomia. Vi sono punti fermi elaborati: la necessità di un riordino e di una semplificazione delle troppo diverse tipologie di magistratura onoraria che metta al centro la figura del giudice di pace (riducendo a casi di effettiva necessità i magistrati onorari di tribunale e dando una chiara connotazione e specificità ai vice procuratori onorari, ruolo irrinunciabile per la stessa funzionalità delle Procure), dia ai giudici di pace canali istituzionali per far sentire la loro voce e le loro proposte per quanto concerne i profili di gestione e di organizzazione che li riguardano, valorizzi la specificità della loro figura (la natura onoraria, temporanea, di stampo conciliativo) che non li riduca ad una magistratura di serie B. Sono comunque punti insufficienti che devono maturare anche attraverso il confronto con la magistratura onoraria e le sue associazioni.

 

VIII.

Md, l’Anm e i magistrati

In una situazione difficile come quella che abbiamo attraversato in questi ultimi mesi la magistratura, nella sua stragrande maggioranza, non si è fatta intimidire e ha dimostrato grande compattezza e unità, come dimostra la ferma protesta in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, la piena riuscita delle assemblee nazionali prima e dello sciopero del 20 giugno poi. La crisi di idealità e di prospettive in cui da tempo l’Anm sembrava dibattersi, con perdita di credibilità e fiducia da parte degli associati, specie i più giovani, ha visto una formidabile inversione di tendenza: ancora una volta l’associazionismo dei magistrati è stato capace di essere un forte referente e di incarnare l’indignazione, la dignità, la protesta e le proposte dei magistrati. Questo risultato è stato il frutto della vitalità dell’associazionismo giudiziario italiano, con l’originalità delle sue forme (e anche con tutte le sue contraddizioni e carenze), capace nei momenti più difficili e drammatici di evocare risorse ed energie e di dare il meglio di sé. Ed è stato anche il frutto della capacità che l’Anm ha dimostrato di confrontarsi con ampi strati della società civile, con l’università e con l’avvocatura recuperando e rivisitando l’elaborazione culturale sviluppata negli anni dai gruppi associativi.

La necessità di proseguire, e di arricchire, la strada del confronto impone nuovi doveri e il superamento dei limiti e delle insufficienze ancora presenti nel modello di associazionismo e di autogoverno praticato dai gruppi. Dobbiamo prendere atto, in primo luogo, che la debolezza delle correnti e le polemiche nei loro confronti trovano alimento nella scarsa vitalità e nella debolezza di elaborazione culturale che rende i gruppi riconoscibili non come portatori di un progetto e di un’idealità, ma come espressione di un apparato e di logiche di schieramento. Dobbiamo prendere atto, in secondo luogo, che una Associazione intesa come semplice sommatoria di correnti non esiste più e che vanno superate immediatamente le logiche miopi da microcorporazione, finalizzate esclusivamente alla ricerca di un consenso elettorale tanto improbabile quanto fugace. Dobbiamo prendere atto, ancora, che l’immobilismo, l’incapacità di dare un progetto per il rinnovamento della giustizia, l’arroccarsi su posizioni di difesa comunque e dovunque è un limite politico grave che conduce inevitabilmente a controriforme devastanti per gli assetti istituzionali. Dobbiamo, infine, prendere atto che l’esigenza di dare una risposta anche alle troppe volte trascurate condizioni concrete di lavoro, sia retributive e materiali sia come carichi di lavoro, è sacrosanta, come sacrosanta è l’esigenza di fornire informazioni e ausilio sui concreti problemi che i magistrati ogni giorno si trovano a vivere. È il ruolo stesso oggi svolto dall’Associazione - e che ancor di più assumerà in futuro - a imporre di abbandonare una fase di gestione artigianale, che consenta di utilizzare appieno la ricchezza di idee e di proposta esistenti all’interno della magistratura per fare un salto di qualità in cui, accanto allo sviluppo dell’impegno e del confronto culturale interno e con la società e le istituzioni, siano coltivate le tutele più prettamente sindacali, proprie di un’associazione di categoria. Attraverso nuovi canali di confronto e di comunicazione interna l’Associazione deve diventare sempre più la casa comune di tutti i magistrati, che garantisca la loro piena espressione indipendentemente da specificità professionali, provenienza, idee e con una struttura che valorizzi le enormi potenzialità e risorse che sono presenti nella magistratura.

Proprio le recenti vicende che hanno segnato la magistratura forniscono preziose indicazioni per il futuro. L’unità associativa è sempre stata per noi un bene primario, ma unità significa innanzitutto condivisione di contenuti e valori. Lo sciopero del 20 giugno 2002 è riuscito pienamente perché rispondeva al sentire dei magistrati di ogni provenienza, ed è questo richiamo ai contenuti e ai valori che ha portato all’isolamento, in Associazione e nella magistratura, di Magistratura indipendente (che, almeno in una sua parte, in uno dei momenti più difficili attraversati dalla magistratura italiana, ha scelto di cedere alle sirene governative, rompendo l’unità).

La forte maturazione che i recenti eventi hanno indotto in tempi rapidissimi in ampi strati della magistratura e la convinzione che la strada da intraprendere sia quella della rivitalizzazione della elaborazione culturale come base per un serrato confronto con i settori esterni all’ordine giudiziario, hanno condotto all’esperienza elettorale del Csm dove è stata praticata con successo un’alleanza tra Magistratura democratica, Movimento per la giustizia, Impegno per la legalità, Ghibellini. La nostra non è stata, né sarà, una mera scelta elettorale, determinata dalle modifiche attuate sul sistema elettorale del Csm, ma un’occasione per lanciare un messaggio per un forte cambiamento degli assetti della magistratura e per dare un segno di resistenza e di rinnovamento che un numero crescente di colleghi richiedeva a gran voce e che si è tradotto in un successo elettorale ben più ampio della sommatoria dei voti dei singoli gruppi. È la realtà esterna che impone alle componenti più aperte della magistratura un approccio nuovo ricercando una unità sui contenuti e l’inizio di una stagione aperta a tutti i soggetti che condividano idee e percorso. Non si tratta di abbandonare le proprie identità e le proprie culture. Anzi, l’apertura di terreni di confronto e collaborazione con altri soggetti può aiutare ciascuno a preservare, correggere e sviluppare identità, idee e valori. Né si tratta di introdurre sbarramenti, delineando un’improbabile quanto irrealistico bipolarismo in magistratura, ma di basarsi sui contenuti e sui comportamenti per aprire un confronto che deve coinvolgere un numero crescente di colleghi: il risultato delle elezioni del Csm ci riempie di responsabilità e apre scenari del tutto nuovi con un laboratorio di coinvolgimento, di elaborazioni, di confronto di cui dobbiamo essere protagonisti, nel rispetto delle altrui identità.

 

IX.

Md, l’avvocatura e la cultura giuridica

Il biennio che ci separa dal congresso di Venezia ha visto numerosi segnali di novità, di diverso segno, sia nella avvocatura che nella cultura giuridica.

Sul versante dell’avvocatura l'aumento abnorme e ingovernabile del numero degli avvocati, la crisi sociale della professione, la marginalità della difesa nel "normale" processo penale, le diffuse resistenze alla riorganizzazione professionale imposta dai mutati assetti processuali (in civile come in penale) hanno continuato a segnare in termini corporativi buona parte della attività dell’associativismo forense. La scena mediatica, poi, è stata occupata prevalentemente dall’Unione delle Camere penali che, in questo biennio, ha affiancato al tradizionale e pregiudiziale antagonismo con la magistratura (basti pensare al controsciopero proclamato nel giugno 2002 alla vigilia di quello della Associazione nazionale magistrati) l’adozione di una linea di oggettivo e acritico supporto alla politica della giustizia della maggioranza di governo (rectius, delle sue componenti più oltranziste), sino a mantenere un assordante silenzio persino di fronte a gravissime violazioni dei diritti fondamentali (basti ricordare i fatti del G8 a Genova e la legge Bossi-Fini) e ad attacchi senza precedenti alla indipendenza della giurisdizione (come la mozione del Senato del 5 dicembre 2001 e l’uso della doppia funzione di avvocato e di parlamentare per incidere su processi in corso). Ma, anche in reazione a questi atteggiamenti, nel corpo dell’avvocatura sono nate nuove e positive esperienze: la crescita e il consolidamento del Coordinamento dei giuristi democratici (che, insieme ad Iniziativa democratica forense, rappresenta ormai un polo di riferimento di settori significativi della avvocatura), la capacità di elaborazione politica e culturale della Associazione studi giuridici sulla immigrazione (a cui si deve, insieme a Md, la pubblicazione della rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza), la nascita di aggregazioni, circoscritte ma significative, come il Genoa Legal Forum, il susseguirsi di iniziative spontanee a livello nazionale e locale in difesa dei valori fondamentali della giurisdizione, l’emergere – anche all’interno dell’Unione Camere penali – di posizioni dissenzienti rispetto a quelle dominanti. Parallelamente sul versante della cultura giuridica, dopo un lungo periodo di silenzio e di assenza, si assiste a una mobilitazione qualitativamente e quantitativamente imprevedibile sui temi caldi della giurisdizione e della democrazia (basti pensare ai tre appelli dei professori universitari dopo la mozione del Senato del 5 dicembre 2001, il ripetersi degli attacchi alla magistratura milanese e la legge Cirami che hanno avuto centinaia di adesioni, tra le quali spiccano quelle di maestri del diritto).

In questo contesto l’iniziativa politica di Magistratura democratica deve muovere dalla convinzione che le divisioni e le aggregazioni tra i giuristi non possono e non devono essere determinate dalle appartenenze corporative, ma dalle idee e dalle opzioni culturali. Di qui un’iniziativa politica che deve essere in grado di cogliere la profondità dei fermenti e delle mutazioni che hanno investito tutte le componenti della cultura giuridica e di manifestare la disponibilità a rapporti di collaborazione e confronto da coltivare e sviluppare con pazienza e tenacia. Le nostre direttrici di impegno debbono svilupparsi sulle seguenti linee: a) privilegiare, rispetto a rapporti di vertice con le associazioni di categoria, un ampio confronto, soprattutto a livello locale, con i settori della avvocatura interessati al confronto (anche su posizioni di forte dialettica) indipendentemente dalle logiche di appartenenza; b) promuovere luoghi e soggetti di incontro, di elaborazione culturale e di iniziativa politica di giuristi in quanto tali (e dunque indipendentemente dalle categorie di appartenenza) interessati alla difesa dei fondamentali valori costituzionali; c) aprire a questa prospettiva la rivista Questione giustizia e creare al suo fianco altri strumenti (anche informatici) di comunicazione.

 

X.

Md, la società e la politica

Il rapporto di Magistratura democratica con la società e la politica è stato in questo biennio oggetto di polemiche aspre e fuorvianti, che non hanno peraltro intaccato la trasparente partecipazione di Md ai momenti cruciali di scontro politico-culturale sui valori (dalla guerra allo Stato sociale, dalla garanzia dei diritti di libertà alla tutela dei soggetti deboli). A fronte degli attacchi ai valori di libertà, eguaglianza e solidarietà che sono alla base dello Stato repubblicano abbiamo ritenuto, come in passato, di scendere in campo per affermare che "quei valori si sono tradotti in princìpi e norme vincolanti per tutti: per il legislatore, per il governo, per i magistrati, al di là delle opzioni politiche, delle scelte di governo, degli orientamenti ideali" (Borrè).

La scelta, l’originalità, la ragione stessa di Magistratura democratica stanno nel suo essere aperta al confronto con l’esterno, nella convinzione che una giurisdizione adeguata ai bisogni della società deve necessariamente alimentarsi del confronto con i portatori di questi bisogni. Questo dialogo, lungi dall’appannare la terzietà del giudice, ne esalta la capacità e la possibilità stessa di rendere giustizia "in nome del popolo". Sono stati, del resto, il rifiuto della concezione della magistratura come apparato e la sua configurazione come luogo istituzionale di legittimo (rectius, necessario) pluralismo ideale e politico a costituire la novità portata da Md nel corpo giudiziario e la premessa di una magistratura diversa: a una magistratura longa manus del governo si addice, infatti, un modello di giudice burocrate e neutrale, mentre a una magistratura radicata nella società più che nella istituzione deve corrispondere un giudice consapevole della propria autonomia, attento alle dinamiche sociali e di esse partecipe. In questo contesto l’opzione di Md, la sua "scelta di campo", il suo "sentirsi dalla parte dei soggetti sottoprotetti, e sentirsi ‘da questa parte’ come giuristi, con le risorse e gli strumenti propri dei giuristi", la ricerca di collegamenti con il variegato arcipelago che condivide questi valori sono espliciti. Ma considerare questa opzione come collateralismo politico con i partiti della sinistra è frutto di superficialità o di strumentalizzazione politica. Ben altri sono stati e sono i collateralismi con il potere presenti in magistratura. La collocazione (dichiarata e trasparente) di Md nella cultura e nell’area progressista, lungi dal produrre fenomeni di subalternità o di fiancheggiamento, è stata stimolo per una più rigorosa autonomia, al punto che la storia del gruppo è stata ed è, nel rapporto con le organizzazioni politiche della sinistra, storia di scontri assai più che di convergenze.

La vitalità dimostrata, in questi ultimi tempi, dalla società civile e lo svilupparsi inedito di forme variegate di movimenti e di associazioni che manifestano grande attenzione sui temi dei diritti e della giustizia danno una possibilità senza precedenti di contributi, di rapporti, di confronto che dobbiamo essere in grado di cogliere fino in fondo. Per un gruppo come Md - di magistrati tra i magistrati, di giuristi tra i giuristi - il richiamo alla società civile è un richiamo al proprio radicamento da un lato e alla necessità di un costante confronto con le sue diverse espressioni e alla capacità di proporre e far capire le proprie idee ed esperienze, di rimettersi e rimettere in discussione e di cogliere il punto di vista degli altri..

I mutamenti in corso del sistema pongono, peraltro, a Md un supplemento di riflessione sui seguenti punti: a) rapporti con il sistema politico (tenendo conto, da un lato, della differenza tra politica come elaborazione culturale e politica come esercizio del potere e, dall’altro, delle specificità del sistema maggioritario); b) rapporti con i media (tenendo conto del fatto che la "stagione del riserbo" da molti rimpianta è stata espressione di una magistratura chiusa in un isolamento autoreferenziale e corporativo, diffidente nei confronti della passione e dell'impegno civile, legata ad una concezione astratta e formalistica della imparzialità, intesa, anziché come estraneità personale del giudice agli interessi in gioco, come indifferenza ai valori); c) rapporti con le variegate forme di una società in movimento (associazionismo, sindacato, movimenti, etc.); d) modalità di gestione di questi rapporti in modo da non compromettere, in termini di apparenza, l’immagine di terzietà del giudice.

Milano, novembre 2002

 

 

 

 

 

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