La storia non è finita

di Gianfranco Viglietta

Gli articoli di Juanito Patrone e di Giovanni Palombarini sono a mio avviso un’ottima introduzione al congresso. Non si può, infatti, parlare di un tema come "la forza dei diritti" senza rendersi conto del contesto nel quale i diritti vengono proclamati e devono affermarsi. Ciò è vero sia al livello italiano che a quello dell’ U.E.

La costituzione materiale è profondamente cambiata in Italia. Non solo perchè si è imposto il sistema maggioritario in un’ accezione assolutamente volgare (chi vince non ha alcun limite), ma perchè sono radicalmente cambiati i fini che si attribuiscono alla politica e allo stato: ha perso quindi significato quel complesso di norme finalistiche che caratterizzano la costituzione in senso dinamico, come necessità di realizzare, per quanto possibile, l’ uguaglianza di fatto dei cittadini. I principi di retribuzione sufficiente, diritto alla salute, diritto alla sicurezza sociale sono stati leve potenti di trasformazione sociale, e avevano come strumenti i contratti collettivi nazionali di lavoro, il Servizio Sanitario Nazionale, la Scuola pubblica, il processo del lavoro. Ma la Costituzione o le leggi non vivono solo perchè proclamate. Le norme finalistiche della Costituzione erano ritenute programmatiche, e non immediatamente precettive, dallo stesso vertice della giurisdizione, fino all’ inizio degli anni 70. E’ stata la forza della sinistra e del movimento sindacale ad imporre un relativo adeguamento della costituzione materiale a quella formale dalla fine degli anni 60 alla metà degli anni 80. Ciò ha avuto una potente ricaduta sui magistrati, che hanno contribuito al processo con gli strumenti propri dell’ interpretazione adeguatrice e della questione di legittimità costituzionale, ma anche, per quanto riguarda MD, con gli strumenti della critica, dell’ associazionismo e della politica, a costo della rottura della corporazione.

Oggi l’ accettazione del modello liberista, compiuta da quasi tutta la sinistra tradizionale italiana, ha tolto significato alla visione finalistica dello stato: il liberismo può accettare un sistema di regole, ma non di fini extraindividuali. L’ uguaglianza è così di nuovo uguaglianza formale di fronte alla legge. Del resto tutto ciò è stato avviato largamente dal centrosinistra. La precarizzazione dei rapporti di lavoro senza garanzie e la disponibilità alla revisione dell’ art. 18 sono incompatibili con una prospettiva di raggiungimento dell’ uguaglianza sociale. Nello stesso linguaggio della sinistra il termine eguaglianza è stato rimosso e sostituito con quello di solidarietà sociale. Sostituzione non da poco, perchè la solidarietà implica l’ accettazione della disuguaglianza, di cui cerca di temperare gli effetti. Anche sul piano della limitazione dei poteri della maggioranza, il centro sinistra, con le leggi Bassanini, ha aperto la strada allo Spoil sistem. Il problema dell’ accesso all’ informazione non è stato neppure affrontato. Ma se le differenze culturali rispetto al modello di società sono così limitate, la politica si riduce ad amministrazione. Del resto il riflusso e la fine dei movimenti e il sistema maggioritario hanno accelerato la disaffezione per la politica, vissuta come attività da delegare ai professionisti, quando non, addirittura, come malaffare. Spoliticizzazione e squalifica della politica che hanno fornito l’ humus per l’attacco ai magistrati "politicizzati" e l’ invocazione di una nuova neutralità del giudice, proveniente anche dalla sinistra, con una confusa indistinzione tra i concetti di imparzialità e apoliticità penetrata anche nell’Associazione Magistrati, fino al divieto di iscrizione ai partiti. Questo processo regressivo non è stato efficacemente combattuto: lo stesso Consiglio Superiore non è riuscito a fondare una politica dell’autogoverno se non nei momenti di conflitto violento con l’ esecutivo: nella quotidianità lo ha vissuto spesso come lottizzazione o difesa corporativa.

La Carta di Nizza e la Costituente europea sono certamente passaggi importanti da seguire con grande interesse, ma non vorrei che venissero colti come una prospettiva salvifica. Il processo costituente è nato male, se non altro perchè i costituenti sono delegati dei governi europei (prevalentemente di destra!), e non essendo stati eletti non hanno alcuna legittimazione popolare, e perchè è difficile trovare già a livello culturale un accordo con paesi come il Regno Unito che non hanno una costituzione scritta. La discussione in corso sul valore (programmatico o precettivo: tutto si ripete!) della Carta, è certamente allarmante. Condivido il recente articolo di Rodotà sull’ importanza delle leggi che affermano nuovi diritti, e della lotta per farli rispettare. Rodotà cita Jhering. Si potrebbe risalire più indietro, alle lotte dei plebei per la legge scritta e alle XII tavole, ma qui non sono in questione diritti individuali, ma diritti sociali la cui configurazione dipende dalle lotte sociali e dalle sintesi politiche che i partiti sono in grado di operare: insomma, dai modelli di società che si vengono affermando. Senza una sinistra non subalterna al modello liberista e un forte movimento sindacale a livello europeo, nonostante l’ importanza del riconoscimento formale dei diritti non possiamo aspettarci miracoli neppure dalle proclamazioni più solenni.

Oggi in Italia la discrasia tra costituzione formale e costituzione materiale tende a chiudersi, adeguando la costituzione formale. Il principio di sussidiarietà e la devolution sono esattamente questo: la sterilizzazione del principio di uguaglianza sostanziale in relazione a fondamentali diritti individuali e sociali. Un’ altra delle riforme di cui l’ esecutivo parla da tempo è il depotenziamento politico della Corte Costituzionale, mediante l’ inserimento di rappresentanti regionali.

Tutto ciò non è privo di ricadute sulla giurisdizione. In fondo, se si sposta l’attenzione dalle più volgari leggi ad personam del governo, una coerenza di fondo si può cogliere: l’ indipendenza del giudice e la sua funzione di dare attuazione alle norme finalistiche della costituzione sono in contrasto con l’ ideologia liberista e con l’accezione del maggioritario ormai affermatasi. E anche a livello ordinamentale il modello continentale di separazione delle carriere e di controllo dell’ esecutivo sul PM sono le forme tradizionalmente prevalenti.

Ma l’ omologazione dei partiti rispetto al modello liberista ha creato la crisi della politica, ma anche accentuato quella della giurisdizione. La "politicizzazione dei giudici" dalla fine degli anni 60 in poi era nutrita dei valori finalistici della costituzione, di rispetto della politica come attività nobile, di consapevolezza dei limiti della giurisdizione penale e della distinzione tra responsabilità politica e responsabilità penale, di denuncia delle subalternità e dei collateralismi occulti dei magistrati. La politica ha delegato interamente fenomeni come la mafia alla giurisdizione penale; di fronte a fenomeni come tangentopoli non si è posta neppure il problema di affrontarli, ha preferito prima ignorarli e poi gridare al complotto. La responsabilità politica si è confusa con quella penale: il garantismo è stato trasposto nel linguaggio politico, come divieto di valutare negativamente un parlamentare o un membro del governo fino a che non fosse stato condannato irrevocabilmente.

Ma questa cultura ormai radicata nel paese ha prodotto rilevanti guasti anche nella giurisdizione. L’ indipendenza da garanzia funzionale per molti è divenuta una garanzia di status, gli sconfinamenti nella amministrazione sono numerosi e le vere subalternità passano sotto silenzio. Basta pensare ai molti processi per abuso che in realtà si pongono come contestazione di scelte discrezionali. Occorrerà pur dire che a Napoli la Procura della Repubblica ha sistematicamente costruito processi per abuso del tutto infondati su quasi tutte le delibere della giunta Bassolino. Egualmente occorre dire che spesso il tema connivenze politica-mafia è stato ricondotto forzatamente nello schema dei reati associativi, con l’ incoraggiamento della stessa politica: basta pensare a figure di reato come il voto di scambio, che normativizzano un dato di elementare correttezza politica. In questo processo di indistinzione di responsabilità è deperito proprio il garantismo nella giurisdizione, sostituito con un esasperato formalismo paralizzante. Credo che occorrerebbe un’ approfondita analisi del modo di essere della giurisdizione in questi ultimi anni. Lo vado chiedendo da tre congressi, ma finora l’ esigenza di difendere l’ assetto ordinamentale e l’indipendenza ha prevalso. Ho preso atto con soddisfazione della recente apertura di Castelli su questi temi, dopo la sentenza Andreotti e la misura cautelare contro i No global. L’una e l’ altro sono segni di grave perdita di cultura costituzionale. Sui reati di cospirazione o di associazione sovversiva tentammo di proporre perfino un referendum abrogativo. L’ esigenza di difendere la giurisdizione dagli attacchi del Polo ha azzerato il controllo critico sulla giurisprudenza, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Anche se non mancano neppure i segni positivi: l’ ondata di questioni di legittimità costituzionale sulla legge Bossi-Fini fanno sperare sulla resistenza di larghi settori della magistratura al mutamento della costituzione materiale. Occorre però che si riprenda la strada della critica e dell’ orientamento della giurisprudenza verso i principi costituzionali.

Che fare oggi?

Credo che non abbiamo alternative: difendere le ragioni della nostra cultura politico-costituzionale, con lo schieramento che si va confusamente definendo: la CGIL disposta ad una battaglia riformista ma decisa a difendere i diritti, il Movimento che è ancora una galassia indistinta, ma esprime un’ ispirazione antiliberista, quanto della sinistra tradizionale ancora si ispira alle istanze emancipatrici della costituzione, gli intellettuali e i costituzionalisti che non hanno abbandonato la cultura politico-istituzionale della Resistenza e della prima repubblica, quei larghi settori dell’opinione pubblica, non politicamente caratterizzati, ma sensibili ai valori costituzionali che sono scesi in piazza in difesa dell’ indipendenza della magistratura e del pluralismo nell’ informazione, o della pace e dell’ art. 11 della costituzione. Dimostrando che il c.d. realismo della sinistra in realtà fa perdere di vista ciò che fermenta nel paese e la spinge ad adattarsi ad una sconfitta prima di combattere.

Ma le battaglie contro la devolution, la delega sul lavoro, la riforma costituzionale sono perfino più importanti di quelle sull’ ordinamento giudiziario. Dobbiamo recuperare il senso alto della politicità della giurisdizione (e quindi anche dei limiti della giurisdizione penale), anche se ciò, probabilmente, ci creerà seri problemi con le altre componenti associative. Nascondendoci, accelereremo la sconfitta. Rivendicando la nostra identità, accetteremo le incognite della storia, che, contrariamente a quanto pensavano gli esegeti del pensiero unico alla caduta del muro, non è finita.

Roma, 28.11.2002

 

 

 

 

 

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