Anche Nanni Moretti dovrà scegliere

di Giovanni Palombarini

La grande manifestazione romana indetta dalla Cgil - una straordinaria espressione di opposizione popolare alle scelte del governo di destra - ha suscitato tante speranze. E però, se non si eviteranno confusioni anche strumentali (come quella di chi dice che oggi sono già superati gli esiti del congresso di Pesaro dei Ds), rischia di rilanciare una pretesa e un’illusione che dovranno invece necessariamente cadere. La pretesa è quella dei partiti dell’Ulivo, in particolare dei Ds (ma non solo), di poter rappresentare con la linea politica che è stata progressivamente elaborata nel corso degli anni Novanta quanto esiste di sinistra nella società italiana. L’illusione, di tante persone - come s’è visto, non solo lavoratori intellettuali - che sentono di appartenere al "popolo di sinistra" e che nei valori dell’uguaglianza, della giustizia e della pace continuano a credere, è quella di potere trovare voce a livello politico generale in quei partiti.

La pretesa e l’illusione si sono riproposte parallelamente, quasi intrecciandosi, nelle settimane comprese fra la manifestazione di piazza Navona del 2 febbraio e quella del 23 marzo. In mezzo, accanto al tentativo dei partiti dell’Ulivo di riprendersi la piazza con la manifestazione del 2 marzo a piazza S.Giovanni, i "girotondi" e i dibattiti innumerevoli che si sono accavallati in tante città italiane.

Il succedersi degli avvenimenti - quanto è accaduto, quanto s’è detto in tutte queste occasioni - evidenzia peraltro come questo intreccio fra pretesa e speranza sia frutto di un persistente equivoco che va sciolto.

Moretti ha perfettamente ragione (e tanti con lui). Tutte le cose che ha detto in questo mese e mezzo, tutte le sue contestazioni riprese da tanti in tante sedi corrispondono al vero. Anzi, l’elenco di quelli che molti nel popolo di sinistra considerano gravi errori, sciagurate inadempienze, inutili compromessi dei partiti del centro-sinistra potrebbe essere molto più ampio.

E però: si tratta davvero errori, inadempimenti e compromessi inspiegabili? Oppure tutto va ricondotto a qualcosa di molto più serio e importante, che è ormai avvenuto e di cui bisogna prendere atto senza recriminazioni che potrebbero essere devianti oltre che inutili?

Proprio qui si colloca l’equivoco. Rispetto alla critica agli assetti capitalistici che un grande movimento democratico ha condotto per un secolo (una critica fatta di ricerca teorica, di organizzazione delle classi subalterne, di battaglie sociali e politiche per il cambiamento) i partiti dell’Ulivo che ancora si autodefiniscono di sinistra hanno preso le distanze in modo netto, inequivocabile. Non solo gli eredi del Pci e del Psi non hanno più nulla in comune con quella storia - le sue lotte, i suoi valori - ma si muovono ormai da tempo, con determinazione, su un piano radicalmente diverso. Inutile ripercorrere qui il loro tragitto nella direzione, voluta, di una politica moderata di centro, del tutto compatibile con la logica del mercato, del profitto e dello sviluppo neoliberista del capitalismo. Se per il Psi che è stato di Nenni, Morandi, Pertini e De Martino, sotto questo aspetto è esplicita la vicenda del craxismo fino alla chiusura del partito, per il Pci, a partire dalla morte di Enrico Berlinguer è stato un susseguirsi di scelte assolutamente chiare, che - anche dopo la sconfitta elettorale - sono legate da una grande, lucida coerenza (qualche recente esempio che riguarda i Ds: il voto favorevole alla guerra in Afganistan, le perplessità o addirittura le esplicite critiche allo sciopero generale, l’esito del congresso di Pesaro).

Come hanno evidenziato cinque anni di governo dell’Ulivo, per loro l’orizzonte del domani, come per le forze della destra, è dato dalla globalizzazione capitalistica. La democrazia in cui credono e operano è quella dell’alternanza, non quella dell’alternativa, in cui un qualche soggetto si faccia portatore di un diverso progetto di società.

Rispetto a tutto ciò, che senso ha incalzare Rutelli e Fassino perché siano un po’ più radicali o inalberare cartelli con la scritta "D’Alema, prova a dire qualcosa di sinistra"? Certo, poiché hanno percepito cosa sta avvenendo nel loro tradizionale elettorato - il rifiuto della rassegnazione alla sconfitta, l’indignazione per le scelte del governo delle destra (e di alcune di quelli precedenti) - accentueranno i toni della loro opposizione e, ad esempio, non accetteranno superficiali modifiche della legge sul conflitto d’interessi. Ma poi? L’indignazione sincera proprio di Massimo D’Alema di fronte alla ragazza che gli contestava la politica di chiusura adottata nei confronti dell’immigrazione extracomunitaria in occasione dell’incontro/confronto fiorentino organizzato dai docenti della locale università è stato uno dei tanti esempi della contraddittorietà della situazione. L’ex presidente della bicamerale e del governo, nella prospettiva in cui si è collocato, è ovviamente convinto della bontà della legge Turco-Napolitano, e non può comprendere le critiche ai centri di detenzione o alla logica dell’Europa fortezza (o se le comprende, com’è più probabile, le rifiuta perché ispirate a una logica che da tempo ha abbandonato). Così come è stato ed è profondamente convinto di tante cose che ha detto e fatto, dalla critica alla "rigidità" dei rapporti di lavoro all’adesione alle guerre "etiche". Si muove nella prospettiva della pace sociale, non del conflitto. Qualcuno pensa davvero di potergli far cambiare idea?

Si tratta di scelte che corrispondono a una logica di fondo, non casuale ma meditata. Dietro queste scelte, ormai irreversibili, c’è probabilmente una lettura pessimista della situazione italiana, che grossolanamente può riassumersi così. L’Italia per molte ragioni storiche è un paese largamente di destra (si è detto e ripetuto: anche il successo dell’Ulivo del 1996 è stato il frutto di un’accorta tattica elettorale, ma i nudi numeri di quella consultazione confermano l’analisi); l’unica alternativa possibile all’alleanza fra Berlusconi, Fini e Bossi è una politica condotta da un centro democratico, civile, europeo, che sappia parlare credibilmente ai moderati. E infatti è in corso un grande lavorio - si dice: il rilancio dell’Ulivo - per dare vita a questo centro, un centro a due o tre gambe, quella erede del cattolicesimo democratico e quella/e rappresentativa/e di tutti i laici progressisti. Il problema della leadership, si dice ancora, verrà risolto con il rientro di Romano Prodi.

L’analisi non è condivisibile - appunto le grandi lotte sociali, le lotte per i diritti, possono modificare la situazione, e la prospettiva di un mondo diverso deve essere l’orizzonte costante del lavoro politico di una vera sinistra - ma ha certamente una sua serietà; e chi si è convinto delle conclusioni a cui quell’analisi lo ha condotto di certo non modificherà l’essenza della sua linea politica (del resto, perché dovrebbe?). Se qualcuno pensa che l’entusiasmante manifestazione del 23 marzo possa bastare a indurre a ripensamenti sostanziali si sbaglia di grosso.

I fatti di queste settimane dimostrano peraltro due cose, al di là delle persistenti contraddizioni.

La prima: che i protagonisti del neocentrismo degli anni 2000 devono lasciare da parte la pretesa di rappresentare anche la sinistra sociale e la cultura alternativa, perché da qui ricevono contestazioni crescenti, anche con riferimento a quelle tematiche che una volta venivano definite sovrastrutturali (il tanto criticato rifiuto del "voto utile turandosi il naso" è stato il primo segnale di un distacco necessario; ma oggi non c’è più solo l’astensionismo a segnalare questa contestazione). La stessa manifestazione ulivista di piazza S.Giovanni, con il contrasto fra gli slogan della gente e i discorsi sul palco, e il colore inequivocabilmente rosso della manifestazione del 23 marzo, hanno evidenziato i limiti dei loro tentativi di ricupero.

La seconda: nella società, ma anche nel popolo dei girotondi, accanto all’indignazione cominciano a fiorire gli interrogativi circa il ruolo dei partiti che si autodefiniscono di sinistra. Allora, per la chiarezza che è necessaria per arrivare a sconfiggere la destra, è apprezzabile il lavoro di chi mira a sciogliere l’ambiguità che caratterizza la situazione. L’illusione è davvero in crisi. Tra l’altro, a partire dai fatti del G8 di Genova si è intensificata la ricerca, nella società civile, di sedi, forme e modi per praticare un’altra politica, basata su valori alternativi, riassunti nello slogan "un altro mondo è possibile". Questo lavoro, anche se davvero "di base" e poco pubblicizzato sui media (o addirittura demonizzato mediante l’accusa grottesca di contiguità al terrorismo), comincia a produrre dovunque, anche in coloro che si sono mossi per una "legge uguale per tutti", domande e riflessioni.

La pretesa e l’illusione, come s’è detto, sono ancora vive. E’ però cominciata la loro crisi, sperabilmente irreversibile. Sembrano essersene accorti i Verdi, che dopo la dura lezione elettorale si sono avvicinati al "movimento dei movimenti" e ai valori ai quali questo si richiama, a partire da quello della pace, sciaguratamente trascurato al tempo della guerra alla Jugoslavia.

Dunque, anche Nanni Moretti, che vuole ascoltare e veder fare cose di sinistra, e che in questa prospettiva è indubbiamente riuscito a creare una tensione politica che ha investito quelli che ha fin qui considerato i suoi rappresentanti senza però spostare di un solo grado l’angolatura della loro strategia, anche Nanni Moretti dovrà scegliere (e tanti con lui).

Fuori finalmente dall’equivoco (quanto ci vorrà per uscirne?), se nella sinistra reale le cose evolveranno in un determinato modo, se vi sarà una crescita che porterà, se non a un nuovo partito, almeno a meccanismi di coordinamento e di rappresentanza su contenuti generalmente condivisi capaci di proporsi come interlocutori politici a livello generale, si imporranno di volta in volta leali, chiari accordi elettorali fra questa sinistra e il centro democratico, visto che il maggioritario - ormai tre elezioni generali stanno a dimostrarlo - è il meccanismo operante nel nostro paese. A questa necessità non si potrà sfuggire, le alleanze elettorali sono indispensabili: se ne vedranno di volta in volta presupposti e contenuti programmatici.

Fermo questo punto - il governo del paese non può essere lasciato a questa destra - per il resto ognuno sarà chiamato a scegliere. Il discrimine è visibile, e passa essenzialmente per due snodi. Il primo, essenziale, è quello dell’accettazione o meno dello sviluppo neoliberista della società non solo italiana. Il secondo, che si lega in modo evidente al primo, è quello della accettazione o meno di una tendenza del diritto internazionale che vede ormai una potenza imperiale dettare le regole e, quando lo ritiene opportuno, imporre la guerra. Scegliere è necessario, anche perché stare da una parte o dall’altra ha inevitabilmente riflessi e conseguenze rilevanti in tema di contenuti.

Un esempio, in tema di questioni istituzionali. A proposito delle forme che attualmente va assumendo la democrazia dell’alternanza e della delega, osservatori e studiosi attenti segnalano i rischi di una "dittatura della maggioranza". Sta passando l’idea che chi ha avuto l’investitura popolare può fare tutto, essendo sottoposto al solo controllo della successiva consultazione elettorale. In questo contesto la stessa questione morale sta assumendo profili nuovi: accanto al vecchio sistema dello scambio illegale - le tangenti - si profila un modo di governare che prevede direttamente l’adozione di scelte e l’emanazione di leggi in proprio favore. Per questo uno studioso come Mario Dogliani ha parlato, a proposito dei primi mesi di questa legislatura, di una buona fede parlamentare in crisi, e del conseguente intrecciarsi della questione morale con la questione costituzionale.

Ebbene, dove e con chi Nanni Moretti potrà sviluppare una riflessione, ed eventualmente maturare proposte, finalizzate a inventare - a partire dalla dimensione locale, come giustamente vanno suggerendo Vittorio Agnoletto, Alberto Magnaghi e altri - meccanismi correttivi di una simile tendenza, o più semplicemente a ricuperare forme di partecipazione popolare (in particolare di soggetti portatori di competenze specifiche) per la formazione delle decisioni?

Un secondo esempio, a proposito della condizione di chi lavora (e di chi un lavoro non ha). Alcuni pensano che in questo campo, al di là di tante parole di molti sui presupposti della crescita del paese e del rilancio dell’occupazione giovanile a partire dalla "necessaria flessibilità", nell’ultimo decennio di fatto vi sia stato non un rafforzamento ma un arretramento dei diritti (oltre che del potere d’acquisto delle retribuzioni), e che un arretramento ulteriore, in termini di vera e propria restaurazione, si vada profilando per effetto dei programmi governativi in tema di relazioni industriali. Per questo costoro, diversamente dalle varie componenti dell’Ulivo che sembrano voler rifiutare solo il cambiamento dell’articolo 18 dello statuto, non accettano le proposte del "libro bianco" (che contemplano tra l’altro la possibilità che, salvo alcune questioni di principio, il contratto individuale possa derogare in peggio a tutto, alle leggi come alla contrattazione collettiva). Pensano invece a cose diverse, alla lotta al lavoro nero, alla possibilità di un salario sociale per i disoccupati, o di un’estensione dell’applicabilità dell’articolo 18 alle imprese con meno di 15 dipendenti, o, più in generale, alle difese da apprestare a fronte delle nuove forme di sfruttamento. Ebbene, dove e con chi Nanni Moretti potrà concretamente parlare, anche in termini di progetto e di convergenze, di questi problemi?

Un ultimo esempio, in tema di diritto/i e giustizia. Qui un primo, immediato livello di impegno è certamente quello della difesa delle previsioni costituzionali in tema di autonomia della magistratura e di indipendenza del pubblico ministero, o della protezione del singolo giudice dalle aggressioni di una destra spregiudicata come nessun’altra in Europa. Il disegno di legge delega per la "riforma" dell’ordinamento giudiziario è, anche questo, un vero e proprio disegno di restaurazione, di ritorno agli anni Cinquanta, con tanto di reinserimento del ministro di giustizia nei meccanismi di formazione professionale dei magistrati e di scelta dei giudici di cassazione. L’impegno nel contrasto a tutto ciò oggi sembra essere generale, per cui il dialogo e le intese fra il centro democratico, della magistratura e della politica, fra il popolo dei girotondi e dei palavobis, con quanto - singoli, associazioni, settori sindacali e la piccola Rc - vi è di sinistra nella cultura e nella società dovrebbero essere facili (non sempre peraltro, come ha evidenziato la vicenda della Bicamerale).

Un secondo livello di ricerca e di impegno è però quello del dare risposte, alternative rispetto all’esistente, alla vecchia domanda "quale giustizia". L’attuale situazione (e le tendenze in atto) in tema di pace, guerra e diritto internazionale, di immigrazione e di tossicodipendenza, di lavori dipendenti sempre più precari e di lavori cosiddetti autonomi sempre più flessibili, di salute nei cantieri e nelle città, di condizione delle minoranze e di servizi pubblici sempre più spesso privatizzati, ripropongono continuamente questa domanda, alludendo a soluzioni alternative, a una società organizzata diversamente. Ebbene, anche qui: dove e con chi …. .

Certo, scegliere non è facile. La sinistra reale - pur con riferimenti ideali condivisi e con sempre più numerosi obiettivi comuni, pur capace di iniziative sorprendenti, impensabili nella vecchia ex sinistra, come l’incontro con Arafat assediato in segno di solidarietà con la causa del popolo palestinese - è frammentata in tanti movimenti, gruppi, circoli e associazioni, differenti per storia, campi d’interesse e composizione sociale. Rc non la rappresenta ma ne è semplicemente una componente, e i Verdi solo ora vi si stanno riavvicinando. Una parte di questa sinistra non ha leaders - non li vuole avere - ma portavoce, non conosce professionisti della politica; si basa, si muove sostanzialmente secondo le logiche e le possibilità del volontariato; fatica a trovare meccanismi organizzativi di coordinamento e sedi di incontro per la definizione di obiettivi comuni, anche se tutti si rendono conto che le periodiche assemblee nazionali non possono garantire da sole efficacia e democrazia. Un’altra parte di essa pensa invece a un nuovo, diverso partito, magari leggero, peraltro tutto da costruire. In ogni caso il lavoro organizzativo, qui, può essere solo quello di lungo periodo.

Intanto, però, non è possibile rimanere nell’equivoco. Tra l’altro quanto c’è di sinistra nella società, nel mondo variegato che faticosamente tenta di emergere a livello politico, ha bisogno del contributo degli intellettuali. Come deciderà Nanni Moretti?

Aprile 2002

 

 

 

 

 

 

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