Responsabilità del Ministero della Sanità per omessa vigilanza sulla sicurezza del sangue e degli emoderivati
EMOFILICI - virus epatite B,C, HIV - RESPONSABILITÀ
del Ministero della sanità per avere, in violazione del principio posto
dall'art. 2043 c.c., colposamente omesso di vigilare sulla sicurezza del sangue
e degli emoderivati.
Importante sentenza del tribunale di Roma, sezione seconda giudice dr. Antonio
Lamorgese, del 14.6.2001, la cui lettura si segnala sia per le questioni giuridiche
affrontate sia per la ricognizione delle conoscenze scientifiche e della loro
evoluzione, nonché per la conoscenza da parte del Ministero riguardo
alle diverse infezioni virali.
I nomi delle 223 persone che hanno agito in giudizio sono coperti da riservatezza
in base alla legge n. 135\1990.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI ROMA
2a SEZ. CIV.
in persona del giudice, dott. Antonio Lamorgese, ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa di primo grado iscritta al n. 89308 del ruolo generale degli affari contenziosi civili dell'anno 1999, trattenuta in decisione all'udienza di discussione del 4-4-2001, promossa da
in proprio: seguono i nomi di 163 persone
in qualità di eredi: seguono i nomi di 50 persone
in qualità di rappresentanti legali di minorenni:
seguono i nomi di 10 persone
nuove costituzioni per attori deceduti:
seguono i nomi
interventi:
seguono i nomi
tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Mario Lana, Anton Giulio Lana, Salvatore
Orestano, Umberto Randi, Carlo Tocco, Isabella De Angelis, Andrea Randi e
Francesco Terruli, riuniti in collegio difensivo e domiciliati in Roma - attore
Interventi:
seguono i nomi
tutti rappresentati e difesi, unitamente all'avv. Gianni
Fucà, dall'avv. Franco Voltaggio Lucchesi, presso il cui studio sono
domiciliati in Roma
Interventi:
seguono i nomi
tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Marco Impelluso e Carla Randi, domiciliati presso lo studio dell'avv. Orietta Frazzitta in Roma
Interventi:
segue il nome
rappresentato e difeso rappresentato dall'avv. Carla
Randi, domiciliato presso lo studio dell'avv. Orietta Frazzitta in Roma
Interventi:
segue il nome
rappresentato e difeso dagli avv.ti Franca Azzolini
e Rosella Radocchia e presso lo studio di quest'ultima domiciliato in Roma
contro
MINISTERO DELLA SANITA'
in persona del ministro p.t., rappresentato e difeso
per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è
domiciliato in Roma
Ogg.: responsabilità extracontrattuale della
P.A.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 27.10.1999, i soggetti
indicati in epigrafe (223 persone, di cui 163 in proprio, 50 in qualità
di eredi, di cui alcuni nella doppia qualità, e 10 in rappresentanza
legale di minorenni) sotto l'obbligo della riservatezza ex l. n. 135/1990
- tutti colpiti (come risultava dagli accertamenti compiuti dalle commissioni
mediche ospedaliere militari ai fini del riconoscimento dell'indennizzo previsto
dalle leggi nn. 210 del 1992 e 238 del 1997) da virus (epatite B, C, HIV)
per avere, in quanto emofilici o affetti da altre patologie emorragiche, dovuto
utilizzare sangue o suoi componenti ovvero assumere prodotti derivati dal
sangue e, in particolare, dal plasma, i cui fattori VIII e IX sono necessari
a bloccare le emorragie ed a ripristinare le funzioni organiche che, com'è
noto, negli emofilici sono compromesse a causa di un'alterazione della coagulazione
del sangue - hanno convenuto in giudizio il Ministero della sanità,
deducendone la responsabilità, ai sensi degli artt. 2043, 2049 e 2050
c.c. e 32 Cost.. A sostegno della domanda hanno dedotto le seguenti ragioni:
a. gli emoderivati, che sono prodotti biologici e specialità medicinali
(ai sensi dell'art. 1 della dir. 65/65/CEE del 26.1.1965), sono distribuiti
gratuitamente quali "salva vita" dal Ministero della sanità
che li acquista da banche del sangue (nel caso del plasma) o industrie farmaceutiche
italiane o straniere previo controllo ai fini della registrazione, contrattazione
del prezzo e conseguente inclusione nel prontuario terapeutico nazionale,
garantendone così la sicurezza; questi prodotti sono poi prescritti
e/o somministrati nelle strutture (ospedali, centri di medicina sociale per
l'emofilia, centri trasfusionali di pronto soccorso, ambulatori) o da operatori
del servizio sanitario nazionale (medici di base);
b. la quasi totalità del plasma da cui sono stati prodotti i farmaci
emoderivati in questione era ottenuta da donatori mercenari presso le cosiddette
banche del sangue negli USA, nel Centro America ed in paesi del Centro Africa,
ove erano presenti i soggetti a rischio per le infezioni da HBS (epatite B),
HCV (epatite C) ed HIV;
c. quasi 900 sono stati, secondo i dati in possesso dell'Istituto superiore
e del Ministero della sanità, gli emofilici ed i politrasfusi risultati
sieropositivi (da HIV), senza contare quelli affetti dalle varie forme di
epatiti virali; gravissimi ed incalcolabili i danni all'integrità psico-fisica
ed alla vita di relazione di questi soggetti;
d. il Ministero della sanità, che negli anni dal 1974 al 1995 si presentava
quale produttore, acquirente e distributore del sangue, aveva l'obbligo di
operare per soddisfare il fabbisogno quantitativo del sangue e dei suoi derivati
ma il regolamento di esecuzione della legge n. 592 del 14.7.1967, che prevedeva
l'emanazione di norme per la raccolta del sangue, preparazione degli emoderivati,
distribuzione e vigilanza, fu pubblicato solo nel 1972 e seguito da provvedimenti
di scarsa utilità e privi delle necessarie risorse finanziarie e, soprattutto,
solo nel 1994, cioè con gravissimo ritardo, fu approvato il primo piano
sangue e plasma; nonostante le pubbliche denunce che già dai primi
anni '70 provenivano dalle associazioni di malati ed esperti, lo Stato italiano
continuò ad affidarsi per il 90% al sistema dell'importazione di emoderivati
prodotti all'estero ovvero all'importazione di plasma di provenienza estera
incontrollata autorizzandone la lavorazione in Italia per la produzione degli
emoderivati, nonostante che fossero noti i rischi, evidenziati dalle statistiche,
del plasma proveniente da donatori mercenari nei paesi extracomunitari sopra
citati;
e. al Ministero della sanità la legge (v. artt. 1 della l. n. 296 del
13.3.1958; 1, 20 e 21 della l. n. 592/1967 cit.; 4, 29 e 30 della l. n. 833
del 23.12.1978; 9 della legge n. 433 del 30.10.1987) attribuisce il compito
fondamentale di provvedere, in generale, alla tutela della salute pubblica
nel campo, in particolare, della sicurezza delle trasfusioni di sangue e della
preparazione e distribuzione degli emoderivati, il cui prezzo è fissato
dallo stesso Ministero ed è corrisposto dal servizio sanitario nazionale
attraverso le regioni e, oggi, le Asl;
f. nonostante fossero noti i rischi di malattie (epatite B in particolare
e, dai primi degli anni '80, HIV) connessi all'uso di questi prodotti e nonostante
le raccomandazioni agli stati membri dal Consiglio d'Europa, le denunce di
medici ed associazioni che lo sollecitavano ad assicurare il fabbisogno nazionale
del sangue sotto il profilo quantitativo e qualitativo della sicurezza e l'urgenza
di effettuare investimenti adeguati nella promozione della donazione di sangue,
il Ministero nulla fece e solo tardivamente istituì una commissione
nazionale che elaborò un piano sangue che rimase inattuato;
g. la responsabilità del Ministero era stata già acclarata dal
tribunale di Roma nella sentenza n. 21060 del 27.11.1998, le cui motivazioni
sono state richiamate;
hanno chiesto la condanna del Ministero convenuto al risarcimento dei danni
biologici, morali e patrimoniali causati dalle infezioni di cui trattasi,
da liquidarsi in separato giudizio, oltre ed in aggiunta a quanto eventualmente
percepito ai sensi delle leggi nn. 210 del 1992 e 238 del 1997 ed oltre alla
liquidazione di una somma a titolo di provvisionale nella misura di almeno
400 milioni per i malati viventi e 600 milioni per quelli deceduti; nel caso
subordinato in cui il tribunale ritenesse satisfattivo l'indennizzo riconosciuto
o da riconoscere ai sensi delle citate leggi, hanno chiesto di sollevare la
questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 l. n. 210,
come modificati dall'art. 1 l. n. 238, con riferimento agli artt. 2, 3, 32
e 97 Cost. e per contrasto con i principi di ragionevolezza e solidarietà
propri della nostra carta costituzionale, nelle parti in cui viene prevista
una indennità del tutto iniqua rispetto alla gravità dei danni,
per di più parametrata con riferimento a criteri inadeguati (stabiliti
per la liquidazione delle indennità civili e militari e per i dipendenti
statali nella tabella B allegata alla legge n. 177/1976, come modificata dall'art.
8 della legge n. 111/1984) ed a fattispecie del tutto diverse rispetto a quella
per cui è causa, nonché nella parte in cui è esclusa
la retroattività integrale, persino quella ridotta del 30% fissata
dalla legge del 1997 ed anche il pagamento della rivalutazione e degli interessi;
nonché ancora nella parte in cui è fissato ai danneggiati un
termine per la presentazione della domanda di indennizzo.
Nel corso del processo sono intervenuti numerosi soggetti (128, di cui alcuni
in qualità di eredi, anche di attori deceduti, ed 1 in rappresentanza
tutoria), indicati in epigrafe e tutti nella medesima situazione degli attori,
che hanno proposto identica azione risarcitoria.
Il Ministero della sanità si è costituito, proponendo le seguenti
difese: eccezione di incompetenza territoriale, ai sensi dell'art. 25 c.p.c.;
di prescrizione; di inammissibilità, ai sensi dell'art. 103 c.p.c.,
del litisconsorzio originario e di quello successivo provocato dagli atti
di intervento, dei quali ha eccepito l'inammissibilità anche ai sensi
dell'art. 105 c.p.c., trattandosi di domande prive di connessione oggettiva,
aventi ad oggetto pretese risarcitorie autonome e riferite a situazioni diverse
con riguardo alle date, alle modalità delle infezioni ed all'eventuale
responsabilità dei sanitari, oltre che inidonee a qualificare l'intervento
come principale ovvero ad adiuvandum; il proprio difetto di legittimazione
passiva, che spetterebbe alle regioni ed agli organi infraregionali, i quali
non sarebbero legati all'amministrazione centrale da alcun rapporto di dipendenza;
l'infondatezza delle domande nel merito e l'assenza di responsabilità
del Ministero, la cui attività di programmazione, indirizzo e coordinamento
in materia, anzi, sarebbe stata sempre completa, tempestiva ed allineata al
progredire della scienza medica, come dimostra la cronistoria dei provvedimenti
(circolari, decreti, pareri ecc.) emessi, a partire dal 1983, al fine di contrastare
il pericolo delle infezioni virali connesse all'uso del sangue e dei farmaci
emoderivati; nessuna responsabilità, in ogni caso, potrebbe configurarsi
per le infezioni contratte in anni precedenti a quelli in cui, per ciascuna
di esse, la scienza medica aveva isolato i virus ed individuato le tecniche
di rilevazione e di inattivazione (e cioè 1978 per l'epatite B, 1985/86
per l'HIV e 1989/90 per l'epatite C); la mancanza del nesso di causalità
tra l'asserita condotta omissiva e gli eventi dannosi; l'infondatezza della
domanda anche sotto il profilo della sua incompatibilità con la normativa
statale che già prevedeva un indennizzo per i soggetti che avevano
subito danni in conseguenza di attività lecita posta in essere nell'interesse
generale della collettività; l'insussistenza del diritto ai danni morali,
mancando gli estremi di un reato.
La causa, istruita mediante produzioni documentali, all'esito della discussione
orale, è stata trattenuta in decisione all'udienza del 4.4.2001.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) La competenza territoriale.
Il Ministero ha eccepito l'incompetenza territoriale del giudice adito ai
sensi dell'art. 25 c.p.c., essendo invece, a suo avviso, competenti i giudici
dei luoghi ove le infezioni sono state singolarmente contratte (forum delicti)
ovvero ove i singoli danneggiati hanno il domicilio, in quanto lì,
secondo le norme della contabilità pubblica (v. art. 54 r.d. n. 2440
del 1923), dovrebbe avvenire il pagamento da parte dell'amministrazione (forum
destinatae solutionis).
L'eccezione è però incompleta e, quindi, deve considerarsi come
non proposta (art. 38, co. 2, c.p.c.), non essendo stati indicati i giudici
ritenuti competenti in relazione alle domande risarcitorie promosse da ciascun
danneggiato.
Né è condivisibile l'affermazione del Ministero secondo cui
si tratterebbe di competenza inderogabile e rilevabile d'ufficio in qualunque
stato e grado del processo, ai sensi dell'art. 9 r.d. 30.10.1933, n. 1611.
A prescindere dal rilievo che dalla documentazione sanitaria allegata molto
spesso non risulta in quale luogo la trasfusione o la somministrazione di
emoderivati sia avvenuta (luogo che, del resto, non si deve confondere con
quello in cui sono state successivamente effettuate le analisi di rilevazione
dei virus), sicché non è possibile risalire alla precisa identificazione
di un diverso forum delicti che giustifichi la declaratoria di incompetenza
del giudice adito, è bene chiarire, come la dottrina ha già
osservato, che la rilevabilità d'ufficio dell'incompetenza territoriale
inderogabile riguardante il foro delle amministrazioni dello Stato è
ormai soggetta (dopo la novella processuale della l. n. 353 del 1990) alla
preclusione costituita dalla prima udienza di trattazione (artt . 38, co.
2, e 183 c.pc.), che riguarda del resto ogni caso di inderogabilità
prevista dalla legge (v. art. 28, ult. pt., c.p.c.) e persino l'incompetenza
per materia. Sicché la dedotta incompetenza per territorio non potrebbe
essere dichiarata d'ufficio, non essendo stata rilevata entro la prima udienza
di trattazione.
2) L'ammissibilità del litisconsorzio facoltativo originario e degli
interventi.
Il convenuto ha eccepito che, essendo i diritti vantati dalle parti originarie
istanti in via risarcitoria non comuni ma distinti ed autonomi, non ricorrerebbero
i presupposti del litisconsorzio originario e di quello successivo provocato
dai numerosi interventi in corso di causa.
L'infondatezza di questa prospettazione è stata già rilevata
in una fattispecie analoga a quella in esame (si trattava di una domanda risarcitoria
promossa, in via di azione e di intervento, contro il Ministero della sanità
da soggetti che, essendo affetti da patologie emorragiche, contrassero infezioni
virali a seguito di trasfusioni di sangue o della somministrazione di emoderivati)
dalla Corte d'appello di Roma (che, su questo punto, ha confermato la già
citata sentenza del Tribunale di Roma del 27.11.1998), la quale ha osservato
che "alla stregua della menzionata disposizione di rito [art.
103 c.p.c.] il litisconsorzio facoltativo è ammissibile non soltanto,
in senso proprio, nel caso di cause connesse, ma pure, nel senso c.d. improprio,
allorché la pluralità di cause imputabili ai diversi soggetti
agenti presenti in comune la risoluzione di identiche questioni, fattispecie
quest'ultima ricorrente nel caso in esame in cui la suddetta comunanza è
rappresentata dalla risoluzione delle questioni della risarcibilità
del danno da emotrasfusioni
e della sussistenza o meno al riguardo
della responsabilità aquiliana del Ministero, ragioni che correttamente
hanno indotto il primo giudice
alla trattazione unitaria della cause"
(App. Roma cit., 4.10.2000, p. 28-29).
L'ammissibilità degli interventi, contestata dal convenuto con riferimento
all'art. 105 c.p.c., è stata ugualmente affermata dal tribunale di
Roma il quale (nella stessa sentenza poc'anzi citata) ha osservato che gli
stessi "non possono ritenersi
come proposti né in via
principale (art. 105, co.1, c.p.c.) né ad adiuvandum (art. 105, co.
2, c.p.c.)
infatti, i soggetti intervenuti hanno fatto valere nei confronti
della originaria ed unica parte convenuta un diritto relativo all'oggetto
e/o dipendente dal titolo dedotto nel processo. In altre parole gli intervenuti
costituitisi successivamente nel corso del giudizio hanno inteso far valere
un loro diritto autonomo ma connesso a quello azionato dalle parti attrici
sotto il profilo sia dell'oggetto (accertamento della responsabilità
della convenuta pubblica amministrazione e consequenziali statuizioni), che
della medesima causa pretendi (fatto illecito omissivo-commissivo ascrivibile,
secondo la prospettazione attorea, al ministero). In conclusione, quelli effettuati
in corso di causa devono più esattamente qualificarsi come interventi
adesivi autonomi o litisconsortili, interventi tipici dei soggetti terzi rispetto
all'originario rapporto processuale" e che, come ha osservato la
corte d'appello (che, su questo punto, ha confermato la sentenza di primo
grado), "ben avrebbero potuto fin dall'inizio agire ex art. 103 c.p.c.
nello stesso processo attesa la dipendenza della decisione da identiche questioni.
Neppure - prosegue la sentenza - al riguardo può essere condivisa
l'argomentazione del suddetto Ministero, secondo cui in relazione ai detti
interventi sarebbe stata necessaria l'accettazione del contraddittorio da
essa amministrazione, originaria convenuta, attesoché la qualità
di parte legittimata ad causam si acquista per effetto dell'intervento e non
già per effetto del consenso di quella nei confronti della quale l'intervento
è fatto valere" (v. App. Roma cit., p. 29).
Né, del resto, l'inammissibilità potrebbe essere argomentata
sulla base dell'opinione, invero minoritaria, secondo cui il sistema di preclusioni
semirigido, qual è quello introdotto dal legislatore degli anni '90,
abbia inciso anche sul regime dell'intervento in causa, nel senso che l'art.
268, co. 1, c.p.c. (il quale ammette l'intervento sino a che non vengano precisate
le conclusioni) riguarderebbe soltanto il cosiddetto intervento adesivo dipendente,
che è quello con il quale non viene fatto valere un diritto proprio
ma si vogliono sostenere le ragioni di una delle parti del processo (il terzo,
in tal caso, non proponendo una domanda autonoma, potrebbe intervenire sino
all'udienza di precisazione delle conclusioni e subirebbe soltanto le limitazioni
alla propria attività processuale previste nell'art. 268, co. 2, c.p.c.),
mentre gli altri interventi, adesivo autonomo (o litisconsortile) ovvero principale,
concretandosi nella formulazione di domande nuove rispetto a quelle introdotte
dalle parti originarie, incorrerebbero nelle preclusioni operanti nei confronti
delle parti originarie, con la conseguenza che, se l'interesse del terzo sorge
dalla domanda attrice, egli dovrebbe intervenire (e proporre le domande) nel
termine fissato dagli artt. 166 e 167 c.p.c. per la costituzione del convenuto
(o quanto meno nei venti giorni prima della prima udienza di trattazione ex
art. 183 c.p.c.), analogamente a quanto è disposto nel rito del lavoro
dall'art. 419 c.p.c..
Tuttavia, come già ritenuto da questo tribunale (v. sent. 21.1.2000,
in Foro it., 2000, 2045), a differenza di quanto stabilito nel rito del lavoro,
l'art. 268 c.p.c. non prevede affatto che l'intervento debba avvenire entro
il termine previsto per la costituzione del convenuto (ovvero nei venti giorni
precedenti l'udienza di trattazione) ma, al contrario, ammette l'intervento
di terzi, senza alcuna distinzione, fino al momento della precisazione delle
conclusioni ed anche la Cassazione (v. sent. n. 4771/1999) ha ritenuto che,
tranne quella istruttoria sancita dall'art. 268, co. 2, c.p.c., nessuna preclusione,
specie quella assertiva (che è ritenuta coessenziale all'intervento
principale e litisconsortile), può dirsi operante nei confronti dell'interventore,
verso il quale non vale infatti il divieto, che vincola le parti originarie,
di proporre domande nuove.
Il convenuto ha eccepito la prescrizione del diritto al risarcimento
dei danni, risalendo i fatti contestatigli agli anni '80 ed essendo, quindi,
decorso il termine di cinque anni (art. 2947 c.c.) con riferimento alla data
di introduzione del presente giudizio.
Si deve premettere, come già rilevato dalla Corte d'appello nella più
volte citata sentenza, che il termine di prescrizione è di dieci anni,
in considerazione della rilevanza penalistica del comportamento del Ministero
nella diffusione delle infezioni virali in questione, essendo configurabili
astrattamente i reati dell'epidemia colposa ovvero dell'omicidio colposo o
delle lesioni colpose plurime (artt. 2947, co. 3, c.c. e 157, n. 3, c.p.).
Inoltre, è importante sottolineare che il giorno della verificazione
del fatto illecito quale dies a quo della prescrizione del diritto al risarcimento
del danno ex art. 2947 cc. deve essere identificato con quello in cui la condotta
illecita abbia inciso nella sfera giuridica del danneggiato con effetti esteriorizzati
e conoscibili dal medesimo, nel senso che la persona abbia avuto reale e concreta
consapevolezza dell'esistenza e gravità del danno (v. App. Roma cit.
e, tra le tante, Cass. n. 8845/1995).
L'acquisizione delle malattie virali in questione da parte di attori ed intervenuti
(e di coloro che sono deceduti) non è contestata dal Ministero e risulta
(tranne che in pochissimi casi) dalle certificazioni effettuate (successivamente
al 1992), ai fini del riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla legge
n. 210/1992 e succ. mod., dalle commissioni mediche ospedaliere o da altri
organismi sanitari (quali, ad esempio, i servizi di assistenza emofilici presso
presidi ospedalieri), ove è affermato anche il nesso causale tra le
trasfusioni o la somministrazione di emoderivati ed il contagio dell'infezione.
Come ritenuto in modo condivisibile dalla Corte d'appello, le suddette certificazioni
hanno consentito alle persone di conoscere l'esistenza della malattia e la
loro rapportabilità causale alle trasfusioni ovvero agli emoderivati,
sicché è ad esse che si deve fare riferimento ai fini della
decorrenza del dies a quo della prescrizione, la quale quindi non si
è compiuta. Occorre precisare che ad alcune delle suddette certificazioni
sono allegate schede informative ove sono indicati i periodi, anche molto
lunghi, in cui sono avvenute le trasfusioni ovvero sono stati somministrati
gli emoderivati. Tuttavia, nessun rilievo è possibile attribuire a
queste indicazioni temporali ai fini della decorrenza della prescrizione in
mancanza di qualsiasi elemento di prova (che avrebbe dovuto essere fornito
dal Ministero, il quale, del resto, nulla al riguardo ha specificamente allegato)
in ordine alla conoscenza che la persona aveva del contagio e della gravità
della malattia nel momento in cui era sottoposto alle pratiche trasfusionali.
Ugualmente, non può attribuirsi valore ai riferimenti indiretti, a
volte contenuti nelle schede sopra menzionate, alle date in cui sarebbero
state effettuate le diagnosi ovvero rilevate sierologicamente alcune patologie
virali: a prescindere dall'imprecisione di queste indicazioni (ad esempio,
nei casi di XXX, si legge: "rilevamento sieorologico HIV" nel 1983
o 1984, cioè in anni in cui l'HIV non era rilevabile dal sangue), non
si può presumere che in quelle date la persona abbia avuto piena conoscenza
dei risultati di quelle stesse diagnosi (delle quali, è importante
sottolineare, non è stata prodotta documentazione redatta all'epoca)
e, soprattutto, della gravità dell'infezione e delle sue conseguenze.
Si consideri che l'HIV è molto spesso asintomatico (e solo negli ultimi
anni sono state introdotte terapie farmacologiche) sino al manifestarsi dell'Aids
conclamato, sicché l'effettiva consapevolezza dell'evento dannoso nelle
sue reali componenti, ai fini della decorrenza della prescrizione, non può,
in mancanza di qualsiasi attività assertiva e probatoria del Ministero
che l'ha eccepita, semplicisticamente individuarsi nella data di rilevazione
sierologia del virus. Né, del resto, potrebbe obiettarsi che la domanda
risarcitoria di attori ed intervenuti riguarderebbe soltanto i danni alla
salute causati dallo stato di sieropositività per HIV, essendo la domanda
chiaramente rivolta al risarcimento di tutti i danni conseguenti al contagio,
ivi compresi quelli, che saranno accertati in separato giudizio, connessi
all'Aids conclamato.
Quanto a coloro (es.: XXX) per i quali non si rinviene in atti la certificazione
sanitaria, si osserva che, non avendo il Ministero contestato l'esistenza
delle malattie virali di cui trattasi e la loro rapportabilità ad eventi
trasfusionali in senso lato né avendo allegato (e dimostrato) alcunché
riguardo all'epoca in cui costoro avrebbero avuto consapevolezza delle malattie,
l'eccezione di prescrizione si deve ritenere ugualmente infondata.
4) La qualificazione della domanda.
Attori e convenuti hanno richiamato a sostegno dell'affermata responsabilità
del Ministero convenuto gli artt. 2043, 2049 e 2050 c.c..
Come già ritenuto dalla Corte d'appello, tra gli enti (unità
sanitarie locali, ospedali ecc., tutti dotati di autonoma personalità
giuridica) che hanno provveduto all'effettiva somministrazione degli emoderivati
nell'ambito del servizio sanitario nazionale ed il Ministero, non sussiste
un rapporto di dipendenza ovvero di committenza che possa giustificare l'applicazione
dell'art. 2049 c.c., sicché improprio è il richiamo alla suddetta
disposizione.
Ugualmente improprio è il fugace riferimento all'art. 2050 c.c.: attività
pericolosa non è quella del Ministero che, come si vedrà, esercita
la vigilanza in materia sanitaria e di uso dei derivati del sangue, ma semmai
quella dei soggetti direttamente coinvolti nella produzione e commercializzazione
dei prodotti (ne è esempio l'affermazione della responsabilità
delle imprese farmaceutiche, ai sensi dell'art. 2050 c.c., nella vicenda riguardante
la produzione ed immissione in commercio di farmaci destinati all'inoculazione
nell'organismo umano umane e contenenti immunoglobuline infette dal virus
dell'epatite B: v., tra le altre, Cass. 20.7.1993, n. 8069; 27.1.1997, n.
814). E' vero che al Ministero spetta di fissare il prezzo di cessione delle
unità di sangue tra i servizi sanitari in modo uniforme su tutto il
territorio nazionale (v. art. 1, co. 6, l. 4.5.1990, n. 107) e di autorizzare
l'importazione ed esportazione del sangue e dei suoi derivati, tuttavia si
tratta di poteri-doveri complementari a quello di vigilanza e funzionali alla
regolazione ed organizzazione generale di un settore di primaria rilevanza
pubblica. La pericolosità della pratica terapeutica della trasfusione
di sangue e dell'uso di emoderivati (riconosciuta nell'art. 19 del d.m. sanità
15.1.1991 come "non esente da rischi"), così come
della produzione e commercializzazione dei prodotti in questione, non rende
ovviamente pericolosa l'attività ministeriale la cui funzione è
proprio quella di controllare e vigilare a tutela della salute pubblica.
La domanda dev'essere, pertanto, qualificata ai sensi dell'art. 2043 c.c.,
come implicitamente si deduce dalla dedotta responsabilità del Ministero
per avere, in violazione del principio del neminem laedere e, quindi,
colposamente, omesso di vigilare sulla sicurezza del sangue e degli emoderivati.
Se è vero che, in caso di danno prodotto dal comportamento non provvedimentale
della p.a., l'elemento soggettivo del dolo o della colpa si risolve "nella
violazione - la quale si traduce nella lesione dei diritti soggettivi dei
terzi all'integrità psico-fisica - delle regole di comune prudenza
ovvero di leggi e regolamenti alla cui osservanza la p.a. è
vincolata" (v. Cass. 6.4.1998, n. 3553), è necessario individuare
le fonti normative che consentano di affermare l'esistenza di obblighi comportamentali
connessi alle funzioni pubbliche assegnate al Ministero della sanità.
5) La legittimazione passiva del Ministero della sanità.
E' così introdotto il tema della legittimazione passiva del Ministero,
secondo il quale la legittimazione spetterebbe ad altri soggetti pubblici
operanti nel settore sanitario (regioni, unità sanitarie locali, operatori
sanitari ecc.). L'eccezione non è fondata.
Il tribunale e la corte di appello, nelle sentenze già citate, hanno
già rilevato che l'eventuale concorso di responsabilità in capo
ad altri soggetti non esclude la possibilità per i danneggiati di promuovere
azione (ai sensi dell'art. 2055 c.c.) nei confronti di uno solo dei condebitori
corresponsabili (cioè, nel specie, del Ministero della sanità)
e che la causa petendi è qui dedotta con riferimento al comportamento
omissivo del suddetto Ministero per colposa inosservanza dei suoi doveri istituzionali
(oltre che di programmazione, indirizzo e coordinamento) di sorveglianza e
vigilanza in materia sanitaria e, in particolare, nella produzione, commercializzazione
e distribuzione dei derivati del sangue, a prescindere da ulteriori eventuali
responsabilità di altri soggetti nell'attività di effettiva
distribuzione e somministrazione.
La fonte normativa che integra la norma primaria del neminem laedere,
da cui ricavare l'esistenza di siffatti doveri in capo al Ministero della
sanità, è costituita dall'art. 1 l. 13.3.1958, n. 296, che gli
attribuisce "il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica",
di "sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni
autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provvedendo anche al coordinamento
;
emanare, per la tutela della salute pubblica, istruzioni obbligatorie per
tutte le amministrazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari
".
Si tratta di doveri che, già enucleabili dall'ampia disposizione in
questione (oltre che dalla stessa attività normativa svolta dal Ministero
in questo campo), sono confermati da altre fonti normative ed è opportuno
richiamarne alcune, seppur sommariamente ed in ordine cronologico:
a. la legge 14.7.1967, n. 592, attribuisce al Ministero il compito di emanare
"le direttive tecniche per la organizzazione, il funzionamento ed
il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione
e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale nonché alla
preparazione dei suoi derivati e ne esercita la vigilanza" (art.
1), di nominare la commissione provinciale per la disciplina dei servizi di
trasfusione (art. 3), di autorizzare il funzionamento dei centri (regionali
o infraregionali) di produzione degli emoderivati e la stessa produzione e
distribuzione degli emoderivati (artt. 4-7), di autorizzare le "officine
farmaceutiche" (v. art. 13 che richiama il r.d. 27.7.1933, n. 1265,
il cui art. 161 significativamente attribuiva al Ministero dell'interno penetranti
poteri ispettivi nelle officine; v. art. 24 del r.d. 3.3.1927, n. 478; l'art.
22, co. 2, l. n. 592/1967 autorizza l'autorità sanitaria a disporre
la chiusura del centro, del laboratorio o dell'officina autorizzati), di approvare
la nomina del dirigente medico-chirurgo dei centri trasfusionali e di produzione
di emoderivati (art. 11), di proporre al presidente della repubblica l'emanazione
di norme relative all'organizzazione, al funzionamento dei servizi trasfusionali,
alla raccolta, conservazione ed all'impiego dei derivati, alla determinazione
dei requisiti e dei controlli cui debbono essere sottoposti (art. 20), di
autorizzare l'importazione e l'esportazione del sangue umano e dei suoi derivati
per uso terapeutico (art. 21); b)
b. il d.p.r. 24.8.1971, n. 1256 (regolamento di attuazione della legge n.
592/1967) contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione
di controllo e vigilanza in materia (v. artt. 2, 3, 103, 112);
c. il d.m. sanità 17.2.1972 contiene norme che regolano l'attività
del Centro nazionale per la trasfusione del sangue, prevedendo tra l'altro
che il Ministero della sanità sia costantemente informato delle attività
del Centro;
d. il d.m. sanità 15.9.1972 disciplina l'importazione ed esportazione
del sangue e suoi derivati, prevedendo l'autorizzazione ministeriale (almeno
nel caso di provenienza da paesi nei quali non vi sia una normativa idonea
a garantire la sussistenza dei requisiti minimi di sicurezza) agli ospedali
ed ai centri gestori per la produzione di emoderivati ed alle officine farmaceutiche
che siano risultati idonei ad eseguire i controlli sui prodotti importati
previo accertamento dell'Istituto superiore di sanità (il quale è
alle dipendenze del Ministero della sanità: v. artt. 3 l. n. 296/1958
e 9 l. n. 833/1978) (artt. 1, 5, 6); nei casi di necessità ed urgenza
è previsto che il Ministero possa procedere direttamente all'importazione
del sangue e dei derivati ed alla successiva distribuzione tramite il Centro
nazionale per la trasfusione ed i centri per la produzione degli emoderivati
(art. 2);
e. la l. 7.8.1973, n. 519, attribuisce all'Istituto superiore di sanità
compiti attivi (accertamenti ispettivi con facoltà di accesso agli
impianti produttivi ed ai presidi e servizi sanitari per compiere le indagini
di natura igienico-sanitaria, i controlli analitici, gli esami ecc.: v. art.
9 l. n. 833/1978 cit.) a tutela della salute pubblica;
f. pur dopo l'inizio del passaggio alle regioni di alcune funzioni statali
in materia sanitaria ai sensi dell'art. 117 Cost. (v. d.p.r. 14.1.1972, n.
4; l. 29.6.1977, n. 349; d.p.r. 24.7.1977, n. 616), la legge 23.12.1978, n.
833 (che ha istituito il s.s.n.) conserva al Ministero della sanità
(il quale si avvale, come s'è detto, dell'Istituto superiore di sanità),
oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale
(art. 53 ss.) e a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività
amministrative regionali delegate in materia sanitaria (tra cui quella riguardante
la profilassi delle malattie infettive: v. art. 7, lett. a, che richiama l'art.
6, lett. b) anche con poteri sostitutivi (v. art. 5, co. 4), importanti funzioni
in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici
e degli emoderivati (v. art. 6, lett. b, c; l'art. 4, n. 6, conferma che la
raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono
materia di interesse nazionale); è significativo che l'art. 32 attribuisca
all'amministrazione centrale il potere di emettere ordinanze di carattere
contingibile ed urgente in materia di sanità pubblica;
g. il d.l. 30.10.1987, n. 443 (conv. in l. 29.12.1987, n. 531), stabilisce
la sottoposizione dei medicinali alla c.d. "farmacovigilanza"
da parte del Ministero della sanità il quale si avvale dell'Istituto
superiore di sanità e delle stesse unità sanitarie locali (art.
9, co. 1, 6), le quali hanno un obbligo di informazione nei confronti del
Ministero che, a sua volta, può stabilire le modalità di esecuzione
dei monitoraggi sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelativi
riguardanti i prodotti in commercio (co. 2, 7, 8);
h. l'importante legge n. 107/1990 cit. (contenente la disciplina per le attività
trasfusionali e la produzione di emoderivati) stabilisce che il prezzo di
cessione delle unità di sangue è fissato annualmente dal Ministero
della sanità (art. 1, co. 6), il quale (sentita la Commissione nazionale
per il servizio trasfusionale che è nominata dallo stesso Ministero:
v. art. 12) emette protocolli riguardanti le modalità delle donazioni,
l'accertamento dell'idoneità dei donatori, l'organizzazione delle attività
(mediante strutture sia nazionali che regionali coordinate dal Ministero:
v. art. 8, co. 2, lett. c, h, co. 4); all'Istituto superiore, inoltre, è
attribuito il compito di provvedere alla prevenzione delle malattie trasmissibili,
di ispezionare e controllare le aziende di produzione di emoderivati e le
specialità farmaceutiche emoderivate (v. art. 9, lett. a, d, e; l'art.
10, co.1, chiarisce che le frazioni plasmatiche che non possono essere prodotte
con mezzi fisici semplici sono specialità farmaceutiche di produzione
industriale soggette ai controlli dell'autorità sanitaria "da
espletarsi sugli impianti produttivi delle aziende previamente autorizzate,
sul plasma di origine e sulla produzione finale"), di vigilare sulla
qualità dei plasmaderivati prodotti in centri individuati ed autorizzati
dal Ministero (art. 10, co. 2); l'art. 15 stabilisce che l'importazione del
sangue umano conservato e dei suoi derivati sono autorizzate dal Ministero
della sanità, che l'importazione di emoderivati pronti per l'impiego
è consentita a condizione che (fatta eccezione per quelli di provenienza
da paesi europei) risultino autorizzati anche da parte dell'autorità
sanitaria italiana e comunque "a condizione che su tutti i lotti e
sui relativi donatori sia possibile documentare la negatività dei controlli
per la ricerca di antigeni ed anticorpi di agenti infettivi lesivi della salute
del paziente ricevente"; l'art. 17 prevede sanzioni penali nei confronti
delle persone e delle strutture trasfusionali che violino le norme in materia
(cfr. art. 11 d.lgs. 18.2.1997, n. 44); il Ministero della sanità deve
presentare annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di attuazione
della legge (art. 22);
i. il d. lgs. 29.5.1991, n. 178, disciplina, tra l'altro, le modalità
di rilascio e revoca dell'autorizzazione ministeriale alla produzione, importazione
ed immissione in commercio delle specialità medicinali, con incisivi
poteri ispettivi e di vigilanza del Ministero (v. artt. 3, 7, 14);
j. il d.m. sanità 12.6.1991 disciplina l'autorizzazione ministeriale
all'importazione di sangue e plasmaderivati, stabilendo che essa può
avvenire "dopo aver accertato l'origine del sangue o del plasma e
dopo aver acquisito da parte delle autorità sanitarie e dei produttori
dei Paesi importatori le garanzie necessarie e i dettagli delle metodiche
utilizzate per assicurare la protezione dei donatori e dei riceventi"
(art. 1, co. 2) e "a condizione che il richiedente sia in grado di
eseguire sul prodotto importato i controlli previsti dalla Farmacopea ufficiale
e possa assicurare in qualsiasi momento e per qualsiasi evenienza la
documentazione relativa alla selezione dei donatori" (co. 3); "i
requisiti cui debbono corrispondere le importazioni di plasma e di plasmaderivati
sono fissati
su proposta del Consiglio superiore di sanità
tenendo conto delle acquisizioni scientifiche in materia e della esigenza
di realizzare l'autosufficienza nazionale del sangue" (co. 4); "nei
casi di necessità ed urgenza
il Ministero della sanità
può procedere direttamente all'importazione dei prodotti
e alla
successiva distribuzione tramite i centri regionali di coordinamento e compensazione
" (art. 2);
k. il d. lgs. 30.12.1992, n. 502, integrata e modificata da leggi successive,
che ha riordinato la normativa in materia sanitaria ampliando le competenze
delle regioni, ha conservato al Ministero della sanità poteri di ingerenza
e sostitutivi (v. art. 2, co. 2, sexies lett. e, octies);
l. in tempi recenti, il d.lgs. 30.6.1993, n. 266 ha conservato al Ministero
della sanità compiti in materia di sanità pubblica e "vigilanza"
sulle specialità medicinali (art. 1, lett. c, d) (l'art. 4 del regolamento
di attuazione approvato con d.p.r. 2.2.1994, n. 196, mod. dal d.p.r. 1.8.1996,
n. 518, individua nel dipartimento del Ministero per la valutazione dei medicinali
e la farmacovigilanza quello cui è attribuito il compito attinente
ai farmaci con particolare riguardo alla vigilanza sulla conformità
delle specialità medicinali alle norme nazionali e comunitarie, prevede
che il suddetto dipartimento "si avvale" per questo compito delle
regioni, unità sanitarie locali, aziende ospedaliere ecc., oltre che
di un servizio di vigilanza sugli enti, tra cui la Croce rossa italiana);
in base al nuovo ordinamento delineato dal d. lgs. 30.6.1993, n. 267, l'Istituto
superiore di sanità svolge funzioni di controllo (ad es., sui farmaci
e vaccini, provvede all'accertamento dell'innocuità dei prodotti farmaceutici
ecc. e si è detto che gli emoderivati sono "specialità
medicinali"), oltre che di ricerca e sperimentazione per quanto concerne
la salute pubblica; il d. lgs. n. 44/1997 cit. stabilisce, tra l'altro, che
il sistema nazionale della farmacovigilanza fa capo al Ministero della sanità
(art. 2); il d. lgs. 27.12.1997, n. 449, ribadisce il compito di vigilanza
del Ministero sull'attuazione del Piano sanitario nazionale e sull'attività
gestionale delle aziende unità sanitarie locali ed ospedaliere (art.
32, co. 11); il d.lgs. 31.3.1998, n. 112, che ha operato il conferimento alle
regioni della generalità delle attribuzioni statali in materia di salute
umana, ha lasciato invariato il riparto di competenze in materia di sangue
umano e suoi componenti, di produzione di plasmaderivati e farmacovigilanza
(artt. 115, 116).
Ne risulta, in conclusione, confermato in capo al Ministero della sanità
il dovere, che è strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento
in materia sanitaria, di vigilanza nella preparazione ed utilizzazione dei
prodotti derivati dal sangue da destinare al consumo umano, al quale corrisponde
un dovere aggravato di diligenza nell'impiego delle cure ed attenzioni necessarie
alla verifica della sua sicurezza.
6) L'ammissibilità della domanda.
Il Ministero convenuto l'ha infondatamente contestata sul presupposto della
vigenza di una disciplina specifica che prevede a carico dello Stato il pagamento
di un indennizzo destinato a coprire parte dei danni derivanti da vaccinazioni
obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.
Si tratta di una normativa (v. legge n. 210 del 25.2.1992, mod. dalla legge
n. 237 del 25.7.1997) che ha introdotto un sistema di sicurezza sociale con
la finalità solidaristica (artt. 2 e 32 Cost.) di soccorrere quanti
abbiano subito danni in conseguenza di un'attività di cura promossa
dallo Stato per la tutela della salute pubblica, esonerando la parte dall'accidentato
percorso dell'azione di responsabilità civile ex art. 2043 c.c..
L'ammissibilità del concorso delle due forme di tutela (per ulteriori
profili vedi il par. 11) è stata ammessa dalla Corte costituzionale
(v. sent. n. 307/1990, 118/1996, 27/1998) e dalla giurisprudenza di merito
(oltre al precedente specifico costituito dalla citata sentenza del Tribunale
di Roma sul punto confermata in secondo grado, v. App. Milano, 22.10.1996,
in Danno e resp., 1997, 734).
La questione di legittimità costituzionale dedotta dagli attori nell'ipotesi
di ritenuta inammissibilità dell'azione risarcitoria è, pertanto,
superata.
7) Il nesso causale tra trasfusioni o somministrazione di emoderivati e
contagio.
Attori ed intervenuti assumono di aver contratto le infezioni virali in occasione
di pratiche trasfusionali (espressione questa da intendersi in senso generico)
alle quali sono stati costretti dallo stato di emofilia in cui essi versavano.
Dalla documentazione sanitaria prodotta in giudizio risulta, infatti, che
si tratta di soggetti prevalentemente emofilici, per i quali la terapia è
normalmente costituita dalla somministrazione di emoderivati, ovvero affetti
da altre patologie emorragiche (come la talassemia: è il caso, ad esempio,
di XXX; la leucemia: è il caso, ad esempio, di XXX; il morbo di Von
Willebrand ecc.) curate con periodiche trasfusioni di sangue o suoi componenti.
Come già ritenuto dalla Corte di appello di Roma, il nesso causale
si evince dalla documentazione sanitaria prodotta in giudizio e, quanto a
coloro per i quali essa manca (vedi par. n. 3), dal comportamento processuale
del Ministero che non l'ha specificamente contestato. Ciò è
sufficiente ai fini della richiesta pronuncia di condanna generica al risarcimento
dei danni, il cui contenuto di mera declaratoria iuris postula quale
presupposto necessario e sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente
produttivo di conseguenze dannose (restando impregiudicato l'accertamento,
riservato al giudice della liquidazione, dell'esistenza ed entità del
danno nonché del nesso di causalità tra questo e l'illecito)
ed alla quale pronuncia è di ostacolo solo la prova positiva e concreta,
che qui manca, dell'insussistenza del danno e del rapporto di causalità
(v. Cass. n. 4511/1997). Quanto a XXX, il nesso causale può essere
riconosciuto, essendo verosimile che la causa dell'infezione sia stata il
contatto con il coniuge XXX (emofilico ed emotrasfuso) del quale è
stata prodotta la documentazione sanitaria (è significativo, sul punto,
che la legge n. 210/1992 riconosca l'indennizzo anche al coniuge del soggetto
danneggiato: v. art. 2, co. 3).
8) Il dovere di vigilanza da parte del Ministero della sanità.
Sostiene l'Avvocatura dello Stato che, avendo il Ministero provveduto ad emanare
nel tempo, parallelamente alle acquisizioni della scienza medica, numerosi
provvedimenti (circolari, decreti, pareri ecc.), tutti citati (v. comparsa
di costituzione e conclusionale) e molti dei quali prodotti in giudizio, con
cui furono imposte ai diversi soggetti interessati (unità sanitarie
locali, regioni, aziende farmaceutiche ecc.) raccomandazioni e precauzioni
al fine di rendere sicuro l'uso del sangue e degli emoderivati (tra cui i
concentrati di fattori VII, VIII e IX che, ottenuti dal plasma dopo separazione,
concentrazione e purificazione, sono usati nella profilassi e nel trattamento
delle emorragie nei soggetti con emofilia A e B) e di contrastare il pericolo
di infezioni virali nei soggetti riceventi, nessuna responsabilità
gli sarebbe imputabile, avendo esso così assolto ai suoi doveri istituzionali.
L'assunto è infondato. Al Ministero, infatti, non è contestata
l'omissione normativa, cioè di aver omesso di emanare provvedimenti
nella materia in esame ma di averli emanati in ritardo (ad esempio, è
significativo, come si dirà, il ritardo nell'attuazione del c.d. piano
sangue), con contenuti inadeguati e di non aver vigilato sulla puntuale esecuzione
degli stessi e, soprattutto, di non aver effettuato controlli effettivi sulla
sicurezza del plasma importato dall'estero ovvero del sangue raccolto senza
controllo sulla qualità dei donatori, sui canali di approvvigionamento
e distribuzione (per il tramite delle case farmaceutiche, degli ospedali ecc.),
sulle modalità e le cautele concretamente seguite nella preparazione
dei prodotti (nel telegramma inviato il 5.8.1985 alle ditte farmaceutiche
il Ministero impose l'impiego del termotrattamento nella produzione degli
emoderivati, annunciando, in caso di non ottemperanza, l'adozione di opportuni
provvedimenti, il che è significativo dei poteri che la stessa amministrazione
sapeva di possedere).
Il tribunale di Roma in analoga vicenda (e la sentenza, sul punto, è
stata confermata in secondo grado) ha affermato la responsabilità del
Ministero sull'implicito presupposto che su di esso incombeva il dovere (enucleabile
dal complesso normativo sopra richiamato) di vigilare in materia, al quale
è coessenziale quello di attivarsi operativamente allo scopo di evitare
o, quanto meno, di ridurre il rischio delle infezioni virali notoriamente
insite nella pratica terapeutica della trasfusione di sangue e dell'uso degli
emoderivati. Si tratta di un orientamento in linea con le acquisizioni più
recenti della giurisprudenza (v. Cass. n. 3132/2001, 7339/1998, 8836/1994)
la quale ha rilevato che l'omissione da parte della p.a. di qualunque iniziativa
funzionale alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce
il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) la espone a responsabilità
extracontrattuale quando dalla violazione del vincolo interno costituito dal
dovere di vigilanza nell'interesse pubblico, il quale è strumentale
ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi
dei terzi.
9) L'epoca di acquisizione delle infezioni.
La Corte d'appello nel confermare la decisione di primo grado ha precisato
che nessuna responsabilità può attribuirsi al Ministero per
le infezioni virali contratte prima che fossero acquisite "le conoscenze
scientifiche sulla certezza diagnostica delle infezioni da HIV, HBV, HCV attraverso
il controllo della sieropositività e la messa a punto dei meccanismi
immunologici atti ad impedire il contagio tramite le emotrasfusioni e l'assunzione
di emoderivati"; di conseguenza, la Corte ha individuato nel 1978
(in cui fu approntato il test diagnostico rivelatore del virus da epatite
B), nel 1985 (in cui fu approntato il test c.d. Elisa rivelatore dell'HIV)
e nel 1988 (in cui fu imposto il c.d. termotrattamento contro il rischio di
trasmissione del virus da epatite C, sebbene il test sia stato messo a punto
nel 1989) gli anni a partire dai quali sarebbe configurabile la responsabilità
del Ministero per le infezioni, rispettivamente, da epatite B, HIV ed epatite
C.
Questa impostazione presuppone che si sappia (o sia possibile sapere) quando
il contagio è avvenuto, cioè quando il virus è entrato
in contatto con l'organismo infettandolo: è solo in questo caso che
sarebbe possibile giudicare dell'eventuale responsabilità della p.a.
valutando se la stessa abbia posto in essere, anche mediante il controllo
e la vigilanza sulle strutture sanitarie aventi compiti operativi, tutte le
misure precauzionali che all'epoca erano consigliate dalla scienza al fine
di evitare o ridurre i rischi connessi alla pratica trasfusionale.
Tuttavia, com'è noto, i test diagnostici di rilevazione dell'epatite
B, C e dell'HIV non sono in grado di accertare l'epoca del contagio, sicché
il riferimento ad essi non è utile a questo scopo, essendo essi idonei
soltanto a rivelare la presenza del virus nell'organismo al tempo in cui l'esame
è effettuato.
E' evidente, inoltre, che se non si condivide lo sbarramento temporale posto
dalla Corte ovvero se questo sbarramento viene collocato in epoca più
risalente (e cioè, così anticipando le conclusioni finali, agli
inizi degli anni '70), viene meno parte dell'utilità di accertare l'epoca
in cui l'infezione è avvenuta.
Tuttavia, è opportuno esaminare il problema, dovendosi ai fini della
valutazione della colpa della p.a. fare necessario riferimento alle conoscenze
scientifiche del tempo cui si riferisce la condotta omissiva contestatale
(e cioè al periodo in cui si può presumere che sia avvenuto
il contagio) e, per altro verso, dovendosi rispondere all'obiezione della
difesa erariale (che sembrerebbe implicitamente accolta dalla Corte di appello)
secondo cui il Ministero dovrebbe essere assolto in tutti i casi in cui l'esposizione
a fattori di rischio di contagio (cioè a trasfusioni o somministrazione
di emoderivati) sia (iniziata in epoca) precedente a quegli anni (1978, 1985
e 1988).
A questo riguardo, non si può fare a meno di considerare che si tratta
di soggetti (come gli emofilici e coloro che siano affetti da altre emopatie
croniche) costretti ad assumere emoderivati o a sottoporsi a trasfusioni di
sangue intero o di suoi componenti periodicamente e per tutta la vita. Sicché,
presumere che il contagio sia avvenuto il giorno (che a volte risale ad anni
anche molto risalenti con punte sino agli anni '50) di inizio del trattamento,
il quale è poi proseguito per decenni, anche dopo gli anni di sbarramento
sopra indicati e sino agli anni '90 o prosegue tuttora, non può essere
condiviso.
Se si condivide la premessa secondo cui occorre aver riguardo alla condotta
del Ministero durante l'intero arco temporale del trattamento trasfusionale
(in senso lato), la responsabilità dell'amministrazione non può
essere negata laddove sia dimostrabile che il contagio sia avvenuto in epoca
successiva agli anni indicati dalla Corte (1978, 1985 e 1988), essendo in
questi casi ancor più grave la responsabilità per condotta omissiva
della p.a., in quanto erano già conosciuti e diffusi i metodi di rilevazione
diretta dei virus.
Ma analoga responsabilità riguarda le infezioni che dalla documentazione
sanitaria (e dallo schema riassuntivo) in atti sembrerebbero contratte prima
di quegli anni (come risulta dalle diagnosi verosimilmente effettuate, anche
in data successiva, in base ai sintomi della malattia, attesa l'inesistenza
in quei tempi di esami per la rilevazione sierologia dei virus in questione):
ci si riferisce a
XXX (HCV nel 1986), XXX (HIV nel 1983), XXX (HIV nel 1983, HCV nel 1987),
XXX (HIV nel 1984), XXX (HIV nel 1983), XXX (HIV nel 1983), XXX (HCV nel 1977),
XXX (HBV nel 1971, HIV nel 1983), XXX (HIV nel 1984), XXX (HIV nel 1984),
XXX (HCV nel 1986), XXX (HBV nel 1976), XXX (HIV nel 1984), XXX (HCV nel 1981),
XXX (HIV nel 1984), XXX (HIV nel 1984), XXX (HIV nel 1983), XXX (HIV e HCV
nel 1984), XXX (HIV nel 1983), XXX (HIV nel 1983), XXX (HCV nel 1984), XXX
(HCV nel 1986), con la precisazione che alcuni di essi sono risultati affetti
anche da altri virus.
Infatti, nonostante (nei suddetti casi) la rilevazione della malattia sia
avvenuta in date precedenti a quelle di sbarramento individuate dalla Corte,
essendo il trattamento proseguito (nel senso che la somministrazione di emoderivati
ovvero le trasfusioni sono avvenute) anche successivamente ai primi anni '70
in cui, come si vedrà, è configurabile la responsabilità
del Ministero, si deve ritenere che la condotta omissiva di quest'ultimo abbia
contribuito alla diffusione delle infezioni. La soluzione che vorrebbe addossare
ai danneggiati l'onere di fornire l'ardua prova della data in cui il virus
è entrato in contatto con l'organismo, non è condivisibile,
specie nell'ambito di un giudizio, com'è questo, avente ad oggetto
l'accertamento della generica potenzialità lesiva della condotta illecita
sulla base di un apprezzamento di probabilità o verosimiglianza: al
principio di prova offerto dai danneggiati circa l'esposizione ai rischi di
infezioni post-trasfusionali in epoca successiva ai primi anni '70 (e sino
agli anni '80-'90), il Ministero non ha contrapposto alcun elemento di prova
contrario, non avendo nemmeno dedotto l'interruzione del trattamento trasfusionale
prima di quegli anni ovvero allegato una causa diversa del contagio (è
significativo, del resto, che agli anni '70 si riferiscono le prime segnalazioni
di epatite chiamata "non A non B" che, nell'80% circa dei casi,
è causata dal virus dell'HCV e che solo nel 1981 furono segnalati i
primi casi di Aids).
E' giunto il momento di dimostrare che lo stato delle conoscenze progressivamente
raggiunte dalla scienza sin dagli anni '70 avrebbe dovuto indurre il Ministero
della sanità ad esercitare attivamente il dovere di controllare e vigilare
sulla sicurezza del sangue e dei suoi derivati distribuiti dal servizio sanitario
nazionale.
10) Le conoscenze scientifiche dei tempi e la responsabilità del
Ministero con riguardo alle diverse infezioni virali.
a) Epatite B. Fu Blumberg che nel 1965 scoprì nel sangue di
un aborigeno australiano una sostanza, denominata antigene Australia, cui
successivamente fu dato il nome di antigene di superficie del virus dell'epatite
B (HbsAg); agli inizi degli anni '70 la scienza (vedi citazioni alla letteratura
scientifica in comparsa conclusionale di parte attrice, p. 31) aveva osservato
che nell'impiego dei fattori della coagulazione VIII e IX usati per il trattamento
degli emofilici erano stati segnalati casi di epatite e si resero disponibili
su larga scala i primi test per svelare il virus (con i metodi della immunodiffusione,
immunoelettrosineresi, emoagglutinazione passiva, emoagglutinoinibizione);
subito e già tra il 1971 ed il 1972 (non è necessario, al riguardo,
citare la letteratura scientifica ma è sufficiente rinviare ai riferimenti
contenuti in Cass. n. 6241/1987, Trib. Milano 19.11.1987, Ferriello c. Soc.
Crinos, Cass. n. 8069/1993 cit. che, tra l'altro, nell'affermare la responsabilità
delle case farmaceutiche per la produzione ed immissione in commercio di farmaci
contenenti gammaglobuline umane infette, agevolmente supera l'obiezione circa
la non piena attendibilità del metodo in quegli anni, atteso che esso
avrebbe comunque ridotto in modo significativo il rischio del contagio) seguirono
altri più avanzati (metodo RIA: Radio immunologic assay) e, con circolare
n. 68 del 24.7.1978, il Ministero rese obbligatoria la ricerca dell'antigene
dell'epatite B su ogni singolo prelievo di sangue o di plasma con il suddetto
metodo RIA.
Essendo evidente il ritardo da parte dell'amministrazione centrale, che in
quanto organo deputato alla tutela della salute pubblica avrebbe dovuto recepire
ed introdurre tempestivamente i più avanzati metodi scoperti dalla
scienza al fine di realizzare l'obiettivo tendenziale di rendere sicuro l'uso
degli emoderivati, controllando preventivamente l'effettiva origine del plasma
e risalendo ai singoli lotti infetti ed alla loro provenienza, è possibile
affermarne la responsabilità anche nei confronti di XXX e XXX (entrambi
affetti da epatite B da data precedente al 1978 e, comunque, successiva al
1971).
Ma la responsabilità del Ministero è ancor più grave
se si considera che esso non ha soltanto omesso di introdurre (e vigilare
sull'attuazione de) i metodi conosciuti contro il virus dell'epatite B, ma,
consentendo (v. rif. al par. 5 sulle fonti normative del potere di autorizzazione
conferito dalla legge al Ministero) l'importazione di grandi quantità
di sangue dall'estero (per la produzione degli emoderivati necessari agli
emofilici mediante estrazione dei fattori VII, VIII e IX, infatti, occorrono
grandi quantità di plasma e sui rischi connessi ai grandi pool plasmatici
numerose erano le denunce delle associazioni di malati e donatori: vedi, per
citarne solo alcune, la Lettera aperta della Fondazione dell'Emofilia al Ministro
della sanità nel 1971; gli atti dei Congressi di Pisa nel 1973 e Fiuggi
nel 1976 ecc.) ed anche da paesi, come l'America e l'Africa, ove notoriamente
alto era il rischio di infezioni, senza alcun controllo effettivo sul sangue
(e ancor meno sui donatori) e limitandosi ad un controllo sui documenti che
lo accompagnavano (la circostanza non è contestata, è stata
espressamente riconosciuta dal Ministero nell'altro giudizio e risulta anche
nelle certificazioni sanitarie di alcuni danneggiati: XXXX ecc.), ha di fatto
rinunciato ad esercitare quella vigilanza che era invece doverosa.
Né varrebbe appellarsi allo stato ancora non avanzato della scienza
medica: si è detto che agli inizi degli anni '70 il metodo per la rilevazione
del virus era già conosciuto; si dirà dei metodi alternativi
già conosciuti di rilevazione indiretta dei virus (ci si riferisce
alla determinazione delle transaminasi ALT ed al metodo dell'anti-HbcAg: v.
par. 10 b); in ogni caso, appartenendo senza dubbio l'intrinseca pericolosità
del sangue come veicolo di infezioni al patrimonio delle conoscenze comuni
ed essendo, in particolare, il rischio di trasmissione di epatiti virali ben
noto già agli inizi degli anni '70, il comportamento omissivo ed inerte
del Ministero non può essere giustificato (già, ad esempio,
il d.m. 18.6.1971 escludeva la possibilità di ottenere immunoglobuline
umane da soggetti che fossero o fossero stati affetti da epatite nei confronti
dei quali sussisteva la possibilità che potessero trasmettere infezioni;
la circolare ministeriale n. 1188 del 30.6.1971 raccomandava l'importanza
dell'esecuzione sistematica della ricerca dell'antigene Australia su tutto
il sangue destinato alla trasfusione e prevedeva l'obbligo di eseguire tutti
gli accertamenti possibili; l'art. 47, lett. h, del d.p.r. 24.8.1971 cit.:
"Non possono essere accettati come donatori coloro che negli ultimi
sei mesi abbiano avuto contatti con epatitici").
In questo contesto assume rilievo anche la tardiva attuazione del piano sangue
che, previsto già dalla legge n. 592 del 1967 ed attuato solo nel 1994,
avrebbe potuto contribuire a realizzare l'obiettivo tendenziale dell'autosufficienza
nazionale del sangue intero e dei plasmaderivati di cui era ed è nota
l'importanza al fine di prevenire o ridurre i rischi causati da incontrollate
importazioni dall'estero: oltre agli appelli degli esperti sulla necessità
del piano (v. la proposta di legge, n. 1133, presentata alla Camera dei deputati
il 10.2.1977 per la "prevenzione e terapia delle malattie trattate con
derivati di plasma umano e disposizioni per rendere possibile in Italia la
donazione di plasma e la plasmaferesi farmaceutica"; v. i resoconti dei
Congressi di Milano nel 1981 e Roma nel 1986), numerose erano le raccomandazioni
del Consiglio d'Europa, tra cui, oltre a quelle che saranno citate più
avanti (v. par. 10 b), quella in data 30.4.1980, che invitava gli stati membri
a realizzare l'autosufficienza nazionale stante i rischi di malattie infettive
e, in particolare, delle epatiti virali connesse alla raccolta, al frazionamento
ed all'uso terapeutico del sangue.
Si potrebbe obiettare che la detta autosufficienza nazionale non può
costituire oggetto, per così dire, di una obbligazione di risultato
dello Stato, in considerazione dell'oggettiva difficoltà di realizzare
quell'obiettivo a causa della notoria scarsità delle risorse di sangue
nazionale. Tuttavia, il punto è che l'amministrazione ha negligentemente
ritardato (sino ai primi anni '90) di porre in essere le misure che avrebbero
potuto essere utili per realizzare quell'obiettivo (l'opportunità che
i plasmaderivati fossero preparati con sangue di provenienza nazionale è
solo declamata nel 1985 nella circ. n. 28, finché la l. n. 107/1990
si è proposta il miglior controllo delle donazioni mediante la sensibilizzazione
della popolazione residente di cui più facilmente possono conoscersi
usi e costumi: v. art. 11, n. 3, lett. a, n. 4), rimanendo di fatto inerte
rispetto ai conosciuti rischi (che negli anni '80 saranno ancor più
gravi) connessi alla distribuzione ed importazione di sangue incontrollato
nella provenienza e nella qualità. Sicché non può essere
condivisa l'affermazione secondo cui, essendo gli emoderivati necessari per
la salute degli emofilici e delle altre persone affette da patologie emorragiche
(in quanto farmaci "salva vita"), era urgente e necessario provvedere
comunque alla distribuzione di quelli di cui il servizio sanitario nazionale
aveva la disponibilità. Lo stato di necessità (art. 2045 c.c.)
è, infatti, inutilmente invocato: a prescindere da ogni altra considerazione
che dimostrerebbe l'inconferenza del richiamo a questa disposizione, è
sufficiente considerare che qui è stato il Ministero, con la propria
colposa condotta omissiva, ad aggravare volontariamente quel pericolo di danno
grave alla persona che invece aveva l'obbligo giuridico di evitare. L'amministrazione,
inoltre, avrebbe dovuto tempestivamente informare le persone sui rischi connessi
alle trasfusioni e alla somministrazione di emoderivati (v., sul punto, la
racc. del Consiglio d'Europa in data 23.6.1983) ma solo nel 1991 (v. art.
19 del d.m. 15 maggio) impose al ricevente la trasfusione l'obbligo di prestare
il proprio consenso informato sul rischio connesso all'emotrasfusione.
Si tratta (ma su questo punto si tornerà più avanti) di una
condotta omissiva qualificata che può ritenersi intrinsecamente idonea
a concretizzare un fatto illecito perfetto, in quanto causa efficiente di
un grave e concreto pericolo per la salute di coloro che erano costretti (tra
cui gli emofilici) a periodiche somministrazioni di prodotti emoderivati distribuiti
e certificati dal servizio sanitario nazionale. Pur ammettendo che il virus
all'epoca non fosse ancora direttamente rilevabile e che solo più tardi
(cioè nel 1978) sarebbe stato identificato dalla scienza, ciò
non varrebbe ad escludere la responsabilità, non essendo la prevedibilità
del danno un criterio utilizzabile in campo extracontrattuale per ridurre
l'area dei danni risarcibili (l'art. 1225 cc., infatti, non è richiamato
dall'art. 2056 c.c.) e, per altro verso, essendo il nesso causale riscontrabile
nella probabilità, questa sì preventivamente valutabile, che
una condotta ispirata a maggiore prudenza avrebbe ridotto il rischio delle
infezioni: la giurisprudenza ha chiarito che è sufficiente che il nesso
eziologico tra condotta umana (anche omissiva) e danno sia di tipo probabilistico,
nel senso che "per ritenere sussistente il nesso eziologico
è richiesto che l'uomo con la sua azione ponga in essere un fattore
causale del risultato e che tale risultato non sia dovuto al concorso di circostanze
le quali, rispetto ad esso, si presentino con carattere di eccezionalità
o atipicità
": v. Cass. n. 2037/2000). E' evidente che
dell'evento dannoso è chiamato a rispondere colui che, essendo venuto
meno all'obbligo legale di porre in essere le misure che secondo le conoscenze
dell'epoca potevano servire quantomeno a ridurre il pericolo della sua realizzazione,
ha contribuito a porre in essere le condizioni necessarie per la realizzazione
dell'evento dannoso costituito dalla lesione dell'integrità psico-fisica,
non rilevando che quella particolare lesione fosse costituita da una malattia
infettiva procurata da virus già conosciuti ovvero non ancora noti
perché non identificati dalla scienza, ciò attenendo al profilo
della liquidazione delle conseguenze dannose di un fatto illecito giuridicamente
perfetto, in ordine al quale, in materia extracontrattuale, non opera il limite
della prevedibilità. Non può, infatti, ritenersi eccezionale
l'eventualità di insorgenza di malattie nuove veicolate dal sangue,
sicché prevedibilità e possibile riducibilità del danno
alla salute giustificano la responsabilità del Ministero.
b) HIV. Le prime segnalazioni di casi di Aids risalgono ai primi anni
'80 e, in particolare, al 1982 le prime segnalazioni in soggetti emofilici
che erano stati trattati con emoderivati (CDC. Possibile transfusion-associated
AIDS, California, "MMWR", 1982, 31:652-4; CDC. Pneumocytstis
carinii pneumonia among persons with emophilia A, "MMWR", 1982,
31: 365; Update on acquired immunodeficiency sindrome Aids among patients
with hemophilia A, "MMWR", 1982, 31, 644; M.J. Cowan e M. A.
Koerper, Altered T-cell immunity in hemophiliacs receiving frequent factor
VIII concentrate, Blood, 1982, 60, 224): ciò "ha costituito
il maggior indizio eziologico della malattia, poiché suggeriva che
l'agente causale poteva essere presente nei derivati da pools plasmatici usati
per trattare gli emofilici" (Aids - La sindrome da immunodeficienza
acquisita, a cura di E. G. Rondanelli, ed. Piccin, Padova, 1987, 384, ed ivi
rif.). Al 1983 risalgono le prime segnalazioni di trasmissione della malattia
attraverso trasfusione (Amman et al., Acquired immunodeficiency in an infant:
Possibile trasmission by means of blood transfusion, Lancet, 1983, i:
956).
La prima segnalazione dell'individuazione del virus in tessuti di soggetti
affetti da sindrome da immunodeficienza acquisita risale al 1983 (Barrè-Sinoussi
F., Cherman J.R., Rey F. et al., 1983, Isolation of a Lymphotropic retrovirus
from a patient at risk for acquired immune deficiency syndrome Aids. Science
220:868), il virus fu chiamato LAV (Lymphoadenopathy Associated Virus); nel
1984 Robert Gallo isolò un virus, chiamato HTLV-III (Gallo R.C., Salahuddin
S.Z., Popovic M. et al., 1984, Frequent detection and isolation of cythopatic
retroviruses HTLV-III from patients with Aids and a risk for Aids, Science
224:500), che risultò essere uguale al LAV e fu definitivamente denominato
HIV (Human immunodeficiency virus); sempre nel 1984 (Sarngadharan M.G., Popovic
M., Bruch L. et al., 1984, Antibodies reactive with human T-lymphotropic
retroviruses HTLV-III in the serum of patients with Aids. Science 224:506)
fu messo a punto il test Elisa (acronimo di Enzime-Linked-Immuno-Sorbent-Assay)
che permetteva di identificare la presenza di anticorpi anti-HIV nel sangue
dei soggetti malati di Aids (la presenza di questi anticorpi, infatti, è
il metodo più semplice per dimostrare che un soggetto è stato
infettato dal virus) e nel mese di marzo 1985 il primo test per l'anti-HTLV-III/LAV
ottenne la licenza di produzione (per i riferimenti v. Rondanelli, op. cit.,
389 ss.); successivamente furono messi a punto i test c.d. Western-blot, utilizzato
come test di conferma dopo che l'Elisa avesse ottenuto risultato positivo
e, verso la fine degli anni '80, quello, più sensibile ma costoso,
chiamato PCR (Polimerase Chain Reaction).
Ancor prima che fosse disponibile il test per identificare l'HIV, furono tentati
metodi volti ad eliminare gli agenti infettivi nel sangue: i primi studi sull'utilità
del calore a rendere inattivi i virus a Rna (che usano, come l'HIV e l'HCV,
l'acido ribodesossinucleico per veicolare il loro codice genetico), senza,
allo stesso tempo, alterare il prodotto (cosa che accadrebbe in caso di riscaldamento
eccessivo), risalgono, per quanto risulta, al 1982 (R. E. F. Matthews, International
Committee and Taxonomy of Viruses, Karger, Basilea, 1982). Questo metodo
di riscaldamento (a 60 °C per 10 ore) (Gerety R. J., Aronson D. L., Plasma
derivatives and viral hepatitis, Transfusion, 22, 347, 1982, v. rif. in
Federazione medica XLIV - 10.1991, Sicurezza degli emoderivati e degli
emocomponenti, 700-1, n. 5), detto della pastorizzazione, era ampiamente
utilizzato per la preparazione dell'albumina, emoderivato al quale non era
stata associata alcuna trasmissione di infezioni; al 1984 e 1985 risalgono
le prime applicazioni ai preparati antiemofilici dei fattori VIII e IX di
altri tipi di trattamento al calore sempre più perfezionati (al calore
secco per 72 ore a 80 °C, poi al calore umido e con solventi detergenti:
c.d. metodo virucida) (v. Levy JA, Mitra G., Mozen MM, Recovery and inactivation
of infectious retroviruses from factor VIII concentration, Lancet, 1984,
Sep. 29, 2:722-3; Horowitz B., Wiebe M.E., Lippin A., Stayker M.H., Inactivation
of viruses in labile blood derivatives. I. Distruption of lipid-enveloped
viruses by tri 'n-butyl' phosphate detergent combinations, Transfusion,
1985, 25:516).
E' opportuno precisare (dal momento che molti dei danneggiati sono stati trattati
anche mediante trasfusioni, ma sul punto si tornerà più avanti)
che mentre le unità di sangue avviate alla produzione di emoderivati
(e, per quanto interessa, dei derivati del plasma: fattori della coagulazione
ecc.) possono ricevere trattamenti di inattivazione virale (quale quello antivirucidico)
di tipo chimico o fisico che non alterano le proprietà terapeutiche
dell'emoderivato stesso e lo rendono sicuro rispetto al rischio di trasmissione
di agenti infettivi, i suddetti metodi non sono efficaci sul sangue intero
e sui suoi componenti cellulari, i quali, se sottoposti ai suddetti procedimenti
chimici o fisici, sarebbero alterati e distrutti.
Agli inizi del 1983 il Servizio per la salute pubblica degli Stati Uniti diffuse
alcune raccomandazioni specifiche per ridurre la diffusione del virus tramite
emoderivati e trasfusione di sangue (CDC. 1983. Prevention of acquired
immune deficiency sindrome Aids: Report of interagency recommendations.
"MMWR", 32: 101); nello stesso anno il Bollettino epidemiologico
settimanale del Ministero della sanità francese (n. 37) riportò
i primi casi di Aids comparsi in soggetti emofilici che avevano assunto emoderivati
tratti da pool ed il Ministero degli affari sociali e della solidarietà
nazionale francese, con circolare del 20.6.1983, ordinò che i donatori
a rischio fossero scartati dalle raccolte di sangue; il Consiglio d'Europa,
nella racc. dell'11.9.1981, invitava gli stati a tenere conto delle situazioni
epidemiologiche nei paesi di origine ed a stabilire una regolamentazione concernente
l'importazione del sangue e suoi derivati allo scopo di limitare il più
possibile i rischi potenziali per la salute derivanti dalla trasmissione di
agenti infettivi; nella racc. in data 23.6.1983 invitava gli stati membri
a vigilare contro il rischio di agenti infettivi trasmissibili attraverso
le trasfusioni e i prodotti emoderivati, evitando l'uso di prodotti con fattori
coagulanti ricavati da grandi stock di plasma importato da paesi con popolazioni
a rischio e da donatori remunerati, informando gli operatori sanitari, i riceventi
(come gli emofilici) e i donatori dei potenziali pericoli derivanti dalla
sindrome da Aids e delle possibilità esistenti di ridurli; le principali
misure adottate in quegli anni per ridurre la frequenza della malattia negli
emofilici "erano volte a prevenire l'uso del plasma di individui con
Aids o a rischio di Aids, a ridurre la frequenza della terapia con derivati
da pools plasmatici e ad introdurre metodi per inattivare il virus da questi
derivati da pools plasmatici" (Rondanelli, op. cit., 384).
Anche il Ministero della sanità italiano era consapevole del rischio,
avendo emanato già dal 1983 alcuni provvedimenti, seppure, a fronte
della gravità del problema, inadeguati, insufficienti e tardivamente
attuati: la circ. n. 64/1983 conteneva alcune direttive per la rilevazione
dei dati ai fini epidemiologici della sindrome da Aids, segnalando il rischio
per coloro che erano esposti a frequenti trasfusioni e somministrazione di
emoderivati; sempre nel 1983 era avviata un'indagine atta a verificare i metodi
di preparazione degli emoderivati ed i rischi di infezioni; con circ. n. 65/1984
venivano impartite istruzioni sulle misure generali di profilassi dell'Aids
di cui era riconosciuta la gravità; il 19.5.1984 veniva decisa (senza
però che seguissero concreti provvedimenti di attuazione) l'esclusione
delle importazioni di sangue da paesi e rischio ed un controllo più
accurato su ciascun pool di materia prima; con circ. n. 28 del 17.7.1985 erano
emanate istruzioni di carattere tecnico intese ad eliminare il rischio di
infezioni con l'introduzione del trattamento termico nel procedimento di inattivazione
virale per i fattori antiemofilici (v. anche il telegramma in data 8.8.1985
inviato alle aziende produttrici); solo il 30.4.1986 era imposto lo screening
di ogni singola unità di sangue o plasma impiegato nella produzione
degli emoderivati (e vedi, ancor più tardi, anche i dd.mm. 15.1.1988,
21.7.1990 e 15.1.1991, i quali prescrivevano la produzione di emoderivati
esclusivamente a partire da plasma negativo al test HIV, la verifica dell'eventuale
presenza di anticorpi HIV, l'accertamento dell'idoneità dei donatori
di sangue, escludendo quelli considerati a rischio, tra cui i politrasfusi
dal 1978 in poi).
Tuttavia, il Ministero non ha (e, in ogni caso, non ha allegato né
dimostrato di avere) fatto seguire a questi provvedimenti concrete misure
operative di vigilanza e controllo sulle case farmaceutiche e sui soggetti
direttamente coinvolti nella produzione e commercializzazione degli emoderivati,
ritardando sino al 1988 (v. parere del Consiglio superiore di sanità
in data 17.3.1988) la decisione di ritirare dal commercio i farmaci non sottoposti
al termotrattamento.
La responsabilità del Ministero per la trasmissione dell'HIV, quindi,
per quanto qui interessa, può essere fatta risalire ad epoca precedente
al 1983, dal momento che, essendo stati allora riscontrati i sintomi della
malattia nei soggetti indicati al paragrafo 9), si può presumere che
il contagio sia avvenuto in epoca precedente.
Infatti, già dal 1982/83, cioè da quando fu segnalato che l'Aids
poteva essere trasmesso (benché non fossero ancora noti i metodi di
rilevazione ed inattivazione del virus) attraverso gli emoderivati e le componenti
cellulari del sangue e che ad alto rischio erano i derivati dal plasma usati
dagli emofilici (al 1982 risale il lavoro di Gerety R.J., Aronson D.L. cit.,
che classificava come ad alto rischio di trasmissione di epatite i fattori
della coagulazione usati per gli emofilici), elementari ragioni di prudenza
avrebbe dovuto indurre il Ministero ad esercitare i suoi poteri di vigilanza
e controllo sull'origine del plasma e sulle modalità di preparazione
dei prodotti; ma, soprattutto, è importante ricordare che la pericolosità
del sangue come veicolo di infezioni era nota già dai primi degli anni
'70 (v. letteratura scientifica citata in comparsa conclusionale attorea,
p. 34, 37 e, per altri riferimenti alla conosciuta pericolosità dei
preparati antiemofilici dagli anni '70, p. 35-36) e probabilmente anche da
epoca precedente, sicché, come si è già detto parlando
dell'epatite B (è qui necessario rinviare alle considerazioni fatte
nel par. 10 b), il Ministero avrebbe dovuto già da allora porre in
essere tutti gli accorgimenti noti e necessari al fine di ridurre il rischio.
Occorre però rispondere alla prevedibile obiezione del Ministero, secondo
cui, non conoscendosi nel 1983 (e, a maggior ragione, in epoca precedente)
il metodo di rilevazione del virus (il test Elisa fu introdotto nel 1985),
non sarebbe stato in ogni caso possibile scongiurare il rischio di trasmissione
dell'HIV.
L'obiezione non coglie nel segno. Premesso che il Ministero aveva il dovere
(reso ancor più urgente dalle diffusione dell'epatite c.d. "non
A non B" e dell'Aids) di porre in essere tutte le cautele e le misure
precauzionali conosciute dalla scienza, l'aver omesso di effettuare sul plasma
controlli effettivi di laboratorio che rivelassero la presenza di infezioni
all'epoca conosciute (quali quelle derivanti dal virus dell'epatite B) nonché
l'aver omesso qualsiasi indagine anamnestica sui donatori del sangue, ne determina
la responsabilità anche per le infezioni che all'epoca non erano ancora
conosciute, atteso che, qualora fossero state adottate le misure precauzionali
conosciute (seppur per contrastare malattie diverse), il rischio della contrazione
delle nuove malattie virali sarebbe stato certamente ridotto.
E' importante chiarire, infatti, che tra le infezioni in questione (epatite
da HBV, HCV ed infezione da HIV) sussiste notoriamente una tendenziale coincidenza
epidemiologica (per riferimenti alla letteratura scientifica si rinvia alla
comparsa conclusionale attorea, p. 34-37; come si legge in Rondanelli, op.
cit., p. 384: "il modello epidemiologico dell'Aids era infatti strutturalmente
simile a quello dell'epatite B, che è spesso diffusa attraverso il
contatto parenterale con il sangue
"; anche nella circolare
ministeriale n. 64/1983 cit. si legge: "I dati epidemiologici e clinici
orientano verso una eziologia virale a trasmissione sessuale e parenterale
simile a quella dell'epatite B"), nel senso che identiche sono le
modalità di trasmissione dei virus ed identiche le precauzioni necessarie
(è significativo, a questo proposito, che gran parte dei danneggiati
sia affetta contemporaneamente da due o anche tre delle infezioni virali in
questione).
L'aver omesso i controlli sui pool plasmatici e, in particolare, sull'attuazione
delle raccomandazioni per la preparazione dei prodotti antiemofilici ed il
controllo sull'idoneità dei donatori del sangue secondo le tecniche
nel tempo note (v., tra le altre, le prescrizioni contenute negli art. 65
ss. d.m. 18.6.1971 e 44 ss. d.p.r. n. 1256/1971) al fine di evitare i rischi
di trasmissione di virus conosciuti (come l'epatite), espone il Ministero
a responsabilità rispetto alla diffusione di virus diversi e solo successivamente
conosciuti nella loro caratterizzazione molecolare, il cui rischio avrebbe
potuto essere, quanto meno, ridotto ponendo in essere e vigilando sull'attuazione
di quelle medesime cautele.
Prima che l'HIV venisse isolato e che fosse messo a punto il test Elisa che
consentiva la rilevazione diretta dello stesso, erano diffusi metodi alternativi
ed indiretti di rilevazione che consentivano di identificare le persone considerate
a rischio di trasmettere malattie e che avrebbero, quindi, dovuto essere escluse
dalla donazione, il che non avvenne, essendo gli emoderivati stati prodotti
con sangue di incerta provenienza utilizzato per la formazione di grandi pool
plasmatici ed il sangue utilizzato per le trasfusioni non controllato e proveniente
da donatori non testati.
In particolare, tra i metodi usati vi era quello per l'individuazione degli
anticorpi (anti-HbcAg) in soggetti che erano entrati in contatto con il virus
dell'epatite B: "questo metodo era stato scelto poiché una
serie di studi dimostrava che la maggior parte dei pazienti con Aids era positiva
anche per l'anti-Hbc
l'anti Hbc è stato considerato come un marker
di popolazioni per gruppi a rischio di contrarre l'Aids e, quindi, potenzialmente
infettivi" (v. Rondanelli, op. cit., 389); è significativo
che già il citato art. 44 d.p.r. n. 1256/1971 prevedesse l'esclusione
dalla donazione di chi era o, anche, era stato affetto da epatite virale,
in considerazione della maggiore esposizione di questi soggetti ad altri rischi
virali veicolati dal sangue (non importa se ignoti).
Altro metodo indiretto usato era offerto dalla determinazione delle transaminasi
e, in particolare, della ALT (alanina transaminasi). La determinazione di
questo enzima, che era noto per essere al di sopra della media e, quindi,
alterato nei soggetti con patologie epatiche e, in particolare, nelle epatiti,
poteva rivelare la presenza di infezioni da virus non ancora conosciuti e
cioè non noti dal punto di vista della caratterizzazione molecolare
(come appunto l'HIV e l'HCV), sicché già nel 1974 ne fu proposta
l'introduzione al fine di escludere dalla donazione coloro i cui valori erano
alterati (vedi, per i riferimenti alla letteratura scientifica, la comparsa
conclusionale cit., p. 31-34) ma questo metodo fu introdotto soltanto nel
1989 (vedi lettera circolare in data 31.10.1989, nella quale il Ministero
della sanità informava le aziende farmaceutiche dell'associazione tra
elevati livelli di ALT ed epatite "non A non B" e le invitava ad
inserire nelle dichiarazioni del direttore tecnico delle ditte farmaceutiche
- v. lettera 6.7.1987 - che dovevano accompagnare ogni unità di sangue
ai fini della ricerca degli anticorpi anti HIV l'avvenuto screening per l'ALT).
Ai fini dell'affermazione della responsabilità del Ministero anche
nei confronti di coloro che hanno contratto il virus dell'HIV prima del 1985
soccorre, inoltre, l'argomento già svolto a proposito dell'epatite
B riguardo alla giuridica irrilevanza in campo extracontrattuale che l'infezione
virale non fosse ancora ben conosciuta al momento della condotta illecita
omissiva, quando le misure precauzionali obbligatorie omesse (prescritte ovvero
consigliabili per contrastare la diffusione di virus noti) avrebbero consentito
di ridurre l'insorgenza anche di infezioni virali ancora non conosciute. La
violazione da parte dell'amministrazione delle norme di prudenza e diligenza
direttamente finalizzate a realizzare condizioni di (seppur non assoluta)
sicurezza nell'uso degli emoderivati concretizza il requisito (che vale ad
integrare l'elemento soggettivo della colpa) della prevedibilità dell'evento
dannoso costituito dalla lesione del diritto alla salute, essendo all'epoca
ben prevedibile che le omissioni contestate potessero costituire un fattore
causale significativo nella verificazione di danni alla salute nei soggetti
che di quelle norme erano diretti destinatari. Pertanto, a nulla rileva che,
all'epoca della condotta omissiva, la malattia fosse o meno conosciuta nella
sua esatta caratterizzazione molecolare, trattandosi di circostanza che rileva
soltanto ai fini della configurazione e liquidazione del danno risarcibile,
il quale, come si è detto, in campo extracontrattuale, non può
essere limitato alle sole conseguenze dannose strettamente prevedibili (si
è detto che l'art. 1225 c.c. non è richiamato dall'art. 2056
c.c.).
c) Epatite C. La storia di questa epatite nasce quando, verso la metà
degli anni '70, scoperta la possibilità di fare la diagnosi diretta
dell'epatite A, si notò che delle epatiti ritenute di tipo A perché
prive dell'antigene proprio dell'epatite B solo una parte aveva i marcatori
propri dell'epatite A, sicché fu dimostrata l'esistenza di una terza
forma di epatite che fu chiamata "non A non B". Il primo test che
riuscì a individuare il virus mediante la ricerca degli anticorpi HCV
fu disponibile solo nel 1989 (c.d. test Eia) e successivamente perfezionato;
con d.m. 21.7.1990 fu stabilito l'obbligo di ricercare gli anticorpi anti
HCV sulle unità di sangue utilizzate per le trasfusioni.
La Corte d'appello, nella sentenza più volte citata, ha individuato
nell'anno 1988 (in cui fu imposto dal Ministero il c.d. termotrattamento contro
il rischio di trasmissione del virus da epatite C, sebbene il test sia stato
messo a punto l'anno successivo) il limite temporale prima del quale non vi
sarebbe diritto al risarcimento dei danni.
Questa affermazione non è condivisibile. Premesso che, dovendosi qui
giudicare della responsabilità del Ministero per omessa vigilanza sulla
concreta attuazione dei metodi conosciuti di inattivazione virale, non è
sufficiente, per escluderla, far semplice richiamo (come anche la Corte non
ha mancato di sottolineare: v. sent., p. 43) all'attività per così
dire normativa posta in essere (con circolari, decreti ecc.) dallo stesso
Ministero al fine di diffondere informazioni e prescrizioni sulle metodiche
di inattivazione (vedi, in questo caso, il parere con cui il Consiglio superiore
di sanità, in data in data 17.3.1988, raccomandava il trattamento al
calore umido rispetto a quello al calore secco), il punto è che l'amministrazione
ha omesso di vigilare sull'effettiva attuazione di qualsiasi tipo di termotrattamento,
sicché, pur ammettendo che il metodo del calore umido fosse più
sicuro rispetto a quello del calore secco, non v'è prova che quest'ultimo
sia stato effettivamente praticato a partire quanto meno dal 1985 (vedi i
riferimenti al paragrafo 10 b e la stessa circolare n. 28/1985 del Ministero).
Si è detto, inoltre, che già nel 1985 era conosciuto il c.d.
metodo virucida consistente nell'uso di solventi-detergenti (v. Horowitz B.,
op. cit.; Federazione medica XLIV, cit.) che, distruggendo il virus, è
ritenuto il metodo più sicuro. Ma, soprattutto, è necessario
chiarire che tutti i metodi in questione sono idonei ad inattivare non solo
il virus dell'HIV ma anche gli altri virus dell'epatite C (HCV) e B, sicché
irrilevante è che nel 1985 il virus HCV non fosse stato identificato,
dovendo infatti a partire già da quell'anno essere messi in pratica
i metodi di inattivazione che erano conosciuti seppur per contrastare i virus
allora noti dell'epatite B e dell'HIV.
Ma, a prescindere dai metodi di inattivazione virale (che, è opportuno
ricordare, erano idonei a combattere le infezioni trasmesse da emoderivati
e non dal sangue intero: v. par. 10 b), sarebbe stato sufficiente non utilizzare
sangue o derivati provenienti da soggetti con valore di Alt elevati ovvero
positivi al test dell'anti-Hbc per ridurre in modo significativo il rischio
dell'epatite C (v., in comparsa conclusionale attorea, p. 43, i riferimenti
agli studi che dimostravano la rilevante riduzione del rischio dell'epatite
"non A non B" in caso di esclusione dalla donazione di questi soggetti).
La responsabilità del Ministero può quindi essere affermata
anche nei confronti delle persone infettate da epatite C, non solo sicuramente
dopo il 1985 (v. elenco nel par. 9), ma anche prima (si tratta di XXX) per
motivazioni analoghe a quelle già svolte nei casi delle altre infezioni
contratte in epoche precedenti alle date in cui furono messi a punto i metodi
di identificazione dei virus. La coincidenza epidemiologica dei tre virus
in questione (che è particolarmente alta tra HCV ed epatite B), la
gravità delle omissioni e dei ritardi del Ministero nella prevenzione
delle infezioni conosciute nei diversi tempi, l'utilità che i mezzi
di contrasto conosciuti con riferimento ai virus già conosciuti avrebbero
avuto nella prevenzione dei virus identificati solo successivamente ed il
principio civilistico dell'estensione della responsabilità aquiliana
ai danni non prevedibili, sono tutti elementi che concorrono a giustificare
la responsabilità del Ministero della sanità.
11) I danni risarcibili.
La domanda, pertanto, dev'essere accolta ed il Ministero della sanità
condannato al risarcimento dei danni biologici, alla vita di relazione, patrimoniali
e, vista la rilevanza penalistica dei fatti (v. par. 3), anche morali subiti
da attori ed intervenuti a causa della descritta condotta illecita posta in
essere dal convenuto, da liquidarsi in separato giudizio. Nel quale dovrà
essere decisa anche la questione, che sfugge all'ambito naturale del presente
giudizio avente ad oggetto una domanda di condanna generica al risarcimento
dei danni, relativa alla cumulabilità (riassuntivamente affermata dagli
attori nella formula "oltre ed in aggiunta a quanto eventualmente percepito
ai sensi delle leggi nn. 210 del 1992 e 238 del 1997") o meno delle somme
che potranno essere liquidate a titolo risarcitorio con quelle già
percepite o percepibili, ai sensi delle leggi nn. 210 del 1992 e 238 del 1997.
12) La provvisionale.
Non può essere accolta la generica richiesta di provvisionale (in lire
400 o 600 milioni pro-capite), in mancanza di qualsiasi riferimento ed accertamento
alla concreta entità dei risarcimenti che potranno singolarmente essere
riconosciuti, al di là dei solo orientativi parametri rappresentati
dall'indennizzo, comunque verosimilmente goduto da molti, ai sensi delle citate
leggi sopra citate.
13) Le spese processuali.
Sussistono giusti motivi di parziale compensazione delle spese processuali,
in considerazione della novità, rilevante complessità ed incertezza
della lite.
p.q.m.
il tribunale, definitivamente pronunciando, così
decide:
· dichiara ammissibili gli interventi azionati nel corso del giudizio;
· accoglie le domande principali proposte da attori ed intervenuti
e condanna il Ministero della sanità a risarcire ad essi i danni biologici,
patrimoniali e morali, da liquidarsi in separato giudizio;
· rigetta la domanda di provvisionale;
· liquida le spese processuali in
..
Roma, 4 giugno 2001.
Il Giudice
Omissisa
cura di magistratura democratica romana
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