Responsabilità del Ministero della Sanità per omessa vigilanza sulla sicurezza del sangue e degli emoderivati

EMOFILICI - virus epatite B,C, HIV - RESPONSABILITÀ del Ministero della sanità per avere, in violazione del principio posto dall'art. 2043 c.c., colposamente omesso di vigilare sulla sicurezza del sangue e degli emoderivati.
Importante sentenza del tribunale di Roma, sezione seconda giudice dr. Antonio Lamorgese, del 14.6.2001, la cui lettura si segnala sia per le questioni giuridiche affrontate sia per la ricognizione delle conoscenze scientifiche e della loro evoluzione, nonché per la conoscenza da parte del Ministero riguardo alle diverse infezioni virali.
I nomi delle 223 persone che hanno agito in giudizio sono coperti da riservatezza in base alla legge n. 135\1990.


 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI ROMA

2a SEZ. CIV.


in persona del giudice, dott. Antonio Lamorgese, ha emesso la seguente


SENTENZA


nella causa di primo grado iscritta al n. 89308 del ruolo generale degli affari contenziosi civili dell'anno 1999, trattenuta in decisione all'udienza di discussione del 4-4-2001, promossa da

in proprio: seguono i nomi di 163 persone

in qualità di eredi: seguono i nomi di 50 persone

in qualità di rappresentanti legali di minorenni:
seguono i nomi di 10 persone

nuove costituzioni per attori deceduti:
seguono i nomi

interventi:

seguono i nomi


tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Mario Lana, Anton Giulio Lana, Salvatore Orestano, Umberto Randi, Carlo Tocco, Isabella De Angelis, Andrea Randi e Francesco Terruli, riuniti in collegio difensivo e domiciliati in Roma - attore

Interventi:
seguono i nomi

tutti rappresentati e difesi, unitamente all'avv. Gianni Fucà, dall'avv. Franco Voltaggio Lucchesi, presso il cui studio sono domiciliati in Roma

Interventi:
seguono i nomi

tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Marco Impelluso e Carla Randi, domiciliati presso lo studio dell'avv. Orietta Frazzitta in Roma

Interventi:
segue il nome

rappresentato e difeso rappresentato dall'avv. Carla Randi, domiciliato presso lo studio dell'avv. Orietta Frazzitta in Roma

Interventi:
segue il nome

rappresentato e difeso dagli avv.ti Franca Azzolini e Rosella Radocchia e presso lo studio di quest'ultima domiciliato in Roma

contro

MINISTERO DELLA SANITA'

in persona del ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma

Ogg.: responsabilità extracontrattuale della P.A.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 27.10.1999, i soggetti indicati in epigrafe (223 persone, di cui 163 in proprio, 50 in qualità di eredi, di cui alcuni nella doppia qualità, e 10 in rappresentanza legale di minorenni) sotto l'obbligo della riservatezza ex l. n. 135/1990 - tutti colpiti (come risultava dagli accertamenti compiuti dalle commissioni mediche ospedaliere militari ai fini del riconoscimento dell'indennizzo previsto dalle leggi nn. 210 del 1992 e 238 del 1997) da virus (epatite B, C, HIV) per avere, in quanto emofilici o affetti da altre patologie emorragiche, dovuto utilizzare sangue o suoi componenti ovvero assumere prodotti derivati dal sangue e, in particolare, dal plasma, i cui fattori VIII e IX sono necessari a bloccare le emorragie ed a ripristinare le funzioni organiche che, com'è noto, negli emofilici sono compromesse a causa di un'alterazione della coagulazione del sangue - hanno convenuto in giudizio il Ministero della sanità, deducendone la responsabilità, ai sensi degli artt. 2043, 2049 e 2050 c.c. e 32 Cost.. A sostegno della domanda hanno dedotto le seguenti ragioni:
a. gli emoderivati, che sono prodotti biologici e specialità medicinali (ai sensi dell'art. 1 della dir. 65/65/CEE del 26.1.1965), sono distribuiti gratuitamente quali "salva vita" dal Ministero della sanità che li acquista da banche del sangue (nel caso del plasma) o industrie farmaceutiche italiane o straniere previo controllo ai fini della registrazione, contrattazione del prezzo e conseguente inclusione nel prontuario terapeutico nazionale, garantendone così la sicurezza; questi prodotti sono poi prescritti e/o somministrati nelle strutture (ospedali, centri di medicina sociale per l'emofilia, centri trasfusionali di pronto soccorso, ambulatori) o da operatori del servizio sanitario nazionale (medici di base);
b. la quasi totalità del plasma da cui sono stati prodotti i farmaci emoderivati in questione era ottenuta da donatori mercenari presso le cosiddette banche del sangue negli USA, nel Centro America ed in paesi del Centro Africa, ove erano presenti i soggetti a rischio per le infezioni da HBS (epatite B), HCV (epatite C) ed HIV;
c. quasi 900 sono stati, secondo i dati in possesso dell'Istituto superiore e del Ministero della sanità, gli emofilici ed i politrasfusi risultati sieropositivi (da HIV), senza contare quelli affetti dalle varie forme di epatiti virali; gravissimi ed incalcolabili i danni all'integrità psico-fisica ed alla vita di relazione di questi soggetti;
d. il Ministero della sanità, che negli anni dal 1974 al 1995 si presentava quale produttore, acquirente e distributore del sangue, aveva l'obbligo di operare per soddisfare il fabbisogno quantitativo del sangue e dei suoi derivati ma il regolamento di esecuzione della legge n. 592 del 14.7.1967, che prevedeva l'emanazione di norme per la raccolta del sangue, preparazione degli emoderivati, distribuzione e vigilanza, fu pubblicato solo nel 1972 e seguito da provvedimenti di scarsa utilità e privi delle necessarie risorse finanziarie e, soprattutto, solo nel 1994, cioè con gravissimo ritardo, fu approvato il primo piano sangue e plasma; nonostante le pubbliche denunce che già dai primi anni '70 provenivano dalle associazioni di malati ed esperti, lo Stato italiano continuò ad affidarsi per il 90% al sistema dell'importazione di emoderivati prodotti all'estero ovvero all'importazione di plasma di provenienza estera incontrollata autorizzandone la lavorazione in Italia per la produzione degli emoderivati, nonostante che fossero noti i rischi, evidenziati dalle statistiche, del plasma proveniente da donatori mercenari nei paesi extracomunitari sopra citati;
e. al Ministero della sanità la legge (v. artt. 1 della l. n. 296 del 13.3.1958; 1, 20 e 21 della l. n. 592/1967 cit.; 4, 29 e 30 della l. n. 833 del 23.12.1978; 9 della legge n. 433 del 30.10.1987) attribuisce il compito fondamentale di provvedere, in generale, alla tutela della salute pubblica nel campo, in particolare, della sicurezza delle trasfusioni di sangue e della preparazione e distribuzione degli emoderivati, il cui prezzo è fissato dallo stesso Ministero ed è corrisposto dal servizio sanitario nazionale attraverso le regioni e, oggi, le Asl;
f. nonostante fossero noti i rischi di malattie (epatite B in particolare e, dai primi degli anni '80, HIV) connessi all'uso di questi prodotti e nonostante le raccomandazioni agli stati membri dal Consiglio d'Europa, le denunce di medici ed associazioni che lo sollecitavano ad assicurare il fabbisogno nazionale del sangue sotto il profilo quantitativo e qualitativo della sicurezza e l'urgenza di effettuare investimenti adeguati nella promozione della donazione di sangue, il Ministero nulla fece e solo tardivamente istituì una commissione nazionale che elaborò un piano sangue che rimase inattuato;
g. la responsabilità del Ministero era stata già acclarata dal tribunale di Roma nella sentenza n. 21060 del 27.11.1998, le cui motivazioni sono state richiamate;
hanno chiesto la condanna del Ministero convenuto al risarcimento dei danni biologici, morali e patrimoniali causati dalle infezioni di cui trattasi, da liquidarsi in separato giudizio, oltre ed in aggiunta a quanto eventualmente percepito ai sensi delle leggi nn. 210 del 1992 e 238 del 1997 ed oltre alla liquidazione di una somma a titolo di provvisionale nella misura di almeno 400 milioni per i malati viventi e 600 milioni per quelli deceduti; nel caso subordinato in cui il tribunale ritenesse satisfattivo l'indennizzo riconosciuto o da riconoscere ai sensi delle citate leggi, hanno chiesto di sollevare la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 l. n. 210, come modificati dall'art. 1 l. n. 238, con riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 97 Cost. e per contrasto con i principi di ragionevolezza e solidarietà propri della nostra carta costituzionale, nelle parti in cui viene prevista una indennità del tutto iniqua rispetto alla gravità dei danni, per di più parametrata con riferimento a criteri inadeguati (stabiliti per la liquidazione delle indennità civili e militari e per i dipendenti statali nella tabella B allegata alla legge n. 177/1976, come modificata dall'art. 8 della legge n. 111/1984) ed a fattispecie del tutto diverse rispetto a quella per cui è causa, nonché nella parte in cui è esclusa la retroattività integrale, persino quella ridotta del 30% fissata dalla legge del 1997 ed anche il pagamento della rivalutazione e degli interessi; nonché ancora nella parte in cui è fissato ai danneggiati un termine per la presentazione della domanda di indennizzo.
Nel corso del processo sono intervenuti numerosi soggetti (128, di cui alcuni in qualità di eredi, anche di attori deceduti, ed 1 in rappresentanza tutoria), indicati in epigrafe e tutti nella medesima situazione degli attori, che hanno proposto identica azione risarcitoria.
Il Ministero della sanità si è costituito, proponendo le seguenti difese: eccezione di incompetenza territoriale, ai sensi dell'art. 25 c.p.c.; di prescrizione; di inammissibilità, ai sensi dell'art. 103 c.p.c., del litisconsorzio originario e di quello successivo provocato dagli atti di intervento, dei quali ha eccepito l'inammissibilità anche ai sensi dell'art. 105 c.p.c., trattandosi di domande prive di connessione oggettiva, aventi ad oggetto pretese risarcitorie autonome e riferite a situazioni diverse con riguardo alle date, alle modalità delle infezioni ed all'eventuale responsabilità dei sanitari, oltre che inidonee a qualificare l'intervento come principale ovvero ad adiuvandum; il proprio difetto di legittimazione passiva, che spetterebbe alle regioni ed agli organi infraregionali, i quali non sarebbero legati all'amministrazione centrale da alcun rapporto di dipendenza; l'infondatezza delle domande nel merito e l'assenza di responsabilità del Ministero, la cui attività di programmazione, indirizzo e coordinamento in materia, anzi, sarebbe stata sempre completa, tempestiva ed allineata al progredire della scienza medica, come dimostra la cronistoria dei provvedimenti (circolari, decreti, pareri ecc.) emessi, a partire dal 1983, al fine di contrastare il pericolo delle infezioni virali connesse all'uso del sangue e dei farmaci emoderivati; nessuna responsabilità, in ogni caso, potrebbe configurarsi per le infezioni contratte in anni precedenti a quelli in cui, per ciascuna di esse, la scienza medica aveva isolato i virus ed individuato le tecniche di rilevazione e di inattivazione (e cioè 1978 per l'epatite B, 1985/86 per l'HIV e 1989/90 per l'epatite C); la mancanza del nesso di causalità tra l'asserita condotta omissiva e gli eventi dannosi; l'infondatezza della domanda anche sotto il profilo della sua incompatibilità con la normativa statale che già prevedeva un indennizzo per i soggetti che avevano subito danni in conseguenza di attività lecita posta in essere nell'interesse generale della collettività; l'insussistenza del diritto ai danni morali, mancando gli estremi di un reato.
La causa, istruita mediante produzioni documentali, all'esito della discussione orale, è stata trattenuta in decisione all'udienza del 4.4.2001.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) La competenza territoriale.
Il Ministero ha eccepito l'incompetenza territoriale del giudice adito ai sensi dell'art. 25 c.p.c., essendo invece, a suo avviso, competenti i giudici dei luoghi ove le infezioni sono state singolarmente contratte (forum delicti) ovvero ove i singoli danneggiati hanno il domicilio, in quanto lì, secondo le norme della contabilità pubblica (v. art. 54 r.d. n. 2440 del 1923), dovrebbe avvenire il pagamento da parte dell'amministrazione (forum destinatae solutionis).
L'eccezione è però incompleta e, quindi, deve considerarsi come non proposta (art. 38, co. 2, c.p.c.), non essendo stati indicati i giudici ritenuti competenti in relazione alle domande risarcitorie promosse da ciascun danneggiato.
Né è condivisibile l'affermazione del Ministero secondo cui si tratterebbe di competenza inderogabile e rilevabile d'ufficio in qualunque stato e grado del processo, ai sensi dell'art. 9 r.d. 30.10.1933, n. 1611. A prescindere dal rilievo che dalla documentazione sanitaria allegata molto spesso non risulta in quale luogo la trasfusione o la somministrazione di emoderivati sia avvenuta (luogo che, del resto, non si deve confondere con quello in cui sono state successivamente effettuate le analisi di rilevazione dei virus), sicché non è possibile risalire alla precisa identificazione di un diverso forum delicti che giustifichi la declaratoria di incompetenza del giudice adito, è bene chiarire, come la dottrina ha già osservato, che la rilevabilità d'ufficio dell'incompetenza territoriale inderogabile riguardante il foro delle amministrazioni dello Stato è ormai soggetta (dopo la novella processuale della l. n. 353 del 1990) alla preclusione costituita dalla prima udienza di trattazione (artt . 38, co. 2, e 183 c.pc.), che riguarda del resto ogni caso di inderogabilità prevista dalla legge (v. art. 28, ult. pt., c.p.c.) e persino l'incompetenza per materia. Sicché la dedotta incompetenza per territorio non potrebbe essere dichiarata d'ufficio, non essendo stata rilevata entro la prima udienza di trattazione.
2) L'ammissibilità del litisconsorzio facoltativo originario e degli interventi.
Il convenuto ha eccepito che, essendo i diritti vantati dalle parti originarie istanti in via risarcitoria non comuni ma distinti ed autonomi, non ricorrerebbero i presupposti del litisconsorzio originario e di quello successivo provocato dai numerosi interventi in corso di causa.
L'infondatezza di questa prospettazione è stata già rilevata in una fattispecie analoga a quella in esame (si trattava di una domanda risarcitoria promossa, in via di azione e di intervento, contro il Ministero della sanità da soggetti che, essendo affetti da patologie emorragiche, contrassero infezioni virali a seguito di trasfusioni di sangue o della somministrazione di emoderivati) dalla Corte d'appello di Roma (che, su questo punto, ha confermato la già citata sentenza del Tribunale di Roma del 27.11.1998), la quale ha osservato che "alla stregua della menzionata disposizione di rito [art. 103 c.p.c.] il litisconsorzio facoltativo è ammissibile non soltanto, in senso proprio, nel caso di cause connesse, ma pure, nel senso c.d. improprio, allorché la pluralità di cause imputabili ai diversi soggetti agenti presenti in comune la risoluzione di identiche questioni, fattispecie quest'ultima ricorrente nel caso in esame in cui la suddetta comunanza è rappresentata dalla risoluzione delle questioni della risarcibilità del danno da emotrasfusioni … e della sussistenza o meno al riguardo della responsabilità aquiliana del Ministero, ragioni che correttamente hanno indotto il primo giudice … alla trattazione unitaria della cause" (App. Roma cit., 4.10.2000, p. 28-29).
L'ammissibilità degli interventi, contestata dal convenuto con riferimento all'art. 105 c.p.c., è stata ugualmente affermata dal tribunale di Roma il quale (nella stessa sentenza poc'anzi citata) ha osservato che gli stessi "non possono ritenersi … come proposti né in via principale (art. 105, co.1, c.p.c.) né ad adiuvandum (art. 105, co. 2, c.p.c.)… infatti, i soggetti intervenuti hanno fatto valere nei confronti della originaria ed unica parte convenuta un diritto relativo all'oggetto e/o dipendente dal titolo dedotto nel processo. In altre parole gli intervenuti costituitisi successivamente nel corso del giudizio hanno inteso far valere un loro diritto autonomo ma connesso a quello azionato dalle parti attrici sotto il profilo sia dell'oggetto (accertamento della responsabilità della convenuta pubblica amministrazione e consequenziali statuizioni), che della medesima causa pretendi (fatto illecito omissivo-commissivo ascrivibile, secondo la prospettazione attorea, al ministero). In conclusione, quelli effettuati in corso di causa devono più esattamente qualificarsi come interventi adesivi autonomi o litisconsortili, interventi tipici dei soggetti terzi rispetto all'originario rapporto processuale" e che, come ha osservato la corte d'appello (che, su questo punto, ha confermato la sentenza di primo grado), "ben avrebbero potuto fin dall'inizio agire ex art. 103 c.p.c. nello stesso processo attesa la dipendenza della decisione da identiche questioni. Neppure - prosegue la sentenza - al riguardo può essere condivisa l'argomentazione del suddetto Ministero, secondo cui in relazione ai detti interventi sarebbe stata necessaria l'accettazione del contraddittorio da essa amministrazione, originaria convenuta, attesoché la qualità di parte legittimata ad causam si acquista per effetto dell'intervento e non già per effetto del consenso di quella nei confronti della quale l'intervento è fatto valere" (v. App. Roma cit., p. 29).
Né, del resto, l'inammissibilità potrebbe essere argomentata sulla base dell'opinione, invero minoritaria, secondo cui il sistema di preclusioni semirigido, qual è quello introdotto dal legislatore degli anni '90, abbia inciso anche sul regime dell'intervento in causa, nel senso che l'art. 268, co. 1, c.p.c. (il quale ammette l'intervento sino a che non vengano precisate le conclusioni) riguarderebbe soltanto il cosiddetto intervento adesivo dipendente, che è quello con il quale non viene fatto valere un diritto proprio ma si vogliono sostenere le ragioni di una delle parti del processo (il terzo, in tal caso, non proponendo una domanda autonoma, potrebbe intervenire sino all'udienza di precisazione delle conclusioni e subirebbe soltanto le limitazioni alla propria attività processuale previste nell'art. 268, co. 2, c.p.c.), mentre gli altri interventi, adesivo autonomo (o litisconsortile) ovvero principale, concretandosi nella formulazione di domande nuove rispetto a quelle introdotte dalle parti originarie, incorrerebbero nelle preclusioni operanti nei confronti delle parti originarie, con la conseguenza che, se l'interesse del terzo sorge dalla domanda attrice, egli dovrebbe intervenire (e proporre le domande) nel termine fissato dagli artt. 166 e 167 c.p.c. per la costituzione del convenuto (o quanto meno nei venti giorni prima della prima udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c.), analogamente a quanto è disposto nel rito del lavoro dall'art. 419 c.p.c..
Tuttavia, come già ritenuto da questo tribunale (v. sent. 21.1.2000, in Foro it., 2000, 2045), a differenza di quanto stabilito nel rito del lavoro, l'art. 268 c.p.c. non prevede affatto che l'intervento debba avvenire entro il termine previsto per la costituzione del convenuto (ovvero nei venti giorni precedenti l'udienza di trattazione) ma, al contrario, ammette l'intervento di terzi, senza alcuna distinzione, fino al momento della precisazione delle conclusioni ed anche la Cassazione (v. sent. n. 4771/1999) ha ritenuto che, tranne quella istruttoria sancita dall'art. 268, co. 2, c.p.c., nessuna preclusione, specie quella assertiva (che è ritenuta coessenziale all'intervento principale e litisconsortile), può dirsi operante nei confronti dell'interventore, verso il quale non vale infatti il divieto, che vincola le parti originarie, di proporre domande nuove.
Il convenuto ha eccepito la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni, risalendo i fatti contestatigli agli anni '80 ed essendo, quindi, decorso il termine di cinque anni (art. 2947 c.c.) con riferimento alla data di introduzione del presente giudizio.
Si deve premettere, come già rilevato dalla Corte d'appello nella più volte citata sentenza, che il termine di prescrizione è di dieci anni, in considerazione della rilevanza penalistica del comportamento del Ministero nella diffusione delle infezioni virali in questione, essendo configurabili astrattamente i reati dell'epidemia colposa ovvero dell'omicidio colposo o delle lesioni colpose plurime (artt. 2947, co. 3, c.c. e 157, n. 3, c.p.).
Inoltre, è importante sottolineare che il giorno della verificazione del fatto illecito quale dies a quo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno ex art. 2947 cc. deve essere identificato con quello in cui la condotta illecita abbia inciso nella sfera giuridica del danneggiato con effetti esteriorizzati e conoscibili dal medesimo, nel senso che la persona abbia avuto reale e concreta consapevolezza dell'esistenza e gravità del danno (v. App. Roma cit. e, tra le tante, Cass. n. 8845/1995).
L'acquisizione delle malattie virali in questione da parte di attori ed intervenuti (e di coloro che sono deceduti) non è contestata dal Ministero e risulta (tranne che in pochissimi casi) dalle certificazioni effettuate (successivamente al 1992), ai fini del riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla legge n. 210/1992 e succ. mod., dalle commissioni mediche ospedaliere o da altri organismi sanitari (quali, ad esempio, i servizi di assistenza emofilici presso presidi ospedalieri), ove è affermato anche il nesso causale tra le trasfusioni o la somministrazione di emoderivati ed il contagio dell'infezione.
Come ritenuto in modo condivisibile dalla Corte d'appello, le suddette certificazioni hanno consentito alle persone di conoscere l'esistenza della malattia e la loro rapportabilità causale alle trasfusioni ovvero agli emoderivati, sicché è ad esse che si deve fare riferimento ai fini della decorrenza del dies a quo della prescrizione, la quale quindi non si è compiuta. Occorre precisare che ad alcune delle suddette certificazioni sono allegate schede informative ove sono indicati i periodi, anche molto lunghi, in cui sono avvenute le trasfusioni ovvero sono stati somministrati gli emoderivati. Tuttavia, nessun rilievo è possibile attribuire a queste indicazioni temporali ai fini della decorrenza della prescrizione in mancanza di qualsiasi elemento di prova (che avrebbe dovuto essere fornito dal Ministero, il quale, del resto, nulla al riguardo ha specificamente allegato) in ordine alla conoscenza che la persona aveva del contagio e della gravità della malattia nel momento in cui era sottoposto alle pratiche trasfusionali. Ugualmente, non può attribuirsi valore ai riferimenti indiretti, a volte contenuti nelle schede sopra menzionate, alle date in cui sarebbero state effettuate le diagnosi ovvero rilevate sierologicamente alcune patologie virali: a prescindere dall'imprecisione di queste indicazioni (ad esempio, nei casi di XXX, si legge: "rilevamento sieorologico HIV" nel 1983 o 1984, cioè in anni in cui l'HIV non era rilevabile dal sangue), non si può presumere che in quelle date la persona abbia avuto piena conoscenza dei risultati di quelle stesse diagnosi (delle quali, è importante sottolineare, non è stata prodotta documentazione redatta all'epoca) e, soprattutto, della gravità dell'infezione e delle sue conseguenze. Si consideri che l'HIV è molto spesso asintomatico (e solo negli ultimi anni sono state introdotte terapie farmacologiche) sino al manifestarsi dell'Aids conclamato, sicché l'effettiva consapevolezza dell'evento dannoso nelle sue reali componenti, ai fini della decorrenza della prescrizione, non può, in mancanza di qualsiasi attività assertiva e probatoria del Ministero che l'ha eccepita, semplicisticamente individuarsi nella data di rilevazione sierologia del virus. Né, del resto, potrebbe obiettarsi che la domanda risarcitoria di attori ed intervenuti riguarderebbe soltanto i danni alla salute causati dallo stato di sieropositività per HIV, essendo la domanda chiaramente rivolta al risarcimento di tutti i danni conseguenti al contagio, ivi compresi quelli, che saranno accertati in separato giudizio, connessi all'Aids conclamato.
Quanto a coloro (es.: XXX) per i quali non si rinviene in atti la certificazione sanitaria, si osserva che, non avendo il Ministero contestato l'esistenza delle malattie virali di cui trattasi e la loro rapportabilità ad eventi trasfusionali in senso lato né avendo allegato (e dimostrato) alcunché riguardo all'epoca in cui costoro avrebbero avuto consapevolezza delle malattie, l'eccezione di prescrizione si deve ritenere ugualmente infondata.
4) La qualificazione della domanda.
Attori e convenuti hanno richiamato a sostegno dell'affermata responsabilità del Ministero convenuto gli artt. 2043, 2049 e 2050 c.c..
Come già ritenuto dalla Corte d'appello, tra gli enti (unità sanitarie locali, ospedali ecc., tutti dotati di autonoma personalità giuridica) che hanno provveduto all'effettiva somministrazione degli emoderivati nell'ambito del servizio sanitario nazionale ed il Ministero, non sussiste un rapporto di dipendenza ovvero di committenza che possa giustificare l'applicazione dell'art. 2049 c.c., sicché improprio è il richiamo alla suddetta disposizione.
Ugualmente improprio è il fugace riferimento all'art. 2050 c.c.: attività pericolosa non è quella del Ministero che, come si vedrà, esercita la vigilanza in materia sanitaria e di uso dei derivati del sangue, ma semmai quella dei soggetti direttamente coinvolti nella produzione e commercializzazione dei prodotti (ne è esempio l'affermazione della responsabilità delle imprese farmaceutiche, ai sensi dell'art. 2050 c.c., nella vicenda riguardante la produzione ed immissione in commercio di farmaci destinati all'inoculazione nell'organismo umano umane e contenenti immunoglobuline infette dal virus dell'epatite B: v., tra le altre, Cass. 20.7.1993, n. 8069; 27.1.1997, n. 814). E' vero che al Ministero spetta di fissare il prezzo di cessione delle unità di sangue tra i servizi sanitari in modo uniforme su tutto il territorio nazionale (v. art. 1, co. 6, l. 4.5.1990, n. 107) e di autorizzare l'importazione ed esportazione del sangue e dei suoi derivati, tuttavia si tratta di poteri-doveri complementari a quello di vigilanza e funzionali alla regolazione ed organizzazione generale di un settore di primaria rilevanza pubblica. La pericolosità della pratica terapeutica della trasfusione di sangue e dell'uso di emoderivati (riconosciuta nell'art. 19 del d.m. sanità 15.1.1991 come "non esente da rischi"), così come della produzione e commercializzazione dei prodotti in questione, non rende ovviamente pericolosa l'attività ministeriale la cui funzione è proprio quella di controllare e vigilare a tutela della salute pubblica.
La domanda dev'essere, pertanto, qualificata ai sensi dell'art. 2043 c.c., come implicitamente si deduce dalla dedotta responsabilità del Ministero per avere, in violazione del principio del neminem laedere e, quindi, colposamente, omesso di vigilare sulla sicurezza del sangue e degli emoderivati.
Se è vero che, in caso di danno prodotto dal comportamento non provvedimentale della p.a., l'elemento soggettivo del dolo o della colpa si risolve "nella violazione - la quale si traduce nella lesione dei diritti soggettivi dei terzi all'integrità psico-fisica - delle regole di comune prudenza … ovvero di leggi e regolamenti alla cui osservanza la p.a. è vincolata" (v. Cass. 6.4.1998, n. 3553), è necessario individuare le fonti normative che consentano di affermare l'esistenza di obblighi comportamentali connessi alle funzioni pubbliche assegnate al Ministero della sanità.
5) La legittimazione passiva del Ministero della sanità.
E' così introdotto il tema della legittimazione passiva del Ministero, secondo il quale la legittimazione spetterebbe ad altri soggetti pubblici operanti nel settore sanitario (regioni, unità sanitarie locali, operatori sanitari ecc.). L'eccezione non è fondata.
Il tribunale e la corte di appello, nelle sentenze già citate, hanno già rilevato che l'eventuale concorso di responsabilità in capo ad altri soggetti non esclude la possibilità per i danneggiati di promuovere azione (ai sensi dell'art. 2055 c.c.) nei confronti di uno solo dei condebitori corresponsabili (cioè, nel specie, del Ministero della sanità) e che la causa petendi è qui dedotta con riferimento al comportamento omissivo del suddetto Ministero per colposa inosservanza dei suoi doveri istituzionali (oltre che di programmazione, indirizzo e coordinamento) di sorveglianza e vigilanza in materia sanitaria e, in particolare, nella produzione, commercializzazione e distribuzione dei derivati del sangue, a prescindere da ulteriori eventuali responsabilità di altri soggetti nell'attività di effettiva distribuzione e somministrazione.
La fonte normativa che integra la norma primaria del neminem laedere, da cui ricavare l'esistenza di siffatti doveri in capo al Ministero della sanità, è costituita dall'art. 1 l. 13.3.1958, n. 296, che gli attribuisce "il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica", di "sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provvedendo anche al coordinamento…; emanare, per la tutela della salute pubblica, istruzioni obbligatorie per tutte le amministrazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari…".
Si tratta di doveri che, già enucleabili dall'ampia disposizione in questione (oltre che dalla stessa attività normativa svolta dal Ministero in questo campo), sono confermati da altre fonti normative ed è opportuno richiamarne alcune, seppur sommariamente ed in ordine cronologico:
a. la legge 14.7.1967, n. 592, attribuisce al Ministero il compito di emanare "le direttive tecniche per la organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale nonché alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita la vigilanza" (art. 1), di nominare la commissione provinciale per la disciplina dei servizi di trasfusione (art. 3), di autorizzare il funzionamento dei centri (regionali o infraregionali) di produzione degli emoderivati e la stessa produzione e distribuzione degli emoderivati (artt. 4-7), di autorizzare le "officine farmaceutiche" (v. art. 13 che richiama il r.d. 27.7.1933, n. 1265, il cui art. 161 significativamente attribuiva al Ministero dell'interno penetranti poteri ispettivi nelle officine; v. art. 24 del r.d. 3.3.1927, n. 478; l'art. 22, co. 2, l. n. 592/1967 autorizza l'autorità sanitaria a disporre la chiusura del centro, del laboratorio o dell'officina autorizzati), di approvare la nomina del dirigente medico-chirurgo dei centri trasfusionali e di produzione di emoderivati (art. 11), di proporre al presidente della repubblica l'emanazione di norme relative all'organizzazione, al funzionamento dei servizi trasfusionali, alla raccolta, conservazione ed all'impiego dei derivati, alla determinazione dei requisiti e dei controlli cui debbono essere sottoposti (art. 20), di autorizzare l'importazione e l'esportazione del sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico (art. 21); b)
b. il d.p.r. 24.8.1971, n. 1256 (regolamento di attuazione della legge n. 592/1967) contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (v. artt. 2, 3, 103, 112);
c. il d.m. sanità 17.2.1972 contiene norme che regolano l'attività del Centro nazionale per la trasfusione del sangue, prevedendo tra l'altro che il Ministero della sanità sia costantemente informato delle attività del Centro;
d. il d.m. sanità 15.9.1972 disciplina l'importazione ed esportazione del sangue e suoi derivati, prevedendo l'autorizzazione ministeriale (almeno nel caso di provenienza da paesi nei quali non vi sia una normativa idonea a garantire la sussistenza dei requisiti minimi di sicurezza) agli ospedali ed ai centri gestori per la produzione di emoderivati ed alle officine farmaceutiche che siano risultati idonei ad eseguire i controlli sui prodotti importati previo accertamento dell'Istituto superiore di sanità (il quale è alle dipendenze del Ministero della sanità: v. artt. 3 l. n. 296/1958 e 9 l. n. 833/1978) (artt. 1, 5, 6); nei casi di necessità ed urgenza è previsto che il Ministero possa procedere direttamente all'importazione del sangue e dei derivati ed alla successiva distribuzione tramite il Centro nazionale per la trasfusione ed i centri per la produzione degli emoderivati (art. 2);
e. la l. 7.8.1973, n. 519, attribuisce all'Istituto superiore di sanità compiti attivi (accertamenti ispettivi con facoltà di accesso agli impianti produttivi ed ai presidi e servizi sanitari per compiere le indagini di natura igienico-sanitaria, i controlli analitici, gli esami ecc.: v. art. 9 l. n. 833/1978 cit.) a tutela della salute pubblica;
f. pur dopo l'inizio del passaggio alle regioni di alcune funzioni statali in materia sanitaria ai sensi dell'art. 117 Cost. (v. d.p.r. 14.1.1972, n. 4; l. 29.6.1977, n. 349; d.p.r. 24.7.1977, n. 616), la legge 23.12.1978, n. 833 (che ha istituito il s.s.n.) conserva al Ministero della sanità (il quale si avvale, come s'è detto, dell'Istituto superiore di sanità), oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale (art. 53 ss.) e a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria (tra cui quella riguardante la profilassi delle malattie infettive: v. art. 7, lett. a, che richiama l'art. 6, lett. b) anche con poteri sostitutivi (v. art. 5, co. 4), importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati (v. art. 6, lett. b, c; l'art. 4, n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale); è significativo che l'art. 32 attribuisca all'amministrazione centrale il potere di emettere ordinanze di carattere contingibile ed urgente in materia di sanità pubblica;
g. il d.l. 30.10.1987, n. 443 (conv. in l. 29.12.1987, n. 531), stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla c.d. "farmacovigilanza" da parte del Ministero della sanità il quale si avvale dell'Istituto superiore di sanità e delle stesse unità sanitarie locali (art. 9, co. 1, 6), le quali hanno un obbligo di informazione nei confronti del Ministero che, a sua volta, può stabilire le modalità di esecuzione dei monitoraggi sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelativi riguardanti i prodotti in commercio (co. 2, 7, 8);
h. l'importante legge n. 107/1990 cit. (contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati) stabilisce che il prezzo di cessione delle unità di sangue è fissato annualmente dal Ministero della sanità (art. 1, co. 6), il quale (sentita la Commissione nazionale per il servizio trasfusionale che è nominata dallo stesso Ministero: v. art. 12) emette protocolli riguardanti le modalità delle donazioni, l'accertamento dell'idoneità dei donatori, l'organizzazione delle attività (mediante strutture sia nazionali che regionali coordinate dal Ministero: v. art. 8, co. 2, lett. c, h, co. 4); all'Istituto superiore, inoltre, è attribuito il compito di provvedere alla prevenzione delle malattie trasmissibili, di ispezionare e controllare le aziende di produzione di emoderivati e le specialità farmaceutiche emoderivate (v. art. 9, lett. a, d, e; l'art. 10, co.1, chiarisce che le frazioni plasmatiche che non possono essere prodotte con mezzi fisici semplici sono specialità farmaceutiche di produzione industriale soggette ai controlli dell'autorità sanitaria "da espletarsi sugli impianti produttivi delle aziende previamente autorizzate, sul plasma di origine e sulla produzione finale"), di vigilare sulla qualità dei plasmaderivati prodotti in centri individuati ed autorizzati dal Ministero (art. 10, co. 2); l'art. 15 stabilisce che l'importazione del sangue umano conservato e dei suoi derivati sono autorizzate dal Ministero della sanità, che l'importazione di emoderivati pronti per l'impiego è consentita a condizione che (fatta eccezione per quelli di provenienza da paesi europei) risultino autorizzati anche da parte dell'autorità sanitaria italiana e comunque "a condizione che su tutti i lotti e sui relativi donatori sia possibile documentare la negatività dei controlli per la ricerca di antigeni ed anticorpi di agenti infettivi lesivi della salute del paziente ricevente"; l'art. 17 prevede sanzioni penali nei confronti delle persone e delle strutture trasfusionali che violino le norme in materia (cfr. art. 11 d.lgs. 18.2.1997, n. 44); il Ministero della sanità deve presentare annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di attuazione della legge (art. 22);
i. il d. lgs. 29.5.1991, n. 178, disciplina, tra l'altro, le modalità di rilascio e revoca dell'autorizzazione ministeriale alla produzione, importazione ed immissione in commercio delle specialità medicinali, con incisivi poteri ispettivi e di vigilanza del Ministero (v. artt. 3, 7, 14);
j. il d.m. sanità 12.6.1991 disciplina l'autorizzazione ministeriale all'importazione di sangue e plasmaderivati, stabilendo che essa può avvenire "dopo aver accertato l'origine del sangue o del plasma e dopo aver acquisito da parte delle autorità sanitarie e dei produttori dei Paesi importatori le garanzie necessarie e i dettagli delle metodiche utilizzate per assicurare la protezione dei donatori e dei riceventi" (art. 1, co. 2) e "a condizione che il richiedente sia in grado di eseguire sul prodotto importato i controlli previsti dalla Farmacopea ufficiale … e possa assicurare in qualsiasi momento e per qualsiasi evenienza la documentazione relativa alla selezione dei donatori" (co. 3); "i requisiti cui debbono corrispondere le importazioni di plasma e di plasmaderivati sono fissati … su proposta del Consiglio superiore di sanità … tenendo conto delle acquisizioni scientifiche in materia e della esigenza di realizzare l'autosufficienza nazionale del sangue" (co. 4); "nei casi di necessità ed urgenza … il Ministero della sanità può procedere direttamente all'importazione dei prodotti … e alla successiva distribuzione tramite i centri regionali di coordinamento e compensazione …" (art. 2);
k. il d. lgs. 30.12.1992, n. 502, integrata e modificata da leggi successive, che ha riordinato la normativa in materia sanitaria ampliando le competenze delle regioni, ha conservato al Ministero della sanità poteri di ingerenza e sostitutivi (v. art. 2, co. 2, sexies lett. e, octies);
l. in tempi recenti, il d.lgs. 30.6.1993, n. 266 ha conservato al Ministero della sanità compiti in materia di sanità pubblica e "vigilanza" sulle specialità medicinali (art. 1, lett. c, d) (l'art. 4 del regolamento di attuazione approvato con d.p.r. 2.2.1994, n. 196, mod. dal d.p.r. 1.8.1996, n. 518, individua nel dipartimento del Ministero per la valutazione dei medicinali e la farmacovigilanza quello cui è attribuito il compito attinente ai farmaci con particolare riguardo alla vigilanza sulla conformità delle specialità medicinali alle norme nazionali e comunitarie, prevede che il suddetto dipartimento "si avvale" per questo compito delle regioni, unità sanitarie locali, aziende ospedaliere ecc., oltre che di un servizio di vigilanza sugli enti, tra cui la Croce rossa italiana); in base al nuovo ordinamento delineato dal d. lgs. 30.6.1993, n. 267, l'Istituto superiore di sanità svolge funzioni di controllo (ad es., sui farmaci e vaccini, provvede all'accertamento dell'innocuità dei prodotti farmaceutici ecc. e si è detto che gli emoderivati sono "specialità medicinali"), oltre che di ricerca e sperimentazione per quanto concerne la salute pubblica; il d. lgs. n. 44/1997 cit. stabilisce, tra l'altro, che il sistema nazionale della farmacovigilanza fa capo al Ministero della sanità (art. 2); il d. lgs. 27.12.1997, n. 449, ribadisce il compito di vigilanza del Ministero sull'attuazione del Piano sanitario nazionale e sull'attività gestionale delle aziende unità sanitarie locali ed ospedaliere (art. 32, co. 11); il d.lgs. 31.3.1998, n. 112, che ha operato il conferimento alle regioni della generalità delle attribuzioni statali in materia di salute umana, ha lasciato invariato il riparto di competenze in materia di sangue umano e suoi componenti, di produzione di plasmaderivati e farmacovigilanza (artt. 115, 116).
Ne risulta, in conclusione, confermato in capo al Ministero della sanità il dovere, che è strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, di vigilanza nella preparazione ed utilizzazione dei prodotti derivati dal sangue da destinare al consumo umano, al quale corrisponde un dovere aggravato di diligenza nell'impiego delle cure ed attenzioni necessarie alla verifica della sua sicurezza.
6) L'ammissibilità della domanda.
Il Ministero convenuto l'ha infondatamente contestata sul presupposto della vigenza di una disciplina specifica che prevede a carico dello Stato il pagamento di un indennizzo destinato a coprire parte dei danni derivanti da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.
Si tratta di una normativa (v. legge n. 210 del 25.2.1992, mod. dalla legge n. 237 del 25.7.1997) che ha introdotto un sistema di sicurezza sociale con la finalità solidaristica (artt. 2 e 32 Cost.) di soccorrere quanti abbiano subito danni in conseguenza di un'attività di cura promossa dallo Stato per la tutela della salute pubblica, esonerando la parte dall'accidentato percorso dell'azione di responsabilità civile ex art. 2043 c.c..
L'ammissibilità del concorso delle due forme di tutela (per ulteriori profili vedi il par. 11) è stata ammessa dalla Corte costituzionale (v. sent. n. 307/1990, 118/1996, 27/1998) e dalla giurisprudenza di merito (oltre al precedente specifico costituito dalla citata sentenza del Tribunale di Roma sul punto confermata in secondo grado, v. App. Milano, 22.10.1996, in Danno e resp., 1997, 734).
La questione di legittimità costituzionale dedotta dagli attori nell'ipotesi di ritenuta inammissibilità dell'azione risarcitoria è, pertanto, superata.
7) Il nesso causale tra trasfusioni o somministrazione di emoderivati e contagio.
Attori ed intervenuti assumono di aver contratto le infezioni virali in occasione di pratiche trasfusionali (espressione questa da intendersi in senso generico) alle quali sono stati costretti dallo stato di emofilia in cui essi versavano. Dalla documentazione sanitaria prodotta in giudizio risulta, infatti, che si tratta di soggetti prevalentemente emofilici, per i quali la terapia è normalmente costituita dalla somministrazione di emoderivati, ovvero affetti da altre patologie emorragiche (come la talassemia: è il caso, ad esempio, di XXX; la leucemia: è il caso, ad esempio, di XXX; il morbo di Von Willebrand ecc.) curate con periodiche trasfusioni di sangue o suoi componenti. Come già ritenuto dalla Corte di appello di Roma, il nesso causale si evince dalla documentazione sanitaria prodotta in giudizio e, quanto a coloro per i quali essa manca (vedi par. n. 3), dal comportamento processuale del Ministero che non l'ha specificamente contestato. Ciò è sufficiente ai fini della richiesta pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni, il cui contenuto di mera declaratoria iuris postula quale presupposto necessario e sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose (restando impregiudicato l'accertamento, riservato al giudice della liquidazione, dell'esistenza ed entità del danno nonché del nesso di causalità tra questo e l'illecito) ed alla quale pronuncia è di ostacolo solo la prova positiva e concreta, che qui manca, dell'insussistenza del danno e del rapporto di causalità (v. Cass. n. 4511/1997). Quanto a XXX, il nesso causale può essere riconosciuto, essendo verosimile che la causa dell'infezione sia stata il contatto con il coniuge XXX (emofilico ed emotrasfuso) del quale è stata prodotta la documentazione sanitaria (è significativo, sul punto, che la legge n. 210/1992 riconosca l'indennizzo anche al coniuge del soggetto danneggiato: v. art. 2, co. 3).
8) Il dovere di vigilanza da parte del Ministero della sanità.
Sostiene l'Avvocatura dello Stato che, avendo il Ministero provveduto ad emanare nel tempo, parallelamente alle acquisizioni della scienza medica, numerosi provvedimenti (circolari, decreti, pareri ecc.), tutti citati (v. comparsa di costituzione e conclusionale) e molti dei quali prodotti in giudizio, con cui furono imposte ai diversi soggetti interessati (unità sanitarie locali, regioni, aziende farmaceutiche ecc.) raccomandazioni e precauzioni al fine di rendere sicuro l'uso del sangue e degli emoderivati (tra cui i concentrati di fattori VII, VIII e IX che, ottenuti dal plasma dopo separazione, concentrazione e purificazione, sono usati nella profilassi e nel trattamento delle emorragie nei soggetti con emofilia A e B) e di contrastare il pericolo di infezioni virali nei soggetti riceventi, nessuna responsabilità gli sarebbe imputabile, avendo esso così assolto ai suoi doveri istituzionali.
L'assunto è infondato. Al Ministero, infatti, non è contestata l'omissione normativa, cioè di aver omesso di emanare provvedimenti nella materia in esame ma di averli emanati in ritardo (ad esempio, è significativo, come si dirà, il ritardo nell'attuazione del c.d. piano sangue), con contenuti inadeguati e di non aver vigilato sulla puntuale esecuzione degli stessi e, soprattutto, di non aver effettuato controlli effettivi sulla sicurezza del plasma importato dall'estero ovvero del sangue raccolto senza controllo sulla qualità dei donatori, sui canali di approvvigionamento e distribuzione (per il tramite delle case farmaceutiche, degli ospedali ecc.), sulle modalità e le cautele concretamente seguite nella preparazione dei prodotti (nel telegramma inviato il 5.8.1985 alle ditte farmaceutiche il Ministero impose l'impiego del termotrattamento nella produzione degli emoderivati, annunciando, in caso di non ottemperanza, l'adozione di opportuni provvedimenti, il che è significativo dei poteri che la stessa amministrazione sapeva di possedere).
Il tribunale di Roma in analoga vicenda (e la sentenza, sul punto, è stata confermata in secondo grado) ha affermato la responsabilità del Ministero sull'implicito presupposto che su di esso incombeva il dovere (enucleabile dal complesso normativo sopra richiamato) di vigilare in materia, al quale è coessenziale quello di attivarsi operativamente allo scopo di evitare o, quanto meno, di ridurre il rischio delle infezioni virali notoriamente insite nella pratica terapeutica della trasfusione di sangue e dell'uso degli emoderivati. Si tratta di un orientamento in linea con le acquisizioni più recenti della giurisprudenza (v. Cass. n. 3132/2001, 7339/1998, 8836/1994) la quale ha rilevato che l'omissione da parte della p.a. di qualunque iniziativa funzionale alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) la espone a responsabilità extracontrattuale quando dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi.
9) L'epoca di acquisizione delle infezioni.
La Corte d'appello nel confermare la decisione di primo grado ha precisato che nessuna responsabilità può attribuirsi al Ministero per le infezioni virali contratte prima che fossero acquisite "le conoscenze scientifiche sulla certezza diagnostica delle infezioni da HIV, HBV, HCV attraverso il controllo della sieropositività e la messa a punto dei meccanismi immunologici atti ad impedire il contagio tramite le emotrasfusioni e l'assunzione di emoderivati"; di conseguenza, la Corte ha individuato nel 1978 (in cui fu approntato il test diagnostico rivelatore del virus da epatite B), nel 1985 (in cui fu approntato il test c.d. Elisa rivelatore dell'HIV) e nel 1988 (in cui fu imposto il c.d. termotrattamento contro il rischio di trasmissione del virus da epatite C, sebbene il test sia stato messo a punto nel 1989) gli anni a partire dai quali sarebbe configurabile la responsabilità del Ministero per le infezioni, rispettivamente, da epatite B, HIV ed epatite C.
Questa impostazione presuppone che si sappia (o sia possibile sapere) quando il contagio è avvenuto, cioè quando il virus è entrato in contatto con l'organismo infettandolo: è solo in questo caso che sarebbe possibile giudicare dell'eventuale responsabilità della p.a. valutando se la stessa abbia posto in essere, anche mediante il controllo e la vigilanza sulle strutture sanitarie aventi compiti operativi, tutte le misure precauzionali che all'epoca erano consigliate dalla scienza al fine di evitare o ridurre i rischi connessi alla pratica trasfusionale.
Tuttavia, com'è noto, i test diagnostici di rilevazione dell'epatite B, C e dell'HIV non sono in grado di accertare l'epoca del contagio, sicché il riferimento ad essi non è utile a questo scopo, essendo essi idonei soltanto a rivelare la presenza del virus nell'organismo al tempo in cui l'esame è effettuato.
E' evidente, inoltre, che se non si condivide lo sbarramento temporale posto dalla Corte ovvero se questo sbarramento viene collocato in epoca più risalente (e cioè, così anticipando le conclusioni finali, agli inizi degli anni '70), viene meno parte dell'utilità di accertare l'epoca in cui l'infezione è avvenuta.
Tuttavia, è opportuno esaminare il problema, dovendosi ai fini della valutazione della colpa della p.a. fare necessario riferimento alle conoscenze scientifiche del tempo cui si riferisce la condotta omissiva contestatale (e cioè al periodo in cui si può presumere che sia avvenuto il contagio) e, per altro verso, dovendosi rispondere all'obiezione della difesa erariale (che sembrerebbe implicitamente accolta dalla Corte di appello) secondo cui il Ministero dovrebbe essere assolto in tutti i casi in cui l'esposizione a fattori di rischio di contagio (cioè a trasfusioni o somministrazione di emoderivati) sia (iniziata in epoca) precedente a quegli anni (1978, 1985 e 1988).
A questo riguardo, non si può fare a meno di considerare che si tratta di soggetti (come gli emofilici e coloro che siano affetti da altre emopatie croniche) costretti ad assumere emoderivati o a sottoporsi a trasfusioni di sangue intero o di suoi componenti periodicamente e per tutta la vita. Sicché, presumere che il contagio sia avvenuto il giorno (che a volte risale ad anni anche molto risalenti con punte sino agli anni '50) di inizio del trattamento, il quale è poi proseguito per decenni, anche dopo gli anni di sbarramento sopra indicati e sino agli anni '90 o prosegue tuttora, non può essere condiviso.
Se si condivide la premessa secondo cui occorre aver riguardo alla condotta del Ministero durante l'intero arco temporale del trattamento trasfusionale (in senso lato), la responsabilità dell'amministrazione non può essere negata laddove sia dimostrabile che il contagio sia avvenuto in epoca successiva agli anni indicati dalla Corte (1978, 1985 e 1988), essendo in questi casi ancor più grave la responsabilità per condotta omissiva della p.a., in quanto erano già conosciuti e diffusi i metodi di rilevazione diretta dei virus.
Ma analoga responsabilità riguarda le infezioni che dalla documentazione sanitaria (e dallo schema riassuntivo) in atti sembrerebbero contratte prima di quegli anni (come risulta dalle diagnosi verosimilmente effettuate, anche in data successiva, in base ai sintomi della malattia, attesa l'inesistenza in quei tempi di esami per la rilevazione sierologia dei virus in questione): ci si riferisce a
XXX (HCV nel 1986), XXX (HIV nel 1983), XXX (HIV nel 1983, HCV nel 1987), XXX (HIV nel 1984), XXX (HIV nel 1983), XXX (HIV nel 1983), XXX (HCV nel 1977), XXX (HBV nel 1971, HIV nel 1983), XXX (HIV nel 1984), XXX (HIV nel 1984), XXX (HCV nel 1986), XXX (HBV nel 1976), XXX (HIV nel 1984), XXX (HCV nel 1981), XXX (HIV nel 1984), XXX (HIV nel 1984), XXX (HIV nel 1983), XXX (HIV e HCV nel 1984), XXX (HIV nel 1983), XXX (HIV nel 1983), XXX (HCV nel 1984), XXX (HCV nel 1986), con la precisazione che alcuni di essi sono risultati affetti anche da altri virus.
Infatti, nonostante (nei suddetti casi) la rilevazione della malattia sia avvenuta in date precedenti a quelle di sbarramento individuate dalla Corte, essendo il trattamento proseguito (nel senso che la somministrazione di emoderivati ovvero le trasfusioni sono avvenute) anche successivamente ai primi anni '70 in cui, come si vedrà, è configurabile la responsabilità del Ministero, si deve ritenere che la condotta omissiva di quest'ultimo abbia contribuito alla diffusione delle infezioni. La soluzione che vorrebbe addossare ai danneggiati l'onere di fornire l'ardua prova della data in cui il virus è entrato in contatto con l'organismo, non è condivisibile, specie nell'ambito di un giudizio, com'è questo, avente ad oggetto l'accertamento della generica potenzialità lesiva della condotta illecita sulla base di un apprezzamento di probabilità o verosimiglianza: al principio di prova offerto dai danneggiati circa l'esposizione ai rischi di infezioni post-trasfusionali in epoca successiva ai primi anni '70 (e sino agli anni '80-'90), il Ministero non ha contrapposto alcun elemento di prova contrario, non avendo nemmeno dedotto l'interruzione del trattamento trasfusionale prima di quegli anni ovvero allegato una causa diversa del contagio (è significativo, del resto, che agli anni '70 si riferiscono le prime segnalazioni di epatite chiamata "non A non B" che, nell'80% circa dei casi, è causata dal virus dell'HCV e che solo nel 1981 furono segnalati i primi casi di Aids).
E' giunto il momento di dimostrare che lo stato delle conoscenze progressivamente raggiunte dalla scienza sin dagli anni '70 avrebbe dovuto indurre il Ministero della sanità ad esercitare attivamente il dovere di controllare e vigilare sulla sicurezza del sangue e dei suoi derivati distribuiti dal servizio sanitario nazionale.
10) Le conoscenze scientifiche dei tempi e la responsabilità del Ministero con riguardo alle diverse infezioni virali.
a) Epatite B. Fu Blumberg che nel 1965 scoprì nel sangue di un aborigeno australiano una sostanza, denominata antigene Australia, cui successivamente fu dato il nome di antigene di superficie del virus dell'epatite B (HbsAg); agli inizi degli anni '70 la scienza (vedi citazioni alla letteratura scientifica in comparsa conclusionale di parte attrice, p. 31) aveva osservato che nell'impiego dei fattori della coagulazione VIII e IX usati per il trattamento degli emofilici erano stati segnalati casi di epatite e si resero disponibili su larga scala i primi test per svelare il virus (con i metodi della immunodiffusione, immunoelettrosineresi, emoagglutinazione passiva, emoagglutinoinibizione); subito e già tra il 1971 ed il 1972 (non è necessario, al riguardo, citare la letteratura scientifica ma è sufficiente rinviare ai riferimenti contenuti in Cass. n. 6241/1987, Trib. Milano 19.11.1987, Ferriello c. Soc. Crinos, Cass. n. 8069/1993 cit. che, tra l'altro, nell'affermare la responsabilità delle case farmaceutiche per la produzione ed immissione in commercio di farmaci contenenti gammaglobuline umane infette, agevolmente supera l'obiezione circa la non piena attendibilità del metodo in quegli anni, atteso che esso avrebbe comunque ridotto in modo significativo il rischio del contagio) seguirono altri più avanzati (metodo RIA: Radio immunologic assay) e, con circolare n. 68 del 24.7.1978, il Ministero rese obbligatoria la ricerca dell'antigene dell'epatite B su ogni singolo prelievo di sangue o di plasma con il suddetto metodo RIA.
Essendo evidente il ritardo da parte dell'amministrazione centrale, che in quanto organo deputato alla tutela della salute pubblica avrebbe dovuto recepire ed introdurre tempestivamente i più avanzati metodi scoperti dalla scienza al fine di realizzare l'obiettivo tendenziale di rendere sicuro l'uso degli emoderivati, controllando preventivamente l'effettiva origine del plasma e risalendo ai singoli lotti infetti ed alla loro provenienza, è possibile affermarne la responsabilità anche nei confronti di XXX e XXX (entrambi affetti da epatite B da data precedente al 1978 e, comunque, successiva al 1971).
Ma la responsabilità del Ministero è ancor più grave se si considera che esso non ha soltanto omesso di introdurre (e vigilare sull'attuazione de) i metodi conosciuti contro il virus dell'epatite B, ma, consentendo (v. rif. al par. 5 sulle fonti normative del potere di autorizzazione conferito dalla legge al Ministero) l'importazione di grandi quantità di sangue dall'estero (per la produzione degli emoderivati necessari agli emofilici mediante estrazione dei fattori VII, VIII e IX, infatti, occorrono grandi quantità di plasma e sui rischi connessi ai grandi pool plasmatici numerose erano le denunce delle associazioni di malati e donatori: vedi, per citarne solo alcune, la Lettera aperta della Fondazione dell'Emofilia al Ministro della sanità nel 1971; gli atti dei Congressi di Pisa nel 1973 e Fiuggi nel 1976 ecc.) ed anche da paesi, come l'America e l'Africa, ove notoriamente alto era il rischio di infezioni, senza alcun controllo effettivo sul sangue (e ancor meno sui donatori) e limitandosi ad un controllo sui documenti che lo accompagnavano (la circostanza non è contestata, è stata espressamente riconosciuta dal Ministero nell'altro giudizio e risulta anche nelle certificazioni sanitarie di alcuni danneggiati: XXXX ecc.), ha di fatto rinunciato ad esercitare quella vigilanza che era invece doverosa.
Né varrebbe appellarsi allo stato ancora non avanzato della scienza medica: si è detto che agli inizi degli anni '70 il metodo per la rilevazione del virus era già conosciuto; si dirà dei metodi alternativi già conosciuti di rilevazione indiretta dei virus (ci si riferisce alla determinazione delle transaminasi ALT ed al metodo dell'anti-HbcAg: v. par. 10 b); in ogni caso, appartenendo senza dubbio l'intrinseca pericolosità del sangue come veicolo di infezioni al patrimonio delle conoscenze comuni ed essendo, in particolare, il rischio di trasmissione di epatiti virali ben noto già agli inizi degli anni '70, il comportamento omissivo ed inerte del Ministero non può essere giustificato (già, ad esempio, il d.m. 18.6.1971 escludeva la possibilità di ottenere immunoglobuline umane da soggetti che fossero o fossero stati affetti da epatite nei confronti dei quali sussisteva la possibilità che potessero trasmettere infezioni; la circolare ministeriale n. 1188 del 30.6.1971 raccomandava l'importanza dell'esecuzione sistematica della ricerca dell'antigene Australia su tutto il sangue destinato alla trasfusione e prevedeva l'obbligo di eseguire tutti gli accertamenti possibili; l'art. 47, lett. h, del d.p.r. 24.8.1971 cit.: "Non possono essere accettati come donatori coloro che negli ultimi sei mesi abbiano avuto contatti con epatitici").
In questo contesto assume rilievo anche la tardiva attuazione del piano sangue che, previsto già dalla legge n. 592 del 1967 ed attuato solo nel 1994, avrebbe potuto contribuire a realizzare l'obiettivo tendenziale dell'autosufficienza nazionale del sangue intero e dei plasmaderivati di cui era ed è nota l'importanza al fine di prevenire o ridurre i rischi causati da incontrollate importazioni dall'estero: oltre agli appelli degli esperti sulla necessità del piano (v. la proposta di legge, n. 1133, presentata alla Camera dei deputati il 10.2.1977 per la "prevenzione e terapia delle malattie trattate con derivati di plasma umano e disposizioni per rendere possibile in Italia la donazione di plasma e la plasmaferesi farmaceutica"; v. i resoconti dei Congressi di Milano nel 1981 e Roma nel 1986), numerose erano le raccomandazioni del Consiglio d'Europa, tra cui, oltre a quelle che saranno citate più avanti (v. par. 10 b), quella in data 30.4.1980, che invitava gli stati membri a realizzare l'autosufficienza nazionale stante i rischi di malattie infettive e, in particolare, delle epatiti virali connesse alla raccolta, al frazionamento ed all'uso terapeutico del sangue.
Si potrebbe obiettare che la detta autosufficienza nazionale non può costituire oggetto, per così dire, di una obbligazione di risultato dello Stato, in considerazione dell'oggettiva difficoltà di realizzare quell'obiettivo a causa della notoria scarsità delle risorse di sangue nazionale. Tuttavia, il punto è che l'amministrazione ha negligentemente ritardato (sino ai primi anni '90) di porre in essere le misure che avrebbero potuto essere utili per realizzare quell'obiettivo (l'opportunità che i plasmaderivati fossero preparati con sangue di provenienza nazionale è solo declamata nel 1985 nella circ. n. 28, finché la l. n. 107/1990 si è proposta il miglior controllo delle donazioni mediante la sensibilizzazione della popolazione residente di cui più facilmente possono conoscersi usi e costumi: v. art. 11, n. 3, lett. a, n. 4), rimanendo di fatto inerte rispetto ai conosciuti rischi (che negli anni '80 saranno ancor più gravi) connessi alla distribuzione ed importazione di sangue incontrollato nella provenienza e nella qualità. Sicché non può essere condivisa l'affermazione secondo cui, essendo gli emoderivati necessari per la salute degli emofilici e delle altre persone affette da patologie emorragiche (in quanto farmaci "salva vita"), era urgente e necessario provvedere comunque alla distribuzione di quelli di cui il servizio sanitario nazionale aveva la disponibilità. Lo stato di necessità (art. 2045 c.c.) è, infatti, inutilmente invocato: a prescindere da ogni altra considerazione che dimostrerebbe l'inconferenza del richiamo a questa disposizione, è sufficiente considerare che qui è stato il Ministero, con la propria colposa condotta omissiva, ad aggravare volontariamente quel pericolo di danno grave alla persona che invece aveva l'obbligo giuridico di evitare. L'amministrazione, inoltre, avrebbe dovuto tempestivamente informare le persone sui rischi connessi alle trasfusioni e alla somministrazione di emoderivati (v., sul punto, la racc. del Consiglio d'Europa in data 23.6.1983) ma solo nel 1991 (v. art. 19 del d.m. 15 maggio) impose al ricevente la trasfusione l'obbligo di prestare il proprio consenso informato sul rischio connesso all'emotrasfusione.
Si tratta (ma su questo punto si tornerà più avanti) di una condotta omissiva qualificata che può ritenersi intrinsecamente idonea a concretizzare un fatto illecito perfetto, in quanto causa efficiente di un grave e concreto pericolo per la salute di coloro che erano costretti (tra cui gli emofilici) a periodiche somministrazioni di prodotti emoderivati distribuiti e certificati dal servizio sanitario nazionale. Pur ammettendo che il virus all'epoca non fosse ancora direttamente rilevabile e che solo più tardi (cioè nel 1978) sarebbe stato identificato dalla scienza, ciò non varrebbe ad escludere la responsabilità, non essendo la prevedibilità del danno un criterio utilizzabile in campo extracontrattuale per ridurre l'area dei danni risarcibili (l'art. 1225 cc., infatti, non è richiamato dall'art. 2056 c.c.) e, per altro verso, essendo il nesso causale riscontrabile nella probabilità, questa sì preventivamente valutabile, che una condotta ispirata a maggiore prudenza avrebbe ridotto il rischio delle infezioni: la giurisprudenza ha chiarito che è sufficiente che il nesso eziologico tra condotta umana (anche omissiva) e danno sia di tipo probabilistico, nel senso che "per ritenere sussistente il nesso eziologico … è richiesto che l'uomo con la sua azione ponga in essere un fattore causale del risultato e che tale risultato non sia dovuto al concorso di circostanze le quali, rispetto ad esso, si presentino con carattere di eccezionalità o atipicità…": v. Cass. n. 2037/2000). E' evidente che dell'evento dannoso è chiamato a rispondere colui che, essendo venuto meno all'obbligo legale di porre in essere le misure che secondo le conoscenze dell'epoca potevano servire quantomeno a ridurre il pericolo della sua realizzazione, ha contribuito a porre in essere le condizioni necessarie per la realizzazione dell'evento dannoso costituito dalla lesione dell'integrità psico-fisica, non rilevando che quella particolare lesione fosse costituita da una malattia infettiva procurata da virus già conosciuti ovvero non ancora noti perché non identificati dalla scienza, ciò attenendo al profilo della liquidazione delle conseguenze dannose di un fatto illecito giuridicamente perfetto, in ordine al quale, in materia extracontrattuale, non opera il limite della prevedibilità. Non può, infatti, ritenersi eccezionale l'eventualità di insorgenza di malattie nuove veicolate dal sangue, sicché prevedibilità e possibile riducibilità del danno alla salute giustificano la responsabilità del Ministero.
b) HIV. Le prime segnalazioni di casi di Aids risalgono ai primi anni '80 e, in particolare, al 1982 le prime segnalazioni in soggetti emofilici che erano stati trattati con emoderivati (CDC. Possibile transfusion-associated AIDS, California, "MMWR", 1982, 31:652-4; CDC. Pneumocytstis carinii pneumonia among persons with emophilia A, "MMWR", 1982, 31: 365; Update on acquired immunodeficiency sindrome Aids among patients with hemophilia A, "MMWR", 1982, 31, 644; M.J. Cowan e M. A. Koerper, Altered T-cell immunity in hemophiliacs receiving frequent factor VIII concentrate, Blood, 1982, 60, 224): ciò "ha costituito il maggior indizio eziologico della malattia, poiché suggeriva che l'agente causale poteva essere presente nei derivati da pools plasmatici usati per trattare gli emofilici" (Aids - La sindrome da immunodeficienza acquisita, a cura di E. G. Rondanelli, ed. Piccin, Padova, 1987, 384, ed ivi rif.). Al 1983 risalgono le prime segnalazioni di trasmissione della malattia attraverso trasfusione (Amman et al., Acquired immunodeficiency in an infant: Possibile trasmission by means of blood transfusion, Lancet, 1983, i: 956).
La prima segnalazione dell'individuazione del virus in tessuti di soggetti affetti da sindrome da immunodeficienza acquisita risale al 1983 (Barrè-Sinoussi F., Cherman J.R., Rey F. et al., 1983, Isolation of a Lymphotropic retrovirus from a patient at risk for acquired immune deficiency syndrome Aids. Science 220:868), il virus fu chiamato LAV (Lymphoadenopathy Associated Virus); nel 1984 Robert Gallo isolò un virus, chiamato HTLV-III (Gallo R.C., Salahuddin S.Z., Popovic M. et al., 1984, Frequent detection and isolation of cythopatic retroviruses HTLV-III from patients with Aids and a risk for Aids, Science 224:500), che risultò essere uguale al LAV e fu definitivamente denominato HIV (Human immunodeficiency virus); sempre nel 1984 (Sarngadharan M.G., Popovic M., Bruch L. et al., 1984, Antibodies reactive with human T-lymphotropic retroviruses HTLV-III in the serum of patients with Aids. Science 224:506) fu messo a punto il test Elisa (acronimo di Enzime-Linked-Immuno-Sorbent-Assay) che permetteva di identificare la presenza di anticorpi anti-HIV nel sangue dei soggetti malati di Aids (la presenza di questi anticorpi, infatti, è il metodo più semplice per dimostrare che un soggetto è stato infettato dal virus) e nel mese di marzo 1985 il primo test per l'anti-HTLV-III/LAV ottenne la licenza di produzione (per i riferimenti v. Rondanelli, op. cit., 389 ss.); successivamente furono messi a punto i test c.d. Western-blot, utilizzato come test di conferma dopo che l'Elisa avesse ottenuto risultato positivo e, verso la fine degli anni '80, quello, più sensibile ma costoso, chiamato PCR (Polimerase Chain Reaction).
Ancor prima che fosse disponibile il test per identificare l'HIV, furono tentati metodi volti ad eliminare gli agenti infettivi nel sangue: i primi studi sull'utilità del calore a rendere inattivi i virus a Rna (che usano, come l'HIV e l'HCV, l'acido ribodesossinucleico per veicolare il loro codice genetico), senza, allo stesso tempo, alterare il prodotto (cosa che accadrebbe in caso di riscaldamento eccessivo), risalgono, per quanto risulta, al 1982 (R. E. F. Matthews, International Committee and Taxonomy of Viruses, Karger, Basilea, 1982). Questo metodo di riscaldamento (a 60 °C per 10 ore) (Gerety R. J., Aronson D. L., Plasma derivatives and viral hepatitis, Transfusion, 22, 347, 1982, v. rif. in Federazione medica XLIV - 10.1991, Sicurezza degli emoderivati e degli emocomponenti, 700-1, n. 5), detto della pastorizzazione, era ampiamente utilizzato per la preparazione dell'albumina, emoderivato al quale non era stata associata alcuna trasmissione di infezioni; al 1984 e 1985 risalgono le prime applicazioni ai preparati antiemofilici dei fattori VIII e IX di altri tipi di trattamento al calore sempre più perfezionati (al calore secco per 72 ore a 80 °C, poi al calore umido e con solventi detergenti: c.d. metodo virucida) (v. Levy JA, Mitra G., Mozen MM, Recovery and inactivation of infectious retroviruses from factor VIII concentration, Lancet, 1984, Sep. 29, 2:722-3; Horowitz B., Wiebe M.E., Lippin A., Stayker M.H., Inactivation of viruses in labile blood derivatives. I. Distruption of lipid-enveloped viruses by tri 'n-butyl' phosphate detergent combinations, Transfusion, 1985, 25:516).
E' opportuno precisare (dal momento che molti dei danneggiati sono stati trattati anche mediante trasfusioni, ma sul punto si tornerà più avanti) che mentre le unità di sangue avviate alla produzione di emoderivati (e, per quanto interessa, dei derivati del plasma: fattori della coagulazione ecc.) possono ricevere trattamenti di inattivazione virale (quale quello antivirucidico) di tipo chimico o fisico che non alterano le proprietà terapeutiche dell'emoderivato stesso e lo rendono sicuro rispetto al rischio di trasmissione di agenti infettivi, i suddetti metodi non sono efficaci sul sangue intero e sui suoi componenti cellulari, i quali, se sottoposti ai suddetti procedimenti chimici o fisici, sarebbero alterati e distrutti.
Agli inizi del 1983 il Servizio per la salute pubblica degli Stati Uniti diffuse alcune raccomandazioni specifiche per ridurre la diffusione del virus tramite emoderivati e trasfusione di sangue (CDC. 1983. Prevention of acquired immune deficiency sindrome Aids: Report of interagency recommendations. "MMWR", 32: 101); nello stesso anno il Bollettino epidemiologico settimanale del Ministero della sanità francese (n. 37) riportò i primi casi di Aids comparsi in soggetti emofilici che avevano assunto emoderivati tratti da pool ed il Ministero degli affari sociali e della solidarietà nazionale francese, con circolare del 20.6.1983, ordinò che i donatori a rischio fossero scartati dalle raccolte di sangue; il Consiglio d'Europa, nella racc. dell'11.9.1981, invitava gli stati a tenere conto delle situazioni epidemiologiche nei paesi di origine ed a stabilire una regolamentazione concernente l'importazione del sangue e suoi derivati allo scopo di limitare il più possibile i rischi potenziali per la salute derivanti dalla trasmissione di agenti infettivi; nella racc. in data 23.6.1983 invitava gli stati membri a vigilare contro il rischio di agenti infettivi trasmissibili attraverso le trasfusioni e i prodotti emoderivati, evitando l'uso di prodotti con fattori coagulanti ricavati da grandi stock di plasma importato da paesi con popolazioni a rischio e da donatori remunerati, informando gli operatori sanitari, i riceventi (come gli emofilici) e i donatori dei potenziali pericoli derivanti dalla sindrome da Aids e delle possibilità esistenti di ridurli; le principali misure adottate in quegli anni per ridurre la frequenza della malattia negli emofilici "erano volte a prevenire l'uso del plasma di individui con Aids o a rischio di Aids, a ridurre la frequenza della terapia con derivati da pools plasmatici e ad introdurre metodi per inattivare il virus da questi derivati da pools plasmatici" (Rondanelli, op. cit., 384).
Anche il Ministero della sanità italiano era consapevole del rischio, avendo emanato già dal 1983 alcuni provvedimenti, seppure, a fronte della gravità del problema, inadeguati, insufficienti e tardivamente attuati: la circ. n. 64/1983 conteneva alcune direttive per la rilevazione dei dati ai fini epidemiologici della sindrome da Aids, segnalando il rischio per coloro che erano esposti a frequenti trasfusioni e somministrazione di emoderivati; sempre nel 1983 era avviata un'indagine atta a verificare i metodi di preparazione degli emoderivati ed i rischi di infezioni; con circ. n. 65/1984 venivano impartite istruzioni sulle misure generali di profilassi dell'Aids di cui era riconosciuta la gravità; il 19.5.1984 veniva decisa (senza però che seguissero concreti provvedimenti di attuazione) l'esclusione delle importazioni di sangue da paesi e rischio ed un controllo più accurato su ciascun pool di materia prima; con circ. n. 28 del 17.7.1985 erano emanate istruzioni di carattere tecnico intese ad eliminare il rischio di infezioni con l'introduzione del trattamento termico nel procedimento di inattivazione virale per i fattori antiemofilici (v. anche il telegramma in data 8.8.1985 inviato alle aziende produttrici); solo il 30.4.1986 era imposto lo screening di ogni singola unità di sangue o plasma impiegato nella produzione degli emoderivati (e vedi, ancor più tardi, anche i dd.mm. 15.1.1988, 21.7.1990 e 15.1.1991, i quali prescrivevano la produzione di emoderivati esclusivamente a partire da plasma negativo al test HIV, la verifica dell'eventuale presenza di anticorpi HIV, l'accertamento dell'idoneità dei donatori di sangue, escludendo quelli considerati a rischio, tra cui i politrasfusi dal 1978 in poi).
Tuttavia, il Ministero non ha (e, in ogni caso, non ha allegato né dimostrato di avere) fatto seguire a questi provvedimenti concrete misure operative di vigilanza e controllo sulle case farmaceutiche e sui soggetti direttamente coinvolti nella produzione e commercializzazione degli emoderivati, ritardando sino al 1988 (v. parere del Consiglio superiore di sanità in data 17.3.1988) la decisione di ritirare dal commercio i farmaci non sottoposti al termotrattamento.
La responsabilità del Ministero per la trasmissione dell'HIV, quindi, per quanto qui interessa, può essere fatta risalire ad epoca precedente al 1983, dal momento che, essendo stati allora riscontrati i sintomi della malattia nei soggetti indicati al paragrafo 9), si può presumere che il contagio sia avvenuto in epoca precedente.
Infatti, già dal 1982/83, cioè da quando fu segnalato che l'Aids poteva essere trasmesso (benché non fossero ancora noti i metodi di rilevazione ed inattivazione del virus) attraverso gli emoderivati e le componenti cellulari del sangue e che ad alto rischio erano i derivati dal plasma usati dagli emofilici (al 1982 risale il lavoro di Gerety R.J., Aronson D.L. cit., che classificava come ad alto rischio di trasmissione di epatite i fattori della coagulazione usati per gli emofilici), elementari ragioni di prudenza avrebbe dovuto indurre il Ministero ad esercitare i suoi poteri di vigilanza e controllo sull'origine del plasma e sulle modalità di preparazione dei prodotti; ma, soprattutto, è importante ricordare che la pericolosità del sangue come veicolo di infezioni era nota già dai primi degli anni '70 (v. letteratura scientifica citata in comparsa conclusionale attorea, p. 34, 37 e, per altri riferimenti alla conosciuta pericolosità dei preparati antiemofilici dagli anni '70, p. 35-36) e probabilmente anche da epoca precedente, sicché, come si è già detto parlando dell'epatite B (è qui necessario rinviare alle considerazioni fatte nel par. 10 b), il Ministero avrebbe dovuto già da allora porre in essere tutti gli accorgimenti noti e necessari al fine di ridurre il rischio.
Occorre però rispondere alla prevedibile obiezione del Ministero, secondo cui, non conoscendosi nel 1983 (e, a maggior ragione, in epoca precedente) il metodo di rilevazione del virus (il test Elisa fu introdotto nel 1985), non sarebbe stato in ogni caso possibile scongiurare il rischio di trasmissione dell'HIV.
L'obiezione non coglie nel segno. Premesso che il Ministero aveva il dovere (reso ancor più urgente dalle diffusione dell'epatite c.d. "non A non B" e dell'Aids) di porre in essere tutte le cautele e le misure precauzionali conosciute dalla scienza, l'aver omesso di effettuare sul plasma controlli effettivi di laboratorio che rivelassero la presenza di infezioni all'epoca conosciute (quali quelle derivanti dal virus dell'epatite B) nonché l'aver omesso qualsiasi indagine anamnestica sui donatori del sangue, ne determina la responsabilità anche per le infezioni che all'epoca non erano ancora conosciute, atteso che, qualora fossero state adottate le misure precauzionali conosciute (seppur per contrastare malattie diverse), il rischio della contrazione delle nuove malattie virali sarebbe stato certamente ridotto.
E' importante chiarire, infatti, che tra le infezioni in questione (epatite da HBV, HCV ed infezione da HIV) sussiste notoriamente una tendenziale coincidenza epidemiologica (per riferimenti alla letteratura scientifica si rinvia alla comparsa conclusionale attorea, p. 34-37; come si legge in Rondanelli, op. cit., p. 384: "il modello epidemiologico dell'Aids era infatti strutturalmente simile a quello dell'epatite B, che è spesso diffusa attraverso il contatto parenterale con il sangue…"; anche nella circolare ministeriale n. 64/1983 cit. si legge: "I dati epidemiologici e clinici orientano verso una eziologia virale a trasmissione sessuale e parenterale simile a quella dell'epatite B"), nel senso che identiche sono le modalità di trasmissione dei virus ed identiche le precauzioni necessarie (è significativo, a questo proposito, che gran parte dei danneggiati sia affetta contemporaneamente da due o anche tre delle infezioni virali in questione).
L'aver omesso i controlli sui pool plasmatici e, in particolare, sull'attuazione delle raccomandazioni per la preparazione dei prodotti antiemofilici ed il controllo sull'idoneità dei donatori del sangue secondo le tecniche nel tempo note (v., tra le altre, le prescrizioni contenute negli art. 65 ss. d.m. 18.6.1971 e 44 ss. d.p.r. n. 1256/1971) al fine di evitare i rischi di trasmissione di virus conosciuti (come l'epatite), espone il Ministero a responsabilità rispetto alla diffusione di virus diversi e solo successivamente conosciuti nella loro caratterizzazione molecolare, il cui rischio avrebbe potuto essere, quanto meno, ridotto ponendo in essere e vigilando sull'attuazione di quelle medesime cautele.
Prima che l'HIV venisse isolato e che fosse messo a punto il test Elisa che consentiva la rilevazione diretta dello stesso, erano diffusi metodi alternativi ed indiretti di rilevazione che consentivano di identificare le persone considerate a rischio di trasmettere malattie e che avrebbero, quindi, dovuto essere escluse dalla donazione, il che non avvenne, essendo gli emoderivati stati prodotti con sangue di incerta provenienza utilizzato per la formazione di grandi pool plasmatici ed il sangue utilizzato per le trasfusioni non controllato e proveniente da donatori non testati.
In particolare, tra i metodi usati vi era quello per l'individuazione degli anticorpi (anti-HbcAg) in soggetti che erano entrati in contatto con il virus dell'epatite B: "questo metodo era stato scelto poiché una serie di studi dimostrava che la maggior parte dei pazienti con Aids era positiva anche per l'anti-Hbc… l'anti Hbc è stato considerato come un marker di popolazioni per gruppi a rischio di contrarre l'Aids e, quindi, potenzialmente infettivi" (v. Rondanelli, op. cit., 389); è significativo che già il citato art. 44 d.p.r. n. 1256/1971 prevedesse l'esclusione dalla donazione di chi era o, anche, era stato affetto da epatite virale, in considerazione della maggiore esposizione di questi soggetti ad altri rischi virali veicolati dal sangue (non importa se ignoti).
Altro metodo indiretto usato era offerto dalla determinazione delle transaminasi e, in particolare, della ALT (alanina transaminasi). La determinazione di questo enzima, che era noto per essere al di sopra della media e, quindi, alterato nei soggetti con patologie epatiche e, in particolare, nelle epatiti, poteva rivelare la presenza di infezioni da virus non ancora conosciuti e cioè non noti dal punto di vista della caratterizzazione molecolare (come appunto l'HIV e l'HCV), sicché già nel 1974 ne fu proposta l'introduzione al fine di escludere dalla donazione coloro i cui valori erano alterati (vedi, per i riferimenti alla letteratura scientifica, la comparsa conclusionale cit., p. 31-34) ma questo metodo fu introdotto soltanto nel 1989 (vedi lettera circolare in data 31.10.1989, nella quale il Ministero della sanità informava le aziende farmaceutiche dell'associazione tra elevati livelli di ALT ed epatite "non A non B" e le invitava ad inserire nelle dichiarazioni del direttore tecnico delle ditte farmaceutiche - v. lettera 6.7.1987 - che dovevano accompagnare ogni unità di sangue ai fini della ricerca degli anticorpi anti HIV l'avvenuto screening per l'ALT).
Ai fini dell'affermazione della responsabilità del Ministero anche nei confronti di coloro che hanno contratto il virus dell'HIV prima del 1985 soccorre, inoltre, l'argomento già svolto a proposito dell'epatite B riguardo alla giuridica irrilevanza in campo extracontrattuale che l'infezione virale non fosse ancora ben conosciuta al momento della condotta illecita omissiva, quando le misure precauzionali obbligatorie omesse (prescritte ovvero consigliabili per contrastare la diffusione di virus noti) avrebbero consentito di ridurre l'insorgenza anche di infezioni virali ancora non conosciute. La violazione da parte dell'amministrazione delle norme di prudenza e diligenza direttamente finalizzate a realizzare condizioni di (seppur non assoluta) sicurezza nell'uso degli emoderivati concretizza il requisito (che vale ad integrare l'elemento soggettivo della colpa) della prevedibilità dell'evento dannoso costituito dalla lesione del diritto alla salute, essendo all'epoca ben prevedibile che le omissioni contestate potessero costituire un fattore causale significativo nella verificazione di danni alla salute nei soggetti che di quelle norme erano diretti destinatari. Pertanto, a nulla rileva che, all'epoca della condotta omissiva, la malattia fosse o meno conosciuta nella sua esatta caratterizzazione molecolare, trattandosi di circostanza che rileva soltanto ai fini della configurazione e liquidazione del danno risarcibile, il quale, come si è detto, in campo extracontrattuale, non può essere limitato alle sole conseguenze dannose strettamente prevedibili (si è detto che l'art. 1225 c.c. non è richiamato dall'art. 2056 c.c.).
c) Epatite C. La storia di questa epatite nasce quando, verso la metà degli anni '70, scoperta la possibilità di fare la diagnosi diretta dell'epatite A, si notò che delle epatiti ritenute di tipo A perché prive dell'antigene proprio dell'epatite B solo una parte aveva i marcatori propri dell'epatite A, sicché fu dimostrata l'esistenza di una terza forma di epatite che fu chiamata "non A non B". Il primo test che riuscì a individuare il virus mediante la ricerca degli anticorpi HCV fu disponibile solo nel 1989 (c.d. test Eia) e successivamente perfezionato; con d.m. 21.7.1990 fu stabilito l'obbligo di ricercare gli anticorpi anti HCV sulle unità di sangue utilizzate per le trasfusioni.
La Corte d'appello, nella sentenza più volte citata, ha individuato nell'anno 1988 (in cui fu imposto dal Ministero il c.d. termotrattamento contro il rischio di trasmissione del virus da epatite C, sebbene il test sia stato messo a punto l'anno successivo) il limite temporale prima del quale non vi sarebbe diritto al risarcimento dei danni.
Questa affermazione non è condivisibile. Premesso che, dovendosi qui giudicare della responsabilità del Ministero per omessa vigilanza sulla concreta attuazione dei metodi conosciuti di inattivazione virale, non è sufficiente, per escluderla, far semplice richiamo (come anche la Corte non ha mancato di sottolineare: v. sent., p. 43) all'attività per così dire normativa posta in essere (con circolari, decreti ecc.) dallo stesso Ministero al fine di diffondere informazioni e prescrizioni sulle metodiche di inattivazione (vedi, in questo caso, il parere con cui il Consiglio superiore di sanità, in data in data 17.3.1988, raccomandava il trattamento al calore umido rispetto a quello al calore secco), il punto è che l'amministrazione ha omesso di vigilare sull'effettiva attuazione di qualsiasi tipo di termotrattamento, sicché, pur ammettendo che il metodo del calore umido fosse più sicuro rispetto a quello del calore secco, non v'è prova che quest'ultimo sia stato effettivamente praticato a partire quanto meno dal 1985 (vedi i riferimenti al paragrafo 10 b e la stessa circolare n. 28/1985 del Ministero). Si è detto, inoltre, che già nel 1985 era conosciuto il c.d. metodo virucida consistente nell'uso di solventi-detergenti (v. Horowitz B., op. cit.; Federazione medica XLIV, cit.) che, distruggendo il virus, è ritenuto il metodo più sicuro. Ma, soprattutto, è necessario chiarire che tutti i metodi in questione sono idonei ad inattivare non solo il virus dell'HIV ma anche gli altri virus dell'epatite C (HCV) e B, sicché irrilevante è che nel 1985 il virus HCV non fosse stato identificato, dovendo infatti a partire già da quell'anno essere messi in pratica i metodi di inattivazione che erano conosciuti seppur per contrastare i virus allora noti dell'epatite B e dell'HIV.
Ma, a prescindere dai metodi di inattivazione virale (che, è opportuno ricordare, erano idonei a combattere le infezioni trasmesse da emoderivati e non dal sangue intero: v. par. 10 b), sarebbe stato sufficiente non utilizzare sangue o derivati provenienti da soggetti con valore di Alt elevati ovvero positivi al test dell'anti-Hbc per ridurre in modo significativo il rischio dell'epatite C (v., in comparsa conclusionale attorea, p. 43, i riferimenti agli studi che dimostravano la rilevante riduzione del rischio dell'epatite "non A non B" in caso di esclusione dalla donazione di questi soggetti).
La responsabilità del Ministero può quindi essere affermata anche nei confronti delle persone infettate da epatite C, non solo sicuramente dopo il 1985 (v. elenco nel par. 9), ma anche prima (si tratta di XXX) per motivazioni analoghe a quelle già svolte nei casi delle altre infezioni contratte in epoche precedenti alle date in cui furono messi a punto i metodi di identificazione dei virus. La coincidenza epidemiologica dei tre virus in questione (che è particolarmente alta tra HCV ed epatite B), la gravità delle omissioni e dei ritardi del Ministero nella prevenzione delle infezioni conosciute nei diversi tempi, l'utilità che i mezzi di contrasto conosciuti con riferimento ai virus già conosciuti avrebbero avuto nella prevenzione dei virus identificati solo successivamente ed il principio civilistico dell'estensione della responsabilità aquiliana ai danni non prevedibili, sono tutti elementi che concorrono a giustificare la responsabilità del Ministero della sanità.
11) I danni risarcibili.
La domanda, pertanto, dev'essere accolta ed il Ministero della sanità condannato al risarcimento dei danni biologici, alla vita di relazione, patrimoniali e, vista la rilevanza penalistica dei fatti (v. par. 3), anche morali subiti da attori ed intervenuti a causa della descritta condotta illecita posta in essere dal convenuto, da liquidarsi in separato giudizio. Nel quale dovrà essere decisa anche la questione, che sfugge all'ambito naturale del presente giudizio avente ad oggetto una domanda di condanna generica al risarcimento dei danni, relativa alla cumulabilità (riassuntivamente affermata dagli attori nella formula "oltre ed in aggiunta a quanto eventualmente percepito ai sensi delle leggi nn. 210 del 1992 e 238 del 1997") o meno delle somme che potranno essere liquidate a titolo risarcitorio con quelle già percepite o percepibili, ai sensi delle leggi nn. 210 del 1992 e 238 del 1997.
12) La provvisionale.
Non può essere accolta la generica richiesta di provvisionale (in lire 400 o 600 milioni pro-capite), in mancanza di qualsiasi riferimento ed accertamento alla concreta entità dei risarcimenti che potranno singolarmente essere riconosciuti, al di là dei solo orientativi parametri rappresentati dall'indennizzo, comunque verosimilmente goduto da molti, ai sensi delle citate leggi sopra citate.
13) Le spese processuali.
Sussistono giusti motivi di parziale compensazione delle spese processuali, in considerazione della novità, rilevante complessità ed incertezza della lite.

p.q.m.

il tribunale, definitivamente pronunciando, così decide:
· dichiara ammissibili gli interventi azionati nel corso del giudizio;
· accoglie le domande principali proposte da attori ed intervenuti e condanna il Ministero della sanità a risarcire ad essi i danni biologici, patrimoniali e morali, da liquidarsi in separato giudizio;
· rigetta la domanda di provvisionale;
· liquida le spese processuali in …..

Roma, 4 giugno 2001.

Il Giudice

 

 

 

 

 

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