Il "libro bianco" del ministro Maroni: verso lo smantellamento delle tutele del lavoro*

di Giovanni Cannella

Non intendo svolgere con la presente relazione un commento complessivo al "Libro bianco", ma esaminerò negli aspetti generali il progetto di riforma del sistema regolatorio dei rapporti di lavoro.

Articolerò la mia relazione in tre parti: nella prima esaminerò come il "Libro bianco" ipotizza la nuova organizzazione delle fonti del diritto, nella seconda la compatibilità comunitaria e costituzionale del progetto, nella terza mi occuperò della funzione affidata nello studio al giudice e alla giustizia del lavoro.

1) Riorganizzazione delle fonti del diritto del lavoro

Con riguardo alle fonti del diritto, il "Libro Bianco" prende le mosse dall'Europa, affermando che non è possibile "mantenere inalterato un assetto regolatorio dei rapporti e dei mercati del lavoro che, sotto più profili, non appare in linea con le indicazioni comunitarie e le migliori prassi derivanti dall'esperienza comparata".

Passa poi ad esaminare la riforma costituzionale dell'art. 117 Cost., che assegna alle Regioni potestà legislativa concorrente in materia di "tutela e sicurezza del lavoro", "professioni", nonché "previdenza complementare e integrativa", sostenendo che ciò comporta la competenza legislativa delle Regioni con riguardo non solo al mercato del lavoro, ma anche alla "regolazione dei rapporti di lavoro e quindi all'"intero ordinamento del lavoro", salvo che per la "determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato".

Tali principi fondamentali di competenza dello Stato dovrebbero essere inseriti, secondo il progetto, in "una normativa-cornice, che assicuri un sufficiente grado di tutela minima". Non si tratterebbe però di un'autonoma originale disciplina statale, ma essenzialmente della trasposizione della disciplina comunitaria, ravvisata essenzialmente nei diritti fondamentali espressi nella "Carta" di Nizza.

Si tratterebbe, peraltro, non di una legislazione nazionale pienamente compiuta, ma solo di "una legislazione di principi", lasciando "al legislatore regionale di dispiegare pienamente l'esercizio della potestà legislativa concorrente mediante interventi di specificazione dei principi definiti nazionalmente".

In tema di trasposizione di direttive comunitarie è interessante l'interpretazione data alla "clausola di non regressione", intesa come non regressione "del livello generale di protezione dei lavoratori" e non con riferimento al singolo istituto, che potrebbe quindi essere modificato anche in senso peggiorativo rispetto alle direttive comunitarie dalla successiva normativa nazionale.

Secondo il progetto, peraltro, "il legislatore (nazionale o regionale) dovrebbe intervenire solo dove le parti non abbiano sufficientemente svolto un ruolo regolatorio", applicando quindi anche al rapporto tra intervento pubblico e parti sociali il principio di sussidiarietà. Il principio dovrebbe applicarsi evidentemente anche ai diritti fondamentali, gli unici di competenza del legislatore nazionale.

Ma il progetto si spinge oltre, ipotizzando la derogabilità da parte del contratto individuale, "quantomeno con riferimento a singoli istituti" o laddove "esistano condizioni di sostanziale parità contrattuale tra le parti ovvero anche in caso di specifici rinvii da parte della fonte collettiva", della legge o del contratto collettivo anche in senso peggiorativo, pur con l'assistenza di istituzioni pubbliche o delle parti sociali.

Sotto il profilo della tecnica legislativa, il "Libro bianco" critica l'attuale ordinamento basato su "precetti eccessivamente rigidi, sovente inattuabili, tali da favorire l'evasione e gli aggiramenti, fomentando comunque il contenzioso" e propugna, l'adozione di soft laws ("norme leggere"), di tradizione anglosassone, "che mirano ad orientare l'attività dei soggetti destinatari, senza peraltro costringerli ad uno specifico comportamento, vincolandoli tuttavia al conseguimento di un determinato obiettivo" e si propone subito un intervento in questo senso nel settore della salute e sicurezza.

Si critica poi, giustamente, la complessità e stratificazione degli interventi normativi nella materia del lavoro, propugnando la riorganizzazione e l'ordine in testi unici, affiancandolo all'equivoco concetto di "semplificazione", che è positivo se inteso come ordine e chiarezza e non come riduzione delle norme di tutela, per rendere la vita più "semplice" ai datori di lavoro.

Si propone, inoltre, la riforma dell'impianto complessivo dell'ordinamento del lavoro, prevedendo uno "Statuto dei lavori", che consentirebbe, lodevolmente, di prevedere un nucleo essenziale di norme e di principi inderogabili comuni a tutti i rapporti di esecuzione di attività lavorativa in qualunque forma prestata.

Le ulteriori tutele dovrebbero, invece, essere graduate e diversificate in base alle materia e non ai tipi contrattuali, lasciando ampio spazio all'autonomia collettiva e individuale: si parla al riguardo nel progetto di "diritti inderogabili relativi, disponibili a livello collettivo o anche individuale (a secondo del tipo di diritto in questione)".

Quali dovrebbero essere i diritti inderogabili comuni? Il progetto li elenca: tutela delle condizioni di salute e sicurezza, tutela della dignità e libertà del prestatore di lavoro, abolizione del lavoro minorile, eliminazione di ogni forma di discriminazione nell'accesso al lavoro, diritto ad un compenso equo, diritto alla protezione dei dati sensibili, diritto di libertà sindacale.

Senza entrare nel merito della sufficienza di tali diritti con riguardo al lavoro autonomo (anche in rapporto alle proposte di legge in materia presentate in passato), va qui osservato che per il lavoro subordinato il recinto delle norme inderogabili viene ulteriormente ristretto rispetto all'ambito che sembrava emergere dalle affermazioni precedenti, e cioè che andavano considerati inderogabili i principi fondamentali riconoscibili almeno nelle disposizioni della "Carta" europea, perché è evidente che i diritti sopra elencati sono solo alcuni dei diritti riconosciuti nella "Carta" e non sono neppure tutti i diritti costituzionalmente garantiti al lavoratore subordinato (la questione sarà esaminata in seguito nel dettaglio).

Va segnalata, infine, la proposta di una procedura assistita di certificazione, cioè di "validazione anticipata delle volontà delle parti interessate all'utilizzazione di una certa tipologia contrattuale", utile a "prevenire controversie giudiziali".

Riassumendo, il "Libro bianco" ipotizza un sistema delle fonti del lavoro subordinato così articolato:

- il legislatore nazionale dovrà limitarsi ad emettere norme relative ai principi fondamentali, coincidenti essenzialmente con i principi contenuti nella "Carta" di Nizza, con la tecnica delle soft-laws, che vincola ad obiettivi e non a comportamenti, peraltro solo se non sono già intervenute le parti sociali nel rispetto del principio di sussidiarietà;

- il legislatore regionale potrà intervenire "specificando" i principi definiti nazionalmente e avrà competenza esclusiva in tutta la disciplina del lavoro nel rispetto di quei principi;

- tutte le norme nazionali e regionali saranno derogabili, ad eccezione del ristretto numero di principi di tutela comuni a tutti i lavoratori, anche autonomi;

- anche il contratto individuale potrebbe derogare tutte le norme, nazionali, regionali e di contratto collettivo, salvo l'eccezione suddetta, e le parti individuali potranno anche certificare la natura del rapporto che intendono concludere.

Si tratta in sostanza del completo smantellamento del sistema di tutele predisposte a favore del lavoratore, con un complessivo disegno non innovativo ma restauratore del pieno liberismo ottocentesco, poiché verrebbero abolite o rese derogabili, dal legislatore regionale, dalla contrattazione decentrata o, addirittura, dal contratto individuale, gran parte delle norme in materia.

Non solo quasi tutto lo Statuto dei lavoratori, di cui si salverebbero soltanto le norme in tema di discriminazione e sulla generale libertà sindacale, mentre verrebbero travolte tutte le altre norme, tra cui l'art. 18, l'art. 13 in tema di qualifica e dequalificazione, tutto il titolo III relativo agli specifici diritti sindacali, ecc.; non solo tutta la normativa sui licenziamenti e tutte le leggi di tutela successive alle Costituzione, ma, addirittura, anche le leggi fasciste in tema, ad esempio, di limitazione dell'orario di lavoro.

Anzi, a voler prendere alla lettera le affermazioni contenute nel progetto, la riforma travolgerebbe, o almeno renderebbe derogabili, come si dirà, anche norme costituzionali e principi contenuti nella "Carta" di Nizza.

In questi giorni è già stato presentato un disegno di legge delega, che anticipa alcune delle proposte del libro bianco (quelle meno traumatiche e suscettibili probabilmente di dividere l'opposizione).

Senza la pretesa di svolgere un'analisi del disegno di legge, che richiede un esame approfondito, mi limito a segnalare alcuni degli interventi che confermano il quadro complessivo sopra descritto.

Oltre all'intervento di cui si è più parlato sui giornali relativo alla sospensione della vigenza dell'art. 18, è stata inserita la disciplina della "certificazione" del rapporto, il ridimensionamento del divieto di appalto di manodopera, la redazione entro 24 mesi di testi unici sul mercato del lavoro, il ricorso all'arbitrato secondo equità.

2) Compatibilità comunitarie e costituzionali del progetto

In ordine alla disciplina comunitaria, al di là dell'enfasi attribuita al contesto europeo, lo stesso progetto riconosce che non è negli obiettivi dell'ordinamento comunitario "un'uniformità regolatoria su scala trasnazionale" e quindi le proposte in cantiere in nessun modo costituiscono adempimento di un obbligo di adeguamento della disciplina nazionale a quella comunitaria.

Al contrario le proposte costituiscono un sostanziale svuotamento dei principi comunitari in materia, giustamente riassunti dallo stesso "Libro bianco" nella Carta dei diritti, propugnando addirittura la derogabilità di una parte dei principi ivi contenuti, anche ad opera del contratto individuale, in quanto tutela ulteriore rispetto allo "zoccolo duro e inderogabile" da garantire a tutti i "lavori" (si pensi ad esempio alla tutela in caso di licenziamento ingiustificato, al diritto alla limitazione della durata massima giornaliera, al periodo di riposo giornalierio e settimanale e a ferie annuali retribuite, alla tutela della maternità e della malattia, ecc.).

Ciò potrebbe comportare denuncie dell'Italia in sede comunitaria o anche la disapplicazione da parte dei giudici nazionali di norme contrastanti con i diritti fondamentali della "Carta" (nonostante il mancato inserimento nei trattati, i principi ivi contenuti sono considerati ormai principi "vigenti", come lo stesso "Libro bianco" riconosce implicitamente).

Con riguardo alla Costituzione, appare indicativa l'assenza di qualsiasi interrogativo in ordine al rapporto del progetto con i principi costituzionali, quasi che si volessero ritenere "assorbiti" tali principi dalla costruzione europea o che la recente riforma federalista, con l'assegnazione della potestà legislativa alle Regioni avesse "declassificato" le norme costituzionali in materia.

Sotto il primo profilo è sufficiente richiamare l'art. 53 della Carta che esclude che le disposizioni ivi contenute possano essere interpretate come limitative dei diritti e libertà riconosciuti, tra l'altro, dalle costituzioni degli stati membri.

Sotto il secondo profilo in nessun modo è sostenibile che la riforma federale possa aver comportato un'implicità abrogazione di norme costituzionali o che le stesse possano essere derogate in sede regionale.

Le norme costituzionali rimarrebbero quindi pienamente in vigore e sarebbero incostituzionali le norme che prevedessero la derogabilità, addirittura da parte del contratto individuale, dei principi espressi dalla Carta costituzionale.

Sarebbero incostituzionali quindi norme che prevedessero, ad esempio, la derogabilità del diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, alla protezione della maternità, al diritto di sciopero. Inoltre, in rapporto all'art. 36 Cost., sarebbe di difficile compatibilità costituzionale una disposizione che consentisse "differenziazioni regionali" dei minimi retributivi, che "colgano la diversità dei mercati del lavoro locali" (come si esprime il progetto in esame), a parità di quantità e qualità del lavoro.

Quanto al progetto di "certificazione" della natura del rapporto, è sufficiente ricordare che la Corte costituzionale (sentenze nn. 121/93 e 115/94) esclude che lo stesso legislatore possa "negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alla garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato".

Ma in generale il progetto è conforme ai principi fondamentali indicati dalla Costituzione in tema di lavoro?

Poiché molti sembrano averlo dimenticato, va ricordato che l'art. 3 della Costituzione non si limita ad enunciare il principio di eguaglianza, ma attribuisce alla Repubblica il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese".

Quindi il legislatore ordinario deve sostenere e difendere i cittadini "meno uguali" e cioè più deboli per renderli "più uguali" e quindi alla fine "più liberi".

Tra i cittadini "più deboli" la Costituzione pone in prima fila i lavoratori, tanto che il lavoro è contenuto nei primi quattro articoli dei principi fondamentali della Costituzione, esplicitamente (art. 1: "L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro", l’art. 3 già citato, l’art. 4: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto") o implicitamente nell’art. 2: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale", che va raccordato con l’art. 41. Infine un intero titolo, il III (artt. 35-47), è dedicato ai rapporti economici ispirati essenzialmente alla tutela dei lavoratori.

Come è stato giustamente ricordato, la Corte costituzionale ha indicato alcuni paletti invalicabili da parte della nuova normativa lavoristica. Le leggi di tutela dei lavoratori, cioè, "possono essere modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale (art. 35 Cost.) della cui attuazione costituiscono strumento" (Corte cost. n. 49/2000); la successiva legge, nel rimodulare in senso peggiorativo le tutele afferenti ad un determinato istituto del diritto del lavoro, deve salvaguardare il nucleo essenziale del medesimo, nei contenuti definiti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (Corte cost. n. 42/2000); la successiva legge deve inoltre specificare le ragioni che determinano la rimoludazione peggiorativa, al fine di consentire il vaglio di costituzionalità in ordine al rispetto del principio di ragionevolezza, sia con riguardo alla coerenza interna del provvedimento, sia con riferimento alla ponderazione dei beni costituzionali messi a confronto e dunque al rispetto del canone di proporzionalità e congruità dei sacrifici (commento al Libro bianco sul mercato del lavoro dell'Ufficio giuridico CGIL, www.cgil.it).

Pertanto l'intera operazione di smantellamento non potrebbe in alcun modo essere considerata compatibile con il dettato costituzionale e non sarebbe quindi possibile, a meno che non si intenda "smantellare" anche la Costituzione.

Quanto al nuovo testo dell'art. 117 Cost., si è detto che, secondo gli estensori del Libro bianco, la norma andrebbe interpretata nel senso dell'attribuzione alle Regioni della competenza legislativa con riguardo non solo al mercato del lavoro, ma anche alla "regolazione dei rapporti di lavoro e quindi all'"intero ordinamento del lavoro", salvo che per la "determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato".

La tesi non è condivisibile sul piano letterale, perché nessuna delle tre "materie" indicate nella norma, e cioè "tutela e sicurezza del lavoro", "professioni" e "previdenza complementare e integrativa", appare così ampia da ricomprendere l'"intero ordinamento del lavoro": la prima si riferisce, infatti, esclusivamente alle condizioni di lavoro e non alla generale disciplina e "tutela" del rapporto, la seconda all'organizzazione amministrativa delle "professioni" (qualificazione, accesso, albi, ecc.), la terza riguarda la previdenza.

Inoltre, come è stato giustamente osservato (Ufficio giuridico della Cgil), lo stesso art. 117 riformato prevede una competenza esclusiva dello Stato per l'"ordinamento civile e penale", e non vi è dubbio che nel concetto di "ordinamento civile" rientra la disciplina generale del rapporto di lavoro, in quanto rapporto civilistico tra privati, e ciò anche con riguardo alle manifestazioni dell'autonomia collettiva, che ha natura privatistica.

Deve escludersi, pertanto, che le regioni possano legiferare ad esempio in tema di licenziamenti, come è stato adombrato.

 

3) Giudici e giustizia del lavoro

Concludo con un breve accenno al rilievo attribuito nel Libro bianco alla giustizia del lavoro.

Il rilievo è del tutto marginale, non solo perché se ne parla in una paginetta in un lavoro di quasi cento pagine, ma per la previsione di una netta riduzione dell'intervento del giudice.

Ciò deriva, in primo luogo indirettamente dallo smantellamento delle tutele di cui si è detto e dell'ampliamento a dismisura della derogabilità delle norme in materia, che riduce, è ovvio, drasticamente il sindacato giurisdizionale.

La marginalizzazione è, poi, anche esplicita nei rilievi formulati. Si "cestina", infatti, il lavoro svolto dalla Commissione ministeriale per lo studio e la revisione del processo del lavoro, il che ha prodotto la giusta reazione del suo Presidente dr. Foglia (con una nota all'Associazione nazionale magistrati), e ci si limita a proporre, come unica soluzione ai problemi della giustizia del lavoro, il ricorso ai collegi arbitrali, per di più con giudizi di equità senza il limite delle leggi e dei contratti collettivi, e quindi una soluzione extra-giudiziaria.

Il messaggio è chiaro: l'intervento dei giudici del lavoro deve essere ridotto al minimo, anche perché la crisi della giustizia del lavoro è tale "sia per i tempi con cui vengono celebrati i processi, sia per la qualità professionale con cui sono rese le pronuncie".

In sostanza, poiché i tempi della giustizia sono lunghi e la qualità professionale dei magistrati scadente, meglio ridurre al minimo il loro intervento, riducendo le norme da applicare, rendendole quasi tutte derogabili anche dal contratto individuale, ricorrendo agli arbitri in caso di controversia.

Si tratta, con ogni evidenza, di un progetto di riduzione del controllo di legalità per consentire agli imprenditori l'esercizio della loro attività senza vincoli e limitazioni.

Se poi si allarga l'orizzonte si comprende meglio come il Libro bianco si inserisca a pieno titolo in un progetto complessivo di riduzione del controllo di legalità, che si manifesta nel settore penale con la riforma del falso in bilancio e delle rogatorie, nel settore civile con il progetto di "privatizzazione", nell'ipotizzata sottrazione al giudice del controllo sulle adozioni internazionali, nello spostamento al giudice amministrativo o all'Authorities di una serie di importanti attribuzioni, nell'indifferenza o forse volontà di ostacolare il funzionamento della giurisdizione, come è evidente ad esempio dalla riduzione degli stanziamenti sulla giustizia in Finanziaria o dal blocco delle assunzioni, che potrebbe riferirsi anche a questo settore.

Roma, 21.11.2001

*E' il testo della relazione svolta dall'autore al seminario del Forum dei diritti del 21.11.2001 a Roma

 

 

 

 

 

 

 

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