Il futuro dei migranti
di Giovanni Palombarini
Dove sta andando l'Europa? E' una domanda che
viene spontanea a fronte non solo del timore dell'invasione di cui sembrano
essere preda - lo testimoniano i ricorrenti sondaggi sulle paure della popolazione
- strati sociali non minoritari, ma anche delle scelte che nell'Unione alcuni
paesi hanno operato o intendono operare per regolare il fenomeno immigrazione.
Già le varie leggi nazionali del decennio scorso si ispiravano più
o meno esplicitamente alla filosofia dell' "Europa fortezza"; ma
oggi, all'inizio del nuovo secolo, la prospettiva sembra essere quella di
un irrigidimento ulteriore, del tutto indifferente ai diritti delle persone.
E però, a ben guardare, al fondo della situazione non mancano le contraddizioni,
che forse consentono utili spazi di intervento in favore dei migranti.
Proviamo a vedere, su un versante e sull'altro.
La legge entrata in vigore in Spagna il 23 gennaio
scorso (n.8/2000) è paradigmatica delle scelte fin qui operate dai
governi di destra; e poiché potrebbe costituire un esempio per il nostro
e per altri paesi, conviene prenderla sia pure brevemente in considerazione.
Due sono i punti che la caratterizzano. Da un lato si negano ai lavoratori
immigrati - che nella stragrande maggioranza sono entrati clandestinamente
in Spagna o vi si sono irregolarmente trattenuti dopo la scadenza di un iniziale
permesso di soggiorno - i diritti fondamentali di riunione, manifestazione
del pensiero, associazione e alla tutela sanitaria. Dall'altro, soppressa
ogni precedente forma di regolarizzazione permanente, si prevede per queste
persone l'espulsione nel giro di 48 ore con provvedimento di polizia, sottratto
a ogni controllo giurisdizionale. Al fondo, come si vede, vi è la dura
concezione che i migranti siano, in sostanza, non personas, per cui non vi
è nemmeno il bisogno di perdere del tempo (e del denaro) prevedendo
reati, processi penali o altre procedure giudiziarie.
All'inizio dell'anno, nell'imminenza dell'entrata in vigore della legge, l'anziano
parroco della chiesa di Santa Maria del Pi di Barcellona, padre Josep Vidal,
ha aperto le porte della sua chiesa a quattrocento san papeles, gran parte
dei quali hanno iniziato lo sciopero della fame per ottenere la regolarizzazione.
Ciò ha determinato il sorgere e il diffondersi di un vasto fronte di
solidarietà, non solo nella città catalana, ma la legge rimane
in vigore: va detto del resto che accanto alle proteste, vi è stato
anche un diffuso consenso delle maggioranze silenziose. Comunque, per far
fronte alle critiche e alle proteste che da più parti si sono levate
si è fatto ricorso alla più ovvia delle risposte: la legge vale
solo per clandestini e irregolari. Risposta tanto facile quanto ipocrita.
Perché in Spagna, come in Italia o in Francia o in altri paesi del
nord del mondo, si arriva non per andare a svolgere un'attività già
prevista e garantita, attraverso facili procedure di ingresso, ma per trovare
attraverso una personale, difficile ricerca un qualche lavoro.
Il bello è che proprio i giuristi spagnoli - certo, per giustificare
formalmente l'invasione delle Americhe - teorizzarono cinquecento anni fa
una prima forma di diritto internazionale che contemplava per ogni persona
lo jus migrandi, la possibilità di soggiornare e di scegliere la propria
residenza dovunque.
Nel solco tracciato da quelle teorizzazioni la rivoluzione francese, questa
volta non per ragioni di conquista ma di liberazione umana, statuì
nella costituzione del 1793 che la cittadinanza spettava a ogni straniero
che, avendo il proprio domicilio in Francia da più di un anno, vivesse
del proprio lavoro, o avesse sposato una cittadina francese o avesse adottato
un bambino o si prendesse in carico un anziano.
Quanto è lontana da tutto questo, dopo duecento anni, la vecchia Europa?
La situazione italiana non è più brillante
di quella spagnola. La legislatura del centro-sinistra, che pure aveva inizialmente
autorizzato non poche speranze, s'è chiusa in modo deludente; e così,
in attesa di tempi che secondo le previsioni di molti di certo non saranno
migliori, sembrano essersi chiuse le speranze di un qualche progresso nel
panorama della complessiva normativa che regola l'immigrazione.
Eppure da tutte le parti si era sostenuta l'urgenza della legge in tema di
asilo, che però non è arrivata, così come non è
stato varato il tante volte promesso diritto di voto amministrativo per i
residenti regolari.
Eppure la ragione, e l'esperienza della legge Turco-Napolitano (la n.40/98),
avrebbero imposto nell'ultima fase della legislatura alcune correzioni. Una,
in particolare: l'adozione di un meccanismo di regolarizzazione permanente
per coloro che, comunque entrati in territorio italiano (anche dopo il marzo
1998), abbiano qui trovato un lavoro. La ragione: chi lavora ed è così
in grado di mantenersi è già, nei fatti, un residente regolare,
e non si vede il motivo per il quale debba andarsene. L'esperienza: solo raramente
è successo che uno straniero sia entrato in Italia per andare a coprire
un posto di lavoro già individuato; la stragrande maggioranza dei cittadini
extracomunitari sono entrati o si sono trattenuti irregolarmente per cercare
un lavoro, tant'è che oggi i "regolari" sono circa 1.350.000
solo per effetto delle varie sanatorie.
E' possibile individuare dati contraddittori rispetto
a questa situazione? Forse si, anche se su un piano strettamente economico.
Qui, in qualche misura, è forse possibile individuare qualche crepa
nella filosofia che, indipendentemente dalla natura delle forze politiche
al governo nei vari paesi europei, ha regnato incontrastata durante lo scorso
decennio. Non si tratta, è amaro dirlo, di spinte sociali o culturali
al riconoscimento di diritti fondamentali o di un'idea avanzata di società
civile, ma solo di un mutato atteggiamento innanzitutto degli esponenti delle
forze economiche del vecchio continente, come sempre attenti alle esigenze
produttive.
Prima, nella primavera del 2000, alcune voci a livello di istituzioni economiche
dell'Unione, poi in rapida successione esponenti delle varie economie e dei
governi nazionali - compresi Tony Blair e il ragioniere generale dello stato
italiano - hanno segnalato che le esigenze legate allo sviluppo dell'economia
dei paesi della Comunità richiedono un maggiore numero di ingressi
di extracomunitari: in parole povere si va prospettando un bisogno di braccia,
di forza lavoro fresca e senza troppe pretese. Si dice: la popolazione del
vecchio continente invecchia, le nascite sono poche, i lavori pesanti o pericolosi
non sono più ambiti dagli europei, i lavoratori garantiti non accettano
volentieri la flessibilità richiesta dal mercato. D'altro lato incombe,
in particolare in Italia, un particolare aspetto del tema dell'invecchiamento:
se le cose dovessero procedere così, fra pochi anni, non si saprebbe
come pagare le pensioni (a meno di non innalzare progressivamente l'età
pensionabile).
Insomma, la politica del rifiuto e della chiusura, pure così utile
per trovare facili consensi nei momenti elettorali, non conviene più
ed è quindi necessario correggerla. In Italia lo chiedono oggi con
intensità crescente banchieri pubblici e privati, i grandi industriali
e quelli piccoli del nord-est, gli allevatori di bestiame e gli albergatori,
e ovviamente i media che da sempre interpretano le esigenze del libero mercato
e del profitto: si dice (come in Inghilterra) che servono centomila immigrati
in un anno.
Certo non sarà facile fare i conti con orientamenti, risentimenti e
paure indotti nell'opinione pubblica da anni di distorte informazioni televisive
o con il timore di alcuni settori della chiesa cattolica di una cresciuta
presenza di altre religioni; e le ragioni del consenso elettorale continuano
a condizionare tutti, non solo i tradizionali imprenditori politici del razzismo.
E però è innegabile che una contraddizione, cioè una
prospettiva favorevole per i migranti che mirano a entrare in Europa si sta
aprendo.
La strada per sostituire la filosofia dell'accoglienza
a quella del rifiuto non sarà certo facile. Ma intanto, a fronte delle
ragioni della disponibilità ad aumentare il numero degli ingressi,
occorre lavorare perché questa disponibilità si concretizzi
(è quello che interessa ai migranti); e poi chiedere già da
ora che poiché quelli che arriveranno - come quelli già arrivati
- non sono merci ma persone, come tali vengano trattati, con il pieno riconoscimento
dei loro diritti di lavoratori.
Di recente alcune associazioni - fra le quali l'Arci, la Fondazione Migrantes
e la Federazione delle chiese evangeliche - hanno proposto che venga prevista
per legge la conversione dei permessi di soggiorno di breve durata (turismo,
visita a familiari, affari, ecc. - in permessi di soggiorno per lavoro. Sarebbe
un primo passo sulla difficile strada da percorrere.
Dal rifiuto all'accoglienza: dovrebbe essere questo uno spazio d'intervento
organico, continuativo per Medel, la ragione prima della presenza di Md in
questo organismo.
Roma, 25.5.2001
Omissisa
cura di magistratura democratica romana
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